XVII Legislatura

Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema di accoglienza, di identificazione ed espulsione, nonché sulle condizioni di trattenimento dei migranti e sulle risorse pubbliche impegnate

Resoconto stenografico



Seduta n. 81 di Martedì 28 marzo 2017

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Gelli Federico , Presidente ... 3 

Audizione di rappresentanti dell'Alleanza Cooperative Italiane sociali:
Gelli Federico , Presidente ... 3 
Guerini Giuseppe (PD) , Presidente Alleanza Cooperative Italiane Sociali ... 4 
Gelli Federico , Presidente ... 8 
Menetti Paola , Co-Presidente Alleanza Cooperative Italiane Sociali ... 8 
Gelli Federico , Presidente ... 10 
Fontana Gregorio (FI-PdL)  ... 10 
Beni Paolo (PD)  ... 10 
Gadda Maria Chiara (PD)  ... 11 
Carnevali Elena (PD)  ... 12 
Patriarca Edoardo (PD)  ... 13 
Gelli Federico , Presidente ... 14 
Guerini Giuseppe (PD) , Presidente Alleanza Cooperative Italiane Sociali ... 14 
Fontana Gregorio (FI-PdL)  ... 16 
Guerini Giuseppe (PD) , Presidente Alleanza Cooperative Italiane Sociali ... 16 
Menetti Paola , Co-Presidente Alleanza Cooperative Italiane Sociali ... 16 
Patriarca Edoardo , Presidente ... 18

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
FEDERICO GELLI

  La seduta comincia alle 14.20.

  (La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che della presente audizione sarà redatto un resoconto stenografico e che se non vi sono obiezioni la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso.

  (Così rimane stabilito).

Audizione di rappresentanti dell'Alleanza Cooperative Italiane sociali.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione di rappresentanti dell'Alleanza delle Cooperative Italiane sociali. Sono presenti Giuseppe Guerini, Presidente dell'Alleanza delle Cooperative Italiane Sociali e Presidente Federsolidarietà Confcooperative, Paola Menetti, Co-Presidente Alleanza Cooperative italiane sociali e Presidente Legacoop sociali. Giuseppina Colosimo non ha potuto essere presente.
  L'Alleanza delle cooperative è firmataria, insieme ad ANCI e al Ministero dell'interno, della «Carta della buona accoglienza», un documento di indirizzo e di auto-impegno volto a favorire le forme di accoglienza più durature. All'interno di questo documento vengono fissati degli obiettivi in grado di poter assicurare e offrire misure mirate alla persona, favorire l'integrazione puntando su piccoli numeri e diffusione nei territori, garantire la titolarità pubblica degli interventi grazie al coordinamento con prefetture e comuni, rendere di conseguenza l'inclusione sostenibile per le comunità locali, evitando tensioni e conflittualità.
  Questa Commissione ha più volte espresso e condiviso l'orientamento volto a favorire l'accoglienza diffusa, che impegna maggiormente la responsabilità delle comunità e degli enti locali e che proprio per tale ragione tende a selezionare un tipo di integrazione qualitativamente più evoluta. Si sa però che circa l'80 per cento dei migranti si trova in strutture straordinarie, per cui occorre imprimere un'accelerazione ai fenomeni di accoglienza diffusa, ampliando i posti attualmente disponibili.
  In proposito sappiamo che l'imposizione di un obbligo di accoglienza ai comuni è stato escluso, mentre si sono sperimentate politiche premiali a favore dei comuni impegnati nell'accoglienza.
  La Commissione ha sperimentato la difficoltà di coniugare finalità di lucro con politiche di accoglienza. Il Ministero sul lato ordinamentale ritiene di affrontare nell'immediato questo tema con una riforma del contratto tipo per la gestione dei centri di accoglienza e questo sarà un tema di approfondimento (nelle prossime settimane abbiamo previsto un'audizione del dottor Cantone).
  Su un piano più operativo appare utile acquisire l'opinione dei rappresentanti del settore delle cooperative, ricordando che, in base ai dati resi noti, il settore già ora assorbe quasi 220.000 lavoratori stranieri.
  Lascerei quindi la parola al dottor Giuseppe Guerini, Presidente dell'Alleanza Cooperative Italiane sociali, affinché svolga il suo intervento, cui faranno seguito eventuali domande e richieste di chiarimento da parte dei colleghi.

