XVII Legislatura

Commissione parlamentare di inchiesta su sicurezza e degrado delle città

Resoconto stenografico



Seduta n. 10 di Martedì 21 marzo 2017

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Causin Andrea , Presidente ... 2 

Audizione di rappresentanti di Federcasa:
Causin Andrea , Presidente ... 2 ,
Talluri Luca , presidente di Federcasa ... 2 

(La seduta, sospesa alle 9.50, riprende alle 9.53) ... 4 

Talluri Luca , presidente di Federcasa ... 4 ,
Gasparini Daniela Matilde Maria (PD)  ... 5 ,
Miccoli Marco (PD)  ... 6 ,
Mannino Claudia (M5S)  ... 7 ,
Gasparini Daniela Matilde Maria (PD)  ... 7 ,
Causin Andrea , Presidente ... 8 ,
Talluri Luca , presidente di Federcasa ... 8 ,
Causin Andrea , Presidente ... 8 ,
Talluri Luca , presidente di Federcasa ... 8 ,
Miccoli Marco (PD)  ... 12 ,
Talluri Luca , presidente di Federcasa ... 12 ,
Miccoli Marco (PD)  ... 12 ,
Gasparini Daniela Matilde Maria (PD)  ... 12 ,
Talluri Luca , presidente di Federcasa ... 12 ,
Causin Andrea , Presidente ... 14 

Audizione del presidente del CONI-Comitato Olimpico Nazionale Italiano, Giovanni Malagò:
Causin Andrea , Presidente ... 14 ,
Malagò Giovanni , presidente del CONI ... 15 ,
Miccoli Marco (PD)  ... 20 ,
Mannino Claudia (M5S)  ... 21 ,
Saltamartini Barbara (LNA)  ... 21 ,
Malagò Giovanni , presidente del CONI ... 22 ,
Soro Francesco , capo di gabinetto del CONI ... 22 ,
Malagò Giovanni , presidente del CONI ... 23 ,
Causin Andrea , Presidente ... 24

Testo del resoconto stenografico
Pag. 2

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
ANDREA CAUSIN

  La seduta comincia alle 9.30.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Comunico che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche mediante l'attivazione del sistema audiovisivo a circuito chiuso e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati e, in seguito, sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti
di Federcasa.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione di rappresentanti di Federcasa.
  Sono presenti il presidente, ingegner Luca Talluri; il vicepresidente, dottor Giovanni Tamburino, che abbiamo avuto modo di audire anche sulla situazione dell'ATER di Roma; un componente della giunta esecutiva, architetto Alessandro Almadori, che ringrazio per aver accolto l'invito della Commissione.
  Come convenuto nella riunione dell'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, gli interventi dei deputati componenti la Commissione dovranno essere contenuti entro i cinque minuti.
  Do la parola al presidente ingegner Talluri, con riserva per me e per i colleghi di rivolgere loro, al termine dei loro interventi, domande e richieste di chiarimento.

