XVII Legislatura

III Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 10 di Mercoledì 27 gennaio 2016

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE PRIORITÀ STRATEGICHE REGIONALI E DI SICUREZZA DELLA POLITICA ESTERA DELL'ITALIA, ANCHE IN VISTA DELLA NUOVA STRATEGIA DI SICUREZZA DELL'UNIONE EUROPEA

Audizione di giornalisti ed esperti, con particolare riferimento al quadro politico-istituzionale ed al ruolo geostrategico della Turchia.
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 3 
Scotti Valentina Rita , ricercatrice presso l'Università LUISS di Roma e ... 4 
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 7 
Cremonesi Lorenzo , scrittore e giornalista del ... 7 
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 10 
Negri Alberto , scrittore e giornalista de ... 10 
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 14 
Negri Alberto , scrittore e giornalista de ... 14 
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 14 
Ottaviani Marta , scrittrice e giornalista de ... 14 
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 14 
Ottaviani Marta , scrittrice e giornalista de ... 14 
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 17 
Panella Carlo , scrittore e giornalista di ... 17 
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 21 
Schirò Gea (PD)  ... 21 
Palazzotto Erasmo (SI-SEL)  ... 22 
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 23 
Ottaviani Marta , scrittrice e giornalista de ... 23 
Panella Carlo , scrittore e giornalista di ... 23 
Scotti Valentina Rita , ricercatrice presso l'Università LUISS di Roma e ... 23 
Cremonesi Lorenzo , scrittore e giornalista del ... 23 
Negri Alberto , scrittore e giornalista de ... 24 
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 24

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: (FI-PdL);
Area Popolare (NCD-UDC): (AP);
Sinistra Italiana-Sinistra Ecologia Libertà: SI-SEL;
Scelta Civica per l'Italia: (SCpI);
Lega Nord e Autonomie - Lega dei Popoli - Noi con Salvini: (LNA);
Democrazia Solidale-Centro Democratico: (DeS-CD);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-Alleanza Liberalpopolare Autonomie ALA-MAIE-Movimento Associativo italiani all'Estero: Misto-ALA-MAIE;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI;
Misto-Alternativa Libera-Possibile: Misto-AL-P;
Misto-Conservatori e Riformisti: Misto-CR;
Misto-USEI (Unione Sudamericana Emigrati Italiani): Misto-USEI.

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE FABRIZIO CICCHITTO

  La seduta comincia alle 14.10.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che se non vi sono obiezioni la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata, anche tramite l'attivazione degli impianti audiovisivi a circuito chiuso.
  (Così rimane stabilito).

Audizione di giornalisti ed esperti, con particolare riferimento al quadro politico-istituzionale ed al ruolo geostrategico della Turchia.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle priorità strategiche regionali e di sicurezza della politica estera dell'Italia, anche in vista della nuova strategia di sicurezza dell'Unione europea, l'audizione di giornalisti ed esperti, con particolare riferimento al quadro politico-istituzionale ed al ruolo geostrategico della Turchia.
  L'audizione trae origine, per un verso, dal fatto che la Turchia è un problema di fondo, per altro verso da un'occasionalità più contingente, derivante da un incontro che avremo domani con il ministro turco per gli affari europei, Volkan Bozkir, cui seguirà una nostra missione in questo Paese.
  Prima di dare la parola ai nostri ospiti, voglio, molto brevemente, fare qualche riflessione. Chi parla è tra coloro che, anni fa, erano fortemente favorevoli all'ingresso della Turchia nell'Unione europea. Peraltro, reputo che tra i tanti errori che l'Unione europea ha accumulato nel corso di questi anni questo sia stato uno dei più significativi: considerato che non c’è mai nulla di stabile, di rigido e di fisso, specialmente in un mondo che ha accelerato la sua velocità, non si è colto l'attimo fuggente di un punto di equilibrio positivo attraversato da una realtà così complessa e contraddittoria qual è la Turchia. Dico complessa e contraddittoria dal punto di vista innanzitutto culturale e religioso, ma per certi aspetti anche antropologico. Basta girare in quel Paese per vedere persone che sono totalmente europee, da tutti i punti di vista, e persone che invece appartengono profondamente al mondo islamico. Ebbene, secondo me, non aver colto quell'attimo fuggente – che però è durato più di un attimo – è stato uno dei tanti errori dell'Unione europea e, aggiungo, di quella parte dell'Unione europea che riguarda geograficamente il centro e il nord, che si è messa abbastanza di traverso, con una contraddittorietà molto profonda da parte, per esempio, di un Paese come la Germania, che pure, per quello che riguarda una minoranza turca, l'ha assimilata al suo interno nel corso di questi anni, ed è una delle componenti più significative della sua immigrazione.
  Detto questo, però, siccome le questioni non rimangono mai ferme e rigide, io credo che, pur creando dei problemi a chi ci segue sempre con grande attenzione, ossia i funzionari del Ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, domani esprimeremo con sincerità alcuni di questi problemi ai nostri ospiti. Intendo dire che per un verso la Turchia, insieme ad altre realtà, è decisiva nell'equilibrio mediorientale e anche nella lotta all'ISIS – o Daesh, come vogliamo Pag. 4chiamarlo – ma per altro aspetto rappresenta uno dei punti di maggiore contraddizione rispetto a tutto questo. In sostanza, nella contrapposizione totale che l'ha caratterizzata rispetto ad Assad, la Turchia, per una fase non ha escluso alcuno strumento per determinare il collasso di quel regime, compreso – nel migliore dei casi – lo strumento della «porosità» delle sue frontiere rispetto a tutto l'estremismo che si riversava in quella realtà. Questo rappresenta un punto di contraddizione molto rilevante, come anche quello che si può rilevare, assai spesso, nella contrapposizione a una parte – tengo a sottolinearlo in modo particolare, una parte, perché con un'altra parte, invece, la Turchia in qualche modo si intende – del mondo curdo, laddove talora la Turchia dà l'impressione che l'obiettivo principale sia appunto lo scontro con quella parte del mondo curdo, e non la lotta all'ISIS e ad altre formazioni terroristiche. Dall'altro lato, non possiamo sottacere tutti gli interrogativi e le questioni che attengono al suo regime interno. Sottolineo che tutte le testimonianze che abbiamo da giornali, televisioni, e così via, mettono in evidenza una gestione autoritaria del potere, con caratteristiche molto negative rispetto alla libertà di parola, di opinione, e via dicendo. Oggi la Turchia è un coacervo di contraddizioni e, rispetto a questo, chiediamo a voi un aiuto per approfondire un ragionamento e andare oltre la facilità di una serie di comunicazioni mediatiche che riceviamo.
  Inizierei dunque la nostra audizione, chiarendo che per gli interventi, in termini non stringenti, vi è un limite di dieci minuti, ma naturalmente se qualcuno «sfora» non gli togliamo la parola.
  Il primo intervento – via Skype – sarà quello della dottoressa Valentina Scotti, ricercatrice in diritto pubblico comparato presso il dipartimento di scienze politiche dell'Università LUISS. Attualmente si trova a Koç, località attigua a Istanbul, in qualità di visiting researcher presso il dipartimento di giurisprudenza della locale Università. La dottoressa Scotti è una costituzionalista comparatista specializzata sul modello turco. Ha dedicato anche una monografia alla condizione del popolo curdo nei tre Paesi in cui esso è presente oltre alla Turchia, cioè Iran, Iraq e Siria. Quanto alla Koç University, si tratta di una delle più prestigiose università private turche, finanziata dalla fondazione omonima.
  Nel suo intervento, la dottoressa Scotti potrà condurre un'analisi sull'attuale quadro istituzionale turco, con riferimento ai temi delle riforme, dei diritti delle minoranze, del negoziato europeo, ma potrà aggiungere quello che vuole. Grazie.

