XVII Legislatura

Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere

Resoconto stenografico



Seduta pomeridiana n. 234 di Mercoledì 29 novembre 2017

INDICE

Comunicazioni della presidente:
Bindi Rosy , Presidente ... 2 

Audizione del dottor Gianfranco Donadio, magistrato:
Bindi Rosy , Presidente ... 2 
Donadio Gianfranco , magistrato ... 3 
Bindi Rosy , Presidente ... 16 
Donadio Gianfranco , magistrato ... 16 
Bindi Rosy , Presidente ... 16 
Donadio Gianfranco , magistrato ... 16 
Bindi Rosy , Presidente ... 16 
Donadio Gianfranco , magistrato ... 16 
Bindi Rosy , Presidente ... 16 
Donadio Gianfranco , magistrato ... 16 
Bindi Rosy , Presidente ... 17 
Donadio Gianfranco , magistrato ... 17 
Bindi Rosy , Presidente ... 17 
Donadio Gianfranco , magistrato ... 17 
Bindi Rosy , Presidente ... 17 
Donadio Gianfranco , magistrato ... 17 
Bindi Rosy , Presidente ... 17 
Sarti Giulia (M5S)  ... 17 
Donadio Gianfranco , magistrato ... 18 
Bindi Rosy , Presidente ... 19 
Donadio Gianfranco , magistrato ... 19 
Bindi Rosy , Presidente ... 19 
Lumia Giuseppe  ... 19 
Donadio Gianfranco , magistrato ... 20 
Lumia Giuseppe  ... 20 
Donadio Gianfranco , magistrato ... 20 
Lumia Giuseppe  ... 20 
Donadio Gianfranco , magistrato ... 20 
Bindi Rosy , Presidente ... 21 
Donadio Gianfranco , magistrato ... 21 
Lumia Giuseppe  ... 22 
Donadio Gianfranco , magistrato ... 22 
Lumia Giuseppe  ... 22 
Donadio Gianfranco , magistrato ... 22 
Lumia Giuseppe  ... 23 
Donadio Gianfranco , magistrato ... 23 
Mattiello Davide (PD)  ... 23 
Donadio Gianfranco , magistrato ... 23 
Bindi Rosy , Presidente ... 24 
Donadio Gianfranco , magistrato ... 24 
Giarrusso Mario Michele  ... 25 
Donadio Gianfranco , magistrato ... 25 
Giarrusso Mario Michele  ... 25 
Donadio Gianfranco , magistrato ... 25 
Giarrusso Mario Michele  ... 25 
Donadio Gianfranco , magistrato ... 25 
Bindi Rosy , Presidente ... 25 
Giarrusso Mario Michele  ... 25 
Donadio Gianfranco , magistrato ... 26 
Bindi Rosy , Presidente ... 26 
Donadio Gianfranco , magistrato ... 26 
Sarti Giulia (M5S)  ... 26 
Donadio Gianfranco , magistrato ... 26 
Bindi Rosy , Presidente ... 27 
Donadio Gianfranco , magistrato ... 27 
Bindi Rosy , Presidente ... 27 
Donadio Gianfranco , magistrato ... 27 
Bindi Rosy , Presidente ... 27 
Donadio Gianfranco , magistrato ... 27 
Bindi Rosy , Presidente ... 27 
Donadio Gianfranco , magistrato ... 27 
Bindi Rosy , Presidente ... 27 
Donadio Gianfranco , magistrato ... 27 
Bindi Rosy , Presidente ... 27  ... 27 
Donadio Gianfranco , magistrato ... 27 
Bindi Rosy , Presidente ... 28

Testo del resoconto stenografico
Pag. 2

PRESIDENZA DELLA PRESIDENTE
ROSY BINDI

  La seduta inizia alle 20.10.

  (La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Comunicazioni della presidente.

  PRESIDENTE. In merito al calendario e in base a quanto convenuto nella riunione odierna dell'Ufficio di presidenza integrato dai rappresentanti dei Gruppi, comunico che mercoledì 6 dicembre alle 19,30 si svolgerà l'audizione del Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni.
  In base agli accordi intercorsi a termini di Regolamento interno prego i colleghi che intendano rivolgere quesiti al Presidente Gentiloni di far pervenire le domande alla Presidenza della Commissione entro e non oltre venerdì 1° dicembre.
  Comunico, inoltre, che martedì 5 dicembre la Commissione svolgerà una missione a Ostia. Gli orari saranno precisati dopo che avremo avuto conferma da parte degli auditi, prefettura e procura, nonché presidente del municipio.

Audizione del dottor Gianfranco Donadio, magistrato.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del dottor Gianfranco Donadio, magistrato, già procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia.
  L'audizione odierna rientra nei compiti di cui all'articolo 1, comma 1, lettera f), della legge istitutiva e ha a oggetto i delitti e le stragi di carattere politico-mafioso del 1992 e 1994. Ricordo che questo tema è stato al centro dell'attività della Commissione antimafia per tutta la scorsa legislatura.
  Nella legislatura attuale la Commissione, nella sua autonomia, aveva convenuto di approfondire l'argomento solo dopo la conclusione dei delicatissimi processi Capaci-bis e Borsellino-quater per rispetto del lavoro della magistratura, ma senza rinunciare né a chiedere costante aggiornamento ai magistrati di Caltanissetta, né ad ascoltare gli appelli dei membri della famiglia Borsellino, della sorella Rita, del fratello Salvatore e della figlia Fiammetta, così come avvenuto in occasione di plurime missioni in Sicilia.
  Quei processi aperti a Caltanissetta dopo la revisione dei precedenti giudizi a seguito delle indagini sui gravissimi episodi di omissione e depistaggio collegati alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Salvatore Scarantino sono ormai giunti a sentenza, anche se attendiamo ancora il deposito delle motivazioni.
  Giunti ormai quasi alla fine dei nostri lavori, nell'approssimarsi della conclusione della legislatura, ci sembra opportuno che la Commissione si occupi almeno delle questioni che rimangono ancora aperte, e non sono poche, anche per lasciare le giuste domande in eredità alla prossima Commissione antimafia, che si troverà in una condizione migliore della nostra per provare a dare delle risposte.
  Le situazioni giudiziarie saranno, infatti, ormai definite e il decorso del tempo lascerà probabilmente pochi margini all'indagine giudiziaria, che risente del giudicato e della prescrizione. Invece, resterà spazio maggiore per l'inchiesta politica e l'analisi storica sulle responsabilità di quei terribili anni, agevolate anche dalla raccolta di tutta la documentazione giudiziaria sulle stragi Pag. 3che abbiamo continuato a fare e comunque agevolato in questi anni, per fare dell'archivio della nostra Commissione un luogo di memoria sempre vivo su tutto ciò che ha riguardato, riguarda e riguarderà la lotta alla mafia nel nostro Paese.
  Il dottor Donadio, per il suo ruolo di procuratore aggiunto e per i peculiari compiti affidatigli in seno alla Direzione nazionale antimafia, è stato negli anni passati un protagonista delle indagini sulle stragi, con un inevitabile strascico di polemiche e di ulteriori vicende, giudiziarie e non, di cui si è occupato anche il Consiglio superiore della magistratura.
  Chiediamo, pertanto, a lui di aiutarci a orientarci, tra poche luci e molte ombre, nel mare magnum di venticinque anni di indagine sulle cosiddette stragi di mafia dei primi anni Novanta, per ricostruirne i principali percorsi e individuare le principali questioni ancora aperte.
  Ricordo, infine, che l'audizione si svolge in forma libera e che, ove necessario, i lavori potranno proseguire in forma segreta.
  Ringrazio, pertanto, per la presenza il dottor Donadio e gli cedo volentieri la parola.

