XVII Legislatura

I Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 2 di Martedì 3 novembre 2015

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Agostini Roberta , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA GESTIONE ASSOCIATA DELLE FUNZIONI E DEI SERVIZI COMUNALI

Audizione di rappresentanti dell'Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI).
Agostini Roberta , Presidente ... 3 
Ricci Matteo , vicepresidente dell'Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI) ... 3 
Agostini Roberta , Presidente ... 8 
Gasparini Daniela Matilde Maria (PD)  ... 8 
Fabbri Marilena (PD)  ... 9 
Toninelli Danilo (M5S)  ... 11 
Agostini Roberta , Presidente ... 11 
Ricci Matteo , vicepresidente dell'Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI) ... 11 
Agostini Roberta , Presidente ... 13 
Ricci Matteo , vicepresidente dell'Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI) ... 13 
Agostini Roberta , Presidente ... 14 

Audizione di rappresentanti dell'Istituto geografico militare, della Fondazione montagne Italia e della Società geografica italiana:
Agostini Roberta , Presidente ... 14 
Poccia Giuseppe , Vice comandante dell'Istituto geografico militare di Firenze ... 14 
Agostini Roberta , Presidente ... 18 
Petriccioli Enrico , Segretario generale Fondazione montagne Italia ... 18 
Agostini Roberta , Presidente ... 19 
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 19 
Lobianco Luca , Direttore scientifico Fondazione montagne Italia ... 19 
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 20 
Conti Sergio , Presidente della Società geografica italiana ... 20 
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 22 
Fabbri Marilena (PD)  ... 22 
Cecconi Andrea (M5S)  ... 22 
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 23 
Conti Sergio , Presidente della Società geografica italiana ... 23 
Petriccioli Enrico , Segretario generale Fondazione montagne Italia ... 23 
Lobianco Luca , Direttore scientifico Fondazione montagne Italia ... 24 
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 24

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: (FI-PdL);
Area Popolare (NCD-UDC): (AP);
Scelta Civica per l'Italia: (SCpI);
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Lega Nord e Autonomie - Lega dei Popoli - Noi con Salvini: LNA;
Per l'Italia-Centro Democratico: (PI-CD);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-Alleanza Liberalpopolare Autonomie ALA-MAIE-Movimento Associativo italiani all'Estero: Misto-ALA-MAIE;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI;
Misto-Alternativa Libera: Misto-AL.

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE ROBERTA AGOSTINI

  La seduta comincia alle 10.15.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata attraverso la trasmissione diretta sulla web-TV della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti dell'Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI).

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione di rappresentanti dell'Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI).
  Sono presenti Matteo Ricci, vicepresidente ANCI e sindaco di Pesaro, Valentina Nicotra, segretario generale ANCI, Matteo Valerio, vicecapo Servizio area stampa ANCI, e Daniele Formiconi, responsabile Area affari istituzionali, personale e relazioni sindacali, piccoli comuni, unioni, associazionismo ANCI.
  Ringrazio i nostri ospiti per la loro presenza e la loro disponibilità e do la parola al Vicepresidente Matteo Ricci, che saluto.

