XVII Legislatura

III Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 2 di Mercoledì 17 giugno 2015

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 3 

SULLE PRIORITÀ STRATEGICHE REGIONALI E DI SICUREZZA DELLA POLITICA ESTERA DELL'ITALIA, ANCHE IN VISTA DELLA NUOVA STRATEGIA DI SICUREZZA DELL'UNIONE EUROPEA

Audizione Carlo Marsili, già Ambasciatore d'Italia ad Ankara, Paolo Quercia, Direttore del Center for Near Abroad Strategic Studies (CeNASS), e Nathalie Tocci, Vicedirettrice dell'Istituto Affari Internazionali (IAI), con particolare riferimento alla situazione politica e al quadro di sicurezza in Turchia.
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 3 ,
Marsili Carlo , già Ambasciatore d'Italia ad Ankara ... 3 ,
Quercia Paolo , Direttore del ... 7 ,
Tocci Nathalie , Vicedirettrice dell'Istituto Affari Internazionali (IAI) ... 9 ,
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 12 ,
Di Stefano Manlio (M5S)  ... 12 ,
Amendola Vincenzo (PD)  ... 12 ,
Valentini Valentino (FI-PdL)  ... 13 ,
Schirò Gea (PD)  ... 14 ,
Palazzotto Erasmo (SEL)  ... 14 ,
Monaco Francesco (PD)  ... 15 ,
Farina Gianni (PD)  ... 16 ,
Manciulli Andrea (PD)  ... 17 ,
Cassano Franco (PD)  ... 17 ,
Marsili Carlo , già Ambasciatore d'Italia ad Ankara ... 17 ,
Quercia Paolo , Direttore del ... 20 ,
Tocci Nathalie , Vicedirettrice dell'Istituto Affari Internazionali (IAI) ... 22 ,
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 23

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà- Berlusconi Presidente: (FI-PdL);
Area Popolare (NCD-UDC): (AP);
Scelta Civica per l'Italia: (SCpI);
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Lega Nord e Autonomie - Lega dei Popoli - Noi con Salvini: LNA;
Per l'Italia-Centro Democratico: (PI-CD);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero-Alleanza per l'Italia: Misto-MAIE-ApI;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI;
Misto-Alternativa Libera: Misto-AL.

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
FABRIZIO CICCHITTO

  La seduta comincia alle 14.10.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori di questa seduta sarà assicurata anche tramite la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione Carlo Marsili, già Ambasciatore d'Italia ad Ankara, Paolo Quercia, Direttore del Center for Near Abroad Strategic Studies (CeNASS), e Nathalie Tocci, Vicedirettrice dell'Istituto Affari Internazionali (IAI), con particolare riferimento alla situazione politica e al quadro di sicurezza in Turchia.

  PRESIDENTE. Nel quadro del lavoro di riflessione e di analisi – che, come Commissione, facciamo in parallelo, cercando di conquistarci degli spazi rispetto al lavoro di approvazione dei più vari trattati, piccoli, grandi e medi – l'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle priorità strategiche regionali e di sicurezza della politica estera dell'Italia, anche in vista della nuova strategia di sicurezza dell'Unione europea, l'audizione di Carlo Marsili, già Ambasciatore d'Italia ad Ankara, Paolo Quercia, Direttore del Center for Near Abroad Strategic Studies (CeNASS), e Nathalie Tocci, Vicedirettrice dell'Istituto Affari Internazionali (IAI), con particolare riferimento alla situazione politica e al quadro di sicurezza in Turchia.
  Do la parola per primo all'Ambasciatore Carlo Marsili, poiché credo che non potrà trattenersi oltre le ore 15.

