XVII Legislatura

Commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale

Resoconto stenografico



Seduta n. 113 di Giovedì 18 maggio 2017

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 2 

Audizione del Direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie (ISSiRFA), Stelio Mangiameli, su attualità e prospettive del coordinamento della finanza pubblica (ai sensi dell'articolo 5, comma 5, del regolamento della Commissione) :
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 2 ,
Mangiameli Stelio , Direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie (ISSiRFA) ... 2 ,
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 10 ,
Zanoni Magda Angela  ... 10 ,
Mangiameli Stelio , Direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie (ISSiRFA) ... 10 ,
Zanoni Magda Angela  ... 10 ,
Rubinato Simonetta (PD)  ... 11 ,
Collina Stefano  ... 12 ,
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 13 ,
Mangiameli Stelio , Direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie (ISSiRFA) ... 13 ,
Collina Stefano  ... 16 ,
Mangiameli Stelio , Direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie (ISSiRFA) ... 16 ,
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 16

Testo del resoconto stenografico
Pag. 2

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
GIANCARLO GIORGETTI

  La seduta comincia alle 8.10.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.

  (Così rimane stabilito).

Audizione del direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie (ISSiRFA), Stelio Mangiameli, su attualità e prospettive del coordinamento della finanza pubblica.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie (ISSiRFA), Stelio Mangiameli, su attualità e prospettive del coordinamento della finanza pubblica.
  Lei, che è stato nostro ospite diverse volte, ha chiaro che il tema su cui ci stiamo interrogando è in termini di prospettiva. Poiché, credo, anche la politica ogni tanto deve cercare di fare il punto della situazione e capire (probabilmente nella prossima legislatura) cosa fare, questa è una riflessione assolutamente dovuta.
  Do la parola al Direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie (ISSiRFA), Stelio Mangiameli, per lo svolgimento della relazione.

