XVII Legislatura

III Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 5 di Giovedì 10 aprile 2014

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Scotto Arturo , Presidente ... 2 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA PROIEZIONE DELL'ITALIA E DELL'EUROPA NEI NUOVI SCENARI GEOPOLITICI. PRIORITÀ STRATEGICHE E DI SICUREZZA

Audizione di Marco Massoni, segretario generale dell'Institute for global studies e direttore di ricerca per l'Africa presso il Centro militare di studi strategici (CeMiSS), con riferimento al Corno d'Africa.
Scotto Arturo , Presidente ... 2 
Massoni Marco , Segretario generale dell'Institute for global studies ... 2 
Scotto Arturo , Presidente ... 13 
Quartapelle Procopio Lia (PD)  ... 13 
Locatelli Pia Elda (Misto-PSI-PLI)  ... 13 
Scotto Arturo , Presidente ... 14 
Massoni Marco , Segretario generale dell’ ... 14 
Scotto Arturo , Presidente ... 16

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: FI-PdL;
Scelta Civica per l'Italia: SCpI;
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Nuovo Centro-destra: NCD;
Lega Nord e Autonomie: LNA;
Per l'Italia (PI);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero-Alleanza per l'Italia: Misto-MAIE-ApI;
Misto-Centro Democratico: Misto-CD;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI.

Testo del resoconto stenografico
Pag. 2

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE ARTURO SCOTTO

  La seduta comincia alle 8.55.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di Marco Massoni, segretario generale dell'Institute for global studies e direttore di ricerca per l'Africa presso il Centro militare di studi strategici (CeMiSS), con riferimento al Corno d'Africa.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla proiezione dell'Italia e dell'Europa nei nuovi scenari geopolitici, priorità strategiche e di sicurezza, del dottor Marco Massoni, segretario generale dell'Institute for global studies e direttore di ricerca per l'Africa presso il Centro militare di studi strategici (CeMiSS), con riferimento al Corno d'Africa.
  Ricordo che nella seduta di ieri il termine per lo svolgimento della suddetta indagine è stato prorogato al 31 luglio prossimo. Nelle prossime settimane avremo altri incontri e audizioni.
  Ringrazio della sua presenza il dottor Massoni e lo invito a svolgere il suo intervento.

  MARCO MASSONI, Segretario generale dell'Institute for global studies. Afro-realismo e continuità geopolitica fra Africa subsahariana e Mediterraneo: si è sempre parlato di afro-pessimismo, qualcuno parlava di afro-ottimismo, ma proviamo a vedere come stanno le cose oggi. So che ci sono parlamentari profondamente conoscitori dell'area e questo è molto importante.
  Ricordo che quando svolsi la tesi di dottorato di ricerca in filosofia africana e interculturale il presidente della commissione mi disse che lui non parlava l'africano. Io gli risposi che probabilmente non parlava neanche l'europeo. Cito questo aneddoto per dire che occorre fare attenzione a un certo provincialismo nell'affrontare un continente (che alcuni, purtroppo, chiamano ancora «Paese»), che è per noi strategico da tutti i punti di vista.
  Pianificare una strategia di maggiore incisività politica ed economica in Africa potrà giovare significativamente alla fuoriuscita dalla recessione in cui versa il nostro Paese. Questo, secondo me, è uno statement di sfondo, su cui cercherò di svolgere alcune riflessioni legate sia al Corno d'Africa allargato, cioè al Grande Corno d'Africa, che ad altri flussi politici che avvengono nel continente.
  Per guardare scevri da preconcetti l'Africa odierna, è urgente superare il gap fra percezione e realtà, il divario fra immaginario ed attualità e la distanza fra pregiudizio ed opportunità.
  Il nostro Paese, come altri, sconta quello che alcuni definiscono il fallimento della strategia congiunta Unione europea-Africa. L'ultimo vertice della scorsa settimana in parte può testimoniarlo, nonostante alcuni esiti interessanti. Questo fallimento è basato sul fatto che la maggior parte degli altri Paesi europei portano Pag. 3avanti azioni unilaterali (l'europeismo finisce in Africa prima che altrove), in parallelo con un'ambiguità della politica estera comune nei confronti di questo continente. Sono frasi forti, che cercherò di dimostrare.
  Il provincialismo si vede anche nel fatto che molti di questi Stati – noi compresi – sono stati colonialisti.
  Vorrei accennare brevemente che con l'Institute for global studies (IGS) siamo in procinto di pubblicare un quadrimestrale che si chiamerà Politica africana. Il primo numero è dedicato ai conflitti; il secondo, che uscirà in estate, all'internazionalizzazione di imprese in Africa. Vi ho consegnato una copia dell’Osservatorio strategico-prospettive globali del CeMiSS. Siamo anche in procinto di avere il Panorama difesa e sicurezza 2014, che spero possa contribuire al dibattito, con l'articolo sull'Africa che avete ricevuto in copia.
  Il Grande Corno d'Africa concerne non solamente i Paesi del Corno d'Africa, ma anche quelli confinanti, ovvero quelli dell'Intergovernmental authority on development (IGAD), una delle comunità economiche regionali, che sono fondamentalmente i motori di integrazione, in primis economica, ma in parte anche di risoluzione di conflitti o di tentativi in questo senso, che l'Unione africana avoca a sé per la propria attività di unica piattaforma intergovernativa continentale, che si rapporta bilateralmente, multibilateralmente e multilateralmente con tutto il resto del mondo. I Paesi a cui mi riferisco sono: Sudan, Sud Sudan, Eritrea, Etiopia, Gibuti, Somalia, Kenya e Uganda.
  Da mero bacino di risorse naturali a protagonista con un ruolo politico economico e finanziario a livello internazionale tuttora in fieri, il continente africano sta diventando il teatro della competizione mondiale a tutto tondo, dove la rapidità dei tempi della globalizzazione destituisce di fondamento numerosi stereotipi e pregiudizi paternalistici di matrice neocolonialista, che si dimostrano sempre più desueti ai più accorti e perspicaci player internazionali, stricto sensu post-occidentali.
  Non c’è tempo oggi, ma io ne scrivo e ne possiamo parlare con piacere. Non dico di essere depositario della verità, ma vi faccio un'interpretazione in sintesi di quello che è accaduto in Mali, un modello riportato nella Repubblica Centrafricana in questi due anni (fondamentalmente dalla primavera del 2012 fino ai primi di quest'anno). Ciò che è avvenuto non è altro che la prima guerra indiretta di un Paese dell'Unione europea, adesso corroborato anche da altri alleati cugini (la Francia in primis) contro l'espansionismo continentale di un grande player africano (il Sudafrica) da un lato e della Cina dall'altro, nel tentativo di arginarne le mire espansionistiche su una filiera che dovrebbe essere quella dell'uranio.
  Probabilmente questa guerra è anche collegata a un riposizionamento della Francia nell'alveo della politica americana, che nasce, soprattutto in quella regione, con la dottrina Clinton. Terminati i trent'anni di guerra tra Etiopia ed Eritrea, diventate definitivamente indipendenti, e con una presunta normalizzazione della Somalia, che poi non ebbe luogo, la linea Clinton voleva vedere uniti tutti i Paesi del Grande Corno d'Africa, di modo tale che si potesse arginare la penetrazione, fosse anche solo immateriale, da parte del mondo wahabita e in generale dell'Arabia Saudita.
