XVII Legislatura

II Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 4 di Mercoledì 24 settembre 2014

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Ferranti Donatella , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA IN MERITO ALL'ESAME DELLE PROPOSTE DI LEGGE C. 189  PISICCHIO, C. 276  BRESSA, C. 588  MIGLIORE, C. 979  GOZI, C. 1499  MARAZZITI E C. 2168 , APPROVATA DAL SENATO, RECANTI INTRODUZIONE DEL DELITTO DI TORTURA NELL'ORDINAMENTO ITALIANO

Audizione di rappresentanti dell'Unione delle camere penali italiane e di Francesco Viganò, Ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Milano.
Ferranti Donatella , Presidente ... 3 
Flora Giovanni , Componente della Giunta dell'Unione delle camere penali italiane ... 3 
Ferranti Donatella , Presidente ... 3 
Flora Giovanni , Componente della Giunta dell'Unione delle camere penali italiane ... 3 
Ferranti Donatella , Presidente ... 3 
Petrelli Francesco , Segretario della Giunta dell'Unione delle camere penali italiane ... 3 
Ferranti Donatella , Presidente ... 3 
Flora Giovanni , Componente della Giunta dell'Unione delle camere penali italiane ... 4 
Ferranti Donatella , Presidente ... 4 
Viganò Francesco , Ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Milano ... 5 
Ferranti Donatella , Presidente ... 8 
Ferraresi Vittorio (M5S)  ... 8 
Viganò Francesco , Ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Milano ... 8 
Flora Giovanni , Componente della Giunta dell'Unione delle camere penali italiane ... 9 
Vazio Franco (PD)  ... 9 
Viganò Francesco , Ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Milano ... 9 
Flora Giovanni , Componente della Giunta dell'Unione delle camere penali italiane ... 10 
Sarti Giulia (M5S)  ... 10 
Viganò Francesco , Ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Milano ... 10 
Ferranti Donatella , Presidente ... 10 
Viganò Francesco , Ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Milano ... 11 
Ferranti Donatella , Presidente ... 11 
Viganò Francesco , Ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Milano ... 11 
Flora Giovanni , Componente della Giunta dell'Unione delle camere penali italiane ... 12 
Petrelli Francesco , Segretario della Giunta dell'Unione delle camere penali italiane ... 12 
Amoddio Sofia (PD)  ... 13 
Viganò Francesco , Ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Milano ... 13 
Ferranti Donatella , Presidente ... 14

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: (FI-PdL);
Scelta Civica per l'Italia: (SCpI);
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Nuovo Centro-destra: (NCD);
Lega Nord e Autonomie: LNA;
Per l'Italia: (PI);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero-Alleanza per l'Italia: Misto-MAIE-ApI;
Misto-Centro Democratico: Misto-CD;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI;
Misto-Libertà e Diritti-Socialisti europei (LED): Misto-LED.

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DELLA PRESIDENTE DONATELLA FERRANTI

  La seduta comincia alle 14.40.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
  (Così rimane stabilito).

Audizione di rappresentanti dell'Unione delle camere penali italiane e di Francesco Viganò, Ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Milano.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva in merito all'esame delle proposte di legge C. 189 Pisicchio, C. 276 Bressa, C. 588 Migliore, C. 979 Gozi, C. 1499 Marazziti e C. 2168, approvata dal Senato, recanti introduzione del delitto di tortura nell'ordinamento italiano, l'audizione di rappresentanti dell'Unione delle camere penali italiane e di Francesco Viganò, Ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Milano.
  Do la parola agli auditi.

  GIOVANNI FLORA, Componente della Giunta dell'Unione delle camere penali italiane. Sono componente della Giunta dell'Unione delle camere penali eletta l'altro giorno.

  PRESIDENTE. Quindi abbiamo l'onore di iniziare un'altra collaborazione, dopo quella molto fruttuosa che abbiamo avuto con il presidente Spigarelli.

  GIOVANNI FLORA, Componente della Giunta dell'Unione delle camere penali italiane. Proseguiremo sicuramente con gli stessi intenti collaborativi: il presidente Migliucci, tramite il segretario, avvocato Petrelli, e il sottoscritto che dovrà occuparsi – ho l'onore di essere anche un collega del professor Viganò, essendo ordinario di diritto penale all'Università di Firenze – anche di progetti di legge, di eventi formativi, eventi scientifici e quant'altro. È quindi in questa veste che, insieme al segretario che rappresenta istituzionalmente l'Unione, sono qui.

  PRESIDENTE. Come intendete dividervi il tempo degli interventi ?

  FRANCESCO PETRELLI, Segretario della Giunta dell'Unione delle camere penali italiane. Oggi intervengo soltanto per portare, sotto un profilo istituzionale, i saluti della nuova Giunta appena insediata dell'Unione delle camere penali, di cui ho l'onore di ricoprire la carica di segretario. Vi rivolgo i saluti a nome del nostro nuovo presidente, avvocato Beniamino Migliucci, che succede all'amico Valerio Spigarelli, che sappiamo ha lavorato con voi per tanti anni, con grande armonia e credo anche con risultati proficui.
  Vi ringrazio dell'invito e auguro a tutti voi buon lavoro. Speriamo di continuare con la stessa positiva influenza a lavorare insieme a voi. Grazie.

  PRESIDENTE. Vi ringrazio, anche a nome dei colleghi, della disponibilità che è Pag. 4sempre stata molto attiva da parte dell'Unione delle camere penali. Abbiamo il piacere di iniziare una nuova stagione.
  Do la parola al professor Giovanni Flora, nella sua qualità di componente della Giunta dell'Unione delle camere penali. Professore ha dieci minuti di tempo per il suo intervento, cui seguiranno le domande dei colleghi.

