XVII Legislatura

III Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 2 di Giovedì 26 marzo 2015

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE PROBLEMATICHE EMERGENTI, LE SFIDE E LE NUOVE PROSPETTIVE DI SVILUPPO DELL'AFRICA SUB-SAHARIANA

Audizione di esperti sul quadro di sicurezza nella regione nigeriana.
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 3 
Carbone Giovanni , professore associato di Scienza politica presso l'Università degli studi di Milano, nonché ricercatore dell'Istituto per gli studi di politica internazionale ... 4 
Massoni Marco , segretario generale dell’ ... 9 
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 11 
Manfredi Emilio , ricercatore dell’ ... 11 
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 15 
Vico Ludovico (PD)  ... 15 
Cassano Franco (PD)  ... 16 
Quartapelle Procopio Lia (PD)  ... 16 
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 17 
Carbone Giovanni , professore associato di Scienza politica presso l'Università degli studi di Milano, nonché ricercatore dell'Istituto per gli studi di politica internazionale ... 17 
Massoni Marco , segretario generale dell’ ... 19 
Manfredi Emilio , ricercatore dell’ ... 20 
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 21 

ALLEGATO: Documentazione consegnata dal professor Giovanni Carbone ... 23

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: (FI-PdL);
Area Popolare (NCD-UDC): (AP);
Scelta Civica per l'Italia: (SCpI);
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Lega Nord e Autonomie: LNA;
Per l'Italia-Centro Democratico: (PI-CD);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero-Alleanza per l'Italia: Misto-MAIE-ApI;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI;
Misto-Alternativa Libera: Misto-AL.

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE ERASMO PALAZZOTTO

  La seduta comincia alle 14.20.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
  (Così rimane stabilito).

Audizione di esperti sul quadro di sicurezza nella regione nigeriana.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle problematiche emergenti, le sfide e le nuove prospettive di sviluppo dell'Africa sub-sahariana, l'audizione di esperti sul quadro di sicurezza nella regione nigeriana in previsione delle elezioni di domenica.
  Saluto e ringrazio per la partecipazione i relatori Giovanni Carbone, professore associato di storia e di istituzioni dell'Africa presso l'Università degli Studi di Milano e ricercatore senior dell'ISPI; Marco Massoni, segretario generale dell’Institute for Global Studies e direttore editoriale della rivista Politica Africana, già audito nella scorsa legislatura da questa Commissione; Emilio Manfredi, ricercatore dell’International Crisis Group, in collegamento via Skype da Dakar. Saluto, altresì, il dottor Gianfranco Belgrano, direttore editoriale della rivista Africa affari che accompagna gli auditi.
  Dando seguito agli impegni assunti dal Comitato Africa nella seduta del 26 gennaio, formalizzati nel programma di lavoro il 4 marzo, l'indagine conoscitiva sulle problematiche emergenti, le sfide e le nuove prospettive di sviluppo dell'Africa sub-sahariana prende l'avvio dal quadrante nigeriano, che riveste una straordinaria attualità ed è di particolare interesse per la politica estera italiana, poiché la Nigeria rappresenta il nostro primo partner nell'Africa sub-sahariana.
  È anche il Paese più popoloso del continente, ha recentemente superato il Sudafrica quanto a capacità di produzione di ricchezza ed è un elemento cruciale per la stabilità regionale. Si trova alla vigilia di elezioni presidenziali cruciali. È di queste ore la notizia che Abuja ha deciso di chiudere le frontiere con i Paesi confinanti e quelle via mare dalla mezzanotte di oggi alla mezzanotte del 28 marzo, per consentire il pacifico svolgimento delle procedure elettorali, mentre è notizia di ieri il rapimento di quasi 500 persone, in particolare donne e bambini, ad opera del gruppo terroristico di Boko Haram.
  Si tratta di consultazioni elettorali in un certo senso fuori contesto nell'Africa sub-sahariana e nella stessa Nigeria rispetto al passato, perché l'esito è in bilico. La difficoltà di prefigurare chi tra i due maggiori leader, il Presidente uscente Jonathan e Muhammadu Buhari, potrebbe prevalere, accentua le criticità del quadro democratico instauratosi dopo il 1999.
  Per molti aspetti le nuove elezioni hanno per protagonisti due leader del passato, Jonathan che è il Presidente uscente e Buhari che è sulla scena politica dagli anni ’60 ed è stato Capo di Stato tra il 1983 e il 1985. L'elemento di novità potrà essere rappresentato da una predisposizione Pag. 4di Buhari come musulmano a gestire in modo diverso la minaccia di Boko Haram, anche se restano aperte tutte le numerose linee di frattura che attraversano il Paese, di natura territoriale, etnico-tribale e confessionale, con le quali dovrà necessariamente misurarsi il nuovo presidente federale.
  Darei a ognuno dei relatori la parola per un intervento introduttivo, per poi procedere ai quesiti dei colleghi, ai quali seguirà la replica.
  Lascio la parola a Giovanni Carbone.