  STELIO MANGIAMELI, Direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie (ISSiRFA). Grazie, presidente. Il tema dell'attualità e delle prospettive del coordinamento della finanza pubblica assume particolare rilievo in questo momento, soprattutto alla luce della situazione di fatto in cui ci troviamo. Possiamo considerare per molti aspetti alle spalle la crisi economica finanziaria e il risultato del referendum stabilizza un certo quadro costituzionale di riferimento.
  Guardando indietro, nei momenti di ricostruzione del regionalismo italiano, noi possiamo dire di aver avuto tre fasi e tre esperienze diverse. La prima è quella delle Regioni a statuto speciale, con una normativa finanziaria basata su disposizioni costituzionali. La seconda è quella delle Regioni ad autonomia ordinaria del primo regionalismo, basato sulla legge finanziaria n. 271 del 1970, che giunge sino alla crisi del 1992 e all'innovazione introdotta, subito dopo, con il decreto legislativo n. 56 del 2000, il cosiddetto decreto «sul federalismo fiscale». Quella fu la prima o la seconda volta che nella legislazione viene adoperata l'espressione «federalismo fiscale».
  La terza è quella del secondo regionalismo, in cui una prima parte è in continuità con i parametri precedenti (sostanzialmente si continua ad applicare il decreto legislativo del 2000 per potenziare l'autonomia finanziaria delle Regioni e delle autonomie locali) e la seconda parte è condizionata dalla crisi economica e finanziaria.
  Nel frattempo, si passa dalla scrittura dell'articolo 119, fatta dall'Assemblea costituente, alla nuova formulazione del medesimo articolo nella revisione operata dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, mentre le Regioni a statuto speciale, mantenendo le medesime prerogative finanziarie, hanno Pag. 3realizzato la loro autonomia grazie ad un incremento progressivo delle funzioni pubbliche da esercitare nel sistema complessivo.
  Il momento iniziale dell'intera esperienza è catalizzato dalla svalutazione del ruolo delle Regioni speciali, prima, e ordinarie, dopo, in coincidenza della fase espansiva dello Stato imprenditore delle politiche sociali, attuate tutte in nome dello Stato, da cui è derivata la centralizzazione dell'imposizione tributaria, da un lato, e della spesa pubblica sulla base di semplici trasferimenti, dall'altro lato.
  Di fronte alla possibilità della spesa pubblica senza limite, come si riteneva fosse possibile ancora negli anni ’70 e in buona parte degli anni ’80 per l'attuazione delle politiche redistributive, gli interessi per l’accountability e per la prossimità del centro di spesa erano pressoché inesistenti, e perciò è con la crisi dello «Stato Moloch» che si pongono le premesse per un equilibrio tra livello di svolgimento delle funzioni pubbliche e spesa pubblica. Resta ancora in ombra il profilo impositivo.
  Si deve al cosiddetto «federalismo a Costituzione invariata», ovvero, al federalismo amministrativo, l'avere svincolato il versante della spesa pubblica regionale e locale, in quanto il riordino delle funzioni amministrative determinato dal decreto legislativo n. 112 del 1998 ha comportato il trasferimento delle risorse, il quale avveniva attraverso trasferimenti senza vincoli di destinazione, incrementando così l'autonomia della spesa.
  Su queste basi è stato revisionato l'articolo 119 della Costituzione, in connessione con il rovesciamento del principio enumerativo delle competenze legislative e con il riconoscimento di un'amministrazione basata sui princìpi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza.
  La nuova formulazione insiste sull'autonomia di entrata, oltre che di spesa, degli enti territoriali (primo comma dell'articolo 119 della Costituzione). Inoltre la Costituzione dispone che questi enti territoriali abbiano risorse autonome, le quali si sostanzierebbero nel potere di stabilire e applicare tributi ed entrate propri, con i limiti dell'armonia con la Costituzione e secondo i princìpi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, perché i due termini vanno collegati.
  A queste risorse, infine, si sommerebbero disponibilità derivanti dalle compartecipazioni al gettito dei tributi erariali, riferibile al territorio degli enti.
  L'intera formulazione, di cui fa parte anche la clausola sul fondo perequativo e quella sull'integrale finanziamento delle risorse pubbliche, se è certamente più precisa di quella del precedente articolo 119, redatto dall'Assemblea costituente, tuttavia non ha realizzato un'autonomia finanziaria di tipo costituzionale degli enti territoriali o, più semplicemente, come dicono i tedeschi, una finanzverfassung.
  Nell'ordinamento italiano, prescindendo dalle fratture determinate dalla giurisprudenza costituzionale, le competenze normative, comprese quelle concorrenti e amministrative delle Regioni, così come quelle delle autonomie locali, sono disciplinate costituzionalmente da norme precettive e immediatamente efficaci. Le competenze finanziarie, invece, sono rimesse al legislatore statale, senza che vi sia un rimedio costituzionale efficace nei confronti dell'inadempimento legislativo o – peggio – della volontà politica di non volere dare seguito alla disciplina costituzionale che riconosce, sia pure nella forma di una competenza, in parte, concorrente con il coordinamento e, in parte, esclusiva con la perequazione, il potere della legge statale.
  Questo «tallone d'Achille» costituzionale è stato alla base dell'indebolimento delle Regioni e delle autonomie locali determinato dalla legislazione della crisi, con una politica di tagli alle risorse che ha pesato prevalentemente sulle poste finanziarie dei territori, comprese le autonomie speciali, piuttosto che su quelle dello Stato. Per una dimostrazione di tutto questo rinvio alla relazione che ho fatto al convegno dei costituzionalisti nel 2013 a Padova, che si può leggere sulla rivista AIC (Associazione Italiana dei Costituzionalisti), dove vi sono tutti i quadri di riferimento degli atti normativi dal 2011 al 2013 e tutti i tagli Pag. 4delle risorse territoriali che negli anni seguenti questi avrebbero comportato.
  La crisi economica aveva generato una grande necessità di risorse pubbliche per la copertura del debito e il contenimento del deficit di bilancio, con la conseguente necessità di reperirle in modo immediato. Ciò è andato a discapito della qualità delle manovre economico-finanziarie degli anni 2011, 2012 e 2013. In quegli anni, infatti, è stata compiuta una scelta che, oltre a incidere pesantemente sulla disciplina del federalismo fiscale fondato sulla legge n. 42 del 2009 e sugli undici decreti legislativi di attuazione adottati tra il 2010 e 2011, ha danneggiato fortemente il sistema regionale delle autonomie.
  Ai tagli lineari degli anni precedenti si sostituì la scelta di tagli che gravavano, anche progressivamente, sulle risorse destinate al sistema territoriale, comprese quelle volte a coprire le spese di servizi sanitari e sociali.
  L'onda di questa politica economica e finanziaria è arrivata sino alle successive leggi di stabilità e di bilancio per il 2017, e questa debolezza finanziaria delle Regioni ha finito con il costituire anche la base per la scrittura del testo della riforma costituzionale. Non è un caso che, nel testo del disegno di legge costituzionale «Renzi-Boschi», l'unica competenza concorrente trasformata in una vera e propria competenza esclusiva dello Stato era proprio il coordinamento della finanza pubblica. Ciò avrebbe finito col dare una luce diversa anche ai disposti dell'articolo 119 della Costituzione, così come veniva formulato con le due leggi sugli indicatori di costo e di fabbisogno e sul sistema di perequazione, risolvendo la riforma l'autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali in un finanziamento dipendente dalla legge di bilancio dello Stato piuttosto che in una vera forma di autonomia costituzionalmente prevista e garantita per opera della legge statale.
  Lo spostamento della competenza a favore dello Stato, di fatto, avrebbe avuto il suo termine finale nelle modifiche dell'articolo 119. La disciplina del coordinamento della finanza pubblica sarebbe spettata interamente alla legge statale, che sarebbe diventata il metro con riferimento al quale le Regioni e gli enti locali avrebbero potuto stabilire e applicare tributi ed entrate proprie, oltre che il metro per definire le compartecipazioni al gettito dei tributi erariali riferibili al loro territorio.
  Tutte queste fonti, da pretesa costituzionale che erano, sarebbero diventate una concessione della legge statale, tanto più che, in via esclusiva, la legge dello Stato avrebbe potuto definire gli indicatori di riferimento di costo e di fabbisogno, che promuovono condizioni di efficienza nell'esercizio delle medesime funzioni, consentendo così allo Stato di incidere in modo unilaterale sulle condizioni di esercizio della funzione pubblica delle Regioni e degli enti locali.
  Da questo punto di vista, l'esito del referendum consente una ripresa, alla luce di un quadro costituzionale che, dal punto di vista della finanza pubblica, è meno centralista di quello proposto dalla riforma, ma che, come si è già accennato, non è del tutto esente da critiche. Anche l'attuale formulazione dell'articolo 119 della Costituzione non assicura infatti, di per sé, un'autonomia finanziaria diretta, in quanto non distribuisce tra i diversi livelli di Governo le basi imponibili delle imposte, ma pone semplicemente un obbligo (in modo più preciso rispetto all'originale versione dello stesso articolo) di conformazione dell'ordinamento della finanza pubblica ai princìpi costituzionali della materia.
  La differenza con i modelli di autentico federalismo fiscale è considerevole, ciononostante la possibilità di riprendere il filo dell'attuazione dei princìpi dell'articolo 119 appare per l'autonomia regionale meno problematica di quello che sarebbe stato se il referendum avesse avuto un esito positivo.
  Prima di passare a considerare un'ipotesi di percorso, che corrisponda al modello della accountability del federalismo fiscale, che dovrebbe implicare, oltre alla trasparenza del prelievo fiscale così come della spesa pubblica, anche una riduzione della pressione fiscale e una migliore lotta all'evasione e all'elusione fiscale, occorre considerare che quanto sin qui accaduto Pag. 5nell'ordinamento, cioè una interpretazione della materia concorrente del coordinamento della finanza pubblica in grado di legittimare ogni forma di intervento del Governo centrale, persino sull'organizzazione costituzionale delle Regioni, come nel caso della composizione numerica dei Consigli regionali, è stato possibile solo perché si è avuta una giurisprudenza costituzionale che, in alcuni casi, ha persino accentuato il peso dei limiti che il coordinamento della finanza pubblica poteva determinare in termini di tagli alle risorse, sino al punto di determinarne l'insufficienza rispetto alle funzioni amministrative assegnate.
  Di recente, però, con le sentenze n.10 e n.129 del 2016, il giudice costituzionale sembra avere adottato un orientamento in materia più equilibrato.
  Per una riflessione sulla materia concorrente del coordinamento della finanza pubblica, a questo punto, va innanzitutto nuovamente definito il contenuto costituzionale dell'autonomia finanziaria delle Regioni, delle città metropolitane, delle province e dei comuni. Questa consiste esattamente nell'autonomia di entrata e di spesa degli enti territoriali ed è costituzionalmente collegata alla possibilità di avere risorse autonome, senza vincoli di destinazione, così da finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite. Questi sono i parametri costituzionali.