  GIOVANNI FLORA, Componente della Giunta dell'Unione delle camere penali italiane. Credo che siano più che sufficienti, perché l'idea del delitto di tortura che l'Unione delle camere penali ha sempre avuto è abbastanza chiara e semplice.
  In linea di principio, l'Unione delle camere penali non è mai favorevole alla moltiplicazione delle fattispecie, però in questo caso abbiamo un obbligo che ci deriva innanzitutto dalla Costituzione – articolo 13, ultimo comma, l'unica norma costituzionale che impone obblighi di criminalizzazione – che non può essere trascurato. Inoltre, su questo punto abbiamo degli obblighi che ci derivano da convenzioni internazionali.
  L'esigenza che noi sentiamo è quella di riuscire a tipicizzare una fattispecie che innanzitutto configuri il reato, a nostro modo di vedere, come reato proprio, cioè come reato commissibile soltanto dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di pubblico servizio. Poi – ne parlavamo prima con il collega Viganò – possiamo anche vedere, se ci fossero resistenze, di mediare con una figura di reato comune, affiancata a un'aggravante che dovrebbe essere però a effetto speciale, se non addirittura una fattispecie autonoma specializzata. Diversamente, l'aggravante a effetto comune potrebbe essere elusa dalle attenuanti e vanificherebbe il disvalore tipico di questa fattispecie.
  Quindi, configurazione del reato come reato proprio. Il problema è quello della definizione della tortura, che può essere ottenuta con una norma definitoria oppure con una condotta. Riteniamo che la condotta, tutto sommato, debba essere una condotta libera.
  La limitazione alla violenza o minaccia è restrittiva. Ci sono esempi noti di tortura che avvengono senza che il comportamento integri, anche a norma delle interpretazioni più late, il concetto di violenza o di minaccia. L'importante è che sia sottolineata, ovviamente, la gravità delle sofferenze che devono essere intenzionalmente inflitte e che, soprattutto, il reato debba essere qualificato da un dolo specifico alternativo che è mutuabile dalle convenzioni.
  Sarei perplesso su certe previsioni che ho visto in alcuni progetti di legge, laddove si dice che se cagiona la lesione c’è un'aggravante; quella c’è già, poiché l'articolo 586 del codice penale già prevede che se c’è una lesione non voluta, naturalmente, ci sia un'aggravante nel reato doloso più delitto colposo. Certamente, se la lesione fosse voluta anche solo a titolo di dolo eventuale, andrebbe in concorso con questo reato, perché mai le lesioni potrebbero essere assorbite.
  La previsione espressa di una causa di non punibilità, che tutto sommato richiama la causa di non punibilità che può essere ricondotta o alla legittima difesa o allo stato di necessità o all'uso legittimo delle armi, sebbene io capisca le esigenze politiche che possono esserci sotto, ma sotto il profilo tecnico della fattispecie potrebbe tranquillamente essere eliminata. Questo è il nostro pensiero.
  Noi saremmo favorevoli a una configurazione di una fattispecie di questo tipo, che dovrebbe probabilmente essere inserita tra i reati contro la libertà morale o forse contro la libertà personale. Mi pare che la collocazione tra i reati contro la libertà morale, anche in considerazione di quel dolo specifico che abbiamo detto, potrebbe essere quella più appropriata. Non ne farei, tuttavia, una questione di collocazione. Per carità, sappiamo tutti che le collocazioni ormai lasciano il tempo che trovano, anche se potrebbero, da un punto di vista interpretativo, avere la loro rilevanza.

  PRESIDENTE. Darei ora la parola al professor Viganò. Ricordo che il contenuto Pag. 5dell'audizione viene trascritto e la relazione sarà messa a disposizione dei colleghi.