  Negli anni Novanta il Rwanda è stato un forte esempio di questo disallineamento fra la politica francese e quella americana o anglosassone, tenuto conto della fortissima presenza israeliana nell'area. Gli accordi segreti con Asmara per il controllo delle isole Dahlak e il proselitismo in Uganda sono fenomeni che io non giudico ma descrivo, per dare la magnitudo di politiche molto extracontinentali, nei confronti di Paesi giovani che in parte ci riguardano, perché fanno parte della nostra storia.
  È importante sottolineare che a volte con gli studenti ho avuto delle difficoltà a spiegare che ad Adua nel 1896 non c'era il Governo fascista. C'era l'Italia, ancor prima della deriva fascista, che tornò nel Corno d'Africa. Occorre fare attenzione a Pag. 4ricordarci che abbiamo una tradizione, che spesso abbiamo timore ad affrontare fino in fondo.
  Tra il 2001 e il 2010 sei delle nazioni che sono cresciute più rapidamente al mondo erano africane: Angola, Nigeria, Etiopia, Ciad, Mozambico e Rwanda. Entro il 2015 saranno africani sette dei dieci Stati a maggiore crescita: Etiopia, Mozambico, Tanzania, Congo, Ghana, Zambia e Nigeria. È una notizia degli ultimi giorni che la Nigeria ha appena superato in termini di PIL il Sudafrica, nonostante le contraddizioni che noi italiani, forse più di altri, tendiamo a non capire fino in fondo.
  Fino al 70 per cento delle economie di questi Paesi sono di tipo informale, cioè non sono contabilizzate e non sono accountable. Di conseguenza, paradigmi mentali oggettivi internazionali, riconosciuti e riconoscibili, di accountability sono difficilmente applicabili in Paesi che hanno una propensione (questo non è razzismo), sic stantibus rebus, a mantenere l'economia non perfettamente controllata. Probabilmente su questo noi italiani nell'Unione europea siamo più esperti di altri.
  Al di là della problematica della difficile redistribuzione delle ricchezze, che resta uno dei nodi principali (il fatto che l'Angola cresca così tanto non significa che in Angola si viva bene, a meno che non si sia imparentati con la famiglia del Presidente), è interessante che una delle ragioni per cui gli Stati appena citati stanno crescendo così tanto è che hanno saputo sviluppare una rete diversificata di partenariati, non più solo con interlocutori strettamente occidentali e, quindi, di fatto sono maggiormente liberi da condizionamenti unilaterali.
  La diversificazione dei partenariati, con la Cina in primis ma non solo, aiuta, anche se in seguito vedremo brevemente che con la Cina si contraggono debiti da cui i singoli Stati-nazione difficilmente potranno liberarsi.
  Si prevede che il PIL africano passerà dagli attuali 2.000 miliardi di dollari circa a 30.000 miliardi nel 2050. Sono stime fatte da un centro studi russo e, di conseguenza, vanno prese un po’ con le pinze, però sono interessanti per pungolare rispetto ai preconcetti a cui accennavo poco fa. Secondo le previsioni, il PIL africano, per allora, sarà maggiore di quello dell'eurozona e degli Stati Uniti insieme.
  Se sul fronte dei rapporti bilaterali i singoli Paesi africani scontano ancora una debolezza marginale, l'Africa tout court unita si presenta con un innegabile valore aggiunto in termini ponderali rispetto a qualsiasi altro interlocutore sulla scena internazionale. Si può considerare potenzialmente (in realtà abbiamo già avvisaglie) il secondo mercato al mondo dopo quelli asiatici.
  Le cause dell'inarrestabile sviluppo dell'Africa vanno ricercate in un coagulo di coefficienti, fra loro intrinsecamente collegati, quali il rapido trasferimento tecnologico, la crescita demografica, i dati macroeconomici oggettivamente incoraggianti, il miglioramento delle politiche agricole e la diminuzione dei conflitti armati interstatali, nonostante una proliferazione dei conflitti armati nei confronti dei cosiddetti «attori non statali», che controllano porzioni importanti di territorio di vari Stati.
  Mi riferisco, per esempio, agli Shebab in Somalia, ai Tuareg in Mali, quando alleatesi con le forze qaediste dichiararono unilateralmente l'indipendenza dell'Azawad, e a similari. I Governi che non sono in grado di controllare perfettamente ampie porzioni dei propri territori producono, o comunque facilitano, l'insorgere di movimenti armati, magari molto foraggiati dall'esterno, ovvero dai Paesi europei, dai Paesi del Golfo e anche da altri Paesi molto emersi, non solo come economie ma anche come politiche, dello stesso continente. Ci sono poi altri elementi, che per brevità non voglio necessariamente citare.
  Faccio un piccolo riferimento al pregiudizio del sintagma «soluzioni africane a problemi africani». Anche in questo è insita, filosoficamente parlando, una forma di paternalismo e di razzismo preoccupante. Ciò equivarrebbe a dire che Pag. 5nel discorso pubblico di questi Paesi non c’è spazio per quello che c’è invece in tutti gli altri Paesi.
  È vero che nei decenni scorsi tutto il cosiddetto «sud del mondo» è stato obbligato a una sorta di passaggio ad Occidente, in termini di filtro, di interpretazione e di subalternità. Con questo discorso potremmo anche riferirci ai Paesi dell'ex Unione Sovietica. C'era un nucleo dominante che impegnava a leggere il mondo in un certo modo nei confronti di quei satelliti. Questo non riguarda necessariamente solo il comportamento dell'Europa o degli Stati Uniti nei confronti di Paesi più deboli e più fragili nel corso del secolo breve.
  Tanto la gestione delle crisi africane per procura quanto il concepire soluzioni africane ai problemi africani sono tendenze fuorvianti, non solo perché sottintenderebbero un'esistente diversità culturale nel discorso pubblico africano rispetto agli standard internazionali, ma anche perché procrastinano ogni soluzione alle crisi nel medio periodo, in maniera effimera e provvisoria rispetto alla radice dei problemi politico-istituzionali cui si riferiscono.
  Ad esempio, in Zimbabwe il power sharing prima delle elezioni dell'estate scorsa fra i due contendenti è stata una soluzione di medio periodo che ha consentito lo svolgimento di cinque anni di legislatura, con Mugabe rafforzantesi e l'altro costretto a perdere definitivamente ogni chance futura.
  Questo deriva dall'aver favorito soluzioni africane al problema africano. Probabilmente si è evitato un bagno di sangue, però questo fa riflettere su come la diversità culturale dipenda da chi viene decisa. Qualcosa del genere si potrebbe anche applicare nel caso del Kenya. Non voglio entrare troppo in questioni di filosofia, però questo fa riflettere sul fatto che molti dei grandi trend voluti dai maggiorenti internazionali nel corso degli ultimi venticinque anni in Africa si sono ispirati anche a questo.