  In secondo luogo, occorre precisare quali poteri la Costituzione assicura nell'esercizio dell'autonomia finanziaria. Con riguardo a questo profilo, l'articolo 119 non definisce specificamente i poteri riconosciuti agli enti territoriali, ma si limita ad affermare che le risorse autonome per questi derivano dal potere di stabilire e applicare tributi ed entrate proprie, e di disporre di compartecipazioni al gettito erariale riferibile al loro territorio.
  In terzo luogo, l'autonomia finanziaria ha un primo termine di paragone con riferimento ai quantitativi finanziari ottenuti da ogni ente, grazie alle risorse autonome costituzionalmente riconosciute nella politica di perequazione finanziaria, che la Costituzione affida al legislatore statale (articolo 117, secondo comma, lettera e). La Costituzione attribuisce infatti alla legge dello Stato il compito di istituire il fondo perequativo senza vincoli di destinazione per i territori con minore capacità fiscale per abitante.
  In quarto luogo, devono essere considerati due punti cruciali nell'attuazione dell'autonomia finanziaria delle Regioni e delle autonomie territoriali. Il primo risiede nel principio che questi sono tenuti al rispetto dell'equilibrio dei relativi bilanci e concorrono ad assicurare l'osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea. Si tratta dell'inciso inserito nell'articolo 119 con la legge costituzionale n. 1 del 2012, la cosiddetta norma «sul pareggio di bilancio».
  Il secondo punto cruciale riguarda il momento unitario dell'autonomia finanziaria, che risiede nei limiti dell'armonia con la Costituzione e nel rispetto dei princìpi di coordinamento della finanza pubblica.
  A fronte a questo quadro costituzionale, la prima questione che si pone è se l'autonomia finanziaria delle Regioni e delle autonomie locali sia legata al ripristino delle disposizioni dei decreti legislativi sul federalismo fiscale, modificate, alterate o abrogate dalla legislazione del periodo della crisi economica, considerando che l'applicazione delle norme sul federalismo fiscale è stata posticipata prima al 2017 e ora al 2018 (articolo 13 del decreto-legge n.113 del 2016, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 160 del 2016), oppure se non si tratti di rivedere gli stessi princìpi della legge n. 42 del 2009. Da questo punto di vista, appare più logico non limitarsi al restyling della normativa sul federalismo fiscale, quanto piuttosto cogliere l'occasione per portare avanti la disciplina.
  In tal senso tre appaiono i punti principali. Poiché la disciplina sul federalismo fiscale è troppo farraginosa, la sua semplificazione sembra essere il primo aspetto, magari eliminando la stratificazione di atti normativi necessari per rendere operativa l'autonomia finanziaria (leggi delega, decreti legislativi, decreti correttivi, decreti attuativi, decreti ministeriali, una «Babele» che procrastina l'attuazione del federalismo fiscale sine die). Pag. 6
  Ricordo a me stesso che il modello del decreto legislativo n. 112 del 1998 non fu completato proprio perché poi le risorse dovevano essere assegnate con decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, che non furono adottati per tutte le materie, per cui le Regioni e le autonomie territoriali avevano le competenze, ma non le risorse per farvi fronte, e questo determinò uno squilibrio, anche in quella fase, nella realizzazione del regionalismo.
  Vanno inoltre riordinate le basi imponibili, in modo da rendere possibile un collegamento con le funzioni finanziate e rendere effettivo il principio di responsabilità. Dietro questo problema c'è un mito, che è dato dal fatto che le imposte, diversamente dalle tasse, non sarebbero collegabili a prestazioni e servizi da parte della pubblica amministrazione. Questo è teoricamente un assioma di carattere generale, ma concretamente, in un sistema di distribuzione dei poteri tra più livelli di Governo, diventa un aspetto che non regge.
  È possibile invece collegare anche il prelievo sotto forma di imposta a una prestazione ben precisa della pubblica amministrazione, come già facciamo se consideriamo che il Fondo sanitario nazionale viene finanziato con una quota parte dell'IVA prelevata nel nostro Paese.
  Occorre che venga creato uno spazio fiscale vero per le Regioni e le autonomie locali, senza il quale l'attribuzione di tributi propri è destinata ad essere ridotta a una semplice imputazione di gettito, corrispondente a una quota parte di un tributo erariale, o a restare lettera morta, essendo i cosiddetti «tributi propri» autonomi praticamente inesistenti per assenza di basi imponibili disponibili.
  Spesso le Regioni hanno tentato di «inventarsi» una base imponibile, ma la Corte costituzionale ha detto che non era possibile, anche se il tentativo è stato fatto per evitare che si incrementasse la pressione fiscale. Ma, di fatto, non c'è uno spazio finanziario reale per le Regioni e le autonomie locali, se le cose restano così.
  Anche chi (in particolare, Enrico Buglione in una recente relazione presentata al convegno organizzato a ottobre del 2016 dall'Istituto di Studi sui Sistemi Regionali Federali e sulle Autonomie (ISSiRFA) su «Il perché delle Regioni oggi. La Repubblica tra Stato unitario e stato regionale») ritiene che siano ridotti i margini entro cui si possa muovere la disciplina fiscale per concretizzare l'autonomia finanziaria delle Regioni e degli altri enti territoriali considera però necessaria una ripresa attenta delle questioni del federalismo fiscale, non tanto perché solo attraverso questo percorso può aumentare il potere decisionale nella gestione delle proprie funzioni da parte delle Regioni, ma anche perché questa prospettiva dell'autonomia potrebbe apportare un beneficio al sistema finanziario pubblico nel suo complesso in termini di lotta all'evasione fiscale, di trasparenza della spesa per le opere pubbliche e le infrastrutture da finanziare con l'autofinanziamento o con entrate extra-tributarie, di miglioramento del fondo perequativo, sia dal punto di vista delle entrate che delle spese, di realizzazione della trasparenza dei bilanci regionali, iniziata con la normativa di armonizzazione dei bilanci pubblici.
  Sul punto, infatti, nonostante la crisi, è stato fatto un passo avanti con l'emanazione del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118, che reca le «Disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro organismi», in attuazione della delega della legge n. 42 del 2009.
  La prima questione da considerare ora è che la materia del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario ha un carattere concorrente. Nell'ambito della definizione «Princìpi fondamentali», in futuro, non dovrebbe ammettersi più una legislazione statale che assuma le vesti di una disciplina di dettaglio della finanza pubblica.
  La seconda questione riguarda il modo in cui i princìpi del coordinamento devono essere approvati. Infatti, questi appartengono al novero delle norme su cui la Commissione bicamerale per gli affari regionali, integrata secondo quanto previsto dall'articolo 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001, dovrebbe esprimere il proprio parere, Pag. 7 con gli effetti e le condizioni previsti dal comma 2 dell'articolo richiamato, in base ai quali, se il Parlamento non intende conformarsi al parere dato dalla Commissione, la legge deve essere approvata a maggioranza assoluta.
  In sostanza, da queste due premesse dovrebbe discendere la conseguenza che il quadro normativo della finanza pubblica e del sistema tributario è da mettere a punto sulla base di scelte istituzionali di lungo periodo, che solo le sedi di rappresentanza politica dello Stato e delle Regioni possono assumere in modo coordinato e collaborato. Inoltre, soprattutto ora che le misure connesse al pareggio di bilancio hanno preso il posto del vincolo del Patto di stabilità, un accordo sui princìpi di coordinamento può servire, per un verso, a evitare il contenzioso innanzi alla Corte costituzionale sulla singola misura imposta alle Regioni o agli enti locali, come è accaduto in questi anni, e, per l'altro verso, a considerare congiuntamente la simmetria per le Regioni e lo Stato delle fattispecie considerate, per cui non si dovrebbe più verificare il caso che tagli e misure restrittive ricadano prevalentemente sui territori e poco o nulla sul livello nazionale.
  Infine, un coordinamento concretamente sottoposto al procedimento legislativo collaborato in caso di contenzioso – perché questo potrebbe essere comunque possibile, in quanto un conto è la partecipazione nella Commissione, un conto è la decisione in una qualunque regione di impugnare, per esempio, la legge anche così approvata –, potrebbe avere ben altri parametri. I parametri su cui la Corte costituzionale, chiamata ad interpretare le norme sul coordinamento della finanza pubblica, ha basato il suo giudizio alla fine, dal punto di vista costituzionale sono stati quelli della ragionevolezza e della proporzionalità, o, meglio ancora, rovesciando il parametro della ragionevolezza, quello della totale arbitrarietà della misura adottata. Fino a quando non si dimostrava che era totalmente arbitraria la misura adottata, lo Stato aveva sempre ragione nei confronti delle Regioni.
  Questi due parametri, ragionevolezza e proporzionalità, utilizzati dalla giurisprudenza costituzionale di tutto il mondo, si prestano a valutazioni poco efficaci dal punto di vista della legittimità. Tuttavia, ogni volta che si ricorre ai parametri della ragionevolezza e della proporzionalità vuol dire che non c'è un parametro ben preciso che è stato violato, ma che la questione segue una logica politica leggermente diversa (questo anche a scusante della nostra stessa Corte Costituzionale).
  Per quanto il coordinamento abbia un carattere finalistico e generale, per cui può incidere almeno potenzialmente su tutte le materie di competenza regionale, le Regioni potrebbero far valere le condizioni particolari in cui operano e le condizioni concrete del modo di gestire le funzioni amministrative, superando così uno dei limiti maggiori di questi ultimi anni, ovvero la impossibilità di far valere la gestione nella valutazione della misura finanziaria.
  Soprattutto poi, se si vuole attribuire a questa materia un ruolo di orientamento della spesa rispetto alle diverse politiche pubbliche che intrecciano materie e competenze regionali con materie e competenze statali, sarà necessario che i profili strategici e programmatici siano concordati sul piano normativo e amministrativo, tenendo conto della realtà effettiva di ogni regione sia dal punto di vista finanziario sia da quello della politica concretamente sviluppata.
  Il coordinamento dovrebbe cessare di essere un fatto meramente normativo e astratto per diventare un elemento concreto delle politiche pubbliche, anche ai fini della loro valutazione. Ciò appare tanto più vero se, come sembra, si sta inaugurando adesso una stagione di regionalismo asimmetrico, il quale implica una considerazione sul rispetto dei princìpi dell'articolo 119, che, alla luce della disposizione del 116, comma terzo, se letta attentamente, non si riferisce solo alle Regioni, ma si riferisce alle Regioni e allo Stato.