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  GIUSEPPE GUERINI, Presidente Alleanza Cooperative Italiane Sociali. Ringrazio il presidente e gli onorevoli parlamentari per l'invito a svolgere questa audizione, invito che abbiamo accolto con favore perché riteniamo sia davvero importante avere occasioni di confronto e di approfondimento sul tema dell'accoglienza dei rifugiati, in particolare in questa stagione ormai molto lunga di emergenza che stiamo gestendo.
  Avete fatto riferimento in particolare alla «Carta della buona accoglienza», impegno che abbiamo sottoscritto lo scorso anno, proprio alla luce degli eventi drammatici che si sono verificati sul territorio, che hanno riguardato anche il coinvolgimento di cooperative nella gestione di centri di accoglienza, che hanno realizzato dei casi emblematici di cattiva gestione e di utilizzo distorsivo delle risorse, ma anche condizioni che non garantivano una dignitosa accoglienza delle persone, ma soprattutto hanno rappresentato un problema sul piano dell'ordine pubblico e dell'impatto sui territori.
  Noi abbiamo fatto un lavoro di ricognizione, andando a individuare sui territori il modello prevalente di intervento che gestivano le nostre cooperative e, alla luce di quel percorso, abbiamo elaborato un documento di impegno, che abbiamo chiamato «Carta della buona accoglienza», che abbiamo sottoposto al Ministero dell'interno e ad ANCI, chiedendo loro di condividere con noi questo impegno.
  Ovviamente siamo un'organizzazione di rappresentanza, quindi non abbiamo un potere coercitivo verso le cooperative, però abbiamo agito una politica di tipo persuasivo e di orientamento.
  Nella nostra Carta abbiamo affermato che, coerentemente al mandato e alla missione delle cooperative sociali, l'accoglienza non può essere considerata come un intervento che apre uno spazio di mercato, ma deve essere collegata a un obiettivo più ampio delle cooperative sociali, che è quello di lavorare con le comunità locali, all'interno delle quali si opera. L'articolo 1 della legge che istituisce le cooperative sociali fa infatti riferimento a un'organizzazione che promuove gli interessi e il benessere della comunità.
  L'idea quindi è che l'accoglienza che realizziamo debba essere fatta in relazione a queste comunità locali, quindi l'impostazione che abbiamo dato a questo documento e che chiediamo alle nostre cooperative è di evitare di essere coinvolte nella gestione di servizi di emergenza, di grandi centri di accoglienza sul modello dei CARA o degli hotspot, che sono interventi di carattere emergenziale, sui quali è difficilissimo essere coerenti con la propria missione.
  Abbiamo riscontrato che gran parte delle nostre cooperative lavora su un'esperienza fondata sugli SPRAR, quindi su servizi di protezione e accoglienza rifugiati, che ha un'impostazione quasi opposta a quella dei CAS, un'accoglienza caratterizzata prevalentemente da centri distribuiti sul territorio, piccoli numeri. Abbiamo censito che sono circa 250 le cooperative che gestiscono servizi di accoglienza rifugiati per circa 40.000 persone, rispetto ai 170.000-180.000 rifugiati che sono in questo momento sul territorio nazionale. Abbiamo raccolto questi dati un paio di mesi fa, quindi con l'evoluzione che vi è stata, invece di 40.000 potrebbero essere 45.000, però il dato è questo. Sono prevalentemente in strutture piccole, soprattutto in questi centri di accoglienza straordinaria, gestiti dalle prefetture (tuttavia sul concetto di «piccolo» dobbiamo ritornare).
  Un'altra parte molto significativa di accoglienza riguarda gli SPRAR, perché attualmente ci sono circa 27.000 persone accolte nella rete SPRAR delle cooperative.
  A partire da questa esperienza, nella «Carta dell'accoglienza» abbiamo proposto alcuni standard di qualità, che assicurassero nella gestione dei servizi un'organizzazione su piccoli numeri, il che non vuol dire che una cooperativa debba gestire solo un piccolo centro di 4 persone, perché abbiamo cooperative che arrivano ad avere 800-900 persone ospitate, ma distribuite in una pluralità di centri sul territorio, in modo che ci sia la possibilità effettiva di prestare attenzione alle misure di protezione e assistenza delle persone, costruire Pag. 5un percorso di accompagnamento e garantire una qualità che preveda degli standard minimi.
  Alcuni potrebbero far sorridere, ma si va dal prevedere l'accesso a un percorso di mediazione culturale, uno standard minimo di dieci ore di insegnamento della lingua italiana, a un minimo di tutela legale e di orientamento giuridico per accompagnare le persone agli incontri con la Commissione, tre pasti al giorno, coerentemente anche con le tradizioni religiose e culturali. A volte si diffonde la notizia che si sia sprecato tanto cibo, ma magari in quel centro avevano dato qualcosa che le prescrizioni religiose o addirittura le intolleranze alimentari impedivano di mangiare.
  Le intolleranze alimentari sono infatti molto diverse per chi proviene dall'Africa subsahariana rispetto alle nostre, per cui molte persone non digeriscono la pasta. Sembra una banalità, ma poi succede che la gente pensi che sprechino del cibo, sebbene ci siano anche casi del genere, perché l'umanità è complessa e varia in tutte le latitudini.
  A questi si aggiungono il tema del vestiario, i kit d'igiene personale, l'accompagnamento ai servizi del territorio, uno standard minimo di formazione professionale e di accompagnamento – laddove è possibile – a percorsi di tirocinio, alla certificazione delle competenze; infine, il coinvolgimento del territorio, quindi associazioni di volontariato.
  Noi stiamo riscontrando che, laddove questo tipo di prescrizione viene attuata, l'impatto sulle comunità locali è attenuato. Quando si coinvolgono i volontari, la gente comincia a fidarsi, a capire cosa significa, con esperienze anche molto significative. Ad esempio, in alcuni paesi dell'entroterra ligure, dove in piccoli gruppi sono stati portati in realtà molto impoverite, dopo una prima accoglienza da parte della popolazione sospettosa e preoccupata, il fatto che la cooperativa che gestisce questi servizi abbia deciso di non fare la fornitura dei pasti organizzata, ma di dare un piccolo budget alle persone che sono lì o agli operatori e di fare banalmente la spesa quotidiana nel negozietto magari di un paesino di pochissimi abitanti, porta a quel negoziante un po’ di mercato e dà un'idea diversa.
  Queste sono le situazioni di testimonianza più positiva. Nella gestione di numeri maggiori, quando si hanno 50 persone magari in una ex struttura residenziale per anziani piuttosto che in una ex colonia, l'impatto comincia a essere più significativo. Però questo è l'impegno che noi abbiamo sottoscritto.
  C'è uno sforzo che stiamo dispiegando per far sì che questo modello venga attuato su tutti i territori, ma nella gestione dei CAS questo impatta con due problemi. Il primo è quello della dimensione emergenziale, in quanto arrivano in alcuni territori (banalmente la Lombardia, che è una delle aree territoriali più popolose del Paese) tante persone e non esiste un hotspot, per cui le persone arrivano nella periferia di Milano sugli autobus, vengono smistate da un autobus a un altro e vengono poi portate anche nel giro di poche ore o di pochi giorni nei centri sul territorio; quindi l'allestimento della capacità di accoglienza si scontra con la dimensione emergenziale. Da questo punto di vista un'attenzione da riservare a che tipo di filiera costruire nella distribuzione sul territorio credo sia molto significativa.
  L'altra questione è di carattere formale: aspettiamo davvero con grande interesse la definizione di una procedura tipo e di un modello di gara di affidamento standardizzato dal Ministero, perché ne vediamo tanti quante sono le prefetture italiane, con modalità molto diverse.
  Occorre riconoscere che le prefetture hanno una storia e sono nate con delle funzioni, ma si trovano a gestire affidamenti pubblici con scarsità di risorse, per cui il funzionario della prefettura si deve inventare stazione appaltante, magari con tutta la buona volontà. Abbiamo visto gare ben strutturate sul piano della richiesta di requisiti, addirittura molto alti gli standard di richiesta, ma poi è la stessa prefettura che si trova costretta a disattenderli perché arriva un altro carico e dice: «sì, è vero che ti ho messo non più di 20 persone, ma devi prendermi anche queste altre 20, perché Pag. 6non so dove metterle» quindi si viene messi sempre in condizione di andare fuori dalle regole che ci siamo dati o che avete prescritto.
  Una delle questioni di questi giorni riguarda una prefettura che ha proposto di mettere nel bando l'installazione in ciascuno dei centri di accoglienza – anche quelli di piccola accoglienza – un rilevatore dei parametri biometrici, che si mette negli aeroporti per l'identificazione della pupilla. Se abbiamo 8 persone in due appartamenti in un condominio, perché mettere il rilevatore biometrico all'ingresso del condominio dove ci sono anche altre famiglie? Questo al di là della questione dei costi di installazione.
  C'è giustamente una preoccupazione e un'esigenza di controllo, ma bisogna valutare attentamente, anche perché qui abbiamo un'altra criticità molto delicata, che è il ruolo dell'operatore che fa l'accoglienza, che ha queste prescrizioni di tipo assistenziale, di cura, di attenzione e di integrazione. Sicuramente c'è una parte di controllo e di tenuta delle regole, ma non può diventare un ufficiale di pubblica sicurezza, perché non ne ha le competenze e le capacità.