  FRANCESCO VIGANÒ, Ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Milano. Innanzitutto, mille grazie per questa convocazione. Ho inviato una relazione in cui nel dettaglio prendo posizione nei confronti di tutte le proposte di legge che sono all'esame di questa Commissione, quindi in questa sede mi limiterò ad alcuni cenni molto generali fondamentalmente sulla proposta di legge C. 2168, già approvata dal Senato, riservando qualche breve accenno alle altre proposte.
  Una premessa indispensabile – analisi già ricordata dal professor Flora – attiene alla necessità ormai ampiamente condivisa dell'introduzione di questa norma e agli obblighi internazionali che ci spingono prepotentemente in questa direzione, innanzitutto al combinato disposto tra gli articoli 4 e 1 della Convenzione ONU sulla tortura del 1984.
  Direi che a quella Convenzione, in particolare alla definizione contenuta nell'articolo 1, occorre fare riferimento per vagliare le proposte in discussione. Il primo punto fermo è, infatti, che vi è un obbligo preciso di incriminare tutte le condotte previste da questo articolo 1, nessuna esclusa.
  Non è escluso che invece lo Stato possa incriminare anche più condotte di quelle risultanti dall'articolo 1 – lo dice espressamente la Convenzione – con un secondo caveat, con cui vorrei cominciare: il concetto di tortura è ben diverso rispetto al concetto di trattamenti inumani e degradanti, che pure è accomunato assieme alla tortura nell'articolo 3 della Convenzione.
  Questo è molto importante perché alcune delle proposte in discussione tendono, a mio avviso, a estendere eccessivamente l'area dell'incriminazione, comprendendo anche condotte che in sede internazionale, in particolare dalla Corte europea, sarebbero considerate soltanto trattamenti inumani e degradanti, che restano illecite, ovviamente, ma contro le quali occorre procedere con mezzi diversi dal diritto penale, come rimedi risarcitori, restitutori, civilistici, ma certamente non con il diritto criminale.
  Questo è un caveat importante, altrimenti si rischia un effetto di overcriminalization.
  Il punto di riferimento fondamentale, come dicevo, è la Convenzione, articolo 1, che si sviluppa attorno a tre elementi fondamentali. Dal punto di vista del soggetto attivo, la Convenzione configura un reato proprio, confinando la definizione di tortura al fatto del pubblico ufficiale, o in generale, potremmo dire, dell'incaricato di pubblico servizio, ma prevedendo anche che il fatto debba essere punito come tortura qualora sia commesso da privato che agisca con l'acquiescenza, col consenso, con l'istigazione del pubblico ufficiale.
  Secondo elemento oggettivo è che la definizione s'impernia attorno all'inflizione di un grave dolore o sofferenza fisica o mentale alla vittima, non essendo invece precisati in alcun modo i mezzi con cui questo risultato si deve raggiungere, precisandosi però che la definizione non copre quel dolore e quella sofferenza implicita in qualsiasi pena legalmente inflitta.
  Infine, dal punto di vista degli elementi soggettivi, ci sono due aspetti: da un lato, il requisito che il dolore o la sofferenza siano inflitti intenzionalmente; in secondo luogo, che il fatto sia commesso per una delle quattro finalità espresse nella norma, che vengono tradotte molto efficacemente, a mio giudizio, nella proposta di legge C. 979 Gozi e nella proposta di legge C. 588 Migliore.
  Quanto alla proposta di legge C. 2168, approvata dal Senato, il primo nodo, già toccato dal professor Flora, consiste nella configurazione del reato come reato proprio o come reato comune. A favore del reato proprio parla innanzitutto la definizione dell'articolo 1 della Convenzione e, Pag. 6d'altra parte, il nucleo duro del concetto di tortura è identificabile anche nel senso comune come il fatto di un agente pubblico che abusi dei suoi doveri e dei suoi poteri.
  È particolarmente in relazione ai pubblici ufficiali che si pone il problema di una reazione forte, in grado di sottrarsi alla mannaia dei termini prescrizionali: le vicende Diaz e Bolzaneto insegnano.
  Tuttavia, io non ne farei una questione di principio. La scelta di configurare la tortura come reato comune ha anch'essa vari argomenti a proprio favore. Intanto, è quella certamente più accettabile dai sindacati di polizia, come le audizioni svolte in questa sede hanno dimostrato. D'altra parte, è anche vero che la tortura non è appannaggio esclusivo dei pubblici ufficiali, ma l'esperienza storica insegna come venga frequentemente compiuta anche da squadroni della morte, da apparati paramilitari, variamente collusi ma non necessariamente collusi con i poteri ufficiali.
  Allora, per abbracciare questa ipotesi, occorrerebbe inserire complicate clausole di estensione della punibilità che consentano di punire il privato anche quando non si provi la connivenza, la complicità col pubblico ufficiale, che renderebbero problematica la formulazione di questa norma. D'altra parte, per la vittima non fa molta differenza essere vittima di una tortura da parte di un pubblico ufficiale o del membro di un gruppo paramilitare o di fanatici skinheads.
  A conti fatti, io ritengo che si possa dunque accettare, perché mi pare sensata, l'opzione di configurarla come un reato comune, che può essere commesso da chiunque, purché si abbia cura di configurare poi la fattispecie commessa dal pubblico ufficiale come fattispecie autonoma e non come mera circostanza.
  C’è un bell'esempio nel codice penale che è il rapporto tra la violazione di domicilio comune (articolo 614) e la violazione di domicilio commessa da un pubblico ufficiale (articolo 615), fattispecie autonoma, quindi non bilanciabile ex articolo 69.
  Quanto alla condotta, è senz'altro meritevole di approvazione il fatto di costruire il reato come reato di evento che si realizza con l'inflizione di un grave dolore o sofferenza. È apprezzabile anche l'aggettivo «grave», che traduce fedelmente l'aggettivo «severe», che manca in alcuni progetti, rischiando in qualche modo di annacquare, di banalizzare il concetto di tortura, che deve essere confinato ai fatti più gravi, quelli che suscitano immediata riprovazione, anche per dar conto dell'elevatissimo carico edittale.
 Le criticità concernono le modalità della condotta. La scelta del Senato è stata quella di concepire il reato come reato a forma vincolata, prescrivendo cioè modalità specifiche della condotta, che per un verso rischiano di restringere eccessivamente la portata di questa norma e per altro verso rischiano invece di allargarla.
  Mi spiego in modo sintetico, ma è un punto secondo me qualificante. Come dicevo, per un verso rischiano di restringerla eccessivamente perché, nel menzionare le violenze o minacce gravi, intanto si fa riferimento a una modalità di condotta che spesso è assente nella tortura, che si attua anche senza violenza, senza minaccia: ad esempio, privare il detenuto del sonno, porlo in una situazione di rumori assordanti, privarlo del cibo, esporlo al freddo e quant'altro sono forme tipiche di tortura che non passano né per una violenza in senso stretto né per una minaccia.