  Anche qui è riscontrabile la diversità con la formulazione dell'articolo 116, terzo comma, del testo della proposta di riforma, che si sarebbe dovuto riferire solo alla Pag. 8regione, laddove, invece, nel testo vigente dell'articolo 116, com'è scritto ora e come era scritto nel 2001, l'articolo 119 è parametro sia del comportamento dello Stato sia del comportamento delle Regioni in sede di Intesa, la qual cosa sta a significare che entrambi i soggetti, Stato e regione, dovranno dotarsi di indicatori di costo e di fabbisogno e di parametri per concordare funzioni e risorse, altrimenti non se ne esce.
  Questi indicatori in parte vi sono per merito della legge n. 42 del 2009, che li prevede fra gli oggetti di disciplina, ma con molta probabilità andrebbero riformati visto che, oltretutto, non sono del tutto esaustivi. Questo modello asimmetrico, mal regolato nell'esercizio delle funzioni secondo indicatori economici, porterebbe a risolvere anche la questione della finanza delle Regioni a statuto speciale.
  Qui non entro nel dettaglio, perché avremmo bisogno di un tempo infinito per studiare attentamente questa questione, ma dico semplicemente che le Regioni speciali ormai sono profondamente divaricate, in quanto abbiamo, da una parte, le autonomie speciali dell'arco alpino, che hanno un determinato carattere, e, dall'altra parte, le due isole, che hanno un carattere completamente diverso e una situazione istituzionale completamente diversa rispetto a quelle dell'arco alpino.
  Vi è una serie di indicatori sui quali ragionare, ma certamente quello che sembra essere un dato ormai complessivamente accettato è che le Regioni speciali più avanzate hanno seguito il regime di accordo permanente e hanno determinato il complesso delle loro funzioni attraverso un sistema di negoziazione bilaterale, compiuto con le Commissioni paritetiche. Questo ha comportato che determinate Regioni speciali, in particolare le due province autonome, sono molto più avanti rispetto a tutto il resto del Paese in termini di decentramento funzionale e di gestione di autogoverno, peraltro anche con ottime rese.
  La negoziazione bilaterale con le Commissioni paritetiche non sempre è stato il migliore dei modi per far evolvere il sistema del regionalismo speciale e potrebbe ulteriormente essere riconsiderato, se si giungesse adesso, in una fase più tranquilla, all'adeguamento degli statuti previsto dall'articolo 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001.
  Resta, infine, aperta la vicenda delle province e delle città metropolitane, che è stata inglobata nella polemica politica sull'abolizione delle prime. Su questo punto, la Corte Costituzionale ha delle responsabilità perché nella sentenza n. 50 del 2015 ha usato come parametro una norma costituzionale futura e incerta, anziché la norma costituzionale in vigore, il che è molto discutibile anche dal punto di vista del metodo, perché la Corte è a presidio di questa Costituzione fino a quando è in vigore, quando cambierà sarà a presidio della nuova Costituzione. Quindi quella sentenza resta problematica, anche se la Corte, che è molto rapida nel riorientare la propria giurisprudenza, ha tracciato in alcune sentenze (la più recente del 2016) il principio che, sino a quando le funzioni amministrative sono attive su un determinato livello di Governo, devono avere una copertura finanziaria.
  Per quanto riguarda le funzioni provinciali, questa è una condizione minima, non quella migliore, per cui come Istituto, pensando di riaprire il discorso sulle province e sulle città metropolitane, stiamo organizzando per settembre un'iniziativa in cui ci sarà una forte componente che riguarderà anche i profili finanziari, perché i tagli delle risorse sono tali da arrivare all'impossibile, a quello che sappiamo tutti, ossia, ad esempio, alla mancata manutenzione del patrimonio stradale, con tutto quello che ha comportato questo inverno con l'innevamento, alla mancata manutenzione degli edifici scolastici di secondo grado, con tutto quello che questo comporta in termini di sicurezza.
  Questo ragionamento vale anche con riferimento al modello organizzativo, perché in un sistema in cui la provincia è costitutiva della Repubblica e tutti gli enti costitutivi della Repubblica sono elettivi e la sola provincia è un ente di secondo grado, questa variazione suscita qualche dubbio sul principio di democraticità. Non Pag. 9ci sono, infatti, molti appigli nella storia costituzionale italiana e neanche a livello comparato, il problema resta aperto persino in Spagna, dove le province hanno un sistema molto particolare.
  Un'ultima considerazione riguarda a chi spetti l'iniziativa di mettere in moto questa messa a punto dell'ordinamento fiscale nelle relazioni tra Stato, Regioni e autonomie locali. Si potrebbe pensare che spetti allo Stato far ripartire il processo di revisione del sistema di autonomia finanziaria, tenuto conto che questi ha la competenza a dettare i princìpi di coordinamento della finanza e ad istituire il fondo perequativo.
  In realtà, come detto, sarebbe bene che le promotrici di tale iniziativa fossero le sedi della rappresentanza politica, cioè Parlamento e Consigli regionali, con un modo collaborativo, e non è detto che nell'attesa dell'attuazione dell'articolo 11 della legge costituzionale n. 3 del 2011, non si possa sperimentare qualcosa – non so se abbiate voglia di sperimentarlo anche come Commissione bicamerale –, in quanto si potrebbe benissimo pensare ad una sperimentazione della Commissione bicamerale con la Conferenza, con una sorta di assemblea della Commissione e della Conferenza dei presidenti delle assemblee legislative regionali e un dibattito in cui si incomincino a studiare i problemi e a formulare proposte dall'una e dall'altra parte.
  Questo non è vietato né dai Regolamenti, né dalla Costituzione, anzi sarebbe auspicabile nella situazione in cui siamo. Questo percorso richiede una certa condivisione anche con le opposizioni, ed ecco perché dico che devono essere le sedi di rappresentanza politica, e che non è una questione che riguarda il Governo di per sé, ma riguarda la Repubblica, riguarda tutti. Quindi ci deve essere una condivisione sui princìpi di coordinamento di finanza pubblica, in cui non ci può essere una parte contro l'altra, ma si deve cercare di operare cercando un elemento di concordia sul sistema territoriale. Questo è fondamentale anche per le sfide europee che si apriranno immediatamente dopo le elezioni tedesche.
  Questo, peraltro, non vuol dire che il Governo centrale e i Presidenti delle Giunte regionali che siedono nelle Conferenze non abbiano un compito da assolvere nella materia del coordinamento della finanza pubblica, ma il loro compito di Governo e di amministrazione resta distinto da quello legislativo, assolto dal Parlamento e dai Consigli regionali.
  Io ho finito la relazione, che mi riservo di depositare agli atti della Commissione, dopo avere apportato alcune correzioni anche alla luce delle osservazioni che saranno formulate.
  Vorrei ora illustrarvi molto rapidamente uno studio che noi abbiamo fatto riguardante la riclassificazione dei bilanci preventivi e il confronto con i consuntivi riclassificati di tutti i bilanci delle Regioni, e anche un confronto con le spese dello Stato.
  Noi abbiamo da trentaquattro anni un Osservatorio finanziario regionale, il cui sistema di classificazione era autonomo (non ero io il direttore, l'ha fatto Enrico Buglione, che è uno dei massimi esperti della materia) ed era la base per le valutazioni della Banca d'Italia – la Banca d'Italia, infatti, aspettava il nostro bollettino per fare le sue valutazioni sul bilancio regionale. L'osservatorio, quindi, ha un peso, oltre che scientifico, anche sistemico nel nostro Paese. Adesso abbiamo introdotto la riclassificazione e vi posso assicurare che emergono dati interessanti che servono a gestire i princìpi di coordinamento e a stabilire dove devono andare a parare.
  Il coordinamento, ovviamente, si sposa con la capacità di spesa delle Regioni e con le funzioni amministrative, con l'obiettivo, se parte della simmetria è la revisione degli statuti, di fare evolvere il nostro sistema regionale nei prossimi anni verso un federalismo di esecuzione, un regionalismo di esecuzione, perché non potremmo che spostare competenze e funzioni amministrative verso il basso, ora che la spinta centralista della crisi ormai si è esaurita, dimostrando di non essere stata idonea a soddisfare tutta una serie di bisogni. Il ruolo del centro è un ruolo importante, ma non può occuparsi della fontanella dell'acqua o della lampadina dell'illuminazione Pag. 10pubblica, perché a questo ci eravamo ridotti nel modello centralistico.
  Dallo studio emerge una serie di indicatori relativi agli anni alla fine della crisi (2013, 2014 e stiamo completando il 2015 e il 2016, quindi a luglio vorremmo presentare i dati completi), da cui si vedono le differenze nella gestione tra le diverse aree (nord, centro e sud), nonché fra le Regioni ad autonomia speciale e le Regioni ad autonomia ordinaria.
  Un dato che emerge immediatamente è che le Regioni a statuto ordinario spendono di più delle Regioni a statuto speciale nella sanità, laddove nei settori delle attività economiche e produttive hanno uno spazio di spesa più ristretto, mentre le Regioni a statuto speciale hanno una spesa maggiore nel settore delle attività economiche, così come anche nei settori dell'ambiente e della protezione sociale.
  Tutto questo fornisce degli indicatori importanti non solo per gli agglomerati, ma anche per le singole Regioni. Noi siamo infatti in condizione di determinare qual è la regione che ha programmato meglio la spesa e qual è quella che ha speso meglio, perché, a fronte della programmazione, abbiamo un quadro di riferimento finale di due anni, che consente di capire quale è lo scostamento tra il preventivo e il consuntivo per ogni regione. Dai dati risultano Regioni che sono a zero o prossime allo zero (1,74 per cento Bolzano, 6,91 per cento Valle d'Aosta, 14,64 per cento Trento, 14,81 per cento Veneto) e Regioni che, invece, hanno uno scostamento del 44-48 per cento; ciò significa che queste Regioni, anche se rispettano la regola del pareggio, hanno problemi di liquidità o di gestione, che vanno seguiti con attenzione.
  Lo spirito collaborativo tra le Regioni che hanno le migliori pratiche, il centro e queste Regioni può diventare il volano anche per il riequilibrio territoriale, perché questo resta uno dei temi aperti. Infatti, se negli anni della crisi non si è potuto parlare del divario territoriale e delle varie questioni che sono emerse, adesso sarebbe auspicabile un ragionamento sereno, costruttivo, collaborativo tra le istituzioni e i diversi livelli di Governo anche per superare l'opinione che le Regioni sono il male dell'Italia rispetto a uno Stato che è, invece, il bene dell'Italia, opinione che i media diffondono, ma che non risponde al vero.
  Se guardate non alle valutazioni che facciamo noi – che potremmo essere tacciati di faziosità, visto che pur chiamandoci Istituto delle Regioni, siamo un Istituto autonomo indipendente di carattere scientifico – ma alla valutazione del Rapporto sugli italiani e lo Stato, realizzato da Ilvo Diamanti ogni anno sul sistema istituzionale e gli italiani, le Regioni, nella considerazione dei nostri concittadini, vengono molto prima dello Stato e subito dopo i comuni, il che vuol dire che il peggiore sentimento diffuso tra i cittadini è nei confronti dello Stato.