  Il decreto Minniti fa riferimento al fatto che gli operatori incaricati sono ufficiali pubblici, ma dobbiamo capire qual è l'aspettativa di cui investiamo queste persone, che sono prevalentemente educatori, operatori sociali, quindi con quel tipo di formazione non possiamo immaginare che possano svolgere questo tipo di attività. Questo per quanto riguarda i CAS.
  Abbiamo qualche difficoltà sulla quale è indispensabile un intervento vostro, della politica, del decisore politico, che riguarda alcune delle procedure con cui si sviluppa il percorso. Il primo accesso alla Commissione di valutazione di un rifugiato si realizza generalmente intorno ai 9 mesi, quindi occorrono 9 mesi prima che uno arrivi davanti alla Commissione. È un tempo piuttosto lungo ed è evidente che, per le condizioni del processo migratorio in atto in Italia, gran parte di queste persone va verso il diniego. Però noi investiamo delle risorse, perché per il corso di italiano, per la formazione spendiamo risorse pubbliche, quindi bisogna accorciare molto i tempi o trovare una soluzione, perché poi 9 mesi non bastano, perché poi ci sono i ricorsi e la media di permanenza di una persona nei nostri CAS è di circa 30 mesi; quindi noi facciamo più di due anni di lavoro.
  Stiamo riscontrando (chiaramente c'è un passaparola molto alto) che le altissime percentuali di respingimento, quindi di diniego del riconoscimento dello status, determinano una situazione molto complicata, perché il rifugiato che ha passato 30 mesi in una struttura ha come riferimento quegli operatori e quando riceve il diniego (adesso i più bravi fanno un lungo percorso di accompagnamento e gli dicono che può andare così) in alcuni casi è necessario gestire anche la crisi di aggressività o l'arrabbiatura e il fatto che di queste persone, in percentuali che arrivano al 70 per cento, non si sa più nulla. Quindi di fatto noi impieghiamo 30 mesi a fabbricare quello che poi diventa un clandestino.
  Questa è una situazione che bisognerà affrontare, perché altrimenti si rischia di continuare così, e con tutta la buona volontà, con le misure che si possono mettere in atto, quando hai tenuto una persona per così tanto tempo la procedura di rimpatrio è molto complessa, perché quelli che vengono diniegati in buona parte non provengono da Paesi in condizioni drammatiche di guerra per cui non si potrebbe neanche siglare l'accordo per rimpatriare una persona in mancanza di uno Stato, ma per esempio dall'area del Maghreb e dal Pakistan sono parecchi. È vero che il Pakistan forse non è un esempio di democrazia, però è uno Stato con cui ci sono dei rapporti ed è difficile realizzare questi rientri, quindi bisognerà immaginare qualcosa anche in questa direzione.
  Noi abbiamo apprezzato alcune proposte che sono una sorta di permesso di soggiorno «a punti», cioè si riconosce l'impegno di una persona e le si concede un permesso di soggiorno temporaneo per cercare lavoro o per avere un percorso che le consenta un'evoluzione della sua situazione perché i numeri diventano molto significativi. Pag. 7
  Un altro effetto che stiamo riscontrando è la perdita di motivazione. Siccome c'è il passaparola, uno si chiede perché dovrebbe impegnarsi a imparare l'italiano. Quindi sta qui, prende quel che può, finché riesce, e poi sarà quel che sarà.
  Noi abbiamo storie di ragazzi che con i 2,50 di pocket money, poiché ovviamente non fumano e non spendono, risparmiano e riescono a spedire dei soldi, perché, se uno spedisce 30 euro al mese in alcuni Paesi dell'Africa subsahariana, con il pocket money ci mantiene la famiglia, quindi quello che a noi sembra una cosa da poco... Uno dice quindi: «Che mi importa di impegnarmi? Prendo per due anni questa cosa, mando qualcosa a casa, poi sarà quel che sarà, faccio il clandestino, cerco di andare da un'altra parte». Un pensiero su che tipo di processo mettiamo in atto sull'accompagnamento al riconoscimento di uno status diverso da quello di rifugiato è una cosa che va approfondita.
  Un'altra questione rilevantissima e delicata è quella dei minori. Quello dei minori non accompagnati è un capitolo enorme, ma parliamo di minori identificabili. Noi assistiamo a questo caso: giovani dall'età non perfettamente individuabile, che potrebbero avere 17 come 21 anni, che arrivano, si dichiarano minorenni, magari si fa dopo un po’ di tempo l'esame del polso e salta fuori che effettivamente minorenne non è, ma intanto è rimasto lì. Forse un pensiero su delle strutture di passaggio, perché noi non possiamo pensare che un adolescente di 17 anni che arriva dall'Afghanistan, dal Pakistan, dal Sudan sia un minore con le caratteristiche dei nostri minori, ma non possiamo neanche pensare che un ragazzo di 19 o 20 anni, inserito come capita in molti casi in una struttura per adulti, sia collocato nel posto giusto. Forse una riflessione su cosa sia la maggiore età in contesti diversi andrebbe strutturato.
  Paradossalmente abbiamo alcuni standard di gestione dei centri di accoglienza minori che fino a 18 anni prevedono lo stesso standard adottato per gli adolescenti italiani. Non vorrei che sembrasse razzismo, ma è questione di esperienza, di cultura, perché immaginate un ragazzo che è partito a 16 anni dall'Afghanistan, si è fatto un anno e mezzo di viaggio a piedi attraversando il continente asiatico, l'ultimo tratto l'ha fatto sul cassone di un camion (cose che sono capitate), non è sicuramente uno dei nostri diciassettenni un po’ «spampanati» che ci capita di avere in famiglia (nel mio caso!) o a volte nei servizi.
  Altra questione molto delicata è quella delle condizioni di salute fisica, che viene discretamente rilevata negli hotspot, nei primi centri, sebbene capiti il caso di quello che non ha dichiarato che era in AIDS conclamato e te lo trovi in struttura. Una delle situazioni più critiche è quella del disturbo psichiatrico, che è molto frequente e di due tipologie: il disturbo psichiatrico «assimilabile» ai nostri e i cosiddetti «disturbi psichiatrici post-traumatici» soprattutto in chi arriva dalle zone di guerra. Questi richiedono attenzione e trattamenti particolari.
  Abbiamo qualche esperienza, una in particolare in Piemonte, in una struttura SPRAR specializzata sulle persone che hanno problematiche psichiatriche, quindi la cosa sta diventando molto complessa. Questo per quanto riguarda la situazione dei CAS.
  Ho già detto della situazione rispetto alle procedure di affidamento. Occorre registrare (lo verifichiamo nel modello giuridico cooperativo, ma anche in altri) che 170.000 persone sul territorio, che valgono – scusate la volgarità – 35 euro al giorno, sono un oggettivo interesse di mercato. I nostri numeri sono questi. Noi vediamo nascere cooperative che spuntano dal nulla, altre S.r.l. che si candidano a gestire i servizi, con livelli di preparazione più o meno adeguati, molte riconversioni di imprese di logistica, di pulizie, di servizi cimiteriali che si sono reinventate. La libertà d'impresa è sacrosanta, però serve anche accompagnare un po’ la sorveglianza di questi percorsi.
  Un altro dato molto critico riguarda le modalità di assegnazione del codice fiscale. Sembra una sciocchezza, abbiamo modalità molto diverse, però prevale un percorso che attribuisce al rifugiato un codice fiscale esclusivamente numerico, non come il nostro, Pag. 8 che è alfanumerico. Questo determina dei problemi molto grandi rispetto al tirocinio o a borse-lavoro, perché non riesci in nessun modo a inserirlo nei sistemi informatici di avviamento al lavoro, di coperture assicurative, perché il codice fiscale non è accettato da nessun sistema. Credo che basti poco per mettersi d'accordo su come si fa il codice fiscale in formato alfanumerico, perché questa è una distorsione che lascia molti elementi di perplessità.
  Sul fronte SPRAR, che è il modello che proponiamo come riferimento, che coinvolge di più i comuni e dà un maggior spazio di protagonismo, molto bene il fatto che rispetto al passato, quando si faceva un bando una volta tanto, si facciano due finestre di apertura dei bandi nel corso di un anno, è sicuramente positivo, ma abbiamo per contro una situazione all'inverso rispetto ai CAS.
  Qui abbiamo una struttura molto centralizzata, gestita dal Ministero, che costruisce anche un sistema di manualistica molto rigoroso, addirittura molto rigido in alcuni casi, un sistema di rendicontazione estremamente complesso, quindi alcuni comuni che si affacciano all'ipotesi di fare SPRAR per evitare di avere il CAS sul territorio, dicono che è troppo complicato e che non hanno il personale per gestire tutta questa burocrazia.
  L'altro dato è che ci troviamo con una situazione in cui, su 27.000 persone che abbiamo negli SPRAR, oggi abbiamo 2.000 posti vuoti, perché la regola SPRAR prevede che il 70 per cento delle persone assegnate sia deciso dalla struttura ministeriale e il 30 per cento dal territorio, quindi si crea una situazione di distorsione, per cui magari hai le persone sul territorio che premono per entrare, ma hanno superato la quota del 30 per cento e devi aspettare l'assegnazione del Ministero. In questo modo si creano degli spazi vuoti, per cui hai le persone che rimangono nei CAS quando potrebbero entrare nello SPRAR: il posto c'è, ma non si riescono a far combinare queste due cose.
  Forse una compensazione o la costruzione di un modello di gestione e di rendicontazione che allenti un po’ o renda più flessibile il sistema SPRAR e più strutturato e centralizzato il sistema CAS potrebbe essere un intervento utile, perché favorirebbe anche un movimento.
  Noi siamo molto preoccupati rispetto alla prossima stagione, perché la bella stagione porta l'aumento del numero di sbarchi, quindi sovrannumero, prefetture che si trovano con l'acqua alla gola, che chiedono di prenderli perché non sanno dove metterli. Bisogna prepararsi ad un'estate impegnativa.
  Mi fermo qui, perché altrimenti tendo a parlare troppo.