  D'altra parte, non condivisibile è l'uso del plurale «violenze o minacce» che qualifica il reato come reato abituale, sul modello dei maltrattamenti, mentre la tortura si può esplicare e normalmente si esplica in un contesto spazio-temporale unitario in cui la vittima viene a trovarsi.
  Anche dire che queste violenze o queste minacce debbano essere gravi mi sembra incongruo. Deve essere grave la sofferenza causata, ma anche piccole violenze, come piccole scosse elettriche reiterate, possono porre tuttavia la vittima Pag. 7in uno stato di grave angoscia e grave sofferenza e indurla ad esempio a confessare immediatamente.
  Per altro verso, fare leva su una modalità alternativa della condotta con trattamenti inumani e degradanti esporrebbe certamente la norma a una censura di imprecisione, al metro cioè del principio di tassatività e precisione ex articolo 25, secondo comma della Costituzione. Soprattutto, esporrebbe la prassi applicativa al dilemma di dover considerare come autore di tortura il direttore di un penitenziario o l'agente di custodia che ponga un detenuto in una cella sovraffollata, perché questo trattamento è certamente qualificabile come un trattamento inumano o degradante, secondo l'articolo 3 CEDU (Convenzione europea dei diritti dell'uomo), ma sarebbe all'evidenza irragionevole considerarlo tortura.
  Quindi, le preoccupazioni espresse a questo proposito, in questa sede, dai sindacati di polizia mi paiono assolutamente giustificate. Non qualsiasi trattamento contrario all'articolo 3 costituisce tortura. Allora, la soluzione più raccomandabile, a mio giudizio, è quella di rinunciare completamente alla descrizione di specifiche modalità di condotta e di costruire il reato come reato causale a forma libera, concentrato quindi sulla causazione di questo stato di grave sofferenza fisica o psichica, specificandosi magari ulteriormente che questa sofferenza debba essere ulteriore rispetto a quella che deriva dall'esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti, in ciò recependo il suggerimento della Convenzione.
  Io rinuncerei, altresì, ai requisiti che selezionano i possibili soggetti passivi. Il primo criterio di selezione adottato dal testo approvato dal Senato si riferisce alle persone private della libertà personale, ma sappiamo bene che la tortura si esplica anche nei confronti di persone che non sono o non sono ancora private della libertà. La vicenda Diaz è emblematica, in questo senso: in quel caso non erano ancora arrestati, ma certamente sono stati vittime di torture.
  L'ipotesi del soggetto sottoposto a custodia, autorità, potestà o cura è ancora più discutibile nel momento in cui crea un indebito rischio di interferenza con il delitto di maltrattamenti in famiglia. L'ipotesi della minorata difesa è affetta da congenita imprecisione. La Corte costituzionale ancora non ha avuto modo di pronunciarsi sul punto perché la minorata difesa è considerata semplicemente una circostanza aggravante, per di più soggetta a giudizio di bilanciamento, ma certamente i nodi verrebbero al pettine con una norma incriminatrice che facesse leva su questo requisito.
  L'obiettivo di selezionare in maniera più precisa possibile le condotte che effettivamente costituiscono tortura dovrebbe essere affidato di rincalzo a requisiti di carattere soggettivo, secondo, del resto, il modello indicato proprio dall'articolo 1 della Convenzione. Dunque, richiedendosi l'intenzionalità dell'inflizione di sofferenze – del resto, l'avverbio «intenzionalmente» non è affatto sconosciuto al nostro ordinamento, basta pensare all'abuso d'ufficio – questo avverbio consentirebbe di riconoscere una tortura soltanto nel caso in cui l'inflizione di gravi sofferenze costituisca lo scopo, sia pure intermedio, che il soggetto si propone per ottenere una finalità ulteriore. Apparirebbe inoltre opportuno, a mio giudizio, inserire i requisiti di doli specifici alternativi contemplati da questa norma, dunque le quattro finalità che la Convenzione pone come alternative, considerandole però come tassative e non come meramente esemplificative, quindi rinunciando all'avverbio «segnatamente» che compare nelle proposte di legge Gozi e Migliore.
  Accennerò brevemente a quelle proposte che selezionano soltanto la violenza o la minaccia come modalità costitutive. Ho già sottolineato come queste non siano effettivamente le uniche modalità con cui avviene una violenza.
  Voglio esprimere le mie perplessità anche nei confronti della formulazione utilizzata nella proposta di legge n. 276 Bressa, secondo cui costituisce tortura il fatto di sottoporre taluno a tortura. È Pag. 8evidente il carattere tautologico di questa definizione, che affida completamente all'interprete il compito di identificare che cosa sia una tortura.
  Esprimerei, però, in particolare rispetto alla proposta di legge Gozi, la riserva relativa alla previsione di un'anomala causa di non punibilità per l'ipotesi in cui il fatto costituisca oggetto di un obbligo legale. A me pare che questa clausola si ponga in frontale contrasto con il principio consolidato nella giurisprudenza della Corte EDU, secondo cui non è ammissibile alcuna eccezione al divieto della tortura, che è da considerarsi come assoluto, e costituisca altresì una violazione dell'articolo 2, paragrafo 2, della Convenzione sulla tortura, che dispone espressamente che nessuna circostanza può giustificare la tortura.
  Se vogliamo selezionare, allora, le condotte suscettibili di essere considerate come tortura, occorre farlo con una selezione accorta dei requisiti all'interno della norma incriminatrice e in particolare attraverso il dolo specifico.
  Concludo qui, ma vi consegno nella mia relazione le linee essenziali di una possibile proposta alternativa che potrebbe essere presa in considerazione da questa Commissione nell'ipotesi in cui non ritenesse di approvare direttamente alcuno dei testi oggi in discussione. La relazione si conclude con l'articolato che io proporrei, che si impernia su due norme per quanto riguarda le incriminazioni: una norma che configura il reato comune e una che configura il corrispondente reato proprio.
  Voglio solo sottolineare a questo proposito che l'opportunità di identificare un fatto di tortura specifico per il pubblico ufficiale è fortemente raccomandata dal Comitato ONU contro la tortura, che nei confronti della Francia ha richiamato appunto l'ordinamento francese, che contempla un reato di tortura costituito come reato comune, a tracciare invece una chiara linea distintiva tra l'ipotesi di reato comune e quella di reato proprio al fine di marcare lo specifico, peculiare disvalore che connota il fatto commesso da un pubblico ufficiale.
  Mille grazie per la vostra attenzione.