  Dalla fine della guerra fredda all'inizio del multipartitismo, l'abbandono della Somalia al proprio destino dopo i fatti noti del 1992-1994 e l'adozione delle altre decisioni politiche sono avvenuti anche sulla scorta di influenze derivanti dalla pubblica opinione. Aver visto morire tanti ranger americani ha fatto in parte evitare la partecipazione in tempo debito a quello che accadde esattamente vent'anni fa in Rwanda. Anche questa è una cosa che si potrebbe vedere.
  In questo periodo, gli elementi di criticità presenti nel Sahel, che tutti conosciamo da dieci anni a questa parte, sembrerebbero spostarsi verso est (ma questo può essere rimesso in discussione), allacciandosi all'instabilità dell'Africa orientale e della regione dei Grandi Laghi. Attualmente quello che preoccupa gli analisti e li fa saltare sulla sedia è l'eventualità che le criticità della destabilizzazione in corso nel Sahel da dieci anni a questa parte possano legarsi, tramite Boko Haram o Ansaru, ovvero un'ala scissionista o gruppi simpatetici del genere, a quello che alcuni chiamano «irredentismo» e altri «filoterrorismo» o «filojihadismo» dell'Africa orientale. Questo è lo sfondo.
  Faccio due esempi. Lo scorso weekend si è tenuto a Bologna un evento che riguardava un aspetto ecologico, ovvero la siccità e l'inaridimento del lago Tchad. Sono stati coinvolti diversi capi di Stato delle regioni pertinenti. Questo poteva essere un pretesto per allacciare, più fortemente di quanto probabilmente non è stato fatto (mi si consenta la critica), rapporti con costoro, per facilitare la mediazione nei confronti dei missionari rapiti. Questo evento è stato voluto da organizzazioni della società civile, non necessariamente dall'Italia in quanto Stato, pur avendovi partecipato rappresentanti del Governo.
  Sarebbe auspicabile che Roma, in occasione della presidenza italiana del Consiglio dell'Unione europea, convochi una Conferenza proprio sul Corno d'Africa allargato. Abbiamo la crisi dell'Eritrea, del Sud Sudan, che non si è ancora risolta.
  Vorrei fare un piccolo accenno su questo tema. La maggior parte degli analisti, Pag. 6da dodici anni a questa parte, sostiene che il problema fra Eritrea e Etiopia sia il conflitto non risolto, ma non è così. Il problema è l'Eritrea, dove evidentemente c’è un Governo che ha difficoltà a rapportarsi con il resto del mondo e con i propri stessi cittadini. Sarebbe interessante che l'Italia rimettesse questo problema all'ordine del giorno, in un discorso più multilaterale.
  Se è vero che da più parti riceviamo input (peraltro, è anche una nostra scelta) affinché in questo momento ci si dedichi soprattutto al ginepraio libico (sfiderei chiunque a risolverlo facilmente) e al Corno d'Africa, occupandoci quasi esclusivamente di Somalia, in virtù delle nostre uniche esperienze storiche nei confronti di quella popolazione e di quello Stato, non vedo perché questa non possa essere un'occasione per far vedere che l'Europa, tramite l'Italia, è interessata a risolvere le sorti dell'Eritrea. Se fosse stato accompagnato dall'Unione europea e dall'Italia, dal 1993 in poi, con uno state building adeguato (certamente non di stampo neocolonialista ma intelligente), probabilmente quel Paese non avrebbe dichiarato guerra a tutti i Paesi confinanti dal 1996 in poi.
  Dico questo anche per coloro i quali ritengono che sarebbe opportuno dare il diritto di asilo e non la protezione umanitaria temporanea ai cittadini di Paesi di nostra antica colonizzazione, semplicemente per una sorta di giustificazione o per un rinsaldamento dei rapporti almeno con quelle popolazioni, se non con i Governi che dovrebbero governare.
  L'Italia dovrebbe farsi interprete di una rinnovata politica euroafricana di ampio respiro, che più di ogni altra cosa manca oggi all'Europa. L'Europa ancora non capisce fino a che punto l'Africa potrebbe esserle utile (scusate l'utilitarismo di sfondo). Non lo capiscono a Bruxelles e forse neanche a Strasburgo, come è dimostrato dal fallimento della strategia.
  Ci sono addirittura fenomeni, qualitativamente preoccupanti ma quantitativamente ancora non preoccupanti, di reverse migration. Questa espressione ha tre semantiche; quella che ci interessa è l'immigrazione di ritorno o, al contrario, nei confronti di Paesi che ora si stanno comprando gli asset di quelli che li avevano colonizzati (la ruota gira). Per esempio, Angola docet nei confronti del Portogallo, in seno alla Comunità dei Paesi di lingua portoghese (CPLP). Ci sono resistenze fortissime da parte della popolazione, che fino a trent'anni fa magari li chiamava «colonizzati» o «scimmie». Invece costoro, pur essendo interpreti di Governi inevitabilmente autoritari (non li sto giustificando in questi termini), sono in grado di esercitare egemonia e forza nei confronti di Paesi membri dell'Unione europea.
  Farò un breve cenno all'immaterialità dell'eccezionalità culturale francese in questo senso, alabardiere di un certo tipo di politica estera di un Paese dell'Unione europea in Africa. Ritornando, per completare, a questo avvicinamento delle criticità del Sahel alle criticità del Corno d'Africa, ricordiamo che fra i due abbiamo l'Africa centrale e in generale la regione dei Grandi Laghi.
  Ebbene, con la crisi della Repubblica Centrafricana si dimostra sempre di più lo snodo fra interessi britannici, israeliani e statunitensi da una parte, con l'epicentro in Rwanda e Uganda, e quelli francesi dall'altra, che si sviluppano secondo una direttrice longitudinale che lega il Mediterraneo alla foresta tropicale dell'Africa centrale, passando per il Mediterraneo, per il Sahara, per il Sahel e per la fascia della savana.
  Lungo questa faglia virtuale si radica l'accerchiamento geopolitico cinto intorno alla regione dei Grandi Laghi (la vera criticità generale di tutta l'Africa oggi è proprio il confine fra Repubblica Democratica del Congo, in corrispondenza di Nord e Sud Kivu, con Rwanda, Burundi e Uganda) da parte delle rispettive sfere di influenza strategiche di Parigi e di Washington.
  Queste due forze condividono la necessità di contenere inevitabili, future mire espansionistiche di Pechino nell'area. Pag. 7Questo lo scrivevo quattro anni fa. Adesso, con l'operazione Centrafrica stiamo vedendo che quest'affermazione ha ragion d'essere.
  A livello internazionale, il Corno d'Africa ha grandi aspettative nei confronti dell'Italia, soprattutto durante la presidenza del semestre europeo, affinché prenda iniziative e convochi una Conferenza internazionale sulle questioni che abbiamo detto.
  L'Italia può vantare un valore aggiunto unico, mediante competenze e conoscenze della regione, anche perché molti esponenti delle classi dirigenti della diaspora e di quelle presenti nei territori di cui stiamo parlando (Somalia, Etiopia ed Eritrea) si sono formati in Italia, neanche tanto tempo fa, ovvero nel dopoguerra. Sarebbe saggio, in questo quadro, tentare di riattivare certi canali.