  PRESIDENTE. Grazie. Non so se la dottoressa Menetti voglia integrare brevemente.

  PAOLA MENETTI, Co-Presidente Alleanza Cooperative Italiane Sociali. Intanto grazie per averci invitato, ma penso che per noi sarebbe interessante rispondere ad eventuali domande. Non avendo nulla da aggiungere a quanto evidenziato da Giuseppe Guerini, vorrei solo dire due cose.
  La prima è che su questa «Carta della buona accoglienza» abbiamo anche investito. Ha raccolto un interesse molto rilevante fra le cooperative, si è creato un movimento, ci sono persone che si incontrano stabilmente nelle singole, nostre organizzazioni, e poi anche in forma condivisa. Il problema è l'attuazione di quello che c'è scritto lì dentro, non solo per la difficoltà del problema in sé (il tema è complesso e mette in gioco opzioni diverse, scelte), ma anche dal punto di vista del pensare una macchina e farla partire.
  Il tema del superare l'approccio di emergenza nei territori è un problema grosso. Il tema di come le prefetture e i comuni lavorano insieme è un problema enorme, come quello di coloro che gestiscono o vogliono candidarsi a gestire possano essere conosciuti, valutati, documentando caratteristiche, esperienze, requisiti, titoli, perché questo è un mondo nel quale entra chiunque, ed è inaccettabile. Come si può strutturare un percorso di controlli? Questo ci interessa moltissimo, perché dispiace profondamente essere costantemente additati Pag. 9 come quelli che fanno i soldi sugli immigrati, perché è successo che un delinquente o più delinquenti hanno deciso di dire, parlando al telefono, che ci si fa un mucchio di soldi. Ma questa non è la cooperazione sociale. Noi contro quel signore ci siamo costituiti parte civile in un processo e siamo stati ammessi come parte civile.
  È quindi necessario che questi controlli ci siano, ma in quest'onda violenta, per cui il problema è altri 20 da collocare, poi altri 30 e poi altri 40, e non c'è tempo di occuparsi di quello che succede nel frattempo, questa cosa rischia di creare una situazione che poi diventa veramente ingestibile.
  Il punto è come darsi regole e modalità per lavorare insieme fra istituzioni in primo luogo e poi anche con i soggetti che intervengono, che siano cooperative, imprese private, associazioni o volontariato, laddove queste cose sono ancora troppo legate alla buona volontà del singolo amministratore o del singolo prefetto e non sono ancora una cultura del sistema. Questa non è una cosa positiva, non va bene da questo punto di vista.
  La seconda questione che mi pare giusto sottolineare, anche se l'ha già detta Giuseppe Guerini, è la scelta di campo fatta con questa «Carta per la buona accoglienza», scelta che francamente non era scontata. Noi siamo molto convinti di quello che abbiamo scritto: laddove individuiamo una struttura di dimensione contenuta, integrata sul territorio, finalizzata all'integrazione piuttosto che alla reclusione e alla carcerazione delle persone, questa è una scelta netta. Avendo noi fatto esperienze nella gestione di strutture grandi come i CARA, oltre che per ragioni di principio, siamo in grado di dire convintamente che quelle strutture non funzionano, non rispondono alle esigenze di trattare le persone come si devono trattare, né di efficacia dal punto di vista dello scopo cui dovrebbero servire.
  I primi a rendersi conto di questo sono i cooperatori che hanno lavorato in questi servizi. Abbiamo fra i nostri associati il Consorzio Sisifo, del quale molto si è parlato (vorrei sottolineare che non risulta oggetto di indagine nei diversi servizi in cui ha lavorato), che ha deliberato nei suoi organi dirigenti che smetterà di gestire servizi per immigrati, perché ritiene che non ci siano in questi servizi le condizioni per un lavoro coerente con quello che dovrebbe essere il lavoro delle cooperative sociali. Non lo abbiamo considerato un successo, lo abbiamo considerato la certificazione di una difficoltà enorme che c'è in questo tipo di servizi.
  Anche il fatto di ribadire (questo si connette molto strettamente all'attualità) la contrarietà alle strutture di tipo reclusivo: ora i nuovi provvedimenti parlano di riapertura dei CIE. Noi siamo molto favorevoli alla velocità di accertamento, al fatto che chi non ha titolo debba essere rimpatriato. Non siamo favorevoli alle strutture di detenzione, a maggior ragione quando le garanzie di una permanenza contenuta nel tempo non ci sono. Per la verità, avendo molto lavorato per chiudere i CIE, l'idea che vengano riaperti ci lascia perplessi.
  Infine, sulla questione cui faceva riferimento Giuseppe Guerini della funzione di pubblico ufficiale del responsabile di un servizio di accoglienza per i migranti, non ne vogliamo fare una questione ideologica, per cui alzare immediatamente le bandiere da una parte o dall'altra, però la convinzione che le funzioni di polizia debbano essere svolte dalla polizia e non da altri per noi è molto netta. Non siamo convinti che porti efficacia il fatto di mescolare questi aspetti, collocando il tema in nel contesto che Giuseppe descriveva. A noi questa cosa lascia veramente molto perplessi, ci preoccupa.
  Ultima questione quella dei minori non accompagnati. Con tutte le caratteristiche del problema qui stiamo però parlando di una questione assolutamente esplosiva, perché abbiamo interi territori, segnatamente la Sicilia, in cui il livello della pressione sulle amministrazioni locali, che in questo caso hanno responsabilità rispetto all'assistenza ai minori, è diventata a quanto pare del tutto insostenibile. Non ci sono fondi, non ci sono risorse, ci sono norme che impongono di garantire un certo tipo di Pag. 10prestazioni sulla base della legislazione italiana che riguarda i minori, ma l'assetto di quei servizi e la possibilità di garantirne la gestione dal punto di vista delle risorse non stanno insieme.
  Da questo punto di vista sta aumentando vistosamente il numero delle cooperative che decidono di smettere di gestire questi servizi, perché non sono in condizioni di assumersi la responsabilità di fare quello che c'è scritto che dovrebbero fare e neanche vogliono far finta; però in una situazione di questo genere dove vadano questi minori è questione da verificarsi.
  Non è un caso che abbiamo chiesto – e che verrà aperto – un tavolo specifico di confronto con il Ministero dell'interno, fra noi soggetti firmatari della «Carta della buona accoglienza», sul tema dei minori stranieri non accompagnati, perché, al di là delle parole, i famosi standard di servizio, la declinazione degli impegni e delle responsabilità bisogna aggiornarla e condividerla, fare dei ragionamenti che assomiglino alla realtà, altrimenti è un mistero quello di cui stiamo parlando.
  Siamo a disposizione per eventuali domande.

  PRESIDENTE. Grazie. Lascio la parola ai colleghi che desiderino intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  GREGORIO FONTANA. Grazie al dottor Guerini – che conosco, in quanto bergamasco, molto bene – e alla dottoressa Menetti per la loro presenza, perché ritengo che dagli interventi dei rappresentanti delle società cooperative sia emerso quanto queste associazioni stiano facendo per supplire a una funzione che dovrebbe essere presa in carico dallo Stato in maniera più diretta, perché va benissimo la «Carta della buona accoglienza», ma non ce ne dovrebbe essere bisogno, nel senso che ci dovrebbero essere degli standard di contratto controllati quotidianamente dalle prefetture e dallo Stato.
  La «Carta della buona accoglienza» è quindi un'autoregolamentazione meritoria che vi state dando, ma in teoria altri dovrebbero fare questi controlli, e la situazione emblematica è proprio questa del trasferimento e del meccanismo che dà la funzione di pubblico ufficiale. È un altro passaggio di questa delega assurda di un compito che invece il Governo dovrebbe svolgere. Però questa è una discussione politica e chiedo scusa se mi sono dilungato in queste considerazioni, che comunque saranno sviluppate in altra sede.
  Il punto fondamentale è quello che è stato detto poco fa, cioè l'assoluta inadeguatezza dei tempi di definizione della domanda di asilo che, se fosse risolta, risolverebbe molto.
  Dal punto di vista della vostra esperienza, i controlli effettuati dalle prefetture e quindi dal Governo come vengono fatti? Anche qui c'è differenza tra provincia e provincia o c'è un'uniformità rispetto alla verifica degli standard contrattuali? Di fronte a un impegno così forte delle strutture delle cooperative (abbiamo sentito di riconversioni di attività e dell'oggetto sociale), che potenziale c'è ancora nel futuro del mondo cooperativo «sano», che fa riferimento a voi ed è disponibile a collaborare e a fare da supplente?
  Rispetto alle condizioni standard specialmente dei CAS (perché il vero problema sono i CAS, non gli SPRAR; magari potessimo gestire tutto con gli SPRAR!) qual è in base alla vostra esperienza l'equilibrio economico rispetto agli standard che ci sono oggi?