  PRESIDENTE. Ringrazio il professor Viganò per il testo che ci ha trasmesso ma anche per la compiutezza delle osservazioni che sicuramente saranno esaminate dalla Commissione.
  Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  VITTORIO FERRARESI. Ringrazio il professore per l'esposizione chiarissima e per i rilievi critici che ha espresso.
  Per quanto riguarda i comportamenti, quindi i motivi che spingono il soggetto a commettere tortura, sappiamo di casi di cronaca in cui non c'era alcun motivo, ma il soggetto, in questo caso il rappresentanate delle forze dell'ordine, era mosso a compiere l'atto per pura malignità, per sadismo.
  In tal senso, molti dei casi di cronaca recente, non da ultimo il caso di Giuseppe Uva o Magherini o altri, non rientrerebbero nel reato di tortura. Chiedo a lei se si può spingere fino a farli rientrare nei comportamenti che ha descritto nella sua proposta a pagina 25, oppure se, secondo lei, si tratta di un rilievo infondato.

  FRANCESCO VIGANÒ, Ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Milano. Il rilievo è assolutamente pertinente. Infatti, io stesso sono stato molto in dubbio sull'opportunità di insistere sul dolo specifico ovvero di rinunciarci, anche considerando che la Convenzione ONU introduce i doli specifici con l'espressione «for such purposes as», quindi li introduce possibilmente come doli specifici alternativi ma non esaustivi, lasciando aperta la possibilità che la condotta sia sorretta da altre motivazioni.
  La ragione per cui mi sono determinato a insistere sul mantenimento del dolo specifico è per fornire indicazioni alla prassi circa il riconoscimento di un fatto Pag. 9di tortura selezionando, per così dire, le modalità che sono assolutamente significative dal punto di vista dell'esperienza criminologica sulla tortura.
  Con riferimento a fatti del tipo di quelli a cui lei faceva riferimento, io credo che non dovrebbe essere difficile per un magistrato ravvisare una finalità punitiva in queste ipotesi. In generale, c’è sempre un motivo discriminatorio o un motivo in senso lato punitivo rispetto a un soggetto che si suppone essere un soggetto insubordinato o non osservante delle regole e quant'altro. Quindi, in qualche modo questa finalità punitiva potrebbe essere estesa anche a queste ipotesi.
  Certo, l'alternativa è quella di rinunciare completamente ai doli specifici ritenendo irrilevanti le specifiche finalità, però allora insisterei molto sull'opportunità di richiedere almeno l'intenzionalità nella causazione della grave sofferenza. Altrimenti, in una norma assolutamente scarna, senza l'indicazione di specifiche modalità commissive, senza la selezione dei soggetti passivi per le ragioni che ho detto, il rischio di un'estensione indebita di questa norma anche, in ipotesi, al fatto di chi sottoponga una persona a un regime carcerario particolarmente duro che cagiona grave sofferenza – è inutile nasconderselo – porterebbe ad applicarla anche in questi contesti che sono, però, molto distanti dal contenuto degli obblighi di criminalizzazione e dalla nozione di senso comune di tortura.

  GIOVANNI FLORA, Componente della Giunta dell'Unione delle camere penali italiane. Mi rendo conto dell'esigenza che è stata posta dall'onorevole. Ci sono dei casi dove il comportamento non potrebbe rientrare esattamente in quelle specifiche finalità. Se noi costruiamo una fattispecie a dolo specifico, chiuso, proprio per aumentare il tasso di determinatezza della fattispecie, rischiano di sfuggire questi episodi che hanno un disvalore francamente odioso.
  Mi chiedevo, e lo chiedo anche al professor Viganò, che è un esperto anche di queste cose: farlo rientrare in una finalità punitiva, con un'interpretazione che vada a scandagliare il quadro di vita in cui si realizza il fatto, probabilmente potrebbe far rientrare questi comportamenti nella fattispecie. Si potrebbe provare eventualmente a inserire – però mi rendo conto che si rischia di slabbrare la tassatività della fattispecie – una deplorevole finalità, come era nella contravvenzione, però francamente, a mio modo di vedere, si rischierebbe di allargare troppo.
  Quindi, tutto sommato, in via interpretativa, inquadrando bene le circostanze di fatto in cui normalmente questi episodi si verificano, forse la finalità punitiva potrebbe essere sufficiente a far rientrare il fatto nella fattispecie.

  FRANCO VAZIO. Intervengo solo per esprimere una riflessione. Nella formulazione che lei propone, nel nuovo articolo 593, lei introduce il concetto di intenzionalità. Inoltre, lei ha proposto un parallelismo con l'articolo 323 del codice penale, quello relativo all'abuso d'ufficio, che noi sappiamo soffre la vexata quaestio dell'intenzione concorrente, nel senso che con l'articolo 323 è difficile arrivare a una conclusione, a una sentenza penale perché normalmente l'interesse pubblico concorre con l'intenzionalità del procurarsi un vantaggio.
  Insomma, per il privato non si pone probabilmente questo fine, o meglio si pone meno, ma per un pubblico ufficiale potrebbe porsi una finalità concorrente rispetto all'intenzionalità di arrecare sofferenza. Mi domando se e in che modo possiamo tranquillizzare noi stessi rispetto a una formulazione che presenta certamente degli aspetti di interesse.