  Non faccio mistero che ci sono gelosie nell'ambito di varie istituzioni italiane collegate a questi Paesi, che spesso confliggono in maniera tale fra di loro da impedire qualunque svolgimento autonomo e indipendente. Questa è una delle cose più gravi che blocca l'Italia nel fare azione di sistema verso questi Paesi.
  Sapete tutti che ci sono tre missioni nello scacchiere. Adesso c’è la presidenza di un generale italiano dell'EUTM (European Union Training Mission), la missione di training delle forze somale. Non c’è niente di nuovo sotto il sole, dunque su questo non mi trattengo.
  Vorrei fare due cenni su alcuni di questi Paesi del Grande Corno d'Africa. Ad esempio, un modo in cui potremmo cercare di ritornare in questi Paesi sarebbe quello di attivare (come in parte è già stato fatto in Somalia) canali di informazione e di comunicazione, tipo Radio Londra, soprattutto nei confronti di quei Paesi che hanno una comunicazione unidirezionale, che garantisce l'indistruttibilità del sistema.
  Per esempio, in Somalia in questi ultimi anni è stata abbandonata la politica di containment elaborata da Washington, che puntava momentaneamente a contenere fisicamente l'instabilità all'interno dei confini del Paese e a cercare di limitare i danni il più possibile. Da due anni a questa parte, con le conferenze di Londra, a Lancaster House, e con il New deal compact di settembre scorso a Bruxelles, l'Unione europea, spinta soprattutto dall'Inghilterra, con qualche frizione con la Turchia, sta cercando di adottare una strategia globale. Lo scopo è riattivare un'efficacia del processo di relazionamento e un coinvolgimento inclusivo a livello locale e tribale, in modo che possa essere avviato un recupero della sovranità sull'intero territorio somalo, tale da permettere la pacificazione nel Corno.
  Roma, come è noto, ha preso in carico già a maggio del 2012 la riforma del settore giudiziario, che è una gatta da pelare non indifferente, con il preciso mandato di seguire le riforme dei codici somali, che sono compresi di diritto consuetudinario, islamico e statutario. Ci sarà la collaborazione dell'UNIDO (United Nations Industrial Development Organization), se non sbaglio. C’è la possibilità di farlo, perché abbiamo in archivio competenze e capacità che sono state congelate per decenni.
  Vorrei fare un breve cenno alla Cina, perché ho letto i rapporti recenti, secondo cui la Cina vuole semplicemente sfruttare le risorse, così come abbiamo fatto noi in passato e come facciamo ancora oggi. La Cina, che non più di vent'anni fa in alcune zone era più povera di alcune regioni africane oggi, allo scopo di eludere l'inevitabile aumento dei salari e dei costi della propria manodopera, si vedrà costretta, indicativamente entro il 2030 (ma è un trend già in corso) a delocalizzare in Africa la massa critica della produzione mondiale.
  Visto che la produzione mondiale attualmente è in Cina, usando delle espressioni geopolitiche che vanno di moda ultimamente, si può dire che sotto il controllo asiatico ci potrà essere questo trasferimento. La Cina individua una serie di Paesi e settori di cui si fida e con cui ha intrattenuto rapporti ormai decennali, per potervi trasferire parte della propria produzione. Pag. 8La produzione per il momento resta cinese, non diventa africana. In questo campo, la Cina ha già vinto di misura nei confronti di un tentativo simile da parte dell'India su certe linee di prodotto e di filiera.
  Al momento si individuano distretti industriali e si cerca di mantenere il controllo ad ogni costo, eventualmente compreso quello bellico. In alcuni appezzamenti di territorio controllati dai cinesi, che sono in una zona di un dato Paese a fare costruzioni, d'accordo con il Governo ospitante, magari ci sono anche militari cinesi che difendono le guarnigioni.
  Questo processo è già stato avviato. Ci sono precursori in alcuni speciali distretti economici in Algeria, in Egitto, in Etiopia, nelle Mauritius, in Nigeria e in Zambia, che fungono da aggregatori logistici per la produzione e la distribuzione dei prodotti cinesi nel continente, e da lì anche per l'esportazione nel resto del mondo.
  Quello della Cina è un approccio olistico. A Pechino c’è una sorta di dipartimento, che è quasi come un Ministero degli esteri, che si occupa proprio di una concezione onnicomprensiva nei confronti del continente africano. Tutti sanno che tre anni fa, verso la fine del 2011, a Nairobi hanno aperto una sede della CNTV, la televisione cinese, con tutta una serie di programmi rivolti a tre tipi di pubblico. Sono rivolti agli africani, per far sapere loro cosa sia la Cina; ai cinesi che vivono in Africa e a quelli che sono in Cina e che vorrebbero o dovrebbero trasferirsi in Africa, perché la conoscano meglio; e, infine, al resto del mondo.
  Hanno corrispondenti, oltre che inviati speciali, diffusi in maniera capillare in tutto il territorio e forniscono informazioni che nessun altro è in grado di fornire. Oggi chi vuole sapere in real time che cosa accada in Africa deve usare la Xinhuanet, cioè un'agenzia di stampa cinese, e non la CNN o la BBC, che arrivano tre mesi dopo. L'Italia non esiste. Ovviamente si fa uso di queste informazioni in inglese da parte di tutti i fruitori.
  Questo approccio olistico riservato all'Africa si basa, non sul modello occidentale dell'aiuto allo sviluppo, ormai desueto (la cooperazione fa acqua da tutte le parti, e questo è un motivo per cui ripensarla), bensì su quello della cooperazione fondata sugli investimenti e sul commercio, che da un punto di vista filosofico significa rapportarsi agli altri.
  La Cina è l'unico Paese al mondo in grado di esportare in Africa (e anche altrove) contemporaneamente manodopera, capitali, merci e tecnologia. Ad esempio, pochi anni fa la Cina aiutò la Nigeria a mandare in orbita un satellite. La Cina è l'unica in grado di esportare questi quattro elementi, a differenza di chiunque altro, e quindi vince.
  Oggi gli unici Paesi africani che intrattengono rapporti con Taiwan sono Burkina Faso, São Tomé e Príncipe e Swaziland. Praticamente sono stati esclusi. Si dà per scontato il Beijing consensus, ovvero l'idea che si hanno rapporti con Pechino, a condizione che non si intrattengano rapporti con Taipei.
  La Francia, secondo me, non va vista in maniera troppo critica. Bisogna fare chapeau ai francesi, perché sono gli unici in grado di espletare una politica di potenza, pur non avendone più i mezzi. Cerco di spiegarmi. La tenuta dell'economia francese si basa fondamentalmente sulla sua eccezionalità culturale. Come tutti voi sapete, vivono crisi interne di tipo economico e, di riflesso, politico gravissime.
  La competitività francese in Africa sta collassando a causa della penetrazione cinese e di quella di un Paese confinante: la Germania. Di questo si parla poco. Io stesso, anche se parlo tedesco, ho difficoltà a inquadrare il più perfettamente possibile come si muova Berlino in Africa. Sicuramente Berlino si muove in maniera estremamente intelligente, probabilmente simulando, in modo da non sembrare molto interessata a una presenza capillare ovunque. Lo vedremo fra poco.