  VALENTINA RITA SCOTTI, ricercatrice presso l'Università LUISS di Roma e visiting researcher in diritto pubblico comparato presso la Koç University. Buongiorno a tutti. Grazie, presidente. Spero che l'audio sia chiaro.
  Vorrei partire proprio dallo spunto che lei citava prima, a proposito delle complessità e delle contraddizioni del regime interno. È vero che quello che mediaticamente traspare è che la Turchia sia ormai votata verso un percorso sicuramente autoritario e probabilmente anche verso un autoritarismo con una forte componente religiosa. Senza voler negare questa premessa, vorrei però ricordare che meno frequentemente giunge all'attenzione mediatica tutto il pluralismo interno di questo ordinamento. È vero che nelle elezioni del 1o novembre 2015, ad esempio, il governo dell'AKP, quindi il partito del presidente Erdoğan ha ottenuto nuovamente la fiducia della popolazione turca. Ed è vero che questo governo, in campagna elettorale, ma anche successivamente, ha adottato comportamenti che definire al limite della legalità potrebbe essere comunque eufemistico. Mi riferisco ai recenti arresti di intellettuali e giornalisti, ma anche a quella che era stata precedentemente la coartazione della libertà di espressione, con la chiusura dei social network e dei siti di video sharing.
  Vorrei però ricordare che, a fronte di questi comportamenti del governo, esistono delle istituzioni che continuano a porsi a garanzia dei diritti e che lo fanno Pag. 5anche grazie a delle nuove competenze che sono state ottenute proprio grazie all'impegno del governo nel percorso di riforme. Mi riferisco, per essere breve, alla Corte costituzionale, che ha sempre avuto un atteggiamento favorevole alla tutela dei diritti da quando ha smesso il ruolo di garante dei princìpi del kemalismo, e che, come forse ricorderete, dal 2010 ha anche una competenza a giudicare sui ricorsi individuali diretti, il che vuol dire che i cittadini possono direttamente adire la Corte qualora ritengano violati dei diritti. Questo è quello che in molti casi è accaduto, proprio con riferimento alle violazioni della libertà di espressione, e la Corte non è stata in alcun modo prona alle posizioni del governo, anzi lo ha condannato ed ha più volte ricordato come le ingerenze governative nelle attività della magistratura non siano conformi alle necessità di una società democratica, dimostrando quindi di riprendere una terminologia tipica della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, e della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, quindi di allinearsi anche a quello che tendenzialmente definiamo il trend europeo.
  Ancora, un'altra istituzione del cui lavoro poco si dice, ma che è un buon baluardo nei confronti della tutela dei diritti, è l’ombudsman, anch'esso istituito con la riforma del 2010 e anch'esso molto attivo nel condannare le attività del governo tutte le volte che queste comportano una violazione dei diritti. Mi riferisco al caso più noto, anche se ormai non è più così recente, ossia la pronuncia dopo gli eventi di Gezi Park. In quell'occasione, l’ombudsman fu severissimo nei confronti degli interventi della polizia, condannò come misura non proporzionata gli attacchi nei confronti dei manifestanti e chiese a viva voce al governo di avviare delle inchieste efficaci rispetto ai fatti che si erano verificati.
  Quindi, se è vero che ci sono delle derive autoritarie, è anche vero che, a livello istituzionale, ci sono ancora – e mi auguro permangano – delle istituzioni capaci di rappresentare un controbilanciamento.
  Vorrei aggiungere che fintanto che queste istituzioni ci sono e lavorano e fintanto che costituzionalmente sono sanciti princìpi quali l'imparzialità, la separazione dei poteri, anche questa riforma presidenzialista di cui tanto si parla non rappresenterebbe un effettivo vulnus per la democraticità dell'ordinamento turco, sempre purché determinati princìpi siano salvaguardati.
  Vorrei anche ricordare che, a fronte di un governo che costantemente attacca la società civile, non si riscontra però l'esistenza di una società civile che subisce passivamente. Anzi, se è vero che comunque l'AKP ottiene la maggioranza nei momenti elettorali, è anche vero però che, fuori da quei momenti, le contestazioni sono molte, anche quelle non visibili in termini di manifestazioni di piazza. Penso, ad esempio, all'attivismo di determinati ordini professionali, come l'ordine degli avvocati, che costantemente – userei un verbo poco tecnico, però efficace – «rintuzza» il governo nella necessità di ritornare nuovamente a un percorso di riforme e di riaprire nuovamente quel percorso verso la tutela dei diritti che, come lei giustamente ricordava, presidente, per un certo tempo pure ha interessato questo ordinamento.
  C’è ancora un mondo di organizzazioni sociali poco conosciuto, ad esempio la Tüsiad, l'associazione degli imprenditori, che redige annualmente dei report nei quali non soltanto sollecita il governo ad approvare riforme per omologare la Turchia agli standard economico-finanziari internazionali – questo è un altro profilo importante nel negoziato europeo – ma ricorda anche la necessità di procedere a riforme in materia di tutela dei diritti. Vorrei ricordare, infatti, che se è vero che è a questo governo che si devono gran parte delle derive autoritarie, è anche vero che costituzionalmente la base è rappresentata dal testo del 1982, che aveva come filosofia di partenza l'idea che lo Stato andasse protetto dai cittadini, e non che Pag. 6fosse un dovere dello Stato proteggere i cittadini. Quindi, anche questo non facilita e procedere in un percorso di riforme diventa molto complesso anche quando queste sono particolarmente evolute.
  Questo discorso mi riporta a un altro dei temi a me cari – come lei ricordava, presidente – che è quello della tutela delle minoranze. È vero che è a questo governo che si deve la ripresa delle ostilità nei confronti di una parte – come sempre lei rammentava, presidente – dei curdi; è anche vero, però, che questo stesso governo aveva aperto un negoziato in termini paritari con gli altri partiti presenti in Parlamento per una riforma costituzionale che intervenisse soprattutto per introdurre nuovi princìpi nella Costituzione capaci di garantire e di riconoscere le numerose minoranze esistenti nel Paese. Non vi sono infatti solo i curdi, ma vi sono gli aleviti, che sono un gruppo altrettanto noto, e forse meno noti sono anche i Lazi, i Dom e la comunità rom.
  Quindi, gli atteggiamenti tanto di questo governo quanto, in generale, del mondo politico turco rispetto a determinati temi sono molto ambivalenti. Se è infatti vero che l'AKP ha derive autoritarie, è anche vero che, rispetto alla tutela dei diritti, in fase di commissione per la riconciliazione costituzionale si era molto speso per la modifica delle norme riguardanti le minoranze, ed è stata più che altro l'obiezione di altri partiti – mi viene in mente in primo luogo la destra nazionalista dell'MHP e una certa parte anche del partito mediaticamente definito kemalista, il CHP – ad aver creato qualche difficoltà nell'approvare questo pacchetto di riforme.
  Vorrei ricordare, tornando alla minoranza curda, che in effetti era stato il governo di Erdoğan a consentire quella cosiddetta kurdish opening che aveva portato Ocalan a chiedere il cessate il fuoco al PKK e che aveva consentito di avviare dei negoziati. Lo ripeto, è un atteggiamento ambivalente, perché poi, approfittando del governo ad interim di Davutoğlu, si sono riprese le ostilità nella parte curda. Questo, però, si può spiegare anche con le dinamiche interne agli stessi partiti che attualmente sono presenti in Parlamento. Anche se dall'esterno possono apparire molto monolitici – soprattutto per quanto riguarda l'AKP, non si vede mai un'obiezione alle posizioni del leader – in realtà non è così; c’è un dibattito interno molto forte. All'interno dell'AKP, per esempio, forse più nota è la possibile contrapposizione con il gruppo della destra liberale facente capo all'ex presidente Gül, ma è anche vero che esiste una sorta di cleavage interno ai due gruppi tra i self-made man, come è lo stesso presidente Erdoğan, e gli accademici rappresentati da Davutoğlu, che quindi hanno una posizione meno estrema su come determinate ambizioni politiche debbano essere portate avanti. In termini di dinamica interna ai partiti, molto dialogo c’è anche negli altri. Noi sappiamo che adesso sia la presidenza del CHP che quella dell'MHP sono state messe fortemente in discussione.
  Tutto questo per dire che è esattamente vero quello che lei diceva, presidente. La situazione è molto più complessa, molto meno monolitica di quello che può apparire dall'esterno, per quanto riguarda la vita politica della Turchia.
  Se mi posso permettere una nota di cautela, quando ci si relaziona a questo ordinamento bisognerebbe sempre considerare il contesto e partire da una considerazione che, a mio modo di vedere, è fondamentale quando ci si relaziona appunto alla Turchia. Ci troviamo di fronte a un ordinamento che nasce fondamentalmente da una malattia, quella che viene chiamata la «sindrome di Sèvres». La paura del ridimensionamento territoriale è per la Turchia una paura atavica, perché come sappiamo, dopo la fine della Prima Guerra mondiale, il suo spazio territoriale fu ridotto alla sola area anatolica.
  L'idea di poter perdere questa integrità territoriale, peraltro costituzionalmente sancita, è una delle ragioni per cui la vicenda curda viene vissuta in maniera così controversa. L'idea di poter cedere un'autonomia a quei territori fa tornare in auge la cosiddetta «sindrome di Sèvres».Pag. 7
  L'ambivalenza dell'Unione europea, che ad esempio accetta la Repubblica di Cipro come rappresentante dell'intera isola, quando la Repubblica Turca di Cipro Nord tuttavia esiste, benché non sia riconosciuta dagli ordinamenti europei, è vissuta come un altro attentato a questa stabilità e a questa integrità dell'ordinamento.
  Non dico che sia giusto, dico soltanto che nel momento in cui ci si relaziona con questo mondo politico e con questo ordinamento forse questi sono aspetti che andrebbero tenuti fortemente in considerazione. Non mi dilungherei oltre. Se ci sono domande specifiche, a domande risponderò.

  PRESIDENTE. Grazie alla dottoressa Scotti, anche per la sua vivacità espositiva.
  Do quindi la parola a Lorenzo Cremonesi, che voi tutti conoscete e che credo possa darci un notevole contributo, perché sta sul campo, come giornalista, quindi ha un quadro della situazione nella sua estrema vivacità, drammaticità e con i chiaroscuri che essa presenta.