  GIOVANNI CARBONE, professore associato di Scienza politica presso l'Università degli studi di Milano, nonché ricercatore dell'Istituto per gli studi di politica internazionale. Grazie, presidente. Elezioni 2015 in Nigeria: un'introduzione al tema delle elezioni di quest'anno facendo due passi indietro, cioè collocando le elezioni all'interno del contesto socio-politico nigeriano e, ancora a monte, collocando la Nigeria all'interno dell'Africa sub-sahariana, perché la rilevanza del Paese è il presupposto per comprendere l'importanza di questo appuntamento elettorale.
  Mi limito a sottolineare tre dati di contesto: economico, demografico e politico su cui sono a disposizione anche delle slide. Le economie dell'Africa sub-sahariana sono in forte crescita economica: il grafico di cui alla terza slide evidenzia i tassi di crescita media della regione a partire dalla metà degli anni ’80, e, se seguite la linea gialla che è l'andamento della crescita in Africa sub-sahariana comparato al mondo nel suo complesso, alle economie avanzate e ai BRIC, vedete che c’è un passaggio da posizioni di retroguardia, che seguono l'andamento delle altre economie, a una fase successiva, a partire dalla metà degli anni ’90 ma ancora di più nel nuovo secolo, in cui l'Africa raggiunge tassi di crescita importanti.
  La Nigeria è il Paese che maggiormente traina questo andamento economico, è cresciuta dell'8-10 per cento per ogni anno tra il 2000 e il 2013 e ha un PIL (dato che rende meglio la posizione della Nigeria nel continente) pari a oltre un terzo dell'intero PIL sub-sahariano, circa 555 miliardi di dollari, che sono l'equivalente dell'economia del Belgio o della Polonia.
  Secondo dato. L'Africa traina l'espansione demografica mondiale. L'andamento della crescita demografica dell'Africa sub-sahariana in termini di milioni di popolazione nella regione si discosta molto dall'andamento di qualsiasi altra regione nel mondo, andando a inseguire l'ordine di grandezza demografico dell'Asia per i decenni a venire. Anche qui la Nigeria ha un ruolo straordinario: 1 africano su 5 a sud del Sahara è nigeriano e la Nigeria diventerà il terzo Paese più popoloso dopo India e Cina nei prossimi decenni.
  Terzo aspetto di contesto: i Paesi africani vanno ormai normalmente ad elezioni e questo è un fatto spesso trascurato. Per darvi l'idea del passaggio importante avvenuto a partire dal 1990, guardiamo la colonna sulla destra per ciascuno dei due gruppi di dati 1960-1989 e 1990-2012. Vedete che il numero complessivo delle elezioni nella colonna è balzato da 30 elezioni multipartitiche in trent'anni a 170 nell'ultimo ventennio.
  La Nigeria le ha reintrodotte nel 1999 e ha già tenuto 4 tornate elettorali, ma mai c’è stato il caso di una vittoria delle opposizioni e di un'alternanza al potere. Il periodo 1990-2012, con un totale di 168 elezioni multipartitiche tenute nell'ultimo ventennio, ha visto una grande maggioranza di elezioni in cui i presidenti in carica sono stati confermati, 15 elezioni in cui c’è stata successione al governo ma all'interno della stessa forza partitica e 39 in cui invece c’è stata alternanza, quindi una vittoria delle opposizioni, cosa che in Nigeria ancora non si è registrata.
  Circa il contesto sociale e politico indispensabile per comprendere l'appuntamento elettorale che ci troviamo di fronte in Nigeria, si tratta di una società estremamente frammentata, che viene spesso paragonata all'India per complessità, una sorta di India africana, con una grandissima eterogeneità etnica: si parla di 250 gruppi etnici nel territorio, di 520 lingue.
  I tre gruppi principali sono cerchiati nella mappa di cui alla settima slide, che Pag. 5dà l'idea della distribuzione delle principali comunità etniche nigeriane: gli Hausa-Fulani che dominano il nord del Paese, gli Yoruba nel sud-ovest e gli Igbo nel sud-est, ma ci sono altre comunità importanti come gli Ijaw, a cui appartiene l'attuale presidente Jonathan, o i Kanuri dell'area maggiormente destabilizzata dall'insurrezione di Boko Haram.
  Accanto a queste comunità etniche che caratterizzano una popolazione molto frammentata, c’è poi una cesura tra musulmani e cristiani, tra circa metà della popolazione che è musulmana e abita fondamentalmente il nord del Paese e un sud del Paese a predominio cristiano, soprattutto più omogeneo nel sud-est (nel sud-ovest sono presenti in misura non indifferente anche musulmani).
  Questa cesura tra nord e sud si sovrappone a una cesura tra la parte più dinamica dell'economia nigeriana, che storicamente è il sud, e la parte che fatica nello sviluppo e nella crescita economica, che è il nord. Questo si riflette anche nella distribuzione della popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà, perché a livello nazionale gli ultimi dati evidenziano un 33 per cento di nigeriani che vive al di sotto della soglia della povertà assoluta, con un'ovvia distinzione tra livelli di povertà urbana più bassi rispetto a quelli della povertà rurale.
  Se guardiamo alle diverse regioni o insiemi di Stati federati nigeriani considerati regioni geo-politiche interne al Paese, indicati dalle colonne azzurre nella slide numero 8, sei regioni si distinguono chiaramente in termini di diffusione della povertà nelle regioni del nord, in cui questa prevale (in particolare nel nord-est, dove riguarda ancora oltre il 50 per cento della popolazione), mentre cala notevolmente nel sud e soprattutto nel sud-ovest, nella regione di Lagos.
  A questo tipo di complessità etnica, religiosa e sociale è stata affiancata fin dall'indipendenza una grande difficoltà del Paese a mantenere stabilità politica interna. La Nigeria ha vissuto sei colpi di Stato, due guerre civili, perché ormai quella di Boko Haram va considerata una guerra civile, è stata governata principalmente da militari, ha visto un ritorno a governi formalmente eletti in maniera democratica a partire dal 1999, ma questo non è stato sufficiente a stabilizzare il Paese.
  Nella prima parte degli anni 2000, infatti, sono state importanti le violenze nel sud del Paese, l'area cerchiata che corrisponde in senso esteso al Delta del Niger (vedi slide numero 9), che ha vissuto un picco tra il 2004 e il 2008, poi le violenze in quest'area sono calate, per lasciare spazio a quelle nel nord-est del Paese, di cui parleremo ampiamente.
  Quanto alle caratteristiche del sistema politico che si appresta a tenere le elezioni nei prossimi giorni, il Paese è stato dominato per un lungo periodo dai militari. Dal 1960, indipendenza della Nigeria, fino al 1999, 29 anni su 39 il Paese li ha vissuti sotto il governo di militari e solo nel 1999 c’è stato un ritorno a governanti eletti con la cosiddetta Quarta Repubblica.
  Finora si sono succeduti tre presidenti eletti, il più noto, Obasanjo, presidente dalla fondazione della Quarta Repubblica (doppio mandato), uno Yoruba, quindi esponente del sud-ovest del Paese, un cristiano, che ha lasciato spazio, in una logica di alternanza alla presidenza, a un esponente del nord, sempre all'interno dello stesso partito, il People's Democratic Party, Umaru Yar-Adua, eletto nel 2007 ma morto in carica nel 2010.
  La morte in carica di Yar-Adua ha aperto la via alla presidenza del suo vicepresidente, laddove non a caso, essendo il presidente un musulmano del nord, era stato scelto un cristiano del sud, Goodluck Jonathan, diventato presidente nel 2010, che poi ha ottenuto un proprio mandato alle elezioni del 2011.
  Si sono, quindi, tenute quattro tornate elettorali e tre presidenti sono stati eletti consecutivamente, dato straordinario rispetto al passato, alla storia della Nigeria e di gran parte dell'Africa sub-sahariana dall'indipendenza ad oggi.
  L'assetto politico-istituzionale della Nigeria ricalca da vicino un modello di tipo statunitense: è una federazione; adotta un Pag. 6sistema presidenziale con Parlamento bicamerale; è un sistema maggioritario, ma quello che lo ha caratterizzato finora è anche la mancanza di alternanza, in quanto ogni elezione nazionale ha visto il predominio del People's Democratic Party e la rottura del patto informale stipulato tra il nord e il sud del Paese per un'alternanza alla presidenza, quello che chiamano zoning in Nigeria, che con il subentro di Goodluck Jonathan ha dato una sorta di continuità a presidenti esclusivamente del sud.
  C’è tutta una serie di altre caratteristiche che richiamano dinamiche importanti della politica nigeriana, una delle quali è il principio del federal character principle, secondo cui nelle istituzioni federali devono essere rappresentati, in quote che riflettano le proporzioni etniche, le diverse comunità del Paese, e poi le dinamiche importantissime tra il centro e la periferia, in quanto in un Paese così frammentato le forze centrifughe sono notevolissime.
  Nel nord è stato molto importante negli ultimi 15 anni il tema dell'adozione della Sharia da parte di 12 Stati federati del nord, nel sud un tema importante nel corso degli anni è stato quello della formula di derivazione, cioè della possibilità degli Stati da cui origina la ricchezza petrolifera della Nigeria di trattenere una quota importante degli introiti petroliferi.
  Le istituzioni sono disegnate dalla costituzione nigeriana in questa maniera: un'Assemblea nazionale bicamerale composta da Senato e Camera dei rappresentanti, eletti entrambi per 4 anni, in parallelo all'elezione di un presidente, eletto per 4 anni con un limite di due mandati.
  Ci sono poi le ovvie strutture giudiziarie di governo federale e un ruolo molto importante dei governi statali e locali. Si tratta infatti di un sistema federale che prevede sulla carta una devoluzione di poteri significativa ai 36 Stati federati, ma che in realtà qualcuno ha etichettato più come uno Stato unitario con un forte decentramento che come una vera e propria federazione, perché gli Stati federati della Nigeria restano fortemente dipendenti da Abuja in termini di risorse finanziarie che ricevono in grandissima parte dal governo federale.
  Il numero degli Stati nel tempo è aumentato: inizialmente la Nigeria era suddivisa in tre macroregioni, ma queste sono state frammentate fino a diventare 36 Stati nel 1996. La suddivisione delle risorse tra i diversi livelli di governo è molto importante: il governo federale mantiene oltre il 50 per cento delle risorse nazionali nigeriane, poco più di un quarto viene devoluto agli Stati federati e circa un quinto ai governi locali. Il principio di derivazione premia maggiormente gli Stati dell'area della produzione petrolifera nel sud-est.
  La Nigeria è un Paese strutturato in maniera tale da avere governi degli Stati che costituiscono la Federazione, dai quali le popolazioni locali si aspettano servizi, distribuzioni importanti, e una delle ragioni della ribellione nel nord-est risiede nella frustrazione popolare rispetto a quanto le autorità locali non sono state in grado di fare in questi anni.