  PRESIDENTE. Ringrazio il professor Mangiameli e osservo che quello che apprezzo sempre delle sue affermazione è un mix tra approccio teorico e spirito pragmatico rispetto alla realtà concreta come si è dispiegata negli enti e, in particolare, nelle Regioni.
  Lascio quindi la parola ai colleghi che desiderino intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  MAGDA ANGELA ZANONI. Grazie, professore, è stato davvero molto interessante il suo intervento. Chiederei di avere la relazione scritta e, se possibile, questo rapporto al quale faceva riferimento, perché potrebbe essere per noi un buono strumento di studio, se non è ancora pubblicato...

  STELIO MANGIAMELI, Direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie (ISSiRFA) Non è stato ancora pubblicato. Lo presentiamo il prossimo 21 luglio e avremmo piacere di invitare il presidente e tutta la Commissione a partecipare a questo seminario.

  MAGDA ANGELA ZANONI. Ho trovato molto interessante anche la proposta di coinvolgerci in questo processo di revisione dei sistemi e di ripensamento. Come più volte abbiamo detto anche nelle audizioni Pag. 11precedenti, credo che la nostra Commissione, per il percorso fatto in questi anni, in cui ha acquisito tantissimi elementi, abbia il dovere, alla fine della legislatura, di dare un contributo di elaborazione autonoma, e credo che, per le modalità interdisciplinari con cui abbiamo sempre lavorato, siamo quasi sempre riusciti ad approvare i pochi atti che, tutto sommato, siamo chiamati a redigere, in modo collegiale e con buoni risultati.
  Molto interessante questo aspetto sul confronto fra i preventivi e i consuntivi, perché la capacità di programmazione è forse l'ultimo degli aspetti che viene apprezzato e studiato all'interno delle autonomie. Credo sia un'aberrazione far fare alle province il bilancio annuale, cosa che aveva una sua logica nel 2016, perché si pensava che fosse un ente in chiusura, quindi aveva una sua giustificazione teorica, ma che non l'ha più quest'anno. Come abbiamo già detto più volte, si può comprendere che ci sia ancora una fase transitoria (il 4 dicembre è appena passato), ma credo che nei prossimi mesi, al massimo entro settembre, in modo da dare alle province e città metropolitane una prospettiva per il futuro, bisogna indicare loro una strada, che consenta loro di imbastire un bilancio pluriennale.
  Credo sia nostro compito ribadire che gli enti locali (lo Stato lo deve chiedere) devono avere una buona capacità di programmazione, perché questo consente di chiudere molto meglio i bilanci di previsione. Nelle Regioni o anche nei comuni, dove il bilancio di previsione viene realizzato solo al 45 per cento, probabilmente è ingiustificata la richiesta, in sede di bilancio di previsione, di tante risorse, e questo crea, oltretutto, delle difficoltà nella definizione, da un lato, della legge di bilancio, dall'altro, nella chiusura dei loro stessi bilanci di previsione.
  Questa è una cosa che tutti noi abbiamo provato, perché chiunque abbia fatto l'assessore in un comune per tanti anni sa benissimo che è proprio la capacità di programmazione che consente un miglior uso delle risorse, ma anche una capacità di chiudere i bilanci di previsione senza urlare sempre «al lupo, al lupo, non ci sono le risorse, andiamo in default!», perché il default non deve essere riferito al bilancio preventivo, ma a quello consuntivo.