  GIANFRANCO DONADIO, magistrato. Grazie, signora presidente. Grazie a tutti. Qui mi sento un po’ in casa mia, perché anche in quest'Aula, come ricordano alcuni dei componenti della Commissione, mi sono formato professionalmente, negli anni delle inchieste sul caso Impastato, sui Cantieri Navali di Palermo, snodi importanti dell'azione della Commissione antimafia nella XIII legislatura, che sono stati una utilissima palestra. Nel corso di quell'esperienza ho raccolto idee, suggestioni e preoccupazioni che ho poi condotto con me nella mia vita professionale. Ho svolto, in poche parole, un autentico percorso di formazione in quest'Aula.
  Quanto alla tematica delle stragi degli anni Novanta, in vista di un'ulteriore e più ampia riflessione, che ovviamente non potrà che svilupparsi nella prossima legislatura, scontiamo i rischi della frammentazione del sapere. Sono passati molti anni dagli eventi. Si sono succedute generazioni di inquirenti e di magistrati, ma si sono anche disperse risorse. Vi è stata forse anche una perdita di sapere.
  Una grande massa di dati, di notizie e di informazioni sembra essersi trasformata in una sorta di buco nero che costituisce un campo non definito. Credo che, proprio nella direzione auspicata dalla presidente, potrebbe essere utile definire le linee di una ricomposizione delle conoscenze intorno alle vicende stragiste, che – a mio sommesso avviso – non sono facilmente suscettibili di periodizzazione. Lo stragismo è stato una vicenda continua nel nostro Paese, iniziata da lontano e proseguita, purtroppo, con pagine quasi sempre incompiute dal punto di vista dell'accertamento definitivo dei fatti e delle responsabilità.
  Colgo nella premessa metodologica della signora presidente un elemento di novità che, d'altra parte, risolve parecchi dubbi. C'è spazio per indagini, o c'è spazio per una comprensione storico-politica? Le vicende stragiste sono innanzitutto vicende della storia del Paese e coinvolgono la vita profonda della nostra società. Lo stragismo è stato una concatenazione di eventi che ha segnato fasi del mutamento e i tempi del mutamento: appuntamenti della vita pubblica e istituzionale ai quali entità terroristiche si sono sempre diligentemente presentate, dicendo la loro. Penso alla vicenda Moro. Questa è la prospettiva della continuità. Vedremo poi che questa continuità, a mio sommesso avviso, affonda delle radici in anni lontani e presenta caratteristiche forse omogenee, invarianti.
  Quanto al perimetro che in questa sede siamo chiamati a tracciare, esso è sicuramente rappresentato dalle stragi che consideriamo nell'ultimo, intenso periodo, quelle che si collocano a partire dal 1989 e giungono al 1994, esattamente al gennaio di quell'anno, quando viene nuovamente datata la famosa strage, fortunatamente senza esiti mortali, di Via dell'Olimpico a Roma, o, se preferite, di Via dei Gladiatori, perché quello è l'indirizzo forse un po’ più preciso per localizzare esattamente l'evento. Ma non posso sottacervi il mio convincimento che l'agenda degli stragisti fosse ancora più ampia (e comprensiva di altri importanti Pag. 4simboli del patrimonio culturale e artistico).
  Non dimentichiamo che pochi anni prima si era compiuta l'ennesima strage dei treni. Era stata la volta del Rapido 904. Qui emerge un profilo soggettivo. Compare nella vicenda del Rapido 904 una figura inquietante, una figura importante di cosa nostra, quella di Calò, l'uomo che ha ricomposto gli interessi dell'organizzazione nella Capitale e che non ha esitato a tessere una trama intensa con altre componenti nella criminalità organizzata e con altre componenti della criminalità politica.
  Il processo di ibridizzazione della mafia, che credo sia il «tema dei temi», più attuale, risale a molti anni fa. È iniziato quando la mafia, fin dai tempi di Portella della Ginestra, fin dai tempi delle campagne di attentati, quasi sempre mortali, nei confronti degli esponenti del mondo politico e sindacale, soprattutto in Sicilia, ha assunto una posizione polarizzata. È diventata, cioè, un interlocutore attivo e molto cruento, partecipando agli eventi più significativi della storia dell'isola e alle sue vicende economiche.
  Si può pensare al 1984 come alla prima pagina della fase moderna, della fase ultima dello stragismo, con una – come verificheremo – attualizzazione di figure, soggetti e metodologie terroristiche che, per esempio, ci faranno individuare segni di continuità con la strage di Borsellino, la strage che è stata compiuta in Via D'Amelio. È verosimile che il tratto di unione sia rappresentato dai canali di commercializzazione della componentistica elettronica.
  Il percorso, però, si amplia. La Procura nazionale antimafia di Grasso, per essere chiari, ha posto il tema dello stragismo come tema centrale della propria azione. Ovviamente, non è stato trascurato tutto il resto. Abbiamo lavorato in moltissimi settori. Ognuno di noi aveva un carico di «deleghe», ma come attestano gli atti parlamentari (ai quali devo fare solo rinvio), la tematica delle stragi, dei mandanti e degli attori occulti – sono notissimi gli interventi del Procuratore nazionale antimafia Grasso, non c'è nulla da aggiungere a quello che ha detto – inquadrando esattamente tutte le questioni in campo.
  Questo atteggiamento di grande attenzione e di grande cura che ha delle ragioni ben evidenti nell'esperienza professionale profonda, sentita e attiva del mio Procuratore nazionale si coniuga, sul piano pratico, con un impegno rinnovato della DNA, che nel frattempo, purtroppo, aveva perduto uno dei suoi più attenti e acuti osservatori, Gabriele Chelazzi.
  Il passaggio è estremamente delicato. Quando sono arrivato in Procura nazionale antimafia, era il lontano 2002 (PNA Vigna) e avevo una funzione di coordinamento e di collegamento nel distretto nisseno e nell'ambito della criminalità generale, con espressa esclusione dell'azione di collegamento e coordinamento nella materia delle stragi, che era una sorta di hortus clausus.
  Quando, purtroppo, abbiamo perduto il conforto dell'esperienza di Gabriele Chelazzi, nella Procura nazionale si è posto il problema della prosecuzione del suo lavoro: un'eredità estremamente difficile. Non c'era la possibilità di un beneficio di inventario. Non si poteva trascurare nulla di ciò che il collega stava facendo.
  Vigna costituì un gruppo di lavoro che sembrava, per taluni versi, signora presidente, una «unità di crisi», perché fu convocato dalla sera alla mattina. Io mi ritrovai proiettato, sempre nel nisseno, anche verso le stragi di competenza della DDA di Caltanissetta, delle quali non mi ero occupato fino a quel momento. Mi ero occupato, però, di varie questioni che ora vi citerò brevemente. E perdonatemi se racconto in parte una vicenda personale. Mi ricorda l'ingegnere della Montagna incantata. Questa storia ve la racconto non perché è la mia storia, ma perché è una storia che va raccontata e sulla quale rifletto ancora molto.
  Si costituì questo gruppo, di cui facevano parte il collega Melillo e il collega Roberto Alfonso. Ma devo aggiungere che il lavoro ha avuto una forte accelerazione con l'arrivo del procuratore Grasso. L'approccio è stato – vorrei usare una parola inconsueta nel lessico giudiziario – multitasking. Non si poteva fare una cosa alla Pag. 5volta. Bisognava allargare l'orizzonte e cercare, al di là delle singole vicende giudiziarie, connessioni non immediatamente evidenti e scrivere e leggere pagine anche remote.
  Qual è il perimetro? Il perimetro è quello delle stragi elencate dalla signora presidente, ma ci sono altri e allarmantissimi fatti che si pongono immediatamente in evidenza.
  Cominciamo dagli elementi cosiddetti esteriori. Le stragi siciliane, per la prima volta, hanno presentato una rivendicazione, quella della Falange Armata. Un dato assolutamente imprevisto e imprevedibile. Sappiamo perfettamente che quello delle organizzazioni mafiose tradizionali è un approccio negazionista fino al punto da negare l'esistenza stessa dell'organizzazione: figuriamoci se si può considerare concepibile una rivendicazione dell'azione.
  Questo rebus viene in parte sciolto da alcuni collaboratori – si badi – catanesi, cioè estranei all'area di maggiore forza dell'organizzazione cosa nostra, che accennano a esiti e ragionamenti ascoltati nel corso della celebre riunione di Enna (dicembre 1991). Parlo di un'assise estremamente importante, una sorta di consiglio di amministrazione che ratificò senza discussione la stagione stragista, così come veniva declinata e promossa da Riina.
  La novità, che diventa per noi un nuovo orizzonte di riflessione è che quelle stragi dovevano essere rivendicate da una sigla di tipo terroristico. Ed esse furono effettivamente rivendicate da una sigla di tipo terroristico. Compare così la Falange Armata. In verità, la Falange Armata era già viva nella comunicazione. Aveva già esordito, sia pure con una presentazione diversa. Si era presentata come Falange Armata carceraria. La Falange firmò, dunque, le stragi degli anni Novanta. Fu attenta e addirittura tempestiva, con una metodica di esaltazione degli eventi e di rivendicazione. Una strategia nella comunicazione che, dunque, andava esplorata. Questo è il primo nuovo orizzonte che visiteremo, perché ha comportato conseguentemente, per la prima volta, l'osservazione attenta dei reperti giudiziari e non giudiziari che riconducevano alla definizione della galassia della Falange Armata, che, nella vulgata, sembrerebbe riferibile ad ambienti della settima divisione del Sismi, di cui parlerò da qui a poco.
  Un'altra, altrettanto importante, prospettiva è rappresentata addirittura da un filo di collegamento che sembra avvicinare taluni eventi siciliani agli eventi della Uno bianca. Questo legame è stato una sorpresa, lo stupore ha dovuto immediatamente cedere il passo al ragionamento, perché vi furono elementi di attenzione da parte dell'UCIGOS, per esempio, nell'osservazione dei famosi identikit formati intorno alla strage dell'autostrada alla strage di Capaci. Il fatto stesso che si fosse attuata quella attenzione a fenomeni paralleli e destabilizzanti significa l'esigenza di una attenzione e di una sensibilità da parte della Polizia di prevenzione.
  Questo, signora presidente, voleva dire che ad ogni acquisizione conseguiva l'apertura di un nuovo ampio orizzonte, un percorso complesso, quindi, una complessità di cui siamo stati consapevoli. Questa complessità ha incoraggiato l'azione, la ricerca, la catalogazione dei reperti e ha consentito di esplorare aree di estrema delicatezza e importanza dal punto dell'analisi criminale. Viene fuori così l'ipotesi di un tipo di criminalità ibridizzata, di criminalità che produce servizi criminali, azioni criminali, anche quando il committente si profila all'esterno dell'organizzazione.
  È notorio che il rancore profondo del gotha di cosa nostra, ma soprattutto dei corleonesi di Riina, nei confronti di Falcone andasse alla ricerca di un riscatto. Il lavoro di Falcone aveva avuto un'affermazione imprevista. Lo stesso Falcone, all'esito in Cassazione del maxi processo, ebbe modo di fare delle considerazioni di ottimismo e soddisfazione, dicendo che le cose erano andate anche meglio del prevedibile, considerando la mortalità di processi statisticamente nota.
  Riina cercava un segno di riscatto. Riina, a mio avviso, con l'esito del maxiprocesso, subì una lesione forte alla sua legittimazione di capo. Un capo, a mio avviso, mai amato dalla sua corte. Tutto ciò ha Pag. 6prodotto una strategia terroristica? L'onorevole Lumia ricorderà un nostro vecchio ragionamento sul nazismo dei corleonesi. Questa categoria ce la ritroveremo per altre strade.
  Ma Falcone, com'è a tutti noto, doveva essere ucciso con un'azione tipica di killer di cosa nostra. Ricordo bene un lungo ragionamento fatto con un mafioso, non pentito, il quale esordì dicendo: «Dottore, come lei ben sa, per uccidere Falcone, a cosa nostra sarebbero stati sufficienti quattro buoni picciotti».
  Quando si dialoga – poi vedremo qual è la forma di questo incontro dialettico, il colloquio investigativo, nella fattispecie – con i mafiosi, bisogna essere molto attenti alle sfumature, ai toni e al contesto delle espressioni. Se cosa nostra avesse inteso sopprimere Falcone, l'avrebbe fatto con «quattro picciotti buoni». Quella frase è una rivendicazione contraria, se la esaminiamo nei suoi contenuti comunicativi. Allora cosa nostra non agì da sola. Era questo il senso.
  Il fronte della raccolta e della elaborazione di atti e informazioni si è ancora ampliato, a mano a mano che si aprivano o si riaprivano i vecchi dossier, dossier molto ampi, tanto da determinare nuovi contenuti da esplorare (ancora oggi da esplorare), per esempio le tecnologie.
  L'esercizio sulle tecnologie, che è stato uno dei primi capitoli del lavoro che mi era stato delegato, mette l'analista a confronto con una realtà assolutamente imprevedibile. Nei giorni e nei mesi delle stragi cosa nostra disponeva di una rete di telefonia impenetrabile. Era un sistema ETACS. Non esistevano le SIM; era in campo un sistema di telefoni clonati.
  E in questo percorso si apre un ulteriore capitolo. Che cosa vuol dire la clonazione dei telefoni all'inizio degli anni Novanta? Chi li clona e perché si clonano i telefoni? Ma, soprattutto, come fa cosa nostra a stabilizzare una rete di comunicazioni protette, anticipando di molti anni quelle reti di comunicazioni protette alle quali noi siamo oggi abituati esaminando questioni del narcotraffico internazionale o del terrorismo, con l'uso di reti chiuse nelle comunicazioni VoIP?
  Ebbene, i mafiosi sono stati, come sempre, precursori. Ecco un capitolo da prendere in considerazione, presidente, un capitolo che si aggiungeva agli altri che si erano già aperti. Se si dovesse quantificare il nostro lavoro, si dovrebbe dire che si doveva fare di più. Poiché qualcuno ha «contabilizzato» il lavoro, le richieste di atti, di informazioni, posso allora dire che si doveva e si deve ancora fare di più, perché il fronte era ed è vastissimo.
  Sempre, in tema di tecnologie, esaminando le questioni delle stragi, incorriamo in un'altra vicenda che ci fa a lungo riflettere: la tecnologia adoperata per la soppressione di Paolo Borsellino e di tutti i componenti della sua scorta. Tutti tranne un autista che riesce a salvarsi miracolosamente, perché era impegnato nella manovra, ma che, se fosse disceso solo un attimo, avrebbe perso la vita anch'egli.
  Quella tecnologia è una tecnologia che fa enormemente riflettere, perché siamo molto lontani dal telecomando che si assume messo in campo a Capaci dove, peraltro (anche questo è notissimo e lo ripeto solo a me stesso, per un'uniformità espositiva), fino a un dato momento è presente e agisce con alacrità un signore che si chiama Pietro Rampulla.
  Rampulla proviene dalle fila di Ordine Nuovo e ha compiuto molte gesta nella vita, prima di diventare mafioso. Poi, per un permesso ad assentarsi «per motivi di famiglia» che ottiene, molto stranamente devo dire, proprio in quelle circostanze, a Capaci gli subentra un Giovanni Brusca, che sembra molto meno esperto e meno provveduto in cose dinamitarde. Ma a Capaci, secondo la versione «ufficiale», si realizzò una situazione elementare dal punto di vista delle tecnologie, tanto elementare da far a lungo riflettere per i rischi di fallimento che comportava.
  Per Capaci la prima formidabile intuizione fu di Luca Tescaroli, che cominciò a considerare la prospettiva del rafforzamento della carica, sulla quale, ovviamente, ritornerò, perché è un tema ineludibile. Mi piace citare il collega che ha studiato e Pag. 7sviluppato questa prospettiva, un magistrato attentissimo che, sebbene molto giovane, seguì quell'indagine con passione, con grande rigore e con grande forza intellettuale.
  Abbiamo poi lo scenario di Via D'Amelio che, come vi accennavo un minuto fa, rende estremamente più complesso il tema degli strumenti adoperati per agire. Il telecomando Telcoma THC che entra in campo nella strage di Via D'Amelio rappresenta qualche cosa di assolutamente inusitato. È un sistema codificato che funziona a varie decine di chilometri di distanza e supera qualsiasi rischio di interferenza. È tutto un altro mondo rispetto ai prodotti artigianali e comporta saperi e attitudini criminali inusitati per cosa nostra.
  Devo dire che i colleghi che all'epoca furono applicati ai processi nisseni, in particolare il collega Petralia, si occuparono della vicenda di questo telecomando: ricordo che furono sviluppate indagini approfondite. Sto parlando di fatti che non richiedono profili di particolare cautela, perché, per una ragione o per un'altra, hanno assunto un determinato grado di pubblicità.
  Vi racconterò come si scopre l'esistenza di questa tecnologia, perché la deflagrazione in Via D'Amelio fu enorme e distrusse tutto. Anche, ovviamente, il sistema di innesco. Vi parlo di questa vicenda, perché subentra un frammento dichiarativo, il primo lampo che apre, dischiude e illumina una prospettiva «esterna» a cosa nostra.
  Gioacchino La Barbera parla con dovizia di particolari della consegna di questi telecomandi particolarissimi e descrive il luogo ove la traditio avvenne, una località prossima a un'area industriale catanese. E indica esattamente anche i particolari di questo passaggio.
  I telecomandi Telcoma non rappresentano nulla di compatibile per la nostra esperienza comune. Sono degli involucri metallici che nemmeno somigliano a un telecomando di uso corrente. Sono sistemi estremamente complessi, con ricevitori e trasmettitori che occupano lo spazio che occupa la confezione che contiene, per esempio, delle scarpe. Insieme superano i 30 centimetri.
  La descrizione che fece Gioacchino La Barbera di quell'incontro e di quel passaggio fu caratterizzata da alcuni elementi particolarissimi. Gioacchino La Barbera era un esperto di fuoristrada. Ciò che lo colpì in quell'appuntamento fu proprio l'arrivo di un veicolo fuoristrada, un modello particolare e recente, che lui osservò con tale attenzione da poter riferire tanti elementi precisi e circostanziati tali da consentire poi un percorso di individuazione dei titolari, due personaggi che saranno raggiunti da un atto di impulso della Procura nazionale antimafia spedito dal procuratore Vigna. Due personaggi segnalati alla procura di Caltanissetta e soprattutto a quella di Catania. Ma quelle indagini preliminari, però, non hanno avuto un esito a Caltanissetta. Tuttavia hanno consentito di scoprire, in una sorta di sistema di relazioni nascoste, altre realtà.