  PAOLO BENI. Vi ringrazio molto delle cose che ci avete detto, che sono utilissime e che confortano i componenti di questa Commissione, perché vanno totalmente nella direzione di quello che da tempo ci diciamo, seguendo questa materia e sforzandoci di capire le problematiche, ma anche di individuare le soluzioni.
  È opinione condivisa della Commissione che la buona accoglienza sia possibile solo con il coinvolgimento delle comunità locali, dimensioni contenute, standard elevati di qualità di servizi, integrazione territoriale. E sicuramente non attraverso i grandi centri: ne abbiamo studiati alcuni in particolare e abbiamo concluso, anche nei documenti della Commissione, che quel modello è fallimentare da vari punti di vista, non Pag. 11solo dal punto di vista della qualità dell'accoglienza che siamo in grado di offrire, ma anche della trasparenza, dei rischi connessi.
  Il nostro assillo (e credo anche del Governo italiano) è come riconvertire questo sistema in corsa, con il motore acceso, cioè come spostare quell'80-20 per cento fra CAS e SPRAR e ribaltare la proporzione, considerando che questo va fatto mentre il sistema gira, mentre le persone continuano ad arrivare e in vigenza di un meccanismo (le Commissioni territoriali e i ricorsi) che lo rende complesso, per i motivi che voi avete detto.
  Lo ribadisco perché sono perfettamente consapevole che il movimento cooperativistico, per le sue caratteristiche, per le sue vocazioni, come del resto altri ambiti del mondo del terzo settore (penso al volontariato, all'associazionismo), è partner indispensabile se vogliamo provare a riconvertire il sistema complessivo dell'accoglienza in maniera più coerente, nella direzione che voi dite; quindi è fondamentale un suo contributo. Ho due domande.
  All'inizio Giuseppe Guerini parlava di 40.000 e poi ha citato il dato degli SPRAR; ma avete i dati complessivi di quale pezzo le imprese cooperative associate dell'Alleanza gestiscano dei CAS, quanto degli SPRAR – perché poi negli SPRAR ci sono la Caritas e le associazioni –, quanto dei centri governativi (che vogliamo superare, ma esistono ancora)? Questo per avere un quadro completo della situazione.
  Rispetto ai requisiti della Carta, ragionevolmente quanto pensate di essere in grado di verificarne il rispetto da parte dei vostri associati? Non è possibile che qualcuno faccia l'opposto? Quindi che misure avete messo in atto al vostro interno?
  L'ultima questione riguarda la qualifica professionale. Siccome già c'è un problema sulle qualifiche professionali degli operatori sociali in genere, quindi sulla qualifica professionale specifica riferita a questo settore, c'è un punto che non è stato citato, ossia (non ho visto la Carta ma saremmo interessati ad averla) se esista un legame fra la disponibilità della struttura fisica e la partecipazione alle gare per quanto riguarda la fornitura di servizi.
  Una delle cose che Cantone ha sempre detto in audizione è che uno dei problemi che vede è che spesso la tendenza a rendere quasi inevitabile la conferma dell'appalto della fornitura di servizi ad un soggetto è legata al fatto che i costi ce l'ha quel soggetto. Vorrei sapere se anche voi abbiate verificato questo. Scusate la lunghezza.

  MARIA CHIARA GADDA. Desidero ringraziarvi anch'io per l'intervento di oggi, ma anche per l'impegno e la serietà con cui le vostre cooperative gestiscono un tema non certo semplice, che è ben rappresentato dalla «Carta della buona accoglienza». Su questo documento vorrei chiedere una precisazione che forse mi è sfuggita, quando si parlava di standard minimi che lei ha elencato citando 10 ore di insegnamento della lingua. Immagino che siano settimanali, ma sarebbe bene precisarlo, anche perché questo è un tema che nelle nostre audizioni abbiamo considerato molto carente, mentre 10 ore settimanali di servizio offerto sono sicuramente un buon modo per andare nella direzione dell'integrazione.
  Volevo sapere se nella «Carta della buona accoglienza» ci siano degli standard, dei requisiti minimi anche relativamente agli stabili, agli edifici, agli appartamenti, alle strutture che possono ospitare i ragazzi richiedenti asilo, perché questo è un altro tema assai dolente, spesso sono capannoni, ex fabbriche abbandonate, dove le condizioni non sono certo le più dignitose, soprattutto per chi viene ospitato, ma anche per chi ci lavora.
  Sul tema dei controlli vorrei riprendere il tema posto dai colleghi Beni e Fontana, dividendo il tema su due questioni: da un lato capire in modo più preciso come le prefetture e le diverse strutture preposte a questi controlli svolgano questa loro funzione, questa loro responsabilità; dall'altro lato come all'interno dell'Alleanza delle cooperative venga svolta questa funzione di controllo, se abbiate mai pensato di definire un Albo strutturato delle cooperative specializzate sul tema dell'accoglienza, individuando i requisiti che ne determinano Pag. 12l'entrata e l'uscita nel caso di mancato rispetto dei requisiti.
  Per quanto riguarda i centri di media e grande dimensione che continuano ad esistere e talvolta risultano necessari quando le strutture piccole e diffuse sul territorio non riescono a soddisfare la richiesta, soprattutto in certi periodi (ci avviciniamo a una stagione non certo semplice), una nota dolente riguarda le procedure di acquisto delle forniture dei kit e di tutto quello che deve essere previsto dai capitolati.
  Queste procedure di prassi vengono definite dalla società che gestisce la struttura, ma talvolta questi acquisti risultano fittizi. Avete mai pensato a una modalità alternativa di acquisto di queste forniture, centralizzata, gestita dallo Stato, che garantisca che queste forniture vengano effettivamente acquistate, che abbiano dei requisiti minimi e vengano consegnate alle persone? Non vorrei che si facesse una discriminazione tra persone ospitate in una struttura piuttosto che in un'altra, per cui in una struttura si riceve un kit completo e adeguato e in un'altra no.
  L'ultima domanda riguarda le persone con disagio psichico, tema posto anche in altre audizioni. Lei ha citato una struttura in Piemonte. Ma queste persone con disagio psichico come vengono trattate, come vengono gestite all'interno delle Commissioni di valutazione, che molto di rado hanno una specializzazione in queste patologie? Se può entrare più nel dettaglio sulle caratteristiche che alcune strutture specializzate, partendo da quel caso positivo, potrebbero essere diffuse sul territorio nazionale, quindi pensare a un'eventuale procedura standard di accoglienza e di gestione di queste persone, che altrimenti rischiano di essere lasciate al loro destino.