  LUCA TALLURI, presidente di Federcasa. Vi ringrazio dell'invito alla Federazione per la casa, che, come immagino sappiate, associa tutti i gestori di edilizia residenziale pubblica d'Italia.
  Mi sono permesso di venire in delegazione con il mio vicepresidente, il dottor Giovanni Tamburino, che è anche commissario dell'Ater di Roma, e con l'architetto Alessandro Almadori, membro dell'esecutivo nazionale perché presidente dell'Ater dell'Umbria, ma indicato da noi per il vostro comitato scientifico come persona che potenzialmente potrebbe farne parte, in base alle vostre valutazioni e scelte. Mi è sembrato opportuno venire non da solo, ma accompagnato da questi due colleghi, che insieme a me lavorano appunto in Federazione. Per noi, questa è un'occasione molto importante. Non solo ci permette di consegnarvi un documento che contiene i dati aggiornati a oggi su alcune questioni che credo siano di interesse della Commissione e del Parlamento più in generale. Il nostro obiettivo di oggi è raccontarvi questo documento, che rimarrà agli atti, ma anche cogliere quest'occasione per informare uno dei livelli decisori, in questo caso appunto il Parlamento, di alcune questioni che a nostro avviso sono tornate a essere prioritarie. Alla fine, la politica si misura con la capacità di scegliere le priorità.
  Il tema della casa era scivolato, rispetto ad altre questioni, fuori dalle priorità. Noi abbiamo un sistema dell'ERP, descritto nel documento in termini quantitativi e qualitativi, impostato su scelte politiche e normative degli anni Novanta. Abbiamo la legge sulle vendite, che chiamiamo anche «sulle svendite», la 560 del 1993, che poi ha determinato anche il testo base di molte leggi regionali successive sempre sulle vendite. Abbiamo la chiusura della Gescal, il finanziamento diretto e continuativo, del 1998. Contestualmente, sempre del 1998 è la regionalizzazione della materia. Questo, Pag. 3sommata al fatto che l'urbanistica è anch'essa una materia regionale, vede le regioni inevitabilmente come dominus di queste materie in termini di indirizzo. È emerso, almeno per noi, in maniera molto chiara che queste scelte che hanno definito il sistema di gestione dell'ERP e di tutta l'edilizia sociale italiana negli anni Novanta hanno esaurito completamente la loro funzione, in un contesto dato di una crisi economica durata molti anni, che ha prodotto un quadro di riferimento completamente diverso dagli anni Novanta, gli anni della piena occupazione, con alcune regioni (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna) che chiedevano l'arrivo di lavoratori. Anche la scelta culturale dell'acquisto della prima casa in proprietà come elemento cardine di noi italiani, sommato a un quadro economico, oltre che stabile, di crescita, forse produceva in termini politici la possibilità di scegliere che il tema della casa non fosse più una priorità, con tutte le scelte che hanno contraddistinto il sistema di allora. Pensate che a quel tempo avevamo più di 1.100.000 case popolari: da allora, ne sono state vendute circa 210-250.000 e ne sono state costruite altre 150.000, quindi oggi siamo sotto il milione sommando le case popolari dei comuni e le case popolari dei gestori delle ATER, comunque denominate.
  Contestualmente, però, abbiamo avuto un incremento crescente considerevole, esponenziale, del disagio economico. Con Nomisma abbiamo fatto uno studio molto importante, che qui richiamiamo, che abbiamo presentato l'anno scorso e che ha messo un punto fermo, un giro di boa, visto che non c'erano dati nazionali su questo argomento. Lo studio vede 1.600.000 famiglie e oltre in disagio economico, 1.200.000 famiglie e oltre in disagio abitativo e addirittura 700-750.000 in emergenza abitativa.
  Il primo dato che emerge in maniera chiara è che siamo di fronte alla necessità di ricollocare l'edilizia sociale come priorità. C'è necessità di almeno 250-300.000 alloggi in più rispetto al patrimonio di circa 900.000 alloggi attuali. Questi numeri indicano che la scelta di provare a sviluppare, dal 2008 a oggi, il cosiddetto housing sociale, anche con il famoso fondo FIA di piccole società di gestione del risparmio, avrebbe previsto, se fossero stati realizzati tutti, 20.000 alloggi.