  Le elezioni sono state posticipate di sei settimane (erano previste per febbraio) dalla Commissione elettorale indipendente nigeriana dopo una consultazione con l'esercito, che aveva evidenziato come, in vista di un'offensiva contro Boko Haram, non sarebbe stato in grado di garantire la sicurezza nello svolgimento. È stata data una lettura fortemente politica di questo: l'idea è che il governo contasse, a seguito di un'offensiva che in effetti c’è stata in queste settimane, di guadagnare consensi rimandando le elezioni, che sono quindi state fissate per il 28 marzo per le elezioni presidenziali, primo turno, e legislative. Seguirà poi all'inizio di aprile l'elezione dei governatori e delle assemblee degli Stati.
  Alle urne sono chiamati 70 milioni di elettori, ma non tutti hanno ricevuto la tessera elettorale per poter partecipare al voto. Ci dovrebbe essere anche 1 milione di sfollati nel nord-est, per il quale è prevista la possibilità di votare fuori sede. La competizione è bipartitica, ma il People's Democratic Party ha vinto tutte le Pag. 7elezioni passate. La tabella, di cui alla slide numero 14, evidenzia le maggioranze, che si sono ridotte a seguito di defezioni a vantaggio dell'opposizione; ma tale partito ha il controllo della maggior parte dei governatori statali.
  Al People's Democratic Party si contrappone quest'anno un partito nel quale sono confluiti nel 2013 i principali partiti di opposizione che avevano partecipato alle elezioni precedenti, lo All Progressives Congress.
  In merito alle elezioni presidenziali, è previsto un doppio turno, il primo il 28 marzo, ma nelle tornate elettorali precedenti non c’è stato bisogno di fare ricorso al secondo turno. Il sistema elettorale nigeriano è molto particolare: prevede addirittura tre turni elettorali, anche se il terzo è più sulla carta della Costituzione ed è poco plausibile che ci si arrivi.
  Al primo turno si vince con una maggioranza relativa più il 25 per cento dei voti in almeno due terzi degli Stati, logica che troveremo anche a livello di governatori degli Stati e che ha l'obiettivo di garantire una presidenza con ampio consenso in termini di distribuzione geografica del voto.
  In assenza di questo risultato il secondo turno prevede il ballottaggio tra i due candidati maggiormente votati e un requisito di distribuzione territoriale, che però in un ballottaggio diventa poco rilevante.
  I candidati sono formalmente 14, ma i reali contendenti sono solo due. Il primo è Goodluck Jonathan, presidente in carica del People's Democratic Party, esponente cristiano del sud-est del Paese, che ha come vicepresidente attuale un esponente del nord del Paese; ha ottenuto l'investitura all'unanimità da parte del partito per correre a un secondo mandato, ma questo ha scontentato una parte del People's Democratic Party, che nel 1999 era nato come partito volto a superare la cesura tra nord e sud del Paese. Alcuni suoi esponenti hanno lasciato il partito dopo la conferma della candidatura di Jonathan.
  I punti di forza di Jonathan sono il boom economico del Paese, che è diventato la prima economia africana con le nuove stime del prodotto interno lordo nel 2014 e le performance prima citate. Anche il successo contro Ebola, la capacità della Nigeria di evitarne la diffusione, nonostante alcuni casi registrati, è una carta che Jonathan ha nel proprio record di governo. Viceversa paga, subendo pesanti critiche, la volontà di essersi candidato alle elezioni del 2011 e di avere interrotto quel patto non scritto di alternanza tra presidenti del sud e presidenti del nord. Le popolazioni e gli esponenti politici del nord del Paese ritenevano che dopo la morte di Umaru Yar'Adua un altro esponente del nord avrebbe dovuto subentrare a Jonathan con le elezioni del 2011.
  Jonathan paga anche la congiuntura di sicurezza sfavorevole nel nord e parzialmente anche la congiuntura economica sfavorevole, perché il crollo del prezzo del petrolio si fa sentire in economie come quella nigeriana, che, per quanto diversificata, ha ancora il petrolio al centro.
  Buhari, l'esponente dell'opposizione dello All Progressives Congress, ha come candidato vicepresidente un cristiano, esponente politico proveniente da Lagos, ed è un musulmano.
  Questi due candidati hanno dato vita a una campagna elettorale che porterà al voto plausibilmente sul filo di lana. Bisogna anche tener conto che i sondaggi nigeriani danno risultati estremamente variegati, quindi non ci danno appigli per una stima solida di chi stia prevalendo. Certamente la candidatura di Buhari si è rafforzata nel tempo ed è un'opportunità per le opposizioni di scalzare i People's Democratic Party dal governo.
  Questo partito si è fatto forte della capacità di unire partiti che prima avevano un radicamento etno-regionale e anche del fatto di avere consensi importanti nel sud-ovest, non solo nel nord, che è l'area di riferimento più ovvia per una candidatura come quella di Buhari, ma anche nell'area degli Yoruba, la comunità predominante nel sud-ovest, il cui voto probabilmente sarà decisivo per l'esito delle presidenziali.Pag. 8
  I temi principali della campagna elettorale sono stati l'insicurezza nel nord-est, quindi l'insurrezione di Boko Haram, ma anche la corruzione, il tema della povertà, della cosiddetta «crescita inclusiva», il recupero del nord, che soffre una situazione di disagio sociale ed economico maggiore rispetto al sud del Paese, nel dinamismo economico complessivo del Paese.
  Vediamo più da vicino il profilo del candidato Buhari, che è già stato ai vertici dello Stato nigeriano quando l'ha guidato come dittatore militare tra il 1983 e il 1985. Ha 72 anni; appartiene alla comunità Fulani, la comunità etnica più numerosa nel nord del Paese; è un musulmano e, nonostante il suo passato di dittatore militare, ha naturalmente sposato la Carta costituzionale democratica della Nigeria. È stato coinvolto in tutte le elezioni precedenti, salvo quella del 1999, perché nel 2003, 2007, 2011 è stato il principale avversario dei candidati del PDP. Con un altro partito, nel 2011, aveva ottenuto però solo il 32 per cento contro il 58 per cento di Jonathan.
  All'interno di questo nuovo soggetto partitico l'APC ha ottenuto il successo alle primarie nei mesi scorsi, con cui ha potuto candidarsi alle presidenziali su una piattaforma unitaria, e ha ottenuto recentemente l'appoggio a sorpresa dell'ex Presidente Obasanjo, che è uscito dal partito che aveva contribuito a fondare, il PDP, nel febbraio 2015, e anche l'appoggio, a livello internazionale, da parte dell’Economist.
  Ha appoggi importanti anche nel sud-ovest, è una figura politica molto importante, che ha appoggiato la formazione dell'APC e la candidatura di Buhari, che dimostra ancora una volta il ruolo politico dei militari e degli ex militari dal punto di vista dell'agenda politica. Buhari ha posto al centro la lotta alla corruzione in un Paese, che è ancora ai vertici nelle graduatorie dei Paesi più corrotti a livello mondiale.
  È un fautore dell'adozione della Sharia nel nord, e in anni passati aveva adottato posizioni più marcate che in tempi più recenti sono state parzialmente smussate. Inizialmente anche nei confronti di Boko Haram aveva adottato posizioni più moderate, ma dopo aver subìto un attentato nel 2014 la sua presa di posizione è stata di chiara contrapposizione a Boko Haram.
  Benché qualcuno legga nell'APC una posizione più di centro-sinistra, socialdemocratica (ma probabilmente è una lettura fuorviante dei partiti nigeriani), l'agenda economica non prevede sostanziali rotture rispetto alla linea politica di Abuja prevalsa fino adesso.
  Nella stessa data in cui si tiene il primo turno per le presidenziali si tengono anche le elezioni per l'Assemblea nazionale, sia per la Camera dei rappresentanti che per il Senato con sistema elettorale uninominale all'inglese, e le importantissime elezioni dei governatori e delle assemblee degli Stati, che vengono eletti con un doppio turno, anche qui con requisito di distribuzione del voto come per le presidenziali. Sono 29 gli Stati su 36 che tengono elezioni in questa tornata, nei quali molti governatori sono uscenti perché siamo a 16 anni dall'avvio della nuova Costituzione nigeriana, quindi alla fine dei secondi mandati della seconda generazione di governatori.
  Ci sono tre Stati da seguire nella competizione elettorale, Lagos, Kano e Rivers, che sono tre grandi Stati dal punto di vista demografico ed economico, e sono controllati attualmente da esponenti dell'opposizione.
  Possiamo provare a delineare alcuni rischi politici di breve e medio termine nel Paese. Il primo, la corruzione, lo chiamerei addirittura rischio zero, perché è un elemento stabilmente presente nel Paese. La corruzione resta e resterà diffusa, così come anche l'insicurezza e l'instabilità politica che hanno sempre caratterizzato la Nigeria fin dall'indipendenza.
  Il secondo rischio sono le violenze elettorali, cui abbiamo assistito e assisteremo ancora fino al voto, nel corso di un eventuale secondo turno e plausibilmente anche dopo le elezioni, e la cui dimensione sarà importante. Nel 2011 le elezioni furono Pag. 9relativamente libere, ma anche le più violente nella storia della Nigeria sotto la nuova Costituzione.
  A seconda di chi vinca, Jonathan o Buhari, è plausibile che ci sia un ritorno di violenza nell'area della Nigeria che uscirà insoddisfatta, e quindi un'ulteriore escalation nel nord-est se dovesse vincere nuovamente Jonathan, o un ritorno di violenze nel Delta del Niger se dovesse vincere Buhari.
  Il terzo fattore di rischio è la possibilità che all'Assemblea nazionale si formi una maggioranza distinta rispetto a quella che eleggerà il presidente, rendendo l'azione del presidente nei prossimi quattro anni meno efficace, perché priva di un appoggio parlamentare.
  Il quarto fattore di rischio è il legame tra instabilità politica e andamento dell'economia. Già l'insicurezza generata da Boko Haram si è fatta sentire dal punto di vista dell'attività economica in Nigeria, e un'ulteriore escalation potrebbe generare ulteriori problemi che si sovrappongono all'andamento sfavorevole del prezzo del petrolio.
  Il quinto fattore di rischio è il seguente: in un'intervista dei giorni scorsi lo stesso Obasanjo ha parlato di voci di un ritorno dei militari al potere. In un Paese come la Nigeria con una storia di così ripetuto avvento dei militari al potere anche dopo 4-5 tornate elettorali è un'opzione che non si può del tutto escludere, tanto più se il governo di Abuja dovesse continuare ad avere difficoltà a reprimere la guerriglia di Boko Haram.
  Da ultimo, più nel medio-lungo periodo la Nigeria è un Paese che affronta un'enorme emergenza degli strati più giovani della popolazione che si allargano con l'esplosione demografica del Paese, che vanno spesso incontro a disoccupazione e frustrazioni che possono essere facilmente mobilitate anche in occasione di eventi violenti. Grazie.