  MATTEO RICCI, vicepresidente dell'Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI). Grazie per questa opportunità che la Commissione affari costituzionali della Camera offre ai comuni italiani di illustrare una proposta di riforme che noi abbiamo avanzato ufficialmente la settimana scorsa da Torino, dalla nostra Assemblea nazionale, sia al Parlamento, sia al Governo.
  Il ragionamento che noi facciamo è abbastanza semplice. Al di là di quello che ognuno di noi può pensare sulle riforme in corso – il mio, personalmente, è un parere positivo – noi abbiamo in cantiere, in itinere, in approvazione o, in alcuni casi, approvate alcune riforme importanti che cambiano l'assetto istituzionale del nostro Paese.
  In relazione alla riforma del Senato e a ciò che è annesso alla riforma stessa, ossia la trasformazione del Senato in Camera delle autonomie, noi evidenziamo, come comuni italiani, un parere positivo in generale sulla riforma, con la fine del bicameralismo perfetto e, quindi, l'individuazione di un Senato delle autonomie. L'elemento di criticità che rileviamo in questa riforma è la composizione del Senato delle autonomie, a nostro parere troppo sbilanciata sulle regioni e troppo poco rappresentativa dei comuni.
  La nostra proposta iniziale è sempre stata quella di un Senato delle autonomie composto dai sindaci delle città capoluogo di provincia e dai presidenti delle regioni. Avremmo probabilmente anche risolto anticipatamente tutto il tema dell'elettività, perché, andando a votare il sindaco della città capoluogo e il presidente della sua regione, un cittadino avrebbe saputo automaticamente che avrebbe eletto il senatore di quel territorio, sempre a costo zero, come sarà oggi con quella composizione, e, secondo noi, in modo molto più rappresentativo delle autonomie locali, perché avremmo avuto una proporzione ben diversa da quella di oggi. Oggi ci sono 21 sindaci, mentre avremmo avuto 20 presidenti di regione e un centinaio di Pag. 4sindaci, più o meno. Questa sarebbe stata la composizione. Le cose sono andate diversamente e ne prendiamo atto, anche se la nostra posizione rimane, ovviamente, quella.
  L'altra cosa bizzarra, su cui vorremmo capire se ci siano ancora margini per intervenire rispetto alla modalità di elezione, è che i 21 sindaci sono scelti dai Consigli regionali. Se non altro, la scelta dei sindaci dovrebbe essere dei sindaci. Noi abbiamo in ogni regione, per esempio, i CAL (Consiglio autonomie locali), assemblee che rappresentano le autonomie locali. Se non altro nell'individuazione dei 21 sindaci si potrebbe dare la parola ai sindaci e non ai consiglieri regionali.
  Queste sono tutte tematiche che – me ne rendo conto – in una riforma in corso sono di difficile da affrontare, ma questa è la nostra proposta sul Senato, che rimane tale. Soprattutto sulla seconda parte vorremmo verificare se ci sono degli spazi che modifichino almeno la procedura per l'elezione dei sindaci senatori.
  Con riguardo alla riforma elettorale e, oltre a queste due riforme, allo svuotamento delle province – chiamiamolo così – e alla nascita delle città metropolitane, quali sono i due elementi che, secondo noi, mancano in questo processo di riforme ? Sono il tema che riguarda i comuni e quello che riguarda le regioni. Parto dai comuni perché noi vogliamo proporre un'autoriforma. Non vogliamo parlare delle riforme che devono fare gli altri, ma vogliamo innanzitutto parlare delle riforme che riguardano noi.
  Ad oggi le normative vigenti, la legge cosiddetta Delrio e anche la legge che precedeva la Delrio, interpretano l'esigenza di mettere insieme i comuni quasi come un'esigenza esclusivamente dei piccoli comuni. Questo è un grande errore, perché, a maggior ragione con lo svuotamento delle province e con la nascita delle città metropolitane, al di là della parte legata ai bilanci, che, come sapete, è un elemento di sofferenza di questa legge di stabilità, c’è proprio un problema di governance da affrontare. Se noi non vogliamo indebolire la governance dei territori, allo svuotamento delle province deve abbinarsi un rafforzamento dei comuni.
  Che cosa proponiamo ? Proponiamo che il tema dell'aggregazione dei comuni, ossia delle unioni e delle fusioni dei comuni, non rimanga, come è oggi nella normativa, quasi esclusivamente legato all'obbligatorietà sotto i 5.000 abitanti o sotto i 3.000 abitanti per i piccoli comuni, perché lo riteniamo un errore. Anzi, se quel termine verrà mantenuto al 31 dicembre, noi rischiamo che da qui alla fine dell'anno si debbano forzatamente costruire delle aggregazioni tra i comuni, che, però, non sono funzionali alla gestione dei servizi nel territorio.
  Che cosa proponiamo, quindi ? Non proponiamo l'ennesima proroga, ossia di spostare il termine entro il quale obbligatoriamente i comuni piccoli devono mettere insieme delle funzioni, che è quello che abbiamo fatto di sei mesi in sei mesi e di anno in anno nell'ultimo periodo. Noi proponiamo un criterio alternativo: sospendere la scadenza del 31 dicembre e contemporaneamente fissare un'altra data – noi abbiamo pensato al 30 giugno 2016 – entro la quale i comuni, area vasta per area vasta, definiscano quali sono i bacini omogenei.
  Noi proponiamo, quindi, un cambio di criterio, dal criterio demografico al criterio del bacino omogeneo. In ogni territorio noi abbiamo, per motivi socioeconomici, morfologici e storici, dei bacini omogenei. I bacini omogenei non corrispondono all'aggregazione forzata per i piccoli comuni. I bacini omogenei, anzi, spesso e volentieri nascono intorno a un centro più grande degli altri, che sia una città capoluogo di provincia, un centro medio in una vallata o una comunità montana che si trasforma in unione montana.
  L'idea che noi abbiamo è quella di cambiare dal criterio demografico al criterio del bacino omogeneo, perché il problema non è dei piccoli comuni, ma è di riassetto della governance del territorio. La tempistica non può essere – per questo motivo l'abbiamo posta con forza a Torino – una tempistica lunga, perché, se noi Pag. 5manteniamo l'obbligatorietà entro la fine dell'anno, rischiamo di compromettere un ridisegno di governance.
  Al presidente abbiamo fornito una cartellina, ma per e-mail abbiamo inviato il tutto. Io ho fatto un esempio sul territorio che conosco meglio, ossia la provincia di Pesaro-Urbino. Con l'obbligatorietà attuale noi avremmo una situazione «spezzatino», che, per chi conosce il territorio, non è funzionale. Con il criterio che io propongo, anzi che noi proponiamo, noi avremmo, invece, una provincia che probabilmente – comune più, comune meno – si riorganizzerebbe su sette bacini omogenei: il bacino che gravita intorno a Pesaro, quello che gravita intorno a Fano, quello che gravita intorno a Urbino, due ex comunità montane, una vallata che ha una caratteristica storica e funzionale, ossia la vallata del Cesano, e la bassa vallata del Metauro.
  Chi dovrebbe definire questi ambiti ? I sindaci, secondo quello che noi proponiamo. Noi abbiamo l'Assemblea provinciale dei sindaci. Noi proponiamo di dare ai sindaci sei mesi entro i quali ogni territorio definisce gli ambiti omogenei. Se non lo fanno i sindaci, la regione si sostituisce e lo fa al posto dei sindaci. Questi ambiti omogenei devono diventare unioni dei comuni, ossia devono diventare i luoghi della gestione associata dei servizi, il che produce risparmio ed efficientamento, ma in una scala ottimale per la gestione di quei servizi per bacino omogeneo, lasciando, invece, sull'area vasta le competenze che rimangono all'area vasta, ossia le strade provinciali e l'edilizia scolastica delle scuole superiori.
  Tutto il resto dei servizi è difficile che possa essere gestito su area vasta, ma è impossibile che possa continuare a essere gestito comune per comune. L'idea che 8.000 comuni italiani rimangano così tali e quali è, a mio parere, irragionevole e prima o poi si scontrerà con la realtà. Già oggi molti comuni non stanno in piedi e non sono in grado di avere, pur mettendosi insieme tra piccoli, una massa critica in grado di gestire in maniera efficace ed efficiente dei servizi.
  Dentro i bacini omogenei poi i comuni che volontariamente, attraverso il referendum, attraverso le normative già esistenti, decideranno di fondersi si fonderanno. Per capirci, se dobbiamo mantenere l'obbligatorietà, la dobbiamo mantenere per bacini omogenei e non per i piccoli comuni. Una volta definiti i bacini omogenei, il bacino omogeneo diventa unione dei comuni, cioè l'ambito ottimale per la gestione associata dei servizi, e dentro il bacino omogeneo i comuni che volontariamente lo decidono, perché se la sentono, perché i sindaci e le popolazioni di quel territorio vogliono ulteriormente rafforzare la loro capacità di riforma, fanno le fusioni.
  Chiaramente, questo è un disegno che richiede anche una politica di incentivi o di disincentivi pluriennali che vada in questo senso. Sulle unioni il problema più grosso che noi abbiamo avuto è quello della semplificazione. Abbiamo normative e percorsi per costruire le unioni ancora molto farraginosi. Pertanto, una volta definiti i livelli di governance, bisogna concentrarsi su due elementi. Il primo è la semplificazione, ossia far sì che queste cose siano semplici da fare e non impossibili. Il secondo è una politica di incentivi, statali, regionali, in parte legati anche ai fondi europei e anche al Patto di stabilità, sapendo però che con la legge di stabilità cambiano le normative e che, quindi, mentre fino adesso questo è stato l'incentivo più importante per favorire sia le aggregazioni di comuni, sia le fusioni in particolar modo, magari in futuro serviranno, invece, politiche più legate a risorse vere e proprie piuttosto che a margini di manovra legati al Patto di stabilità.
  Questa operazione noi la riteniamo molto urgente, altrimenti rischiamo di aver fatto una riforma parziale e di non far corrispondere nulla allo svuotamento delle province, a meno che non si pensi – e veniamo alla seconda proposta – che allo svuotamento delle province e alla difficoltà dei comuni si sostituiscano le regioni attraverso una centralizzazione gestionale, che noi non condividiamo.
  In molte regioni, in particolar modo in quelle più piccole, questo si sta già facendo. Pag. 6La seconda proposta che noi poniamo è quella di una riforma delle regioni vera, non soltanto ed esclusivamente posta come una questione di risparmio – c’è anche il risparmio – ma anche come un'esigenza di governance.
  Con le proposte che vi ho raccontato, se riusciremo, attraverso questo disegno, nei prossimi anni a far nascere le unioni dei comuni in ogni bacino ottimale e a spingere verso le fusioni, noi avremo ridotto sicuramente la spesa pubblica, perché avremo efficientamento organizzativo e riduzione della spesa pubblica. Di conseguenza, avremo fatto anche un'operazione risparmio, ma soprattutto avremo risposto a un'esigenza vera di governance del territorio.
  La stessa cosa vale per le regioni. Questa è l'altra faccia della medaglia di questa proposta. Noi riteniamo che la gestione dei servizi debba rimanere nei territori, altrimenti per anni ci saremo riempiti la bocca della parola «sussidiarietà», ma rischieremo di fare l'esatto contrario; magari con una centralizzazione nazionale o regionale dei processi gestionali.
  Il problema delle regioni è anch'esso di governance. Noi proponiamo il dimezzamento delle regioni, evitando cose strane, un po’ modello Risiko, con separazioni di regioni e di province un pezzo da una parte e un pezzo dall'altra, facendo diventare protagoniste di questa operazione le regioni stesse. Il tema del dimezzamento delle regioni, a nostro parere, è un tema fondamentale, non tanto e non solo per il risparmio, quanto, anche in questo caso, per una questione di competitività.
  Quando sono nate le regioni in Italia, nel 1970, non c'erano né l'Europa che conosciamo, né la globalizzazione. Oggi le regioni in Europa hanno una dimensione più grande. Pertanto, noi riteniamo innanzitutto che la dimensione delle regioni sia per molte regioni una dimensione insufficiente dal punto di vista della competitività di quei territori, oltre che del risparmio (meno Consigli regionali, meno strutture e via e dicendo). È insufficiente soprattutto dal punto di vista della competitività.
  Io vengo da una regione, le Marche, di 1,5 milioni di abitanti. Non si capisce perché le Marche e l'Umbria, che ha 900.000 abitanti, non siano ancora insieme, o magari perché l'Italia centrale non sia insieme complessivamente. Penso a Marche, Umbria e Toscana, per non citare l'Abruzzo, la Basilicata, il Molise e la Liguria, le regioni più piccole.
  Il tema del dimezzamento delle regioni, facendo diventare protagoniste le regioni del cambiamento, a nostro parere, è urgente. È ovvio, è in corso una riforma, la riforma del Senato delle autonomie, e ci sarà il referendum, ma io credo che occorra preparare il terreno. Concluso quell’iter, occorre preparare il terreno affinché sulle regioni si abbia un'idea chiara di riforma, compreso che cosa esse devono fare.
  Noi pensiamo che le regioni debbano avere una dimensione più grande anche perché le regioni devono fare le leggi e la pianificazione. Fatta salva la sanità, che rimane una funzione esclusiva, dal punto di vista gestionale, delle regioni, il resto dovrebbe essere gestito dai territori. Se vogliamo mettere in condizione i territori di gestire, abbiamo bisogno di comuni più forti, perché i comuni che ci sono oggi sono troppo fragili, troppo frastagliati e troppo disorganizzati.
  Come vedete, queste sono due facce della stessa medaglia. La prima è più urgente, per i motivi che ho spiegato. La seconda, ovviamente, anche per non mettere troppa carne al fuoco dal punto di vista delle riforme istituzionali, lo è meno. Infatti, mentre per la prima questione non serve una riforma costituzionale, per la seconda serve una riforma costituzionale, ragion per cui siamo anche su due binari legislativi differenti. L'una, però, tiene l'altra. Il tema è completare il processo di riforma avviato nel Paese.
  Ad oggi il Governo e il Parlamento hanno affrontato la riforma del Senato delle autonomie: legge elettorale per garantire governabilità e rappresentanza al Pag. 7prossimo Parlamento, svuotamento delle province e nascita delle città metropolitane. I due elementi che mancano sono il rafforzamento dei comuni e la riforma delle regioni.
  Questa è, a grandi linee, la proposta che noi facciamo. L'urgenza più grande, se non vogliamo compromettere il discorso fatto, è questa scadenza del 31 dicembre, perché, se noi obblighiamo entro il 31 dicembre i comuni sotto i 5.000 e i 3.000 abitanti a mettersi insieme forzatamente in maniera inefficace, rischiamo di compromettere un ragionamento riorganizzativo che deve riguardare tutti i comuni italiani, non solo i piccoli comuni – aggiungo – a maggior ragione laddove non nasce la città metropolitana.
  C’è anche questa differenza, secondo me. Laddove nasce la città metropolitana, in teoria dovrebbe nascere un super-comune, o una super-provincia. Semplifico per capirci. Le città metropolitane, però, saranno dieci. Nel restante 90 per cento del territorio abbiamo uno svuotamento e basta. Pertanto, a maggior ragione nei territori dove non ci sono città metropolitane questo tema diventa di grande urgenza, se lo vogliamo affrontare, altrimenti il rischio è che il processo di riforme che voi avete messo in campo sia un processo di riforme che ha delle parti mancanti vere, che nei prossimi anni potrebbero scontrarsi con una difficoltà a rendere il tutto il più funzionale possibile.
  Mi pare che queste siano le cose più importanti che volevamo porvi. Parallelamente a questo, siamo, invece, abbastanza soddisfatti del lavoro che si sta facendo sulla legge di stabilità, perché è la prima volta dopo sette anni che non si taglia ai comuni. Qualcuno potrebbe dire: «Vi accontentate di poco», ma non è poco. Noi riteniamo l'operazione che siamo riusciti a portare a termine rispetto al liberare alcune risorse per i comuni virtuosi dal Patto di stabilità con le nuove norme del Patto, in particolar modo su una parte degli avanzi di amministrazione, molto importante, non solo per i comuni che ne usufruiranno, ma anche per far ripartire gli investimenti.
  Noi avevamo calcolato che quest'operazione sul Patto di stabilità, che ha un impatto sulla stabilità – mi pare – per una cifra tra i 600 e i 700 milioni, in verità produrrà circa 3 miliardi di investimenti, perché sostanzialmente non utilizza né indebitamento, né risorse dello Stato, ma risorse dei comuni fuori dall'indebitamento, mettendo così in moto degli investimenti molto maggiori rispetto a ciò che voi avete posto in stabilità.
  Noi riteniamo questa una cosa molto utile in particolar modo per quei comuni che hanno avanzo d'amministrazione, che hanno cassa e che, quindi, hanno una gestione virtuosa del proprio comune. Coloro che non hanno avanzo d'amministrazione, non hanno cassa e hanno un comune in disavanzo, ovviamente, non avranno benefici. Coloro che, invece, hanno un comune – chiamiamolo così – virtuoso e ben gestito avranno sicuramente dei benefici molto importanti anche per la ripresa economica.
  Sottolineo questa questione perché si è valorizzata forse ancora poco. Si parla molto sugli investimenti dei superammortamenti per le imprese. Noi riteniamo che dal punto di vista economico avrà molto più impatto questa questione che il tema dei superammortamenti sulle imprese, perché metterà in moto e al lavoro nel giro di pochissimi mesi piccole imprese soprattutto che lavoravano nell'edilizia, che sono a terra, e che, di conseguenza, possono tenere in piedi occupazione e sviluppo nel territorio, ovviamente laddove questa cosa sarà possibile.
  Anche noi avremo degli emendamenti da fare sulla legge di stabilità per migliorarla, ma gli assi portanti ci soddisfano. L'elemento che abbiamo sottolineato di maggior criticità rimane quello delle province, perché ormai le province sono nei fatti gestite dai comuni. Di conseguenza, dobbiamo mettere in condizioni le province di gestire nel 2016 strade e scuole. A legge di stabilità depositata al Senato oggi questo non è possibile. La correzione vera che noi chiediamo nella legge di stabilità riguarda il tema delle province, delle Pag. 8strade e delle scuole per metterle in condizione di svolgere le funzioni essenziali che rimarranno in area vasta.
  Grazie per questa opportunità. Speriamo che questa proposta che abbiamo già presentato a diversi esponenti del Governo che hanno competenza nel settore possa nelle prossime settimane diventare anche oggetto di dibattito parlamentare nelle Commissioni e nelle Aule del Parlamento.