  LORENZO CREMONESI, scrittore e giornalista del Corriere della Sera. Grazie, presidente, per invitarmi ancora alle vostre sessioni. È un po’ difficile parlare davanti a uno schermo immobile. Purtroppo, non siamo riusciti prima a collegarci con l'immagine via Skype. Cercherò di essere – appunto per la ragione che ho appena detto – il più didascalico e conciso possibile, e forse per voi è anche meglio.
  Partirei dall'interessante parte finale dell'esposizione della dottoressa Scotti, dalla «sindrome di Sèvres», che ho riscontrato appieno, in modo assolutamente tangibile, proprio nel mio ultimo viaggio a Istanbul, in occasione dell'attentato contro i turisti, i dieci turisti tedeschi morti nell'attentato del 12 gennaio di Istanbul. Questa sindrome dell'accerchiamento, del pericolo di uno sfaldamento del Paese, di un Paese che deve difendersi, che si sente accerchiato, che assolutamente non può permettersi di avere autonomie interne, visto che ha già perso così tanto con lo sfaldarsi dell'Impero Ottomano, cento anni fa, era estremamente visibile. Voi dovete pensare che il giorno dell'attentato Erdoğan ha avuto un incontro, che era già programmato, con gli ambasciatori turchi. Era stato richiamato gran parte del corpo diplomatico e lui aveva questo incontro già programmato. Ebbene, questo incontro è avvenuto nel pomeriggio, l'attentato era avvenuto alle 10.30 della mattina, come ben sapete, nella zona delle grandi moschee, della Moschea blu, ed era molto caldo, chiaramente. I media ne stavano parlando, eravamo arrivati da tutto il mondo. Eppure lui, su circa un'ora e mezza o due di incontro, ha parlato della questione curda cinquantacinque minuti, cioè la stragrande maggioranza del tempo, e solo cinque dell'attentato. Questo mi serve per dire che, in realtà, per l'attuale governo la questione curda rimane sovrastante. Sebbene negli ultimi tempi abbia parlato di politica dura nei confronti di ISIS, di chiusura con il confine con la Siria ed altro, la questione curda rimane assolutamente dominante, rimane prioritaria. Per il governo Erdoğan prima di tutto bisogna battere l'autonomismo, le spinte indipendentiste curde, bisogna evitare che le varie componenti della diaspora curda, delle comunità curde, in particolare in Iraq e in Siria, si uniscano ancora più e rafforzino i rapporti con i curdi all'interno della Turchia. Questo resta davvero il pilone, l'elemento dominante la politica di Erdoğan. Peraltro, visto che sono un giornalista e quindi mi occupo dell'immediato, ricordo le dichiarazioni che arrivano da Ankara nelle ultime ore, che gettano l'ennesima ombra lunga e di grande difficoltà sulla conferenza che dovrebbe tenersi a Ginevra nei prossimi giorni, organizzata dal nostro De Mistura: i turchi addirittura dicono che se ci saranno i curdi dello YPG, cioè gli elementi della resistenza delle milizie armate cosiddette di «autodifesa» curda siriane, loro non ci saranno. Naturalmente noi ben sappiamo che cosa questo rappresenta. Tra l'altro, ero con loro a dicembre, sono stato a Kobane, a Qamishli, fino ad Hassake, cioè in prossimità di Raqqa, nella Pag. 8zona controllata dai curdi siriani di fronte a ISIS, tutta questa area che noi occidentali, noi europei, noi italiani, ma soprattutto gli Stati Uniti, stiamo così fortemente aiutando. Non dimentichiamo, e io non smetterò mai di dirlo, che Kobane, nonostante tutta la retorica della resistenza curda, è stata salvata letteralmente per i capelli dall'intervento dell'aviazione americana nell'ottobre di due anni fa, del 2014, quando sembrava che ISIS potesse addirittura prenderla, di fronte alla totale passività, se non nascosta cooperazione con ISIS, da parte dell'esercito turco. Era incredibile vedere i carri armati, le milizie speciali dell'esercito turco schierate – voi sapete che Kobane è proprio di fronte, a ridosso del confine con la Turchia, ci si può arrivare a piedi in pochi minuti – non fare nulla. Addirittura ci sono delle immagini, poi diffuse, riprese dalla stampa turca – e per questo i giornalisti turchi sono stati perseguitati e messi in carcere e hanno perso il loro lavoro – che le mostrano perfino cooperare con ISIS.
  Ciò per ribadire, in primo luogo, che è importantissimo insistere sulla Turchia come elemento centrale della questione mediorientale, in particolare riguardante ISIS. Quindi, è interesse dell'Europa, è interesse del mondo occidentale, di tutto il fronte che combatte contro ISIS, che vede Daesh come un elemento di gravissima destabilizzazione di tutta la regione. Noi italiani guardiamo adesso con grande preoccupazione alla Libia, ma viene comunque da lì, viene comunque dalla Siria. Parlavo ieri con il mio collaboratore a Tripoli e mi diceva che ormai ci sono dei rapporti costanti, fissi, tra i miliziani di ISIS che stanno a Sirte e quelli che stanno a Raqqa, in Siria. Quindi, vedete come è importante. Senza la Turchia noi potremo fare ben poco, come gli americani sanno. D'altro canto, questo è un fattore di enorme problematicità, perché per noi i curdi sono un elemento importante e perché per noi comunque quello che avviene in Turchia è importantissimo. Sono d'accordissimo, quindi, su questa «sindrome di Sèvres».
  L'elemento che emergeva adesso, negli ultimi giorni, stando a Istanbul, era la persecuzione degli intellettuali. Ho apprezzato molto l'intervento della dottoressa Scotti, che ci ha fatto capire l'articolazione della società civile. Noi media spesso insistiamo solo sui caratteri negativi, mentre effettivamente esiste una serie di organizzazioni della società civile che possono ancora manifestare, possono ancora opporsi al governo. Di questo, però, noi parliamo meno; noi parliamo solo delle persecuzioni. È stato impressionante vedere il manifesto degli accademici, che è cominciato – se non erro – con 1.128 firmatari, accademici turchi, la grande maggioranza sunniti, ossia non curdi, attenzione ! Parliamo del mondo accademico turco – che vede anche curdi, chiaramente – che ha assistito a questa grande partecipazione di accademici, con la redazione del predetto manifesto, in cui sostanzialmente si condannava l'inasprirsi della repressione militare in Turchia, esplosa negli ultimi mesi, a danno della minoranza curda nelle regioni del sud-est, con al centro Diyarbakir, il lago Van, tutte le zone curde al confine con l'Iraq, e poi chiaramente al confine con la Siria, fino a Suruç e alle zone che stanno di fronte a Kobane. Questo aspetto non è abbastanza sottolineato, in particolare da noi. In Italia, anche al mio giornale, che è molto attento ai fatti di politica estera, quando ho detto di andare lì e visitare i luoghi, li vedevo molto tiepidi, e non solo loro.
  Vi è un altro elemento che va sottolineato per capire la complessità attuale e che cosa Erdoğan stia facendo negli ultimi tempi, cioè dalle elezioni, di cui si è parlato prima, del novembre scorso, che hanno sostanzialmente rovesciato il risultato delle elezioni di giugno, in cui gli elementi moderati curdi erano riusciti a stare al governo e addirittura ad avere, se non erro, una quota del 12-13 per cento dell'elettorato. Questo è stato appunto rovesciato ed Erdoğan oggi gode della maggioranza assoluta. Durante l'estate ha interrotto il dialogo con i curdi, addirittura con Ocalan, che è tornato a essere un pericoloso terrorista in carcere, mentre Pag. 9fino a giugno era considerato un interlocutore che stava permettendo un avvio di dialogo e addirittura di concessioni autonomistiche sulla lingua, sulle scuole, sull'educazione nelle zone curde. Tutto questo è stato bloccato, specialmente dopo la vittoria di novembre, quando Erdoğan è tornato a essere «il sultano» – come possiamo dire in modo un po’ propagandistico e un po’ ad effetto, ma tutto sommato questa è l'essenza – e ha voluto l'uso della forza. Un collega del Financial Times è andato sul posto con un locale curdo e ha fatto un ottimo reportage agli inizi di dicembre: ebbene, si parla di circa cinquecento morti nelle ultime settimane – mi riferisco al periodo tra metà novembre e inizi di dicembre – specialmente nella zona di Diyarbakir, che, come voi ben sapete, è la grande capitale della minoranza curda in Turchia.
  Quindi, una situazione di guerra guerreggiata. Posso testimoniare che quando ero in Siria il confine era completamente chiuso e ci sono state delle forti manifestazioni da parte dello YPG, il partito fratello di tutta la meteora delle formazioni curde, la più vicina ideologicamente, con il manifesto recante l'immagine di Ocalan appeso a tutti i posti di blocco dello YPG che combatte ISIS, da Hassake a Kobane a Qamishli. Quando si entra dal confine con l'Iraq, che adesso è l'unico aperto, cioè da Faysh Khabur, questo luogo dove si passa con delle barche sul fiume, dall'altra parte la prima immagine che si trova è quella di Ocalan. Non è solo un partito simpatizzante curdo verso il leader curdo-turco. È un partito fratello. È un partito che, se dovesse nascere una qualche forma di autonomia, sarebbe immediatamente vicinissimo ai militanti del PKK, tanto che Erdoğan, ancora due anni fa, voleva la totale chiusura di Kobane proprio per evitare ai volontari del PKK, ossia ai turchi curdi, di congiungersi e di raggiungere i fratelli dello YPG in Siria.
  Farei ancora poche cose considerazioni. Bisogna aggiungere la coerenza. Prima il presidente Cicchitto ha accennato a un tentennamento, ma aggiungerei che almeno negli ultimi due anni e mezzo questo tentennamento non c’è più. Erdoğan è passato da un rapporto di stretta amicizia, addirittura personale, con Bashar Al-Assad ad un rapporto di natura conflittuale. Non dimentichiamo che prima dell'inizio delle rivolte del 2011 si era stretto un patto di libero passaggio, quasi fosse una piccola Europa, tra la Siria e la Turchia grazie proprio all'amicizia personale tra i due presidenti, ossia tra Bashar Al-Assad ed Erdoğan. Quando sono cominciate le rivolte, Erdoğan, terrificato – era proprio terrificato – dalla possibilità che i curdi siriani, come è avvenuto, potessero approfittare del caos, cioè della rivoluzione, per creare una propria enclave, si è messo letteralmente in ginocchio. È andato a chiedere all'ex amico, all'amico Bashar: «per favore, parla con i rivoltosi. Per favore, non usare il pugno di ferro come stai facendo, perché porterà alla distruzione del Paese». Personalmente posso capire moltissimo e posso condividere questa posizione. Questa durezza che Erdoğan ha tenuto nei confronti di Bashar non è una durezza preconcetta, ideologica o aprioristica. È nata dall'esperienza. Erdoğan sapeva bene che il pugno di ferro avrebbe portato al caos, che avrebbe portato all'armarsi delle milizie e che, dal suo punto di vista, avrebbe portato alla tragedia della costituzione di una enclave armata curda in Siria.
  Oggi questa coerenza continua ed Erdoğan si scontra con la Russia, come ben sappiamo. Non sto neanche a menzionare l'episodio del jet russo abbattuto agli inizi di dicembre nei cieli della Siria, con l'accusa di aver sconfinato in Turchia. L'elemento del contrasto con la Russia è un contrasto antico, ma comunque è, in questo momento, dominante e fa parte di questa sindrome dell'accerchiamento. Se vogliamo un riferimento storico forbito, non dimentichiamo l'animosità e lo scontro frontale che vide, ai tempi della Prima Guerra mondiale, la Russia degli zar addirittura aspirare a prendere gli Stretti e a conquistare Costantinopoli. Sto facendo questi riferimenti perché sono molto attuali. La Prima Guerra mondiale è un avvenimento che ancora oggi determina Pag. 10non solo molte delle memorie storiche, ma anche delle dinamiche politiche attuali in Medio Oriente.
  Faccio un riferimento ai curdi iracheni. Questo tema è già stato accennato sia dal presidente Cicchitto sia dalla dottoressa Scotti. Il fronte curdo è articolato. Uno dei nemici maggiori dei curdi sono i curdi stessi. Una delle responsabilità maggiori per la loro incapacità di avere un proprio Stato nella storia è dovuta alle loro antichissime divisioni tribali. In questo momento c’è un fatto curioso. Uno dei problemi maggiori per i curdi in Siria è l'atteggiamento del governo Barzani, ossia dei curdi iracheni, i quali dipendono totalmente, per i loro rapporti commerciali, per la vendita del petrolio, per le armi, per tutto, dalla Turchia. Hanno un ottimo rapporto. La Turchia li ha coltivati anche in chiave anti-Baghdad, anti-Iraq. Li ha aiutati – non è, quindi, un atteggiamento univoco quello di Erdoğan e della Turchia – a patto che non si espandano, ossia a patto che servano per garantire il petrolio alla Turchia e una enclave controllabile nel difficilissimo scenario dell'Iraq, ma non si espandano, appunto.
  Il problema maggiore, per esempio, per il sindaco di Kobane è che a Dohuq, nell'Iraq curdo, sono fermi circa trenta mezzi di spostamento terra che sono fondamentali per la ricostruzione della città distrutta dalla guerra due anni fa, ma Barzani non li fa passare. Al confine di Faysh Khabur i beni che servono per tenere in vita la piccola enclave curda passano con il contagocce, giusto per tenerla in vita, ma senza farla crescere, e questo proprio su richiesta di Erdoğan e del governo di Ankara. Quindi, gli stessi curdi iracheni sono pronti a rendere la vita difficile ai fratelli, o cugini – chiamiamoli come volete – in Siria, pur di non creare frizioni e non subire poi rappresaglie da parte del governo di Ankara.
  Concluderei il mio intervento con un piccolissimo accenno a quello che sta succedendo con ISIS. Non dimentichiamo in merito le pressioni esercitate su Erdoğan da parte sostanzialmente americana e parzialmente europea. A quest'ultimo proposito, ricordiamo che la Merkel ha spinto perché l'Unione europea erogasse milioni di euro alla Turchia per amministrare la questione profughi ed evitare che vengano in massa nei nostri Paesi, ed Erdoğan ha accettato. L'attentato di Istanbul è indicativo: ISIS, che era non dico un alleato, ma comunque un'entità che non andava perseguitata in modo particolare, oggi è un nemico. Erdoğan e le autorità politiche e militari turche lo trattano come tale. Ci sono stati questi gravissimi attentati. L'ultimo è chiaramente di ISIS. Gli altri, tra cui quelli, pure gravissimi, di Ankara e di Suruç, nell'estate e nell'ottobre scorso, sono invece probabilmente dovuti alle tensioni con i curdi. Certamente, però, oggi la Turchia è molto più dura contro ISIS e gli sta rendendo la vita difficile.
  Direi che questa è per noi, in modo molto egoistico ed europeo-centrico, la strada. Tutte le volte che «tagliamo» con Erdoğan o abbiamo un atteggiamento violentemente ostile o comunque ostile nei confronti della Turchia non ce ne viene niente di buono. L'unico atteggiamento possibile quindi è un atteggiamento di cooperazione, perché la Turchia – lo ripeto – è troppo importante perché venga semplicemente «messa al muro».

  PRESIDENTE. Do la parola al dottor Negri, che non ha bisogno di presentazioni.