  Innanzitutto i personaggi che portarono quella tecnologia così particolare, una volta identificati, furono oggetto di indagini. Le prime indagini riguardarono il loro quadro relazionale e i contatti che avevano stabilito. La loro difesa fu molto efficace. I protagonisti di questa storia erano due fratelli di Mascalucia – si chiamano Di Stefano – e nella vita facevano varie cose. Per esempio, signora presidente, avevano anche una società che si occupava di intercettazioni telefoniche, che lavorava per la procura di Caltanissetta e per quella di Catania. Ovviamente, è una cosa che lascia molto, ma molto perplessi. Avevano anche altre attività commerciali, tra cui un accorsato ristorante. Quando vennero attenzionati furono acquisiti dati dei contatti telefonici. Purtroppo, quando siamo andati a cercare quei tabulati, non li abbiamo più trovati.
  Vi racconto la storia della scomparsa di questi atti perché molte volte in questo lavoro di ricomposizione, arrivati a un punto strategico, abbiamo dovuto constatare che vi erano dei «pezzi mancanti». Questa storia dei pezzi mancanti induce a ritenere urgente il salvataggio – mi sia consentita una raccomandazione – di questo sapere, Pag. 8perché il tempo che passa aumenta il rischio di dispersione volontaria o involontaria.
  È successa la stessa cosa quando abbiamo dovuto riesaminare il profilo di Gaetano Scotto, che è un personaggio tanto importante da poter essere oggi considerato uno dei possibili eredi di Salvatore Riina. Anche in quel caso altri «pezzi mancanti»: carte mancanti dagli archivi della Polizia.
  Torniamo ai micidiali telecomandi di Via D'Amelio. Il tema centrale dell'indagine degli anni Novanta fu quello dell'origine di questa tecnologia: un ufficiale di Polizia giudiziaria delineò la mappa della rete di commercializzazione Telcoma.
  Prima, però, di parlarvi di questa mappa, che fornisce importanti indicazioni, a mio avviso, vi devo dire che del micidiale telecomando Telcoma non vi era traccia nella strada colpita dalla deflagrazione. Di questo apparecchio, dopo l'esplosione, in via D'Amelio non vi era più una traccia sensibile. L'esplosivo adoperato a Via D'Amelio era Semtex, una sessantina di chili adeguatamente stipati in una macchina che non era stata rubata da Scarantino, ma da un'altra persona, da Spatuzza. Su quel furto qui c'è l'esito importantissimo dei colloqui investigativi condotti dal procuratore Grasso. Un risultato straordinario, perché consentì di portare il profilo dichiarativo di Spatuzza a un livello tale da poter redigere un atto d'impulso che ha spazzato via la grande montatura Scarantino.
  Ho parlato di questa tecnologia distruttiva e di quest'onda distruttiva immane – non è mai capitata una cosa del genere, fortunatamente, e auguriamoci che non succeda mai più – che non lasciò tracce. Rimase indenne solo un piccolo frammento di un circuito elettronico. Quel piccolo frammento determinò un lungo esercizio. La Polizia italiana non riuscì a comprendere che cosa fosse. Ci provarono gli americani, con un database molto sofisticato, ma senza risultati.
  Venni a sapere che Arnaldo La Barbera aveva ottenuto migliori risultati dopo aver colloquiato di questa problematica con ambienti del SISMI, con tecnici del servizio militare.
  La rete di commercializzazione dei telecomandi Telcoma, che sono prodotti in alta Italia, dalle parti di Treviso, se non vado errato, ci condusse a un'ulteriore inquietante scoperta. Un signore che aveva un negozio di elettronica a Roma – se non sbaglio, si chiama Tomasino – un italo-americano, aveva una concessione nella distribuzione di questo prodotto. Questo signor Tomasino non è estraneo alla storia dei grandi eventi del nostro Paese, perché un personaggio, di recente deceduto, il terrorista Friedrich Shaudinn, condannato a venticinque anni per la strage del Rapido 904, si era rifornito di componenti elettroniche proprio presso questo negozio romano.
  Si apre, signora presidente, attraverso questa narrazione un altro capitolo. Noi scopriamo, rileggendo le carte del processo per la strage del Rapido 904, che Tomasino aveva dichiarato di non aver mai visto il signor Schaudinn, il quale peraltro è un altro personaggio dalla fisionomia indimenticabile. Viceversa, gli impiegati di Antony Tomasino avevano riconosciuto Schaudinn che, vale la pena di ricordare, è stato condannato quale coautore materiale della strage. Dimenticato dalla giustizia italiana, ripescato dalla DNA e infine arrestato in Germania e condannato nuovamente, Schaudinn rimane in carcere.
  L'analisi delle questioni delle tecnologie in campo ci introduce in nuove problematiche, signora presidente. Un attimo fa vi parlavo delle reti di clonazione. Le reti di clonazione sono questione serissima agli inizi degli anni Novanta. I telefoni clonati hanno un alto costo nei mercati clandestini e, soprattutto, sembrano avere una matrice.
  Un'analisi di tutte le indagini sulla clonazione di telefoni consente rapidamente di mettere a fuoco vicende diverse rispetto a quelle delle stragi, in cui compaiono, per esempio, nella clonazione e riclonazione i telefoni che vengono dati in locazione da una strana ditta denominata Alessi Videorecorder. La Alessi Videorecorder ve la cito perché potrebbe essere il capitolo di un Pag. 9esercizio lungo e, spero, fecondo. Un esercizio che ci ha impegnato molto tempo.
  Ebbene, questa società apparentemente locava telefoni agli uomini d'affari, alle persone che si trattenevano in Italia per brevi periodi. Ma taluni di questi telefoni non venivano restituiti. Lavorando su questi fatti apparentemente minori si scopre che taluni nominativi di personaggi collegati alla ricettazione di questi telefoni clonati hanno un target comune, l'appartenenza alla Lega nazionalpopolare. E si apre un nuovo capitolo: la Lega porta a Delle Chiaie.
  Si forma una sorta di ipertesto, in cui elaborando dati e informazioni si scoprono link imprevisti, si aprono nuovi fronti. Lo dico perché tentare una descrizione lineare di questo lavoro è praticamente impossibile.
  La Lega nazionalpopolare, nel periodo delle Leghe, esplorato dall'indagine «Sistemi criminali», è la Lega che fa capo a Stefano Delle Chiaie. Compare all'improvviso sull'orizzonte un personaggio che non è estraneo alle vicende del terrorismo nel nostro Paese. Direi proprio che non lo è.
  Sono delle lenti, signora presidente, che si sovrappongono e mettono a fuoco i fatti. Andiamo poi a esaminare nei famosi reperti di via Ughetti – di qui a un minuto devo esplicitare questa frase, i famosi reperti del covo di via Ughetti – un'agendina adeguatamente sottoposta ad abrasioni e a cancellature, con scritti alcuni numeri di serie di cellulari clonati (stiamo studiando la posizione di Gioacchino La Barbera) che aprono nuove prospettive.
  Vorremmo provare a chiudere questi «paragrafi» che, se vi fosse tempo sufficiente, contenutisticamente andrebbero profondamente esplorati, ma non finiremmo mai questa audizione. Ora occorre solo indicare i titoli di una riflessione. Lo studio delle tecnologie, l'esame critico e la valutazione approfondita di ogni dettaglio in ordine alle tecnologie adoperate nelle stragi portano lontano. Molto lontano.
  Il tutto, ovviamente, finirà con il convergere in una visione e in un quadro, unitario e allarmante, molto ben definito dal Procuratore nazionale Grasso in tutte le sue audizioni. Il Procuratore Grasso arrivò a parlare di una cosa nostra che agì sotto la forma e la sostanza di un'agenzia criminale, perdendo parte della propria fisionomia e facendo altre cose.
  Orbene, dal punto di vista degli attori in campo, se ci vogliamo soffermare solo un attimo sulla prima e tremenda strage, quella che ormai, purtroppo, è entrata nei libri delle nostre scuole, la strage di Capaci, dobbiamo dire che quella di Capaci sembra essere stata la strage degli altofontiani.
  Vorrei tentare una sintesi. I protagonisti di quella strage furono dei mafiosi che possiamo localizzare nell'area criminale di Altofonte. Vi indicherò tre nominativi. Sono tre storie estremamente complicate, che ci hanno a lungo, davvero a lungo, impegnati, signora presidente. Uno si chiama Antonino Gioè, un altro Gioacchino La Barbera e l'ultimo Di Matteo, cosiddetto «mezzanasca».
  Sono tre vicende straordinariamente complesse, perché intorno a questi tre coprotagonisti della strage di Falcone si sviluppano accadimenti terribili. A Gioacchino La Barbera viene ucciso il padre. Non solo viene ucciso, ma ne viene rappresentata la morte come un evento suicidiario. Gioacchino La Barbera un bel giorno chiese e ottenne un colloquio investigativo con la Procura nazionale antimafia. Il Procuratore delegò me. La Barbera lamentò alcune questioni relative al suo trattamento. Terminata questa sorta di composto cahier de doléances, mi parlò sua sponte della morte del padre. Non le nascondo, signora presidente, che ero assolutamente impreparato. Forse, però, l'atteggiamento migliore in determinate storie è quello di non essere contaminati da conoscenze precedenti. Il racconto mi colpì per l'intensità espressiva e perché il mio interlocutore considerava straordinaria la circostanza che finalmente la Cassazione avesse messo un punto fermo alla vicenda del padre: non si era trattato di suicidio.
  Il padre di La Barbera era stato ucciso e questo omicidio era stato presentato e costruito come un suicidio. Per Gioacchino La Barbera questo era stato un vero dramma. Lui si era liberato da questa Pag. 10mistificazione che, nella narrazione, si confondeva con il dolore. Anche i criminali più efferati vivono sentimenti, tutto sommato. La Barbera ci tenne a raccontare la vicenda della morte del padre. Naturalmente, il racconto fu poi oggetto di un'approfondita elaborazione e si lavorò molto su quella storia con acquisizioni di atti e documenti.
  Il secondo protagonista della vicenda di Capaci è Antonino Gioè. Antonino Gioè non è un mafioso qualunque. È un mafioso che ha attitudini ed esperienze di tipo militare. È un paracadutista della Folgore. Oggi potremmo dire che si è radicalizzato, adoperando una terminologia moderna. Quando si andò a ricomporre il suo profilo criminale – poi vi illustrerò quali sono i sistemi e le metodologie che la Procura nazionale per legge e secondo la legge adopera per effettuare questi processi di elaborazione dei dati, delle notizie e delle informazioni – si scoprì che un referto molto positivo su di lui era stato stilato dall'Arma e veniva conservato nella stazione di Altofonte: il buon Gioè era ritenuto persona certamente idonea a essere adoperata per compiti di intelligence militare. Non è poco.
  Ricordo che la vicenda di Gioè forma anch'essa un nuovo capitolo. A ogni elemento che si introita consegue l'apertura di un dossier per dare un senso alla ricerca. Questo è un modus operandi assolutamente ordinario. I dossier di approfondimento e di analisi aperti furono alcune centinaia, il minimo, signora presidente, vista l'estensione straordinaria di questa vicenda.
  Proprio questa è la missione della DNA, che è tenuta ad acquisire dati e informazioni per elaborarli anche in funzione dell'esercizio del potere di impulso che l'ordinamento le ha conferito (articolo 371-bis codice di procedura penale).
  Il terzo e ultimo personaggio è il personaggio forse più noto, perché coinvolto nella vicenda più straordinariamente atroce delle stragi, ossia il sequestro e la lunga prigionia, se non vado errato di oltre 700 giorni, di un bambino inerme, anzi di un bambino. Basta questo. Non si richiedono aggettivi.
  Il movente del rapimento del piccolo Di Matteo non venne del tutto chiarito in sede processuale. Venne però trattato in un libro scritto dal pentito di mafia Monticciolo e trascritto da un giornalista de L'Unità, Vasile. In questo libro si trovano anche cose diverse da quelle risultanti nelle carte processuali. La lettura di questo libro fa emergere dubbi e interrogativi.
  Innanzitutto, Monticciolo, coautore della tremenda uccisione di questo bambino, dice che la deliberazione dell'uccisione fu lunga e complessa e vide la presenza di gente estranea. Si avverte in quelle pagine una sensibilità del mafioso nei confronti di chi non è intraneo a cosa nostra. Nel racconto di Monticciolo viene ricordata la presenza di qualcuno – si parlava di agenti di Servizi – che si copriva il volto.
  Questo dato narrativo – vorrei dire letterario – doveva essere coniugato con un colloquio investigativo. L'unica e più semplice domanda, ovviamente, fu la seguente: come si poteva pretendere che il sequestro di un bambino facesse modificare le dichiarazioni del padre, quando erano state raccolte da magistrati, da agenti e dalla polizia giudiziaria? La risposta fu raggelante: non si puntava alla ritrattazione del padre del piccolo Di Matteo, si voleva dare un segnale a Di Matteo, tale da fargli capire che non doveva andare oltre le cose che aveva riferito.
  Questo è solo un modo antologico con il quale abbiamo visitato alcune delle questioni più complicate, ma ve ne sono altri che ora cito molto più rapidamente. Non vorrei abusare – forse già l'ho fatto – della vostra pazienza.
  L'evento di Capaci ebbe anche altre caratteristiche atipiche. Per esempio, come è ben desumibile da una lettura attenta degli atti giudiziari, vi sono nella vicenda di Capaci dei testimoni. Già immaginare un testimone in un evento di stragi è rara avis, figuriamoci in una strage come quella di Falcone.
  Invece, ci furono dei testimoni che raccontarono un accadimento complementare al minamento. Il minamento ufficiale, com'è notissimo, avvenne in quel famoso cunicolo. Quel cunicolo venne riempito di Pag. 11materiale esplodente in parte derivato dalla frammentazione di esplosivo militare (tutta la storia del «pescatore», per intenderci) e in parte completato con nitrato d'ammonio, poco più di un concime: una grande massa, quella che viene definita dagli esperti una grande carica sorda. Centinaia e centinaia di chili.
  Non voglio entrare nelle vicende tecniche, che sono state anche rivisitate nei procedimenti. Vi dico che quella storia ha un altro capitolo, ancora meritevole di attenzione.
  Una cosa è certa: il minamento di Capaci avvenne sotto l'autostrada. Uomini di notte avevano agito in quel cunicolo. La documentazione fotografica e cinematografica fa capire molto bene la scena. Erano stati invisibili. Avevano raggiunto quell'anfratto attraverso una via complanare con molte cautele. Un'azione invisibile, notturna, quasi sottoterra.
  Tuttavia, alcuni testimoni raccontano eventi diversi dal minamento del cunicolo, eventi accaduti sopra l'autostrada.
  Ce n'è uno che, forse con eccessiva precipitazione, è stato annoverato al genus dei mitomani. Ma è viceversa un personaggio straordinariamente importante e interessante. Questo signore fa l'ingegnere nella vita civile. Non è un ingegnere qualunque, è un ingegnere che si occupa di elettronica, ma ha anche una spiccata sensibilità per le questioni della verità e della giustizia. È il cognato del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
  Questo signore, per una circostanza assolutamente scaturita dal caso, percorre, la sera prima dell'esplosione, con la sua automobile l'autostrada che collega Palermo con Trapani e nota che dall'altro lato, esattamente all'altezza del cunicolo che il giorno dopo così terribilmente esploderà, è fermo un furgone bianco. È, ancora una volta – ironia della sorte – il furgone che l'attento ingegnere considera sospetto, perché è simile al furgone che la sua società di servizi e di tecnologie elettroniche ha preso in locazione. Allora, l'ingegner Naselli pensa che quel furgone, proprio quello, potesse essere il suo e associa quella presenza strana di un furgone lungo l'autostrada a un furto, al furto del furgone proprio.
  Che fa questo signore? Ferma improvvisamente la macchina – neanche a farlo apposta, lì c'è una sorta di area di sosta – attraversa la carreggiata e si avvicina da dietro a quel furgone che ben presto si rivela diverso dal suo, perché ha un portello aperto, ha una targa strana, di Ravenna, e soprattutto ha all'interno badili e materiali per l'edilizia.
  L'ingegner Naselli, a quel punto, dovrebbe essersi tranquillizzato, ma non si tranquillizza, perché incontra due ceffi, due personaggi che lo impressionano. Non c'è un dialogo. Riferisce uno scambio di sguardi e ricorda un particolare, ossia che uno dei due è intento ad operare lungo questa scarpata che declina, che va verso il famoso cunicolo. L'ingegner Naselli forse pensa che non sia una buona aria. Si è ormai tranquillizzato che il furgone non è suo. Riattraversa la strada e riparte.
  Naselli, però, è una persona per bene, vive con onore la sua vita di cittadino: il giorno dopo, quando esplode Capaci, associa il luogo esatto dell'esplosione a quell'avventura notturna e compone il numero di telefono del commissariato San Lorenzo. Naselli chiede di un poliziotto in particolare, tale Mannino, un personaggio interessante per altri versi, in altri dossier. Ma Mannino non c'è e gli passano il vicedirigente. Il vicedirigente è un ex carabiniere, signora presidente. È diventato commissario di polizia, avendo superato l'esame di funzionario. Si chiama Di Legami. È un personaggio bravo, capace e intelligente della nostra Polizia di Stato.
  Scatta il richiamo della sua formazione di carabiniere. Sente che il suo interlocutore è il cognato del «signor generale». Così viene chiamato. Tutti chiamano così Dalla Chiesa, il «signor generale».
  Che fa Di Legami? Si precipita a casa di Naselli e ricostruisce in maniera meticolosa tutti i particolari. Di Legami è un investigatore molto bravo e, quindi, sviluppa un'indagine che forse altri avrebbero abbandonato.
  Dopo un sopralluogo Naselli viene messo a confronto con una delle migliori disegnatrici Pag. 12 della Polizia (che poi, francamente, non ho più ritrovato, trasferita in alta Italia). Questa signora forma degli identikit e con molto interesse la DNA si occupa di quegli identikit. Due giornali siciliani, dopo la strage di Capaci, ne pubblicano ben sei.
  A distanza di tanti anni, dopo che si era perduta quasi memoria della vicenda degli identikit, avviene una scoperta che scaturisce da una scelta della Procura nazionale antimafia, che vi descrivo in due parole: se c'è stata una rivendicazione della Falange Armata, che è un'organizzazione terroristica, non è forse il caso di andare a chiedere alle forze di polizia specializzate in eventi terroristici se hanno qualche notizia su Falcone?