  PRESIDENTE. Ringrazio il vicepresidente Ricci, che peraltro amministra un territorio splendido come quello di Pesaro. Permettetemi un po’ di campanilismo. Ricordo che il materiale che oggi ci è stato consegnato vi è stato inviato anche via mail e che, quindi, l'avete nella casella di posta elettronica.
  Do la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  DANIELA MATILDE MARIA GASPARINI. Svolgo, più che altro, una considerazione, concordando pienamente sulle cose dette. Voglio far presente, però, che, in realtà, nelle audizioni che abbiamo svolto in questa Commissione, quando abbiamo sentito le proposte delle regioni sul tema regione, esse non hanno fatto proposte di macroregioni. Da questo punto di vista quello che voglio rilevare è che, in realtà, con riferimento a quello che viene auspicato, ossia che ci sia dal basso la capacità di un autogoverno, certamente con norme che permettano l'autogoverno e non obblighino in maniera anomala accorpamenti non funzionali, questa cosa non è stata così spontanea.
  Rispetto alla proposta, che leggerò – non l'ho vista – io credo che sia da sostenere questo tempo durante il quale accompagnare un processo. Mentre voi parlavate, mi venivano in mente due cose.
  In primo luogo, la Costituzione in pratica individuerà le aree vaste, ma non sappiamo ancora che cosa saranno le aree vaste. Si dice che ci sarà la legge ordinaria che fornirà indirizzi su come andarle a costituire. Una delle richieste che stanno facendo oggi i territori è che cosa siano le aree vaste: sono le attuali province o, considerando la capacità di rileggere il territorio secondo i cambiamenti e i sistemi economici e infrastrutturali, sono aree più complesse ? Una delle richieste che oggi vengono fatte è anche quella di capire come armonizzare questa scelta con il riordino, per esempio, della legge Madia o di altre leggi sul sistema dei servizi statali territoriali o dei servizi a rete sovracomunali.
  Dentro questo tema c’è ancora quello delle aree omogenee, perché di fatto noi abbiamo per anni discusso di unioni dei comuni e di fusioni delle comunità montane, mentre adesso ci sono altri due oggetti o soggetti, aree vaste e aree omogenee.
  Per esperienza, poiché le province potevano fare i circondari, ricordo che, quando io ero assessore provinciale, abbiamo fatto i circondari, soggetto troppo fragile, e poi abbiamo fatto il Piano strategico. Abbiamo costituito delle aree omogenee, che adesso sono state confermate dalla città metropolitana. Le aree omogenee della città metropolitana, per esempio, sono quasi strumento di partecipazione alle scelte strategiche delle funzioni metropolitane.
  Il problema, a questo punto, è capire come attuare questo tipo di disegno, che io condivido appieno. A me sembra assurdo pensare di obbligare i comuni a mettersi insieme perché sono sotto i 5.000 abitanti. Questa cosa è ridicola, non sta in piedi, dal punto di vista proprio della rete e della collaborazione che è già in atto, altrimenti l'avrebbero già fatta i comuni. Avrebbero già fatto le aree omogenee e avrebbero governato insieme.
  Questo non sta in piedi e io non riesco a capire come affrontare il problema. Per questo motivo lo sollevo. Si tratta di capire come «obbligarli» – incentivandoli, ma obbligandoli – a gestire assieme alcuni servizi di scala comunale. Diversamente, c’è il fallimento dell'unione per alcuni aspetti e anche per questo tipo di collaborazione Pag. 9rischia di essere un livello che non fa un passo in avanti. Si tratta di obbligarli.
  Poiché noi avremo, come vi dicevo prima, un'audizione con il sottosegretario Bressa sullo stato di attuazione della legge n. 56 del 2014, ricordo che c’è stata la richiesta, l'altro giorno, anche di altre associazioni di superare l'obbligatorietà senza rinunciare a un termine. Si tratterebbe, da questo punto di vista, secondo me, di trovare il coraggio, da parte forse di ANCI, nonché del Governo e del Parlamento, di spingere a un ridisegno in tempi molto certi da parte dei territori. Quell'esercizio va guidato per tutti i territori. Da questo punto di vista occorre stabilire come e quanto quelle aree omogenee, oltre che partecipare a politiche di area vasta, partecipino a un discorso anche di semplificazione del sistema amministrativo.
  Tra parentesi, la legge Madia in alcuni suoi decreti legislativi dovrà definire gli ambiti ottimali della gestione dei servizi pubblici locali. Questa potrebbe essere l'occasione di fare questo intreccio. Questo vuol dire, però, che stabiliamo che le aree vaste sono sostanzialmente le attuali province, perché diventa poi complicato rifarle. Bisogna fare un ragionamento, secondo me, a breve.
  Io volevo evidenziare, quindi, che condivido perfettamente le cose dette e aggiungo solo una cosa, visto che il ragionamento è stato più ampio: io mi auguro che si risolva obbligatoriamente con la legge di stabilità il tema delle funzioni delle province – comunque si chiamino, quei servizi ci sono – e che si riprenda, però, anche il discorso dell'autonomia dei comuni per quanto riguarda i prossimi anni. Senza autonomia fiscale, infatti, non si ha poi una responsabilità nella gestione del bilancio e della programmazione.

  MARILENA FABBRI. Parto da una domanda sulla legge di stabilità e poi faccio alcune considerazioni.
  La prima domanda è se rispetto alle cose da modificare non ci sia anche, a seguito dell'abolizione della TASI, l'intenzione di riconcertare delle modalità di compensazione che non siano semplicemente una compensazione per trasferimento statale, ma un'autonomia tributaria e finanziaria effettiva.
  Io ritengo che una conquista importante degli anni passati sia stata proprio quella di legare la legge elettorale diretta dei sindaci e la responsabilità amministrativa nei confronti dei cittadini al fatto di avere poi autonomia finanziaria e tributaria, ovviamente nei limiti previsti dalla legge, ma con la possibilità di modificare le entrate alla luce delle spese dei servizi che si contrattano con i cittadini.
  Io credo che, pur potendosi accontentare di una compensazione per trasferimento in quest'anno, questo non debba essere, però, il punto di caduta finale nel rapporto Stato-enti locali, altrimenti vengono meno la responsabilità e soprattutto la vera autonomia e capacità di rispondere per obiettivi.
  Rispetto al tema, invece, dell'indagine, il motivo per cui noi l'abbiamo promossa è stato proprio quello di riflettere su come il primo obbligo che parte dal Governo Monti, e che è stato poi ripreso dalla legge Delrio, fosse effettivamente sufficiente e funzionale al modello di riorganizzazione che si stava prospettando, o se non fosse un primo step per un ragionamento più ampio e complessivo.
  Infatti, già nell'indagine noi diciamo che forse le unioni sotto i 5.000 abitanti sono, in realtà, funzionali a una fusione. C’è un processo di avvicinamento e di accompagnamento a una scelta più forte, che è quella della fusione, perché sappiamo perfettamente tutti, avendo fatto anche noi – per esempio, io e la collega Gasparini – il sindaco, che in un'unione sotto i 5.000 abitanti è più la fatica che il vantaggio. Invece, nella logica proprio del superamento delle province, ci sarebbero potute essere due tipologie di unioni: la prima, di primo livello, funzionale a una fusione; e l'altra, di secondo livello, più funzionale al superamento delle province, o comunque a un ampliamento dei livelli di gestione.Pag. 10
  Il tema era proprio quello di fare un ragionamento, per quanto i tempi siano stretti, prima del 31 dicembre, proprio per non arrivare a una semplice proroga, che però non fa altro che demotivare magari chi, invece, i percorsi di unione e di fusione li ha fatti. Ad oggi, o almeno fino a qualche giorno fa, sono più di 2.300 i comuni che si sono uniti sui 5.000 obbligati, anche se quelli che si sono effettivamente uniti non erano tutti tra quelli obbligati.
  Volevo rivolgere una domanda. Prima si proponeva di non fare un ragionamento attraverso un criterio demografico, ma attraverso un criterio orografico, anche se, in realtà, questo non era escluso. I comuni avrebbero comunque potuto, insieme alle province o alle regioni, fare un ragionamento di tipo diverso. Il criterio demografico non escludeva un ragionamento più organico e razionale, come hanno fatto, per esempio, alcune regioni. Penso, in particolare, a quella che conosco di più, l'Emilia-Romagna.
  A me fa piacere che il processo che si è avviato sia servito anche a un ragionamento di riordino e a una proposta organica di riordino come quella che ci avete presentato, che è stata presentata all'Assemblea nazionale dell'ANCI. Questo è importante proprio per il ragionamento successivo che possiamo andare a fare. Io mi chiedo se in una proposta di modifica, o comunque in una proposta normativa sia più funzionale pensare di demandare prima alle aree vaste e, quindi, ai comuni nell'ambito delle aree vaste, o ex province, di fare delle proposte razionali di unione dei comuni sulla base di un criterio orografico, socioeconomico e di affinità e poi prevedere un potere sostitutivo delle regioni solo nel caso in cui non ottemperino entro una determinata data, o, invece, fare un ragionamento di tipo diverso e, quindi, imporre alle regioni di intervenire facendo una proposta organica di ridisegno complessivo del territorio regionale sulla base dei criteri orografici e socioeconomici, tenendo conto magari degli ambiti ottimali attraverso i quali i comuni stanno già gestendo servizi, come voi dicevate. Penso alle comunità montane, ai distretti sociosanitari, ai distretti scolastici.
  In realtà, i comuni operano già da anni per ambiti ottimali di gestione. Ci possono essere magari dei piccoli aggiustamenti legati al fatto di ambiti eccessivamente grandi o di territori che non hanno fatto negli anni delle razionalizzazioni. Io, ovviamente, ho sempre in mente la legge della regione Emilia-Romagna, che è partita da questo punto di vista. La regione ha fatto un disegno complessivo del riordino istituzionale, ha individuato degli ambiti ottimali e ha chiesto ai comuni di esprimersi rispetto alla ragionevolezza di questi ambiti o di fare proposte alternative. In assenza di proposte alternative, gli ambiti erano quelli definiti.
  Questo, ovviamente, consente di avere una prospettiva che magari non è solo quella provinciale, ma è anche quella complessiva della regione, nonché, a mio avviso, un protagonismo delle regioni che ci dovrebbe essere anche nel supporto di questi processi anche dal punto di vista normativo e degli atti formali.
  Io credo che alcuni comuni abbiano difficoltà a fare un ragionamento complesso di unione o fusione perché mancano degli strumenti, o anche semplicemente del tempo, per poter ragionare, nella gestione quotidiana dell'emergenza, anche su un processo di riorganizzazione, anche andando a creare delle sinergie con comuni confinanti, nei quali magari c’è anche un colore politico diverso. Anche l'omogeneità politica può giocare a favore o a sfavore di un ragionamento più razionale e di sostenibilità economico-gestionale.
  Mi chiedevo, quindi, se convenisse puntare più sui comuni e su un potere sostitutivo regionale o, invece, investire più direttamente le regioni di una responsabilità legata anche alla visione di pianificazione che esse dovrebbero avere e investirle anche dal punto di vista economico e di sostegno normativo ai comuni.
  L'altra cosa che ci tenevo a dire è che, secondo me, andrebbe anche sottolineato che le unioni non dovrebbero avere solo Pag. 11una finalità di gestione associata dei servizi. L'altro passaggio importante che avevano fatto Monti e Delrio era quello di dire che le funzioni dovessero essere gestite in forma associata. Non ci accontentiamo più semplicemente della gestione associata dei servizi e, quindi, di un ragionamento di carattere economico-finanziario, ma vogliamo, invece, lavorare sulla gestione strategica e sulla capacità di pianificazione strategica del territorio, per quanto, ovviamente, di competenza.
  Qual è il vostro rapporto con l'Associazione dei piccoli comuni, il cui intervento della settimana scorsa è stato di assoluta contrarietà a questi processi di obbligatorietà delle forme associate ? Secondo l'Associazione, questo deve essere comunque un processo squisitamente volontario, in cui non ci devono essere degli interventi di forzatura o di disegno dall'alto, perché loro sostengono di essere quelli tra i comuni che riescono a mantenere tranquillamente i pareggi di bilancio. Mi riferisco all'ANPCI (Associazione nazionale dei piccoli comuni d'Italia).