  Sto parlando di 900.000 alloggi e di una necessità di 250-300.000. È evidente che l’housing sociale non poteva essere, non è e non sarà, in un quadro di riferimento come quello attuale italiano, anche nei prossimi quindici anni, una soluzione. Al massimo, è e sarà un'attività complementare, che si somma a quella dell'ERP in maniera customizzata, chiunque lo faccia, che lo facciamo noi (che lo facciamo) o che lo facciano altri privati (fondazioni bancarie, SGR, cooperative e altri). L'ERP rimane l'elemento centrale dell'edilizia sociale italiana, anche perché la scelta di questo Paese, che in parte sta anche nella Costituzione col concetto di diritto alla casa, di fornire un'infrastruttura, cioè un alloggio e non un servizio sociale, ci differenzia dal resto d'Europa, dove invece abbiamo la fornitura di un servizio sociale e un contributo economico a chiunque vada in affitto e prenda un alloggio sociale, di housing sociale, sostanzialmente di affitto calmierato, 70-80 metri quadrati a 450 euro al mese. Noi abbiamo fatto invece una scelta storica da 120 anni – che tuttora mi pare improbabile venga modificata – di fornire l'infrastruttura, non il servizio sociale.
  Il primo dato che emerge è questo: la risposta centrale dell'edilizia sociale italiana, per l'impostazione politica e culturale che abbiamo, rimane quella di avere un elemento centrale dell'edilizia sociale l'ERP e come complementarità un'eventuale housing sociale, che però va molto customizzato. Relativamente al fallimento, in questi otto anni, del processo del fondo FIA, cioè di aver costituito circa 5-6.000 alloggi sui 25.000 ipotizzati, è evidente che non è che non sono stati costruiti perché ci sono persone scarse a lavorare su questi progetti. Non si sono realizzati perché le condizioni a contorno date non permettono l'economicità di quel processo.
  L'edilizia sociale si interseca inevitabilmente con il tema delle periferie. Non solo nelle undici aree metropolitane, ma anche in quegli agglomerati urbani che non sono aree metropolitane ma è come se lo fossero Pag. 4– cito, per rendere l'idea, Viareggio in Toscana e Rimini in Emilia-Romagna, che hanno tutto il dimensionamento potenziale di un'area metropolitana, con fenomeni connessi simili a quelli di un'area metropolitana, anche di degrado e di marginalità – parte significativa delle porzioni di queste aree periferiche è di fatto già oggi edilizia sociale, cioè edilizia popolare. È evidente, allora, che, quando si introduce una pianificazione, una scelta, che va costruita, di rigenerazione delle nostre città, in primis delle periferie, inevitabilmente si interseca con l'edilizia sociale. Stiamo lavorando su questo come Federazione, perché abbiamo – lo ritrovate nel documento – una serie di percorsi attivati dal basso in alcune aziende, in alcune città, di rigenerazione urbana, che prevede la demolizione e ricostruzione con una nuova progettualità, che tenga in considerazione le nuove esigenze emerse.
  Guardate che le nuove esigenze emerse prettamente sociali è elemento centrale della progettazione sia edilizia, in termini di edificio, sia urbanistica, e quindi urbana. Ci rendiamo conto che l'approccio tradizionale storico italiano, che prima richiamavo, quello infrastrutturale, utilizzava, nel non detto, nel non scritto, una capacità relazionale degli inquilini per primi, ma anche di forme organizzate della società, che permettevano relazioni di convivenza civile. Non parliamo di amicizie o altro, ma di convivenza civile. Questo produceva, a livelli anche condominiali, nelle case popolari, la capacità di tenere unito un tessuto. Ci siamo resi conto, invece, che negli ultimi anni il vero nodo, il vero problema – lo diciamo, tra l'altro, da gestori di tipo infrastrutturale, sono un ingegnere –, la vera sfida che noi enti gestori abbiamo e avremo, insieme alle città...