  La risposta arriva, tempestiva e precisa, da parte della direzione centrale della Polizia di prevenzione, che trasmette le carte, debitamente indicizzate, con modalità di estrema riservatezza. Tutto viaggia in doppia busta, perché in questa specifica materia il Procuratore Grasso aveva imposto massima cautela. Pervengono dunque molte carte e, tra le tante, rileviamo che il servizio centrale antiterrorismo aveva conservato ed analizzato il famoso identikit di Capaci.
  Esaminando foglio per foglio la raccolta ponderosa di atti dell'UCIGOS – con un lavoro collettivo con i nostri collaboratori si scopre che a mezzo di un teleprinter pervenne dall'UCIGOS un particolare identikit a seguito di una richiesta che parte dal Ministero dell'interno, Direzione generale della Polizia di prevenzione B1.
  Non le posso nascondere, signora presidente, che non avevo mai sentito parlare di questa divisione B1. La B1 è la sezione specializzata nel terrorismo eversivo di destra. Così si scopre, esaminando gli atti, che il capo della Polizia quando accorre a Capaci non è solo. Porta con sé il più accreditato esperto di terrorismo di destra, il prefetto Fasano. Mario Fasano è un personaggio fondamentale in tutte queste vicende, lo ritroveremo attivo alla fine delle stragi continentali, quando riceve un mandato speciale dal capo della Polizia Masone per verificare se tra i protagonisti dello stragismo continentale – quelle degli anni 1993-1994 – vi fossero sospetti riferibili al mondo «sommerso» di Gladio. L'esame del fascicolo UCIGOS su Capaci si rivela quindi una miniera di dati, notizie e informazioni.
  Vi ho raccontato questa storia perché introduce uno sviluppo molto importante. L'ingegner Naselli, dopo l'arresto di Santo Di Matteo, padre del piccolo Giuseppe, nota che Il Giornale di Sicilia ha pubblicato, netta e precisa, la foto di questo personaggio. Naselli contatta nuovamente Di Legami e gli dice che Il Giornale di Sicilia ha pubblicato l'effigie fotografica del signor Santino Di Matteo, mafioso di Altofonte, in mezzo a due carabinieri o poliziotti. Lo informa che è la persona da lui vista accanto al furgone. Non nel cunicolo, sopra sull'autostrada. È questo il problema, signora presidente. Le parole di Naselli a Di Legami esprimono certezze.
  Allora verifichiamo di nuovo gli identikit che quella brava fotosegnalatrice formò. Uno di essi ritrae con fedeltà il volto di Di Matteo. Naselli certamente non è un mitomane. È un teste preciso. Di Legami, a sua volta, annota che l'ingegner Naselli ha dichiarato di aver riconosciuto nel modo più assoluto il volto di Santino Di Matteo.
  Abbiamo rievocato una pagina che è stata foriera di straordinari sviluppi, ma anche di inquietanti intuizioni. Un punto è fermo: con Naselli siamo molto lontani dalla categoria dei mitomani.
  Un altro personaggio descrive accadimenti notati «sulla verticale» del famoso cunicolo. Non viene però particolarmente apprezzato. È un giovane agente della Polizia stradale. Anch'egli la notte di Capaci sta percorrendo lo stesso tratto dell'autostrada. Devo dire che riferisce questo suo deambulare con una determinata riservatezza, perché non è solo. Si accompagna con una signora e vi è un contesto personale che gli impone cautela.
  Ma questo giovanissimo agente il giorno dopo si rivolge a un suo superiore, a un appuntato della Polizia di Stato, e gli racconta: «Io la sera prima, dell'attentato, all'altezza del cratere di quell'autostrada, ho visto un furgone bianco. Intendo fare una relazione di servizio su quello che ho notato». Un nuovo imprevisto squarcio su Pag. 13una diversa ricostruzione dell'attentato. In questi nuovi scenari la DNA si muove con lo strumento «proprio» del colloquio investigativo.
  L'acquisizione di elementi dichiarativi attraverso lo strumento del colloquio investigativo è finalizzata a raggiungere una massa critica di informazioni. Dopo visiteremo questo famoso articolo 371-bis. Il compito della Direzione nazionale antimafia è la ricomposizione di un sapere e la definizione di un livello di massa critica delle informazioni. Altrimenti dovremmo limitare la nostra azione a iniziative parcellizzate spendibili con lo strumento dell'atto di impulso. La legge, viceversa, prevede l'elaborazione dei dati, delle notizie e delle informazioni per assicurare la completezza delle indagini.
  Quindi, il percorso che viene indicato e perseguito dalla disciplina vigente in questo lavoro di ricomposizione del sapere è un percorso di aggregazione di dati fino a quando questi dati presentano una coerenza e si trasformano in materiale utile per un atto d'impulso. L'atto d'impulso in questione, ovviamente, elabora il narrato e il ruolo di questo agente della Polizia stradale.
  Ho ricordato che questo poliziotto fa una relazione di servizio chiara e lineare. Non riusciamo, però, a comprendere perché, a distanza di qualche giorno, ne faccia un'altra che sposta il furgone dalla verticale del famoso cunicolo a una strada di Capaci, una strada cittadina.
  Signora presidente, è un agente della polizia stradale. Come fa un agente della Polizia stradale a scambiare la carreggiata di un'autostrada con una stradina di una città? Siamo veramente ai limiti dell'immaginazione. Qualcosa non torna: una «manina» ha corretto il tiro?
  Vi ho accennato il tema dell'elaborazione dei dati. Lo statuto del Procuratore nazionale antimafia è uno statuto, dal punto di vista normativo, estremamente semplice, perché in un solo articolo trae la propria disciplina. Forse è troppo poco un solo articolo? Questo articolo statuisce che la missione del Procuratore nazionale è l'acquisizione di dati, notizie e informazioni e l'elaborazione di questi dati per verificare se esistono i presupposti di un impulso, impulso (lo ripeto) che deve essere posto in essere, per assicurare tempestività e completezza delle indagini. C'è poi un inciso sull'impiego della Polizia giudiziaria che trascuro.
  È tutto qui. Non c'è stata alcuna indagine «parallela», signora presidente. Dovremmo metterci d'accordo sui concetti della geometria euclidea. L'intersezione tra l'azione della Procura nazionale e l'azione delle direzioni distrettuali, in un clima sempre sereno, devo dire, fino a un dato punto, è avvenuta trentasei volte. Euclide ci racconta che, se due rette si incontrano trentasei volte, tutto sono tranne che parallele. Dunque non vi fu un'indagine solitaria, immaginifica o parallela. Ma sempre e solo un lavoro di valutazione, di elaborazione e di proposizione in progress ampio e articolato, signora presidente...
  A via Palestro dalla Fiat Uno chiara – è scesa una donna. Siamo nell'anno 1993. Io sono portato a escludere, dopo trentasette anni di lavoro di magistrato, quasi tutti dedicati a questioni connesse alla grande criminalità, che cosa nostra avesse mai deciso di schierare per un'azione stragista nella città di Milano, nel cuore di Milano, a via Palestro, tra un padiglione d'arte moderna e lo studio di un importante esponente della politica, una donna.
  Due ragazzi descrivono le fattezze fisiche di quella donna. Le descrivono anche con riferimento ai tratti femminili del corpo. Questi due ragazzi però scompaiono nel firmamento delle vicende processuali di via Palestro. Ma, udienza per udienza, dalle domande proposte dagli avvocati difensori si scopre che su questa vicenda della donna si scatena una dialettica vivace: le domande sulla donna non si contano.
  E allora? E allora bisogna occuparsi dell'ipotesi che sia stata effettivamente una donna a scendere da quell'automobile. Potremmo dire, con un linguaggio moderno, che questa parola «donna» diventa una chiave di ricerca, una chiave semantica. Quindi si scandagliano le banche dati. E questa, a mio sommesso avviso, è la missione che dovrebbe compiere la prossima Pag. 14Commissione antimafia. La presidente l'ha già detto: bisogna ricomporre un sapere, se si vuole lasciare un segno tangibile della volontà di perseguire la verità, perché, se il sapere non si ricompone, la verità non può essere più non dico trovata, ma nemmeno cercata.
  Si scopre che figure e tracce femminili ci sono a via Fauro e nella strage di via dei Georgofili. Spatuzza non parla di donne, ma forse Spatuzza non è in grado di riferire tutto ciò che è accaduto. Possono certamente esserci vicende a lui del tutto ignote. Ignoti forse alla maggior parte dei mafiosi. Spatuzza, però, ci racconta cose di straordinaria importanza in questo percorso collaborativo.
  Una di queste ci riporta all'Olimpico e una sua battuta impegna moltissimo il mio lavoro. Nel ricostruire un suo dialogo con Graviano, dice: «Bisogna accelerare. I calabresi hanno già iniziato». Si impegna per decifrare questa frase il mio collega Vincenzo Macrì, un magistrato di nota esperienza. Macrì è stato, infatti, il protagonista di uno dei processi più importanti che siano stati fatti nella storia della grande criminalità, il processo Olimpia. Quindi, è lui che scende in campo molto prima ed è lui che avvia l'analisi della questione.
  Si cercano eventi o fatti che possono essere assimilabili a quel segno premonitore che era stato al centro del dialogo tra Graviano e Spatuzza. Ce n'è solo una di storia da verificare, la storia – ahimè – di un attacco vigliacco e terribile ai carabinieri. Furono uccisi due carabinieri, poi ne furono gravemente feriti altri due e altri due ancora. Mi riferisco ai fatti di Bagnara di Calabria.
  Macrì cerca di raccogliere elementi dichiarativi utili. È un lavoro precisissimo con colloqui investigativi, che non giunge a straordinari esiti, perché si ferma al nome dei De Stefano. In quella fase non si va oltre. Ci sono, però, accadimenti imprevisti. Uno dei due personaggi condannati a pene severe per l'omicidio di questi carabinieri, per una vicenda apparentemente collegata al suo trattamento carcerario, decide di scrivere una lettera al Procuratore nazionale antimafia, nella quale racconta, senza mezzi termini, che gli omicidi dei carabinieri sono stati ispirati e pianificati da ambienti riferibili ad apparati deviati dei servizi segreti. Tutto qui.
  Questa lettera non giunge mai a destinazione. Tuttavia, attraverso i vari circuiti che percorrono il mondo carcerario, a un dato punto viene fuori una minuta e si avvia un nuovo approfondimento, d'intesa con la procura di Reggio Calabria.
  Si apre così un capitolo del tutto autonomo di un'azione di analisi e di impulso che giungerà fino a un esito processualmente rilevante, che a voi è noto, di cui vi avrà certamente riferito il Procuratore Federico Cafiero de Raho.
  Mi scuso di questo approccio frammentario, ma ho tentato di farvi rivivere quello che abbiamo vissuto. Credo che siano fatti meritevoli di essere riferiti, un po’ come la storia dell'ingegnere che, salendo verso la «montagna incantata», racconta una storia che vale la pena raccontare.
  Naturalmente, quando si apre la questione delle donne terroriste, signora presidente, il discorso diventa complicatissimo. La DNA adopera la propria metodologia: si parte alla ricerca di elementi, di marcatori di questa presenza. Di ogni frammento fattuale e dichiarativo.
  Si accerta la circostanza che il servizio segreto civile, il SISDE, ha ritenuto nel 1993 di formare un report trasmesso al capo della Polizia, al comandante generale dell'Arma dei carabinieri e ad altre autorità, nel quale viene denunciata l'esistenza di un’«organizzazione parallela» – è testuale – a cosa nostra con finalità terroristiche, attiva nello stragismo nel 1993.
  Ce n'è abbastanza per formare una serie di atti di impulso. Gli atti di impulso in tutto sono trentasei, se non vado errato. È stato fatto molto, forse tutto il possibile, per dischiudere orizzonti idonei ad assimilare lo stragismo degli anni Novanta ad altre stagioni stragiste in una prospettiva di continuità.
  Non vi ho parlato, ma sono qui a vostra disposizione, della vicenda del celebre – e, ahimè, purtroppo defunto – Aiello, perché quella è una vicenda notissima. Nasce da Ilardo, ma Ilardo e Gioè sono i due pilastri Pag. 15che fissano un po’ le Colonne d'Ercole, i limiti della verità dicibile.
  Ilardo parla di un signore, che è un ex poliziotto, che ha partecipato a stragi e omicidi e ha ucciso un bambino, il piccolo Domino. Ilardo riferisce i «meriti criminali» di questo tizio in un colloquio con il colonnello Riccio. Ilardo finisce al cospetto di due magistrati che lo incontrano – non cercate il verbale, perché purtroppo non c'è – e poi se ne torna a casa. Riccio riceve la disposizione di registrare le sue esternazioni e riferire.
  Ilardo, però, ha avuto il tempo di dire, in presenza di Mori – questo lo riferisce Riccio in dibattimento – che gli omicidi eccellenti cosa nostra li ha solo eseguiti, quindi non possono essere ritenuti meri delitti di mafia.
  Per darle un'idea, signora presidente, di questo concetto bisogna pensare al salotto di Guttadauro, che, come sa, è un dottore, un neurochirurgo dell'ospedale civico di Palermo, dove una bella sera si discute di Dalla Chiesa e un altro mafioso che sta insieme a lui, senza mezzi termini, dice: «Chi ce l'ha fatto fare a fare questo omicidio?» Risponde: «È stato un piacere a quelli là».
  L'affermazione di Ilardo non era certo stravagante. Pone un tema delicatissimo: gli omicidi eccellenti fatti da cosa nostra per conto di terzi. Ilardo, però, muore, come muore Gioè.
  C'è una cosa che mi ha colpito. La vicenda di Gioè io l'apprezzo quando, il 19 settembre 2015, leggo un'intervista in prima pagina di un mafioso con il quale ho colloquiato. È Gioacchino La Barbera.
  Le esternazioni La Barbera hanno costituito il contenuto di un atto d'impulso che la Procura nazionale antimafia ha licenziato su «Faccia di mostro». Con La Barbera ho fatto tre colloqui investigativi. Il testo dell'atto di impulso non è nella mia giuridica disponibilità, ma sono certo che la Commissione acquisirà gli atti, naturalmente interloquendo con il nuovo Procuratore nazionale antimafia, che assumerà sul punto le sue determinazioni.
  Pur avendo scritto buona parte di questi materiali, non ne ho la giuridica disponibilità perché recano quasi tutti la firma del Procuratore nazionale Pietro Grasso.
  Torniamo all'articolo del quotidiano La Repubblica del 19 settembre 2015. In quell'articolo, che mi colpisce, La Barbera racconta una cosa, signora presidente, che avevo sempre ritenuto non solo possibile, ma estremamente probabile, ossia che Antonino Gioè aveva avuto un periodo di collaborazione prima di morire.
  Ricordo sempre, e non lo dimenticherò mai, la sera in cui uscii dalla procura della Repubblica di Roma, accompagnato dal collega Silverio Piro, che purtroppo è deceduto. Piro, come è noto, era un bravissimo magistrato. Passai con lui quasi tutta una giornata a studiare gli atti relativi alla morte di Gioè.
  Piro è stato un magistrato inquirente scrupolosissimo. Nel corso dell'indagine non aveva trascurato nulla e aveva con vivo dispiacere firmato la richiesta di archiviazione. Le ultime parole che mi disse Piro – non ci siamo mai più incontrati – sono state: «Gianfranco, io non sono per nulla convinto che si sia suicidato».
  Io ho un certo soprassalto quando leggo l'intervista di La Barbera a La Repubblica che non potevo ovviamente prevedere. Né tuttora conosco il contesto in cui è stata formata. So solo che venne pubblicata in prima pagina da La Repubblica e che qualcuno dei miei conoscenti, signora presidente, pensò bene di interrompere una mia breve pausa feriale per informarmi. Lessi alcune frasi e rimasi colpito da alcune frasi del La Barbera pubblicata in prima pagina da Repubblica. Il pentito parla della presenza di un terzo, di un soggetto non di cosa nostra, a Capaci. Il tema in verità non mi era ignoto. L'avevamo trattato ed era stato oggetto di atto d'impulso.
  Mi meravigliai quando lessi che La Barbera aveva parlato del pentimento di Gioè, ma non di un pentimento spirituale, bensì di un pentimento attivo prima di morire. Con chi parlò Gioè? Furono formati i verbali? Appunti di PG? Una vita parallela, quella di Gioè e Ilardo, perché fanno tutti e due la stessa fine, una morte prematura all'inizio della loro scelta. Pag. 16
  La morte di Gioè, però, a differenza di quella di Ilardo, che è stata un assalto di killer, una traccia potrebbe averla lasciata. La Direzione investigativa antimafia – se non vado errato, poi i colleghi consulenti potranno rapidamente localizzare gli atti e individuare i documenti – redasse, a firma del dottor Micalizio, un rapporto di analisi sullo stragismo negli anni 1992-1993. Si tratta di un rapporto di analisi che percorre la strada dell'ibridazione di cosa nostra, che diventa un'organizzazione vicina ad ambienti della destra eversiva, che si interseca con strategie massoniche e leghiste (la Lega nazionalpopolare di cui vi ho parlato, che vuol dire Delle Chiaie) e con le strategie di alcuni ambienti massonici.
  Quel rapporto l'avrò letto dieci volte e non sono mai riuscito a capire – ve lo dico con grande serenità – come una grande intelligenza qual era quella che l'aveva firmato (probabilmente ve ne erano state altre) avesse potuto elaborare quelle analisi criminali. Il problema l'ha risolto Gioacchino La Barbera, quando ha detto che Gioè aveva collaborato.
  C'è sempre stata una diatriba tra i magistrati: la Procura nazionale deve avere una propria visione strategica oppure no? Onorevoli commissari, questo problema originario, molto discusso ai primordi della DNA, il tempo avrebbe dovuto superarlo. Un'entità che dispone di venti magistrati (oggi sono ventidue e si occupano anche di terrorismo), che ha un Procuratore nazionale che viene scelto per spiccate caratteristiche, non può non avere una sua propria idea su ciò che accade. Non può non esserci un «sapere» della Procura nazionale antimafia, perché è la legge che lo impone. E alla legge si obbedisce.
  Ce lo raccontava Socrate: alla legge si obbedisce. La legge alla quale noi abbiamo obbedito con la diligenza e l'onore che ciascun pubblico funzionario deve osservare è esattamente la legge che impone di raccogliere dati, notizie e informazioni e di elaborarli. Il concetto di elaborazione indica un processo di accumulazione, sviluppo e analisi. Poi si può essere empirocriticisti o si può essere un'altra cosa, ma è sempre un lavoro che produce un sapere. Non si può negare un sapere proprio della Procura nazionale antimafia, altrimenti si nega il senso del coordinamento e del collegamento. Il cammino voluto dal PNA Grasso doveva proseguire ma così non è stato. Per ora. Punto.
  Sono molte le mie scuse perché ho abusato della vostra pazienza, ma queste sono pagine che coinvolgono la vita di ciascuno di noi, se mi è consentito, in quest'Aula. Io sono onorato e consapevole che sto parlando di queste cose davanti al Parlamento della Repubblica, a cui ho giurato fedeltà.