  MARCO MASSONI, segretario generale dell’Institute for Global Studies, direttore editoriale della rivista «Politica Africana». Grazie. Avrei predisposto una presentazione ma posso andare a braccio, anche perché credo sia interessante seguire direttamente, dopo le indicazioni del professor Carbone, una serie di punti particolarmente allarmanti per quanto riguarda il quadro di sicurezza della Nigeria oggi.
  In estrema sintesi, definirei in maniera scherzosa quanto sta avvenendo nel nord-est della Nigeria con il fenomeno Boko Haram, con il movimento secessionista collegato, Ansaru, come un call for proposal, una richiesta di attenzione nei confronti di qualsivoglia interlocutore – ossia chi mi può sostenere indipendentemente dalle ragioni che io vorrei rappresentare – perché sicuramente Boko Haram non rappresenta le esigenze disattese delle popolazioni del nord-est, prime vittime delle sue rappresaglie.
  Vi è anche questa richiesta di franchising, di etichetta, prêt-à-porter nei confronti del Daesh, che alcuni hanno interpretato come un momento di debolezza: io lancio un richiamo su internet al Califfo in Siria per chiedergli avallo, ma il Califfo in Siria non sa neanche chi sia il leader di Boko Haram e chi siano costoro, infatti l’endorsement è stato dato con alcuni giorni di ritardo e alcuni sostenevano che neanche sarebbe potuto accadere (io non ero fra quelli).
  Il punto fondamentale è un call for proposal per cercare di giustificare non le ragioni che non porta avanti Boko Haram, ma le finalità che si prefigge. Le finalità sono ovviamente ricchezza, potere, controllo del territorio, che di fatto non è mai stato esercitato dalle autorità nazionali a partire dal momento della decolonizzazione, al di là del fatto che il sistema federale dello Stato nigeriano, come diceva giustamente il professor Carbone, consente una distribuzione non delle ricchezze, ma del controllo politico per via amministrativa nei vari Stati in cui poi dopo le riforme che ha menzionato nel corso degli ultimi decenni li hanno costituiti, quelli del nord in particolare, e di questi stiamo parlando, di Borno, Yobe e Adamawa.
  Questi effettivamente dimostrano come la Nigeria, nonostante da tre anni a questa Pag. 10parte sia il gigante economico dell'Africa, avendo superato lo stesso Sudafrica in termini di PIL, sia uno Stato fragile, una weak country esattamente come lo sono tutti gli altri Stati dell'Africa occidentale, in parte anche di quella centrale e tipicamente dell'Africa.
  L’élite al potere che si sta contendendo la campagna elettorale e il voto di dopodomani è un’élite corrotta, perfettamente autoreferenziale, esclusa da qualunque circolo virtuoso con la società civile estremamente dinamica della Nigeria, e questo lascia intendere che ci sono le condizioni – mai quanto adesso – per un colpo di Stato militare.
  Lo dico parlando con i nigeriani, anche se è vero che, formalmente, nel corso delle ultime quattro tornate elettorali dopo la dittatura degli anni ’90, si è comunque affermato in Nigeria come altrove in Africa un principio procedurale di processi elettorali, che si sono compiuti con capi di Stato e di governo correttamente eletti.
  In questo momento un membro del Parlamento europeo, Cecile Kyenge, è appena arrivata ad Abuja, e assieme agli altri colleghi membri del Parlamento europeo segue la missione di osservazione elettorale dell'Unione europea, ma le violenze di cui parlava il professor Carbone ci sono, ci saranno e ci sarebbero state indipendentemente da Boko Haram, perché parliamo di violenze giustamente legate al processo elettorale e alle dinamiche politiche di mancanza di rappresentatività della maggior parte della popolazione, che non si vede per niente rappresentata dall’élite politica. Sembra un vecchio adagio conosciuto anche in altri Paesi.
  Tornando all'aspetto di fragility e weakness e sicurezza, tutti sanno che di notte i mercenari sudafricani compiono le azioni che poi il giorno dopo le Forze armate nigeriane presentano come proprie. Il secondo Paese (per alcuni il terzo per Forze armate in Africa) non è in grado, perché l'80 per cento dei suo ufficiali è veramente corrotto nel senso etimologico del termine e non è leale nei confronti del governo federale, come capacità operative e quindi tattico-strategiche di fare fronte all'avanzata di quattro scalmanati, per cui deve ricorrere segretamente al sostegno militare altrui.
  Non contenti di questo, si rivendica ancora giustamente da un punto di vista istituzionale la pericolosità di cedere altri piccoli pezzi di sovranità del controllo territoriale, quando non appunto ai mercenari di cui sopra, alle Forze armate degli Stati confinanti (Niger, Ciad e Camerun) che giustamente sono intervenute nel contenere l'espansione e le azioni militari devastanti, di cui con due pesi e due misure non sembriamo quasi accorgerci rispetto a quanto purtroppo succede con rapimenti di massa (l'ultimo di ieri) di bambini, di donne, di ragazze.
  Anche la moglie del vice primo ministro del Camerun a fine luglio dello scorso anno fu rapita da Boko Haram in Camerun. Il controllo di queste zone, in cui gli attori non statali esercitano di fatto una forma parziale di sovranità, determina la possibilità che questo accada. Quindi una cesura netta come eventuale alternativa politica ad una potenziale secessione di alcuni Stati del nord-est – non di Boko Haram, ma di alcuni militari che li sostengono indirettamente e di alcuni governatori o comunque politici di quegli Stati o di altri che ne hanno sicuramente interesse – è un elemento di cui tenere conto.
  Altro elemento riguarda la sovranità nigeriana tanto reclamata, tanto difesa che cede, si sfarina in ragione dell'incapacità di gestire il territorio, in questo caso militarmente ma, come è stato ampiamente descritto, il problema riguarda la disattenzione generale da parte di un governo centrale nella redistribuzione delle ricchezze nei confronti degli Stati.
  Le zone attaccate da Boko Haram sono quelle più povere, più diseredate e tuttavia niente affatto irredentiste, elemento importante, in quanto non sta succedendo nel nord della Nigeria quanto accadde in Mali tre anni fa, dove i Tamasheq Tuareg, con l'ipotesi strategica di affrancarsi finalmente dal governo centrale del sud, si allearono tatticamente con i «simpatici» Pag. 11terroristi qaidisti per ottenere gli uni l'indipendenza, per quanto solo da se stessi riconosciuta e da nessun altro, gli altri invece per cercare di prendere il controllo definitivo di quel territorio, senza riuscirci. Il film Timbuktu dà l'idea di quanto accadde. Questo è importante perché è un secondo elemento di cesura.
  Probabilmente il fenomeno Boko Haram può essere letto come un'assenza di risposta da parte di uno Stato incapace di gestire la propria sovranità fino in fondo, che si è allargato in termini di pertinenza attraverso confini estremamente porosi, più sulla carta che altro, sino a intaccare la sovranità di Stati confinanti in parte più potenti, più capaci, più determinati a contrastarne gli effetti nefandi. Questa come lettura molto generale.
  Ovviamente chiunque vinca dei due candidati nessuno sarà il migliore, perché l’élite di cui parlavo all'inizio è tale da impedire una sorta di sdoganamento di giovani capaci, che esistono nel Paese, ma che non sono in grado di finanziarsi in campagna elettorale e di penetrare le maglie del potere costituito.
  Lo dico perché ho visitato la Nigeria, la conosco, ho i miei referenti e devo ammettere che la ricchezza intellettuale che si trova in questo Paese è enorme; questa India, come giustamente è stata definita, è veramente grande e le nostre riduzioni dall'Europa fanno grandi tagli. Quindi, le politiche da suggerire sono politiche da Stato fragile, che troveranno sempre difficoltà di accettazione da parte del potere costituito.
  Probabilmente, quindi, con forme di soft power e meno di hard power, dovremmo contribuire a un'elevazione del livello del dialogo politico all'interno della società nigeriana, anziché semplicemente fornendo armi, perché in realtà le hanno e uno dei motivi per cui gli Stati Uniti hanno abbandonato la leadership dell’incumbent, cioè del Presidente che si sta ricandidando, è il fatto che non collaboravano neanche in senso militare, in maniera strategically oriented.
  Altri elementi di cui tenere conto. In Nigeria come in altre parti ad essa molto vicine c’è quella cesura che nella cartina illustrata del professor Carbone era particolarmente evidente, tratteggiata in giallo, ossia il rischio che qualcuno diverso da Boko Haram approfitti dell'incommensurabilità antropologica e culturale fra nord islamico e sud cristiano, con tutte le dovute differenze e complicate caratteristiche che ciascuno di questi due blocchi rappresenta. Ciò potrebbe favorire, nel caso della vittoria del presidente dell'APC Buhari, lo spostamento di cristiani che decidono di abbandonare gli Stati del nord in cui ancora vivono per evitare di trovarsi nel fuoco incrociato che potrebbe manifestarsi.
  Può essere un fallimento in entrambi i casi perché, come diceva il professor Carbone, se vince l'uno si evidenziano le resistenze dell'altro e viceversa. Mi rendo conto che queste grandi semplificazioni non aiutano a penetrare la complessità di una delle nazioni più difficili da esaminare, ma evidentemente la narrazione secondo la quale la Nigeria è un nuovo Sudafrica come gigante economico tende a disorientare rispetto alla insormontabilità dei problemi lungamente non affrontati, che ovviamente presentano il conto. Vi ringrazio.