  La seduta, sospesa alle 9.50, riprende alle 9.53.

  LUCA TALLURI, presidente di Federcasa. A nostro avviso, dall'esperienza che stiamo vivendo, l'elemento centrale della capacità di entrare in sintonia in termini relazionali con l'inquilinato, che vuol dire prevalentemente mediazione sociale per prevenire o mitigare la conflittualità produce elementi significativi; su quali fronti? Intanto, su quello gestionale: meno conflittualità vuol dire pagamento delle morosità sulle spese condominiali, che sono il primo livello di morosità significativa. È evidente che un inquilino che ha un canone medio di 100 euro al mese per avere un alloggio, tenderà a pagarli se proprio non è in difficoltà assoluta, perché appunto ha un alloggio per 100 euro. Le spese condominiali sono sempre maggiori delle spese del canone per l'alloggio, e quindi è quella la frontiera della morosità, che vuol dire però minor pronto intervento e minore manutenzione ordinaria, quindi maggior degrado dell'immobile. Questo elemento si annida proprio nel venir meno della capacità relazionale di convivenza civile all'interno di queste aree. Il punto è la marginalità come elemento centrale della progettazione edilizia come edificio e urbanistica in fase di rigenerazione urbana. A nostro avviso, da questo tipo di elemento centrale, da mettere al cuore della progettazione, passa e passerà la sfida anche di rigenerare i nostri quartieri.
  Mi auguro che le città che hanno ricevuto il finanziamento da parte del Governo sulle aree periferiche abbiano, in accordo con noi, la capacità di sviluppare una progettazione della rigenerazione urbana in questa logica. Questo vorrà dire, in alcuni casi, demolire e ricostruire, sapendo che nella demolizione e ricostruzione si annida il problema di comprendere che livelli di contaminazione del terreno troveremo. Non si sa che cosa c'è sotto le aree antropizzate, ma molto spesso il rischio di contaminazione è reale, e quindi c'è una sfida anche normativa che secondo me i livelli decisori, dal Parlamento alle regioni, dovranno accollarsi affinché le conferenze dei servizi e chi nella conferenza dei servizi è amministrazione attiva abbia non dico il coraggio, ma il buon senso di fare semplicemente il suo lavoro, essere appunto amministrazione attiva, guidare il processo della conferenza dei servizi senza timori e senza paure nell'interesse oggettivo generale. Tanto più, questo vale nei casi nostri, che siamo Pag. 5portatori di un esclusivo interesse pubblico e non di interessi economici. Credo che questa sia una sfida. È un tema centrale della rigenerazione urbana quello di intervenire, soprattutto in processi di demolizione e ricostruzione. Nel caso specifico dell'edilizia sociale, non sono così occasionali o sperimentali. Del nostro patrimonio edilizio – qui ci sono dati anche per tipologia edilizia e per anno di costruzione – una minima parte, che però per i nostri numeri diventa significativa, ha esaurito la propria vita come edificio, e quindi demolizione e ricostruzione diventano lo strumento più ragionevole per intervenire su quel tipo di patrimonio. Siamo convinti che se lo Stato, da coordinatore delle politiche sulle regioni che sono competenti su urbanistica e casa, e le regioni stesse, per prime, proveranno a riprendere in mano, in termini di priorità rispetto ad altri temi... Il problema qual è stato? La mancanza di un coordinamento forte... Quando la materia è passata alle regioni, il MIT ha svuotato la direzione per l'edilizia residenziale pubblica – era ragionevole farlo, avendo passato una materia alle regioni – ma questo ha prodotto venti leggi regionali con venti sistemi diversi. Oggi, abbiamo bisogno di ritrovare un coordinamento su questo, di ritrovare il tema della priorità ed evitare di spendere energie e soldi pubblici in direzioni non utili. È il tempo della concretezza massima, è tempo che con le risorse a disposizione si investa dove siamo in grado nei prossimi 10-15 anni, come si fa con un piano regolatore, se fatto bene, che ha una vita di 10-15 anni per una città.
  A nostro avviso, dobbiamo fare altrettanto per quanto riguarda la rigenerazione urbana delle periferie con la chiave di lettura della lotta alla marginalità come elemento centrale. Siamo un Paese con un patrimonio edilizio esistente significativo, in cui quello di edilizia sociale è molto basso. Siamo il Paese col minor numero di alloggi sociali di Europa. Questo è in parte anche motivabile e spiegabile, abbiamo una forte vocazione culturale all'acquisto della prima casa in proprietà, quindi non è per forza di per sé un male. I dati dello studio di Nomisma fondati sui dati della Banca d'Italia ci dicono che abbiamo circa il 71 per cento di prime case in proprietà, più un altro 12 per cento come se lo fossero, cioè il babbo e il nonno che le danno al nipote o alla nipote. È evidente che c'è un 83 per cento di prime case in proprietà di fatto, in maniera effettiva, o «come se». Nel 17 per cento di quelli che vanno in affitto, abbiamo una fetta significativa di persone sotto le soglie dell'accesso a un alloggio di edilizia residenziale pubblica secondo la cogenza, non secondo l'opinione del presidente Talluri. L'accesso a un alloggio di edilizia residenziale pubblica, infatti, è stabilito dalla cogenza delle venti leggi regionali, che tra l'altro sono più o meno tutte anche con l'asticella su posizioni analoghe, poi ci sono le sfumature del caso. A nostro avviso la vera sfida è ricollocare questo elemento, altrimenti si rischia di perdere un'occasione: che in parte è di rigenerazione delle periferie delle città, a partire dalle aree metropolitane e dalle aree assimilabili a quelle; in parte di affrontare il tema dell'edilizia sociale, tornata a essere una priorità rispetto agli anni Novanta, quando era stato definito il sistema attuale com'è impostato oggi.
  Credo che, comunque fosse andata la storia di questo Paese in termini economici, questi sarebbero stati gli anni in cui i livelli decisori si sarebbero trovati a domandarsi «che si fa delle case popolari?». Inoltre, questa domanda si pone con un quadro di riferimento, quello che ho provato a illustrarvi, e con dati sullo stato attuale del sistema di edilizia sociale italiana di fatto fondato quasi esclusivamente sulle case popolari, come quello che vi abbiamo descritto nel documento.