  FRANCESCO VIGANÒ, Ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Milano. Comprendo perfettamente il rischio di una neutralizzazione della portata applicativa di questa norma nella prassi.
  Tuttavia, la combinazione dell'intenzionalità con le finalità specifiche mostra che Pag. 10l'intenzionale causazione di sofferenze non è mai il fine ultimo. Per l'appunto, già nella struttura logica di questa fattispecie, è semplicemente il mezzo per ottenere un fine ulteriore. Quindi, la concorrenza di fini è in qualche modo congenita alla descrizione di questa fattispecie: si ha l'intenzione di procurare una sofferenza perché questa sofferenza è un passaggio indispensabile per far sì che la vittima confessi, per punire la vittima, per discriminare la vittima e quant'altro.
  In questo senso, non vedo come potrebbe formarsi una giurisprudenza che sbarri la strada a questo reato in caso di intenzione concorrente, quando l'intenzione concorrente è per l'appunto quella finale, riprovevole, ma in questo caso tipizzata, descritta dalla norma.

  GIOVANNI FLORA, Componente della Giunta dell'Unione delle camere penali italiane. Ad adiuvandum, mentre nell'abuso d'ufficio ci potrebbe essere la finalità di arrecare il danno o il profitto – la proiezione è quella – qui l’«intenzionalmente» è legato al comportamento, non all'esito che si intende raggiungere.
  Anch'io non vedrei questo rischio che la finalità concorrente possa in qualche modo annacquare la portata della fattispecie. Mi pare di capire che sia riferita al comportamento, non alla ragione per la quale si infligge la sofferenza.

  GIULIA SARTI. Ritorno brevemente sul requisito della gravità. Posto che oggi, per la maggior parte, le tecniche di tortura sono per lo più a livello psichico, voglio chiedervi quando pensate che un atto possa definirsi grave oppure no. Vorrei conoscere la vostra opinione, perché ho visto che nella proposta del professor Viganò la questione ritorna, e chiarire che tipo di interpretazione potete darci.

  FRANCESCO VIGANÒ, Ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Milano. Cercherò di essere molto sintetico. È proprio per questo che è importante riferire la gravità non alla condotta, non alla violenza né alla minaccia, ma al risultato di sofferenza.
  Dunque, richiamo il mio esempio precedente: anche condotte che procurano un dolore non particolarmente intenso, come la lieve scossa elettrica, sono tuttavia idonee a porre il soggetto passivo – specie se compiute in una situazione di isolamento sensoriale, in una situazione di totale dipendenza dal dominio del soggetto forte – in una condizione di gravissima angoscia e sofferenza che può determinarlo immediatamente alla confessione e altro.
  La gravità va comunque riferita almeno alla sofferenza psichica, se non necessariamente al dolore fisico. È questa situazione di forte sofferenza cagionata intenzionalmente che connota quello che linguisticamente si chiama «tortura», con un termine che ha una pregnanza semantica che non va dimenticata.
  Vorrei mettere in guardia dal rischio di annacquare il concetto di tortura. Il concetto di tortura deve rimanere qualcosa di orribile. Solo questo può dare luogo a pene così elevate e soprattutto alla forte stigmatizzazione che ci deve essere dietro una condanna per tortura.
  Quindi, il pugno dato anche in eccesso nel momento in cui si arresta una persona è qualche cosa che è ancora distante rispetto alla tortura, è qualche cosa che la stessa Corte europea non qualificherebbe come tortura; è un atto che va sanzionato, ma come percossa aggravata dalla qualità di pubblico ufficiale (magari non si convalida l'arresto e ci sono una serie di altri strumenti).
  La gravità della sofferenza è essenziale per mantenere riconoscibilità sociale al concetto.

  PRESIDENTE. Pongo una domanda, magari ripetitiva. In realtà, che ci sia necessità di qualificare la finalità del dolo è emerso anche da altre audizioni, quindi credo che al riguardo ci sia un'unanimità degli interventi che abbiamo ascoltato finora, e si ricava in particolare dal testo della Convenzione.Pag. 11
  Nella sua ricostruzione, in realtà, si prescinde dallo specificare le modalità della condotta come violenza o minaccia, anche se, volendo, si potrebbe anche dire «violenza o minaccia», senza dire minacce o violenze, e con altri comportamenti, altrimenti la formulazione rimane senza aggancio, troppo finalistica. La mia è una riflessione immediata, che dopo approfondiremo.
  Noi abbiamo avuto anche in un altro caso la necessità di capire l'uso dell'avverbio «intenzionalmente». A noi è stato richiesto «consapevolmente»: tutti sono a conoscenza dell’iter parlamentare riguardante il 416 ter, laddove il «consapevolmente» previsto all'inizio è stato criticato da tutti e quindi c’è stata una retromarcia.
  In questo caso la proposta è di rafforzare il dolo, quindi ci si riferisce a chiunque intenzionalmente infligge sofferenza ? Leggendo capisco che occorre una finalizzazione della condotta. È questa la finalità che si richiede ? Che cosa cerchiamo di qualificare in più ?

  FRANCESCO VIGANÒ, Ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Milano. La premessa metodologica è che la coperta è stretta.

  PRESIDENTE. Scusi un attimo, concludo. I fini ultimi a cui lei si riferisce, credo, sono esemplificativi. Sono dedotti dal testo della Convenzione ? Vorrei capire.