  PRESIDENTE. Do la parola a Emilio Manfredi, che è in collegamento da Dakar.

  EMILIO MANFREDI, ricercatore dell’International Crisis Group. Buon pomeriggio a tutti, grazie per questa occasione. Dispiace aver più che altro intuito gli interventi dei colleghi, per cui mi scuso se dovessi tornare su punti già trattati da loro, ma ho fatto fatica a seguirli.
  Poiché mi è stato chiesto di parlare delle minacce alla stabilità nel quadrante regionale, mi permetto di proporvi un piccolo cambio di sguardo. Quando pensiamo al continente, di solito siamo abituati a guardare la regione in una dimensione più che altro orizzontale e a separare la zona del nord Africa, la zona del Sahel, la regione subsahariana, e a tendere a vedere le regioni in maniera un po’ disconnessa l'una dall'altra.Pag. 12
  Oggi, quindi, per parlarvi delle minacce di stabilità al quadrante regionale forse vi aspettereste che parlassi di Africa occidentale, centrandomi intorno alla Nigeria, che è il Paese più rilevante perché più popoloso con 180 milioni di abitanti e perché è anche la prima economia del continente, mentre vorrei proporvi un approccio diverso, che sta informando le mie ricerche e i miei viaggi sul terreno in questi ultimi mesi, e offrirvi una visione secondo un asse di divisione verticale, in cui il quadrante regionale parte da sud, dalla Nigeria, per spingersi sino al nord e arrivare sino in Libia.
  Se immaginiamo questi due Paesi come due attuali poli di estrema tensione politica per ragioni che valuteremo dopo, vediamo che nell'area compresa tra loro si trovano un Niger estremamente vulnerabile e un Ciad che la comunità internazionale tende a vedere spesso come un alleato affidabile per le operazioni di forza nella regione, ma che al suo interno ha un'enorme scontentezza popolare nei confronti del Presidente Déby.
  L'approccio che vorrei dare allo sguardo di questa regione oggi non è limitato soltanto a interazioni vere, presunte, limitate o intense tra i gruppi jihadisti che si muovono nell'area, che sicuramente ci sono, ma vorrei cominciare da uno sguardo più ampio, perché non dobbiamo dimenticare che tutto nasce da specificità locali e in questa regione la competizione per l'accesso alle risorse sempre più scarse, a strumenti o a leve di potere politico che permettono di accedere alle opportunità economiche, è il dato fondamentale che origina conflitto, conflitto che poi viene manipolato da forze esogene ma solo in un secondo momento.
  Faccio questa precisazione iniziale perché penso che questo sia molto importante in un momento in cui si tende ad affrontare sempre più la superficie jihadista dei conflitti e a dimenticare quello che sottende, mettendo in pratica delle policy che hanno l'effetto di un cerotto su una ferita da arma da fuoco.
  Torniamo a questa striscia di territorio che va dal basso verso l'alto e che stiamo analizzando oggi e vediamo che lo stress politico è molto forte ed è precedente alla minaccia jihadista. Abbiamo una debolezza o un'assenza delle istituzioni statali, fenomeni socio-economici preoccupanti quali la modificazione degli stili di vita tradizionali, un'urbanizzazione rapida e assolutamente mal gestita dagli Stati, che corre parallela a un boom demografico enorme.
  Dobbiamo ricordare (questo secondo me è il dato più importante) che in questa regione almeno il 60 per cento della popolazione ha meno di 25 anni, e questa parte enorme della popolazione si trova a fronteggiare fenomeni di disoccupazione, di alienazione, di marginalizzazione che sono socio-politicamente inquietanti. Su tutto ciò si innesta la presenza certo di fenomeni di radicalizzazione islamica violenta molto allarmanti, ma (ancor più allarmante per me) la presenza di estesi network criminali, che sfruttano tutte queste fragilità socio-politico-economiche per proliferare e per reclutare.
  Su questo stesso asse, attraverso questi stessi network, dal Golfo di Guinea verso la Libia, peraltro, viaggiano tutti i migranti che arrivano dall'Africa occidentale verso l'Europa e che ci costringono a preoccuparci per varie ragioni di politica internazionale e di politiche nazionali.
  Partiamo, quindi, dal basso di questa striscia verticale, dalla Nigeria, dove la corsa verso le elezioni presidenziali e generali, le più contese dal ritorno del Paese alla democrazia avvenuto nel 1999, si è intrecciata ad una tensione molto pericolosa, all'allarme e al panico seminati dall'estensione della capacità militare e territoriale del gruppo jihadista di Boko Haram. Si tratta di una strategia messa in atto a partire dalla primavera scorsa, e aggravata sia dal punto di vista mediatico che dal punto di vista delle potenziali connessioni terroristiche dall'affiliazione al Daesh.
  Quando pensiamo alle elezioni in Nigeria ormai non possiamo più non pensare anche alla situazione del nord e alla situazione militare del nord. Le conquiste territoriali di Boko Haram avevano eroso Pag. 13in maniera importante quello che rimaneva della non enorme fiducia popolare nel partito al potere, nel People's Democratic Party del Presidente Jonathan, e quindi avevano cominciato a far precipitare le possibilità di rielezione del presidente uscente.
  Proprio l'insurrezione e la capacità espansiva di Boko Haram ha fatto sì che a febbraio le elezioni venissero fatte slittare di sei settimane con la scusa o la giustificazione (a seconda di come la si voglia leggere) che le forze di sicurezza nigeriane, occupate in una massiccia campagna militare per riconquistare territori perduti, non potessero al contempo garantire un pacifico svolgimento delle elezioni. Questa decisione che appare saggia e apolitica in realtà ha due aspetti meno evidenti che però non dobbiamo dimenticare, uno di tipo interno e uno di tipo regionale.
  Dal punto di vista interno, il governo e l'esercito nigeriano non erano stati in grado per anni di mettere in atto una seria campagna contro Boko Haram per indecisione, incapacità, mancanza di training, ma soprattutto per l'enorme corruzione dell'esercito e della politica nigeriana in generale, per cui gli enormi investimenti militari nigeriani, buona parte dei quali volti a combattere Boko Haram, non hanno mai raggiunto il fronte nord, ma si sono perduti in rivoli di corruzione a larga, media e piccola scala, facendo sì che le truppe stanziate nel nord spesso non ricevessero gli stipendi.
  Tutto ciò ha causato in Nigeria enormi e ripetute critiche nei confronti sia dell'esercito che della politica e del presidente stesso, perché molti soprattutto nell'opposizione avevano accusato il PDP di essere ormai alla guida di un sistema cleptocratico, totalmente incapace di proteggere lo Stato e i cittadini.
  Dal punto di vista regionale la decisione della Nigeria di condurre una campagna anti Boko Haram a un mese dalle elezioni è stata ufficialmente dovuta alla decisione unilaterale del Paese vicino, il Ciad, di intervenire in Nigeria per evitare uno spillover della minaccia Boko Haram nel proprio territorio e nel Niger, due Paesi molto deboli che si sentivano sempre più minacciati dalla pressione del gruppo jihadista.
  È però importante ricordare che il Ciad, Paese che ha l'esercito più potente ed addestrato della regione nonostante sia un Paese poco abitato soprattutto rispetto alla Nigeria, riceve un importante sostegno sia dalla Francia che dagli Stati Uniti ed è stato capace di riprendere buona parte di ciò che è stato riconquistato del nord fino a questo momento, perché le altre aree nominalmente riconquistate nel nord dalla Nigeria sono state riconquistate soprattutto da forze mercenarie sudafricane, ex forze speciali del regime dell’apartheid a cui il governo del Presidente Jonathan ha di fatto subappaltato la campagna anti-insurrezione.
  Questo è importante perché il Presidente del Ciad Déby è stato accusato per anni fino a febbraio di essere reticente nei confronti della risposta Boko Haram, se non addirittura uno sponsor del gruppo stesso. I due elementi, quindi questo strano ruolo del Ciad e lo strano ruolo dei mercenari sudafricani prestati all'esercito nigeriano, ha fatto crescere domande in tutti coloro che si occupano di analisi di questa situazione a nord della Nigeria, soprattutto rispetto al fatto che la più grande potenza del continente africano abbia delegato il monopolio dell'uso della forza all'interno del proprio Stato a un Paese confinante o a una ditta privata di contractor.
  Tutto ciò genera enormi domande sul perché lo Stato nigeriano e il Presidente Jonathan in particolare abbiano deciso di intervenire soltanto a febbraio, ma soprattutto queste domande ne generano altre ancora più preoccupanti, cioè cosa resta del forte colosso nigeriano nel 2015.
  Questo ci costringe a tornare indietro e a riconsiderare le elezioni in Nigeria. Il Presidente uscente Jonathan, cristiano, membro del PDP – il partito che nel 1999 ha permesso la transizione dal regime militare alla democrazia –, da allora non ha più lasciato il potere diventando un'istituzione Pag. 14che tutto controlla e sotto cui tutto si articola dal punto di vista politico, militare e degli interessi economici.
  Non a caso il logo del PDP è un ombrello, che mi sembra indicativo di come il partito sia diventato un collettore di interessi più che della capacità di ascoltare l'umore della popolazione nigeriana.
  Contro il PDP troviamo per la prima volta una forza di opposizione che è stata capace di presentarsi in maniera coerente e di offrire un candidato, che è sicuramente un ex dittatore militare, il generale Muhammadu Buhari, che è stato identificato da buona parte dell'opinione pubblica nigeriana come una figura di cambiamento forse necessaria di fronte a una presidenza precedente ritenuta fallimentare.
  È importante ricordare che Muhammadu Buhari è anche un musulmano, e in un Paese molto polarizzato in cui la popolazione è spaccata in due tra un 50 per cento di musulmani e un 50 per cento di cristiani più qualche minoranza animista, questo dato è molto importante.
  In un sistema come quello nigeriano, in cui il vincitore prende tutto (winner takes all), una polarizzazione così forte significa molto, perché dobbiamo chiederci, sempre che sabato si tengano le elezioni, se il risultato, che verrà sicuramente contestato da chi uscirà sconfitto, dovesse essere favorevole al partito di Buhari, sarebbe accettato in maniera pacifica dal PDP, dal partito al potere in questo momento, e se appunto questo ombrello di élite militari, politiche ed economiche accetterebbe di lasciare la guida di una macchina che produce molti soldi.
  Quello che mi preoccupa ancora di più è il fatto che dal punto di vista socio-economico questo gigante che è la Nigeria, che ha un PIL in crescita, ha anche una popolazione il cui 70 per cento ha meno di 30 anni e ha pochissime opportunità dal punto di vista dello sviluppo socio-economico e della mobilità sociale.
  Mentre il PIL nigeriano esplode, il 62 per cento dei nigeriani continua a vivere sotto la soglia di povertà, una grande parte di questo 62 per cento vive in aree urbane in cui regna la marginalizzazione e si lotta per la sopravvivenza. Di fatto, quello che rimane è una situazione politica ma soprattutto socio-economica esplosiva, in cui il senso dello Stato, della cosa pubblica sono andati svanendo e ognuno fa squadra con se stesso o al massimo con la propria famiglia.
  Tutto ciò ha portato a una perdita del senso dello Stato e a una forte polarizzazione su identità alternative, che nel nord, ad abbondante maggioranza musulmana, ha portato a un richiamo a valori religiosi forti, spesso in funzione anti corruzione e antidecadenza. Questa polarizzazione si è vista particolarmente nel nord-est, e, dopo anni di islam quietista e di predicazione, la repressione dell'esercito nigeriano contro Boko Haram ha portato al passaggio dalla predicazione al combattimento di questo gruppo, con tutte le conseguenze che stiamo vedendo in questo momento.
  Queste domande su cosa succederà, quale sarà l'uscita dalla crisi politica in Nigeria, quale sarà l'uscita dalla crisi militare jihadista nel nord della Nigeria e come si posizioneranno nei prossimi anni i 100 milioni di giovani nigeriani a cui lo Stato finora non è stato in grado di offrire alcuna risposta esauriente, ci fanno volgere lo sguardo verso nord, ci fanno entrare in Niger, Paese molto grande ma poco abitato (ha solo 18 milioni di abitanti), e anche uno dei Paesi più poveri al mondo, privo di risorse se non le risorse del sottosuolo, che però vengono estratte e non producono benessere per la popolazione ma soltanto per le proprie élite.
  Anche qui abbiamo dati molto allarmanti soprattutto in merito al boom demografico, perché in Niger in questo momento oltre il 70 per cento della popolazione ha meno di 20 anni e la crescita annuale della popolazione è intorno al 4 per cento. Ciò significa che tra 18 anni la popolazione raddoppierà in uno Stato in cui la scuola pubblica di fatto non esiste più, le opportunità di lavoro non esistono e il Presidente Issoufou, eletto democraticamente nel 2011 sulla spinta di una campagna elettorale votata alle riforme, che poi non è stato però capace di realizzare, Pag. 15ha deciso che per mantenere il potere fosse meglio avvilupparsi in una rete di network clientelistico-criminali e gridare alla minaccia jihadista per farsi sostenere da alleati regionali e internazionali e puntare alla rielezione nelle elezioni presidenziali dell'anno prossimo, che si preannunciano simili a quelle a cui stiamo assistendo in Nigeria.
  Dal Niger passano questi flussi di giovani uomini e donne migranti, che vanno verso nord, verso la Libia, e vengono presi in carico da questi sempre più importanti network criminali che attraversano la regione e controllano il passaggio di uomini, di droghe, di beni di contrabbando e ci portano fino in Libia, al termine di questo asse verticale di cui volevo parlarvi oggi.
  Sono stato in Libia un paio di settimane fa per fare una ricerca e ho trovato un Paese disintegrato, in molte zone preda delle fazioni militari che spesso sono parte di questi network criminali e in cui sicuramente è preoccupante il rischio di una fiammata jihadista. La cosa che più mi ha preoccupato è stato il sud della Libia, il Fezzan, perché mi sembra che sia la zona grigia del Paese, quella più dimenticata ma che funge in questo momento da collettore di tutto ciò che sale e che scende lungo questo asse che vi ho appena descritto (migranti, droghe, contrabbando, forze islamiste).
  Dobbiamo tenere a mente tutto questo, perché come sistema Italia questa cosa ci tocca per primi, essendo geograficamente posizionati subito a nord della Libia e di questo asse. Vi inviterei quindi a tenere a mente questa traiettoria verticale, perché, se è vero che la Libia rappresenta la minaccia del Daesh e la minaccia dell'integralismo, è anche una minaccia come punto di passaggio di tutto ciò che sale dalla Nigeria attraverso il Niger, il Ciad, il Mali e arriva fino alle coste del Mediterraneo.
  Si tratta di migranti, di beni, ma anche di tensioni, quindi quando l'Italia guarda al quadrante regionale del sud è importante che tenga presente che le risposte che i governi del Golfo di Guinea e del Sahel non sanno dare alle proprie popolazioni sono mancate risposte che fanno sì che ci siano delle masse che si muovono verso nord, sempre più marginalizzate dal dibattito politico, sempre più alienate dallo sviluppo socio-economico e che quindi potenzialmente pongono sempre più un problema di radicalizzazione o di criminalizzazione che arriva anche fino a noi. Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie. Autorizzo la pubblicazione della documentazione consegnata dal professor Giovanni Carbone in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato).
  Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  LUDOVICO VICO. Grazie, presidente. Mi scuso per essere arrivato in ritardo. Il mio interrogativo in merito ai lavori in corso è se continui ad essere possibile che le chiavi di lettura che noi occidentali continuiamo ad avere possano essere quelle della geopolitica.
  Questo pone un interrogativo non solo dal punto di vista lessicale della geopolitica, ma dal punto di vista delle sue funzioni indubbiamente valide, ma anche da una posizione dominante o dentro una posizione abbastanza simile, di lettura di una contesa dei territori.
  Non escludo che non sia una chiave (non sono giunto a tale conclusione personale, per quanto possa valere), però il punto è se l'alternativa alla geopolitica sia la narrazione, come spesso accade, per essere consegnata ad altri come potere decisionale. Le ragioni più significative della storia dell'umanità e dei territori risiedono sempre nell'area dei loro conflitti.
  Esiste quindi anche in Nigeria per le ragioni di interdipendenza dominante, che è occidentale, una lettura che non costruisca il conflitto solo attraverso la geopolitica, attraverso i mezzi di comunicazione come elemento assolutamente più finto delle ragioni vere, una possibile lettura, che riparta dalla contesa ?
  Solo venticinque anni fa c'era stato raccontato che la storia fosse finita (cito Pag. 16Fukuyama com’è noto a tutti i colleghi presenti). Sembra che non fosse vero ma per una quindicina d'anni ci siamo stati tutti nei convivi e nei forum, anche quando le intelligenze hanno provato a offrirci chiavi di lettura.
  Le ragioni economico-sociali di quella terra e del suo contesto più generale sono prescindibili dalle stesse ragioni del conflitto sociale, che non è riconducibile a quello occidentale del XIX o del XX secolo ? Se fosse così, è possibile immaginare che la chiave sia che la costruzione del consenso è il sesto elemento comune dell'umanità di questo pianeta ?
  Se il consenso è il sesto elemento, muove dentro alcune ragioni che forse per maggiore esperienza immaginifica potremmo rendere esplicito per una soluzione che è la speranza, se posso usare questo termine.