  DANIELA MATILDE MARIA GASPARINI. Sono perfettamente d'accordo con lei quando afferma che a un certo punto c'è stata una disattenzione al tema casa per due motivi: mancava un interlocutore che analizzasse e sintetizzasse i cambiamenti; dall'altra, c'era frammentazione. Non c'è ombra di dubbio che, anche rispetto alla situazione attuale che stiamo esaminando, emerge come una delle gambe più importanti del tema periferie sia quello del vivere Pag. 6nelle case, non soltanto della mancanza di alloggi.
  Lei ha fatto un'affermazione che condivido, cioè che il fatto che la politica della casa sia stata trasferita da un'entità centrale, lo Stato, alle regioni ha portato frammentazione, e quindi non capacità di fare politiche di sistema. Questo vuol dire che lei ritiene che sia necessario che lo Stato nei suoi ragionamenti sulla cura delle città o sui fondi alle periferie debba reinvestire sulla casa? Su cosa? Manutenzioni o ricostruzioni? Potrebbero essere la stessa cosa, perché la manutenzione straordinaria può essere anche abbattimento e ricostruzione, ma è importante. Credo che ci sia un problema qualitativo, oltre che quantitativo, degli edifici, quelli che abbiamo visto e quelli che conosco.
  In secondo luogo, io sono milanese e una delle cose che contesto e ho sempre contestato che Aler gestisce come un'immobiliare, senza esserlo. Se paragoniamo le case gestite dai comuni e da Aler, la differenza è abissale. I comuni hanno una vicinanza con il tema sociale, con i cittadini, con la presa in carico del cittadino; diverso è anche il rapporto impositivo – pagano di più di affitto, compiono meno atti vandalici – rispetto alle case di Aler. Credo che sia un grave errore, almeno per l'Aler – non conosco le altre – pensare di fare una casa sociale senza metterci un amministratore di condominio vero, da una parte, e senza affiancare una politica sociale. È vero che c'è il fondo affitti, ma nel momento in cui si concentrano lì persone mediamente fragili, occorrerebbe una politica di accompagnamento sociale, con un ragionamento a sistema. Credo che questo sia il problema.
  Siamo andati a visitare i contratti di quartiere realizzati nel 1998, e molti miliardi allora, milioni di euro oggi – senza andare dentro le case; i problemi sono stati risolti al 60 per cento, ma stanno velocissimamente entrando in crisi anche in virtù dell'arrivo degli immigrati, di un nuovo e diverso livello di relazione. È un patto che si rompe coi cittadini, che si sentono violentati a doversi far carico dell'integrazione. Oltretutto, queste case non vengono mai pensate con i servizi. Non ci sono mai mix funzionali dei servizi.
  Qual è il tipo di gestione perché stia in piedi? Non può essere un'immobiliare. Ha senso che sia una gestione regionale? Le regioni dovrebbero far leggi e non gestire. Tra i ragionamenti che emergevano, fatti anche qua, specialmente con il comune di Milano, c'è quello di far sì che le città metropolitane, il cuore dei problemi, su cui non a caso anche voi avete fatto una distinzione, abbiano una funzione di programmazione sulla casa, quindi di analisi dei bisogni, per poi capire come la gestione possa essere meglio avvicinata ai comuni, alle associazioni di comuni, una cosa gestibile. Oltretutto, oggi, con la legge sulla povertà, ma anche con l'ultimo decreto sicurezza, l'integrazione tra più settori per raggiungere il risultato è importante. Di questo che cosa pensa?
  Sarei molto curiosa di capire qual è il deficit, oggi, delle case gestite dalle regioni. Mi risulta che, nella regione Lombardia, l'Aler sia in enorme difficoltà. Questo vuol dire che non riesce a fare manutenzioni, che non riesce a investire: qual è il deficit? Si tratta di capire se esiste una situazione di emergenza che deve essere risanata e da chi o se siamo di fronte alla possibilità di un pareggio nella gestione ordinaria per investimenti per future case.