  ELENA CARNEVALI. Ringrazio molto sia il presidente Guerini che la co-presidente Menetti per aver illustrato con molta franchezza non solo l'impegno che stanno promuovendo, ma anche le problematiche che stanno affrontando. Innanzitutto credo che la proposta della «Carta della buona accoglienza» vada nel solco di un'autoregolamentazione meritoria, ma anche in quello di promuovere una cultura dell'accoglienza e dell'integrazione.
  Vado al merito di domande molto veloci. La prima riguarda una verifica/selezione delle condizioni di legalità, trasparenza, competenza del mondo cooperativo. Ritenete che all'interno della delega del terzo settore e dei decreti attuativi ci possano essere delle soluzioni praticabili, per fare in modo che tutte quelle riconversioni, che noi abbiamo verificato e voi avete già segnalato più volte al Ministero dell'interno, possano essere fermate all'origine, in quanto queste persone non hanno le caratteristiche per essere ritenute aderenti al mondo dell'impresa sociale piuttosto che della cooperazione sociale?
  Vorrei sapere se abbiate mai chiesto una relazione/incontro con l'Autorità Garante (mi riferisco in questo caso a Cantone) sulla predisposizione di questo contratto tipo, perché so che ci sono punti di vista molto differenti. Lo spacchettamento consente sicuramente di garantire più concorrenzialità, ma so che alcuni lo vedono anche con preoccupazione. Vorrei sapere quale sia il vostro punto di vista e se abbiate avuto relazioni.
  Sulla questione del codice fiscale segnalo – che è più una risposta che vi dobbiamo noi, perché è passato un mese e mezzo da quando abbiamo posto il tema al Ministero dell'interno – la questione è legata all'Agenzia delle entrate. A questo punto chiedo anche al presidente nella sua veste di darci una mano per avere le risposte che stiamo aspettando dal Ministero. Mi auguro che siano celeri e vadano nell'obiettivo di avere borse lavoro e tirocini.
  Vado sulla questione legata ai minori. Avete toccato un tema molto delicato, che abbiamo peraltro già visto anche nel gruppo di lavoro che coordino e debbo dire che, pur comprendendo questo accento, che riguarda il fatto che spesso i minori che arrivano qua in una condizione esperienziale tra il drammatico e i corsi di sopravvivenza, non siano paragonabili ai nostri minori, capisco l'approccio e sono d'accordo sul fatto che dobbiamo adeguare gli standard, ma attenzione: abbiamo comunque Pag. 13 delle convenzioni internazionali che ogni Paese ha sottoscritto, alle quali non possiamo mai derogare.
  Questo non significa che abbiamo bisogno di introdurre degli elementi di flessibilità. Noi abbiamo chiesto al presidente dell'ANCI e anche al Ministero dell'interno di promuovere lo stesso accordo che è stato fatto, non solo quello del 14 luglio sul riparto, ma quello recente che riguarda l'accordo di distribuzione. C'è la competenza e c'è un'autonomia regionale, ma non può essere che l'alternativa sia o strutture di accoglienza con standard per minori particolarmente significativi o una sorta di «vuoto» (questa è in realtà la condizione) per cui tutta quella fetta di minori che possono avere il prosieguo per maggiore età cade nel vuoto e spesso non in luoghi adeguati.
  Chiedo quindi un concorso. Voi rappresentate una realtà tra le più consistenti di tutto il mondo della cooperazione e dell'impresa sociale; se facciamo uno sforzo in due, possiamo arrivare ad individuare gli standard. Rimane un'altra questione aperta, vale a dire che spesso il mondo della cooperazione è soggetto gestore di quasi tutte le strutture di accoglienza per minori, indipendentemente dal fatto che siano stranieri non accompagnati.
  Qui abbiamo un tema di «non utilizzo» di tutte le risorse che in questo momento il Ministero ha sulle strutture di accoglienza, come ci è stato riferito anche nelle audizioni precedenti, quindi credo che vada aperta una riflessione per capire se questi fondi FAMI si possano utilizzare non solo nella prima accoglienza, ma anche nella seconda. Va riconosciuto lo sforzo che abbiamo fatto per aumentare considerevolmente le risorse su questo fronte.
  C'è un punto su cui chiedo un chiarimento, ossia il passaggio in cui il presidente Guerini ci riferiva di questi 2000 posti che attualmente non sono occupati, soprattutto riguardo al sistema SPRAR, al passaggio dalla prima accoglienza. Io so che nella volontà e nelle linee guida (se posso usare questo termine) c'è il modello per cui persone che hanno già la garanzia di avere un permesso di soggiorno entrano nel sistema SPRAR. Non so se sia questo il limite.
  L'ultima domanda riguarda gli standard che voi avete sottoscritto con la «Carta della buona accoglienza». Vorrei capire se quegli standard minimi che avete previsto siano di fatto standard incrementativi rispetto al contratto tipo – chiamiamolo così, nonostante le miriadi di varietà – previsto dalle prefetture per la gestione dei CAS, ancorché piccoli perché sui grandi avete giustamente scelto di non farne una vostra attività di servizio, e quindi eventualmente quali siano gli standard aggiuntivi che avete introdotto, perché la mediazione, l'alfabetizzazione e i tre pasti al giorno dovrebbero a mio giudizio essere già previsti.

  EDOARDO PATRIARCA. Vorrei chiedervi due o tre chiarimenti. Il presidente Guerini parlava di queste regole piuttosto complicate a cui devono soggiacere i comuni, per cui può accadere che persino i comuni disponibili ad avventurarsi nell'accoglienza si trovino in difficoltà nella gestione della parte burocratica.
  Chiedevo un parere su questo, ossia se in base all'ipotesi spesso proposta da Caritas non sia giunto il tempo di aprire i bandi a livello locale non soltanto ai comuni come gestori, come enti deputati a partecipare al bando, ma di allargare la possibilità di accedere a questi bandi anche a soggetti strutturati, magari in accordo con i comuni, con i sindaci, con le comunità.
  Conoscete anche voi la situazione degli SPRAR: oggi sono una minoranza i comuni che aderiscono al progetto, se rimane la regola della volontarietà. Mi domando se questo non si possa rimuovere affidando anche la responsabilità a livello di territori non soltanto ad un comune, che magari in prima persona stenta ad aderire, ma anche a soggetti strutturati del terzo settore (penso alle cooperative, ma non solo). So che questo è un tema anche proposto da Caritas che nell'ultimo incontro ribadiva la disponibilità ad essere soggetto partecipante ai bandi, quindi non soltanto passando attraverso i comuni.
  Noi siamo spesso presi dalle vicende economiche, cioè dai «costi», quindi rispetto Pag. 14 al tema dei 35 euro (abbiamo fatto questa domanda anche ai dirigenti del Ministero) c'è chi sostiene che siano troppi e chi invece sostiene che siano pochi; voi avete una valutazione sui costi partendo dal presupposto di progetti veri, buoni, e di strutture sempre SPRAR, di piccole strutture? In termini di costi per le vostre cooperative, questa quota che viene assegnata è eccessiva, come qualcuno dice? Rispetto ad un progetto di accoglienza più strutturata quali sono i costi standard che voi oggi ritenete opportuni per un'integrazione efficace sul territorio?
  Il sistema cooperativo ha un sistema di controllo interno, quindi mi domandavo se questo sistema di controllo interno, al di là dell'accordo della Carta, che pure è importante e prezioso, funzioni, e come funzioni. Una delle note rivolte al sistema cooperativo, alle centrali cooperative, le vostre, è che su alcune cooperative che sono indagate la domanda ricorrente era come mai non ci sia stato un controllo e nessuno abbia capito che lì si stavano attivando illegalità e procedure scorrette da un punto di vista della gestione.

  PRESIDENTE. Le domande sono moltissime, io vi inviterei ad essere molto rapidi ed eventualmente ad inviarci delle risposte scritte. Fra l'altro l'Assemblea di Montecitorio ha già ripreso i lavori, quindi abbiamo tempi molto stretti.