  FRANCO CASSANO. I nostri auditi in qualche modo si sono divisi il lavoro. Il professor Carbone ci ha collocato nella complessità del quadro generale, mentre i due interventi successivi hanno insistito con molta forza ognuno su un punto.
  Lei ha esordito dicendo di vedere il rischio di un golpe militare, quindi di un ritorno al passato, mentre Manfredi ha richiamato varie volte il dato dell'incremento demografico come elemento che sbilancia in modo formidabile quel sistema.
  Se le due cose non sono in contraddizione, la domanda che mi viene da fare è questa: qualora non si trovi una risposta politica (in tutte le relazioni si è citato un deficit di risposte da parte dell’élite), dobbiamo immaginarci una radicalizzazione crescente ? Se questo è vero, quali direzioni potrà prendere ? Questo apre infatti uno spazio molto forte all'integralismo, all'Isis.
  Colpisce vedere la Nigeria con una Costituzione che ricorda quella americana, perché ho l'impressione che ci sia un conflitto tra questa struttura politico-istituzionale con i suoi pregi e qualcosa di tremendamente esplosivo che cova al di sotto, rispetto al quale la mia impressione è che rispondere mantenendo gli equilibri e cercando di evitare che si scivoli sul terreno del golpe sia una risposta tremendamente limitata, insufficiente.
  C’è uno spettro che si aggira per l'Africa, non più per l'Europa, non voglio fare analogie con qualcosa che tutti ricordiamo, però mi colpisce constatare come lo sviluppo economico non accompagnato da una risposta politica rilevante divenga un veicolo di radicalizzazione attraverso lo sviluppo demografico e quindi lo squilibrio di tutte le società tradizionali o modernizzate.
  Lo sbocco del Niger mi sembra una possibilità in questo spazio vuoto, ma ho l'impressione che il richiamo che veniva dal complesso delle relazioni fosse di preoccuparsi molto seriamente.

  LIA QUARTAPELLE PROCOPIO. Ringrazio molto i relatori che hanno evidenziato una questione cruciale, ossia il tema degli Stati fragili. In vario modo le tre relazioni hanno delineato le caratteristiche che rendono queste elezioni in Nigeria particolarmente complicate e il contrasto al terrorismo altrettanto complicato sia per la fragilità delle istituzioni che per la mancanza di un senso di unità nazionale, elemento che riscontriamo in tutti i Paesi che oggi hanno difficoltà a contrastare il fenomeno del terrorismo fondamentalista. Come diceva Manfredi, i valori islamici a un certo punto sono stati presi in modo radicale proprio come antidoto a istituzioni non funzionanti.
  Sollevo due questioni. La prima riguarda la possibilità di vedere in Nigeria quello che abbiamo visto altrove in Africa, ossia una rottura dello Stato. Tra l'altro, è un Paese che ha già vissuto un tentativo di scissione e di secessione. Tra i rischi questa cosa non è stata delineata, ma può esserci.
  La seconda: riprendendo anche il suggerimento di Massoni sull'interazione in termini di soft power, noi stiamo facendo questa indagine conoscitiva anche per capire come l'Italia dal punto di vista politico e diplomatico possa avere a che fare con questi Paesi.Pag. 17
  Quali sono quindi gli elementi che tengono insieme un Paese come la Nigeria ? Nonostante io abbia molto apprezzato il suggerimento di Manfredi in merito a questo asse nord-sud, per cui se cade la Libia noi abbiamo un problema vero a sud della Libia, la Nigeria non è la Libia e non è neanche uno degli Stati saheliani dell'Africa (Mali, Niger) da un punto di vista geografico, che incide tanto sulla fragilità degli Stati, ma anche per altre ragioni.
  Quali sono quindi gli elementi che possono essere incentivati in un dialogo politico per dare una risposta, anche in relazione all'Italia, al tema della fragilità degli Stati ?