  ALBERTO NEGRI, scrittore e giornalista de Il Sole 24 Ore. Vorrei partire dalla fine. La fine è, come diceva lei, presidente, un attimo fuggente.
  Perché è un attimo fuggente ? Perché, quando ci riferiamo alla possibilità della Turchia di entrare in Europa, ci riferiamo a un periodo che va a coincidere all'incirca con la fine degli anni Novanta e con l'allargamento europeo. Parliamo degli anni che vanno dal 1997 al 2000. In quel momento forse la Turchia avrebbe potuto entrare in Europa. Sfortunatamente, però, prima ci fu il referendum su Cipro delle Nazioni Unite, che avrebbe dovuto in qualche modo far votare le due comunità per Pag. 11l'unificazione di Cipro. Poi, però, l'Unione europea praticamente lo bruciò, perché decise di far entrare Cipro nell'Unione europea e, quindi, non se ne fece nulla. Quello è stato forse uno degli errori più gravi che sono stati compiuti allora, perché da parte turca si è sviluppata una fortissima diffidenza nei confronti degli europei. Poi c’è stata l'opposizione, molto chiara, della Germania e della Francia. Si era arrivati quasi alla rottura delle relazioni diplomatiche tra Francia e Ankara quando fu sollevato il caso della condanna per l’«Olocausto degli armeni», che, tra l'altro, è riaffiorato anche recentemente, come abbiamo visto. Ci sono, quindi, moltissime questioni in gioco.
  Si era parlato prima della «sindrome di Sèvres». Ebbene, questo è un Paese che nasce da una perdita. È un Paese che nasce da una sconfitta, quella dell'Impero ottomano, e che, come tutti i Paesi che nascono dalle sconfitte, ha anche dei sentimenti revanscisti. I sentimenti revanscisti sono spesso più amplificati di altri, perché c’è una «sindrome di Sèvres», ossia la paura di perdere dei territori. Nessuno ha la sindrome del «sangiaccato di Alessandretta» ? Qualcuno se ne è dimenticato. Nel 1920 i francesi entrarono in Siria e formarono uno Stato alauita, il Territoire des Alaouites, che comprendeva un territorio che arrivava fino all'odierna İskenderun, che era Alessandretta. A un certo punto, i francesi decisero di scioglierlo, perché venivano a un compromesso con il nazionalismo arabo. Presero il sangiaccato di Alessandretta e lo diedero ai turchi per scambio di neutralità nei confronti della Germania del Terzo Reich. Quel sangiaccato di Alessandretta era pieno di alauiti siriani e aleviti turchi. Chi sono gli aleviti ? Gli aleviti sono qualche cosa che non è nemmeno contemplata nelle statistiche turche. Se vedete, il 98,9 per cento della popolazione viene indicata come musulmana sunnita. Nell'anno 2000 ci fu il tentativo di censire la popolazione turca, cercando di individuarne le origini etniche e religiose. Fu avviato un censimento. Il censimento, in particolare, era indirizzato alla componente alauita-alevita. La componente alevita era di circa 12 milioni di persone. C'erano 2 mila ricercatori sul campo, guidati da un professore di università, che finì morto in un misterioso incidente d'auto. I 2 mila ricercatori vennero sbandati e dispersi. Questo perché lo Stato turco, ancora prima di Erdoğan, aveva un problema di identità molto forte. C’è un problema di identità etnica, quella con i curdi. C’è un problema di identità religiosa. Abbiamo citato adesso l'esempio degli aleviti, ma potremmo moltiplicarlo. Come sapete, buona parte della popolazione turca è armena. Tutti hanno una nonna armena, ma la nonna armena veniva nascosta, veniva occultata, perché c'erano state le conversioni. Questo è un Paese composito. Lo diceva prima anche la dottoressa Scotti. Non parliamo dei Lazi. Parliamo addirittura di piccole comunità con lingue che stanno per scomparire. È un Paese molto composito. Era anche la polvere dell'Impero Ottomano, che si trovava dentro, ristretta in questi confini.
  Bisogna capire quale progetto politico, a un certo punto, è venuto a emergere. Alla fine della Guerra fredda c’è una Turchia che si trova come ponte tra Oriente e Occidente. C’è un governo dei militari che diventa sempre meno efficace, soprattutto dal punto di vista economico, perché nel 2000 – vi ricordate ? – ci fu la crisi finanziaria e bancaria. Il Paese sembrava stesse precipitando. Avevano addirittura impedito i cambi. Se volevi cambiare la lira turca, dovevi andare al bazar, non in banca. Da quel disastro la Turchia si è risollevata, ma con quali soldi ? Non con quelli dell'Unione europea, ma con quelli del Fondo monetario e della Banca mondiale e con l'intervento degli americani a garanzia. È per quello che poi l'Unione europea, anche se, ovviamente, ha in qualche modo aperto questi capitoli di negoziato, nel concreto non ha mai avuto una forte incidenza sulla questione turca. È vero che metà del commercio estero della Turchia è con l'Europa, ma non è sufficiente e soprattutto, con l'ascesa di Erdoğan e la liberazione di molte forze economiche del Paese, come le famose Tigri dell'Anatolia – è una storia che tutti Pag. 12sapete – la Turchia si è cercata una diversa proiezione. Il partito AKP ed Erdoğan cercano una proiezione diversa, che è la proiezione verso il Medio Oriente, verso un'area vasta. L'ha raccontato prima anche Lorenzo Cremonesi, quando discorreva del fatto che Erdoğan e Assad avevano riaperto questo confine, dove si passava senza neanche quasi più mostrare la carta di identità. Era il tentativo della Turchia di riguadagnare uno spazio strategico ben oltre i suoi confini. Si era già superata la «sindrome di Sèvres» e si era affacciata un'altra sindrome, quella neo-ottomana: cerchiamo di espandere la nostra influenza dal punto di vista economico, commerciale e poi, ovviamente, anche politico.
  È sul politico che scivola Erdoğan. Perché ? Perché fa un calcolo sbagliato. È vero che fece quelle famose telefonate ad Assad, dicendogli: «che ti importa ? Fai queste elezioni. Non avrai paura di perderle?», dopo la rivolta di Daraa. Un raìs mediorientale, però, non può mai dire a un altro raìs che cosa deve fare, e il risultato è stato quello che sappiamo. Che cosa è stato da parte di Erdoğan ? È stato un calcolo sbagliato clamoroso, perché ha pensato che in pochi mesi Bashar Al-Assad potesse cadere. Non era così. Non poteva essere così. Ci ha provato, perché già nel novembre 2011, ma forse anche un po’ prima, c'erano migliaia di combattenti che andavano da una parte all'altra. Lui mise i campi profughi dei siriani a 50 metri dal confine, così di notte potevano passare dall'altra parte. Allora si chiamava Esercito libero siriano. C'era un certo colonnello Riyād al-As′ad che li comandava. Adesso, ovviamente, è sparito dalla scena da un pezzo. Dall'altra parte passavano. Ad Antiochia c'erano i libici e i tunisini pronti ad andare dall'altra parte. Una buona parte di questi erano salafiti jihadisti. Li abbiamo intervistati, fotografati, messi sul giornale, senza però sollevare alcun tipo di interesse. Perché non sollevavano alcun tipo di interesse ? Perché in quel momento Erdoğan faceva qualche cosa che aveva un avallo internazionale, e l'avallo veniva prima di tutto dagli Stati Uniti e dalla signora Clinton, tanto per cominciare. Ci portava alle riunioni internazionali dell'opposizione siriana, che, come sapete benissimo, qui a Roma non contava nulla, e che si rischia di ripresentare, più o meno in quella formazione, anche adesso a Ginevra. Mi soffermo un attimo su questa parentesi della rappresentatività a Ginevra. È possibile, secondo voi, immaginare che a Ginevra non venga invitato il partito curdo di Rojava, siriano, quello di Kobane, quello di cui abbiamo fatto i peana, di cui abbiamo detto che difende i valori occidentali ? Sì, è possibile. È possibile perché questo ha chiesto la Turchia, con il nostro avallo, con quello americano e con quello francese. I francesi all'inizio erano ben contenti. Il ministro degli esteri Védrine andò a parlare con Davutoğlu, che allora era ministro degli esteri, per spartirsi la Siria. Questa è la verità. Il Califfato è stato visto da Erdoğan come un buonissimo strumento per penetrare dentro il territorio siriano nel momento stesso in cui Assad era diventato un nemico. Gli stessi funzionari turchi mi hanno sempre detto: «noi faremo la ricostruzione di Aleppo».
  E su Mosul ? Su Mosul ci poteva essere uno scambio di territorio con quelli dell'ISIS. Gli americani erano d'accordo ? Certo che erano d'accordo, signori. Vi ricordate quando, il 29 giugno, al-Baghdadi proclama il Califfato ? Gli americani non fanno una piega. Stavano al dipartimento di Stato a litigare su come chiamarlo, se ISIS, ISIL, Daesh o altro, perché erano abbastanza convinti, dopo l'invasione dell'Iraq del 2003, di aver regalato troppo agli sciiti e che forse i sunniti si dovessero prendere anche loro un pezzetto di questa cosa. Se non avessero decapitato quel povero Foley, probabilmente non ci sarebbe stato ancora nulla per molto tempo, e non c’è stato nulla per molto tempo.
  Quanto alla stessa Kobane – è presente Marta Ottaviani – siamo andati al suo interno. Io entrai il 1o ottobre. Ogni tanto passava qualche jet americano, ma i bombardamenti erano scarsi, anche per un motivo che mi hanno spiegato gli stessi Pag. 13curdi: bombardare dall'altra parte voleva dire anche ammazzare la popolazione civile. Questo è stato, è – e resta – uno dei grandi problemi dei raid dall'alto. Parliamo poi della Siria, dell'Iraq o della Libia. Uno dei problemi che ci troviamo davanti è che il «bombardamento Coventry» oggi non si può più fare, soprattutto da parte di noi occidentali, perché noi occidentali facciamo la guerra con il braccio legato alla schiena. Non l'ho detto io, l'ha detto un generale americano durante la guerra del Vietnam. Queste guerre qui non le vinci più. Le puoi far combattere agli altri. Infatti, le facciamo combattere agli altri. Noi operiamo dall'alto e cerchiamo di avere la nostra fanteria sul terreno: una volta sono i curdi, una volta gli sciiti, una volta gli Hezbollah. Avete visto come è stato accolto da «osanna !» Putin quando è entrato in Siria ? Eppure, quanti ne hanno ammazzati nei bombardamenti ? Non ho mai visto i russi andarci leggero. Mi ricordo che in Afghanistan radevano al suolo interi villaggi.
  Questa è la guerra che ci troviamo di fronte, con un Erdoğan che ci pone un problema. Finora è stato in gran parte complice dell'ISIS. Lo sappiamo benissimo. Ci ha messo mesi di negoziati per dare la base di Incirlik agli americani, mesi ! Questo è un alleato della NATO. Gli americani erano inferociti con lui, anche perché minacciava di prendersi addirittura i missili cinesi. Adesso sappiamo che è stato riciclato. La visita di Biden, l'altra settimana, l'ha riciclato, in poche parole. Biden ha detto: «Non si può fare questa guerra all'ISIS senza la Turchia». Benissimo, d'accordo. Ha detto anche qualche parolina a favore della libertà di stampa. Ha fatto una distinzione tra PKK e i curdi del Rojava. Benissimo, ma, in sostanza, dobbiamo fare questa guerra con Erdoğan ? Questo mi domando. Io non sono così sicuro che non possiamo fare la guerra al Califfato senza la Turchia. Certo, la Turchia si dovrà chiarire con gli Stati Uniti, ma che guerra fanno adesso ? Entrano dentro con i carri armati ? Ormai sono a stretto contatto con i russi. La situazione è pericolosa. Questa riunione della Siria e del negoziato che dovrebbe essere avviato a Ginevra non serve tanto a portare la pace in Siria – nessuno si illude – ma a non allargarla proprio a tutti gli Stati della regione, in campo aperto. Questa è la situazione che ci troviamo davanti.
  Credo, invece, che dal nostro atteggiamento, soprattutto europeo, ma anche italiano, si sia concesso troppo a Erdoğan in questo periodo. Non possiamo pensare di manovrarlo a far la guerra all'ISIS, come possiamo anche credere. Non si fanno manovrare da noi. Abbiamo accettato tutto da Erdoğan: che mettesse in galera i giornalisti, che mettesse in galera gli intellettuali. Abbiamo accettato più o meno tutto. In cambio di che cosa ? Di commerci, dei soldi e di tutto il resto. È quello che stiamo facendo adesso più o meno con l'Iran, cari signori. Non è che siano proprio tanto diverse le cose. È questo il problema: che leve abbiamo su di lui, dopo tutto questo periodo in cui gli abbiamo lasciato la briglia sciolta ? Bisogna parlare con Erdoğan in questo periodo per capire che cosa gli viene in mente. Io non lo so. Non credo che abbia intenzione di far la guerra al Califfato. Credo soprattutto che abbia intenzione di fare la guerra ai curdi e di impedire qualunque continuità territoriale, come già sta facendo entrando dentro la zona interessata. È questo che farà.
  Quello che noi dobbiamo dire a questi signori, però, è che non c’è niente di europeo in quello che stanno combinando, soprattutto all'interno di quel Paese. Basta visitare i villaggi curdi. Ci sono foto sul giornale e reportage. Siamo andati a Diyarbakir, a Silvan, a Cizre. Cizre sembra un villaggio siriano, da quanto è stato bombardato. A Diyarbakir le forze curde hanno bombardato la moschea di Fatih Pasha, nel centro della città, una moschea del 1500. L'hanno distrutta a colpi di granata. Questa è la Turchia di oggi. È un Paese che ha la guerra fuori, ma che ce l'ha anche dentro. Questo è il grande problema. È il grande problema per cui dovremo fare leva soprattutto sulle forze della società civile e sui partiti dell'opposizione, in qualche modo, ben sapendo che Pag. 14esiste una costante: il problema etnico, religioso e anche sociologico di una società tradizionale non lo risolviamo noi. È per questo che i turchi continuano a votare, quasi per il 50 per cento, Erdoğan. È questo il problema che avremo davanti, ma dobbiamo dirgliele certe cose. Non possiamo stare zitti di fronte a quello che sta facendo oggi. Anche a proposito della Tüsiad – prima sono stati citati giustamente i rapporti della Tüsiad, molto liberali da un certo punto di vista – qual è stata la realtà dei fatti ? Lo posso dire io, perché lei, professoressa Scotti, è là, ma a Koç ha mandato la finanza, il signor Erdoğan. A Koç stanno imponendo anche determinate regole su chi insegna nella sua università. So perfettamente quali problemi ci sono da quella parte. Lo so benissimo.