  SIMONETTA RUBINATO. Lei ha ribadito un concetto di cui da tempo siamo consapevoli: siamo fuori dall'ordinamento costituzionale con la normativa che abbiamo approvato, e il guardiano dell'attuazione della Costituzione, che è la Corte costituzionale, ha avuto le sue incertezze sulla difesa di quello che è frutto della Costituzione, tanto che è interessante il fatto che la riforma del Titolo V doveva, in parte, ridisegnare il modello regionalista anche sulla base dei contenuti delle sentenze della Corte Costituzionale, e che una delle competenze concorrenti, che, invece, la Corte Costituzionale interpretava come competenza esclusiva dello Stato, era il coordinamento della finanza pubblica.
  Poiché la riforma che rivestiva il regionalismo dell'interpretazione delle sentenze della Corte è stata bocciata, potremmo anche sostenere (così almeno sosteneva il professor Bertolissi) che sia stata bocciata anche quella interpretazione restrittiva della Corte Costituzionale, perché si torna al fatto che il coordinamento di finanza pubblica è effettivamente materia concorrente.
  Sul tema della programmazione e della capacità delle Regioni, lei prima ha elencato qualche regione che ha dimostrato una maggiore capacità di allineare previsioni e consuntivi. Secondo me su tale capacità incide anche il fatto che la legislazione è stata sempre in continuo divenire, soprattutto in questa fase della crisi, mettendo a dura prova anche la capacità di programmare degli enti locali. Chi è riuscito effettivamente è stato in qualche modo straordinario, perché il bilancio era fatto senza sapere se la norma avrebbe potuto essere modificata un mese dopo. Quindi, c'è stata anche questa «tempesta legislativa» che ha complicato la vita sotto questo aspetto.
  Lei prima ha detto che si apre probabilmente una stagione di regionalismo, di autonomia differenziata, come aveva detto anche nella sua precedente audizione. Io vengo dal Veneto, dove sembra che saremo Pag. 12chiamati a votare sul referendum il 22 ottobre, e, anche se politicamente sono un po’ isolata nel mio partito, sostengo fortemente questo passaggio, perché credo che la Corte costituzionale qui abbia dato non solo al Veneto un'opportunità di mandare un segnale politico forte. Esprimere la volontà popolare è, infatti, un fortissimo atto di indirizzo politico.
  Come lei ha benissimo descritto, c'è stata una debolezza straordinaria della politica (sia della classe dirigente regionale sia della classe dirigente nazionale, in tutto l'arco costituzionale) nel dare attuazione alle norme costituzionali e nel non credere che federalismo vuol dire anche responsabilizzazione e maggiore democrazia. Io, invece, lo vedo come il progetto politico di cui ha bisogno questo Paese dentro l'Europa, e devo dire che ho votata la proposta di riforma costituzionale con una certa difficoltà, avendo combattuto per modificarla dall'interno, ma l'ho votata.
  Abbiamo convinto il Governo a reintrodurre il terzo comma dell'articolo 116, senza il quale difficilmente avrei potuto votare la riforma, e, sapendo già che la Corte costituzionale aveva dichiarato ammissibile il referendum, speravo in un processo di riforma dal basso politicamente importante, che avrebbe permesso poi di introdurre modifiche.
  Aprendosi, quindi, questa stagione di autonomia differenziata, volevo sapere se davvero, a suo parere, questo strumento che la Corte costituzionale ha riconosciuto come elemento di raccordo tra istituzioni rappresentative e cittadini e che qualcuno banalizza (la situazione in Lombardia è un po'diversa, in quanto nel caso del Veneto con il forte passaggio istituzionale rappresentato dal riconoscimento da parte della Corte costituzionale della legittimità costituzionale di una richiesta sull'autonomia differenziata siamo oltre una normativa regionale che approva la possibilità di un referendum consultivo, perché c'è l'avallo istituzionale della Corte costituzionale) possa aiutare anche il Parlamento e i Consigli regionali, magari elevando il livello del dibattito.
  A volte, infatti, nei Consigli regionali, non essendoci vera autonomia finanziaria, si discute del nulla, perché non si ha necessità di dimostrare visione di futuro e responsabilità di Governo. Invece, l'autonomia si ha perché la si merita, ma, nello stesso tempo, l'autonomia ti dà la responsabilità di pensare al Governo del territorio, e quando non c'è questa vera autonomia ci si balocca su argomenti magari non importanti e le cose non girano bene.
  Secondo lei questo passaggio può essere un'opportunità per rafforzare anche il percorso che lei ha ben suggerito di ripresa e riaggiustamento, per rientrare nel quadro costituzionale vigente?