  Torniamo alla Francia. Hollande lo scorso dicembre ha dichiarato di voler raddoppiare il commercio con l'Africa Pag. 9per i prossimi cinque anni, in modo da creare fino a 200.000 posti di lavoro per i lavoratori francesi. Si è trattato di propaganda ? Non lo so. Quindici anni or sono la Francia era il primo esportatore verso l'Africa subsahariana. Oggi è quasi in caduta libera, ed è il quinto dopo Cina, Stati Uniti, India e Germania. Come fa la Francia a essere intelligentemente ancora così presente, cercando di arrecarsi vantaggio con le proprie operazioni militari, ovviamente sempre (o per lo meno negli ultimi anni) dietro autorizzazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ? Come fa a essere ancora così potente, nonostante questa crisi, in Africa ?
  Allo scopo di condividere i costi (burden sharing) si fa sempre più spazio il fenomeno del controllo strategico del multilateralismo o multilateralismo controllato. Io mi vanto di averlo chiamato così, ma non c’è niente di nuovo, nihil novi sub sole. Si tratta di utilizzare sapientemente le risorse finanziarie e umane presenti nelle organizzazioni internazionali, intergovernative e non governative, e nei réseau, fatti anche dagli Istituti culturali e dalla francofonia che il Paese può esprimere, cercando di condizionare gli organismi intergovernativi internazionali e africani sulle proprie posizioni. Non si paga un euro, perché si usa il canale multilaterale.
  Spesso c’è poi una delega in bianco inerziale da parte di molti Paesi dell'Unione europea nei confronti della Francia, eccezion fatta per la Germania, che stiamo per vedere, e dell'asse che si è stretto in questi ultimi anni con Londra, di cui la Libia è un esempio. Tuttavia, Londra ultimamente, per i tagli che sta praticando, sembra essere un po’ meno coinvolta.
  Questo multilateralismo controllato, ovvero questo modo di usare gli strumenti internazionali per essere presenti e dettare la linea guida principale (anche perché la Francia è un membro del Consiglio di sicurezza dell'ONU) non implica necessariamente una condivisione dei dividendi complessivi delle singole operazioni con tutti gli altri Paesi che contribuiscono, al pari della Francia o comunque in maniera proporzionale, nei confronti di questi organismi.
  Ad esempio, in Africa la Francia è l'unico Paese membro dell'Unione europea a saper sfruttare, come moltiplicatore di potenza e di proiezione nazionale, la politica europea di sicurezza e di difesa. Al Consiglio europeo del 19 e 20 dicembre scorso, Hollande ha chiesto che fosse attivato un fondo permanente dell'Unione europea per le crisi africane, rimettendo totalmente in discussione ciò che tentò di fare Prodi nel 2008-2009 e non riuscì. La richiesta di Prodi avvenne in ambito ONU, d'accordo con l'Unione africana, ma non riuscì perché ci fu l'opposizione di Francia, Stati Uniti e Inghilterra. Questa è un po’ la sua politica dovunque si muova: cerca di creare un fondo che raccolga soldi di eterogenea provenienza per sostenere la causa della missione che svolge. Anche come inviato speciale del Segretario generale dell'ONU per il Sahel, l'idea era un po’ questa.
  A molti disturba l'idea che possano essere prontamente disponibili, per i maggiori player internazionali, fondi dedicati ad essere subito spesi per crisi che scoppiano in Africa. In questa maniera, gli interventi unilaterali e militari della Francia sarebbero pagati sul canale multilaterale, in questo caso dell'Unione europea e non dell'ONU.
  Il problema è che subito dopo che è stata fondata l'Unione africana nel 2001-2002, d'accordo con l'Unione europea, è stata proposta l'APSA, l'Architettura Africana di Pace e Sicurezza, all'interno della quale era prevista (parlo al passato, perché sembra essersi fermato tutto) la costituzione dell'African Standby Force (ASF), ovvero brigate di rapido intervento distribuite per cinque gruppi regionali specifici nell'ambito del continente africano, che sarebbero dovuti intervenire qualora fosse scoppiata una crisi.
  Per far questo servono formazione, mezzi, logistica, training e soldi. Ovviamente c’è una grande discrepanza di capacità fra l'ECOWAS (Economic Community Pag. 10of west African States) e le altre organizzazioni. L'ECOWAS, anche per le esperienze svolte negli ultimi vent'anni, dovrebbe essere la più capace di muoversi prontamente, invece abbiamo visto che in Mali questo non è stato possibile. Non ho detto che l'ECOWAS non è stata capace, ma ho detto che questo non è stato possibile. Del motivo per cui non è intervenuta per prima in Mali preferirei discutere in altre sedi, e comunque ne ho scritto. C’è stata una forte influenza affinché questo non accadesse, mentre le capacità c'erano. Mi fermo su questo aspetto.
  Parigi, in parallelo, ha un fondo permanente della Unione europea per le crisi africane e spinge affinché si realizzi una capacità africana di risposta immediata alle crisi (CARIC), che è stata congegnata nel vertice del giugno scorso tra i Capi di Stato e di Governo dell'Unione africana, e la cui causa è perorata dalla presidente della commissione dell'Unione africana Dlamini-Zuma, dimodoché sostituisca la ASF. Il sistema dell'African Standby Force non è stato mai efficace, per una serie di ragioni, interne ed esterne. Sarebbe opportuno che si creassero coalizioni di volenterosi di alcuni Paesi, che possano contribuire, di volta in volta, alla risoluzione della crisi.
  Questo è quello che in parte è accaduto lo scorso autunno, quando alcuni Paesi, fra cui il Sudafrica, hanno partecipato alla brigata di intervento che avrebbe contribuito alla sconfitta del movimento ribelle principale nel Kivu (la brigata M23).
  Fra le varie iniziative che propone per rimettere in sesto la propria economia nei confronti dei Paesi africani, oltre ad aver cercato di favorire un ricambio della classe dirigente (sarò diplomatico) nei confronti della maggior parte di tutti questi Paesi, la Francia ha redatto una serie di proposizioni che, se volete, posso anche leggere, derivanti da un rapporto commissionato dal Ministro dell'economia e delle finanze, Pierre Moscovici, lo scorso novembre e che è stato presentato in dicembre.
  Uno dei concetti principali è quello della co-localizzazione. Faccio presente che però tutta questa nuova strategia di un importante Paese, il Paese che ha la maggiore expertise nei confronti dell'Africa in Europa (piaccia o non piaccia), si rivolge non solo ai Paesi di vecchia colonizzazione, che sono francofoni, bensì anche a quelli più promettenti, la maggior parte dei quali sono lusofoni, come ad esempio Angola e Mozambico, ma poi sono benvenuti tutti quelli che crescono. In particolare si rivolgono anche a Ghana, Kenya, Nigeria, Sudafrica e Tanzania.
  Per co-localizzazione il Governo francese intende favorire lo sviluppo di partenariati industriali franco-africani. Mi sto dilungando su questi aspetti perché, sulla falsariga di questo, potremmo anche noi sviluppare qualcosa del genere, al di là di quelle che proverò a indicare come proposte autonome, perché è interessante sapere come si muovano.