  MARCO MICCOLI. Vorrei tre delucidazioni. Ho letto che solo il 5,8 per cento degli utenti è costituito da stranieri, dato però riferito al 2015. Vorrei capire la dinamica. Siamo di fronte a un aumento? Ho letto sulla graduatoria che il 45,6 per cento, invece, risulta costituito da stranieri, relativamente alla richiesta. Non so se siamo di fronte a un dato che aumenta esponenzialmente o se è così basso perché, come di recente è avvenuto a Roma, ci sono difficoltà a collocare gli stranieri. Abbiamo visto episodi che si sono susseguiti proprio in appartamenti del comune e dell'ATER, mi pare a San Basilio o al Trullo, dove è stato impedito a famiglie di stranieri di prendere possesso delle abitazioni. Vorrei capire se il livello così basso di utenti, ma con un dato così alto in graduatoria, corrisponde anche a una difficoltà di collocazione Pag. 7 di questi nuclei familiari, che ne hanno comunque diritto, all'interno delle case popolari.
  L'altro dato che colpisce è quello degli alloggi sfitti, che risale al 2013. È in aumento, questo numero, o in diminuzione? Stavo facendo un calcolo, e questo rappresenterebbe il 15 per cento del fabbisogno: 45.000 su 300.000, un dato interessante. Qual è la politica messa in atto per far sì che questo 15 per cento batta la cifra complessiva dei 300.000 di fabbisogno?
  Infine, nell'audizione con ATER si era parlato dell'ottimizzazione della redistribuzione dei nuclei familiari negli appartamenti con una corrispondente grandezza relativa al nucleo. Eravamo di fronte a uno scenario in cui molti appartamenti di dimensioni abbastanza notevoli erano abitati da nuclei familiari ridotti, a volte anche di sole due persone. Per quanto riguardava l'ATER, quest'ottimizzazione di ridistribuzione, dando la possibilità di accedere a quegli appartamenti più grossi a nuclei familiari più consistenti, avrebbe comportato – non ricordo il numero – una ricollocazione, una liberazione di appartamenti, una possibilità di redistribuire utenti molto alta.
  Questa vicenda dell'ottimizzazione riguarda complessivamente tutte le aziende e tutto il territorio nazionale?

  CLAUDIA MANNINO. Mi riservo di leggere il documento con calma, visto che è abbastanza corposo, ma ho una domanda relativamente alla disponibilità di alloggi.
  Leggendo velocemente una tabella, che poi vorrei capire, vedo che il 6,4 per cento di alloggi è occupato abusivamente e il 6 per cento è sfitto: è una parte? Gli alloggi sfitti sono tra quelli occupati abusivamente o possiamo pensare che abbiamo il 12 per cento di alloggi disponibili tra occupati e sfitti? È una percentuale ben diversa rispetto allo 0,4 per cento. Questa è la prima valutazione anche in merito alla domanda di immobili che si può avere o pensare di avere.
  Mi trovo d'accordo con le considerazioni fatte nella vostra relazione, ma ho una domanda, che avevo già posto durante l'audizione dell'ATER, e che a mio avviso non ha ricevuto risposta, o perlomeno forse non quella che mi aspettavo: secondo voi, oggi, o comunque alla luce degli ultimi vent'anni, quali sono state le dinamiche che hanno permesso a realtà pubbliche, quali quelle dell'edilizia sociale, di rimanere indietro rispetto agli alloggi che si sono costruiti anche in edilizia economica e popolare? Forse, un ragionamento sulla città metropolitana si può fare, ma al netto di servizi che poi devono essere dati dai singoli comuni, e lì si crea di nuovo un corto circuito. Riponendo la questione in maniera molto netta e chiara, i soggetti privati che si presentano davanti alle pubbliche amministrazioni propongono progetti di edilizia economica e popolare, che quindi a volte vanno in variante di piano regolatore per quello che lei diceva prima, spesso sono lottizzazioni, a volte cooperative, altre volte ancora consorzi o imprese private semplici. Questi soggetti hanno una disponibilità economica propria – questa è la giustificazione che sento generalmente – avallata da finanziamento bancario, da finanziamenti regionali che sovvengono questo tipo di edilizia e dai privati, che puntualmente iniziano a sottoscrivere un certo tipo di contratti, a volte di affitto, a volte di acquisto postumo. Questa politica a livello territoriale è stata uno dei motivi che ha lasciato indietro questa realtà pubblica rispetto all'esigenza abitativa, e di conseguenza il dato sull'esigenza degli alloggi è al netto dell'edilizia privata che si è costruita, sempre a scopi sociali?