  STEFANO COLLINA. Ringrazio per questo intervento, sicuramente la relazione e il rapporto che presenterete ci daranno materia per una riflessione più ampia. Le faccio una brevissima sollecitazione sugli aspetti di fondo, rispetto ai quali credo debba essere misurato tutto questo insieme di cose che stiamo affrontando e che si è nel tempo reso sempre più complesso, come lei bene ha descritto, cioè chiedendole quali sono le domande a cui vogliamo dare le risposte.
  Io ne vedo una che, secondo me, abbiamo reso poco intellegibile nel lavoro di riforma costituzionale, ovvero la riduzione delle «forbici» presenti nel nostro Paese. Al di là del tema dell'autonomia e del federalismo fiscale, credo che alcuni aspetti vadano misurati secondo la loro funzione strumentale rispetto agli obiettivi che vogliamo raggiungere e ai problemi di questo Paese che cercano delle soluzioni. Questo è un aspetto da non perdere di vista e, rispetto a questo, mi sembra che l'unità del nostro Paese abbia posto da subito il tema delle differenze, delle diversità e forse anche delle opportunità nella gestione dei processi che possono essere individuati e attuati per la soluzione di questi problemi nel nostro Paese.
  Il tema è questo: se le strutture che immaginiamo non hanno la capacità di determinare delle convergenze nella storia del Paese rispetto ad alcuni temi, come quelli delle difficoltà ad erogare servizi uguali a cittadini uguali – perché i servizi Pag. 13sono resi ai cittadini a seconda di dove abbiano avuto la ventura di nascere dal punto di vista geografico e non sono gli stessi, tema legato non solo alla buona volontà delle persone, ma tema di sistema, che deve trovare delle risposte –, vogliamo affrontare questi problemi per cercare non delle colpe, ma delle soluzioni.
  Al di là di tutti questi aspetti, la riforma che è stata bocciata aveva in alcune scelte (io dico nella sostanza delle scelte adottate in relazione al Titolo V della Costituzione) quell'obiettivo, ma non è stato capito, perché, forse, non l'abbiamo spiegato. Però c'era quell'obiettivo, e anche la scelta di avocare allo Stato determinate competenze e, quindi, la sottrazione al campo della legislazione concorrente avevano questo tipo di ambizione, ovvero dare omogeneità al Paese.
  Oggi questo tema è ancora tutto da affrontare e non credo che si affronti con fughe in avanti, a destra o a sinistra. Siamo, quindi, in grado di concentrarci su questa domanda fondamentale e capire come tutto ciò che abbiamo affrontato in questi cinque anni di lavoro della Commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale possa trovare, in prospettiva, una nuova formula di riforma del nostro Paese? Chiaramente non è possibile percorrere la stessa strada, ma, a Costituzione invariata, ci dobbiamo immaginare un percorso differente, che però cerchi di raggiungere gli stessi obiettivi, perché quei problemi non sono cambiati, sono rimasti ancora lì sul tavolo, e su quello ci dovremo misurare. Grazie.

  PRESIDENTE. Vorrei dire una cosa rispetto a un tema che mi sembra che aleggi. Penso che su tutta questa vicenda, dopo una grande spinta positiva o negativa di impeto federalista, che ha prodotto poi una legislazione sia costituzionale che non costituzionale, sia tutto finito in una specie di secca, di palude, come se la macchina non ingranasse più la marcia e non andasse più né avanti, né indietro, e anche il dibattito politico ha abbandonato questi temi, questa realtà, con la responsabilità di tutti.
  Questi due referendum avranno comunque l'effetto di shock sul sistema, nel senso che saranno come una doccia fredda. Non so se gli esiti saranno quelli che io auspico, però ci sarà un risveglio quasi improvviso che costringerà a chiedersi cosa fare adesso.
  La nostra Commissione ha il dovere di fare il punto sullo stato dell'arte, da consegnare a chi verrà dopo, che sarà obbligato, a questo punto, a prendere in mano la situazione. Ci sono dei casi di emergenza totale, come quella delle province, in cui si tampona con una manovra o con un'altra, ma non si arriva nel merito.
  Questi due referendum avranno un effetto shock sul sistema e bisogna capire se il sistema sarà preparato ad affrontarlo oppure se si produrranno le dinamiche più impensate, perché io sono particolarmente preoccupato di quello che potrebbe succedere.