  GIUSEPPE GUERINI, Presidente Alleanza Cooperative Italiane Sociali. Cercherò di essere telegrafico, perché davvero mi chiedevo se dallo status di audito in Commissione poteva diventare un «soggiorno obbligatorio». Intanto vi ringrazio per le domande molto puntuali, perché alcune contengono già dei suggerimenti su cui lavorare, in quanto ovviamente quello che noi stiamo facendo oggi non risponde a tutto quello che bisognerebbe fare.
  Comincio dall'onorevole Fontana, dalla funzione di supplenza e dalla questione dei controlli. Credo che anche rispetto al nostro orientamento, rispetto ai temi della sussidiarietà e della corresponsabilità, in molti casi noi non ci siamo sentiti di svolgere una funzione di supplenza, ma di collaborazione. Tuttavia, soprattutto nelle cose che lei sottolineava, relative ad alcune funzioni di controllo o di gestione di alcuni casi emergenziali o di gestione di strutture in cui è prevalente l'esigenza di ordine pubblico su quella dell'accoglienza, effettivamente in alcuni casi, sbagliando, le cooperative si sono prestate ad una funzione di supplenza che non avrebbero dovuto svolgere.
  Rispetto alla questione dei controlli, le prefetture non hanno le risorse per fare dei controlli di appropriatezza adeguati, hanno pochi funzionari, che già semplicemente a gestire i bandi e l'ordinaria gestione dei flussi sono in affanno. Fanno qualche controllo, ma abbastanza contenuto. Qualche controllo lo fanno le Commissioni o a volte anche gli ispettori dell'UNHCR; ma poi lì rasentiamo il paradosso, perché in una struttura sono arrivati quando avevano finito di pranzare e stavano lavando i piatti, hanno intervistato una persona e le hanno chiesto cosa stesse facendo, questa ha risposto: «Lavo i piatti», quindi hanno detto: «Questo è lavoro nero». Noi cerchiamo di coinvolgerli perché, se uno mangia, beve e dorme in un posto, lo cura anche, lo pulisce e lo sistema.
  Cosa si potrebbe fare? Esiste un sistema strutturato di controlli che tutto sommato funziona sullo SPRAR ed è fatto da Commissioni miste (Ministero dell'interno e funzionari ANCI o distaccati dai comuni) che effettuano delle visite di sorveglianza. Si potrebbe immaginare di dire al Ministero che in questo momento l'emergenza è sui CAS, quindi di utilizzare queste risorse per incrementare il numero di controlli sui CAS, sapendo che tutto sommato il sistema SPRAR una qualche configurazione ce l'ha e che è strutturato su un sistema di rendicontazione e di manualistica di gestione molto più articolato. Questa potrebbe essere una suggestione da proporre rispetto alla domanda dell'onorevole Beni su come gestire contestualmente l'emergenza e questa necessità di maggiori controlli.
  Cosa stiamo sperimentando sulla «Carta della buona accoglienza»? La Carta prevede un'adesione volontaria, quindi è più Pag. 15un indirizzo di buone prassi. Chiamiamo le cooperative a firmarla, chiedendo di sottoscrivere questo impegno, quindi se sottoscrivi ti senti ingaggiato. Lo abbiamo sperimentato soprattutto in Lombardia, dove è partita e dove abbiamo più forza come Alleanza delle cooperative: una nostra Commissione interna effettua delle visite sul luogo, coinvolgiamo le amministrazioni locali, a volte anche dei vostri colleghi parlamentari che erano sul territorio, si fa un incontro, ci si fa raccontare dalla cooperativa come gestiscono, si visitano i locali.
  Questo è quello che stiamo facendo noi. Si potrebbe fare di più. Nella Carta non ci sono standard specifici sul piano strutturale, perché abbiamo preferito andare sugli aspetti di gestione, chiedendo in prima istanza standard di abitazioni ad uso civile oppure strutture residenziali; nelle nostre cooperative non abbiamo i capannoni con i letti a castello, abbiamo tanti letti a castello in tante strutture, però si cerca di ospitare 3-4 persone in ogni stanza. Questo è l'approccio che stiamo cercando di portare avanti.
  Sul piano delle forniture, ogni gestore fa i suoi acquisti in funzione della capacità che ha avuto di organizzarsi. In alcuni territori le cooperative si organizzano e magari fanno una centrale di acquisti per avere anche condizioni di prezzo migliori. A volte ci sono delle forniture da reperire perché ti chiama la prefettura la domenica sera e ti dice che l'indomani mattina arriva un pullman con 60 persone; quindi organizzarsi per avere i letti, i materassi, le coperte, con questi tempi, richiede un certo livello di strutturazione. Poi ci è capitato che alcune cooperative sono andate a fare la fornitura di soccorso a una Srl che si è trovata con l'assegnazione dei rifugiati, ma non aveva niente su cui appoggiarli. Però qua si potrebbe sicuramente fare qualcosa di più. Ho qualche dubbio sulla possibilità di una centralizzazione anche per questa enorme flessibilità, perché non sai prima dove arrivano le persone, come vengono distribuite, quindi sarebbe un lavoro piuttosto complicato.
  Rispetto alla dimensione economica e al potenziale, parto dalla questione dell'adeguatezza del prezzo. Dipende molto da cosa si fa. Noi diciamo che con 35 euro si può fare una buona gestione con quegli standard che dicevamo e una buona gestione, in una logica di un'organizzazione cooperativa, nel nostro caso che non ha finalità di lucro, che però con questi livelli di gestione può avere anche le risorse per il miglioramento della qualità dei servizi. Se quindi hai un certo numero di rifugiati accolti, hai un certo volume di attività, hai la possibilità di avere un margine con cui paghi l'etnopsichiatra per fare la consulenza, fai la formazione agli operatori, implementi qualche iniziativa di più, coinvolgendo i volontari, perché le condizioni ci sono.
  Cosa garantisce la tenuta di queste condizioni economiche, assicurando la qualità? Il fatto che in larga parte queste strutture – e questo è uno dei problemi – sono affidate con contratti di favore. Un ruolo enorme ce l'hanno tutte le diocesi italiane, che mettono a disposizione gli spazi, e questo comporta una riduzione dei costi significativa, ancorché valutazioni fatte con i colleghi, strutturando una cooperativa – non una che apre un appartamento e ci mette 4 persone, ma una che comincia ad avere un centinaio di persone accolte, ancorché distribuite – questa riesce anche a pagare degli affitti a canone di mercato, non ovviamente in via della Spiga o in Piazza Navona. Però sappiamo anche che c'è una disponibilità immobiliare importante anche nelle aree interne, nei paesi più decentrati.
  Stiamo assistendo a qualche preoccupazione della cittadinanza, per cui quando chiamiamo dicendo «sono la cooperativa, sto cercando un appartamento in affitto» prima di dire che serve per i disabili dichiarano subito di non avere niente. Abbiamo però anche delle richieste «speculative» di immobiliaristi che propongono di affittarci qualcosa per metterci i rifugiati.
  Noi tendiamo a non costruire il villaggio, ossia a non riempire una struttura vuota, che magari è un investimento immobiliare non andato a buon fine, solo di rifugiati, dove poi si hanno gli effetti di espulsione. Il Veneto andava in questa direzione, Pag. 16 ma, se ne concentri 1.000 in un paesino di 300 abitanti, diventa una situazione difficile da gestire.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE
EDOARDO PATRIARCA

  GREGORIO FONTANA. Quindi sostanzialmente i 35 euro sono sufficienti?

  GIUSEPPE GUERINI, Presidente Alleanza Cooperative Italiane Sociali. Io li confermo, poi magari c'è qualcuno che obietterà che, se spuntassimo qualcosa in più... Ma secondo me, oggi, 35 euro... Soprattutto se riuscissimo a lavorare costruendo un sistema di maggiore coinvolgimento anche delle amministrazioni locali. Fino a poco tempo fa, soprattutto con la grande disponibilità di diocesi o anche di fondazioni, di realtà che mettono a disposizione le strutture con prezzi calmierati, la cosa si è fatta molto sostenibile. Dovendo reperirli sul mercato diventa più complesso, perché poi ovviamente aumenta la domanda e aumenta anche il prezzo d'offerta di queste strutture.
  È un fenomeno che, come dicono tutti gli analisti, è destinato a durare, quindi sicuramente ne avremo ancora per alcuni anni. Mi auguro che come sistema Paese riusciamo ad uscire da questa dimensione emergenziale, sapendo che questo è un tema con il quale faremo i conti. Finisce una guerra e comincia una carestia, poi vai a spiegare a una persona che non ha il diritto di essere rifugiato, ma, se uno scappa dalla disperazione, poi te lo trovi. Anche i processi di comunicazione, la costruzione degli speculatori che organizzano i viaggi nel Sahara e probabilmente vanno a raccontare alle persone nei villaggi che vanno incontro ad un florido futuro se verranno in Europa... È un fenomeno che non riusciremo a contenere, quindi bisogna attrezzarsi per strutturarlo.
  Una battuta. Indicativamente noi abbiamo calcolato che ogni 10 persone rifugiate c'è una persona che lavora nelle varie strutture, fra mediatori, educatori, personale nostro, quindi è chiaro che diventa anche un'attività che sta realizzando un piccolo bacino occupazionale.
  Non sono numeri totalizzanti, perché, come dicevo, 250 cooperative per 40.000 persone, 50.000 nei CAS (se gli ultimi dati non sono aggiornatissimi), 27.000 negli SPRAR, noi come Alleanza delle cooperative abbiamo circa 10.000 cooperative e 350.000 persone che lavorano, quindi la cooperazione fa molto altro e non solo questa tipologia di servizi.
  Ci sarebbero ancora tante cose da dire, ma lascio la parola alla collega.