  CARLO MARSILI, già Ambasciatore d'Italia ad Ankara. Grazie molte, presidente, e un saluto alle onorevoli parlamentari e agli onorevoli parlamentari presenti.
  Noi siamo arrivati in Turchia, alle elezioni del 7 giugno scorso, ad una situazione di fortissima polarizzazione, nata soprattutto dal fatto che da dodici anni, vale a dire dal novembre del 2003, il Governo è sempre rimasto nelle mani dell'AK Parti, cioè del partito di Erdogan, sotto forma di un governo monocolore, con pochi cambiamenti all'interno, comunque direttamente dominato dal presidente Erdogan.
  La polarizzazione nasceva soprattutto dal fatto che, grosso modo, metà della popolazione turca perdeva regolarmente le elezioni, sia perché l'opposizione era divisa di fronte all'AK Parti; sia perché lo sbarramento del 10 per cento per entrare in Parlamento favoriva in maniera abnorme il partito di Erdogan – ma non è stato lui a introdurlo, bensì il governo militare dopo il colpo di Stato del settembre 1980 –;, sia perché l'opposizione, oltre a essere divisa, ha anche lavorato (va detto) meno e meno bene dell'AK Parti.
  Resta il fatto che questa parte della Turchia ha percepito l'attuale governo come una minaccia crescente alla laicità dello Stato, al proprio stile di vita europeo, alle fondamenta stesse dei princìpi repubblicani dettati da Atatürk. Non credo sia molto importante dire se oggettivamente questo è vero o falso, perché è difficile dirlo; quel che importa, però, è che mezza Turchia la pensava così, anche se obiettivamente ha trascurato alcuni passi importanti sulla via della democratizzazione che il governo Erdogan ha realizzato soprattutto nei primi sette-otto anni del suo mandato. Pag. 4
  Da due o tre anni, però, quando si parla di Turchia si parla di una democrazia autoritaria, in cui Erdogan, sia pure democraticamente eletto, decide tutto lui, come se fosse già una repubblica presidenziale, cosa che non è, e che probabilmente non sarà mai.
  Il malcontento della società civile laica turca è cresciuto in questi anni soprattutto contro certe forme di intromissione nella vita privata da parte delle autorità in senso fortemente conservatore. Basti pensare all'opposizione che si riscontra sui social network nei confronti del governo, che ha risposto con delle forme – sia pure parziali, sia pure poi ritirate, ma qualche volta di nuovo reintrodotte – di censura su Internet, su Facebook, su Twitter ed altre.
  Quindi, una sorta di paternalismo di Stato, con un po’ di bigottismo religioso, ma soprattutto la sensazione, che aveva la popolazione turca perdente, che le elezioni sarebbero sempre state vinte dal partito di Erdogan.
  Va detto che anche il Progress Report che ha fatto la Commissione europea da ultimo a ottobre, pur valorizzando notevoli passi avanti sulla democratizzazione del Paese fatti dal governo, ha messo in evidenza delle problematiche attinenti alla libertà di stampa, al fatto che ci fossero giornalisti accusati di terrorismo, accademici, ufficiali accusati di golpismo, magistrati considerati infiltrati da Fethullah Gülen, ex amico diventato poi nemico di Erdogan, e che ci fosse ancora una discriminazione di fatto verso le minoranze e, per esempio, verso gli atei.
  Anche il nuovo pacchetto sulla sicurezza, approvato pochi giorni prima delle elezioni da parte del Parlamento turco, è stato giudicato dal Financial Times come una sorta di cornice di uno Stato di polizia. È eccessivo, secondo me, però è vero anche che la Turchia, che avevamo conosciuto fino a qualche tempo fa, è certamente cambiata.
  Secondo Erdogan, secondo l'AKP, è cambiata in meglio, nel senso che si è democratizzata, è diventata la «nuova Turchia», come la si definisce adesso, libera di tutte le costrizioni «autoritarie» del laicismo di Stato che c'era prima di lui, e valorizzata dal fatto che il successo economico è stato straordinario. Fino all'anno scorso, per circa sette-otto anni, la Turchia è cresciuta dell'8 per cento ogni anno. Tutto questo ha creato un'immensa nuova classe media turca, per lo più conservatrice, per lo più religiosa senza essere estremista, per lo più che vota per Erdogan, perché viene considerato colui che è riuscito a portare l'economia turca a livelli estremamente positivi.
  L'altra metà, però, continuava a rimproverare invece il fatto che venissero messi in discussione certi diritti dati per acquisiti in Turchia – il divorzio, l'aborto, il matrimonio civile – e il fatto che sia stata reintrodotta la facoltà dell'uso del velo islamico nelle scuole, negli uffici pubblici, che Atatürk aveva vietato, e perfino in Parlamento.
  Faccio un breve accenno, sempre preelettorale, a quella che era la politica estera turca. Fino a pochi anni fa, la politica estera turca era soprattutto centrata sul negoziato di adesione della Turchia all'Unione europea. Io ho cominciato a fare l'Ambasciatore ad Ankara nel febbraio del 2004, tenuto dove sono rimasto per sette anni, e devo dire che nei primi anni c'era veramente un grande entusiasmo, una grande spinta verso l'Unione europea sia dal partito di governo sia, in misura minore allora, da parte dell'opposizione. Poi, però, per varie ragioni questo entusiasmo è scemato. Le varie ragioni si chiamano il venir meno, a mio avviso, di un impegno preso nei confronti del negoziato di adesione: la Francia ha bloccato subito, insieme a Cipro, i principali capitoli negoziali di carattere politico e, introducendo come norma costituzionale il fatto che qualunque Paese di nuova adesione, per ottenere il consenso francese, debba passare attraverso un referendum popolare, ha praticamente messo la Turchia in una situazione di limbo di cui tutta l'opinione pubblica è perfettamente consapevole.
  Così si spiega, allora, il fatto che quando è diventato ministro degli esteri l'attuale primo ministro Davutoglu, il 1° maggio 2009, lui che aveva già in mente una sua Pag. 5teoria che prevedeva nessun problema con i vicini e una sua idea di politica mediorientale, che è stata – forse più a torto che a ragione – definita «neo-ottomana», ha cominciato ad applicarla, favorito anche dagli sviluppi mediorientali, prima con le cosiddette «primavere arabe», poi con quello che è successo, cioè colpi di Stato, guerre civili interne, eccetera.
  Ankara, nella sua visione, doveva rappresentare non un modello, però certamente un'ispirazione per i Paesi arabi, consentendo in questo modo alla Turchia di estendervi la propria influenza. Il risultato, però, devo dire la verità, a questo punto, a me sembra fortemente negativo, perché le relazioni con i vicini non sono buone. Se togliamo il Kurdistan iracheno (paradossalmente, ma questo per ragioni di grandi interessi economici che ci sono tra la Turchia e il Kurdistan iracheno), le relazioni della Turchia con il governo di Baghdad sono molto problematiche, e non parliamo con la Siria di Assad. Però sono problematiche anche con l'Iran; sono problematiche, per molti aspetti, anche con l'Arabia Saudita, dove convergono per quanto riguarda la questione siriana, ma divergono per quanto riguarda l'atteggiamento sull'Egitto.
  Con l'Egitto c'è stata praticamente una rottura di rapporti diplomatici. Continuano ad andar male le relazioni con Israele. Sono rimaste bloccate le relazioni con l'Armenia, anche a causa del cosiddetto «genocidio» che ha impedito qualsiasi progresso. Grazie, io credo, alla recente elezione di Akıncı a presidente della cosiddetta «Repubblica turca di Cipro nord», il dialogo a Cipro, invece, dopo tanti anni di stallo, potrebbe andare avanti.
  In questo momento, dunque, la Turchia sta attraversando una fase di isolamento sia nella regione mediorientale sia nel contesto europeo. Resta fermo, però, che il suo ruolo geostrategico è un ruolo – non ho bisogno di dirlo io – estremamente importante e che l'aspirazione europea, che prima, dal 2004 fino al 2009-2010, era soprattutto sentita dal partito di Erdogan, adesso è più sentita dall'opposizione, perché hanno capito che senza Europa c'era il rischio che il governo di Erdogan portasse a una sorta di «islamizzazione» del Paese. Adesso tutta questa opinione pubblica laica si rivolge molto di più all'Europa e si augura che il negoziato continui. Praticamente ora non esiste opposizione sostanziale al negoziato con l'Unione europea, anche se esiste una sfiducia ovvia, motivata da varie ragioni.
  Arriviamo alle elezioni parlamentari del 7 giugno scorso. Il partito di Erdogan, l'AKP, aveva tre obiettivi. L'obiettivo massimo era quello di ottenere almeno due terzi dei seggi in Parlamento, quindi 367 su 550, per modificare la Costituzione in senso presidenziale. L'obiettivo medio era quello di ottenere almeno 330 seggi, per indire un referendum popolare proponendo le modifiche alla Costituzione. Con 330 seggi si poteva poi presentare un progetto di riforma al popolo e il referendum avrebbe deciso.
  Infine, l'obiettivo minimo era quello di ottenere la maggioranza assoluta dei seggi, come ha sempre avuto dal 2003 a oggi, quindi 276, per formare un governo monocolore come negli ultimi dodici anni.
  In realtà, devo dire anche con qualche sorpresa da parte di certi ambienti, nessuno di questi obiettivi è stato raggiunto. Ciò perché grazie allo sbarramento del 10 per cento, che aveva sempre favorito Erdogan, questa volta, avendo un quarto partito, cioè l'HDP, il cosiddetto «partito curdo», superato il 10 per cento, anche grazie ad un sostanziale apporto di voti da parte del CHP, cioè del partito kemalista di centrosinistra o di sinistra, come si vuole chiamarlo, laico – che ha votato in funzione anti-Erdogan e capiva benissimo che doveva sostenere l'HDP per farlo entrare in Parlamento –, questa volta il partito curdo ha ottenuto un'ottantina di seggi, quasi tutti tolti al partito di Erdogan.
  Prima i curdi, in realtà, ne avevano una ventina in Parlamento, ma il sistema era questo: non si potevano presentare come partito perché pensavano di non superare il 10 per cento, quindi si presentavano nei collegi, soprattutto a prevalente popolazione curda, come indipendenti; bastava avere almeno il 50 per cento dei voti in quei collegi e si veniva eletti automaticamente Pag. 6come indipendenti; dopodiché, avendo raggiunto una ventina di parlamentari, hanno potuto formare un gruppo parlamentare.
  Cosa succede adesso? Secondo la legge turca, il governo deve essere formato entro quarantacinque giorni dalla convocazione del Parlamento, una volta che il Consiglio supremo elettorale avrà ufficialmente proclamato gli eletti. Il Consiglio elettorale proclamerà gli eletti domani o dopodomani (18-19 giugno). Dopodiché, si procede all'elezione del presidente del Parlamento, che dovrebbe aver luogo intorno al 25-26 giugno. Naturalmente, non disponendo più l'AKP di una maggioranza assoluta, l'elezione del presidente già potrà essere un'indicazione su quelli che potranno essere i futuri scenari di coalizione. Gli scenari di coalizione che si presentano sono quattro. Il primo scenario vede l'AK Parti collegato al partito curdo HDP. Questo a me pare estremamente difficile perché il leader del partito curdo Selahattin Demirtas ha escluso ogni possibilità di collaborazione con il partito di Erdogan.
  Il secondo scenario è quello invece di una maggioranza formata dall'AKP con l'MHP, cioè il partito di estrema destra, il partito nazionalista. Un certo numero di probabilità che si possa formare esiste, però l'MHP è molto titubante, perché siccome i due elettorati sono piuttosto simili, entrambi conservatori (anche se quello dell'MHP è un elettorato laico), c'è il rischio per l'MHP che una coalizione del genere lo risucchi all'interno dell'AKP, quindi perda voti, invece questa volta sono andati avanti e hanno quasi raggiunto il 18 per cento.
  Una terza possibilità, che è quella fortemente caldeggiata dal mondo degli affari, dal mondo imprenditoriale, dagli economisti e da altri mondi, è una grossa coalizione tra i due partiti storicamente nemici, cioè tra il partito di Erdogan e il CHP, possibilmente con la designazione di Kemal Dervis, che all'inizio era stato l'artefice di quello che poi è stato il cosiddetto «miracolo economico turco» fatto dall'AKP, a ministro dell'economia. Kemal Dervis appartiene al CHP.
  Certo, per il CHP non è semplice accettare una coalizione del genere, perché una parte dell'apparato kemalista potrebbe ribellarsi. Però si potrebbe anche immaginare un governo della durata di un paio d'anni con una coalizione simile, e poi andare a nuove elezioni.
  La quarta e ultima possibilità è quella che sognano i nemici di Erdogan, cioè una coalizione formata dal CHP e dall'MHP con l'appoggio esterno del partito curdo HDP. Parlo di appoggio esterno perché, salvo veramente casi eccezionali, c'è un'incompatibilità di fondo tra l'MHP, partito nazionalista, e il partito curdo.
  Mettere d'accordo la sinistra con l'estrema destra in Turchia non è difficile, tant'è vero che alle ultime elezioni presidenziali, quelle che ha poi vinto Erdogan, il candidato della sinistra e dell'estrema destra, CHP-MHP, era stato unico, cioè Ihsanoglu, che poi ha perso. Il problema quindi è il rapporto tra HDP e MHP, perché i nazionalisti finora sono sempre stati contrari a concessioni sul processo di pace con i curdi.
  Se nessuna coalizione si forma entro questi quarantacinque giorni, e soltanto in questo caso, Erdogan dovrà sciogliere il Parlamento. C'è una parte del partito di Erdogan che certamente caldeggia questa opzione, perché essi ritengono che se ci fossero elezioni a breve – in questo caso le elezioni ci sarebbero nella seconda metà di ottobre – potrebbero presentarsi all'elettorato dicendo che non è stato possibile formare delle coalizioni e che, poiché si rischiano crisi e problemi economici, è bene che l'elettorato ritorni con loro, perché, in fondo, hanno sempre assicurato un certo successo in questo campo, e così sperano di poter riguadagnare i voti. Se poi questo si verificherà, è tutto da vedere.
  C'è un'ultima considerazione da fare. Comunque, il Parlamento funzionerà fino alle eventuali prossime elezioni, qualora si decidesse di fare elezioni anticipate. In questo periodo, i tre partiti dell'opposizione potrebbero far approvare, per esempio, una legge che riduca la soglia elettorale del 10 per cento, perché tutti questi tre partiti sono contrarissimi alla soglia del 10 per cento. Pag. 7
  C'è un punto di domanda sull'ex presidente della Repubblica Abdullah Gul. Gul si è messo da parte, in questi mesi, e non è entrato nella campagna elettorale. È uscito, quattro giorni fa, un libro di memorie del suo consigliere capo alla presidenza, Ahmet Sezer, al quale Gul aveva chiesto di non pubblicarlo prima delle elezioni, ed è uscito adesso. Il libro mette in evidenza i fortissimi contrasti che ci sono stati tra Gul ed Erdogan, nonostante una convivenza più o meno apparentemente armoniosa. Questo significa che un certo settore della destra liberale, che è all'interno dell'AKP, potrebbe in qualche modo appellarsi a Gul e vedere se lui ha intenzione di rimettersi nuovamente in campo.
  Tutto questo adesso sarà da vedere. Grazie.