  PRESIDENTE. Ringrazio molto il dottor Donadio di questa condivisione consapevole e responsabile con la Commissione. Ho alcune domande. Sono già iscritti a parlare gli onorevoli Sarti, Lumia e Mattiello, ma un paio di domande le devo fare.
  La prima è: a chi si faceva il favore?

  GIANFRANCO DONADIO, magistrato. Quando?

  PRESIDENTE. Lei ha detto: «Abbiamo dovuto fare il favore a quelli lì». Non mi ricordo adesso con precisione chi l'abbia detto, ma indubbiamente questa è...

  GIANFRANCO DONADIO, magistrato. Quello è Guttadauro. Stiamo parlando dell'omicidio Dalla Chiesa e del contestuale e sincronizzato intervento a Villa Pajno. La mia risposta è: il favore fu fatto a chi voleva riprendersi le carte, signora presidente.

  PRESIDENTE. Qui si arriva ad Aldo Moro.

  GIANFRANCO DONADIO, magistrato. Esattamente.

  PRESIDENTE. Questa domanda in questo processo di ibridizzazione ce la dobbiamo fare sempre, secondo me.

  GIANFRANCO DONADIO, magistrato. Sì, perché la definizione antropologica di cosa nostra è un handicap. Noi abbiamo perduto tanto tempo a parlare delle pungiture e dei giuramenti.

Pag. 17

  PRESIDENTE. Questo favore a chi lo si doveva fare?

  GIANFRANCO DONADIO, magistrato. Vorrei anche aggiungere che questa equazione di cosa nostra come elemento di contaminazione reciproca con determinati ambienti della Democrazia Cristiana va assolutamente riletta. Il fenomeno è più complesso.

  PRESIDENTE. Posso aggiungere l'altra domanda? L'altra domanda è se c'è il coinvolgimento di frange di terrorismo nero.

  GIANFRANCO DONADIO, magistrato. Esattamente.

  PRESIDENTE. Dove si incrociano gli interessi?

  GIANFRANCO DONADIO, magistrato. Questa è una fondamentale questione. Vediamo quando nasce questo coinvolgimento.
  Ci sono delle aree della criminalità organizzata che hanno una vocazione politica manifesta, certa, anche se non è stata valorizzata in sede processuale. San Lorenzo è un posto frequentato dai Pieds-Noirs e nella mafia di San Lorenzo c'è una percentuale significativa di esponenti della destra estrema e di quella meno estrema.
  Penso poi alla banda Missi – Missi fu coinvolto, condannato in primo grado e assolto in appello per il Rapido 904 – definita anche come un'articolazione meridionale della Fenice di Rognoni.
  Missi a casa sua conservava il busto di Mussolini. Le svastiche impresse sul corpo di tanti importanti esponenti criminali non sono il collateralismo della mafia con la DC. Il collateralismo c'è e trova una spiegazione in ciò che Pizzorno ci ha raccontato in tema di rapporto tra centro e periferie. Forse, però, si è enfatizzato il peso elettorale della mafia.
  Bisogna fare i conti con questa mafia che gioca un ruolo in politica. Io ho parlato con tanti mafiosi e questo interrogativo l'ho posto quando l'andamento del colloquio lo consentiva. Mi dicevano: «Noi possiamo anche votare per un partito, preferibilmente di governo, ma il nostro cuore batte altrove». Io ho inteso che batte verso la destra estrema.
  Un processo di indottrinamento – oggi si direbbe di radicalizzazione – non ha forse riguardato Bagarella? Dobbiamo immaginare un Bagarella che studia Evola! Il suo rapporto con Santo Mazzei ci conduce in un universo criminale contiguo all'estremismo. E trova una palestra, la cosiddetta banda della lancia termica, un raggruppamento temporaneo di imprese criminali che compie delle imprese ardite nel campo delle attività predatorie: svuota il caveau. Hanno tutti a che fare con il mondo delle opere d'arte e hanno tutti a che fare con l'estremismo militante di destra.
  Un collaboratore di giustizia mi disse: «Dottore, le operazioni della banda della lancia termica, considerata la geopolitica mafiosa, non si sarebbero potute fare mai, perché nel frattempo si dovevano ammazzare gli uni con gli altri». Ma tra nemici irriducibili c'era un quid unificante: la collocazione nella destra estrema e i legami con i servizi.
  Rampulla era uno della termica. Ilardo, che racconta questi fatti, è uno della termica. È una sorta di meta-banda in cui c'è una componente legata ai servizi segreti deviati. Bisogna esplorare l'ambiente prevalentemente del servizio militare del SID e la formazione di queste entità esterne e, quindi, rileggere pagine poco note dei rapporti tra alcuni elementi dei servizi e malavita.
  Vi accennavo alla storia della Falange Armata. Quando abbiamo lavorato sulla Falange Armata... Ma vorrei andare in seduta segreta.

  PRESIDENTE. Propongo di passare in seduta segreta.

  (Così rimane stabilito. La seduta procede in seduta segreta, indi riprende in seduta pubblica)

  GIULIA SARTI. La ringrazio moltissimo dottor Donadio, ho una serie di domande su alcune questioni che non abbiamo ancora sviscerato in questa bella audizione. Prima Pag. 18di tutto con riguardo a «Faccia da mostro», perché il ruolo di Aiello, a mio parere, è importante per capire un pochino anche l'evoluzione di altri omicidi che ci sono stati, non soltanto delle stragi di cui abbiamo parlato fino adesso e, quindi, capire un pochino l'evoluzione all'interno delle forze dell'ordine del poliziotto Aiello, il suo percorso di formazione all'interno della Polizia, dove ha prestato servizio, chi erano i suoi dirigenti, dove si ritrovano quei dirigenti.

  GIANFRANCO DONADIO, magistrato. È molto complicata la domanda, la ringrazio molto, però la domanda è molto difficile. Nella letteratura in materia di grande criminalità siciliana, Aiello compare attraverso le parole di Ilardo. Ilardo, come vi raccontavo un attimo fa, dice a Riccio, che gestisce questo processo di avvicinamento ad una formale collaborazione che mai si compirà, che alcuni omicidi eccellenti sono stati compiuti da un ex poliziotto. Un disgraziato padre, che si chiama Vincenzo Agostino, ha narrato un particolare degli eventi che precedettero la barbara uccisione del figlio e l'ancora più barbara uccisione della nuora, che portava in grembo una creatura. Ha detto che il giorno prima, o in un tempo estremamente prossimo al duplice omicidio, mentre stava in una baracca in Villagrazia di Carini, era stato avvicinato da due personaggi, l'uno era disceso da una motocicletta, l'altro era rimasto a bordo della motocicletta. Poiché il figlio era assente, il discorso tra chi chiedeva di Agostino e il padre diceva «non c'è» fu brevissimo. L'altro, quello della motocicletta, dice «andiamocene». Poche battute. L'altro ha un volto deturpato. La vicenda dell'omicidio di Nino Agostino e di sua moglie è stato il mio primo esercizio e condusse ad un atto d'impulso – poi la Commissione valuterà se, come e quando acquisire – molto lungo, analitico. Furono necessarie molte settimane di lavoro, anche perché l'impatto con il processo Agostino fu complesso, innanzitutto fu necessario indicizzarlo. In questo primo atto d'impulso venne evidenziata la circostanza che Nino Agostino, parlando con un suo collega di lavoro, durante una battuta di pesca, alla quale molto stranamente partecipava con la sua arma in dotazione infilata nel costume, gli aveva confidato che si preoccupava dei rapinatori. Scopro che il termine «rapinatori» indicava i poliziotti dell'antirapina. Quindi, con un po’ di logica, viene fuori l'idea che questo poliziotto «brutto» potesse essere un poliziotto al lavoro a Palermo (ce l'aveva anticipato peraltro Ilardo) e potesse avere a che fare qualche cosa con la sezione antirapina. L'identificazione di Aiello, se non vado errato, cade nel 2007 allorquando, grazie alla bravura del personale della DIA di Palermo, in particolare del dottor Nicola Franco, si giunge a chiudere il cerchio in ordine ad una concreta ipotesi di lavoro, e si trasmette alla procura di Palermo un «seguito» al primo atto d'impulso D'Agostino, con le generalità di Aiello, un poliziotto già in servizio a Palermo con un evidente inestetismo al volto.
  Ma, signora presidente, quante persone con la faccia tagliata ci possono stare in una questura? Sono quindi passati diciassette anni per dare un nome a questo personaggio. La DNA scrive a Palermo e a Caltanissetta che «è sommamente probabile che un personaggio con tali caratteristiche somatiche, appartenente alla Polizia di Stato potrebbe rispondere al nome di Giovanni Aiello». Nel frattempo avevamo acquisito il fascicolo personale con una fotografia di questo signore, fatta prima del suo incidente, quindi con il volto intatto. Questo è il nostro output. Parte subito per la procura di Palermo. Ma a Palermo questo atto di impulso si perde, scompare nel nulla. E si apre un'altra serie di problemi. Io non so se e quando quella nota con le generalità di Aiello sarà ritrovata.
  Chi era veramente questo poliziotto? Naturalmente si parte dal foglio matricolare. Quello di Aiello attesta delle cose interessanti (spero di soddisfare la sua precisissima domanda). Aiello entra in Polizia intorno al 1965. E finisce in un reparto particolare della Polizia, il reparto mobile di Padova, connotato da certe pulsioni nostalgiche verso il regime fascista. Poi sappiamo che c'è un evento traumatico. Il ferimento in servizio di questo personaggio lo desumiamo dal foglio matricolare. Questa Pag. 19 è un'informazione per tabulas, qui il documento parla. La sorte di quegli atti di impulso fu piuttosto negativa. Dopo ognuno di essi ecco puntuale una fuga di notizie. Tanto che avevo in ufficio una cartellina in cui infilavo articoli più o meno corrispondenti al contenuto degli atti di impulso.