  Tali partenariati industriali franco-africani sono in grado di permettere un'integrazione delle capacità di produzione locale per mezzo di catene produttive inizialmente a carattere regionale e poi mondiale. Fondamentalmente vogliono replicare quello che sta già facendo la Cina, mutatis mutandis, ma sapendo o illudendosi di essere meglio accolti dei cinesi, perché non scordiamoci mai che, sebbene la Cina stia veramente contribuendo allo sviluppo africano, nonostante le enormi criticità e il prezzo da pagare per questo (il punto di non ritorno è ormai superato da un paio d'anni, nel senso della dipendenza implicita nel rapporto subalterno dei singoli Stati africani che intrattengono rapporti economici strategici con la Cina), bisogna anche tenere presente che altri Paesi hanno tutto il diritto di fare lo stesso.
  Per l'esperienza che ho maturato nei vari Paesi che ho visitato, gli africani non si lasciano gabbare così facilmente e, se non si sono fidati di noi come colonialisti o neo-colonialisti, non si fidano totalmente dei cinesi, anzi sanno benissimo che c’è un compromesso. Lo sa più la società civile che i governanti di questi Pag. 11Paesi, o meglio lo sanno anche i governanti, ma giustamente stringono accordi talora oscuri.
  Così facendo, tornando alla co-localizzazione francese, si dovrebbe riuscire a concentrare i processi trasformativi della produzione per mezzo di filiere di prodotti specifici, determinando un particolare valore aggiunto dei prodotti finali in quanto realizzati in loco, fondamentalmente anche perché costano meno.
  È stata pertanto annunciata la creazione nel 2014 di una fondazione franco-africana per la crescita, allo scopo di raccogliere interessi pubblici e privati francesi e africani.
  A dicembre, l'allora Ministro dell'economia e delle finanze Moscovici intervistato disse: «la Francia vuole essere ambiziosa, dinamica, propositiva ed offensiva». Questo è un elemento che fa riflettere su come di nuovo l'europeismo finisca in Africa. Insieme sul multilaterale facciamo tanti bei discorsi, molto freddi, di cui poi i veri manager sono molto frustrati, perché, se si va a parlare con i committenti, gli interlocutori dell'Unione africana e dell'Unione europea, c’è una grande frustrazione.
  L'Europa e gli europei sono presenti in Africa, esiste una politica di sicurezza comune, ma non una politica economica comune, quindi gli europei sono al tempo stesso partner e concorrenti in Africa, non dimentichiamocelo.
  Indipendentemente da chi fosse al Governo, quando ci fu l'operazione in Libia, questa fu congegnata da un paio di Paesi dell'Unione europea (non l'Italia), e indipendentemente dal dittatore non da poco che era a capo di quel Paese, – perché io non ero ancora nato quando aveva preso il potere – c’è stato un attacco deliberato alla sovranità e alla sicurezza nazionali italiane, per come gli accordi erano stati siglati fra il Governo Berlusconi e Gheddafi, non perché l'accordo fosse stato firmato da Berlusconi e Gheddafi, ma perché quel tipo di accordo poi impegna gli Stati e non i Governi che li fanno sottoscrivere, dunque era fra due Stati e non fra due Governi.
  Nel 2008 Chirac ebbe a dire che «senza l'Africa, la Francia sprofonderà al rango di un Paese del terzo mondo»; Mitterrand nel 1957 sostenne che «senza l'Africa, la Francia non avrà storia nel XXI secolo». Mutatis mutandis lo si applichi a ciascuno dei principali Paesi dell'Unione europea come l'Italia e in generale alla stessa Unione europea, e potrebbe far gioco a quello che sto per dire in conclusione.
  Devo tralasciare la Germania. In un interessante rapporto dell'ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale) pubblicato negli ultimi mesi si cerca di evidenziare come l'Italia abbia selezionato una serie di Paesi africani e quindi rivolga loro politiche di sviluppo, di cooperazione, di impresa e di investimenti. Questo da alcuni è criticato, ma comunque è un interessante passo in avanti.
  Per quanto riguarda un nuovo concetto strategico italiano verso l'Africa, oserei dire che è urgente realizzare una trasversale identificazione dell'interesse nazionale italiano, visto che il contesto anche europeo è quello che è, con relativa mappatura delle criticità e delle ridondanze della politica estera italiana verso l'Africa, in modo da anticipare le tendenze e cavalcarle come capofila in ambito UE. La presidenza del semestre ci può dare questa opportunità.
  Tecnicamente suggerirei, come primo punto, di sviluppare una mediazione nella crisi Eritrea-Etiopia, focalizzando l'attenzione sull'Etiopia e sul ricambio dalla classe dirigente, e il recupero della leadership nel Corno d'Africa.
  Al secondo punto suggerirei la valorizzazione della diaspora presente in Italia, di tutte le diaspore africane e non solo, e dell'immigrazione, soprattutto quella qualificata ma non solo; penso all'attrazione di talenti con borse di studio come pionieri. La Cina riceve 40.000 studenti africani all'anno per studiare e quindi diventare pontieri a costo quasi zero; la Turchia ha cifre molto più ridotte, ma fa la stessa cosa. Nella nuova strategia ci sono delle risorse dedicate a far venire studenti in Italia e in Europa, ma è molto lontano.Pag. 12
  Inoltre, si tratta di ottimizzare la presenza del personale italiano presso le organizzazioni internazionali e intergovernative, le ONG e le PMI, le piccole e medie imprese, in Africa, così da attivare anche antenne di soft intelligence nel canale multilaterale pubblico e in quello privato. Se non abbiamo l’intelligence, o non sappiamo che succede oppure ci uccidono gli ingegneri, come è successo due anni fa.
  Ancora, suggerisco di promuovere alleanze trasversali con Paesi extra UE, già latori di proprie visioni strategiche verso l'Africa tutta. Possono essere Paesi che hanno una grande visione d'espansione come il Marocco e la Turchia in Africa, e anche promuovere alleanze tattiche con Paesi interni all'Unione europea, magari quelli piccoli, con minore tradizione e conoscenza dell'Africa, ma intenzionati a ritagliarsi un ruolo nell'area.
  Nella missione militare in Repubblica Centrafricana, che manifesta la nuova alleanza franco-tedesca perché i tedeschi danno i soldi e i francesi l’expertise, sono coinvolte anche truppe delle Repubbliche baltiche, Lettonia, Estonia e Lituania, e addirittura della Georgia, che non fa neanche parte dell'Unione europea. La base di comando è in Grecia.
  Altro punto è accentrare a livello nazionale (questo è il punto a cui tengo maggiormente) presso la Presidenza del Consiglio (abbiamo avuto esperienze diverse con risultati non eccellenti), o presso la Presidenza della Repubblica, comunque che sia accentrata e garantisca costanza e continuità, o presso il Parlamento – a questo punto presso la Camera che è più rappresentativa e anche questo Comitato può avere un ruolo di questo tipo – un centro di collegamento per assicurare il raccordo integrato e la continuità dell'azione esterna italiana per mezzo di una serie di competenze, allo scopo di attrarre investimenti diretti.