  DANIELA MATILDE MARIA GASPARINI. L'assessore Rabaiotti, del comune di Milano, in audizione ha fatto questo ragionamento. È interessante capire che cosa ne pensate alla luce della vostra esperienza. Lui suggeriva alla Commissione che la casa ERP, la casa sociale, non dovesse essere fin dall'inizio per sempre, ma come un servizio sociale dato nel particolare percorso della vita di una famiglia, di una persona. Vuol dire che bisogna attrezzarsi per dare delle offerte o dei vincoli. Che cosa ne pensa? È importante. Dobbiamo costruire più case o dobbiamo accompagnare, invece, le persone a una crescita economica e sociale? Ci sono opinioni diverse, perché alla fine rischiano Pag. 8 di diventare dei ghetti, ma mi interessa capire questo alla luce della vostra esperienza.

  PRESIDENTE. Vorrei chiedere una cosa relativamente alla disponibilità da parte delle regioni e degli enti di affrontare il tema dello strumento unico di coordinamento che chiedeva prima. Voglio partire da un esempio concreto. Non so come si chiamino in altre regioni, ma in Veneto i vecchi piani regolatori sono stati rinominati PAT, piani di assetto territoriale.

  LUCA TALLURI, presidente di Federcasa. Ogni regione ha un nome diverso.

  PRESIDENTE. Ricordo però che in tutte le regioni, in tutti i comuni, questi PAT erano PAT fotocopie. Fino al 2007, quando il service esterno consegnava il PAT, diceva: la popolazione aumenterà del 20 per cento, le attività economiche aumenteranno del 20 per cento, per cui le aree che devono essere rese disponibili devono essere queste... Niente di più sbagliato. Dal punto di vista demografico e dello sviluppo economico, si è avverato contrario. Ci sono stati dei comuni o delle città in cui c'è stata di fatto una decrescita demografica e, soprattutto sul piano economico, si è assistito a una fase in cui 7-8 anni di recessione hanno portato a una riorganizzazione del sistema di impresa. Penso alle aree del nord, dove i capannoni oggi sono più un problema che un'opportunità. Addirittura, tolgono i tetti per non pagare la fiscalità. Quando si parla di edilizia popolare, secondo me la stima demografica è l'elemento centrale, e anche la previsione della qualità della vita economica delle famiglie italiane.
  Una riflessione che deve essere fatta con il coinvolgimento delle regioni è proprio quella sullo strumento di coordinamento. Se prevediamo che nei prossimi 15 anni avremo un'esigenza abitativa di mezzo milione di famiglie, probabilmente bisogna fare un investimento sulla nuova edilizia popolare di un certo tipo. Se invece ci sarà un decremento demografico, come sembra da tutti gli studi, probabilmente va fatta una riflessione di tipo diverso. La mia impressione è che se non c'è una disponibilità da parte degli enti e delle regioni, ciascuno continuerà a gestire le proprie partite, dal punto di vista economico anche non efficienti. È vero, infatti, che ci sono sulla carta 35 miliardi di capitalizzazione relativi a 800.000 immobili di tipo residenziale. Forse, sono anche di più se contiamo anche quelli non residenziali, probabilmente il valore è più alto. Mi chiedo però quale sia il costo di manutenzione e di tenuta in sicurezza di questi immobili anche alla luce del fatto che abbiamo scoperto, come dicevo l'altra volta, che il calcestruzzo ha una durata fisica di circa 50-70 anni.