  DANILO TONINELLI. Presidente, io sarò più breve. Ringrazierò dopo gli intervenuti, considerato che per ora ne ha parlato solo uno, e svolgo prima una considerazione sulla prima parte.
  Mi riferisco a quanto da lei affermato circa la riforma del Senato, ossia all'auspicio che, invece che i consiglieri regionali, nel nuovo Senato potessero entrare i sindaci dei capoluoghi di provincia. Se ne potrebbe tranquillamente ragionare, ma io le ricordo che oggi non siamo di fronte a un Senato delle autonomie sul modello Bundesrat, dove c’è il vincolo di mandato e dove ci sono i governatori o gli assessori che con vincolo di mandato vanno a operare in questo Senato e, quindi, cambiano a seconda dell'ambito e della materia. Qui ci sarebbe la politica, con i suoi mal di pancia. Di fatto, a nostro parere, non cambierebbe granché, perché non c’è il vincolo di mandato e perché tali soggetti non sono espressione di fatto dei Governi, ma, per la maggior parte, delle istanze politiche. Pertanto, probabilmente il caos non verrebbe modificato.
  Io ne approfitto per chiedere, visto che voi siete direttamente interessati, una valutazione sul fatto che, parlando di unioni di comuni, la Corte dei conti in un recente rapporto, mi sembra del 2013-2014, basato sugli esempi di 300 e oltre comuni che si erano uniti, aveva riscontrato degli aumenti di costi.
  A questa domanda ne aggiungo un'altra e vi chiedo se ritenete che effettivamente – anche secondo quanto affermato nelle relazioni tecniche degli uffici di Camera e Senato relativamente alla legge di stabilità – il taglio della TASI e dell'IMU agricola possa creare, con la compensazione sulla solidarietà, un irrigidimento dei bilanci e, quindi, un'alimentazione di spazi di manovra da parte dei comuni stessi.

  PRESIDENTE. Do la parola al Vicepresidente Ricci per la replica. Chiederei delle risposte rapide ed esaustive perché abbiamo altri ospiti in attesa.

  MATTEO RICCI, vicepresidente dell'Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI). Va bene. La novità anche per ANCI qual è ? Questa è la proposta di tutta l'ANCI. Non c’è più una posizione dei piccoli comuni, dei comuni medi o delle città metropolitane. Questa è la novità. Lo dico io per primo. Il lavoro che abbiamo svolto insieme ad altri colleghi, a Formiconi e alla segretaria dell'ANCI, che è qui con me, in quest'ultimo anno è stato proprio quello di portare l'ANCI a una proposta condivisa di tutta l'ANCI, che è stata approvata non solo dal Direttivo nazionale, ma anche dall'Assemblea dei piccoli comuni a Cagliari, quest'estate.
  Il nocciolo qual è ? Non possiamo dire «no», dobbiamo diventare protagonisti del cambiamento. Dobbiamo proporre un cambiamento che funzioni meglio e che completi il processo di riforme che in Italia sta andando avanti. Questa è la linea che ci siamo dati.
  Per essere chiari, noi non chiediamo, come è capitato in passato, essendoci la Pag. 12scadenza del 31 dicembre, di rinviarci la scadenza del 31 dicembre, perché la premessa che noi facciamo è che 8.000 comuni italiani, così come li conosciamo, non reggono più. Il punto è quale sia il meccanismo migliore per metterli insieme. Quello attuale previsto dalla legge, secondo noi, non è il meccanismo migliore, perché riguarda solo i piccoli comuni e non crea quella gestione associata e quella programmazione delle funzioni che dovrebbero servire anche nella programmazione e non solo nella gestione quotidiana del territorio.
  Noi non vogliamo togliere una cosa obbligatoria per proporne una facoltativa. Noi proponiamo di cambiare il criterio. Oggi questo è obbligatorio per i comuni sotto i 5.000 abitanti e sotto i 3.000 abitanti. Rendetelo obbligatorio per tutti i comuni tra sei mesi o un anno, quello che riterrete, dando l'autonomia ai sindaci di decidere, area vasta per area vasta, quali sono i bacini omogenei, perché nessuno meglio dei sindaci – se accettano il cambiamento, ovviamente, perché, se non accettano il cambiamento non faranno nulla; io sono convinto, però, che la stragrande maggioranza accetterà il cambiamento – sa quali sono i bacini omogenei.
  Noi abbiamo l'Assemblea dei sindaci a livello provinciale. Quello deve essere l'organismo che dice, area vasta per area vasta, che in un dato territorio ci sono 3, 5, 10, 12 bacini omogenei, anche qui non mettendo un criterio demografico, perché ci sono bacini montani dove il bacino omogeneo può essere di 20.000 persone e ci sono bacini – penso in Puglia – dove il bacino omogeneo probabilmente sarà di 300.000 persone, lasciando ai sindaci la possibilità di dire nel loro territorio, territorio per territorio, per motivi economici, sociali e morfologici, qual è il bacino omogeneo. Se non lo fanno i sindaci perché non accettano lo spirito della riforma e del cambiamento, scaduto il termine, lo fanno le regioni al posto loro. Questo ci sembra l’iter migliore, che non toglie autonomia ai sindaci, ma che, al tempo stesso, non rinvia date.
  Che cosa sta succedendo ? L'Italia è molto diversa da questo punto di vista. Ci sono regioni, come l'Emilia-Romagna e il Friuli-Venezia Giulia, che hanno fatto delle normative magari non esattamente nella direzione che sto dicendo io, ma che vanno nella direzione di aiutare i comuni ad aggregarsi – alcune cose sono positive, altre discutibili – ma la stragrande maggioranza delle regioni non le ha fatte. Se noi riteniamo questo un elemento essenziale di ridisegno della governance del Paese, non possiamo neanche lasciarlo singolarmente alla volontà delle singole regioni, soprattutto se pensiamo che questo meccanismo vada incentivato poi con incentivi innanzitutto nazionali, statali, e non solo lasciati alle regioni.
  L’iter che noi abbiamo proposto è semplicissimo. Non è complicato. Noi proponiamo di sostituire un'obbligatorietà su criteri demografici per metterne un'altra su bacini omogenei che decidono i comuni stessi. Discuteremo poi di quali sono le funzioni che si devono mettere obbligatoriamente insieme, si aprirà una discussione su questo, ma l’iter è molto semplice.
  Le aree vaste, secondo noi, meno le toccate e meglio è. Questo ragionamento che noi facciamo ha un senso se va a riorganizzare le aree vaste così come le conosciamo. Peraltro, lo dico perché anche gli uffici periferici dello Stato oggi sono tutti organizzati per area vasta. Riorganizzarli diversamente può essere anche possibile, magari mettendo insieme più aree vaste. Penso alle Camere di commercio. La normativa in vigore nella regione Marche prevede che quattro Camere di commercio diventino due. Invece di essercene una per provincia, ce n’è una ogni due province. Se andiamo a modificare il territorio dell'area vasta, secondo me apriamo un altro problema.
  Al di là del fatto che io sono stato presidente della provincia e che, quindi, questa è una questione che conosco abbastanza bene, lo Stato è stato costituito sulle province. Cambiarne qualcuna è un conto, ma cambiare i confini delle aree vaste del tutto, a parte che non so quando iniziamo e quando finiamo, dal punto di Pag. 13vista della riorganizzazione complessiva, a nostro parere, rischia di essere molto complicato. Altro discorso è dove nascono le città metropolitane. Questo è già un altro discorso, ma, in generale, questo è un tema che noi vorremmo evitare di toccare.
  Sulla questione unioni dei comuni e aumento dei costi intanto ci sono varie generazioni di unioni di comuni. Le prime generazioni di unioni dei comuni – provo a semplificare la questione così; poi magari il collega Formiconi sarà più preciso di me, fornendovi anche dei numeri – che io faccio risalire alla fine degli anni Novanta e ai primi del Duemila, spesso e volentieri erano un pezzo di comune in più. Le unioni di comuni degli ultimi anni, in particolar modo quelle che abbiamo in testa, invece, sono un pezzo di comune in meno e, quindi, non richiedono nuovo personale.
  Per esempio, io ho fatto un'unione dei comuni, essendo città capoluogo di provincia, con alcuni comuni vicino a Pesaro. Non c’è una persona in più, non c’è una sede, non c’è nulla in più, perché la nuova generazione di unioni dei comuni che noi abbiamo in testa è questa. È mettere insieme, ma facendo in modo che complessivamente i costi gestionali di quei comuni diminuiscano. Magari all'inizio possano avere un aumento di costi il primo anno, perché devono partire, ma poi gradualmente devono andare a calare, devono produrre un risparmio, altrimenti non ha senso farle, ovviamente.

  PRESIDENTE. Posso chiedere un po’ di sintesi, perché ci sono gli altri ospiti fuori che ci aspettano ? È molto interessante, ma il tempo stringe.