  PRESIDENTE. Grazie. Terrei a porre alcune domande precise, scusandomi se alcune cose sono già state dette. L'attuale fragilità statuale della Nigeria quali effetti diretti potrebbe avere rispetto a Paesi confinanti, sul piano della politica interna di quei Paesi ? Quali possono essere i risvolti di un intervento militare in Libia e quindi della caduta dello Stato libico e dell'apertura di un conflitto che vedrebbe la parte confinante, quindi quella meridionale e occidentale della Libia, particolarmente coinvolta ?
  Do la parola al professor Carbone per la replica.

  GIOVANNI CARBONE, professore associato di Scienza politica presso l'Università degli studi di Milano, nonché ricercatore dell'Istituto per gli studi di politica internazionale. Provo a rispondere ad alcuni dei punti che sono stati sollevati. È stato giustamente rilevato come diamo delle letture più complementari che competitive. Io mi sono concentrato sulla Nigeria vista più dall'interno, gli altri due relatori più in chiave regionale geopolitica.
  Ho cercato di sottolineare come io veda – in accordo con molti osservatori – delle radici fortemente locali in quello che sta avvenendo nel nord-est della Nigeria, in quanto la ribellione di Boko Haram nasce in una situazione di disagio forte, crescente, di frustrazione nei confronti di governi locali, il Borno su tutti, particolarmente corrotti e particolarmente inetti a rispondere alle esigenze della popolazione più povera di tutta la Nigeria nel contesto in cui una parte della popolazione viaggiava come una locomotiva, perché abbiamo visto con quale sviluppo procedesse la Nigeria.
  Un punto importante è cercare di capire come in questo tipo di contesti si crei un terreno in cui possono emergere iniziative come quelle di Boko Haram, che nella fase iniziale godono di una sorta di tolleranza, vengono viste in un modo che poi non è più lo stesso con cui viene visto Boko Haram oggi agli occhi di popolazioni diventate vittime di questa insurrezione.
  Abbiamo parlato della posizione dello stesso Buhari che inizialmente era più moderato, ma sono tante le figure politiche nigeriane che inizialmente sono state non così critiche nei confronti di quello che stava nascendo. Questo è un fenomeno che troviamo anche altrove in Africa: due anni fa si è molto parlato della Lord's Resistance Army, che è quell'esercito di resistenza operativo nel nord Uganda per tanti anni e adesso fuoriuscito.
  La dinamica richiama molto quella: è una formazione che nasce in un contesto di risentimento locale e che quindi non rappresenta propriamente (perché sarebbe sbagliato dire che rappresenti) la popolazione locale, ma emerge perché mancano dei canali di espressione di difficoltà, di disagio sociale.
  Quella stessa popolazione nel nord-est della Nigeria, così come accaduto per vent'anni con i bambini rapiti e le migliaia di morti nel nord Uganda, finisce per essere la principale vittima di questo tipo di mobilitazione, quindi cambiano le cose e sul terreno prevale contrapposizione, resistenza.
  Questo per enfatizzare da un lato che ci sono importanti radici locali, in aggiunta sicuramente anche al tema dei legami regionali e internazionali, degli appoggi a Boko Haram, ma ci sono importanti ragioni di geografia socio-economica e politica della Nigeria, e dall'altro questa Pag. 18evoluzione che mi sembra stia seguendo Boko Haram che riflette quello che abbiamo visto anche altrove.
  Sulle capacità delle élite di governo nigeriane, le élite di governo del nord-est sono considerate appunto particolarmente inefficaci, però non facciamo un tutt'uno della Nigeria come Stato fragile. Il tema della fragilità dello Stato è applicabile alla quasi totalità dell'Africa subsahariana, ma ci sono differenze tra Stato e Stato. Non dimentichiamo che l'esercito della Nigeria stabilizzava l'Africa occidentale con tutti i suoi difetti negli anni ’90, quindi è stato sorprendente quanto si è dimostrato inetto nell'affrontare l'emergenza nel nord-est. Non è sorprendente se seguiamo l'evoluzione che ha avuto dai tempi del regime di Abacha in poi, è un esercito che è andato declinando in capacità e potremmo approfondire perché questo sia avvenuto.
  Gli Stati deboli hanno sempre difficoltà a reprimere questo tipo di insurrezioni, le abbiamo viste durare dieci, venti, trent'anni in angoli diversi dell'Africa, perché la prima difficoltà degli Stati poveri e deboli è riuscire a controllare in maniera completa il proprio territorio.
  La Nigeria si inserisce in questo quadro di Stati con capacità limitate nella regione, ma a mio giudizio non può essere messa sullo stesso piano degli Stati fragili in posizioni più estreme come Centrafrica e Sud Sudan, che sono altre realtà. Dalla Nigeria ci si può aspettare di più e lo dimostra anche il fatto che all'interno del Paese ci sono importantissime differenze tra governatori del nord-est, governo di Abuja nel nord-est particolarmente inefficace, e lo Stato di Lagos che è portato ad esempio di un'amministrazione che negli ultimi quindici anni ha fatto delle cose molto importanti in termini di crescita della capacità impositiva, cioè raccogliere le tasse e cominciare a far funzionare lo Stato come dovrebbe funzionare, con un ingresso di finanziamenti raccolti dalla popolazione, e uscita in termini di servizi, prestazioni statali.
  Sono amministratori che ci hanno saputo fare e lo Stato di Lagos ha 20 milioni di abitanti, è più grande da solo della metà circa degli Stati dell'Africa subsahariana, ha un PIL di 90 miliardi di dollari, è più grande del Kenya. Nella Nigeria ci sono quindi importanti differenze e questi sono i due estremi, che attraversano il Paese dal sud-ovest al nord-est.
  Cosa serve per affrontare il problema di quella che comunque resta una limitata capacità statale anche in Nigeria ? Tante cose si possono pensare, ad esempio strategie in particolare in chiave europea di appoggio a strutture che promuovano la sicurezza nell'Africa sub-sahariana, ma c’è un punto che bisogna tenere a mente: gli Stati si sviluppano con lo sviluppo economico e la Nigeria da questo punto di vista sta facendo balzi in avanti. Non possiamo aspettarci una storia lineare: la Nigeria è un puzzle enorme di diversità economiche, etniche, regionali che abbiamo cercato di dipingere, avrà una storia travagliata come l'abbiamo avuta in Italia e in qualsiasi altro Paese europeo.
  Non possiamo pensare che in 15 anni (o 50 se risaliamo all'indipendenza) questi Paesi si democratizzino, si stabilizzino, serve tempo. La cosa positiva è che adesso questi Paesi stanno crescendo dal punto di vista economico e non lo facevano fino a 15-20 anni fa, e questo è importantissimo perché hanno bisogno di risorse. Creare capacità statuale richiede innanzitutto risorse.
  Questo non significa chiudere gli occhi di fronte al grado di corruzione (gli altri due relatori l'hanno sottolineato più di me) che pervade ancora la Nigeria ed è un problema. Da questo punto di vista una vittoria di Buhari, anche se può sollevare qualche interrogativo dal punto di vista occidentale perché appartiene a un ambito culturale più distante da noi, essendo un esponente della Nigeria musulmana, rappresenterebbe alternanza e quindi una parziale rottura di quei network clientelari che si sono costruiti sotto l'egemonia del partito di governo in questi ultimi 15 anni. Sarà una rottura molto parziale perché prevarranno le continuità, però potrebbe essere un elemento che contribuisce a rimescolare un po’ le carte e riavviare il motore.