  PRESIDENTE. Non creiamo troppi guai alla dottoressa.

  ALBERTO NEGRI, scrittore e giornalista de Il Sole 24 Ore. No, lo sa benissimo. Sorrideva. Lo sapeva benissimo, non parlavo di lei.
  La situazione, però, non può essere tollerata in questo modo. Non possiamo dire queste cose. Soprattutto, quando abbiamo portato i curdi qui l'altra settimana – è venuto Salih Muslim, il cui figlio è stato ucciso negli scontri con l'ISIS – non possiamo dire che non li riceviamo. Selahattin Demirtaş non è venuto qui perché il nostro Ministro non l'ha voluto ricevere. È arrivato un rapportino che ha detto che è una cattiva compagnia. Salih Muslim è una cattiva compagnia, quelli che sono contro il Califfato sono una cattiva compagnia. Tutto questo per compiacere il nostro partner turco.
  Questa è la realtà, signori. Poi, giocatevela come volete.

  PRESIDENTE. Grazie.
  Do ora la parola alla dottoressa Ottaviani de La Stampa, che è esperta della Turchia e ha scritto anche un libro...

  MARTA OTTAVIANI, scrittrice e giornalista de La Stampa. Due.

  PRESIDENTE. Le faccio pubblicità. Si intitola Mille e una Turchia. Edizioni ?