  Noi possiamo attrarre anche investimenti di questi Paesi; dall'Etiopia e dall'Angola possono investire qui, magari non subito, ma ormai ci siamo.
  Tali investimenti sono provenienti da economie, emergenti o emerse, di fiducia, con cui sviluppiamo relazioni; visto che avremo selezionato un gruppo di Paesi, alike States, proviamo ad andare avanti su questa scorta. Individuare anche una serie di regioni, distretti o Stati, alike partners, con cui sviluppare una visione di co-sviluppo strategico, come ha fatto la Germania con l'Angola, nell'ambito di una politica di ampio respiro volta proprio all'internazionalizzazione e alla delocalizzazione.
  Questo significa non perdere posti di lavoro, ma assicurare prodotto nazionale lordo, non necessariamente Prodotto interno lordo, investendo per medio e lungo periodo in questi Paesi che ormai sono più sicuri e non semplicemente limitandoci allo scambio commerciale di import-export fugace e incapace di sviluppare rapporti di lunga durata, con tutte le auspicabili conseguenze positive.
  L'Africa, per l'Italia ma anche per l'Europa, è strategica. Bruxelles e Roma potrebbero rischiare di non comprendere l'importanza trasformativa del rapporto privilegiato avuto con l'Africa per tante ragioni (anche tutto il know how della cooperazione italiana in parte perso per certi versi) finché manterranno cognitivamente condizionati ai propri preconcetti i vincoli con cui affermano di legarsi ad essa, altrimenti non riusciamo a fare politica.
  Un'altra cosa grave è che siamo ancora rimasti ancorati all'idea che il multilateralismo sia l'unica strada, e lo è se lo sappiamo in qualche modo interpretare, mentre, se lo lasciamo essere, perdiamo opportunità e siamo in un momento non di vacche grasse ma di vacche magre. Ho visto personalmente imprese italiane con know how unico al mondo molto caute, che è anche una virtù, incapaci di produrre di più perché i costi sono troppo elevati.
  Abbiamo invece Paesi che hanno una specie di corrispettivo, anche per il tipo di industrializzazione ancora non molto elevato, con le caratteristiche tipiche delle piccole e medie imprese italiane, le Pag. 13quali, però, essendo italiane, hanno la caratteristica di essere parcellizzate (parliamo di questo dai tempi di Machiavelli) ed essendo parcellizzate vanno ciascuna per sé.
  È vero che il nuovo ICE potrebbe contribuire, è vero che queste nuove iniziative governative potrebbero contribuire, ma non fanno sistema, e le classi dirigenti e la società civile africana lo sanno sempre più, perché in parte qualcuno ha studiato qua e comincia a capire anche i meccanismi. Dovremmo essere innovativi anche in questo.
  Vi ringrazio per l'attenzione.

  PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Marco Massoni. Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  LIA QUARTAPELLE PROCOPIO. Ringrazio molto il dottor Massoni della presentazione con alcuni spunti estremamente interessanti, in particolare per quanto riguarda le soluzioni africane a problemi africani e quindi tutto il discorso sul multilateralismo e su come viene utilizzato in maniera strumentale, inefficace o non completamente convinta.
  Resto però dell'idea che la grande novità dell'ultimo decennio dell'Africa sia quella di non essere esclusivamente un continente attrattivo, ma, grazie alle materie prime, ai percorsi di crescita e anche a un certo protagonismo politico di alcuni di questi Paesi, di essere tornato a essere un continente che non solo riceve, ma anche partecipa. Partecipa con processi che sono anche dettati da dinamiche interne, che noi facciamo fatica a comprendere e ad accettare. Ritengo che il mantra «african solutions to african problems» sia una chiave importante di un protagonismo diverso dell'Africa. Non è un modo per dire «risolvetela voi», ma è un modo per coinvolgere nel discorso di politica internazionale anche una serie di soluzioni che sono subottimali dal nostro punto di vista, ma che probabilmente sono migliori di quelle sperimentate negli anni passati.
  Cito un esempio paradossale: la soluzione del genocidio ruandese è stata un esempio di african solutions to african problems, che ne ha creati poi degli altri perché c’è stata tutta la vicenda del Congo, che ancora oggi non è risolta, ma la realtà è che il mancato intervento multilaterale e il pessimo intervento francese non hanno risolto, ma hanno peggiorato la situazione.
  La sua presentazione è stata molto interessante e il punto è come si interagisce con delle dinamiche interne importanti e difficili da capire a partire da una dinamica esterna, multilaterale.
  Quanto al Corno d'Africa, all'Eritrea, noi ci rendiamo conto (e il 3 ottobre l'ha reso più evidente quanto accaduto a Lampedusa) che c’è un problema eritreo, un sesto della popolazione eritrea è fuori dai confini, ci sono situazioni quali il Sinai e tutte le persone che arrivano attraverso la Libia in Italia e comunque sono disperse nella zona saheliana, sappiamo che lì c’è un problema.
  L'Italia ha una posizione diversa rispetto agli altri attori europei e occidentali, ma non sappiamo come intervenire perché i tentativi di mediazione sono complicati e non si capisce come si fa la mediazione.
  Vorrei quindi capire da lei come un Paese come il nostro, con tutte le difficoltà da lei evidenziate di mancanza di chiare priorità, di chiara paternità delle azioni nei confronti dell'Africa, con un'azione molto disorganica tra Ministeri, possa intervenire sulla questione eritrea. Ne abbiamo anche discusso con esponenti del Governo e credo che la sua opinione ci aiuti a capire cosa fare.

  PIA ELDA LOCATELLI. Io non ho domande specifiche da porre, ma vorrei dire che è stata una relazione molto interessante con tante notizie che non conoscevo. Ad esempio, non sapevo che la Germania esporta in Africa più della Francia, immaginavo invece che la Francia fosse il primo Paese europeo, quindi grazie Pag. 14per questo panorama molto complesso, per studiare il quale occorrerebbe un mese.
  Vorrei però richiamare l'attenzione dei colleghi sulla sua proposta di utilizzare il semestre di presidenza italiana: per fare cosa ? Potremmo realizzare questa conferenza sul Corno d'Africa allargato, perché forse questo è il contesto per affrontare queste tematiche molto complesse o almeno una parte di esse, perché, se ci poniamo il tema della soluzione complessiva, di fatto affrontiamo solo parzialmente il tema, perché questo è un problema di relazioni tra due continenti, l'Europa e l'Africa.
  Mi sembra opportuno cominciare a porre il tema alla Ministra degli esteri e vedere come costruire eventualmente questa conferenza.

  PRESIDENTE. Do la parola al dottor Massoni per una breve replica, con l'impegno di risentirci, di rinnovare questi appuntamenti di approfondimento anche in vista della proposta dell'onorevole Locatelli, che come Comitato dobbiamo attivare in tempi rapidi.

  MARCO MASSONI, Segretario generale dell’Institute for global studies e direttore di ricerca per l'Africa presso il Centro militare di studi strategici (CeMiSS), con riferimento al Corno d'Africa. Grazie, presidente. Per quanto riguarda l'Eritrea, decisamente tutti i tentativi che da dieci anni a questa parte a livello indipendente e a livello istituzionale dall'Italia e anche da altri Paesi dell'Unione europea e degli stessi Stati Uniti sono stati intrapresi o tentati sono stati, di fatto, pressoché tutti fallimentari.