  MATTEO RICCI, vicepresidente dell'Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI). Ci mancherebbe.
  È questo che abbiamo in testa, quindi. Poi è chiaro che servono incentivi anche molto forti sulle fusioni, perché, se si rende obbligatorio il bacino omogeneo, si deve rendere semplice la costruzione dell'unione per bacino omogenea. La si deve incentivare e si devono mettere anche incentivi forti dentro il bacino omogeneo per chi vuole volontariamente fondersi. A quel punto, abbiamo visto che le fusioni producono ulteriore efficientamento e ulteriore capacità di stare in piedi dei comuni.
  Perché è importante fare questo ? Proprio per toglierle dalla logica politica. Le unioni dei comuni – lo dico perché l'ho fatto – dove ci sono i sindaci che vanno d'accordo, funzionano, come sono costruite oggi. Dove i sindaci non vanno d'accordo, non funzionano. Se si va a votare e cambia il colore politico di un comune, spesso e volentieri si incrina anche la funzionalità dell'unione.
  Se, invece, si rendono obbligatori i bacini omogenei, che vinca la destra, la sinistra o il Movimento 5 Stelle, quello è il bacino omogeneo. Punto. Devono comunque lavorare insieme. Non è un progetto che dura un anno o una legislatura, ma è un progetto pluriennale di organizzazione di investimento su quel territorio.
  Sulle funzioni da metterci io sono molto spinto. Per esempio io penso che l'urbanistica, che è la cosa della quale il sindaco è più geloso, non abbia più senso che sia comune per comune. Se si fa il bacino omogeneo, per esempio, la pianificazione urbanistica dovrebbe diventare per bacino omogeneo, perché, con riferimento alle aree industriali, alle aree commerciali, alle aree scolastiche e alle infrastrutture, non ha senso che ogni comune continui a pensare che dentro il proprio comune ci debba essere tutto. Le storture urbanistiche degli ultimi decenni derivano anche da questa impostazione. Sulle funzioni, quindi, io sono anche molto spinto da questo punto di vista, ma prima bisogna avere la nuova governance.
  Infine, sulle questioni legate alla legge di stabilità, la presenza dei sindaci in Senato sarebbe stata perfetta. Il Senato sarebbe diventato così la vera Camera delle autonomie, non legata agli equilibri politici nella Camera vera e rappresentante effettivamente delle autonomie dei territori, a prescindere dall'appartenenza politica. Dal punto di vista dell'elettività avremmo evitato di fare tutti i giri che Pag. 14abbiamo fatto per trovare un meccanismo con cui i cittadini dovessero scegliersi. Sarebbe stata la soluzione perfetta.
  L'unico dubbio riguarda i cittadini che non vivono nel comune capoluogo di provincia. È anche vero, però, che, votando i presidenti delle regioni, tutti i cittadini non coinvolti nei comuni capoluogo avrebbero potuto essere rappresentati dai presidenti di regione. Sarebbe stato un meccanismo semplicissimo: se voto il sindaco della mia città, voto anche il senatore e, se voto il presidente della regione, voto anche il senatore. Sarebbe stato perfetto. Con un equilibrio di 120 a favore dei comuni, secondo noi, questo sarebbe stato il sistema più rappresentativo del tema delle autonomie locali. La discussione parlamentare è andata dall'altra parte, ma noi ribadiamo questo.
  Sulle modalità di compensazione la nostra prima preoccupazione è stata che venissero compensati integralmente, perché è ovvio che, quando abbiamo visto che si aboliscono IMU, TASI, IMU agricola e imbullonati, abbiamo subito fatti i conti di quanto questo impatti sui nostri bilanci. La trattativa che abbiamo fatto con il Governo fino ad oggi, quindi, sostiene che l'importante è che innanzitutto vengano compensati integralmente e che non ci siano sorprese.
  In secondo luogo, noi non vogliamo aumentare la pressione fiscale. Questo tema della compensazione totale è fondamentale anche perché noi non vogliamo aumentare la pressione fiscale. Siamo impegnati a questo. Dopodiché, è chiaro che dobbiamo recuperare, una volta entrata in vigore questa riforma, un meccanismo fiscale che garantisca più autonomia ai territori. Ci ragioneremo. Ad oggi ci siamo fermati alla compensazione totale; in vista delle prossime stabilità si può pensare di costruire un meccanismo che garantisca maggiore autonomia impositiva ai comuni. Ovviamente, è la cosa che insieme dobbiamo fare.
  Penso di aver risposto, più o meno, a tutte le domande che mi sono state fatte.

  PRESIDENTE. Ringraziamo i rappresentanti dell'ANCI e il vicepresidente per la loro presenza. È stata una discussione interessante ed esaustiva, che io ritengo preziosa per il nostro lavoro.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione di rappresentanti dell'Istituto geografico militare, della Fondazione montagne Italia e della Società geografica italiana.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione di rappresentanti dell'Istituto geografico militare, della Fondazione montagne Italia e della Società geografica italiana.
  Mi scuso per il ritardo con il quale diamo inizio al nostro lavoro. Sono presenti per l'Istituto geografico militare il Generale di Brigata Giuseppe Poccia, Vice comandante dell'Istituto geografico militare di Firenze e il colonnello Enzo Santoro, responsabile informazioni dell'Istituto geografico militare di Firenze; per la Fondazione montagne Italia il dottor Luca Lobianco, direttore scientifico della Fondazione, e il dottor Enrico Petriccioli, segretario generale della Fondazione; per la Società geografica italiana il dottor Sergio Conti, presidente, la dottoressa Carlotta Spera, addetta stampa, e il dottor Giuseppe Antonio Fortunato.
  Ringrazio i nostri ospiti per la loro presenza e per la loro disponibilità e do subito la parola al Generale di Brigata Giuseppe Poccia. Io mi scuso, ma vi chiedo di contenere le relazioni nei dieci minuti o un quarto d'ora, perché siamo andati un po’ oltre il tempo a nostra disposizione.