  PAOLO QUERCIA, Direttore del Center for Near Abroad Strategic Studies (CeNASS). Grazie. È un piacere essere in questa sede e parlare dopo l'Ambasciatore Marsili, di cui cercherò di non ripetere le osservazioni, tentando di passare magari a una fase più internazionale o ad alcune contestualizzazioni di questo risultato elettorale. Tuttavia, devo necessariamente partire dalla situazione politica interna, anche perché qualcosa che dirò forse si distanzia un po’ dalla prima parte dell'intervento dell'Ambasciatore, quindi devo dare dei riferimenti.
  Partendo dai risultati – chiaramente in pillole, perché così possiamo toccare più temi – il dato è chiaro: hanno vinto tutti tranne l'AKP, che è il grande sconfitto. Tutti gli altri partiti hanno incrementato sia i voti che i seggi, però i due grandi vincitori sono i nazionalisti e il partito filocurdo.
  I media hanno molto concentrato l'attenzione sulla vittoria del partito curdo. Chiaramente è una vittoria storica, perché l'ingresso in Parlamento di un partito con entità etnica è un fatto storico per la Turchia. Tuttavia, anche la vittoria dei nazionalisti, dell'estrema destra, come diceva l'Ambasciatore Marsili, è importante perché hanno preso due milioni di voti in più rispetto alle elezioni precedenti e hanno un milione e mezzo di voti in più rispetto all'HDP, pur avendo lo stesso numero di seggi per via anche del sistema elettorale.
  Comunque, forse sono, assieme all'HDP, i grandi vincitori di questa elezione. Caso strano, apparirebbe – così in molti hanno sostenuto – che entrambi questi partiti hanno attinto i voti dall'AKP, quindi dal partito di Erdogan. Già questa è una prima fonte di incertezza di queste elezioni: il fatto che due partiti così diversi come i nazionalisti e i curdi, che attingono allo stesso grande bacino elettorale di Erdogan ci fa capire quanto strano e peculiare fosse il potere che Erdogan e il suo partito erano riusciti a concentrare sotto le bandiere di questo islamismo moderato.
  È chiaro che sono elezioni che hanno un grosso odore di ingovernabilità. Al di là di chi ha vinto, chi più e chi meno, e di quale Governo verrà formato – e su questo io penso che l'alleanza tra nazionalisti ed Erdogan sia forse quella più verosimile – chiaramente si entra in una fase della scena politica turca che sarà nuovamente (come probabilmente lo era quella prima della fase dell'AKP) caratterizzata da ingovernabilità, instabilità, governi brevi che cadranno. Ciò perché la particolarità della situazione costruita da Erdogan in questi tredici anni era davvero unica e frutto di circostanze eccezionali.
  Faccio un salto alla situazione internazionale perché ieri c'è stato un evento abbastanza interessante, che secondo me è strettamente collegato alle elezioni in Turchia, ed è la caduta della cittadina di Tel Abiad, al confine tra Turchia e Siria. Tel Abiad è una città di una provincia siriana al confine con la Turchia. Cosa aveva di particolare questa città, oltre a essere occupata dal Daesh? Era la città – e la provincia – che separava le due parti di territorio siriano controllate dai curdi siriani. Come sappiamo, i curdi di Siria sono tutti schiacciati lungo il confine con la Turchia: circa la metà sono nella parte occidentale, una metà nella parte orientale e al centro c'era una fascia araba, cioè una fascia che arrivava fino al confine con la Turchia che era sempre stato un cuneo che divideva anche la continuità territoriale dei curdi di Siria. Pag. 8
  Ecco, subito dopo le elezioni turche, dove i curdi per la prima volta entrano in Parlamento, forze curde – con il supporto attivo e fondamentale dei bombardamenti americani – riescono a mettere sotto scacco un caposaldo del Daesh. Peraltro, si tratta di una città molto importante, perché quello è il cordone ombelicale rispetto al quale, ottanta chilometri più a sud, si trova Raqqa, cioè la capitale dello Stato del Daesh.
  Immaginate, quindi, la mappa dell'area. Purtroppo non abbiamo power point o supporto grafico, però abbiamo ben presente che c'era un cordone ombelicale che andava trasversalmente dalla Turchia fino alla capitale del Daesh, ed era un collegamento strategico estremamente importante, perché lì passavano i famosi foreign fighters, passavano le armi, gli aiuti e tutto quello che sappiamo che in queste situazioni viene transitato attraverso questi corridoi.
  Adesso i curdi hanno praticamente sigillato il corridoio che va dalla Turchia al Daesh. Il Daesh ormai controlla solamente un posto di accesso, un punto di frontiera, che è molto più ad est ed è molto più difficile da utilizzare. Dico questo non per cambiare scenario, ma perché io credo che molti curdi, quando hanno votato in Turchia, hanno pensato proprio a questo. Hanno pensato, cioè, a una fase storica piuttosto unica che i curdi stanno vivendo nella regione, una fase storica che in Iraq è rappresentata anche dal collasso dello Stato iracheno e quindi dalla sempre maggiore rilevanza del KRG, del Kurdistan iracheno.
  Molti hanno scritto che i curdi hanno votato pensando a Gezi Park, cioè alle proteste, hanno votato contro l'autoritarismo di Erdogan. Secondo me, il voto dei curdi è stato più orientato da Kobane, cioè dalla scelta che ha fatto poi il governo turco, sostanzialmente, di non aiutare i combattimenti dei curdi in Siria contro il Daesh prendendo, secondo alcuni, le stesse parti del Daesh e, addirittura, secondo alcuni, dando ad esso sostegno. Ovviamente questo è un corto circuito incredibile: avere quindici milioni di curdi in Turchia, che, a loro volta, si trovano un conflitto nel Paese vicino, dove combattono una parte dei propri connazionali, e lo Stato di cui essi sono cittadini prende le parti dell'altro gruppo, è un problema difficilmente gestibile da un punto di vista politico interno. Secondo me, questo è quello che in buona parte è accaduto.
  Erdogan, pur essendo il suo un partito islamista, ha dovuto fare dei compromessi interni, e la maggior parte del suo islamismo si è riversato nella politica estera. Ha mantenuto i binari separati ed è stato molto più islamista nella politica regionale. L'islamizzazione interna della società, io non ritengo che sia stata una parte così fondamentale o così importante del decennio di Erdogan, altrimenti non mi spiegherei il travaso di voti dall'AKP, che aveva raccolto, negli anni passati, molti dei voti dei curdi. I curdi non sono tutti di estrazione secolare o antireligiosa, ma vi è anche una parte importante conservatrice o comunque religiosa; ce n'è addirittura una estremamente religiosa, molto più dell'AKP, di estrazione sunnita.
  Erdogan, tuttavia, era riuscito ad avere molti dei voti dei curdi ed è un paradosso che i curdi abbiano votato contro l'unico partito che in Turchia ha concesso qualcosa ai curdi. Se ricordiamo, nel 2005 Erdogan per primo ha chiesto scusa ai curdi, ha avviato il processo di pace, con tutte le contraddizioni che questo processo può aver avuto internamente. Erdogan è quello che di più si è speso, con i limiti della Realpolitik ovviamente, nel dialogo con i curdi e anche con altre minoranze di estrazione più religiosa. Eppure, da questo voto è stato punito.
  Io vedo molto forte il richiamo etnico identitario: come Erdogan ha utilizzato gli spiragli di maggiore libertà e democrazia in Turchia, anche portati dal processo di avvicinamento all'Unione europea, per affermare un'idea islamista, allo stesso modo vi sono altre forze, nella società turca, che usano gli stessi spiragli per affermare idee anche legate al nazionalismo etnico. In parte, questo è quello che è avvenuto, secondo me, in queste elezioni. Pag. 9
  C'è sicuramente un malcontento per alcuni tratti di autoritarismo o paternalismo interno di Erdogan, però io cercherei di giudicarlo non da occidentale, ma con gli standard turchi. Dobbiamo ricordare anche, nei governi precedenti a quello di Erdogan, quali fossero gli standard interni del Paese. Secondo me, se ricordate le elezioni municipali del marzo 2014, cioè il primo test politico dopo le proteste di Gezi Park, l'AKP prese tantissimi voti: li prese a Istanbul, come ad Ankara, come ovunque nel Paese. Forse, se si fosse voluto punire il comportamento autoritario di soppressione della protesta, ci sarebbe già stata una tornata elettorale che poteva essere usata in quel senso.
  Vedo un forte connotato internazionale di queste elezioni e questo spiegherebbe perché c'è stato ovviamente un malcontento. Questo malcontento non è stato solo da parte dei curdi, i quali hanno visto anche un'opportunità storica. C'è, invece, un malcontento della parte nazionalista del Paese o di chi, avendo prima votato Erdogan, adesso è attratto dal richiamo nazionalista. Del resto, Erdogan ne ha sbagliate tante, nella sua politica estera regionale, ma soprattutto ha messo la Turchia in un grosso vicolo cieco, creando una serie di contraddizioni interne e probabilmente facendo esplodere un ritorno del problema curdo internamente. C'è, quindi, una reazione anche a questa politica di Erdogan, in parte nazionalista.
  Concludo con una battuta. Se ricordate il discorso che Erdogan tenne dopo la vittoria alle elezioni presidenziali, in quell'occasione nominò una serie di capitali della regione che avevano vinto, dicendo che con la sua elezione non aveva vinto la Turchia, ma avevano vinto Sarajevo, Scopje, Gerusalemme, Erbil, Islamabad. Citò, quindi, una serie di capitali del mondo islamico sostanzialmente enunciando un chiaro programma di islamismo politico internazionale: «Il mio voto è quello dell'Islam internazionale».
  Ebbene, c'è qualcuno dei suoi seguaci che adesso, dopo queste elezioni, ha commentato: «Non abbiamo perso noi, ma ha perso Islamabad, ha perso Sarajevo», eccetera. In realtà, ha perso la politica estera islamista. Questo, in qualcuno che aveva scelto quella politica estera, ha portato secondo me ad una revisione delle proprie convinzioni, dando e inducendo a dare il voto a chi promette di tutelare l'interesse nazionale turco.