  PRESIDENTE. Gli atti di impulso a chi erano...

  GIANFRANCO DONADIO, magistrato. Il primo atto di impulso posto in essere nell'ambito dell'omicidio Agostino, fu spedito alla procura di Palermo, e fu un atto d'impulso complesso, lungo, analitico, suddiviso in capitoli. Purtroppo accade una cosa molto strana. Quell'atto venne in parte discoverato – diciamo noi – in un'udienza ex 409. Ma questi sono tecnicismi e implicano scelte che io non intendo sindacare. Il secondo atto di impulso è quello che completa il nostro lavoro e dà il nome e il cognome, e non si trova più. A quel punto, quello che diventa delicato nella gestione di questo flusso di informazioni è che la stampa comincia a pubblicare i particolari: prima si dice che c'è un poliziotto, poi si dice gira con una Range Rover. La situazione induce a preparare un lungo e ulteriore atto d'impulso che raccoglie la carriera di Aiello, il quadro relazionale di Aiello, tutto quello che è disponibile in riferimento alle stragi. E navigando nelle banche dati viene fuori che, negli ambienti della grande criminalità, qualcuno potrebbe essere entrato in contatto con questo signore. Si giunge a un personaggio che si chiama Vito Lo Forte. Lo Forte è un narcotrafficante dell'Arenella, vicino a tutti i personaggi dell'Arenella, ovviamente. A un certo punto si pente, non per una scelta etica o religiosa, si pente perché lo volevano ammazzare. Come ben ricorderà puntualmente Pino Marchese che, nell'ambito dei collaboratori di giustizia è molto quotato per essere una fonte dichiarativa molto stabile. Lo Forte racconta di questo uomo brutto. Ricordo che in questa fase, signora presidente, ogni volta che si parla di questo personaggio, i miei interlocutori sono inquieti: «ma lei perché ha deciso di farmi ammazzare?». C'è questo strano refrain da più parti, come se questo soggetto fosse un demonio. Bisogna entrare nella logica di un criminale. C'è un magnum innominandum se c'è un altro Stato che uccide. È tutto qui. Quelli sanno che c'è una forza occulta che uccide. D'altra parte, sappiamo che anche nelle carceri si commettevano omicidi. C'era la possibilità di essere uccisi fuori e dentro. Da ciò un vero terrore. Torniamo al nostro personaggio. Aiello viene intervistato da due giornalisti. Io ero a Bruxelles, dove riesco a procurarmi il giornale, e mi soffermo su alcuni particolari. Con Bolzoni e Palazzolo, Aiello parla di un suo presunto coinvolgimento nel piano Solo. Bisogna tentare di capire, perché in genere si dice che il piano Solo fu un piano dei Carabinieri. Allora per fare analisi criminale occorre studiare il piano Solo. E quando cominciamo a ragionare sul piano Solo, si scopre che non era un piano soltanto dei Carabinieri, perché in esso era mobilitata la parte militare della Polizia, esattamente i reparti padovani, i reparti mobili, che potevano essere tranquillamente assimilati, sotto il profilo della massa da impiegare, ai reparti inquadrati nell'Arma. Aiello è un pescatore, è veramente un pescatore e, quindi, ha a che fare con le esche. E ne lancia una con quel riferimento al piano Solo.
  E qui dovremmo passare in seduta segreta.

  PRESIDENTE. Propongo di passare in seduta segreta.

  (Così rimane stabilito. I lavori procedono in seduta segreta, indi proseguono in seduta pubblica.)

  GIUSEPPE LUMIA. Anch'io ringrazio il dottor Donadio. Sono sempre stato convinto, naturalmente, che c'è un filo lungo che accompagna la stagione delle stragi e che la vicenda dell'Addaura sia un punto centrale dell'avvio di una fase nuova della stagione delle stragi, che coincide con una crisi della prima Repubblica di un certo spessore che, poi, si chiuderà con la parallela chiusura del maxi-processo nel ’92 con la sentenza della Cassazione. Pag. 20
  Falcone disse in quell'occasione «menti raffinatissime». Era parco di espressioni, non era una persona che sparava nel mucchio, non usava iperboli, però quella volta disse quella frase «menti raffinatissime». Ricordo – anche perché l'ho scritto in un atto della Commissione antimafia – che Angelo Fontana, che lei ha citato, ha ribadito il coinvolgimento nella fase esecutiva dell'attentato di mafiosa appartenente alla famiglia dell'Acqua santa, guidata dai Calatolo e di Resuttana, guidato dai Madonia.
  Per tornare a quel ruolo che ha avuto il famoso cortile Pipitone, è il contesto – appunto – delle presenze estranee all'organizzazione di cosa nostra, non il killer di cosa nostra ma il sicario, cioè un probabile soggetto esterno all'organizzazione di cosa nostra. Io, intanto, volevo appunto sapere che idea si è fatto e lo dico – e qua mi rivolgo alla presidente – con l'amara constatazione che presto andrà in prescrizione (così almeno qui ci è stato comunicato in una audizione) la vicenda proprio dell'Addaura. Io considero questo un fatto gravissimo su cui si rischia di mettere una pietra tombale da un punto di vista giudiziario che, naturalmente, non esclude un lavoro della Commissione antimafia che vada avanti. Lei ne è stato consulente, sa le potenzialità che ha la Commissione che, quindi, è in condizione di potere portare avanti un lavoro di scavo e di inchiesta ma, venendo meno con la prescrizione anche quell'altro profilo, comunque è una ferita per la nostra democrazia di portata molto, molto grave e, quindi, da questo punto di vista volevo conoscere la sua opinione.
  Poi, a un certo punto, lei ha citato le due figure di Rampulla e Gioè, e io ci aggiungerei Di Carlo, perché Di Carlo parla di Gioè. Nei colloqui investigativi Di Carlo è stato mai ascoltato? Lo stesso Rampulla ha avuto mai la possibilità in colloqui investigativi di essere ascoltato? Perché io sono d'accordo che sono delle figure chiave per potere comprendere e potere capire quel tipo di rapporto che lei definisce di ibridazione di cosa nostra. Naturalmente lì si possono fare tante letture, si può fare la lettura che cosa nostra decide di passare alle stragi, ha bisogno di un apparato militare-organizzativo e utilizza dei server, oppure a contrario, e che questa ipotesi contraria che tanto spaventa, che tanto preoccupa, che tanto terrorizza dovrebbe essere in modo laico di uno Stato democratico approfondita, scandita, scandagliata e poi, magari, esclusa, ma non a contrario. Senza preconcetti e senza paura e pregiudizi.
  Poi lei, a un certo punto, ci racconta di questi fratelli di Mascalucia, Di Stefano se non sbaglio, che erano dei personaggi che erano utilizzati dalla stessa magistratura. Da questo punto di vista sarebbe interessante capire che tipo di lavoro hanno fatto, chi li ha utilizzati, quali sono questi magistrati con cui erano in rapporto, se poi questi stessi si sono occupati delle stragi. Insomma, sarebbe anche quello un filone interessante per comprendere.

  GIANFRANCO DONADIO, magistrato. Senatore Lumia, mi consenta, rispetto all'enormità di tutto il resto, questa cosa inquietante è parva materia.

  GIUSEPPE LUMIA. Certo. Quindi mi fermo per ora qui perché voglio fare altre domande, ma mi interessava appunto partire dall'Addaura, che era una questione molto importante e poi chiuderò velocemente con un'altra domanda.

  GIANFRANCO DONADIO, magistrato. Si arriva all'Addaura partendo dall'omicidio Agostino, almeno questa è la mia esperienza di magistrato delegato alla materia.

  GIUSEPPE LUMIA. E Emanuele Piazza?

  GIANFRANCO DONADIO, magistrato. Si arriva all'Addaura e a Emanuele Piazza partendo da Agostino, la risposta è ora integrata con la sua considerazione. Perché negli atti del processo Agostino c'è traccia di una trasmigrazione di atti, peraltro affidata alle cure di Arnaldo La Barbera (sic), di una trasmigrazione di atti da Caltanissetta a Palermo. Il processo Agostino è istruito dalla magistratura palermitana, la strage dell'Addaura è istruito dalla magistratura nissena. Le devo dire che quando Pag. 21la collega Boccassini diventa titolare del fascicolo dell'Addaura sente come testimoni i due poliziotti che vigilavano la casa al mare di Falcone. Colgo nel verbale redatto da par suo dalla collega Boccassini un particolare importante: chiede la collega a questi due testimoni «siete stati mai sentiti nella qualità di testimoni, avete mai fatto dichiarazioni?». Corre l'anno 1992. Questi due dicono no. Insomma i testimoni vedono il PM nel ’92. Ma c'è una cosa molto strana nella vicenda dell'Addaura, di difficile comprensione, il primo rapporto giudiziario, e qui dovremmo passare in segreta.

  PRESIDENTE. Propongo di passare in seduta segreta.
  (Così rimane stabilito. I lavori proseguono in seduta segreta, indi riprendono in seduta pubblica.)

  GIANFRANCO DONADIO, magistrato. Si metta nelle condizioni di chi studia per fare analisi. Il foglio è bianco, tabula rasa, c'è un rapporto che descrive la dinamica dell'allontanamento di due sommozzatori. Quello che appare è che i due sommozzatori siano i dinamitardi. Solo che noi abbiamo il rapporto che poggia non sulla testimonianza dei due poliziotti di vigilanza, ma su due relazioni di servizio, quindi il materiale che costituisce il rapporto preliminare consiste in due relazioni di servizio, formate da questi due poliziotti che stavano lì di guardia che, fortunatamente, insieme a quelli della scorta, scoprono quest'ordigno, vero, potente, potentissimo.
  Solo che la strage dell'Addaura ha un problema di calendario, di datazione, perché la strage dell'Addaura è avvenuta il giorno prima. L'attentato è avvenuto il giorno prima ed è stato scoperto il giorno dopo, e quando era tutto pronto Falcone c'era, quindi l'operazione era perfetta, non una simulazione.
  Analizzando i dati descrittivi del rapporto preliminare e la narrazione delle due relazioni di servizio, partendo da un foglio bianco, c'era qualche cosa che non quadrava: non sembravano perfettamente coincidenti i dati descrittivi del rapporto e i dati dichiarativi contenuti nelle relazioni. Qualche cosa fu più chiara leggendo gli esami testimoniali formati dalla collega Boccassini, quando cioè i due dissero «non siamo stati mai esaminati», perché nel passaggio successivo aggiunsero «siamo stati sentiti da un alto funzionario della Polizia a verbale» e abbiamo poi formato una relazione di servizio. Io le posso dire che i due SIT formati da questo alto funzionario della Polizia non sono stati mai trovati. C'è un'asimmetria tra il rapporto preliminare e i contenuti delle relazioni. Ritengo che i due SIT vennero fatti da Arnaldo La Barbera, penso che sia stato lui l’«alto funzionario».
  Quando ci si occupa più diffusamente del profilo di Aiello, fonti dichiarative – ma questo è notissimo, perché c'è stata un'esondazione di queste dichiarazioni – hanno individuato in Agostino e in Piazza gli attori di un'incursione salvifica, che ha salvato la pelle a Falcone. In verità, unitamente ai collaboratori e poi ai vari colleghi con i quali poi ho lavorato, siamo andati a fare uno scavo profondo. Ricordo che, tra le altre cose, siamo andati a cercare e a classificare come dato – quindi siamo nell'alveo del 371-bis – siamo andati a prelevare da un archivio le cassette di tutti i telegiornali del funerale di Agostino. Il volto di Giovanni Falcone dinnanzi le bare me lo ricordo bene, e quando è venuto fuori che aveva pronunziato – e questo è più che verosimile – la frase «devo la vita a questo ragazzo» vuol dire che Falcone aveva decifrato, da par suo, l'evento. È un evento che non poteva essere disgiunto dal contesto territoriale, perché un'operazione del genere, all'Addaura, la si può fare solo se c'è la mafia dell'Arenella e se c'è la mafia dell'Acqua santa. Però mi consenta – ma credo che la sua domanda sia stata orientata proprio a questa considerazione che sto per fare – che la frase delle «menti raffinatissime» sono un pezzo di quel periodo. Io una sola volta, in occasione del ventennale della morte di Giovanni Falcone, ho commentato questa vicenda in sede di commemorazione a Roma Tre, poi ho ripetuto in un colloquio di approfondimento con il direttore del TG 3, eravamo esattamente a vent'anni dalla morte, poi Pag. 22sono stato sempre zitto. Ma a vent'anni mi sembrava doveroso farlo. Falcone, a quell'inciso «menti raffinatissime» coniuga l'intelligenza di poteri occulti dello Stato, che è esattamente quello che dice Mannino a Minzolini. Mi permetto sommessamente di raccomandare la classificazione di quella intervista pubblicata dal quotidiano La Stampa. La nostra metodologia che, in verità, ritengo molto feconda, coniugava i dati giudiziari con una prospettiva di ricerca molto più ampia. Onorevole Lumia, queste cose ce le ha insegnate Falcone. Falcone ha seminato i germi della verità, insegnando a tanta gente come si fa questo mestiere. E andiamo a beccare un'intervista di Mannino che è straordinaria e, secondo me, anche un po’ tagliata, perché poi per i tipi del giornale... Non ho ritenuto di interloquire su questo punto né con Mannino né con Minzolini, Mannino disse tutto quello che doveva dire esplicitando e approfondendo il concetto di integrazione tra mondi. Oggi siamo abituati con linguaggio di mondi di sopra, di sotto, eccetera, ma all'epoca era chiarissimo che i mondi erano due: erano cosa nostra e gli ambienti deviati degli apparati dello Stato.