  GIUSEPPE POCCIA, Vice comandante dell'Istituto geografico militare di Firenze. Signor presidente, signori onorevoli, vi ringrazio per l'opportunità di essere qui per l'odierna audizione correlata all'indagine conoscitiva sulla gestione associata delle funzioni e dei servizi comunali, stato dell'attuazione della normativa, principali questioni emerse e possibili interventi da assumere.Pag. 15
  Io mi avvarrò di una serie di slide per questa presentazione, che è suddivisa in due parti, la prima a carattere generale, in cui illustrerò il ruolo dell'Istituto geografico militare (IGM), e la seconda, esclusivamente tecnica, sviluppata dal caporeparto informazioni geografiche, qui presente, basata su alcuni dati esperienziali che possono essere correlati alla tematica di interesse.
  L'IGM trae le sue origini dall'Ufficio tecnico del Corpo di stato maggiore del Regio esercito che nel 1861 riunì in sé le tradizioni e le esperienze delle omologhe Istituzioni preunitarie, l'Ufficio topografico del Regno sardo, il Reale officio topografico napoletano e l'Ufficio topografico toscano. Trasferito da Torino a Firenze nel 1865, nella sede attualmente occupata, fu rinominato Istituto topografico militare nel 1872, per assumere dieci anni più tardi l'attuale denominazione.
  All'IGM fu affidato allora il compito dell'esecuzione dell'inquadramento geometrico del territorio e della formazione della Gran carta d'Italia alla scala 1 a 100.000, cui seguirono la copertura dell'intero territorio nazionale alla scala 1 a 25.000 – le famose tavolette – e, successivamente, la cartografia in scala 1 a 50.000 in fase di ultimazione. Tali attività sono state condotte senza soluzione di continuità anche durante i due conflitti mondiali.
  Tra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del secolo scorso sono state condotte in Italia le prime esperienze di fotogrammetria, prima terrestre, poi aerea. In seguito è stato radicalmente trasformato il processo di allestimento cartografico, passando dall'analogico al digitale e introducendo delle procedure di rilevamento territoriale e moderne metodologie di posizionamento satellitare GPS.
  Quest'attitudine alla ricerca e alla sperimentazione non è mai venuta meno nel tempo e oggi l'Istituto, avvertendo la necessità del controllo e della gestione del territorio con tecniche digitali di altissimo livello, è in prima linea nella produzione dei dati per il Sistema informativo territoriale (Geographic Information System), ovvero nella realizzazione di sistemi di visualizzazione, gestione e analisi delle informazioni geografiche georeferenziate dotati della massima affidabilità dal punto vista geometrico e semantico.
  L'IGM oggi, quale ente della Forza armata e organo cartografico dello Stato, ai sensi della legge del 2 febbraio 1960, n. 68, costituisce un polo operativo, tecnico, scientifico, produttivo e formativo in tutte le discipline scientifiche associate alle informazioni geografiche (geodesia, telerilevamento, topografia, fotogrammetria, cartografia e sistemi informativi territoriali).
  Per quanto riguarda le funzioni prettamente militari, a seguito della recente riorganizzazione della Forza armata si sono aggiunte quelle di comando militare dell'Esercito per la regione Toscana. Dal 1o ottobre 2014 l'IGM ha alle dipendenze i comandi militari di Marche, Abruzzo e Umbria.
  Ai nuovi compiti si sommano oggi anche gli obblighi derivanti dalle direttive europee, che comportano l'adeguamento di tutta la produzione cartografica nazionale alle specifiche tecniche dell'Unione.
  Oltre ai compiti di carattere militare, tra cui quelli di supporto geospaziale agli enti dell'Esercito italiano e all'amministrazione difesa per attività operative e addestrative, che non sono oggetto dell'odierna audizione – al riguardo è d'obbligo, tuttavia, rammentare che nuclei del personale dell'Istituto sono impiegati in Kosovo, Libano e Afghanistan – l'IGM, in qualità di ente cartografico dello Stato ai sensi della citata legge, è responsabile della realizzazione della cartografia ufficiale dello Stato destinata all'utenza pubblica e privata. In particolare, provvede a impiantare, aggiornare e manutenere le reti geodetiche GPS di livellazione.
  Alle suddette funzioni si aggiungono anche le seguenti competenze complementari: promuovere e coordinare la produzione di cartografia di base da parte degli enti regionali e locali, nonché la formazione, l'aggiornamento e l'integrazione delle banche dati degli enti pubblici operanti nel settore geocartografico; fornire consulenza, su richiesta, agli organi della Pag. 16pubblica amministrazione e ai privati; effettuare lavori in conto terzi per enti pubblici e privati nel limite della disponibilità concessa dalla priorità agli impegni istituzionali; effettuare studi, ricerche e sperimentazioni nei settori di specifico interesse in collaborazione con università ed enti di ricerca nazionali e internazionali; effettuare lavori di metrologia e di collaudo di strumenti topografici e geodetici in conto terzi.
  Con riferimento alla tematica principale dell'odierna trattazione, sulla base della documentazione agli atti e della pluriennale esperienza diretta del caporeparto informazioni geografiche qui presente, colonnello Santoro, sono stati effettuati degli approfondimenti, in questa seconda parte della presentazione, che possono essere correlati alla gestione associata delle funzioni e dei servizi comunali.
  Nell'ambito del quadro normativo e storico appena delineato a livello generale si evidenza che sulla cartografia edita dall'IGM venivano e vengono tuttora rappresentati, tra l'altro, alcuni particolari di interesse, quali i limiti amministrativi, con riporto anche delle cosiddette isole amministrative, le sedi comunali, i nuclei e i centri abitati con l'indicazione del relativo toponimo ufficiale. Nello specifico, il riporto sulla cartografia di particolari relativi a quanto di competenza degli enti locali (comuni, province e regioni) e dello Stato, che prima avveniva in modo analogico, ora avviene in forma digitale, ricorrendo nel periodo più recente all'utilizzo di apposite banche dati.
  Va da sé che il tutto va riferito alla scala di rappresentazione, con lo specifico grado di approssimazione, e che i limiti amministrativi riportati sulla predetta cartografia, ancorché ripresi dalla cartografia catastale, sono puramente indicativi dell'andamento confinario.
  La suddetta attività di rappresentazione del territorio alle menzionate scale era fino al 1998 di precipua competenza dell'IGM, che, con una visione complessiva delle esigenze di aggiornamento a livello nazionale, predisponeva un'omogenea e qualitativamente elevata rappresentazione dell'intero territorio. Al riguardo si evidenzia che le procedure di lavorazione prevedevano, dopo le riprese aerofotogrammetriche del territorio, una prima fase di lavorazione presso la sede dell'IGM e una seconda fase di verifica, ricognizione e aggiornamento sul terreno, nella quale l'operatore verificava i dati elaborati in sede, o anche provenienti da vecchia cartografia, effettuava una ricognizione dei suddetti dati classificandoli e operava un aggiornamento dei particolari non presenti sulla carta.
  Durante tali attività era costante il rapporto con i comuni per una verifica congiunta, al fine di eliminare o limitare al minimo le possibilità di errore, soprattutto in relazione alla toponomastica e ai limiti amministrativi. In diversi casi quest'attività era il momento della conoscenza delle dispute confinarie, anche decennali, in atto tra i comuni, per la cui definizione veniva chiesta la consulenza dell'IGM.
  Di tale attività c’è memoria storica negli archivi dell'Istituto geografico militare, che possono essere di elevato interesse per ricerche tese ad acquisire elementi di cartografia per la risoluzione di eventuali controversie. A titolo di esempio, si richiama il caso di un contenzioso pluridecennale tra due comuni del Piemonte in cui l'IGM è stato chiamato dal Consiglio di Stato a operare come consulente tecnico d'ufficio e che è stato risolto grazie alle ricerche effettuate nell'archivio dell'Istituto.
  Tra l'altro, è opportuno rammentare che l'Istituto geografico militare ha uno specifico know-how in materia confinaria ed è organo tecnico a supporto del Ministero degli affari esteri nella definizione e manutenzione dei confini di Stato, in questo caso discendenti da accordi internazionali.
  A margine dello specifico argomento sull'aggiornamento dalla cartografia è necessario richiamare l'articolo 67 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, che ha di fatto autorizzato i comuni, le province e, in particolare, le regioni a Pag. 17produrre la cartografia di interesse anche alle scale che in precedenza erano di precipua competenza dell'IGM.
  Nell'ambito del processo di omogeneizzazione dei dati geografici acquisiti dalle regioni l'IGM ha riscontrato un diversificato livello qualitativo di dati territoriali in relazione alle singole realtà cartografiche e alle risorse economiche che ogni regione può allocare per la specifica attività. In questo contesto l'IGM, nella sua veste di ente cartografico di Stato, svolge, ove richiesto, la sua opera di supporto tecnico previa stipula di accordi mediante i quali concorre alle attività di direzione lavori e collaudo.
  Tra l'altro, ravvisando la necessità di standardizzare le modalità di acquisizione di dati sul terreno da parte di tutti gli enti interessati, sono tuttora in corso delle attività di coordinamento per la realizzazione di database e cartografia derivata alle scale nominali 1 a 25.000 e, in particolare, alle scale minori di competenza dell'IGM.
  In merito alle criticità territoriali, storico-culturali, linguistiche, di valenza identitaria e di appartenenza che possono rallentare le esperienze di intercomunalità e opporsi alla fusione di più comuni secondo il criterio del numero di abitanti, già evidenziate nel programma dell'indagine conoscitiva in argomento, un possibile ulteriore elemento discriminante è la distanza fra centri abitati, nuclei abitati, frazioni e isole amministrative, da cui discendono i tempi di percorrenza dovuti all'esistenza e allo stato della viabilità, nonché della morfologia del terreno dal punto di vista idrografico e orografico.
  In tali contesti, prescindendo dalla quantificazione del limite chilometrico da adottare in ambito normativo, nel caso di particolari situazioni locali l'IGM, in aggiunta alle altre Istituzioni coinvolte, può fornire nell'ambito di specifici tavoli di lavoro a livello regionale e per casi specifici interregionali un supporto alle decisioni, unitamente alla competenza maturata nel settore e alla documentazione esistente nelle proprie conservatorie.
  Il coinvolgimento di tutti gli enti interessati può avere un immediato positivo effetto sull'aggiornamento della rappresentazione cartografica ufficiale del territorio e su database correlati, con particolare riferimento ai limiti amministrativi e alla toponomastica sulla definizione anche dei contenziosi confinari attualmente in atto.
  In relazione a quanto precede è opportuna un'ultima considerazione sulla problematica della rappresentazione dei limiti amministrativi e della loro ufficialità. La stessa, apparentemente banale e di facile risoluzione, risulta, in realtà, particolarmente complessa dal punto vista tecnico, in relazione alle amministrazioni che hanno una specifica competenza istituzionale e che sono in ogni caso coinvolte nel trattamento e nella formazione dei dati in parola, quali, per esempio, l'Agenzia delle entrate, il Ministero dell'ambiente, del territorio e del mare, le regioni, l'ISTAT, l'ANCI e l'IGM stesso.
  La suddetta considerazione assume una particolare valenza al fine della realizzazione della necessaria continuità territoriale dei database topografici in via di realizzazione a cura delle singole regioni a premessa del database di sintesi nazionale a cura dell'IGM. In tali database topografici, in cui viene richiesta la coerenza topologica, è necessaria la perfetta congruenza geometrica e connessione degli oggetti adiacenti, in quanto anche una piccola incongruenza geometrica non consentirebbe di rispettare il requisito di copertura territoriale senza soluzione di continuità.
  Signor presidente, onorevoli deputati, mi accingo a concludere il mio intervento. Ho inteso riferire il quadro reale dello stato dell'arte in cui si trova oggi il settore cartografico, con particolare riferimento al possibile ruolo dell'IGM in relazione alla tematica di interesse della presente audizione. Posso affermare che le articolazioni organizzative dell'IGM continueranno a operare nella ricerca di ogni possibile sinergia per soddisfare le prioritarie esigenze istituzionali.
  Ringrazio per l'attenzione e sono a disposizione per eventuali domande.

Pag. 18

  PRESIDENTE. Grazie. Le chiederei di lasciarci una copia della relazione, se non l'ha già fatto.
  Do ora la parola ai rappresentanti della Fondazione montagne Italia.

  ENRICO PETRICCIOLI, Segretario generale Fondazione montagne Italia. Sono Enrico Petriccioli, segretario generale della Fondazione montagne Italia. La Fondazione montagne Italia è nata lo scorso anno dall'impegno di UNCEM e di FEDERBIM, due enti che rappresentano, il primo, le Istituzioni di governo del territorio e, il secondo, gli enti funzionali presenti sui territori in particolare montani.
  Il compito della Fondazione è quello di conoscere, per prima cosa, la montagna, poi di supportarla e, infine, di progettare tutto lo sviluppo di questi territori. Proprio in questa logica – lascio la parte più prettamente legata alle nostre richieste e alle nostre proposte al direttore Lobianco – noi della Fondazione montagne Italia stiamo cercando di far comprendere che, per poter fare lo sviluppo locale, serve un'adeguata governance dei territori. Occorre evitare la sovrapposizione di enti e la divisione delle funzioni fra più enti e cercare di dare un riferimento unico al cittadino e alle imprese per poter avere certezza, nel momento in cui ci si deve confrontare con le leggi, con i regolamenti, con le autorizzazioni e con le concessioni. Sostanzialmente, occorre un livello adeguato di governo per la realtà di territori che sono territori piccoli.
  Vi potrei citare una serie di numeri che riguardano, naturalmente, il fatto che 3.200 comuni sui circa 4.000 comuni montani sono comuni che hanno meno di 2.000 abitanti. Da lì nasce, come si può facilmente capire, la criticità.
  Veniamo a quello che, a nostro avviso, è il vero scopo di questa riunione, ossia valorizzare sempre più la figura intercomunale e le unioni dei comuni come ruolo di politica attiva e di gestione del territorio, in una sintesi fra i comuni, l'unione dei comuni e l'intesa con gli enti funzionali presenti sui territori, che non vanno cancellati, ma anzi vanno valorizzati ognuno per la funzione che deve portare.
  In Italia ci sono 383 unioni per 1.985 comuni. In montagna le unioni operanti sono 199 – questi dati li trovate nel report che abbiamo fatto, come Fondazione montagne Italia, e che vi lasciano – e vi aderiscono 849 comuni, con una media del 20,2 per cento, più bassa di quella nazionale, che è all'incirca del 25 per cento.
  Il 50 per cento dei comuni associati in montagna partecipa a unioni formate da comuni con meno di 5.000 abitanti. La media europea, che noi vogliamo sottolineare, è di 4.132 abitanti per comune. La media italiana è di 7.450 abitanti per comune. Il problema non è, quindi, di per sé, la rappresentanza di troppi comuni presenti sul territorio, anche se sui comuni sotto i 1.000 potremmo parlare e ci potremmo confrontare. Il principio di partenza non è il numero alto degli 8.100 comuni presenti in Italia, perché la media di abitanti per comune in Italia risulta essere di 7.450, contro la media europea di 4.132. Il vero problema non sono, dunque, gli abitanti per comune, ma le diseconomie di scala che si formano, legate alla gestione frammentaria dei servizi locali.
  In questo senso, secondo noi, la risposta che viene dall'unione dei comuni può essere una risposta assolutamente importante. I piccoli comuni presentano, per esempio, una spesa pro capite per le funzioni e i servizi più alta del 17 per cento rispetto a quella nazionale e rappresentano, invece, una spesa inferiore per i servizi sociali ed educativi del meno 25 per cento rispetto alla media nazionale. Quindi, il vero problema appare chiaro, almeno per noi: la via maestra è quella della gestione associata delle funzioni e dei servizi.
  Dunque, al processo iniziato nel 2010 noi diamo piena adesione. Crediamo, anzi, che vada rafforzato, in una logica di intesa con gli enti locali presenti sul territorio, ma con alcune scelte precise: privilegiando le unioni rispetto alle convenzioni e riconoscendo una quota riservata del fondo di riequilibrio ai comuni che si associano, con lo sblocco della capacità impositiva Pag. 19per i comuni che rispettano gli obiettivi stabiliti dall'associarsi. Tutto ciò legandolo a una convergenza verso i costi standard, che devono essere comunque tenuti come punto di riferimento, e inserendo l'affidamento della gestione associata dei servizi tra i parametri di virtuosità dei comuni.
  Occorre, infine, secondo noi, superare la soglia minima dei 10.000 abitanti quale vincolo demografico per l'esercizio associato delle funzioni. Prima di lasciare la parola al collega Lobianco, chiudo facendo presente un dato: dalle nostre conoscenze ad oggi l'esperienza in campo delle unioni non dà effettivi riscontri di risparmio significativo per i comuni che partecipano. Ciononostante, noi riteniamo che, in un quadro di economia di scala, nel medio e lungo periodo i risparmi ci saranno e che l'efficienza sarà sicuramente più garantita che nel periodo attuale.