  NATHALIE TOCCI, Vicedirettrice dell'Istituto Affari Internazionali (IAI). Grazie. Cercherò anch'io di non ripetermi. I dati sono stati presentati, quindi farò una breve analisi di cosa è successo e del significato di quello che è successo, poi dirò qualche parola sulle implicazioni.
  Inizierei col dire che il dato principale delle elezioni del 7 giugno, il motivo per cui le elezioni del 7 giugno sono comunque uno spartiacque nello scenario politico turco, è che, in qualche modo, esse segnano l'inizio non della fine, ma del declino dell'AKP. È un dato importante.
  L'AKP ha vinto, dal 2002 ad oggi, undici elezioni, tra elezioni locali, nazionali (quattro) e presidenziali. Se prendiamo i dati delle elezioni nazionali, era un voto che continuava a crescere, elezione dopo elezione, cosa che raramente si vede in altre democrazie.
  Credo che sia importante sottolineare che non stiamo assistendo all'inizio della fine dell'AKP; stiamo comunque parlando di un partito che ha preso il 41 per cento dei voti. Il secondo partito dopo l'AKP ha preso il 25 per cento. Quindi, ricordiamoci qual è il contesto.
  Però, come ricordava l'Ambasciatore Marsili, è importante sottolineare che l'AKP non solo non ha la maggioranza per cambiare unilateralmente la Costituzione in senso presidenzialista, non solo non ha la maggioranza parlamentare per indire un referendum, ma non ha neanche la maggioranza elettorale per formare un governo monocolore.
  Qual è il significato di questo risultato elettorale? Molti l'hanno definito – e anche qui si è detto – un voto contro Erdogan: più che un voto contro l'AKP, un voto contro Erdogan. Sicuramente questo è un dato importante e sicuramente, attraverso questo voto, la società turca si è espressa chiaramente contro una riforma costituzionale Pag. 10 in senso presidenzialista. Questo è stato, in qualche modo, il cavallo di battaglia dell'AKP e, in particolare, di Erdogan in questa campagna elettorale.
  Ricordiamo appunto che Erdogan è stato eletto alla presidenza, che attualmente è una presidenza non esecutiva nel Paese; una presidenza che ha poteri comunque importanti anche nell'attuale Costituzione, ma non è appunto un sistema presidenziale alla francese, tanto meno all'americana. Tuttavia, nell'ultimo anno, di fatto, Erdogan si è già comportato come un presidente esecutivo. È stato lui a guidare la campagna elettorale, in realtà violando l'attuale Costituzione. In qualche modo, dunque, aveva già assunto un comportamento che sperava poi di sancire legalmente a seguito delle elezioni.
  Questo è stato visto e vissuto come un referendum contro Erdogan. Credo che questo sia un dato importante perché, al di là del discorso del cambio costituzionale in senso presidenzialista, in qualche modo può anche essere in parte letto come un voto contro le tendenze autoritarie di Erdogan stesso.
  Quali sono le cause del voto contro l'AKP? Ricordava Paolo Quercia che la maggior parte dei voti sono appunto transitati dall'AKP in parte all'MHP, il partito nazionalista di destra, e in parte all'HDP. Perché? I motivi della disaffezione, come il dato stesso annuncia, sono diversi.
  Abbiamo una buona parte dei voti curdi che erano voti AKP, perché non tutti i curdi nel sud-est dell'Anatolia votano partito curdo; molti si identificano prima come islamisti e poi come curdi. Molti di questi voti hanno transitato appunto verso l'HDP, e lo hanno fatto sostanzialmente perché l'AKP, nell'ultimo anno, ha sicuramente preso una deriva molto più nazionalista rispetto al passato.
  La campagna elettorale è stata chiaramente incentrata su toni estremamente nazionalisti. Erdogan lo ha fatto perché sapeva perfettamente che il vero «nemico» era Demirtas, era l'HDP. Quindi, nonostante stiamo parlando di un partito che allora si pensava che, sì e no, avrebbe superato il 10 per cento e un partito che si aggirava allora al 50 per cento, quella era la vera competizione elettorale. Erdogan ha scelto di giocare la carta nazionalista e ha perso.
  Molti di questi voti sono anche transitati verso l'MHP, quindi verso un partito nazionalista. Perché è successo? È successo perché i nazionalisti, l'elettorato MHP ha invece preso in considerazione un altro dato importante, ossia gli scandali di corruzione, la spinta autoritaria di Erdogan in senso presidenzialista, quindi si sono allontanati dall'AKP per motivi completamente differenti.
  A questo aggiungo un terzo fattore che credo importante: il fattore economico. È vero che la Turchia oggi non è in crisi economica, però è anche vero che era un Paese che cresceva al 6-7-8 per cento fino a pochi anni fa e negli ultimi due o tre anni si aggira al 3 per cento. È un dato che noi ci sogniamo, però loro negli ultimi dieci anni erano abituati ad altro. Quindi, abbiamo qui parte dell’élite economica del Paese, dalle piccole e medie imprese alle imprese più importanti nel Paese, che si è pian piano distaccata sempre di più dall'AKP.
  Infine, abbiamo anche – questo è un fattore un po’ meno importante, perché se fosse stato importante si sarebbe già manifestato, come diceva Paolo Quercia, nelle elezioni municipali all'inizio di quest'anno – una parte della constituency islamista che ha rotto con l'AKP nel momento in cui l'AKP ha dichiarato guerra a quello che definisce «lo Stato parallelo», ossia il gruppo o il movimento legato a Fethullah Gulen. Questi sono i vari motivi di questo voto un po’ bizzarro, di questi voti transitati a partiti estremamente diversi e differenti tra loro.
  L'altro grande risultato di queste elezioni ha chiaramente a che fare con il partito curdo. Qui sottolineerei due punti principali. Il primo è che superando la soglia del 10 per cento, la logica stessa del 10 per cento viene meno in qualche modo. Se si era inserita questa regola, con la Costituzione del 1980, proprio per evitare che un partito etnico entrasse in Parlamento, ecco che abbiamo un partito comunque Pag. 11 pro-curdo che entra in Parlamento. Quindi, viene meno la logica.
  Inoltre, vediamo la trasformazione del partito curdo. Perché l'HDP è riuscito a attraversare e superare la soglia del 10 per cento? Certo, perché ha attirato molti dei voti curdi, ma anche perché si sta posizionando come un partito non esclusivamente curdo. Il partito, non a caso, si chiama Halkların Demokratik Partisi, al plurale, cioè partito democratico dei popoli, non del popolo curdo. Quindi, se vediamo le liste dell'HDP, notiamo che chiaramente ci sono molti curdi, ma ci sono anche turchi, ci sono alevi, ci sono armeni, ci sono islamisti e ci sono lesbiche, ci sono ambientalisti e ci sono liberali. Vediamo che l'HDP sta cercando di trasformarsi come partito e quindi, in qualche modo di rompere quella che è stata la corazza del partito esclusivamente curdo. Questo è un dato importantissimo per il partito curdo e per la democrazia turca in generale.
  L'ultimo punto che sottolineerei riguarda la maturità della democrazia turca. Credo che anche questo sia un dato molto importante che emerge da queste elezioni.
  Come ricordavano Paolo Quercia e l'Ambasciatore Marsili, negli ultimi anni si è parlato molto della deriva autoritaria della Turchia. Qualcuno addirittura associava la Turchia alla Russia di Putin. Stiamo qui parlando d'altro. È vero che in Turchia ci sono leader che hanno tendenze autoritarie, ma come esistono anche in Italia, anche in Francia, anche in Ungheria, anche in molte delle democrazie occidentali.
  Il dato importante è che abbiamo una società che ha un livello di maturità democratica che, nel momento in cui alcuni leader cercano di oltrepassare una determinata soglia, mette uno stop. Questo lo fece già nel 2002, quando di fatto fece fuori un'intera classe politica, laddove il voto del 2002 portò l'AKP al potere per la prima volta, e vediamo che lo ha fatto nuovamente nel 2015.
  Quali sono le implicazioni di questo voto? Qui farei una distinzione tra il breve e medio termine e il lungo termine. Nel breve termine, è chiaro che le prospettive non sono particolarmente rosee, perché, mentre è vero che c'è questa grande manifestazione di democrazia nel Paese, è anche vero che si apre una stagione di grande incertezza e di instabilità politica nel Paese. Come ricordava l'Ambasciatore Marsili, delle varie combinazioni delle possibili coalizioni nessuna sembra né particolarmente possibile né sicuramente sostenibile. Quindi, si apre sicuramente un periodo di grande incertezza. Anche se si dovesse riandare al voto, se non si riesce a formare una coalizione nei prossimi quarantacinque giorni, nulla garantisce che sarebbe un risultato elettorale particolarmente diverso da quello che abbiamo appena vissuto.
  Quindi, sicuramente vi è un'instabilità politica che si colloca all'interno di un quadro e di un contesto strategico molto complesso. Sappiamo che oggi in Turchia sono più o meno due milioni i rifugiati siriani; sappiamo che esiste un certo numero di cellule Daesh nel Paese; sappiamo che la Turchia ha una frontiera di ottocento chilometri circa con la Siria, che è impossibile sigillare completamente. È chiaro che tutto questo avviene in una situazione di estrema fragilità strategica.
  A questo si aggiunge anche un contesto economico che, come dicevo, non è drammatico, ma comunque non è quello che era pochi anni fa. Abbiamo un Paese che cresce al 2-3 per cento e, data la situazione di instabilità politica, abbiamo già vissuto un crollo della lira turca. La Turchia è un Paese che dipende fortemente dai flussi di capitali, perché ha una situazione strutturale di bilancia di pagamenti esteri – non voglio entrare nel dettaglio – che fa sì che la Turchia dipenda sostanzialmente dai mercati internazionali. È sicuramente, nel breve periodo, una situazione di incertezza e di fragilità.
  Per finire con un tono più ottimista, voglio sottolineare soltanto un paio di punti che riguardano la politica estera. Sicuramente non sappiamo che cosa succede nell'immediato, ma sappiamo che probabilmente ci sarà un «ricalibrare» la politica estera turca nel periodo prossimo. Pag. 12
  Sappiamo che, per motivi completamente differenti, l'MHP, l'HDP e il CHP sono tutti contrari all'attuale politica estera della Turchia. Lo ripeto, per motivi completamente differenti, sono tutti stati estremamente critici sull'accanimento di Erdogan e dell'AKP contro il regime di Assad in Siria, estremamente critici sulla politica «settaria» in senso sunnita e «settaria», all'interno del mondo sunnita, in senso pro-Ikhwan, pro-Fratellanza musulmana. Quindi, tutti e tre i partiti di opposizione sono contrari a questa politica estera.
  Immagino che, in qualche modo, questo avrà una manifestazione pratica nel modo in cui la Turchia interagirà, non soltanto con la Siria, ma anche con l'Iraq, con l'Iran, con il Golfo e con l'Egitto, per ricordare i Paesi che citavano Paolo Quercia e l'Ambasciatore Marsili.
  Infine, l'ultima nota sull'Europa. L'Unione europea ha osservato con grandissimo interesse queste elezioni. I rapporti tra Unione europea e Turchia sono stati estremamente incrinati negli ultimi anni, come sappiamo, e da entrambe le parti c'è una sorta di curiosità, una voglia di trovare un appiglio per voltare pagina. Da tutte e due le parti ci si rende conto perfettamente che Unione europea e Turchia hanno un grandissimo bisogno l'una dell'altra.
  C'è, a mio avviso, la possibilità di un momento di «inflessione positiva» che riguarda proprio Cipro in questo momento: le elezioni di Mustafa Akıncı a Cipro Nord, un Anastasiades presidente della Repubblica di Cipro che un tempo era pro-soluzione, poi negli ultimi anni, dato il contesto, si era un po’ irrigidito. Tuttavia, data l'opportunità, sicuramente rivolta pagina in senso positivo.
  Abbiamo l'Alto Rappresentante a Bruxelles coinvolta e committed ai rapporti con la Turchia. Abbiamo un Commissario cipriota a Bruxelles, anche lui estremamente pro-soluzione; era pro-soluzione, pro-piano Annan già nel 2004. Adesso abbiamo la riapertura del processo di pace a Cipro. Se si dovesse risolvere questa questione, dall'oggi al domani, i rapporti tra Turchia e Unione europea cambierebbero radicalmente, perché, dall'oggi al domani, otto più sei capitoli negoziali verrebbero scongelati. Sarebbe un cambio epocale nei rapporti che, lo ripeto, entrambe le parti in questo momento vorrebbero; bisogna capire qual è il meccanismo per farlo avvenire. Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie. Do la parola ai colleghi che desiderano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  MANLIO DI STEFANO. Ringrazio il presidente e i colleghi per la comprensione, ma abbiamo una riunione alle 15 e purtroppo dobbiamo scappare.
  Grazie per le illustrazioni che completano il quadro turco, che è abbastanza complesso. A me interessava sapere qualcosa in più di un argomento che non è stato trattato, ovvero il ruolo che sta avendo, nell'ultimo periodo, la Turchia relativamente alla questione dei foreign fighters e al rapporto con la parte più estremista del Medio Oriente. Vorrei sapere come si inquadra la Turchia in questa voglia di adesione all'Europa e al mondo occidentale, visto che comunque è alla luce del sole il fatto che ha anche un altro ruolo, che è quello mediorientale.

  VINCENZO AMENDOLA. Grazie, presidente, per questa seduta, che credo sia utilissima e, dal punto di vista mio personale e di altri colleghi, conferma quanto sia decisivo il rapporto tra Italia e Turchia. Non per portare malaugurio alla formazione del governo turco, però è evidente che l'Europa e, soprattutto, gli amici della Turchia, in questa fase, devono far sentire la propria voce – so che il presidente ha in animo anche una missione –, perché credo che il rapporto con le scelte del futuro governo turco ci riguardino.
  Io ho avuto la fortuna di osservare, con la delegazione OSCE, le elezioni. Confermo quello che è stato detto, in maniera egregia, dai nostri tre relatori: elezioni combattute, serie, dure – free and fair, per usare il linguaggio OSCE – che hanno visto però, nei giorni precedenti, qualcosa di strano. Il presidente Erdogan, come diceva la dottoressa Tocci, violando la Costituzione ha fatto la campagna elettorale, Corano in Pag. 13mano, contro i gay, gli alawiti e gli armeni. Questi erano gli slogan dei comizi elettorali, che riguardavano appunto i grandi protagonisti della campagna elettorale.
  Dall'altra parte, bombe a Diyarbakir, la stampa libera sotto accusa e un leader come Demirtas che si è giocato l'osso del collo, perché se non superava il 10 per cento sarebbe andato sotto e superando il 10 per cento ha cambiato la storia della Turchia. Onestamente era un partito – l'ho visto anche ad Ankara e Istanbul – che prendeva i voti forse nell’élite borghese, intellettuale e democratica, ma non assolutamente nel recinto curdo.
  Credo che proprio adesso noi, per le difficoltà che abbiamo avuto in passato sulla politica estera con la Turchia, dobbiamo essere più strettamente e saldamente accanto al percorso che si formerà da qui a poco, con le possibili coalizioni.
  La mia unica domanda tende a chiarire un dubbio che ho. Di tutto l'isolazionismo turco una cosa non si comprende, ed è il rapporto con la Russia. È vero che lo scettro della Fratellanza musulmana ha fatto saltare i rapporti soprattutto con i Paesi del Golfo; è verissimo che il ruolo che ha avuto la Turchia in Egitto fino alla Libia non è stato assolutamente un elemento di unità del mondo musulmano. Tuttavia, stranamente, si è prodotta – così alcuni osservatori dicono – una grande fratellanza con la Russia, sia economica – credo che la Russia stia per costruire una centrale nucleare in Turchia – sia di grande affinità umana tra i due presidenti.
  Allora, ecco la mia domanda. Visto che Putin è stato il primo a complimentarsi per il risultato dell'AKP (forse non aveva letto i dati completi, ma mi sembra che sia stato il primo): qual è la posizione russa e qual è il gioco della Russia, che nel Medio Oriente sta tornando protagonista? Questa è l'unica incertezza che ho.
  Per quanto riguarda l'Europa e l'Italia, queste elezioni confermano quanto sia necessario che noi siamo presenti, che vi siano legami stretti e che si faccia questo lavoro. Io difendo la democrazia turca per le cose che diceva la dottoressa Tocci. Come Erdogan, anni fa, è stato colui che ha rotto l'assedio, quello militare, tradizionale, kemalista, così anche la democrazia turca è riuscita a rompere un altro assedio che era un po’ opprimente, perché questa minaccia di cambiare la Costituzione a botte di maggioranza ha fatto ribellare larghi strati della società turca.