  STELIO MANGIAMELI, Direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie (ISSiRFA). Allora, per mettere in ordine tutte le questioni che sono state sollevate e partendo dall'ultima considerazione del presidente, innanzitutto, qual è il fondamento del nostro regionalismo? Perché, se non comprendiamo a che serve il regionalismo, diventa una questione ingombrante per tutto il dibattito politico, soprattutto a livello nazionale. Allora, qual è il fondamento del regionalismo?
  In Assemblea Costituente il fondamento era la ricostruzione, la riforma agraria, l'espansione della democrazia e la creazione di istituzioni di prossimità rispetto a uno Stato che era stato traditore, sabaudo. Infatti, non a caso, il regionalismo «entra» sostanzialmente dalla Sicilia, non dalla Lombardia o dal Veneto (ci tengo a ricordarlo anche perché parlo correttamente il tedesco, perché ho insegnato anche in Germania, e, quindi, potrei continuare anche in tedesco, però, non essendo altoatesino di origine, ricordo che il regionalismo «entra» dalla Sicilia) come risposta al tentativo di separatismo siciliano, e lo Statuto speciale siciliano viene approvato prima delle elezioni per l'Assemblea costituente e poi, come dice la legge costituzionale n. 2 del 1948, viene convertito ai sensi e per gli effetti dell'articolo 116 della Costituzione. Pag. 14
  Oggi quegli argomenti sono in parte ancora resistenti, ma c'è un argomento ancora più forte, che deve essere tenuto presente, cioè a dire che la Repubblica si colloca all'interno di un processo di integrazione europea, molto complicato e difficile in questo momento, e di un'economia fortemente internazionalizzata. Se noi non teniamo presente l'Unione europea e la globalizzazione, noi non abbiamo la più pallida idea di qual è il fondamento del regionalismo. A che servono le Regioni oggi? Le Regioni servono ad assolvere compiti statali, non esistono compiti regionali: i compiti che le Regioni soddisfano sono compiti statali.
  Pensate alla sanità, all'assistenza sociale, che sono compiti statali, cioè compiti della comunità generale che vengono assolti da enti territorialmente limitati. È quindi questo il senso del regionalismo, che consente allo Stato di esercitare altri compiti statali, che lo Stato è più idoneo a eseguire, come la partecipazione alle istituzioni europee, i rapporti internazionali, laddove si decidono gli interessi nazionali.
  La teoria secondo cui c'era bisogno di proteggere gli interessi nazionali contro le Regioni è una sciocchezza, è stata uno specchietto per le allodole un po’ avanzato dalla destra, un po’ avanzato dalla sinistra, ma tutta l'esperienza del primo regionalismo ha mostrato che, in realtà, non c'è mai stato un attentato agli interessi nazionali da parte delle Regioni, e per un semplice motivo: perché, progressivamente, gli interessi nazionali si sono spostati dall'ambito territoriale italiano agli ambiti europei e internazionali. Se noi dobbiamo difendere i nostri interessi nazionali, dobbiamo farlo in Europa, in sede di Consiglio, in sede di Commissione europea, in sede di pre-negoziazione con la medesima Commissione degli atti che devono essere approvati dal Consiglio e dal Parlamento europeo. Quelle sono le sedi dove noi ci giochiamo l'interesse nazionale, oppure in sede di commercio internazionale, in sede di definizione dei parametri internazionali, con tutta una miriade di accordi che stanno governando il mondo.
  A questo serve il regionalismo, il fondamento vero del regionalismo è, da una parte, quello spirito democratico più diffuso, che è sempre necessario avere, e, dall'altra parte, questo sistema integrato europeo e internazionale. Se questo è vero, allora tutti i problemi del regionalismo diventano problemi nazionali e dobbiamo affrontarli.
  Cominciamo subito dal tema del divario territoriale che è fondamentale. Su questo si terrà un convegno in ottobre a Friburgo, organizzato dall'Istituto sul federalismo di Friburgo sul tema Eguaglianza e federalismo. Dal punto di vista teorico, federalismo ed eguaglianza sono due cose completamente diverse, in quanto non ci può essere vera eguaglianza nel federalismo, perché il federalismo soddisfa il bisogno di partecipazione e di autogoverno, e il sistema federale deve essere omogeneo, ma non può essere uguale. Anche la perequazione riduce le distanze, ma non mette l'ultimo al livello del primo, mantiene la differenziazione, e deve essere l'ultimo a trovare la forza di promuoversi e la capacità di evolvere per crescere nel migliore dei modi.
  Il federalismo quindi è, in parte, perequativo, solidale e collaborativo e, in parte, competitivo, in quanto implica la competizione dei territori, cosa che è normale. Anzi Tullock, che è stato uno dei massimi studiosi della public choice insieme a Buchanan, spiega molto bene nel suo libro sul federalismo come il sistema federale si basi proprio sull'attrazione dei cittadini, tant'è vero che nel sistema americano il federalismo implica il principio del «voto con i piedi».
  Noi l'abbiamo sperimentato perché abbiamo avuto la spinta dell'emigrazione interna e poi quella dell'emigrazione esterna, e oggi, con la crisi, è ripresa l'emigrazione dal nostro Paese soprattutto dei giovani, dei giovani qualificati.
  Qual è la causa del divario (dobbiamo individuare prima di tutto la causa)? Secondo Robert Putman, che pubblicò un libro nel 1992 anche in italiano, La tradizione civica delle Regioni italiane, l'arretratezza del sud è dovuta a un divario nelle istituzioni democratiche di partecipazione. Pag. 15
  Questa teoria di recente è stata fortemente criticata, perché una serie di economisti americani, studiando il divario territoriale italiano (ignoriamo che gli altri ci studiano e quindi continuiamo a dire le sciocchezze più impensate sulle situazioni italiane, mentre ci sono analisi e ricette a tutti i livelli), ha evidenziato che la questione meridionale è nata dalla politica di bilancio fiscale dello Stato unitario dal 1861 al 1911, ovvero, cinquant'anni di politica fiscale piemontese hanno generato la questione. Non è affatto vero che ci fosse questo divario enorme a livello istituzionale e la situazione meridionale era perfettamente in equilibrio. Sul punto, anzi, vi posso dire che un celebre scrittore siciliano, Luigi Capuana, riflettendo sulla formazione dell'Italia, si domandava come era possibile che, dopo essere stati davanti a tutti, ci fossimo ritrovati all'ultimo posto! Lo scrive negli anni ’30, quando c'erano il fascismo e la retorica della nazione.
  L'unica politica volta a recuperare il divario fu quella adottata dalla Repubblica dagli anni ’50 fino a metà degli anni ’60, tanto che, secondo me, l'esperienza della Cassa del Mezzogiorno resta insuperabile e anche quella merita una rilettura, uno studio approfondito.
  Il problema di fondo è che oggi dobbiamo recuperare i divari attraverso lo strumento della perequazione, attraverso i poteri sostitutivi, attraverso l'attuazione dell'articolo 119, quinto comma, della Costituzione, con risorse aggiuntive e progetti speciali che possono consentire al centro di guidare questa competizione, con un patto con le Regioni più avanzate, perché è vero che il Veneto (e così vengo alla simmetria) e la Lombardia messi insieme rappresentano oltre il 40 per cento del PIL nazionale, è vero che queste Regioni lasciano sul terreno la loro capacità fiscale, non potendone usufruire appieno, ma occorre introdurre un ulteriore elemento, un elemento di coesione maggiore, un patto, così come hanno fatto in Germania i Länder occidentali e il Bund (rispetto ai Länder orientali, ci fu un accordo federale fra i Länder occidentali) per rimettere in sesto i Länder orientali e, in vent'anni, vi posso assicurare (io ho insegnato nell'università di Erfurt in Turingia), questo patto ha funzionato molto bene.
  Una parte del gap è ovviamente (lo dico con grande rammarico per le Regioni meridionali, compresa la mia regione di origine) riconducibile alla insufficienza delle capacità culturali della gestione dell'autonomia, il gap non è nelle risorse (non c'è terra più ricca della Sicilia, ve lo posso assicurare), il gap è culturale, si è formato per gli eventi storici e oggi le Regioni meridionali non hanno la capacità della gestione.
  Questo fenomeno si sta estendendo ed è già molto presente anche nell'amministrazione dello Stato, che è sempre meno capace di fare le cose. Gli strumenti ci sono (poteri sostitutivi, perequazione e via dicendo) per mettere a punto un progetto importantissimo che modifichi la situazione, e abbiamo bisogno di quest'inversione di tendenza, che non gioverebbe semplicemente alla Sicilia e alla Calabria, ma gioverebbe anche alla Lombardia e al Veneto.
  Questo però non deve significare che Lombardia e Veneto devono essere sacrificati, anzi l'asimmetria che loro possono generare con l'applicazione dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione, può essere il volano giusto per mettere in moto tutti i processi. Considero che almeno una parte delle Regioni a statuto speciale sia già in una situazione di specialità avanzata, ad esse si aggiungono queste due Regioni, e reputo che ci siano almeno altre cinque Regioni pronte a seguire l'esperienza del Veneto e della Lombardia. Anche dai dati che noi abbiamo risulta che sono in condizione di farlo (pensate alla Toscana e all'Emilia-Romagna, tanto per non andare lontano, ma ce ne sono altre).
  Se queste altre Regioni dovessero implementare ulteriormente l'asimmetria, nel senso di avere più funzioni con i dovuti finanziamenti, noi avremmo un sistema che può essere, al contempo e finalmente, in grado di valorizzare chi è più bravo, ma anche in grado di aiutare chi è meno fortunato, perché, a quel punto, lo Stato e le Pag. 16Regioni che chiedono la simmetria potrebbero...
  Questo accadrà anche in Europa, perché quando il mio collega von Bogdandy, che dirige il Max Planck Institut di Heidelberg, dove io ho studiato per alcuni anni, dice che è inutile aspettare che i greci risolvano i problemi perché non sono in condizione di farlo, ed è meglio mandare i funzionari della Commissione europea a risolvere le loro questioni, dice esattamente quello che si potrebbe fare per risolvere un problema di riequilibrio.

  STEFANO COLLINA. Mi scusi, quindi la sua proposta per la prossima riforma costituzionale è per l'introduzione di una Repubblica federale...

  STELIO MANGIAMELI, Direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie (ISSiRFA). No, è per l'introduzione di un regionalismo sano anche perché, come diceva Mortati, si è molto assottigliata la differenza fra federalismo e regionalismo. La nostra è una tradizione regionale che ha un significato ben preciso. Sono per un regionalismo serio, fatto bene, con attori, sia al centro sia alla periferia, che credono nelle Regioni.
  Per quanto riguarda i referendum, ovviamente, pur non essendo previsto dall'articolo 116, terzo comma, della Costituzione, non c'è dubbio che ha un valore politico tale che non può che rafforzare la negoziazione da parte delle Regioni.
  La modifica in materia di bilancio delle province dovrebbe essere introdotta immediatamente, anche perché se non diamo la possibilità di rifare seriamente il Piano territoriale di coordinamento, la programmazione e i programmi pluriennali di settore, le province restano lì «appese». Credo che così possa ripartire anche una serie di investimenti sul territorio per la messa in sicurezza, le frane, le strade, le scuole, a cui nessuno ha pensato, quando tutti, invece, pensavano di abolire...

  PRESIDENTE. Ringrazio il professor Mangiameli per il suo intervento e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 9.25.