  GIUSEPPE LUMIA. Circa Oliviero Tognoli, l'imprenditore?

  GIANFRANCO DONADIO, magistrato. In realtà l'Addaura ha un background. Corre l'anno 1989, Falcone fa il procuratore aggiunto a Palermo – quanto poco fosse amato Falcone è inutile ripeterlo – gestisce indagini complesse. Se non vado errato, l'evento più importante di tutti alla fine degli anni Ottanta, colto con una lucidità straordinaria da Giovanni Falcone, è una sorta di rivoluzione economica nei mercati criminali. Perché alla fine degli anni Ottanta ricordiamoci la vicenda della Big John, la Commissione parlamentare antimafia ha scritto una relazione interessante sui cantieri navali di Palermo. Avvenne una rivoluzione nel mondo dell'economia criminale e Falcone la colse come una macchina fotografica, fece subito un'istantanea: l'alleanza di cosa nostra, prevalentemente corleonese, con i cartelli colombiani aveva determinato l'apertura di una nuova rotta da ovest verso est, una rotta della droga diversa dalla precedente, perché prima cosa nostra faceva eroina ed era un soggetto leader nel mercato mondiale dell'eroina. Quando si gestisce l'economia criminale dell'eroina, l'eroina viaggia da est verso ovest, ma i soldi fanno il cammino opposto. Falcone capisce che, con la rivoluzione della cocaina sta cambiando tutto. Innanzitutto cosa nostra diventa una potenza planetaria, e queste sono proprio le parole di Falcone, me le ricordo scolpite, certamente ne ho parlato con il mio capo (intendendo ovviamente il Procuratore). Esplorò il passaggio del denaro. In quei giorni nasce il processo «Big John», perché un Galatolo, che si chiama Joseph, si pente. Nei pressi di Miami un poliziotto bravo e noto, Alesandro Panza, sviluppa questa indagine e c'è la rotta del denaro. Il problema che si pone Falcone è: questa cocaina cosa nostra come la paga? Perché cosa nostra non la sa pagare la cocaina, non sa come si fa a mandare i soldi in Colombia, deve comprare il know how.
  E qui vediamo gli esterni. Questa prestazione criminale la acquista, e 10 milioni di dollari, attraverso i Madonia, attraverso Gaetano Scotto, tutta questa gente qui, prendono la strada dell'America, e l'operazione viene gestita a Milano da un signore che si chiama Joseph Lottusi, un ragioniere che si occupa di esterovestizione. Faceva illeciti valutari. Si becca oltre vent'anni di reclusione e non dice mai una parola. Cambia tutto. Poi entrano in campo intermediari finanziari molto esposti, in particolare una società finanziaria che si chiama FIMO, e le indagini volute da Falcone sono tempestive, approfondite, estremamente articolate.

  GIUSEPPE LUMIA. Le chiedevo poi di questa vicenda Di Stefano e di Di Carlo, se mai Di Carlo è stato sulla vicenda Gioè e su questa vicenda è chiamato in causa, ben interrogato.

  GIANFRANCO DONADIO, magistrato. A mia memoria personale Di Carlo è un collaboratore che ha reso le stesse dichiarazioni. Poi, quando ha smesso di rendere Pag. 23dichiarazioni, ha scritto libri, e quindi è un collaboratore «esteso». Io ho una memoria di un particolare che riguarda l'Alto commissario antimafia, che è l'ex questore di Roma nei giorni del sequestro di Moro. Ricordo che le considerazioni di Di Carlo non furono molto tranquillizzanti in proposito. Però di Gioè, per quanto riguarda il lavoro che ho condotto io e che abbiamo condotto noi, questa relazione, questa esternazione non gliela posso confermare.

  GIUSEPPE LUMIA. Io vorrei conoscere la sua opinione sulle indagini fatte intorno agli archivi dei servizi. Io sono sempre stato convinto che bisognava procedere con un atto di sequestro, intervenire direttamente, piuttosto che farsi dare da loro le cartelle...

  GIANFRANCO DONADIO, magistrato. Mi perdoni l'interruzione. È addirittura un fatto pregiudiziale. È un limite al contributo che un magistrato – sebbene per qualche tempo fuori ruolo – che non posso varcare, quello della valutazione del lavoro giudiziario di altri magistrati. Non posso fare una valutazione sul lavoro investigativo di un ufficio. Le posso dire che si curano i malati o le malattie, diciamo che ci occupiamo della malattia. C'è un problema di approccio all'archivistica dei servizi d'informazione, perché tutti sanno che le strutture archivistiche dei servizi di informazione non sono immediatamente evidenti. Esiste una polemica fondata sulla effettività della perfetta osservanza del versamento di atti importanti, ormai di interesse storico, agli Archivi di Stato, e sappiamo che i criteri di classificazione rendono intraneo o estraneo un fatto a seconda di come si mette il titoletto ad un fascicolo. Sicché, come nelle indagini bancarie – e qui le do una risposta sul piano metodologico, onorevole Lumia, non posso dirle altro – si comprende qualche cosa andando in banca, così nelle indagini che riguardano masse di informazioni elaborate e organizzate dai servizi, si comprende qualche cosa esaminando gli atti. Perché, ad esempio, un documento di un servizio di intelligence ha delle serie alfanumeriche di classificazione e, se io chiedo un documento sul signor X, mi viene consegnata un'elegante cartella con un verbale di consegna finemente redatto. Se me lo prendo così funziona così, se poi chiedo «ma quella serie alfanumerica che è in alto a sinistra che tipo di appartenenza e di familiarità documentale comprende?» allora è tutta un'altra storia. Ma le ho risposto sul piano del metodo, non posso fare alcuna considerazione sul modus operandi giudiziario.

  DAVIDE MATTIELLO. Intanto ringrazio anche in questa sede il dottor Donadio, poi vorrei ribadire – ma forse stava già nella introduzione o forse nelle conclusioni che avrebbe fatto la presidente – l'importanza di acquisire quei 36 atti di impulso, cosa della quale avevamo già parlato in altre circostanze, e di acquisire appena disponibile l'autopsia su Giovanni Aiello.
  Invece, dottor Donadio, queste domande – come ha fatto per le altre – valuterà lei come affrontarle. La prima: in questa cornice che lei ha ben tratteggiato, proprio gli ultimi passaggi peraltro, parlando di banche di riciclaggio e di oscuri ragionieri condannati a vent'anni. Dell'Utri e Mangano come si collocano in questa cornice? Perché rischiamo di non parlarne mai.

  GIANFRANCO DONADIO, magistrato. Solo in riferimento ad atti discoverati. Posso ricordare, e devo ricordare perché è mio dovere farlo in questa sede, che nel corso del procedimento appello su rinvio – che se non vado errato veniva celebrato a Palermo – nei confronti di Dell'Utri Marcello, per un'iniziativa di impulso della Direzione nazionale antimafia fu rappresentata al pubblico ministero generale l'opportunità di escutere in aula due soggetti, che erano stati esaminati su vicende collaterali, che avevano fornito elementi che apparivano rilevanti e di interesse. Un personaggio appartenente alla camorra e un personaggio appartenente alla mafia cosiddetta perdente. Ricordo bene il nome e il cognome del secondo, Gaetano Grado, e ho un dubbio – ma posso rimediare subito – sul primo, che si chiama Rossi di cognome. Questo me lo ricordo bene, ma il nome di battesimo mi sfugge. La cosa era nata così, Pag. 24che nell'ambito del lavoro del gruppo Vigna, in una conversazione tra colleghi, avevamo effettuato la valutazione di talune esternazioni non facilmente collocabili in sede giudiziaria (quindi c'era una difficoltà di andarli a cercare) di questo Rossi, che aveva fatto un cenno molto generico sulle ipotesi che coi fatti di Capaci avessero a che fare ambienti dell'estremismo di destra. Grazie all'attenzione e alla pazienza di altri colleghi, in particolare del collega Di Pietro, si riesce a inquadrare la fonte dichiarativa e si effettua un colloquio investigativo per valorizzare quest'esternazione. Il target è stragi e componenti esterni. Questo Rossi, improvvisamente – e fu una cosa anche del tutto imprevedibile, e ne posso riferire perché ha avuto un vaglio dibattimentale addirittura – parlò del fatto che lui si autoconsiderava più importante di Spatuzza. È bene avere una buona concezione di se stessi, evidentemente ce l'hanno pure i criminali. Pensano una sorta di graduatoria per vedere chi è più importante. (Premetto che tutto si fa in ambiente registrato, il colloquio investigativo si registra dall'inizio alla fine. Io quando ho fatto il colloquio investigativo a Lo Giudice, ho fatto girare – come sempre peraltro – il nastro pure quando Lo Giudice è andato in bagno, per evitare pure quel rumorino nell'interruzione della vista, tanto per intenderci). Quindi, all'atto del colloquio, davanti a un registratore, ho detto «guardi signor Rossi, lei intende fare questa esternazione, io la accoglierò, ora le dico prima perché, per quali ragioni abbiamo ritenuto opportuno fare un colloquio investigativo, che non è fonte di prova. Lei può valutare se esternare le cose o non farle. Le prego però, se decide di parlare, di dire la verità, perché altrimenti creiamo solo rumore e, poi, alla fine, io sarò attento a raccogliere anche la sua spontanea esternazione».
  Così avviene, e alla fine lui racconta che doveva ammazzare Vittorio Mangano (da non confondere col ben più importante Antonino Mangano) e che era stato avvicinato dalla mafia perdente per questo. Allora il problema è che questo signore doveva ammazzare lo stalliere di Arcore. Un omicidio non consumato, perché lo stalliere di Arcore è morto diversamente. Lui, con quell'enfasi che è degna di una certa letteratura napoletana, disse «essendo io un superkiller...» Ma, onorevole, quello superkiller lo era veramente, perché era uno operativo nel gruppo di fuoco del nord di Napoli e di omicidi ne aveva fatti eccome. Ed era stato avvicinato da un tale (Tanino) Grado. Dice: «il signor Grado, della mafia siciliana, mi ha chiesto di fare questo omicidio». Chiedo il perché e – non so se lo dice lui, ma poi parlo con Grado, ovviamente – il perché è nell'interesse ad uccidere questo qui, e bisogna fare in modo che chi lo uccide non sia un mafioso, una cosa semplice.

  PRESIDENTE. È attendibile?

  GIANFRANCO DONADIO, magistrato. Certamente, siamo al livello del Linneo, onorevole presidente.
  E questo è l'approccio del multitasking, perché si fa quell'approfondimento anche perché il contesto in cui parla Rossi è un contesto in cui c'è Contorno, che è il cugino di Grado... Noi abbiamo interesse a capire se c'è una componente eversiva nelle stragi, quindi si deve ampliare il quadro. Grado, che è un personaggio mafioso con la M cubitale, collaboratore di giustizia che io ritengo molto ben orientato nel suo modo di affrontare le cose (e di tacerle), riconosce di essere stato il mandante di questo omicidio, che non verrà mai effettuato perché nel frattempo i corleonesi vincono la partita. E dice Grado – e qui è lui che parla, io non faccio valutazioni – che il motivo per cui la mafia perdente voleva ammazzare Mangano, era che Mangano aveva le cosiddette consegne, cioè conosceva tempi e modalità di flussi di denaro dalla mafia verso Dell'Utri e suo tramite verso società facenti capo a Berlusconi. Queste sono le parole che dice e che vengono verbalizzate.
  C'è un problema, che nel frattempo c'è un processo Dell'Utri e allora si fa una valutazione di tipo tecnico. Bisogna ritagliare quel segmento e avvertire il pubblico ministero, perché valuti. Cosa che avvenne. Devo dire che, per quello che so – perché Pag. 25poi il verbale è stato facilmente esaminabile nelle fonti aperte – Grado si pone su una linea dichiarativa assolutamente coerente con quello che era accaduto nel colloquio investigativo.
  Tengo a precisare, in generale, che i flussi dichiarativi non sono sempre omogenei, tant'è vero che del codice, in sede di formazione della prova su elementi dichiarativi, si prevedono le contestazioni. Quando si fa un colloquio investigativo che non va a formare una prova, ma è solo un impulso, non si può neanche adoperare il problema dalla contestazione. Sicché non c'è alcun pathos su profili di asimmetria. Quando Spatuzza guarda per terra e non vede chi mina la 126, qualche problema ci sarà, perché uno che fa il killer non guarda per terra, perché bastano due secondi per morire. Quindi ci sono dei problemi nelle esternazioni dei pentiti, ci sono sempre stati e ci saranno. Grado va dinanzi alla corte e ripete questa storia. La corte, però, fa una censura radicale all'attendibilità di Grado. Dimenticavo di dirlo. La censura è radicale. Infatti Grado pronunzia un proemio, un'orazione ogni volta che parla, dice di essere contrario alla droga, è proprio un'idea fissa, tant'è vero che, ogni volta che ho avuto modo di confrontarmi con questa fonte, dice «io sono contrario alla droga». Ora è molto strano che lo dica uno il cui fratello è uno dei più grandi narcotrafficanti della storia di cosa nostra, è inserito nel clan Bontate, che sono i più grandi navi narcotrafficanti della mafia. Ma Grado dice anche di fare altro, non dice di essere un cistercense, dice di fare ogni genere di attività criminale. Ci possono essere tanti motivi per cui un mafioso è contrario alla droga, ci sono anche vicende che io non ho voluto esplorare, perché non si fa lo scavo nella vita delle persone. La contrarietà di Gaetano Grado alla droga è una circostanza certamente smentita dal suo certificato penale, in cui si legge una condanna per partecipazione ad associazione internazionale – credo – finalizzata al traffico di stupefacenti. La corte, nell'ambito della sua autonoma valutazione dell'attendibilità di una fonte di prova dice: «io escludo dal novero delle fonti attendibili questo signore che dice di essere contrario alla droga e si è beccato una condanna per partecipazione all'associazione per traffico di droga».
  Id est, io non faccio nessuna valutazione, vi ho solo raccontato i fatti e vi ho detto che cosa si erano detti questo strano signor Rossi... e perché dovevano ammazzare Mangano. Poi Mangano è morto di altra morte e, fortunatamente, almeno questo omicidio non si è fatto.