  VALENTINO VALENTINI. Ringrazio anch'io per questo interessante pomeriggio.
  Vorrei affrontare due temi che non sono stati toccati. Uno riguarda il ruolo dell'esercito. La Turchia è il secondo esercito della NATO e, in passato, prima dell'avvento dell'AK Parti, il deep State e l'esercito garantivano, in un quadro di grande incertezza politica, la stabilità della Turchia e il suo ruolo all'interno della NATO, con un rapporto molto stretto con gli Stati Uniti.
  Si può pensare, facendo un po’ di dietrologie, anche allo zampino degli Stati Uniti, che sicuramente non vedono di cattivo occhio l'indebolimento di Erdogan; e magari si può pensare che un ruolo più forte o rafforzato dell'esercito, che alcuni osservatori maliziosi dicono essere stato ridimensionato grazie alla prospettiva di adesione europea, sia servito, soprattutto nella prima fase del governo dell'AKP, per modificare appunto i rapporti con l'esercito e finalmente rimetterlo in una posizione più vicina alla democrazia.
  Ho sentito l'Ambasciatore dire che da parte dell'AK Parti molti vorrebbero tornare a votare, pensando di dare la colpa dell'instabilità ai partiti che sono entrati, quindi pensando velleitariamente di poter riconquistare delle posizioni. Specularmente, ho sentito anche valutazioni nel senso di evitare a tutti i costi le elezioni per aumentare questa erosione di consensi, che, abbiamo visto, si è manifestata. Secondo la teoria della vela e del vento, quando la vela prende vento tende a gonfiarsi e a continuare in quella direzione.
  Infine, terzo e ultimo punto, cito le probabilità dello spaccamento dell'AKP, con Gul che può prendere una serie di membri del partito con sé e segnare con questo, a mio avviso, veramente la fine dell'AKP come lo abbiamo conosciuto, e soprattutto la fine della parabola di Erdogan. Tuttavia, tendiamo tutti a dare dei Pag. 14macrogiudizi e a disegnare dei macroscenari: dal di fuori è facile talvolta anche trarre delle finalità che non ci sono. Quando si va alle elezioni, spesso – lo sappiamo tutti noi – la gente vota per antipatie, per questioni molto più spicce. Quindi, c'è questa mano invisibile della politica che poi ci consente di fare questi grandi disegni che stiamo discutendo.

  GEA SCHIRÒ. Grazie, presidente, di averci offerto e permesso questa importante audizione.
  Giusto le elezioni del 7 giugno – è difficile aggiungere qualcosa di più e meglio dopo i colleghi che mi hanno preceduta – l'unico punto è questo: il desiderio del popolo turco, dei cittadini turchi, evidentemente il bisogno di non negarsi contrappesi.
  Come è stato detto dalla dottoressa Tocci e dall'Ambasciatore Marsili, il comportamento del presidente Erdogan durante la campagna elettorale ha molto preoccupato i cittadini. Vorrei sottolineare un punto. Prima ho guardato il sito turco di sondaggi http://www.sondakika.com/, per vedere come, tra le grandi città, fosse focalizzato il voto: l'AK Parti vince bene, ma non stravince, solo ad Ankara, cioè la città governativa, la città-Stato, forse la «Pompei» di Erdogan; in quasi tutte le altre città, soprattutto di frontiera e sul mare, le città commerciali, le città affacciate al mondo, stravincono CHP e HDP. Dopodiché l'AK Parti si rifà e raggiunge il suo 40 per cento bene in tutte le campagne.
  Lo dico per riformulare il nostro pensiero. Ha grande ragione il collega che mi ha preceduta nel sottolineare che è facile fare delle analisi e degli scenari più che altro con i nostri desideri e i nostri occhi, piuttosto che cercando di capire delle realtà che non ci appartengono e ci sono estranee.
  Molti qui sanno quanto io sia appassionata della Turchia non solo in modo «antiquario», perché ho assunto l'impegno di proporre l'intergruppo per l'ingresso della Turchia subito in Europa, argomento che a volte viene trattato con il sorriso. Vorrei però ribadire come l'intergruppo e anche l'associazione di cui l'Ambasciatore Marsili è presidente nascano come un'aspirazione, come un punto di osservazione, che permette di non abbandonare né i colleghi, né il desiderio che una nazione, che chiude il corridoio balcanico, non debba assolutamente abbandonare né i princìpi costituzionali, né tutto un mondo di cui fa parte a pieno diritto, a cui queste elezioni hanno dimostrato quanto i suoi cittadini tengano.
  Volevo infine completare quello che ci diceva la dottoressa Tocci, perché Selahattin Demirtas ha eletto donne al 50 per cento, addirittura gli organi dirigenti del partito, presidente e «presidenta» (non c'è la collega Locatelli che avrebbe apprezzato più e meglio di me), cioè tutti gli organi dirigenti sono doppi; dopodiché ha eletto cristiani, armeni, yazidi, antimilitaristi, rom, lega LGBTI, portatori di handicap, ecologisti, e antimilitaristi: pochi curdi rispetto al numero di eletti.
  Forse dovremmo abbandonare il pregiudizio del partito curdo, perché il PKK continuerà a resistere, sicuramente dovrà esserci un dialogo, ma non mi sembra che l'HDP possa essere considerato un partito curdo. Grazie.

  ERASMO PALAZZOTTO. Io sono facilitato dalle domande che sono state fatte dai miei colleghi e mi unisco ai ringraziamenti per questa audizione, che ritengo sia fondamentale in questo momento, proprio perché la Turchia, nello scenario globale, riveste un ruolo importantissimo non solo per l'Europa, ma anche per tutta la regione mediorientale, essendo al centro di una delle vie di transito principali delle fonti di finanziamento e di approvvigionamento del Daesh e anche di transiti finanziari. Con poco risalto da parte del nostro sistema d'informazione, nei giorni scorsi è stato provato il transito attraverso i valichi turchi, verso le organizzazioni terroristiche legate al Daesh.
  Vorrei provare però a focalizzare l'attenzione su qualcosa che è accaduto in queste elezioni turche, che probabilmente cambia di molto il contesto. Credo che, al di là del risultato importante dell'HDP – che pone il tema del superamento dello sbarramento da parte di una forza che comunque si rifà, dal punto di vista originario, Pag. 15 al partito curdo, che nelle sue varie accezioni è stato più volte sciolto e dichiarato illegale in Turchia, che quindi si ritrova dentro l'HDP –; si produce un fatto politico nuovo che veniva adesso richiamato: esso fa questo salto di qualità, per cui da partito etnico diventa un partito che pone un'innovazione sul piano anche democratico, considerando gli aspetti, che venivano citati, sul meccanismo delle quote. La rappresentanza non viene, infatti, determinata solo dal fatto che li abbiano candidati, ma dal fatto che ci sono delle quote, sia di genere che etniche. Hanno fatto un'operazione con cui hanno offerto una proposta multietnica e hanno aggredito molto il piano dei diritti negati delle minoranze in Turchia.
  Questo passaggio di qualità li pone, nello scontro con Erdogan, non più solo sul piano delle rivendicazioni curde: quindi, oggi lo scenario che viene ritenuto più lontano è quello di una possibile alleanza tra Erdogan e l'HDP, che invece probabilmente, in un altro momento storico, tra un partito curdo ed Erdogan sarebbe stato possibile, anzi probabilmente è quello a cui per molto tempo ha lavorato Ocalan dal carcere, guidando il negoziato, rispetto alla possibilità di modificare la Costituzione insieme ad Erdogan ed essere determinanti.
  Oggi ci troviamo in questo stallo, che, secondo me, è un rischio, perché questa novità politica, questo vantaggio rischia di tradursi in un rischio giacché, se Erdogan viene spinto verso un'alleanza con i nazionalisti, potrebbe interrompersi il negoziato tuttora in corso e soprattutto riaprirsi un conflitto curdo. Le elezioni sono state, infatti, attraversate da molti attentati nella parte curda e i curdi in questo momento, come hanno dimostrato a Kobane, essendo molto legati ai curdi siriani da rapporti non solo di fratellanza o etnici, ma anche da rapporti politici e anche organizzativi, sono armati e sono in grado di contrastare. C'è il rischio che si riapra un conflitto curdo, davanti a un'ipotesi di alleanza tra i nazionalisti ed Erdogan?