  PRESIDENTE. Prima di dare la parola al direttore, consentiamo a una troupe di effettuare qualche breve ripresa. Nel frattempo, è arrivato il presidente della Commissione, a cui cedo volentieri la presidenza.

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE ANDREA MAZZIOTTI DI CELSO

  PRESIDENTE. Ne approfitto per salutare tutti gli auditi e do la parola al dottor Lobianco, della Fondazione montagne Italia.

  LUCA LOBIANCO, Direttore scientifico Fondazione montagne Italia. Grazie. Intervengo molto brevemente per integrare quanto ha già detto il segretario. Noi vi lasceremo il nostro Rapporto Montagne Italia. Non richiamerò i dati e le informazioni ivi contenuti, se non per due piccolissimi aspetti.
  Uno è prezioso, secondo me, perché informa rispetto a un luogo comune che ha la montagna: noi registriamo che metà dei comuni montani oggi hanno un incremento demografico, per presenza straniera, ma anche giovani che tornano. Abbiamo, quindi, a che fare con un territorio, quello dei piccoli comuni, dei comuni montani, che non è solamente depauperamento e calo demografico, ma che ha anche un grande potenziale economico. Pensate solo che nei piccoli comuni abbiamo il 94 per cento delle nostre DOC e IGT, che sono patrimonio nazionale, che il 16 per cento dei musei è in questi piccoli comuni e che ancora, sempre badando all'economia, essi ospitano 10 milioni di persone. Parliamo, quindi, di un tema particolarmente importante.
  Aggiungo due riflessioni. La prima è rispetto all'attualità. Quella che viene chiamata comunemente la legge Delrio, che ha sancito l'unione dei comuni, ha avuto una fase di stop. C’è stato un segnale particolarmente negativo in questo senso, soprattutto per il fatto che essa non è stata accompagnata da una fase di assistenza e di supporto alle amministrazioni locali interessate.
  In una parte di questo rapporto, intitolato «Le voci della montagna», sono intervistati 500 sindaci, un campione particolarmente corposo, da cui viene fuori con estrema chiarezza l'abbandono dal punto di vista amministrativo. Quello che si richiede non è solamente la formazione del personale, ma anche un accompagnamento vero e proprio in queste fasi di transizione.
  Pensate solo a che cosa vuol dire definire i bacini ottimali dei servizi pubblici locali per comuni piccoli e per comuni di aree interne e montane, dove le distanze non sono solamente quelle chilometriche, ma sono anche di altro genere. Il tempo conta moltissimo, così come il livello di altitudine.
  Occorre, quindi, un accompagnamento per professionalità che tali comuni non hanno e anche un accompagnamento in termini giuridici, amministrativi ed economici, per calibrare la nascita di questi soggetti, che devono svolgere questi servizi. Tutto ciò fino a questo momento non è stato fatto e noi, come fondazione, nel nostro piccolo cerchiamo di attivarci, ma si tratta di un compito che spetta all'autorità e anche alla politica svolgere.Pag. 20
  Aggiungo un altro elemento particolarmente importante. Queste unioni di comuni guardano – per i sindaci questo è un aspetto fondamentale – anche al tema dello sviluppo. L'unione non è semplicemente amministrazione o governo di ciò che c’è, ma viene letta anche in termini di prospettiva, anche in questo caso, dei servizi.
  Si apre, grazie al lavoro del Parlamento, che sta portando a compimento il percorso del collegato ambientale, tutta la partita dei servizi ecosistemici, una questione che nel nostro Paese non è stata particolarmente presente, se non perché qualche comune, qualche territorio, è intervenuto in questo senso senza una grande consapevolezza. Oggi si apre veramente un settore di lavoro. I servizi ecosistemici sono spesso al servizio di aree metropolitane. Servizi come l'acqua, l'aria, il patrimonio boschivo e altri sono al servizio alla comunità e sono servizi ad alto potenziale di sviluppo, lavoro e impresa. Anche in quest'ambito le unioni di comuni e la gestione associata possono dare grandi frutti. Anche in questo caso se non c’è un accompagnamento adeguato e se non c’è una risorsa investita nella fase di start-up, il rischio è che ci sia una marcia indietro.
  Concludo su un punto, che è segnalato. Noi abbiamo insistito sulle unioni di comuni perché sono uno strumento importante. Nella legge, però, come sapete, c’è anche la fusione. Qualcuno l'ha adottata, ma non è stata una scelta felice perché la legge non ha accompagnato queste trasformazioni. Sono rimasti per alcuni i benefit economici, ossia alcune leggi che aiutano nelle aree interne e montane e, quindi, questa spinta, che dal punto di vista degli abitanti e del territorio fa riferimento a comuni molto piccoli. In realtà chi si associa in questa maniera perde dei potenziali benefici. Naturalmente, tutto ciò che c’è intorno e che voleva spingere lo sviluppo delle aree interne montane deve accompagnare questa trasformazione amministrativa.
  L'altra questione, su cui il legislatore può fare uno sforzo in più, è che non ci deve essere la mortificazione. Così è stata chiamata da un sindaco di alcuni borghi. In Francia c’è un'esperienza in questo senso, che spinge moltissimo verso le fusioni, ma lascia ai borghi l'identità e alcune funzioni minimali, come quella di avere uno stemma di riconoscibilità, la celebrazione dei matrimoni e alcuni elementi di pura amministrazione, che però salvano l'identità del borgo dentro un comune che assume un nome diverso da quello di tutti i comuni che lo compongono, non a caso.
  Occorre un'attenzione anche a questi elementi, che possono in qualche maniera aiutare questo processo di unificazione e di governo del territorio, il quale, vi ripeto, ha come strada maestra quella delle unioni, ma può trovare anche forme più spinte, se c’è il legislatore che le accompagna e conferisce loro la necessaria duttilità.
  Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie a lei.
  Adesso passiamo alla Società geografica italiana. Do la parola al Presidente Sergio Conti.

  SERGIO CONTI, Presidente della Società geografica italiana. La ringrazio. Dopo la raccomandazione della vice presidente Roberta Agostini, che ci ha invitato a stringere i tempi, cercherò di essere estremamente schematico, anche perché i lavori della Società geografica italiana, che è uno dei più importanti istituti culturali in Europa e che compirà centocinquant'anni, sono già stati trasferiti in due iniziative legislative, una da parte del Partito Democratico e un'altra da parte di Fratelli d'Italia.
  Vorrei brevemente sintetizzare il percorso seguito. A partire dall'estate del 2013 con il disegno di legge Delrio mi è stato chiesto di presiedere un gruppo di lavoro presso il Ministero degli affari regionali. Si è lavorato per alcuni mesi. Hanno partecipato 20-25 persone, tra cui alcuni politici, ma soprattutto territorialisti, personaggi che sapevano di che cosa trattavano, con l'obiettivo di definire delle Pag. 21proposte che molto spesso, quando io sono costretto a presentarle pubblicamente – le ho già presentate un po’ in tutte le regioni – io definisco come delle provocazioni. Si tratta di proposte cui noi crediamo assolutamente in termini scientifici, ma che, ovviamente, la politica deve mediare. Sono, quindi, una provocazione per la politica.
  La provocazione, che io vorrei ribadire quest'oggi, è la seguente: oggi si parla di comuni; io penso che la questione dei comuni, degli 8.000 comuni, e delle unioni, di cui si sta trattando moltissimo, sia del tutto inscindibile da una riforma amministrativa che coinvolga anche gli altri livelli.
  Noi sappiamo che l'Italia ha vissuto – se così si può dire – un'iperterritorializzazione sfrenata, che non riguarda soltanto i comuni, ma anche le province. La nostra proposta prevede l'eliminazione di 110 enti, accorpando in qualche modo le province e riducendo le regioni. Non dimentichiamo anche che l'attuale ritaglio amministrativo ha imposto una moltiplicazione delle competenze. Disponiamo di 16.000 enti operanti in Italia, che sono fonti di costo e di ostacolo allo sviluppo. C’è un eccessivo burocraticismo, in altre parole. Noi disponiamo, oggettivamente, dell'amministrazione più costosa d'Europa.
  Oltretutto, io penso che i confini delle delimitazioni amministrative possano anche evolvere, perché l'economia va avanti e la dotazione infrastrutturale tende a svilupparsi. Allo stato, purtroppo, nonostante le tante ipotesi che si prefigurano, manca, però, un disegno complessivo per pensare al futuro, per una progettualità territoriale. Certamente si tratta di ridurre i costi, ma io metterei al primo posto che questo debba avvenire per la funzionalità dei cittadini. Implicitamente c’è poi anche una riduzione dei costi.
  Conosciamo anche la storia della seconda decade del secolo. Abbiamo avuto dei provvedimenti emergenziali. Penso ai Governi Monti e Letta. Si è trattato di leggi, io credo, dal mio punto di vista, conservative e in qualche modo regressive insieme. Abbiamo vissuto questo spezzettamento che molto spesso mi fa venire in mente Mark Twain, quando diceva: «Di quante braccia deve essere amputato un signore perché la sua fidanzata non voglia più sposarlo ?».
  Noi abbiamo lavorato – ripeto – moltissimo anche di fronte a ciò che è successo in altri Paesi. Le aggregazioni che noi abbiamo fatto di comuni, che abbiamo chiamato comunità, non sono poi molto diverse dai Landkreise tedeschi (una riforma abbastanza recente che si è avuta in Germania, ma riforme analoghe si sono avute anche nei Paesi nordici).
  La ridefinizione di queste comunità, o unioni di comuni, è stata fatta partendo dai sistemi locali del lavoro, definendo per ogni sistema la gravitazione da un sistema all'altro della popolazione, vuoi per lavoro, vuoi per altre motivazioni, per trasporti e via dicendo. Ciò ha portato a individuare circa 680 comunità o sistemi di comuni, il che certo non vuol dire che una persona che è nata nel comune X non debba o non possa continuare a dire di essere nata nel comune X. È una questione di ridefinizione dell'assetto amministrativo.
  Ripeto, io credo che la questione della ridefinizione delle funzioni e dei limiti comunali non sia scindibile da quella delle regioni e quella delle province. Perché ? Perché l'economia è cambiata. Bisogna tener conto di come è andato trasformandosi questo Paese. Si è trasformato alla luce dei processi di industrializzazione e disindustrializzazione e dei processi di ridefinizione dei sistemi di trasporto. Ci sono delle entità territoriali che possono valorizzare il proprio genius loci a partire dal contesto culturale. L'Italia, di nuovo, è, purtroppo, abbastanza arretrata da questo punto di vista. Il più bel Paese del mondo non è sufficientemente adeguato in questo senso.
  Su una ridefinizione dell'assetto amministrativo vi passo tre documenti. Uno è quello che fa riferimento alla nostra tradizionale ricerca, aggiornata con alcuni riferimenti alla legge Delrio che ha previsto la cosiddetta soppressione delle province e via discorrendo e che sta causando, Pag. 22dappertutto, dei problemi non indifferenti. Vi lascio anche alcune note strategiche per quanto riguarda la questione delle funzioni amministrative partendo dal basso e dall'alto e vi lascio, altresì, il Rapporto della Società geografica italiana che noi abbiamo presentato in Senato tre mesi fa, che quest'anno aveva per oggetto proprio il riordino territoriale dello Stato.
  Noi rimaniamo a disposizione per approfondire ulteriormente delle questioni che, trattate in questo modo, molto velocemente, non possono cogliere appieno i fondamenti su cui si basano.
  Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie, presidente.
  Do la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  MARILENA FABBRI. Ringrazio tutti gli ospiti per la loro sinteticità, perché poi abbiamo un'altra indagine conoscitiva. Mi interessava capire se la Società geografica italiana, in base soprattutto – mi sembra di capire – all'ultimo rapporto che ha presentato qualche mese fa in Senato, ritiene che ci potrebbero essere degli elementi molto interessanti o di aiuto ai comuni, nel caso in cui essi venissero chiamati a rivedere e ridefinire i propri ambiti ottimali geografici.
  Faccio questa domanda perché nell'audizione dell'ANCI ci è stato rappresentato il fatto che questa associazione è arrivata alla conclusione per cui le precedenti leggi Monti e Delrio, che obbligano le unioni solo da un punto di vista demografico e non orografico, sono limitative. Occorre fare un salto di qualità, anche se questo aspetto non era precluso dalle leggi precedenti.
  Visto che una delle prime difficoltà è proprio quella di definire l'ambito ottimale, anche se, in realtà, i comuni hanno già sul campo delle gestioni associate, in particolare nel campo sociosanitario e socioassistenziale, io mi chiedevo se ci siano già delle analisi e degli studi di fattibilità che tengono conto dei diversi aspetti (orografia, economia, trasformazioni industriali, collegamenti e trasporti) e che possono rappresentare già un punto di partenza e di discussione avanzato proprio per le comunità per poi fare un ragionamento di definizione di un ambito ottimale.