  Vero è che l'Eritrea oggi non sembra interessare più a molti come ai tempi della dottrina Clinton, venticinque anni fa, ma è altrettanto vero che l'Eritrea resta un problema che noi italiani non abbiamo mai saputo affrontare, a partire dal primo dopoguerra.
  C'era un libro degli anni Cinquanta di Franz Maria D'Asaro, il cui titolo, aldilà del contenuto, era molto chiaro: Asmara chiama, Roma non risponde. Poi ci furono trent'anni di guerra, in cui alcuni partiti politici dichiaratamente, altri meno sostenevano chi il fronte più socialista, chi quello meno socialista. Questo sempre sullo sfondo di un Paese, l'Italia, che ha espresso singolarità – molte volte anche parlamentari, quindi uomini e donne politici – che si sono occupate di Africa – lo dico con rispetto – quasi per passione anziché per altro. E sono enumerabili probabilmente in un paio di mani indipendentemente dalla provenienza politica, quindi anche deboli nel cercare di elaborare strategie che portassero a risultati.
  Roma ha sempre un po’ abbandonato Asmara e probabilmente dovremmo fare mea culpa. Al di là di questo, il problema dell'Eritrea è serio dal 2003-2004, quindi da dieci anni, e in questi dieci anni abbiamo preferito come tanti altri non occuparcene più direttamente.
  Ci fu un tentativo nell'autunno del 2009 di sbloccare il credito d'aiuto nei confronti di Asmara con una missione diplomatica – all'epoca ebbi un'esperienza per il G8 al Ministero degli esteri – ma anche lì non sortì effetto. Qualunque strada con questi interlocutori sembra essere stata difficile. Anche recentemente, quando chiediamo perché dobbiamo considerarli prioritari, di darci qualche ragione per cooperare in maniera più fattiva e garantire loro dei rientri, spesso le risposte sono molto dure.
  Lavorare sulla diaspora eritrea è altrettanto difficile, perché i controlli e la camaleonticità di questi interlocutori fa sì che per noi resti difficile capire se effettivamente rispondano a una serie di criteri. Oserei dire, senza entrare troppo nel dettaglio, che manca una conoscenza di fondo non solo a noi, ma anche ad altri partner che vogliono affrontare la questione eritrea, perché per troppo tempo abbandonata.
  È anche vero che l'Eritrea ha perso alcuni supporter, come ad esempio la Libia di Gheddafi, e che chiunque voglia fare opposizione democratica, costruttiva nei Pag. 15confronti del Paese, sia da dentro che da fuori, può avere difficoltà, perché costoro cercano probabilmente sponde difficilmente individuabili.
  È una questione molto seria l'individuare la genuinità di un interlocutore. Azioni come quella di attivare una radio che possa essere intercettata potrebbe essere un inizio, però bisognerebbe affrontare il problema dal principio e assicurarsi che ci sia un interesse regionale che non confligga, perché per anni l'Eritrea è stata considerata lo spoiler, anche fino a pochissimo tempo fa, dell'instabilità in Somalia, quindi quello potrebbe essere uno degli spunti su cui muoversi e, come tutti gli esperti della regione hanno sempre detto e credo di concordare pienamente, occorrono soluzioni regionali.
  Non dimentichiamo che l'indipendenza del Sud Sudan, molto voluta anche dagli Stati Uniti, rispondeva all'esigenza di contenere la conflittualità nella regione, ma attualmente il risultato è esattamente l'opposto. Abbiamo il Darfur di ritorno, abbiamo un Bashir sempre più difficile, abbiamo un Sud Sudan in scontro.
  Sicuramente potremmo fare qualcosa in collaborazione con le organizzazioni regionali, ma l'Eritrea, nonostante abbia richiesto di rientrare nell'IGAD (Intergovernmental Authority on Development) dopo la defezione nel 2007, non sta rientrando per l'opposizione dell'Etiopia.
  Il problema è estremamente articolato, quindi non c’è un'unica soluzione, però mi sembra che manchi proprio all'ordine del giorno e, anche volendola affrontare, l'approccio non si risolve in tre mesi perché richiede tempo, non perché manchino idee ma perché occorre riattivare una serie di canali.
  Per quanto riguarda la conferenza del Corno d'Africa, quello che si aspetterebbero gli interessati (non li chiamo più beneficiari, come si usava dire un tempo) è probabilmente un'azione in discontinuità rispetto a quello che non si è riusciti a fare finora, che però tenga sempre conto di quel buono che da qualche parte con le azioni internazionali si è fatto anche per la Somalia.
  Possiamo continuare a sostenere un'agenda turca che va da una parte, un'agenda londinese che va da un'altra parte oppure mediare fra queste posizioni perché crediamo di lavorare meglio e più facilmente con i turchi anziché con i partner europei, e questo potrebbe essere perché è una soluzione che non si aspetterebbero.
  Noi dovremmo giocare sul pregiudizio positivo che la maggior parte degli stakeholder ha, sia in loco che qui e che noi invece abbiamo un po’ rimosso, di avere competenze e conoscenze uniche, che dovrebbero essere riesumate (non si fa in un attimo) nei confronti di questi Paesi.
  Bisognerebbe capitalizzare quanto di buono è stato fatto, dovremmo filtrare, selezionare, decidere, proporre, valutare, le varie iniziative internazionali più recenti e poi lavorare su un'iniziativa propria. Concordo con l'onorevole Quartapelle Procopio che sostiene le soluzioni africane di ownership e di unicità, perché mi occupo anche di filosofia africana, quindi ben venga un pensiero autonomo, indipendente, ma che non sia una scusa in altri casi.
  Probabilmente un massiccio intervento statunitense in Rwanda avrebbe potuto anche comportare cose peggiori. Uno dei motivi o delle retoriche dietro cui ci si nascondeva per il mancato intervento internazionale è stato anche quello per cui le parole testuali del Presidente degli Stati Uniti furono: «sono questioni tribali».
  Le tribù, i clan da un punto di vista funzionale sono delle lobby, non ce lo dimentichiamo. Rivendichiamo invece l'esperienza del Sudafrica, l'esperienza del Rwanda.
  Mi scuso se non sono stato preciso, però bisognerebbe lavorare su quelle corde verso cui sono sensibili i Paesi della regione, i Paesi partner e il gruppo di contatto internazionale per la Somalia, per trovare i punti in cui ci supporterebbero, Pag. 16tenendo conto che noi abbiamo ancora un ruolo subalterno semplicemente perché non abbiamo espresso, coniugato, declinato perfettamente la nostra incisività, che deve essere comunque non neo-colonialista.
  Il confronto con gli ambienti italiani più suscettibili di interesse in un coinvolgimento ci riserverebbe delle sorprese più interessanti, più positive di quanto non sappiamo, perché sono maturati anche tanti di questi ambienti rispetto a qualche decennio fa.

  PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Marco Massoni e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 10.05.