  FRANCESCO MONACO. Mi hanno già anticipato i colleghi, ma volevo fare una domanda intenzionalmente un po’ ingenua, alla quale la dottoressa Tocci ha già risposto, quindi lo chiedo all'Ambasciatore e al dottor Quercia.
  Chiedo scusa, lo dico con il sorriso sulle labbra, un po’ ironicamente, guardando al sociologo: ho l'abitudine di fare qualche nota a margine mentre prendo appunti. Quindi, abbiamo una situazione complessa, un'analisi articolata, esiti, allo stato, imprevedibili, sia a breve che a medio termine, un giudizio incerto, e sorrido per i sociologi, perché siamo di fronte a quella che loro chiamano «l'ambivalenza» quando non vogliono impegnarsi in un giudizio di valore.
  Al di là della battuta, proprio perché non sono così informato e competente, ho bisogno di avere da voi un giudizio di valore sintetico circa quello che la dottoressa Tocci ha definito sinteticamente il «grado di maturità democratica» attestato da queste elezioni, che è il punto di vista nostro e dell'Europa in genere.
  Forse potremmo aggiungere un altro parametro, che però è implicito, che è quello della laicità delle istituzioni, se dovessimo esprimere in forma sintetica anche le condizioni di questo negoziato estenuante, che oggi conosce un’impasse, dell'adesione all'Unione europea, della quale l'Ambasciatore – se ho capito bene; chiedo conferma – ci ha detto e anche di un rovesciamento delle parti.
  Questa mattina abbiamo anche incontrato, come delegazione OSCE, l'Ambasciatore turco in Italia. L'abbiamo interrogato su questo, però, forse anche per la compressione dei tempi, non ha avuto tempo e modo di rispondere: se per tale questione, che ormai sembra quasi scomparsa dall'agenda europea, queste elezioni siano d'aiuto. La domanda è ingenua, perché ha una pretesa di semplificazione, in quanto l'ambivalenza oggettiva è che da un lato in queste elezioni sono stati sconfitti i tre obiettivi che Erdogan perseguiva in scala; i tratti autoritari, come diceva un eminente uomo politico italiano, Berlinguer, di quel regime sono stati sconfitti, ed è difficile non simpatizzare per un di più di articolazione democratica rispetto a questa soglia, quasi Pag. 16invalicabile, del 10 per cento. Questo va nella direzione auspicabile e auspicata. Non ricordo chi di voi ha detto che però vincono i partiti che, pur con i distinguo che avete fatto, hanno un elemento di revival di tipo etnico, nazionalistico, se ho capito bene, che invece è un segno non esattamente rassicurante, che purtroppo non è confinato solo in Turchia, ma è un problema dell'Europa in genere e anche di questo scacchiere.
  La mia domanda, lo ripeto è un po’ ingenua. Già la dottoressa Tocci ha articolato un giudizio sintetico sul grado di maturità democratica attestato da queste elezioni, ed essa è dunque rivolta anche agli altri nostri interlocutori, perché è perfino superfluo ribadire quanto detto da tutti i colleghi in merito alla centralità della Turchia dal punto di vista dello scacchiere mediorientale e delle sue turbolenze (per usare un eufemismo). E poi, come l'Ambasciatore evidenziava, non abbiamo mai guardato alla Turchia come a un modello e forse neanche come a un laboratorio, però certamente come a un esperimento interessante dal punto di vista dell'adesione all'Unione europea da parte di un Paese a maggioranza islamica. Noi guardavamo a questo esperimento senza farlo assurgere né a modello, né a super laboratorio.

  GIANNI FARINA. Permettetemi innanzitutto di salutare con gioia l'Ambasciatore Marsili. Ci conosciamo ormai da tanto tempo, e devo dire pubblicamente che è stato un maestro per centinaia di nostri dirigenti italiani nel mondo e ci ha aperto la via alla conoscenza di quel mondo.
  Ebbi la fortuna di stare con l'Ambasciatore nel 2004 a Istanbul, dove affrontammo una parte di questi problemi; poi ci sono ritornato più tardi, anche l'anno scorso, e ho percepito lo stravolgimento in senso positivo di questa società. Noi abbiamo il difetto, tutto occidentale, di giudicare i Paesi con il nostro metro, ed è totalmente sbagliato. Credo che il pericolo di involuzione della società turca sia stato anche dettato dai ritardi europei, da quel voler fare gli esami ogni volta, senza sapere che ogni società ha una sua storia e una sua tradizione.
  Io sono un fanatico sostenitore dell'entrata della Turchia nell'Unione europea, quindi, da questo punto di vista, non mi occorre fare troppi esami a quella società, e ho giudicato le elezioni un fatto straordinario, per alcuni motivi che cerco di dire molto affrettatamente e poi farò una domanda di fondo.
  La Turchia ormai è indubbiamente una superpotenza regionale euroasiatica, con alcune similitudini con l'altra grande superpotenza regionale che è l'Iran. I due mondi sono opposti, però meritano un chiarimento: queste due grandi superpotenze regionali che ruolo vengono ad avere nella futura politica mediorientale?
  L'altra questione è il rapporto con la Russia, che è fondamentale, e io ci vedo un progressivo – anche se attento – distacco da una politica che per tanto tempo è stata pro-americana o ha subìto l'influenza della superpotenza mondiale.
  Credo che la Turchia ambisca sempre di più ad un suo ruolo autonomo, pur nel mantenimento di un'alleanza, però questa è un'altra domanda che pongo. Il rapporto con la Russia è fondamentale per risolvere tutti i problemi del Medio Oriente, non dimenticando che lì oramai ci sono più di 2 milioni di siriani e che, quindi, anche alcune posizioni si possono capire; non condividere, ma comprendere: basta vedere il dramma che abbiamo di fronte oggi, con 50 mila profughi. Spesso dimentichiamo che in quei Paesi si vivono drammi terrificanti, che pure essi, con sacrifici e impegno, cercano di risolvere, cosa che l'Europa non fa. Sono un fanatico dell'ingresso della Turchia in Europa e un fanatico europeo, ma in ambedue i casi purtroppo ho elementi di forte tristezza.
  L'ultima questione che vorrei porre riguarda i curdi. Naturalmente ogni progresso porta delle contraddizioni che vanno risolte. Chiedo quindi ai tre relatori, visto che nel tempo abbiamo avuto occasione di parlare di questi avvenimenti con l'Ambasciatore Marsili, se questa dinamica curda, che non è solo un fatto turco, ma è un fatto mediorientale, che cosa può portare in futuro? Un popolo che viene a svolgere oggi un compito così fondamentale nel combattere Pag. 17 l'estremismo criminale e violento del Daesh che ruolo può avere domani? C'è una dinamica di fondo che può portare quel popolo a chiedere ciò che tutti sappiamo. Vorrei sapere quindi cosa veda in queste elezioni, se veda dei pericoli di divisione all'interno dello stessa società turca o, in ogni modo, quale sarà il ruolo curdo in questo contesto, così accelerato, di protagonismo di un grande popolo che si è però trovato a non avere una patria.

  ANDREA MANCIULLI. Concordando con molte delle cose dette, vorrei intervenire su un tema specifico. Se da un versante interno sono vere molte delle cose che sono state dette, queste elezioni hanno implicazioni anche sulla prospezione della Turchia all'esterno, sulla quale io continuo a vedere molte incognite.
  Ho fatto recentemente un viaggio in Israele, dopo le elezioni in Turchia ma, occupandomi di sicurezza e di NATO, ho frequenti relazioni che mi pongono questo tema. C'è una diffidenza sulla Turchia altissima in ambito NATO, in Israele e in alcuni Paesi arabi, tanto che molti commentatori, che sicuramente avrete letto come me, evidenziano come Turchia e Qatar avessero un legame con la Fratellanza musulmana e che però in queste elezioni pare abbia pesato meno l'apporto di sostegno che viene da quel mondo.
  È quindi evidente che questo voto, se da un lato apre uno scenario interno, non è chiaro quale scenario apra all'esterno, e invece questo punto è estremamente serio, perché in ambito NATO ormai con la Turchia quasi tutti sono per rapporti bilaterali, in tutti i dossier. Io, ad esempio, sto seguendo quello sul terrorismo di matrice jihadista, in cui è evidente che, da questo punto di vista, c'è anche una dinamica all'interno dei Paesi arabi, perché questo forte rapporto con la Fratellanza musulmana, che in questi anni ha visto nella Turchia, sia nella vicenda Libia che in altre vicende, il principale player, crea una diffidenza del mondo arabo della parte opposta, che va risolta.
  La domanda che, secondo me, dobbiamo porci, e che, quindi, pongo anche a voi, è quanto questa nuova stagione cambierà questo aspetto, che invece è molto rilevante sul futuro del Medio Oriente. Non è detto che il progresso interno sia ancora nelle condizioni di modificare questa parte che, a mio avviso, è molto rilevante.

  FRANCO CASSANO. Può darsi che mi sbagli e che questo derivi dalla superficialità delle mie informazioni, ma ho l'impressione che la Turchia sia più isolata all'interno del mondo islamico di altri Paesi.
  Si è detto che il recupero della dimensione dell'islamismo era un modo per reagire a un isolamento, ma ho l'impressione che, anche per la sua storia assolutamente originale, ci sia un elemento di solitudine, che forse ha anche inciso, a suo tempo, nella vicenda del rapporto con l'Europa, in modo che potesse apparire un approdo per l'unico Paese che era anche all'interno della NATO, in contrapposizione a un universo dei Paesi di tutta quell'area molto differente.
  Mi sbaglio e questo isolamento non c'è o dipende solo da alcuni fattori, oppure esiste un problema che deriva da questo?