  MARTA OTTAVIANI, scrittrice e giornalista de La Stampa. Mursia. Adesso, però, sto scrivendo il terzo. Peraltro, giusto per riprendere il discorso di Alberto Negri, se è per quello, a Koç Holding hanno anche fatto saltare un tender che avevano già vinto, da diversi miliardi di euro, nel 2014, se non mi sbaglio. Non dimentichiamo anche gli strali di Erdoğan durante la rivolta di Gezi Park, quando la polizia entra al Divan Hotel, dove c'erano – c'ero anch'io lì davanti – delle donne e dei bambini. Sono entrati a caricare, senza alcun tipo di problema.
  Ringrazio il presidente per questo invito. Tutti gli interventi sono stati molto interessanti. Devo dire, però, che ci sono delle cose sulle quali non mi ritrovo. Anzitutto, con riferimento agli attentati di Ankara, Suruç e Istanbul. A me pare che, al contrario, su quello di Istanbul ci siano un po’ troppe certezze e che quelli di Ankara abbiano un nome, un cognome, un indirizzo – la città dove sono stati addestrati – e vi sono anche 30 persone arrestate dalla polizia perché accusate di far parte di una cellula di ISIS in Turchia. Dar la colpa ai curdi di questo mi sembra un'ipotesi acrobatica.
  Quanto alle minoranze alevite, è proprio della settimana scorsa un battibecco – anzi, più che un battibecco, una grossa polemica – tra la federazione più importante, ufficiale, degli aleviti, nientemeno che il Gran Muftì di Turchia e il capo della Diyanet, Mehmet Gormez, il quale ha detto che le cemevi, che la professoressa Scotti sa meglio di me essere i luoghi di culto degli aleviti, non saranno mai uguali alle moschee, alla faccia della riconciliazione !
  A proposito della commissione parlamentare di riconciliazione sulla roadmap curda, non ci dimentichiamo che Erdoğan aveva bisogno di voti in Parlamento per far passare la sua riforma presidenziale, che né il CHP, né l'MHP gli avrebbero mai consentito. Personalmente ho sempre giudicato estremamente coraggioso e positivo il tentativo di Erdoğan di riconciliare in Pag. 15qualche modo i rapporti con la minoranza curda, ma non ci dimentichiamo che chiedeva in cambio qualcosa di più che sostanziale.
  Per Gezi Park non è andato in galera nessuno dei responsabili di quello che c’è stato in quei giorni. È vero che ci sono dei meccanismi di controllo e di contenimento, ma è anche vero che sostanzialmente Erdoğan continua a fare quello che vuole.
  Ricordo anche che la Corte costituzionale – dell'attuale presidente non ho ancora bene in mente la collocazione – al posto di Tülay Tuğcu, nel 2007 fu messo Hassan Kiliç, che è un amico personale del Presidente Gül, probabilmente anche appartenente al movimento di Hizmet. La professoressa Scotti sa sicuramente di che cosa sto parlando.
  Vorrei anche ricordare, sempre per riallacciarmi agli interventi di prima, per poi andare avanti con il mio, che nel marzo del 2015 è stata approvata una riforma – anche di questo la professoressa Scotti sarà sicuramente al corrente – sulla pubblica sicurezza che attribuisce alla polizia poteri che non si riscontrano in nessun altro Stato europeo. La polizia ha il potere di sparare sulla folla e di fermare le persone anche senza il tramite della magistratura, che è stata simpaticamente bypassata.
  Vorrei anche fare una piccola notazione a margine. Fino al 2013-2014 la polizia era sotto il controllo sostanziale di Fetullah Gülen e, quindi, del movimento Hizmet. Successivamente ci sono stati diversi «ricollocamenti» – chiamiamoli così – per cui sono stati fatti fuori, a decine, capi di polizia e adesso sono tutti vicino all'esecutivo. Questo giusto anche per dare un quadro, proprio perché la Turchia è un Paese complesso.
  Per quanto riguarda il mio intervento, si è in questa situazione, al momento: dopo il voto del 7 giugno si era sperato che il potere di Erdoğan fosse stato in qualche modo ridimensionato perché – lo saprete anche voi – non era riuscito a conquistare la maggioranza assoluta dei seggi. Poi, per inadempienza sostanziale dell'opposizione, che non solo in questi anni non è riuscita a fare un'opposizione degna di questo nome, ma non è neanche riuscita a fare un accordo per formare un governo che non permettesse a Erdoğan di riprendere il potere, si è andati al voto il 1o novembre in condizioni molto particolari, che andrò a spiegare tra poco, e il risultato è stato che Erdoğan ha riguadagnato il 49 per cento. Ha guadagnato praticamente da tutte le parti. Ha guadagnato anche nel sud-est del Paese, dove molti curdi che alle elezioni del 7 giugno avevano deciso di votare il BDP, ossia il partito di Demirtaş, sostanzialmente il partito curdo, hanno deciso invece di ridare la propria fiducia all'AKP per un desiderio di stabilità e di sicurezza interna.
  Quello che non è stato sufficientemente sottolineato, secondo me, negli interventi precedenti è che, in questo momento, nel sud-est del Paese, oltre alla contrapposizione storica tra PKK e Stato turco, c’è una vera e propria guerra tra bande, a cui partecipa Hüda-Par, un partito curdo-islamico che non si è presentato alle elezioni, ma che, soprattutto a livello di controllo del territorio, ha un radicamento molto importante in alcune zone del Paese. Poi ci sono i Leoni di Allah, che potrebbero essere il branch turco di ISIS. Sono dei giovani che si rifanno al movimento del Califfato. Non si capisce bene se siano affiliati direttamente o meno, ma stanno guadagnando sempre più una presenza sul territorio. Ci sono interi quartieri di Istanbul – io ho cominciato a scrivere di questo dall'ottobre 2014 – in cui si sono verificate più volte delle intimidazioni in moschee frequentate da sciiti. Era tutta gente che diceva di appartenere a ISIS. Durante il Ramadan 2014, nel pieno centro di Fatih – chi conosce Istanbul sa di che cosa sto parlando – il quartiere più conservatore, nel senso buono del termine, ossia il quartiere dove vivono molti musulmani devoti; c’è la moschea fatta costruire da Maometto II il Conquistatore – c'erano banchetti che vendevano materiale di ISIS e nessuno diceva niente. Gli autori degli attentati di Suruç e Ankara, i fratelli Alagoz, erano Pag. 16stati addestrati, o quantomeno indottrinati, in un centro ad Adiyman, che ho visitato personalmente, in cui quelli della kiraathane, ossia la sala da thè, di fronte mi hanno detto: «qui era pieno di bandiere di ISIS. C'erano tutti i vetri coperti. La polizia passava sì e no una volta al giorno e non si è mai fermata».
  Quindi, attenzione a dire che la Turchia ha smesso di collaborare con ISIS. Ci può essere una collaborazione ufficiale interrotta – scusatemi, ma su questo ho fortissimi dubbi – ma c’è tutta una parte della società turca che in questi anni, con questo calcare l'accento sul motivo nazionalista e sul motivo «confessionale», si è fortemente radicalizzata.
  Io sono arrivata in Turchia nel 2005 e ho vissuto ininterrottamente a Istanbul fino a dopo Gezi Park. Visto che in quest'aula posso parlare in modo molto franco e diretto, dopo Gezi Park una mia fonte, che non posso assolutamente rivelare, mi ha detto: «vattene tu prima che ti mandino via loro». Devo dire che ha avuto ragione, visto che adesso ci sono molti corrispondenti stranieri che cominciano ad avere problemi per rinnovare il visto stampa.
  La Turchia, quindi, è un Paese assolutamente borderline. Proprio oggi è uscita una denuncia di Human Rights Watch che si concentra non solo sulla situazione nel sud-est, ma anche sulla libertà di stampa, un tema che, come potrete immaginare, mi sta particolarmente a cuore. Io ho visto l'ultima volta Can Dundar, una persona che conosco da dieci anni, a novembre, prima delle elezioni, che mi ha detto, congedandomi – è stato anche un momento abbastanza toccante – «Marta, ci sono buone probabilità che io sia il prossimo». L'hanno arrestato subito dopo le elezioni. Ero praticamente a due passi dal quotidiano Begun quando la polizia ha fatto irruzione e ha invitato i redattori a uscire. Gli intellettuali con cui se l’è presa Erdoğan il giorno dell'attentato di Istanbul sono balzati agli onori delle cronache, ed è giusto – mi rallegro molto che sia successo perché almeno se ne è parlato – ma tutti gli intellettuali turchi sono sotto un fuoco costante da parte dell'ex premier e attuale presidente della Repubblica. Tra l'altro, costui usa lo strumento della querela con estrema disinvoltura, non solo nei confronti degli intellettuali, ma anche nei confronti dei giornalisti. Dopo Gezi Park i giornalisti che hanno perso il loro posto di lavoro si contano a decine.
  Sicuramente la professoressa Scotti ha fatto prima un ragionamento molto interessante, ma che parte da presupposti completamente diversi dai miei, che faccio la cronista. Sicuramente ci sono ancora in piedi delle istituzioni di contenimento, ma questo è anche un po’ uno dei principali paradossi del Paese: la Turchia è un Paese con istituzioni democratiche gestite in maniera assolutamente autoritaria, ed è stata così in molti periodi della sua storia. Ripeto, sono arrivata nel 2005, e c'era un Paese in cui si sentiva ancora fortissima la pressione dei militari. Sicuramente non era una cosa né accettabile rispetto ai nostri canoni europei, né piacevole.
  C’è stato un momento – probabilmente era il momento di cui parlava il presidente Cicchitto all'inizio – in cui si era avvertito un rilassamento proprio anche nel modus vivendi. Certi ragionamenti e discorsi al bar prima non si sarebbero nemmeno potuti fare. Invece, si parlava con estrema disinvoltura. La gente parlava in curdo in pubblico. Vi posso assicurare che nel 2005, quando sono arrivata, sarebbero stati bacchettati dalle persone, che avrebbero detto loro: «vatandaş, türkçe konuş !» «cittadino, parla turco !».
  Dal 2009-2010 in poi c’è stata un'involuzione che sta veramente aumentando di intensità a partire dal 2011, ossia da quando Erdoğan ha vinto le elezioni. La società civile turca c’è ancora, è vero. Vorrei dire, però, che sono anni che la Tüsiad ha dei problemi molto gravi, anche perché fa riferimento a un entourage industriale di stampo «laico». Erdoğan l'ha da tempo soppiantata con la Müsiad, che invece comprende imprenditori legati agli ambienti islamici.
  In secondo luogo, anche l'intensità delle manifestazioni è da verificare, perché scende in piazza molta meno gente rispetto Pag. 17a una volta. A maggio sono andata al secondo anniversario dell'inizio di Gezi Park. C'erano in piazza quattro gatti. Lo posso dire anche con immenso dispiacere personale, avendo vissuto quella piazza per oltre un mese, in prima persona. Era stato proprio l'effetto della riforma sulla sicurezza di cui parlavo prima. Avevo parlato anche con molti deputati curdi e loro mi avevamo detto: «i nostri candidati in piazza non ci vanno perché, se, per disgrazia, li arrestano, poi non si possono presentare alle elezioni».
  Aggiungo un'ultima notazione e poi concludo, nella speranza di essere stata il più possibile sintetica. Adesso Erdoğan non pensa a nient'altro che alla sua riforma in senso presidenzialista. Sui giornali non si parla d'altro. Anche l'attentato a Istanbul in proporzione ha occupato molto meno spazio di questo argomento.
  Da quando hanno vinto le elezioni, il premier Ahmet Davutoğlu ha fatto passare la legge sull'istituzione della preghiera del venerdì negli uffici pubblici e anche nelle scuole, che crea qualche problema, secondo alcuni sindacati, a chi quella preghiera non vuole andare a farla. C’è la sensazione che ci sia un tentativo di rendere progressivamente più devota tutta la società.
  È stata istituita anche una commissione che vaglierà il contenuto dei programmi, per assicurarsi che siano in linea con i valori tradizionali della famiglia, motivando il fatto che in Turchia ci sono troppi divorzi e si punta troppo all'individualismo. Probabilmente ci si sposa più tardi di una volta o non ci si sposa proprio, e la cosa non viene apprezzata.
  Io lo dico proprio da cronista, che ha come semplice dovere quello di raccontare ciò che vede: si sta vivendo un'involuzione veramente importante e inquietante, in cui la gente ha sempre più paura di parlare. Onestamente, ci sono alcune fonti che non mi parlano più. Lo dico molto serenamente. Non mi parlano più perché hanno paura. Nel sud-est la situazione è veramente critica. Ci sono state città intere messe sotto coprifuoco per giorni. Su La Stampa ne abbiamo parlato, ma in generale su tutta la stampa, anche a livello europeo, è uscito pochissimo, perché i media turchi per primi non ne parlano. Tutto quello che si viene a sapere lo si viene a sapere o per canali di fonti privilegiate o tramite i social network.
  Detto sinceramente – e con questo voglio davvero concludere – penso che ci siano tutti i motivi per essere seriamente preoccupati. Siamo in presenza di una persona veramente in preda a un delirio di onnipotenza, che molto spesso, anche nella politica estera, sembra navigare a vista, facendo mosse di cui poi paga le conseguenze il suo Paese in prima persona, e noi subito dopo, di riflesso. Mi riferisco soprattutto alla crisi siriana e al rapporto con ISIS, ma anche – è un tema di cui non si è parlato, ma cui voglio accennare – al problema dei rifugiati. Erdoğan adesso è assolutamente pronto ad arrivare con la spada di Damocle a dire: «signori, io ne ho 2,2 milioni sul terreno». Sì, ma a me persone vicine all'AKP, in maniera molto simpatica, hanno detto: «non ti preoccupare: quello è solo un anticipo».
  Aggiungo un'altra cosa. Alberto Negri ricordava dei campi che avevano aperto a 50 metri dal confine. Erano campi dove ai giornalisti veniva vietato l'ingresso. Evidentemente non ci volevano far vedere che cosa ci fosse all'interno. Le Nazioni Unite avevano proposto di gestire questi campi in associazione con la Turchia proprio all'inizio della crisi siriana e Ankara aveva rifiutato, dicendo orgogliosamente: «facciamo da soli. È una questione umanitaria». Questa è stata la motivazione ufficiale dell'allora ministro degli esteri Ahmet Davutoğlu.
  Potrei andare avanti per ore, ma ho a buon cuore le vostre orecchie, quindi mi fermo e vi ringrazio ancora per l'invito.

  PRESIDENTE. Dulcis in fundo, do la parola a Carlo Panella, tenendo conto che abbiamo un vincolo di orario, perché alle 16 c’è in Aula l'intervento sul Giorno della memoria e siamo vincolati a esserci.