  PAOLA MENETTI, Co-Presidente Alleanza Cooperative Italiane Sociali. Su due cose dovete per forza ascoltare la mia voce. Una è il rapporto con ANAC, quindi gli appalti. Ci sono due o tre cose da dire. Primo: se la scelta che si fa è quella dell'appalto, bisogna che gli appalti vengano banditi. Non solo a Roma, nella vicenda Mafia Capitale, ma in giro per l'Italia la situazione delle proroghe infinite è terribilmente diffusa, e obiettivamente questo è un elemento che confligge con le questioni del controllo, con le questioni della trasparenza, con qualsiasi cosa, è un meccanismo patogeno.
  D'altra parte, noi sulla questione delle proroghe ci possiamo fare il giusto, anche perché ci sono stati casi (non si trattava di immigrazione, ma di altre situazioni bisognose di assistenza) in cui i magistrati hanno detto che, se il contratto arrivava fino al 31 luglio e non c'erano atti formali, dal 1° agosto avremmo dovuto sospendere quel servizio, perché emettere una fattura sarebbe stata una truffa. Solo che quando lavori con le persone diventa difficile dire alla cooperativa o all'operatore che, siccome la proroga si sta riproponendo all'infinito, metti un fermo, vai via e lascia perdere.
  Bisogna che ognuno faccia il suo mestiere: quando un contratto arriva a scadenza, si decida di bandire un'altra gara. Questo è un punto sul quale c'è pieno accordo con il dottor Cantone e con l'ANAC, però bisogna che la faccenda accada in concreto.
  Seconda questione. Abbiamo avuto molti rapporti con ANAC. C'è chi possiede già Pag. 17nella sua disponibilità l'immobile, l'appartamento piuttosto che la struttura e chi no. Come fai a bandire l'appalto alle stesse condizioni fra quello che ha la struttura e quello che la struttura, ove si aggiudicasse l'appalto, dovrebbe procurarsela? Su questo non siamo molto avanti nel rapporto con ANAC. Siamo certi che rispetto a queste tipologie di attività la forma stretta, semplice, standard dell'appalto sia la modalità migliore per garantire selezione adeguata delle competenze, verifica della serietà, verifica della trasparenza e della legalità?
  Se io dispongo di un immobile che è nella mia proprietà o nella mia disponibilità, di norma in altre situazioni non è l'appalto quello che si fa, neanche nel campo dei servizi alle persone: o c'è una situazione per cui si accredita quel fornitore per una serie di attività, e quindi prima si saranno stabilite le modalità per accreditare quel soggetto, oppure si fanno dei ragionamenti di tipo concessorio, ma non puoi fare una procedura di appalto. Qui questo meccanismo finora non è stato considerato e d'altra parte si introduce nella relazione un meccanismo fortemente distorsivo. Se la scelta è quella dell'appalto in senso stretto, chi appalta dovrebbe mettere a disposizione gli immobili, perché altrimenti non c'è possibilità di comparazione e chi ha l'immobile ha una posizione oggettivamente di vantaggio, specialmente se non è in grado di contare su curie o diocesi.
  In generale, secondo me errando, ma a noi le diocesi è difficile... Lo dico senza ironia, perché è mia precisa convinzione che fra le nostre cooperative e le cooperative cosiddette «bianche» ci sia più o meno la stessa composizione di appartenenze religiose. Associamo cittadini italiani, non abbiamo filtri di altro genere. Però rispetto a questa questione degli affidamenti il tema è di una certa rilevanza. Penso che in prospettiva andrebbe visto.
  Il discorso della «Carta della buona accoglienza» si colloca in questa linea, cioè quella di avere nei territori in maniera condivisa qualcosa che assomiglia a un Albo, in cui si hanno informazioni. Questo potrebbe servire come pre-selezione per la partecipazione ad un appalto, ma anche come pre-selezione rispetto alla definizione di un Albo di soggetti accreditati, definendo quali sono le condizioni.
  Badate che qui alcune condizioni per ragionare di accreditamenti ci sono. Per esempio il fatto che la tariffa è pre-definita ed è uguale per tutti, per cui in effetti l'appalto in presenza di una situazione del genere è anche singolare. Puoi andare solo a ribassi e questo è l'altro aspetto. Sono adeguati i 35 euro? A parte che giustamente, come dice Giuseppe Guerini, dipende da cosa fai, in queste strutture la voce di costo sostanziale è evidentemente il lavoro, le persone che ci lavorano, quindi operatori latitanti; è chiaro che il tuo margine sarà più elevato. Poi c'è il problema dei costi di servizio.
  Io mi sentirei di dire questo: in alcuni casi questa cifra è assolutamente adeguata, in qualche altro caso è più faticosa, perché i servizi non sono tutti uguali e da questo punto di vista non possiamo dire che si lavori per la gloria, ma non possiamo nemmeno dire che questo per una cooperativa sia l'affare del secolo.
  Aggiungo un ulteriore aspetto, che è stato in alcuni casi fortemente critico ed è molto lamentato dalle cooperative: non ti pagano mai. Abbiamo cooperative che due anni dopo devono ancora incassare la fattura di due anni prima. Badate, questo è un meccanismo inquinante a sua volta in maniera incredibile perché, se quella prefettura che ha bandito sa che poi il pagamento non viene fatto mai se non a tempi storici, controlla anche molto meno. Come dire, non facciamo i rigidi da una parte solamente.
  Un'ultima risposta su come abbiamo fatto a non accorgerci che c'erano dei problemi. Ci è capitato di dire che quella è la domanda che ci si fa tutti quando succedono cose spiacevoli, ma ci sono delle cose di cui non ci siamo accorti e delle cose di cui probabilmente non ci saremmo accorti comunque. Per esempio, che tu abbia qualcuno che paga l'amministratore o il funzionario per avere un servizio, questo, a meno che lui non te lo dica, tu non lo sai, perché di solito non va a raccontare in giro Pag. 18che sta corrompendo questo o quell'altro. Di questo non ce ne siamo accorti.
  Sappiamo che su meccanismi di questo genere gioca un contesto. Nessuno controlla da solo. Certamente noi si deve controllare di più, ma non controllare in termini autoriferiti e basta. Il controllo che funziona è quello che si basa sul fatto che in maniera regolare e strutturata ci sia un confronto. Se a me, organizzazione di rappresentanza, sfugge, perché in quella situazione tu mi continui a prorogare servizi e quando metti a gara quella certa attività la metti privilegiando il prezzo più basso, uno segnala all'ANAC la questione.
  Vi devo dire che la risposta di solito non arriva, non succede assolutamente nulla. Questa cosa tu la poni all'amministrazione comunale, che ti dice che più di questo non può fare. Quindi a quel punto cosa controlli, cosa fai, sapendo che la cooperativa non è un dipendente? Tu hai bisogno di costruire una pratica del controllo che sia condivisa come obiettivo, per cui, se come comune vedo qualcosa che non funziona, non solo lo segnalo alla cooperativa, ma periodicamente chiamo l'organizzazione di rappresentanza e dico: «guarda che noi qui abbiamo un problema, ci sembra che ci sia una difficoltà».
  C'è quindi un tema di restituzione e di circolazione delle conoscenze che diventa l'unico sistema per controllare, perché altrimenti la questione diventa piuttosto complicata.
  Poi, ripeto, i casi di disonestà quelli credo che non riusciremo ad evitarli in nessuna maniera. Se dicessi che ci riusciremo, mentirei, perché non ce la facciamo. Ci saranno probabilmente sempre.
  Adesso il nostro obiettivo sarebbe quello di evitare le cose sgradevoli che vediamo in giro, come l'albergatore che si inventa... Quello non è il nostro mondo, ma a Roma, per parlare di Mafia Capitale, dove era tutto il contesto, noi compresi, quando qualcuno diceva: «Ho preso in affitto un altro appartamento per gli immigrati, perché si guadagna più che con la cocaina»? Possibile che fra quel prefetto e quel comune non ci sia mai stato un momento in cui ci si sia chiesti: «Cosa sta succedendo qua?».
  Non è questione di scaricare le responsabilità, è questione che, se una cosa è socialmente rilevante, costa denaro pubblico e si è in diversi a doversene occupare, bisognerebbe ogni tanto anche dirsi le cose come stanno e comunicarsi le questioni, piuttosto che ognuno autotutelare se stesso!

  PRESIDENTE. Ringrazio Paola Menetti e Giuseppe Guerini e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 15.55.