  CARLO MARSILI, già Ambasciatore d'Italia ad Ankara. L'onorevole Amendola ha citato il rapporto con la Russia. Il rapporto tra Russia e Turchia è sempre stato effettivamente un rapporto ambivalente, nel senso che da un lato la Turchia ha sempre diffidato, fino alla caduta del muro di Berlino, molto fortemente della Russia e ha fatto una politica sempre antisovietica. Poi certamente c'è stato un riavvicinamento in questi anni, un riavvicinamento dovuto essenzialmente a motivazioni di carattere economico, perché la Turchia è un Paese che dipende dall'energia russa. D'altra parte, la Russia ha visto, e vede, nella Turchia un grande cliente, un cliente pagatore, e quindi il rapporto poggia molto su questa base economica.
  Sul piano politico le divergenze sono certamente piuttosto forti, perché sono completamente differenziate le posizioni di Erdogan e Putin sulla Siria, ma anche sull'Iran, sull'Egitto, sulla Libia, quindi sul piano estero le possibilità di incontro tra i due Paesi sono pressoché nulle. Quindi, è Pag. 18ambivalente in questo senso: interessi economici da una parte, divergenze nella politica estera dall'altro.
  L'onorevole Valentini ha parlato del ruolo dell'esercito, che in Turchia, in questi ultimi anni, è calato moltissimo; ma questo è anche frutto del negoziato europeo, che ha imposto fin dall'inizio alla Turchia due direttive fondamentali. La prima è instaurare la libertà religiosa, che prima era certamente messa sotto chiave; libertà religiosa significa libertà dell'Islam però, con tutto quello che ne consegue.
  Quando io sono arrivato in Turchia, il capo di stato maggiore delle forze armate turche era più elevato nella posizione non solo gerarchica, ma anche protocollare del suo ministro della difesa, cioè non rispondeva al ministro della difesa, ma rispondeva direttamente al primo ministro, con cui era paritario. Già è stato detto che questo non capita in alcun Paese europeo, quindi Erdogan è stato ben contento di rimettere l'esercito al suo posto, però questo ha significato colpire quello che la parte laica turca ha sempre considerato il baluardo contro la penetrazione islamica nel Paese.
  Tutti i capi di stato maggiore di questi ultimi anni e i comandanti militari che ho conosciuto sono stati in prigione accusati di complotto, poi però è venuto fuori che queste tesi erano infondate, si sono fatti 3-4 anni di prigione, adesso sono usciti. Il processo poi continuerà ma probabilmente senza alcuna conseguenza pratica.
  Cosa pensa l'esercito del governo? L'esercito è sempre stato contrario all'AKP, non c'è dubbio, ma l'attuale capo di stato maggiore e gli attuali comandanti militari hanno trovato, per forza, un sistema di convivenza e accettato questa logica, altrimenti avrebbero fatto la fine dei predecessori. Sono infiltrati dall'Islam? Io credo molto poco, perché l'apparato militare turco è assai chiuso: certamente qualche infiltrazione può esserci, però credo di no.
  Cosa faranno in futuro i militari? Credo che rispetteranno la democrazia, se la democrazia funzionerà; perché, se la democrazia, per qualche ragione, non funzionerà o ci sarà, in futuro, una più forte islamizzazione del Paese in caso di rivincita dell'AKP oppure il ruolo dei militari potrebbe anche cambiare, e il caso egiziano lo insegna. L'arrabbiatura di Erdogan nei confronti di Al Sisi, in Egitto, è anche dovuta al fatto che lui si è visto, in qualche modo, nei panni di Morsi. Questo, per ora, non è un rischio immediato per la Turchia, però non si può mai escludere.
  Quanto al ruolo di Gul, è veramente difficile dirlo. Certamente dei settori dell'AKP fanno riferimento a lui, perché c'è un'ala liberale all'interno, quella della destra tradizionale; però il partito è tuttora sotto il ferreo controllo di Erdogan, che decide tutto, quindi staccarsi dal partito lo vedo davvero complicato, anche perché rischia, in futuro, di non raggiungere il 10 per cento se non viene cambiata la soglia elettorale. Probabilmente Gul cercherà di rosicchiare all'interno del partito delle posizioni maggiori, in modo da far sì che l'ala liberale diventi, se non quella determinante, comunque un'ala con cui fare i conti all'interno del partito.
  Certamente, onorevole Schirò, la spaccatura geografica elettorale che c'è stata adesso è quella tradizionale, cioè tutta la costa turca, da sotto Istanbul fino al confine siriano, ha sempre votato per il partito di Atatürk, anche perché ci vive una popolazione che ha sempre avuto maggiori contatti con l'Europa, con l'Occidente, che, in qualche modo, possiamo considerare più evoluta.
  L'AKP è molto forte nelle province anatoliche dell'interno, anche a Istanbul, ma meno, in proporzione. Con la perdita di tutto l'est dalla Turchia, che prima invece l'AKP aveva, indubbiamente adesso finisce per essere più relegato nelle province anatoliche, anche se è abbastanza consistente anche ad Ankara e a Istanbul.
  L'onorevole Palazzotto aveva parlato di Daesh e foreign fighters ed armi che sono passate là, però non è facile dirlo, perché è vero che il quotidiano Cumhuriyet ha pubblicato e rivelato un passaggio di armi dalla Turchia alla Siria, ma che queste armi fossero destinate al Daesh è una ipotesi, che anche Antonio Negri ha esposto due o tre giorni fa su Il Sole 24 Ore. Il governo Pag. 19turco sostiene che quelle armi fossero dirette ai turkmeni. Non so chi abbia ragione. Dei foreign fighters sono stati fermati dalla polizia turca e rispediti nei Paesi europei di origine; quanti siano i turchi che militano tra i foreign fighters è difficile dirlo, ma certamente meno di quelli che provengono dall'Inghilterra o da altri Paesi europei.
  Bisogna però tener presente le circostanze del Paese, in quanto il governo turco è assolutamente contrario al Daesh perché ne ravvisa la pericolosità, se non altro perché ha due milioni di siriani al proprio interno. Tra questi, ci sono infiltrati del Daesh, ma il vero timore del governo turco è la formazione di uno Stato curdo. Questo è il timore dalla Turchia, più del Daesh.
  Se i curdi ricavano un territorio, come probabilmente avranno, perché combattono loro contro il Daesh e, alla fine, presenteranno il conto, se si ricaverà uno Stato curdo al confine, il governo turco – qualunque governo turco, non solo Erdogan – teme che questo sarà un polo di attrazione per i curdi dell'est della Turchia. Se i curdi dell'est della Turchia non otterranno le soddisfazioni che rivendicano sul piano delle autonomie regionali (qualcuno di loro vuole separarsi, ma sono la minoranza), il problema diventerà molto grave. Bisogna dunque tener presente che più del Daesh, la Turchia teme uno Stato curdo ai suoi confini.
  Per quanto riguarda l'agenda dell'Unione europea e se queste elezioni aiutino o non aiutino, onorevole Monaco, sono convinto che l'agenda dell'Unione europea resti assolutamente tra le priorità non solo del governo turco, ma di tutti i partiti politici turchi.
  Non solo la Turchia però deve fare i compiti a casa, perché è vero che li deve fare sul piano della libertà di stampa, dell'estensione dei diritti civili e molti altri, ma non si può bloccare un negoziato che era stato approvato all'unanimità nel 2004 soltanto perché in Francia è cambiato presidente e questo, che era Sarkozy, detesta la Turchia per motivi che nessuno comprende, a cominciare dai due Presidenti del Consiglio che hanno visitato Ankara ai miei tempi, l'onorevole Berlusconi e l'onorevole Prodi, che hanno entrambi detto di non comprendere il motivo di questo suo odio viscerale.
  Ormai le cose stanno così. Certamente l'incremento di voti che ha avuto il partito nazionalista non è rassicurante e, se si dovesse formare un governo tra l'AKP e il partito nazionalista, questo, a mio avviso, avrebbe delle ricadute molto sfavorevoli anche sul piano internazionale.
  L'onorevole Farina ha parlato della questione dell'Iran, della Russia e, infine, dei curdi. Anche i rapporti tra Turchia e Iran sono stati ambivalenti, nel senso che la Turchia è stato un Paese che ha sostenuto, anche in sede di Nazioni Unite, l'opportunità di non estendere all'Iran le sanzioni qualche anno fa, perché allora aveva dei rapporti positivi soprattutto sul piano commerciale. Adesso, invece, c'è uno scontro tra i due Paesi, che sono i due grandi Paesi, l'uno del Medio Oriente e l'altro europeo mediorientale, sulla questione siriana e sulla questione della strategia nel Medio Oriente. D'altra parte, il Governo turco è fortemente sostenitore dei sunniti, in quanto il partito di Erdogan si identifica soprattutto con il mondo sunnita, anche se in Turchia si dice ci siano 10-15 milioni di aleviti, che non sono esattamente sciiti, ma sono ad essi assimilabili; l'Iran è un Paese sciita e quindi lo scontro tra i due è inevitabile sul piano di chi, alla fine, in Medio Oriente comanda o avrà un ruolo maggiore.
  La Turchia è un Paese della NATO da sempre, dal 1950, e non ha alcuna intenzione di uscire dalla NATO. Naturalmente all'interno della NATO ci sono queste diffidenze, perché la politica estera turca, di questi ultimi anni soprattutto, non ha fatto nulla per toglierle di mezzo, anzi, semmai le ha incrementate.
  Credo che la Turchia resti un fedele Paese alla NATO, ma indubbiamente finora Erdogan ha potuto svolgere un ruolo che le consentiva di essere Paese NATO, ma anche di fare una sua politica mediorientale in contrasto per certi aspetti con la posizione della NATO. Queste elezioni lo costringeranno a rivedere la posizione, perché era solo una posizione dell'AKP, perché l'opposizione Pag. 20 in Turchia è molto più integrata nella NATO, quindi meno disposta a svolgere politiche autonome, ad eccezione del partito nazionalista che ha una certa diffidenza nei confronti della NATO, anche se non la mette in discussione.
  Per quanto riguarda questa prospezione della Turchia all'esterno, so anch'io che la diffidenza di Israele è molto forte, per i fatti che loro sanno benissimo, come la questione della Freedom Flotilla e la difesa, molto forte, dei palestinesi da parte di Erdogan.
  Certo, non è facilissimo, se posso permettermi un giudizio, andare d'accordo con l'attuale governo israeliano, che ha delle sue rigidità che indubbiamente si scontrano con le altre rigidità di Erdogan, quindi il dialogo tra i due, sul piano politico, è difficile.
  Sul piano economico, le relazioni vanno avanti benissimo, sono relazioni sempre strette, ci sono sempre turisti israeliani che vanno tranquillamente al mare ad Antalya. Quindi, in realtà, è un problema tra questi due governi attuali, ma tutto gioca a favore di una revisione in positivo di questi rapporti nel momento in cui cambiassero gli equilibri politici a Tel Aviv e ad Ankara.
  Sono perfettamente d'accordo con l'onorevole Cassano, che ha parlato di isolamento, di solitudine: la Turchia è un Paese che, in questo momento, si sente isolato sul piano internazionale. Si sente isolato dall'Europa perché l'Europa gli ha bloccato i capitoli negoziali; si sente isolato in Medio Oriente, però poteva fare a meno di autoisolarsi, nel senso che la politica mediorientale della Turchia di questi ultimi anni l'ha portata a essere conflittuale praticamente con tutti i Paesi vicini, a parte il Kurdistan iracheno.
  Queste elezioni hanno però giocato un ruolo importante anche nella politica estera turca, come aveva detto anche la dottoressa Tocci, perché gli altri partiti non condividono questa posizione. Il CHP, l'MHP, l'HDP non sono affatto così convinti che bisogna battere Assad: anzi capiscono che forse dopo Assad c'è il peggio, quindi hanno sempre criticato duramente la politica anti-Assad di Erdogan.
  Un recupero della solitudine mi pare molto difficile nel mondo arabo, perché il mondo arabo – cosa che Erdogan ha dimenticato – ha sempre diffidato profondamente della Turchia, se non altro perché le era stato sottoposto per secoli. Credo che possa esserci un recupero soltanto sul piano europeo; e, se ci sarà questo recupero sul piano europeo, la Turchia finirà di sentirsi isolata.