  CARLO PANELLA, scrittore e giornalista di Libero e de Il Foglio. Al di là dei Pag. 18resoconti e dei racconti, sempre utilissimi, credo che la domanda fondamentale che ci si deve porre, e che ha bisogno di uno spazio ben più lungo di quanto noi vi possiamo dedicare – vi invito anche a trovare questo spazio – sia come mai la Turchia, che ha vissuto ottant'anni e più di un lentissimo, ma progressivo – con delle soste e dei ritorni indietro – cammino verso la democrazia, unico Stato islamico al mondo, abbia poi invece avuto una involuzione autoritaria, di cui Erdoğan non è l'autore ma è, secondo me, il sintomo.
  Una risposta parziale, ma fondamentale – secondo me – a questa domanda, che è la domanda che riguarda i processi di democrazia in tutti i Paesi islamici, non soltanto il contesto specifico della Turchia, è che l'Unione europea è stata idiotamente – ribadisco questo mio concetto oxfordiano – complice della distruzione dello schema geniale della Costituzione di Kemal Atatürk.
  Conoscendo bene l'Islam e l'islamismo ed essendo un massone – la Turchia è l'unico Stato, insieme agli Stati Uniti d'America, che è il prodotto cosciente e laico di un'iniziativa massonica; forse non lo sapete, ma tutto il quartier generale di Washington sfilò per le strade di Philadelphia con il grembiulino dopo la conquista, e così è successo, in maniera più criptica, in Turchia –, Atatürk fece un check and balance in cui contrappose alla tradizione, alla presenza, alla cultura e al discorso politico e religioso dell'Islam il contrappeso istituzionale e costituzionale di un fortissimo esercito nazionalista laico che aveva in sé forza e prestigio, avendo vinto una battaglia impossibile contro i greci, nel 1920. Questo assetto, questo dualismo, secondo me, lo ritroviamo in tutti i Paesi islamici che hanno – lo ripeto per l'ennesima volta – un cammino verso la democrazia. Lo troviamo in Indonesia e in Malesia, laddove il check and balance è nei gruppi dirigenti di origine indiana e cinese. Lo troviamo in Marocco, dove il check and balance è dentro la figura stessa, costituzionale, della monarchia. Tornando alla Turchia, questa involuzione si è avuta quando, idiotamente, l'Unione europea ha applicato un determinato schema. Erdoğan aveva vinto le elezioni e aveva il peso parlamentare, ma non il peso politico, perché aveva il 34 per cento dei voti nelle prime elezioni che vinse. Li divideva, però, con un'altra forza politica, il CHP, che aveva il 24 per cento dei consensi. Quindi, aveva una maggioranza assoluta di seggi del 60 per cento, ma non la forza politica per abbattere il ruolo dell'esercito e dei generali, che era sovraordinato rispetto al governo sui temi della laicità e della stessa sicurezza nazionale. Questo potere glielo regalò appunto l'Europa, la quale fece sì che le trattative per l'ingresso della Turchia nell'Unione europea fossero precedute dal rispetto dei parametri di Copenaghen. L'idiozia sta nel fatto che i parametri di Copenaghen erano stati decisi nel 1992 per accompagnare l'ingresso dei Paesi a economia socialista e a partito unico dentro l'Unione europea o comunque dentro il consesso della democrazia, quindi tutt'altro processo. Applicare uno schema di ingresso dall'autoritarismo alla democrazia a un Paese come la Turchia, in cui il problema era quello che vi ho detto prima, ossia accompagnare l'Islam verso la democrazia, poteva essere fatto soltanto dai burocrati di Bruxelles. I generali ebbero, da questa pressione dell'Europa, inibita la possibilità di bloccare, come avrebbero sicuramente fatto, questo processo di revisione costituzionale. A questo punto, il check and balance è saltato e l'elemento islamista, intendendo l'Islam politico di concezione e di irruzione dello stesso Islam dentro la sfera politica e delle istituzioni, non ha avuto più ostacoli. Naturalmente, è stato immediatamente accompagnato dall'arresto e dalla messa in galera, con alcuni golpe che non ho mai capito se siano veri o falsi – mi paiono piuttosto falsi – di tutto il quadro dirigente dell'esercito. L'Europa si è, come al solito, sparata sui cosiddetti e ha consegnato la Turchia ad un percorso in cui non c’è più alcun antidoto all'Islam politico. Questo è il quadro di fondo, ed è la follia che noi abbiamo, in maniera determinante, contribuito a creare.Pag. 19
  Veniamo ai problemi che questo signore – il quale, credo che lo sappiate, non mi suscita alcuna simpatia, per ovvie ragioni – si è trovato ad affrontare. In merito, dissento su molte cose dette fino adesso.
  Parto dal problema della Siria. Erdoğan ha fatto, insieme a Davutoğlu, una proposta saggissima per risolvere la crisi siriana, non appena si è aperta. Quello che è successo prima, che fosse alleato o meno di Assad, non mi interessa. Siamo in Medio Oriente. Noi europei facciamo questo: le alleanze, le rotture, i divorzi e i matrimoni sono sempre fatti in base alla realpolitik.
  Quando scoppia Daraa, quando scoppia non la «primavera siriana», ma la rivoluzione siriana – dire Daraa vuol dire i poveri contro i ricchi – nell'arco di due anni Davutoğlu ed Erdoğan fanno una proposta saggia, che l'America e l'Europa non vogliono. È la proposta di aprire un cordone di una ventina o una trentina di chilometri all'interno del territorio siriano, dando un colpo d'immagine straordinario, perché era no fly zone per il regime di Assad, e di costruire dentro il territorio della Siria una enclave liberata a opera delle stesse forze armate turche, ma ovviamente con il consenso della comunità internazionale. Sia Hillary Clinton che Obama – Hillary Clinton con meno certezze – rifiutano questa soluzione. Quella era la soluzione che avrebbe potuto indebolire Assad e precostituire un dominio della comunità internazionale all'interno del territorio siriano che ci permettesse di controllare una difficilissima nation building, una difficilissima costruzione di un'alternativa di governo allo stesso Assad. Rifiutata quella dalla comunità internazionale – ripeto, era una saggissima proposta – Erdoğan ha fatto quello che fanno tutti i leader nel mondo quando si trovano in queste situazioni – lo fecero perfino gli americani con il principe Borghese alla frontiera con l'Istria nel 1945 – ossia ha lasciato passare tutti.
  Erdoğan non ha aiutato l'ISIS. Mi spiace che anche in questo fantastico giornale, questo fantastico direttore, che ammiro molto, abbia fatto un errore: lui non ha le prove che quei camion andassero all'ISIS. Ha le prove che quei camion c'erano. Non ha capito che era una trappola. Non ha capito che scoperchiare i camion che passavano la frontiera era un gioco interno al potere profondo della Turchia, come è evidente. Erdoğan ha lasciato passare tutti. Se tu decidi che il tuo obiettivo strategico non può che essere quello di abbattere il regime di Assad, non puoi mettere alla frontiera una guardia che dice: «lei è dell'ISIS, lei è dell'Arabia Saudita, eccetera». Lasci passare tutti, e questo è quello che lui ha fatto, all'interno di una dimensione su cui tornerò dopo, perché la priorità strategica di Erdoğan non è la lotta all'ISIS. Saggiamente e giustamente, la priorità strategica di Erdoğan – e su questo concluderò il mio intervento – è il rapporto con l'espansione del blocco persiano-sciita. È il vero problema strategico che la Turchia si trova di fronte, all'incirca da cinquecento anni.
  Passo alla questione curda. Erdoğan è stato l'unico dirigente della Turchia – a differenza dei dirigenti massonici, simpaticissimi, repubblicani e laici, del CHP, che sono ipernazionalisti e durissimi con i curdi – che abbia tentato di aprire una roadmap di pacificazione con i curdi turchi. L'accordo del 2013 con Ocalan è opera personale sua. Perché ? L'accordo del 2013, la roadmap di pacificazione Turchia-PKK siglato nell'isola di Imrali con Ocalan è opera personale sua, ed è stato reso possibile solo e unicamente dal raccordo e dall'alleanza, addirittura dall'essere diventato, il Kurdistan iracheno, parte integrante non del sistema politico turco, ma della regione turca, dal punto di vista sia economico sia addirittura della forza lavoro sia, in parte, politico. Questo accordo di roadmap che, ovviamente, è estremamente difficile e che, notate bene, è ostacolato all'interno della Turchia dalle forze del CHP, quando è saltato? Su questo sono in disaccordo su tutto quello che ho sentito oggi. È saltato quando un golpe militare all'interno del PKK ha trasformato l'attentato di Suruç, che era evidentemente, per acta, di responsabilità dell'ISIS, Pag. 20in un'occasione per ammazzare 400-500 soldati turchi. Queste non sono le parole di Carlo Panella. Questa è la valutazione di Barzani, che le ha dette pubblicamente: bella idea, quando ti fanno un attentato contro i ragazzi curdi, andare ad ammazzare i militari turchi! Questa è la verità. Si è creata all'interno del PKK una dinamica, che è lunga anni, tra l'ala militare di cui fa parte anche, per alcuni aspetti, il fratello di Ocalan, Osman, e l'ala politica, di cui è capo Ocalan, che aveva avuto già molti episodi precedenti e che, in occasione di Suruç, fa la follia: suicidarsi. Invece di attaccare l'ISIS, attacca il governo turco. È per questo che poi, con spregiudicatezza cinica, Erdoğan riesce a vincere le elezioni. È vero che la follia dell'atteggiamento del PKK turco è una follia tale da convincere parte della stessa opinione pubblica curda che aveva votato prima per l'AKP e poi per l'HDP di tornare sulle posizioni precedenti e ridare il voto a Ocalan.
  Di nuovo andiamo ai fondamentali. Perché questo succede? Questo succede perché la componente curda irachena è una componente che ha una lunghissima formazione. Inizia con Sèvres, con il nonno dell'attuale presidente – sono un po’ poco democratici e un tantinello dinastici questi leader curdi – del Kurdistan iracheno e passa attraverso una profonda scuola politica. I Barzani sono dei signori che hanno fatto gli accordi con Stalin. Sono dei signori che hanno fatto gli accordi con Kissinger. Sono dei signori che hanno fatto accordi con lo Scià. Hanno preso soldi e dato soldi. Hanno fatto accordi con Saddam Hussein, e via elencando. Comunque, esprimono – tra l'altro – una dirigenza urbana, se si può così dire, cosmopolita, esattamente come i curdi iraniani.
  I curdi turchi e i curdi siriani sono Pol Pot, signori miei. Rojava è Pol Pot. Questa è la verità. È un movimento marxista-leninista – lasciatelo dire a me, che sono stato un estremista – nato alla fine degli anni Settanta, con un'ideologia di rivoluzione contadina maoista, che ha condotto la sua guerriglia facendo contrabbando d'oppio e teorizzando, con Ocalan, gli assalti armati ai turisti per propagandare il proprio verbo, e ha un'ideologia assolutamente inaffidabile. Tant’è vero – qui termino sull'argomento – che l'ottimo Barzani, a fronte di una Turchia che da Suruç in poi, 21 luglio 2015, bombarda i santuari del PKK che sono sul territorio del Kurdistan iracheno, non ha mai detto né «ahi» né «bai». Ha soltanto detto: «Per favore, non ammazzate le donne e i bambini». Anzi, li ha favoriti. Anzi, ha costruito un muro per impedire che i militanti del PKK e del YPG passassero nel Kurdistan iracheno.
  Signori, ve lo ripeto per l'ennesima volta: discutiamone con calma, chiamiamoli qui, discutiamo con loro, ma c’è curdo e curdo. La componente curdo-siriano-turca è pericolosa. Non è affidabile. Quando Biden dice che il PKK non può essere considerato che terrorista e quando l'ONU non può che prendere atto che è giusto il veto della Turchia al YPG dentro la Convenzione – inutile, sarà una perdita di tempo – di Ginevra, ci sono delle solide ragioni politiche. YPG e PKK sono la stessa cosa. Questo Fehman Hüseyin, il dirigente dell'ala militare del PKK, viene dal YPG. Sono un elemento di estrema intersecazione. Credo che, tra l'altro, in questo periodo, Ocalan stia tentando disperatamente di riprendere la strada di una trattativa, che è quella che schiaccia l'HDP. L'HDP – quando fu eletto, scrissi un pezzo entusiasta nei confronti di Demirtaş sull’Huffington Post – è schiacciato dentro la logica politica turca. Da una parte, sa benissimo che il PKK è composto da avventurieri e avventuristi militaristi. Dall'altra, non può certo, però, rompere la solidarietà con loro, e così – ahimè – anche gli oltre 2 mila professori universitari che fanno benissimo a protestare contro questo, ma non possono negare che il PKK sia un movimento, vi ripeto, oggi – non con Ocalan – alla Pol Pot.
  Torniamo a quello che interessa noi. Siamo in Italia, al Parlamento italiano e la Turchia è nella NATO. Qual è, in questo momento, la priorità strategica del governo Pag. 21turco, chiunque sia al governo, oltre alla vicenda curda, che è un po’ intricata, come abbiamo visto fino adesso ? Un dato di fatto è indiscutibile: la Turchia ottomana e sunnita, che ha i suoi peccati nei confronti degli alauiti – indiscutibili, perché vengono trattati in maniera schifosa all'interno del territorio turco, da sempre – non può tollerare, insieme all'Egitto, all'Arabia Saudita, alla Giordania, al Marocco e a tutti i Paesi sunniti e a quelli del Golfo, che si stia stabilizzando, grazie a Barack Obama, la fascia sciita più che altro khomeinista – gli sciiti sono infatti molto diversi tra di loro, come i curdi – che in questo momento va da a Gaza al Libano, alla Siria, all'Iraq e all'Iran stesso. Dal Mediterraneo all'Afghanistan si è costruita una fascia assolutamente antagonista – mi pare da 2.700 anni, se non ricordo male – nei confronti della fascia turcomanno-arabo-sunnita. Questa era una situazione de facto fino a quando l'Iran manteneva, artatamente e crudelmente, in vita il regime siriano. È diventata una minaccia strategica da quando è stato firmato l'accordo con l'Iran da parte degli Stati Uniti. L'accordo con l'Iran da parte degli Stati Uniti, le cui conseguenze vediamo rispetto alle nostre belle statue romane in questi giorni e anche nel fatto che nessuno si scandalizza per l'assedio di Madaya, in cui vengono mandati a morte per fame donne e bambini dagli iraniani ed Hezbollah – ma da noi non se ne parla – che cosa ha determinato ? Ha fatto sì che l'Iran venisse indicato alla comunità internazionale, da parte degli Stati Uniti, come l'elemento di stabilizzazione del Medio Oriente, a discapito quindi degli altri elementi di stabilizzazione, che tradizionalmente erano la Turchia e l'Arabia Saudita, per l'Occidente, e ha portato in campo immediatamente, visto che le sorti militari del conflitto erano disagiate in quel momento – i generali iraniani stavano morendo come mosche a Homs e Hama – l'intervento della Russia. In questo momento, la Turchia si trova a nord la Russia, un nemico piuttosto vecchietto anche questo, e l'Iran a sud e a est, che non soltanto stanno premendo e allargando la loro egemonia, ma si stanno anche rafforzando, promettendo – sarà assolutamente inevitabile – rivolte anche nel retroterra della Turchia e del mondo sunnita, che è il Golfo.
  Questo è lo scenario. Dunque, una comprensione dell'attività della Turchia in questo scenario, vi ripeto, non può che passare per una sana discussione tra questi due elementi di conflitto, che non sono, secondo me, ricomponibili. La strategia del Ministro Gentiloni – me l'ha detto più volte, e la applica con palese evidenza – è quella che l'Italia sia un elemento di ponte, di colloquio, di trattativa tra il blocco turco-sunnita-arabo e il blocco iraniano-sciita. Ginevra è uno di questi appuntamenti. Credo che la realtà degli antagonismi, sia in termini di potere geopolitico sia in termini di ideologia religiosa, sia talmente acuta che qualsiasi tentativo di ricomposizione non possa che fallire e che l'Italia dovrà scegliere, con la Turchia, se stare con il fronte turco-arabo-sunnita oppure col fronte iraniano-sciita.