  FRANCESCO VIGANÒ, Ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Milano. Come dicevo, la coperta è stretta: o si tenta di recuperare tassatività sotto il profilo oggettivo o si tenta di recuperare tassatività sotto il profilo soggettivo. La strada della Convenzione è quella di lavorare sotto il profilo soggettivo.
  Tutti noi abbiamo studiato che la tecnica di tipizzazione affidata agli elementi soggettivi è una tecnica sospetta, di dubbia costituzionalità, problematica. Attenzione, però: lavorare sugli elementi oggettivi vorrebbe dire violenza, minaccia o altre condotte, il che equivale a una rinuncia alla tipizzazione. È una tipizzazione solo apparente; si costruisce in realtà un reato a forma totalmente libera, perché con la clausola finale di «altre condotte» si ricomprende qualsiasi condotta, quindi non si fa nessuno sforzo di tipizzazione.
  D'altra parte, riferirsi soltanto alle violenze e alle minacce o anche alla violenza o alla minaccia lascia scoperte condotte che indubitabilmente costituiscono tortura. L'integrare violenza e minaccia con trattamenti inumani o degradanti è totalmente impreciso e indeterminato. Non si va molto avanti su questa strada.
  Utilizzare il sintagma «violenza morale» è anch'esso estremamente problematico. Il concetto di violenza morale costituisce una traduzione dell'espressione «vis psichica» ma è sconosciuto al nostro codice penale, che di solito traduce il concetto di «vis psichica» con il concetto di minaccia.
  Nel momento in cui si introducesse un concetto di violenza morale si avrebbero ricadute sistematiche su altre fattispecie volte a slabbrare il contenuto della violenza, per esempio in tema di violenza privata. Qui metto in guardia: già la giurisprudenza tende a un'interpretazione assai spiritualizzante del concetto di violenza, comprendendo qualsiasi condotta idonea a costringere una persona, come per esempio sdraiarsi sulla sede stradale per impedire il passaggio di un automezzo. Se diamo a questa giurisprudenza – che io per esempio ho fortemente criticato in un volume, ma anche le sezioni unite recentemente hanno criticato – l'appiglio testuale che è il legislatore stesso che parla di violenza morale, evidentemente legittimiamo questa giurisprudenza spiritualizzante. Ci diranno che il legislatore considera come violente anche condotte che non aggrediscono in alcun modo l'essere fisico altrui.
  Selezionare attraverso l'individuazione di possibili soggetti attivi anche questa mi sembra una strada difficilmente praticabile. Quanto meno io non sono riuscito a pensare a una possibile selezione. Allora, perché non pensare che in sede internazionale, magari, a volte sono più intelligenti Pag. 12di noi ? Comunque, un'elaborazione generalmente condivisa ha condotto la comunità internazionale a ravvisare negli elementi soggettivi gli unici elementi in grado di far riconoscere con una certa sicurezza le condotte di tortura.
  Cosa vuol dire «intenzionalmente» ? Nell'economia di una fattispecie criminosa, taglia fuori il dolo meramente eventuale. È la finalizzazione della condotta a causare sofferenze. Le sofferenze non debbono essere un by-product, un risultato collaterale semplicemente previsto e accettato, ma è la condotta che deve essere finalizzata a infliggere sofferenze, proprio perché queste sofferenze costituiscono il mezzo indispensabile per ottenere le finalità ultime.
  Finalità ultime, questi doli specifici, che sono alternativi, ma nella mia formulazione esaustivi, non meramente esemplificativi come invece nella Convenzione ONU sulla tortura. È questo il senso della prima obiezione che mi è stata fatta, che – confesso – è quella che più mi inquieta.
  Perché la scelta della tassatività e non la scelta del carattere esemplificativo attraverso l'avverbio «segnatamente» che traduce «for such purposes as» ? Perché altrimenti anche su questo versante rinunciamo alla tipizzazione e facciamo una tipizzazione solo apparente, prevedendo quattro finalità ma dicendo all'interprete che può ravvisare la tortura in presenza di qualsiasi altra finalità.
  Ancora una volta, è una fuga rispetto a quelli che dovrebbero essere i compiti di un buon legislatore, ossia imbrigliare l'interpretazione giurisprudenziale secondo il principio di legalità. Lo ripeto, la coperta è stretta. Qualsiasi soluzione lascerà probabilmente fuori qualche ipotesi. Io direi, però, che è sempre meglio che niente; meglio cominciare perché la situazione così non può continuare.

  GIOVANNI FLORA, Componente della Giunta dell'Unione delle camere penali italiane. Faccio due brevissime osservazioni. In primo luogo, di tortura c’è un concetto normativo sociale che serve, una volta che la mettiamo nella rubrica (la rubrica per me conta, mentre per molti non conta), anche a illuminare i requisiti della fattispecie. La fattispecie deve corrispondere a questo concetto socio-normativo che abbiamo di tortura.
  Perché rinunciare alla violenza o alla minaccia ? Probabilmente, oltre alle ragioni che ha detto prima il professor Viganò, anche perché non so se poi quelle torture che avvengono attraverso un'omissione potrebbero rientrare; la violenza o la minaccia danno sempre l'idea di un comportamento aggressivo, mentre spesso e volentieri la tortura si ha attraverso un comportamento omissivo.
  Infine, l'importante è che sia escluso il dolo eventuale. Probabilmente, dal punto di vista dogmatico, il professor Viganò e io la pensiamo un po’ diversamente. L'avverbio «intenzionalmente» è qualcosa di più del dolo diretto, ma non starei a spaccare il capello in quattro. L'importante è che si capisca che è escluso il dolo eventuale.