  MARIO MICHELE GIARRUSSO. Una prima domanda. Lei, parlando della Falange armata, ha detto che avete trovato molto materiale fra i documenti archiviati e non quelli del processo a Roma.

  GIANFRANCO DONADIO, magistrato. Sì.

  MARIO MICHELE GIARRUSSO. È possibile che ci siano altri – tra virgolette – giacimenti di notizie, informazioni fra documenti archiviati in procure che si sono occupate di queste vicende?

  GIANFRANCO DONADIO, magistrato. Guardi, della Falange armata si è occupata la procura della Repubblica di Roma.

  MARIO MICHELE GIARRUSSO. Non mi riferivo solo alla Falange armata, in generale alle stragi di mafia e grandi delitti.

  GIANFRANCO DONADIO, magistrato. Dobbiamo tornare in segreto per favore.

  PRESIDENTE. Propongo di passare in seduta segreta.
  (Così rimane stabilito. I lavori procedono in seduta segreta, indi proseguono in seduta pubblica.)

  MARIO MICHELE GIARRUSSO. C'è una triste vicenda che lega Falange armata e i Graviano, che passa per due morti stranissime. Una era l'educatore carcerario di Opera, la cui prima rivendicazione era Falange armata (ci sono invece condanne definitive per gli esecutori, ma credo che sia riaperta adesso la questione dei mandanti), ma c'è un legame con i Graviano molto particolare, perché questo educatore era il compagno Pag. 26 della direttrice carceraria, credo dell'Aquila, che si è suicidata e che dirigeva il carcere – presumo – di Palermo, quando i Graviano sostengono adesso dai colloqui intercettati di aver avuto in carcere per diverse notti le mogli a disposizione a Palermo, tant'è che sono rimaste incinte. Questi filoni di come sia stato possibile... in un primo momento si era parlato di inseminazione artificiale, adesso abbiamo appreso da fonti aperte che, all'epoca, non era possibile portare fuori il seme di questi mafiosi e, quindi, la narrazione delle notti in carcere potrebbe essere realistico. C'è un collegamento fra queste morti? L'educatore, la Falange armata, la direttrice e i Graviano. È stata oggetto di qualche approfondimento?

  GIANFRANCO DONADIO, magistrato. Nessuno. Non conoscevo neanche questi sviluppi che lei ha avuto la cortesia di premettere nell'articolazione della domanda, quindi su questo non sono proprio in grado di rispondere.

  PRESIDENTE. Una domanda su tutto il pacchetto di intercettazioni Graviano non posso non fargliela. Che idea si è fatta?

  GIANFRANCO DONADIO, magistrato. Anche qui la mia risposta sarà carente, anzi certamente è carente, perché io non ho studiato questo materiale e, quindi, non mi avventuro. Però c'è il problema a monte su qual è il livello di consapevolezza che i mafiosi hanno, cioè qual è la valutazione del rischio di essere intercettati. A mio sommesso avviso, mio cauto avviso, i mafiosi sono sempre consapevoli di un rischio attuale, reale e continuo di intercettazioni. E il margine di sorpresa è veramente piuttosto ridotto, sebbene esistano delle circostanze in cui, per vicende contingenti, la intercettazione è in grado di assolvere a quella funzione di filtro, quindi di studio delle cose che si dicono, tant'è vero che quando ho avuto la possibilità di farlo, ma ormai era tardi, avevo cominciato, magari lavorando sulle fonti aperte, a cercare di capire che cosa volesse dire Riina. Perché indubbiamente quella è una fase in cui vi può essere un discorso spontaneo e genuino, determinato da un processo dialettico, due parlano, si arrabbiano, poi i Graviano sono capaci di questo. Più di una volta mi sono trovato come pubblico ministero a gestire i 41-bis, e so come ragionano. Può darsi che ci sia un contenuto spontaneo, può darsi pure che ci sia un contenuto non spontaneo, bisogna valutare e studiare tutto. Certe intercettazioni sono particolarmente genuine, inattese. La tecnologia ha fatto molti passi. Però nella mia esperienza professionale, alla fine, ritengo che quando si vanno a esplorare contesti così risalenti nel tempo, bisogna avere il realismo di dare per scontato che l'intercettazione può essere uno degli strumenti dell'indagine, ma non è lo strumento determinante.
  Occorre coniugare l'elemento storico-documentale con l'elemento dichiarativo, che è il vecchio modo di fare istruttoria condotto da un giudice che interroga, che si confronta, che poi fa una valutazione rigorosa del dichiarato. Purtroppo oggi – questo è un dato obiettivo – i processi sono straordinariamente affollati da tonnellate di intercettazioni.

  GIULIA SARTI. Molto brevemente, una valutazione sulla morte di Rina – non ne abbiamo parlato per niente – ma qualche considerazione sui nuovi assetti che ci saranno...

  GIANFRANCO DONADIO, magistrato. La morte di Riina è la fine di un ciclo vitale. Nuovi assetti ci saranno, non possono non esserci. L'organizzazione criminale cosa nostra non è estinta. È fortemente ridimensionata perché vi è stato un processo di erosione delle sue posizioni importanti nei mercati importanti. Ha perduto importanza nel traffico internazionale della droga (questo è un dato acclarato), soccombe in questa graduatoria rispetto alla ’ndrangheta che, proprio dopo le stragi, diventa soggetto leader nel mercato degli stupefacenti. Ma cosa nostra è un'organizzazione che ha una base territoriale e non può non rigenerarsi. Ancora una volta devo citare il Presidente Grasso, che in un intervento recente ha detto che questo è il problema, il problema della ricostituzione di questo organismo. C'è tutto un lavoro da fare, non è estinta e non si estinguerà certo con la morte di Riina.

Pag. 27

  PRESIDENTE. A parte la richiesta dell'onorevole Mattiello, gli atti di impulso a chi dobbiamo chiederli, al Procuratore nazionale o ce li fornisce lei?

  GIANFRANCO DONADIO, magistrato. No, signora presidente, non sono nella mia disponibilità giuridica. Io mi permetterei di fare un'osservazione: noi abbiamo un nuovo Procuratore nazionale antimafia. Io credo che sia opportuno dargli il tempo di fare queste valutazioni.

  PRESIDENTE. Non ce l'abbiamo noi.

  GIANFRANCO DONADIO, magistrato. Purtroppo mi rendo conto che il tempo fugge.

  PRESIDENTE Ci sarà una fase interlocutoria.

  GIANFRANCO DONADIO, magistrato. Esatto, che è affidata alla sensibilità interistituzionale. Vi renderete tutti conto che l'atto di impulso è atto proprio del Procuratore nazionale. I più significativi atti di impulso che io ricordo ora a memoria avevano tutti la firma del procuratore Grasso che, peraltro, non è più Procuratore, quindi neanche lui ha questa facoltà.

  PRESIDENTE. E altri atti da acquisire per ricostruire la stagione delle stragi?

  GIANFRANCO DONADIO, magistrato. Io credo che sia fondamentale acquisire, per quanto riguarda gli eventi stragisti, i cespiti informativi e documentali a disposizione della Polizia di Stato e dell'Arma dei carabinieri, con particolare riferimento agli atti della direzione centrale della Polizia di prevenzione (l'ex UCIGOS). Io credo che questa sia un'opzione strategica, credo che sia altrettanto rilevante l'acquisizione integrale degli atti sulla Falange armata e su Gladio. Soprattutto gli atti archiviati.

  PRESIDENTE. Gladio ce l'abbiamo dalla Commissione?

  GIANFRANCO DONADIO, magistrato. No, signora presidente, la situazione archivistica è molto complessa, abbiamo avuto tante difficoltà, solo in parte superate. C'è una scomposizione del quadro documentale. La Commissione Moro ha raccolto ciò che le interessava per Moro. Indubbiamente la Uno bianca è fondamentale se si accede alle ipotesi – ed è una ipotesi – che la strategia della destabilizzazione sia articolata sul territorio nazionale in fasi diverse ma convergenti e, non a caso, il legante generale era questa ossessiva rivendicazione della Falange armata. Vi sono situazioni di estrema importanza, io ricordo che chiesi e ottenni dalla DIA un report specialistico sui fatti criminali riconducibili alla cosiddetta «lancia termica», che ha una sua origine tipicamente catanese, ma non dimentichiamo nemmeno che i catanesi andavano a Bologna a fare le grandi rapine, concomitanti con le operazioni della Uno bianca, e la prego di consentirmi un passaggio in segreta.

  PRESIDENTE. Propongo di passare in seduta segreta.
  (Così rimane stabilito. I lavori procedono in seduta segreta, indi riprendono in seduta pubblica.)

  PRESIDENTE. Dall'84 all'arresto dei Graviano – mettiamola così – il periodo che lei ha citato, è un continuum o ci sono delle fasi diverse? E in particolare, Falcone e Borsellino fanno parte della stessa fase?

  GIANFRANCO DONADIO, magistrato. Domanda estremamente complessa. No, questa è una valutazione di tipo storico, io assimilo profondamente la stagione di via D'Amelio a quella di Capaci, perché dall'esame degli atti, dallo studio di ogni dettaglio e frammento possibile sono giunto al convincimento che Borsellino avesse esplorato cause, mandanti e protagonisti della strage di Capaci. Peraltro, c'è un frammento dichiarativo prezioso che va riferito alla moglie di Borsellino. Ho letto e riletto, alla fine mi sono fatto l'idea che la moglie di Borsellino (non era in condizioni proprio ideali) aveva tentato di spiegare che Paolo le aveva detto che Falcone era stato ucciso dalla mafia e da elementi deviati dello Stato. Ci sono in questo contenuto elementi dichiarativi che nell'ambito Pag. 28 di questo lungo lavoro abbiamo individuato. Io non escludo affatto che, anche in assenza di verbalizzazione, Borsellino abbia saputo dei particolari rilevanti sulla strage di Falcone e abbia tentato di organizzare questo suo sapere in maniera compiuta per non disperderlo e per portarlo a Caltanissetta, con un tale livello di analisi da realizzare (un'espressione che abbiamo usato all'inizio) una massa critica perché, poi, chi indaga confida sempre che la massa critica sia sufficiente a vincere le resistenze.
  Personalmente ho imparato che non è sempre così, però questa speranza c'è. Le stragi continentali sembrano avere un elemento di discontinuità. Lo professa e lo protesta Riina. Considero Rina un criminale da studiare attentamente. A un certo punto, in una rarissima esternazione di un Riina che gode di ottima salute, chiede la parola durante il processo dei Georgofili. Lo ricordo bene, perché in quell'occasione l'ottimo Chelazzi, valoroso magistrato, ci telefonò, noi rimanemmo in ufficio ad attenderlo. Tornò da Firenze e ci spiegò che cosa aveva detto Riina. Riina disse, con ironia e in maniera tragica come fanno i mafiosi, rivolgendosi al presidente della corte d'assise (siamo nel processo stragi che si celebra a Firenze): «signor presidente, lei che le indagini le sa fare», prima stoccata, «ma le pare mai possibile che io posso aver fatto queste cose quando mi avete catturato a gennaio, che avevo tante cose in agenda?». Ovviamente trasformo il discorso di Riina. Chelazzi sente, ascolta, registra e dice «Analizziamo».
  E poi Bellini, e i servizi segreti. Riina ogni tanto lancia questi messaggi. Uno degli ultimi frammenti che ho letto dai giornali è questa storia dell'aereo. Lo dice Riina (e confesso di averla sottovalutata, signora presidente). Ma dopo aver lavorato alla Commissione Moro e dopo aver scoperto che nell'eccidio di via Fani, pochi minuti dopo la sparatoria, c'era un elicottero senza segni distintivi e dopo aver lavorato molto per capire se questa cosa era vera ed essermi convinto che, molto verosimilmente c'era, mi sono pentito e rammaricato di non aver approfondito quelle esternazioni che vengono da varie fonti, anche Riina, ma anche La Barbera, anche da un aviatore sentito come teste che si riferirà all'aereo in volo nel cielo di Capaci. Ora è chiaro che è passato tanto tempo. Queste cose le guardiamo con un sapere formatosi progressivamente e non facciamo alcun addebito a quello che è stato fatto prima, perché prima c'erano tante difficoltà. Signora presidente, per una memoria, è da acquisire il master delle intercettazioni e tutti gli atti del gruppo investigativo Falcone e Borsellino. Sono tante carte, ma le metodologie di scansione oggi ci consentono di affrontare anche estese elaborazioni. Quelle carte sono la vera scatola nera delle indagini su Falcone e Borsellino. Si trovano in un hangar della Polizia. Io credo che le carte dei processi di stragi consentano di conservare la memoria di questa storia del Paese. Io sono rimasto molto male quando ho scoperto che, tra le carte che cercavamo, c'erano dei vuoti. Un bellissimo libro che si intitola «I pezzi mancanti» ed è stato scritto da Salvo Palazzolo, è un catalogo raggelante delle cose che non ci sono più. Bisogna evitare che continuino a formarsi altri vuoti: uno dei pochi soggetti istituzionali che può salvare la memoria di queste vicende è la Commissione parlamentare antimafia. Non vedo alternative.

  PRESIDENTE. In queste ultime settimane, se c'è ancora bisogno di qualche approfondimento, lei è qua immagino. In quattro ore abbiamo recuperato quattro anni, in altre quattro ne recuperiamo otto.
  Grazie. Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 23.40.