  PRESIDENTE. Carlo Panella si è allargato parecchio. Comunque, credo che una riflessione specifica sui curdi e sul mondo curdo prima o poi la dovremo fare, magari non invitando l'onorevole Mantovani. Quella, però, è una questione a parte.
  Abbiamo pochi minuti. Sappiamo tutti che le domande devono essere molto schematiche e le risposte altrettanto. Do quindi la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  GEA SCHIRÒ. Grazie, presidente. Sarò rapida. Innanzitutto grazie di aver organizzato un simposio culturale, più che politico, e propedeutico alle riflessioni politiche.
  Brevissimamente, mi rivolgo a Carlo Panella, con cui abbiamo spesso occasione di parlare. Magari gli pongo la questione, e poi continueremo a discuterne. Secondo me, non possiamo continuare a proporre il problema di Copenaghen senza andare avanti, adesso, alla luce della riapertura, dopo gli accordi del 29 novembre, lasciandolo Pag. 22fisso e non considerandolo incongruo, illegittimo e ingiusto. È incongruo perché viene espropriato il soggetto istituzionale, cioè la Commissione. Dico questo rapidissimamente, ma poi ne parleremo. È incongruo perché rende inutile l'esame dei capitoli, considerato che due Paesi che occupano due seggi pongono un veto a priori. È ingiusto perché in questo modo si impedisce l'analisi di qualsiasi benchmark. Dovremmo ampliare, da questo punto di vista, la riflessione, ma è un colloquio e un dialogo già aperto tra noi. Volevo metterlo a disposizione di tutti.
  Invece, da questo punto di vista – mi rivolgo a tutti coloro che sono intervenuti; non so se a qualcuno possa interessare – ho la ragionevole certezza intellettuale che, piuttosto che occuparci delle differenze religiose, dovremmo valutare anche storicamente. A me sembra infatti che la Turchia sia nella posizione della Germania nel 1870, all'epoca dell'unificazione, ossia troppo grande e troppo forte per essere troppo potente e troppo forte per essere troppo debole, per alcuni versi. È in una posizione ibrida, come lo era appunto la Germania, spinta dalla Russia. Per alcuni versi anche lì abbiamo la stessa situazione. Non a caso, ci sono questi momenti di incertezza reciproci a fronte del maggiore interscambio commerciale tra i due Paesi.
  Detto questo – qui concludo per lasciare spazio ai colleghi, sperando di poter riaprire questo dibattito –, vi è una questione che pongo a me stessa: è possibile che, nel parlare delle questioni mediorientali, di qualsiasi cosa che non sia europea, al netto del fatto che non esiste un'Europa politica e un esercito comune realizzato, sia un errore considerare e trattare la Turchia e l'Iran come Paesi arabi? Secondo me, c’è forse un malinteso culturale nel ceto medio politico italiano – ed anche in quello amministrativo – che ci induce in profondo errore. Grazie.

  ERASMO PALAZZOTTO. Molto brevemente, pongo due questioni che sono emerse durante quest'audizione che, secondo me, meritano un approfondimento rapido, proprio sui rischi che si corrono.
  Da un lato, quello che sta accadendo nel sud-est della Turchia rischia di essere derubricato a una questione di ordine e di sicurezza interna, cancellando interamente la questione politica posta. Io sono stato a Cizre nel mese di novembre. È una città completamente distrutta. Oggi il conflitto non si riduce più tra le falangi del PKK e l'esercito turco, ma ci sono parti di città che si sono autorganizzate in comitati di difesa, dichiarando zone autonome liberate. C’è, quindi, anche il rischio di una radicalizzazione della popolazione curda, che sfugge anche al controllo politico del PKK, il quale svolge una funzione di partito politico in quei territori. Ovviamente, se discutiamo a prescindere dalla riapertura del processo di pace, rischiamo che la Turchia imploda su se stessa, perché quella situazione rischia di diventare ingovernabile.
  L'altro elemento di pericolo che, secondo me, si corre è quello che sta accadendo sul campo dall'altra parte della frontiera. In questo momento quell’enclave che voleva fare Erdoğan, quella striscia di trenta chilometri al confine, l'hanno fatta i curdi, che hanno occupato praticamente tutto il confine tra la Turchia e la Siria. Hanno costituito lì dentro anche i campi profughi e hanno occupato parti non curde, cioè con popolazioni sunnite che hanno aderito a una carta di valori che loro stesse si sono date. Resta un pezzo piccolo, che è l'unico varco che in questo momento rimane aperto e che permette la comunicazione tra Daesh e la Turchia. In questo momento, la Turchia sta difendendo con le unghie e con i denti quel piccolo varco. Lo fa bombardando i curdi ogni volta che provano a riconnettere uno dei cantoni, che è totalmente isolato. In questo momento la Turchia spara sui curdi siriani.
  Se guardate l'evoluzione della carta geografica in Siria dal giugno del 2014, cioè da quando Kobane era assediata ad oggi, scopriamo che i curdi sono quelli che controllano la porzione più grande di territorio siriano dopo Daesh. Quanto all'esclusione dal tavolo di Ginevra, si può decidere di non considerarli, ma quelli Pag. 23sono una forza sul campo determinante. Senza di loro, domani non si potrà aprire una discussione.
  Concludo dicendo che questa parte di confine, poiché i curdi stanno continuando l'offensiva per riconnettere le due parti dei cantoni separate da questa lingua di terra, potrebbe rappresentare un casus belli. Qui faccio la mia domanda specifica. Qualora la Turchia decidesse di intervenire anche sul campo per evitare questa riconnessione e, quindi, l'isolamento da Daesh, corriamo il rischio che la Russia, che ha detto chiaramente di voler difendere l'integrità territoriale siriana, entri in conflitto con la Turchia ? Forse dovremmo cominciare a preoccuparci, perché la Turchia è un Paese NATO e rischiamo che quel conflitto regionale, per quanto complicato sia per noi, diventi, attraverso, quella scintilla, un conflitto di proporzioni che non siamo più in grado di governare.

  PRESIDENTE. Do la parola ai nostri auditi per la replica.

  MARTA OTTAVIANI, scrittrice e giornalista de La Stampa. Sarò veramente molto sintetica. Il caso russo è uno splendido esempio che dimostra come la Turchia a volte navighi a vista. Quando è stato abbattuto quel jet Ankara prima ha fatto la voce grossa. Me lo dicevano fonti all'interno del Parlamento: loro erano convinti che, in grazia dei beni – soprattutto agricoli – che la Turchia passa alla Russia, in modo tale che la Russia eviti gli embarghi a cui è sottoposta, Erdoğan avrebbe potuto pesare nelle contrattazioni per risolvere la questione. Il problema è che Putin – che piaccia o no; a molti può non piacere, e posso anche capirlo – è stato, fino a questo momento, il primo e l'unico che ha detto a Erdoğan: «adesso hai esagerato!». Non ho altro da aggiungere sull'argomento proprio per dare anche ad altri la parola.

  CARLO PANELLA, scrittore e giornalista di Libero e de Il Foglio. Sono in totale disaccordo. Putin si è preso l'abbattimento dell'aereo e ha detto: «Ohi, ohi, ohi !». Ha fatto una figura assolutamente vergognosa. Non ha avuto possibilità di rispondere. Uno a zero per la Turchia, che ha dato un avvertimento preciso alla Russia: «cara Russia, puoi fare quello che vuoi a Latakia e a Tartous, ma, se provi, come hai fatto, a bombardare i turcomanni e a intervenire dentro la politica siriana, ledendo i miei interessi, ti abbatto gli aerei». Guardate, che qualsiasi cosa abbiano detto, abbiamo il fatto che la Russia ha subìto un affronto vergognoso e pretestuoso ed è dovuta starsene zitta. Questa è politica.

  VALENTINA RITA SCOTTI, ricercatrice presso l'Università LUISS di Roma e visiting researcher in diritto pubblico comparato presso la Koç University. Potrei ribattere, ma non lo faccio. Dico solo una cosa. Anche dando per buone tutte le obiezioni che sono state fatte, se vogliamo fare la lista dei peccati della Turchia, sarebbe una lista probabilmente lunghissima. Credo che quello che a noi interessa capire sia se ci siano, e quali siano, i termini a partire dai quali si può mantenere aperto e costruire un dialogo, senza voler neanche creare rapporti, tra un'Europa o un'Unione europea professoressa e una Turchia che deve stare a sentire la lezioncina.
  Quello che ho cercato di dimostrare è che esistono delle forze che vanno contro l'autoritarismo e che forse noi a queste forze dobbiamo rivolgerci e con queste forze dobbiamo costruire il dialogo. Questo tranquillizzerebbe anche la società civile.
  Aggiungo una conclusione di carattere personale: gli intellettuali sono, sì, a molto rischio, ma io qui a Koç non vivo una situazione di panico. Non sento questa pressione. Posso dire che una parte degli intellettuali è ancora libera.

  LORENZO CREMONESI, scrittore e giornalista del Corriere della Sera. Credo che dobbiamo imparare tutti a essere più concisi, perché ci si perde in questi interventi fiume, in cui si tocca di tutto. Pag. 24Dovremmo cercare di essere molto più monotematici, per poi ricordare che il dibattito dovrebbe trasformarsi in azioni politiche.
  Non ho molto altro da aggiungere. Mi sembra di aver insistito molto sulla questione curda perché è centrale. Abbiamo visto che un po’ tutti hanno seguito questo tema. Dobbiamo continuare a pensare al tema

  ALBERTO NEGRI, scrittore e giornalista de Il Sole 24 Ore. Credo che, quando andremo a Ginevra a vedere questa conferenza di pace, ci renderemo conto che questa conferenza, invece di aprire la via alla pace, aprirà la via a un'altra parte di conflitto, perché questa questione siriana non si risolve con la diplomazia, ma con la guerra.

  PRESIDENTE. Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 16.