  FRANCESCO PETRELLI, Segretario della Giunta dell'Unione delle camere penali italiane. Faccio solo un'integrazione che pone semplicemente alcuni profili di riflessione.
  Sulla necessità di qualificare il livello di sofferenza, poiché nei diversi progetti si parla di «sofferenze acute», di «sofferenze forti», credo che si debba insistere su una questione che ovviamente la Commissione, grazie ai contributi di tutti, potrà approfondire e sciogliere.
  In materia di tortura, a mio avviso, non è tanto il dato quantitativo della sofferenza che deve rilevare, ma è il dato qualitativo; la qualità della sofferenza inevitabilmente discende dalla struttura stessa del reato e, in particolare, proprio dalle finalità per le quali quella sofferenza viene somministrata. Possiamo anche immaginare che vi siano sofferenze non particolarmente vistose sotto un profilo quantitativo ma qualificate, sotto il profilo qualitativo, proprio dalla finalità negativa che l'ordinamento gli riconosce.
  Possiamo per esempio immaginare la situazione tipica della tortura, cioè di una sofferenza sia pur modesta che viene inflitta Pag. 13al fine di ottenere una confessione, che porta dentro di sé un disvalore tipico per il semplice fatto che è intollerabile per l'ordinamento che una sofferenza venga somministrata al fine di ottenere una confessione o al fine di ottenere informazioni e quant'altro.
  Credo che questo dei rapporti tra qualità e quantità della sofferenza sia un tema sul quale in genere la Commissione dovrà fare qualche valutazione.
  La seconda annotazione tecnica è relativa proprio all'esempio che io avevo formulato. Siccome il professore giustamente si è soffermato, perché mi pare fosse stato oggetto di un quesito specifico, sulla differenza tra dolo specifico e dolo intenzionale, non vi è dubbio che l'ipotesi che io ho appena formulato – che, ripeto, è la tipicità della tortura, cioè della violenza o della minaccia, della sofferenza somministrata al fine di ottenere informazioni – è un'ipotesi tipica, pur prevista da alcune delle proposte di legge esaminate, di dolo specifico, perché la finalità cade totalmente fuori del perimetro della fattispecie, mentre nel caso in cui la finalità sia quella di somministrare sofferenze per ragioni punitive o anche per ragioni di discriminazione si tratta piuttosto di un dolo intenzionale, perché colora di intenzionalità una condotta che però è ancora dentro la fattispecie, cioè dentro l'intenzionalità di portare sofferenze alla vittima.

  SOFIA AMODDIO. Ringrazio i relatori che tutti hanno dato un grande contributo.
  Mi ha molto colpito l'eventuale confusione che, nella pratica giudiziaria, potrebbe sorgere con il reato di maltrattamenti in famiglia.
  Lei non pensa che questa confusione giudiziaria si possa verificare non tanto nelle cinque proposte Marazziti, Gozi, Migliore, Bressa e Pisicchio, quanto nella proposta che proviene dal Senato ? Mentre nelle altre è contenuto un dolo specifico che diversifica dai maltrattamenti in famiglia, nella proposta che viene dal Senato vi è un particolare pericolo di confusione in questo senso. Chiedo se abbiate soluzioni su questo punto.
  Ringrazio, infine, per i vostri interventi molto precisi.

  FRANCESCO VIGANÒ, Ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Milano. Sono assolutamente d'accordo. Il rischio di confusione nasce soprattutto dall'avere la proposta approvata dal Senato selezionato i soggetti passivi individuando una tra le tre categorie di soggetti passivi, quelli affidati alla custodia o autorità o potestà o cura o assistenza del soggetto attivo.
  Se noi leggiamo l'articolo 572, che è sì rubricato «maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli», ma contiene nel testo l'ipotesi di maltrattamento di persone sottoposte all'autorità o affidate all'agente per ragioni di educazione, custodia, cura, vigilanza, cogliamo immediatamente la possibilità di una sovrapposizione nell'ambito applicativo di queste fattispecie, soprattutto se si configura il reato di tortura come reato comune, che può essere commesso quindi da chiunque, e specie se lo si configura come reato abituale o eventualmente abituale, come risulterebbe dall'uso del plurale nei concetti di violenza e di minaccia.
  Credo che, rinunciando a questo criterio selettivo dei soggetti passivi e introducendo a questo punto le finalità specifiche, i doli specifici cui facciamo riferimento, forse in qualche modo una maggiore garanzia contro un possibile esito di confusione la otterremmo.
  Forse sarebbe inutile nascondere che un qualche profilo di interferenze potrebbe ugualmente sussistere, perché la finalità punitiva, per esempio, potrebbe connotare anche situazioni di inflizioni di gravi sofferenze all'interno dell'istituzione familiare. È chiaro che i giudici saranno guidati, nell'applicazione di questa norma, anche da una naturale pre-comprensione di quella che è la nozione di tortura e la diversa nozione di maltrattamenti in famiglia sotto il profilo criminologico. Io perlomeno non sono riuscito, e lo confesso, a neutralizzare ogni possibile rischio di sovrapposizione.Pag. 14
  Questi rischi, però, balzano evidenti con la formulazione approvata dal Senato. Immagino, il giorno dopo che questa norma viene approvata, un pubblico ministero che possa contestare la tortura nei casi di gravi maltrattamenti, di gravi abusi, magari di una maestra verso un bambino e via dicendo.
  Questo è un problema che ci dobbiamo porre, perché non risponde ad alcuna esigenza apprezzabile quella di confondere il confine tra la tortura e altre forme pur gravi di violazione dei diritti fondamentali dell'uomo.

  PRESIDENTE. Ringrazio gli auditi per i preziosissimi contributi e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 15.25.