  PAOLO QUERCIA, Direttore del Center for Near Abroad Strategic Studies (CeNASS). Le domande sono tante, tutte molto qualificate e io non ho l'abilità dell'Ambasciatore Marsili di rispondere così brevemente, in maniera estensiva. Ne prendo solo tre o quattro, cercando di accorpare alcune delle risposte.
  Volevo iniziare dal punto dei foreign fighters e della Turchia, che però riprende anche quanto detto dall'onorevole Manciulli. Secondo me, queste elezioni ci dicono che la politica estera, la politica dell'AKP come l'abbiamo avuta fino ad oggi, è arrivata a un punto di reset: sono chiaramente arrivati al pettine nodi che da tre, quattro, cinque o più anni vengono portati dietro; e alcuni devono essere «resettati», altrimenti non è possibile formare coalizioni di governo, né ricostruire un sistema politico stabile. Sarà un processo che avverrà nell'arco di una legislatura, forse ci saranno dei governi di minoranza, però questo dovrà avvenire.
  Il tema è quali saranno i punti sui quali l'AKP ed Erdogan, che rimangono, rispettivamente il partito di maggioranza e l'uomo che ha le chiavi della vita politica turca, decideranno di cedere: quali linee rosse delle tante che contraddistinguono la politica dell'AKP verranno portate leggermente indietro per incontrare una situazione nuova sia interna, sia soprattutto internazionale.
  Continuo, infatti, a ritenere che, come molto di quello che è successo dentro la Turchia negli ultimi dieci anni è legato anche al conflitto che c'è stato in Iraq dal 2003 in poi, queste elezioni siano fortemente contraddistinte dal conflitto siriano. Io sono molto per il driver esogeno: non che non riconosca che esistono importanti motivi Pag. 21 interni che hanno spostato il voto, ma ritengo che quanto avviene qui, ora, in questo specifico momento sia prevalentemente dovuto a fattori esogeni. Penso che anche voi, decidendo di parlare della Turchia nella Commissione affari esteri, avevate immaginato questo tipo di contesto, quindi mi permetto di affrontarlo da questo punto di vista.
  Per questo ho parlato di quanto sta accadendo nelle ultime due settimane a Tel Abiad, perché è paradossale: città al confine come Kobane e gli Stati Uniti d'America, il più importante Paese della NATO, che supportano militarmente l'avanzata di una formazione militare legata al partito politico dei curdi di Siria, che non è un partito come l'HDP e neanche come il Kurdistan Regional Government, ma è un partito che appartiene più alla famiglia dei tanti partiti curdi, che sono tanti e divisi tra loro, di affiliazione PKK. Ricordiamo che il PKK è un'organizzazione giudicata terroristica negli Stati Uniti d'America, così come in Europa e in Turchia, però un partito dei combattenti riconducibili a questo contesto combattono per chiudere l'ultimo spazio che unisce la Turchia alla capitale del Daesh, cioè il cordone ombelicale. Su cosa realmente passasse da questo cordone ombelicale, come dice l'Ambasciatore, bisogna anche essere scettici, però questo è il contesto.
  Dall'altra parte, abbiamo, invece, una Turchia, che è Paese NATO, che di fatto sulla partita siriana è più alleata in un triplice sistema con Arabia Saudita e Qatar che con gli Stati Uniti d'America o con altri Paesi della regione, e trova gli stessi problemi nei rapporti con l'Iran o con la Russia per quanto riguarda la Siria.
  È chiaro che – è la mia teoria – sulla guerra civile siriana la politica estera di Erdogan ha fatto un corto circuito, che si è travasato internamente come un vaso comunicante, debordando dall'estero all'interno della Turchia e portando a un reset di molti dei paradigmi politici che erano stati determinanti in Turchia.
  Con questa chiave di lettura si può allora parlare di cosa è l'HDP: un partito molto complesso, perché i curdi hanno lasciato un partito regionale che è il BDP, che ha il voto della parte etnicamente curda del Paese, e hanno creato un altro partito non curdo, ma affiliato, che raccoglie i voti di un altro tipo di Turchia, che non è solo etnica ed è basata sul concetto di minoranza. Attenzione, però, perché in Turchia il concetto di minoranza spesso è un concetto rivoluzionario, perché la Turchia non conosce il concetto di minoranza come lo conosciamo in Occidente; e non mi addentro oltre, perché due minuti non sono sufficienti per aprire questo «vaso di Pandora». Le minoranze che la Turchia riconosce – e che riconosceva l'Impero Ottomano – sono quelle religiose non musulmane; per le altre esistono questioni molto complesse, che non possono essere affrontate in questa mia risposta.
  Concludo parlando dell'HDP e dicendo che l'importanza di questo voto è che si è creato un quarto blocco nella politica estera turca: c'è un blocco kemalista, c'è un blocco nazionalista, c'è un blocco islamista e c'è un nuovo, quarto, blocco. Era dalle elezioni del 1999 che non esistevano quattro partiti nel Parlamento turco: ce ne sono stati due nelle elezioni successive al 1999 e poi sempre tre, adesso sono nuovamente quattro. Il problema è cosa e chi riempie questo contenitore, che ha la capacità di raccogliere molti più voti di quelli che ha preso alle ultime elezioni, come avevamo già visto dalle presidenziali, perché è stato un crescendo, dalle locali alle presidenziali e a queste politiche.
  Chiaramente è un contenitore che può portare in Europa, sviluppando in Turchia un concetto di libertà, democrazia, minoranza molto simile a quello che conosciamo noi; ma le minoranze possono avere anche proprie perversioni, come le maggioranze, possono essere nazionaliste e antidemocratiche, come le maggioranze, quindi starei attento, perché questo contenitore può rischiare di attivare e di creare, all'interno del fronte curdo e all'interno di questo fronte religioso degli alevi, possibili politiche identitarie di base nazionale e religiosa, che sarebbero estremamente destabilizzanti del sistema politico interno turco e anche della sua politica estera. Pag. 22
  Concludo con la domanda ingenua, che, in realtà, è la domanda più difficile, se dobbiamo essere contenti o meno del voto. Avremmo dovuto esserlo se la Turchia non si fosse così compenetrata con il caos che si è creato – in parte, anche per gli errori turchi – nel suo estero vicino. A questo punto, è molto più difficile dare una risposta, perché non so più se stiamo discutendo di Kurdistan, di elezioni interne, di democrazia, di Europa, di nazionalismo, di minoranze. In linea teorica, sì, è un successo per la democrazia, ma, come abbiamo visto con le «primavere arabe», tanti successi della democrazia non sempre danno le conseguenze relative alla sovranità, alla tenuta, alla capacità che ci aspettavamo. Credo che queste elezioni turche ci facciano sempre più riflettere sul fatto che anche la libertà e la sovranità devono riuscire a produrre un'effettività nella gestione del potere.

  NATHALIE TOCCI, Vicedirettrice dell'Istituto Affari Internazionali (IAI). Cerco di raggruppare brevemente alcune delle domande.
  Primo punto su alcune delle dinamiche interne. Circa lo spaccamento dell'AKP, ad oggi, non credo che sia una possibilità. È invece una possibilità, che segue un ragionamento forse un po’ troppo razionale per la politica, ossia una situazione di difficoltà oggettiva di Erdogan, che non riesce a mettere insieme una coalizione di governo e che, quindi, lascia ai moderati del partito – leggi Gul – prendere le redini del potere, e questo sicuramente faciliterebbe una coalizione con il CHP o – ancor più facile – con l'HDP. Un po’ troppo razionale per Erdogan, che è uno street fighter e quindi, pur di non lasciar spazio ad altri, va allo spaccamento del partito, che, ad oggi, non credo sia una possibilità.
  Il rischio più grande – sono d'accordo con l'onorevole Palazzotto – è, invece, una coalizione AKP e MHP. Delle possibili combinazioni è molto difficile, ma è la più possibile, non è probabile; ed è un rischio, perché sicuramente metterebbe il punto sul processo di pace curdo, che, in una situazione di instabilità regionale, è chiaramente un rischio enorme. Vedrei questo come il pericolo più imminente.
  Sulla questione foreign fighters i contatti e gli studi mi hanno portato ad essere abbastanza convinta che la Turchia sia contro il Daesh; non era questa la situazione fino a un anno fa, ma, ad oggi, è così. Ci sono delle difficoltà oggettive: una frontiera di 800 chilometri, una presenza di cellule interne, che fanno sì che loro non possano essere i primi nel fronte anti-Daesh, perché è troppo il rischio di sicurezza interno, la presenza di due milioni di rifugiati, tutte cose già citate.
  Il vero problema è, secondo me, un altro, ossia che non solo la Turchia, ma anche Israele, i Paesi del Golfo, alcune constituencies negli Stati Uniti, molti in Francia iniziano a fare la distinzione – a mio avviso, pericolosissima – tra i jihadisti buoni e quelli cattivi: quindi Al Nusra, ossia Al Qaeda, sarebbero i jihadisti buoni, quindi il sostegno all'armata della conquista, distinti dai jihadisti cattivi, il Daesh. Qui a me inizia a venire la pelle d'oca, perché credo che questa distinzione non sia possibile e che, nella pratica, molti di questi foreign fighters transitino da un gruppo all'altro a seconda dei vari cicli di questi movimenti. Si tratta, quindi, di una situazione estremamente fluida e fare una distinzione diventa un esercizio accademico estremamente pericoloso. Questo è quello che sta facendo la Turchia, ma non solamente la Turchia, e credo che sia un pericolo a cui anche in Italia bisogna fare molta attenzione.
  Isolamento della Turchia. Vorrei fare soltanto un breve cenno storico: la Turchia è sempre stata considerata e si considera «lupo solitario». In realtà, l'eccezione sono stati gli ultimi vent'anni: abbiamo avuto prima un'apertura nei confronti del nord della Turchia, i Balcani, l'area euroasiatica, a seguito del crollo del muro, e, negli ultimi dieci anni, abbiamo avuto un'apertura a sud, ma fino ad allora la Turchia non aveva relazioni se non soltanto nei confronti dell'Occidente.
  Assistiamo, quindi, a questa normalizzazione della Turchia negli ultimi vent'anni, che poi, negli ultimi quattro- Pag. 23cinque anni, ha avuto questi problemi e questo crescente isolamento, però lo vedrei in un contesto più storico.
  L'ultima serie di punti che volevo toccare riguarda da un lato, la Russia, dall'altro, Israele e dall'altro ancora, l'Iran, tre Paesi che è difficile accomunare, ma quando si parla di politica estera turca li metto esattamente nella stessa categoria, ossia la categoria di Paesi con cui la Turchia storicamente ha avuto rapporti estremamente pragmatici. Da un punto di vista ideologico, vi sono sempre state frizioni ed esistono ancora oggi, ma, al di là dell'ideologia e delle dichiarazioni politiche, sono tre rapporti che hanno sempre manifestato un livello di pragmatismo altissimo.
  A livello ideologico, sicuramente Turchia e Russia si trovano su fronti opposti per quanto riguarda la Siria, in generale il confronto sunnita/sciita, in generale l'atteggiamento verso l'islamismo, quindi chiaramente stiamo parlando di mondi a parte.
  Guardando a nord, se parliamo di Ucraina, anche lì la Turchia ha posizioni molto critiche nei confronti della Russia, c'è la questione specifica dei tartari della Crimea, quindi sono su fronti opposti. Però poi andiamo a vedere nella pratica e vediamo che, cancellato South Stream, abbiamo Turkish Stream, che adesso inizia in maniera abbastanza saggia, ma comunque minimalista, con un primo pipeline, ma che poi potrebbe passare a due e possibilmente arrivare fino a quattro (non credo, ma sicuramente si parte con uno). Hanno rapporti commerciali che vanno alla grande, anche perché i turchi hanno beneficiato del fatto di non aver sottoscritto le sanzioni europee nei confronti della Russia, c'è la centrale nucleare: quindi a livello economico e commerciale c'è un enorme pragmatismo.
  Questa è la stessa storia dei rapporti tra Turchia ed Iran e Turchia ed Israele. Negli ultimi anni si è parlato molto dell'incrinarsi dei rapporti tra la Turchia e Israele ma, se si va a vedere i dati commerciali, negli ultimi due anni sono schizzati. Al di là della chiacchiera politica, quindi, la base di rapporti continua ad essere estremamente solida.
  Idem per l'Iran. Anche lì si ritrovano su fronti opposti sulla Siria – è il caso più eclatante – ma parliamo della frontiera più antica del Medio Oriente, con il Trattato di Costantinopoli del 1590. Sono circa un milione gli iraniani che, ogni anno, vanno in Turchia: la Turchia ha una politica molto liberale, quindi non richiede il visto per entrarvi, e, di fatto, è l'unico Paese nel contesto occidentale a cui l'Iran ha libero accesso.
  Forti rapporti commerciali, forti rapporti energetici; quindi paradossalmente sono tre Paesi con cui la Turchia convive, con screzi ideologici e pragmatismo, nel rapporto bilaterale. Grazie.

  PRESIDENTE. Ringrazio i nostri ospiti e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 16.05.

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