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  MARCO MASSONI, segretario generale dell’Institute for Global Studies, direttore editoriale della rivista «Politica Africana». All'interno dei canoni di interpretazione che ci vogliamo dare, siano essi storici, politologici, antropologico-culturali, geopolitici o sedicenti tali, ci sono di fatto discipline che utilizzano categorie e logiche che sono occidentali: ma non per questo inintellegibili da qualunque altra forma di relativismo diverso dal nostro assolutismo, cioè da come pensiamo noi o da come crediamo che si pensi prevalentemente.
  Oggi assistiamo a un passaggio obbligatorio ad occidente di tutte le categorie interpretative, che vengono replicate anche nei Paesi che furono sottomessi nel periodo coloniale e in altre forme di imperialismo storico-culturale nel resto del mondo. Esse fanno sì che noi conosciamo o ci illudiamo di conoscere la nostra identità attraverso cui decliniamo queste categorie interpretative ermeneutiche del mondo, mentre chi ha subìto passivamente ma poi anche in seconda battuta proattivamente questo tipo di letture del mondo, ha il vantaggio di vedere garantite e mantenute in parallelo se non altro due identità culturali e interpretative del mondo.
  Ne sono esempio le seconde e le terze generazioni nei nostri territori, in quanto latrici di una doppia identità, che non significa schizofrenia. Ci interessa di più utilizzarli come pontieri, come coloro che ci possono far capire meglio quello che accade là, quindi ascoltiamo i nigeriani che sono in Italia e i nigeriani che sono in Nigeria per capire cosa dicono e non valutare attraverso le nostre griglie i loro problemi e le loro criticità. Impariamo da questi altri punti di vista, sicuramente non ci farebbe male.
  In merito al rischio di una frattura dell'unità nazionale, probabilmente non si è inteso immediatamente che ci sono esponenti politici con ruoli anche esecutivi in Nigeria e nel mondo militare nigeriano che sono interessati a cavalcare (motivo per cui 10 anni fa Boko Haram veniva tollerato) eventuali forme di irredentismo o comunque le contraddizioni, delle quali quei territori sono forieri per ragioni di interesse personale, in perfetta continuità con la cleptocrazia che gestisce la Nigeria dal post indipendenza ininterrottamente, di cui anche gli aspetti spigolosi delle dittature militari sono stati manifestazione.
  Quali misure di soft power ? Quelle classiche di questa casistica, con la difficoltà, giustamente sottolineata da Carbone alla fine, che si tratta di una società estremamente complessa, molto grande (quando sono stato per la prima volta in Nigeria c'erano 110 milioni di abitanti, ora ce ne sono quasi 180), quindi è necessario insistere proprio sulle nuove leadership dei giovani, visto che sono la maggioranza della popolazione.
  Attenzione a non leggere, come si era soliti fare, l'elemento demografico come uno spauracchio, attraverso categorie anche molto italiane, nel guardare a questi Paesi, come se fosse l'unico elemento di preoccupazione in sé e per sé. Dialogo politico, ricerca di leadership e creazione di capacità statuali, tenendo conto che ci può essere una discrepanza fra istituzioni di creazione occidentale, una volta erette in territori altri, ma la storia della Nigeria e di tanti altri Stati africani insegna anche che ci possono essere storie di successo e che non possiamo essere «essenzialisti» nel senso filosofico del termine, cioè non possiamo insistere a credere che un qualcosa perché prodotto da noi non possa attecchire altrove con le dovute differenze, nel senso di istituzioni che poi effettivamente siano efficaci e funzionali agli interessi del Paese di cui stiamo parlando, la Nigeria, e non semplicemente degli altri.
  All'effetto del risultato elettorale sugli Stati confinanti, e agli effetti di ricaduta sulla Libia, ci arrivo a breve. Con l'onorevole Quartapelle alcuni mesi fa ci incontrammo in un consesso più ampio, in cui giustamente fu fatto presente come la strategia – fra le tante di questi ultimi due-tre anni dell'Unione europea per il Golfo di Guinea, approvata esattamente un anno fa da Bruxelles – possa essere una delle misure di tipo politico-diplomatico, Pag. 20piuttosto che di soft power (presenza di istituti italiani di cultura, attività di sostegno classico).
  Ho appena consegnato uno studio sul soft power tedesco in Africa, che spero abbiate la bontà di visionare a breve, che dimostra come, nonostante le mille difficoltà che la Germania incontra ancora nella sua nuova strategia verso l'Africa, tuttavia una serie di strumenti di soft power che la caratterizzano, sicuramente più efficaci dei nostri, le possano consentire quel salto di qualità che vorrebbe, per esercitare la propria egemonia in termini di propri interessi nazionali salvaguardati in Africa, ma che sicuramente possono avere anche un effetto di ricaduta positiva per quelle società e per quei Paesi.
  Perché non candidiamo un italiano al ruolo di coordinatore regionale del Golfo di Guinea dell'Unione europea ? Esso riguarda Paesi che vanno dall'Angola a Paesi lusofoni, che, come dimostra anche l'ultima visita di Renzi, sono diventati il centro dell'interesse della politica estera italiana nazionale in Africa (Angola e Mozambico), fino ai Paesi di cui stiamo parlando adesso, perché il Golfo di Guinea è esteso, è praticamente tutta la costa occidentale dell'Africa.
  Sugli effetti della caduta in Libia, in Fezzan abbiamo già avuto buona parte di questi effetti con lo spillover della rimozione intenzionale di Gheddafi. In buona parte abbiamo capito che, finché non vediamo un nostro diretto interesse seriamente minacciato, non facciamo moltissimo.
  Ci sono state tante iniziative politico-diplomatiche, Prodi come Inviato speciale per il Sahel del Segretario Generale delle Nazioni Unite e varie strategie, missioni militari, ma non basta: mi pare di poter dire che, in perfetta linea con il disinteresse occidentale ed europeo (sono intenzionalmente provocatorio), anche le élite al governo in Nigeria sono completamente disinteressate allo sviluppo delle regioni oggetto degli attacchi dei terroristi, perché comunque non intaccano il mantenimento del proprio potere politico.
  Nell'esatto momento in cui Goodluck Jonathan ha visto le intenzioni di voto della maggioranza dei nigeriani, ha giocato la carta Boko Haram per attirare consenso. Nihil novi sub sole, niente di nuovo sotto il sole.
  Effetto del risultato elettorale sugli Stati confinanti. Se dovesse vincere il candidato espressione dei Fulani-Hausa del nord, probabilmente non cambierebbe molto da un punto di vista di attenzione militare e securitaria degli Stati confinanti, perché i Parlamenti degli Stati interessati, per quanto non perfettamente democratici, si sono già espressi per un contenimento dell'attività di Boko Haram nel loro territorio. Se alla vittoria di questo candidato si dovesse limitare qualcosa in termini di sicurezza nel nord-est, significherebbe che Boko Haram risponde politicamente a qualcuno.
  Boko Haram o viene estirpato o, se nel momento in cui vincono gli islamici sta più calmo, vuol dire che con loro dialoga. Il Presidente Goodluck Jonathan ha tentato con poco successo negli ultimi tre anni di intavolare una serie di discussioni con i rappresentanti di Boko Haram senza riuscirvi, probabilmente quest'altro sarà più titolato per farlo, quindi ben venga. Grazie dell'attenzione.

  EMILIO MANFREDI, ricercatore dell’International Crisis Group. Riprendendo quanto diceva il dottor Massoni, tengo a insistere sul dato demografico non perché debba fare paura, ma perché con questo dato demografico si devono fare i conti e bisogna accettarlo.
  Soprattutto in un Paese come il nostro, coinvolto in prima persona dalla questione delle migrazioni, bisogna che si capisca che continuare a sostenere programmi di sviluppo bilaterali non vincolati ai risultati, con tutti i governi d'area che sempre più agli occhi dei cittadini giovani sono visti come responsabili di politiche fallimentari e corrotti – e quindi sono i principali responsabili del desiderio della popolazione giovanile di emigrare o della loro necessità di entrare nei network criminali e in alcuni casi jihadisti – non è Pag. 21più una politica, non può continuare, bisogna avere strategie di lungo termine che includano e costringano i governi con cui interloquiamo, se vogliono continuare ad avere il sostegno della comunità internazionale, a lasciare man mano spazio alle giovani generazioni e a creare delle opportunità in loco, altrimenti i problemi non si risolvono.
  L'approccio integrato di lungo periodo è proprio quello che è necessario in questo momento, perché senza un approccio integrato di lungo periodo che risponde al desiderio di educazione, di opportunità lavorative e di mobilità sociale all'interno di questi Paesi in primo luogo, non si avrà che una continua e crescente tensione di questi settori della popolazione nei confronti prima delle dinamiche di stabilità interne e poi delle dinamiche di stabilità regionali e internazionali.
  Questo cambio radicale di visione è fondamentale nelle dinamiche bilaterali e multilaterali, se vogliamo vedere in prospettiva alleggerirsi una pressione migratoria, essere contenuti con l'aiuto delle popolazioni locali i network criminali e la minaccia terroristica. L'Europa deve lavorare in questa direzione, deve adottare un approccio che punti a un cambiamento interno pacifico secondo i voleri della popolazione, che non ci chiede altro.
  Non so quale sia il cambiamento e non sta a me dirlo, ma continuare a canalizzare un torrente in piena che cresce sempre di più non porterà che a continue rotture degli argini. Accettare che questo torrente è in piena e cercare di lavorare perché l'acqua sia fruttuosa nel far funzionare il sistema è l'unica alternativa.
  Non credo che Buhari sia un rischio in quanto musulmano, anzi credo che al netto del risultato e del volere elettorale dei nigeriani, che non conosco, se dovesse vincere Buhari la comunità internazionale dovrebbe mettersi a lavorare con lui e far capire al PDP uscente che il gioco democratico messo in piedi nel PDP nel 1999 è proprio questo, e vederlo all'opera.
  Certo Buhari non arriva con un curriculum fantastico, ma in questo momento le due alternative sono queste: un presidente uscente che viene da 5 anni disastrosi e un candidato che viene da un passato di dittatura militare. Questo è quello che abbiamo e il Paese è troppo grande, è troppo importante per fingere che ci sia una terza opzione, perché l'unica che abbiamo è di vedere il Paese piombare nel caos.
  Il rischio di scissione di cui parlava l'onorevole Quartapelle è una delle cose molto preoccupanti, perché nelle settimane che ho passato in Nigeria nel sud a febbraio, soprattutto nel sud-est, sono cominciate a riaffiorare queste conversazioni riguardo al fatto che il nord in realtà non interessa perché non produce, non fa nulla (in realtà sappiamo bene che soprattutto nel nord-est ci sono probabilmente immense risorse del sottosuolo, specialmente idrocarburi, quindi non fa nulla finché non lo si mette in condizioni di fare), ma queste conversazioni rispetto al fatto che il sud della Nigeria può sopravvivere da solo le sentiamo sempre di più.
  Il fatto che un Paese del genere possa smembrarsi sotto l'influsso di un'elezione andata male e di un’élite ipercorrotta che non si sa più gestire e cerca di salvare il salvabile per continuare a mangiare (le scissioni fondate sulla politique du ventre, come si dice nell'Africa saheliana), mi fa sempre molta paura.
  Bisogna stare molto attenti, lavorare con i giovani e cercare di fare sì che questa transizione rimanga nell'alveo delle scelte pacifiche. Grazie.

  PRESIDENTE. Nel ringraziare i nostri ospiti, dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 16.10.

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