  ANDREA CECCONI. Io ho alcune domande, soprattutto per la Fondazione montagne Italia. Nella vostra relazione avete fatto riferimento alla necessità di superare la questione dei 10.000 abitanti per le unioni. Volevo capire se per voi questo è un limite che non deve esistere, per cui possono essere anche 2.000, oppure se deve essere un limite che deve essere alzato dal punto di vista abitativo.
  In più, voi prediligete la questione delle unioni e non avete parlato affatto delle convenzioni tra comuni. Non oggi, ma nella precedente audizione, ascoltando proprio i piccoli comuni, che sono quelli maggiormente di origine montana, ho sentito che essi prediligono una serie di strumenti di convenzione rispetto all'unione, che è, ovviamente, un nuovo ente, un organismo politico che deve essere creato. A parità tra convenzione e unione, a prescindere dal fatto che nell'unione ci si può mettere qualcosa – tutto o poco; non è assolutamente definito che cosa ci si debba mettere – bisogna vedere se la scelta è più per l'unione e, quindi, l'organismo politico o più per la convenzione.
  Riprendendo anche il discorso dell'Istituto geografico, il nostro territorio ha già subìto negli anni una serie di riorganizzazioni funzionali. Esistono gli ambiti sociali ottimali, gli ATO e gli ATA per la gestione dei rifiuti e del bacino idrico. La maggior parte delle regioni ha il trasporto pubblico locale, allargato in aziende che sono provinciali, ma anche regionali, o anche più allargate. I servizi a disposizione, che rimangono proprio nelle mani dei comuni, sono pochi e molto limitativi: la Polizia municipale, la statistica, l'anagrafe e poco altro. Il grosso, ossia le funzioni delle municipalizzate, nel nostro Paese non esistono più. Sono state esternalizzate e date a SpA.Pag. 23
  Quello che manca è sicuramente la capacità dei piccoli comuni di poter fare degli investimenti, cioè rifare la strada, rimettere a posto la frana, risistemare una scuola o creare una nuova scuola. A fronte di questo, è vero che le unioni possono ovviare a questo rifacimento territoriale o alla manutenzione territoriale, sempre che si voglia destinare l'unione a queste funzionalità, ma la verità è che l’optimum sarebbe la fusione dei comuni, perché si crea un nuovo centro che ha urbanistica, territorio e anche una potenzialità di gettito fiscale superiore per poter investire.
  Voi come vi inserite in questo discorso ? È vero che, come Società geografica, voi avete ridefinito il territorio in 600 comunità, ma è anche vero che il nostro territorio, soprattutto per quanto riguarda le montagne, è molto meno abitato rispetto alla costa. I territori sono molto più ampi. Come dicevano nella passata audizione, togliere la potestà a un comune che sta su un versante della montagna per metterlo insieme al comune che sta dall'altro versante della montagna è un problema soprattutto logistico e geografico piuttosto che di popolazione o di ampiezza. Infatti, se ci vogliono tre quarti d'ora per andare da un comune all'altro, il problema diventa proprio un problema geografico.

  PRESIDENTE. Do ora la parola agli auditi per le relative repliche.

  SERGIO CONTI, Presidente della Società geografica italiana. Fornisco una risposta unica. Noi siamo, ovviamente, disponibili a interloquire in altre circostanze e anche molto più a lungo. Io aggiungerò, peraltro, a quei due o tre allegati che citavo prima una serie di carte che evidenziano i livelli di polarizzazione delle singole entità comunali, o meglio sistemi locali del lavoro, da cui noi siamo partiti, perché questa era già una semplificazione.
  Si parla della frammentazione, per esempio, dei piccoli comuni. Il 60 per cento dei piccoli comuni al di sotto di un dato numero di abitanti, ossia dei 2.000 abitanti, sono tutti nel Nord, per esempio.
  Da queste carte potete anche verificare la base economica dei singoli comuni, che noi abbiamo introdotto nella nostra valutazione, prima di giungere a quei 680, che è un'ipotesi, ripeto, anche per quanto riguarda le dotazioni territoriali e le funzioni urbane, perché la funzione urbana è comune.
  Io lascio anche questo documento, con la speranza che poi si possa continuare a discutere. Sono a vostra disposizione. La Società è fortemente a vostra disposizione.
  Tra l'altro, ricordiamoci che un lavoro sistematico in questa direzione noi l'abbiamo fatto per le Tre Venezie, dove abbiamo già applicato delle potenzialità di riconfigurazione territoriale precisa. Abbiamo dei colleghi in tutta Italia e, quindi, le conoscenze sono a disposizione.

  ENRICO PETRICCIOLI, Segretario generale Fondazione montagne Italia. Svolgo una premessa alla risposta che devo fornire all'onorevole Cecconi. Quando noi parliamo di unioni, non le immaginiamo in concorrenza ai comuni. Noi immaginiamo che le unioni nascano per volontà dei comuni, non perché calate dall'alto.
  Questa è una premessa fondamentale nel nostro ragionamento, che ci porta a dire: perché fissare il vincolo dei 10.000 abitanti ? Se la scelta deve essere del territorio, devono essere i comuni che identificano la soglia. Certo, non penso a un'unione da 2.000 abitanti, ma devono essere i comuni che identificano, per esempio, la soglia dei 5.000, quella per la quale non si è obbligati a dare le funzioni associate, come una soglia nella quale ci può stare un'unione che, per contiguità territoriale e per caratteristiche geografiche e sociali, riesce a stare in piedi.
  Questo è il primo concetto, che, secondo me, risponde anche alla seconda domanda – lascerò poi la parola al direttore Lobianco – quella sulle convenzioni. In questa logica le convenzioni diminuirebbero. Perché ? Perché le convenzioni vengono vissute dai comuni come una risposta a una coercizione di un'unione che viene calata dall'alto. Piuttosto che fare l'unione dei comuni alle condizioni che mi determinano gli altri, come comune, io vivo l'esperienza di fare la convenzione Pag. 24che mi è utile. Qui si scade nel politico, magari con il comune che ha il mio stesso colore. Questo purtroppo ci sta, ma il concetto è questo. Ridurre i vincoli demografici, secondo noi, permetterebbe anche di dare una risposta all'opzione tra convenzione e unione.

  LUCA LOBIANCO, Direttore scientifico Fondazione montagne Italia. Aggiungo solo due parole in più. Prendiamo anche atto del fatto che siamo in un processo in cui il legislatore interviene, ma che ha già visto una moltitudine di comuni associarsi per gestire servizi e per conseguire economie e risultati ottimali nella gestione. Se pensiamo che questo aspetto vada raccolto, è chiaro che definire aprioristicamente dei criteri tanto rigidi non aiuta. È veramente un lavoro artigianale.
  Lei ha detto bene quando ha fatto l'esempio dei due comuni dalle due parti della montagna. Parlare di 10.000 abitanti in certi casi vuol dire avere un'estensione che va molto al di là delle relazioni intercomunali di oggi. Se si volesse fare, specialmente se si guarda a questa parte delle aree interne, dovrebbe essere una cosa calibrata. Occorrono più indirizzi e criteri di fondo che non schemi rigidi. Altrimenti, ripeto, l'elemento di comunità, che il collega ha qui citato e che significa tante cose, viene slabbrato, ovviamente.

  PRESIDENTE. Grazie.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 12.