  LUCA TALLURI, presidente di Federcasa. Invito anche i miei colleghi, che sono bravi e informati quanto me, a prendere la parola quando vogliono. Vado per ordine delle domande poste.
  L'onorevole Gasparini ha posto delle questioni: centralizzare, sì o no? Se sì, come? È evidente che il risultato del referendum del 4 dicembre in termini squisitamente politici, anche di relazioni tra Stato centrale e regioni, ha determinato un risultato. Credo che a oggi la modalità che si può ipotizzare di coordinamento – secondo me, il coordinamento va fatto – sia in accordo con la Conferenza delle regioni, in maniera che un testo di legge non sia contestato subito alla Corte, che poi lo blocca, ma per coordinare le politiche. Le regioni, infatti, hanno una sofferenza su cui chiedono l'intervento dello Stato, cioè la totale assenza di «lilleri», di soldi, di finanziamenti. Loro rivendicano, per esempio, rispetto ai comuni quest'elemento, e dicono che soltanto lo Stato centrale può trovare finanziamenti, come è stato e come è in questo momento per la legge 80, articolo 4, che finanzia la manutenzione straordinaria... È evidente che se le regioni, che hanno la competenza, contestualmente chiedono i soldi allo Stato centrale, si apre secondo me uno spazio di trattativa tra Stato centrale e regioni per discutere insieme in maniera anche condivisa su come gestire questo rapporto che si deve riaprire. Se da un lato c'è un'esigenza oggettiva di coordinamento Pag. 9 e, dall'altro, una richiesta di soldi, si apre uno spazio per fare anche una legge che coordini il tema dell'edilizia sociale in Italia. Sarebbe stato diverso se chi ha la titolarità della competenza avesse anche le risorse per gestire: in quel caso, lo spazio di manovra sarebbe stato più difficile.
  Allo stesso modo, a mio avviso è politicamente difficile pensare di togliere la competenza alle regioni, riportandola allo Stato, perché appunto l'assetto anche politico del Paese, visto come è andato il referendum del 4 dicembre sul fronte del rapporto Stato-regioni, vede debole questo passaggio, questa possibilità. A mio avviso, la strada è quella di scrivere una legge che coordini in tema di finanziamento: si possono chiedere standard che valgano per tutti, e quindi lì sta il gioco, secondo me, del controllo e anche della ricentralizzazione di una parte di questa materia.
  Che cosa si deve finanziare? Sicuramente, la manutenzione straordinaria, come già fa l'articolo 4 della legge 80. Abbiamo chiesto al Ministro Delrio, insediatosi, dopo il Ministro Lupi, di cambiare quello che aveva proposto il Ministro Lupi, di spalmare su 10 anni i 470 milioni per la manutenzione straordinaria e di concentrarli prevalentemente su un triennio. Così ha fatto nella legge di stabilità del 2016, scritta nel 2015, applicata nel 2016 e tuttora vigente. Intanto, prendendo gli stessi soldi e concentrandoli in un minor numero di anni, la risposta diventa più forte, si sente di più, perché 470 milioni in dieci anni su tutto il territorio nazionale erano veramente poca roba. Considerate che noi mettiamo di nostro circa 450 milioni l'anno per la manutenzione, quindi 470 su dieci anni diventavano pochi. La scelta politica di concentrarli ha permesso, in teoria, di aprire una finestra temporale mentre si spendono quei soldi. Credo che anche il rifinanziamento, il consolidamento e l'implementazione dell'articolo 4 della legge 80 siano una strada da perseguire. È vero che abbiamo una percentuale di alloggi vuoti – qui rispondo, mi sembra, all'onorevole Miccoli, che aveva introdotto questo tema – ma l'articolo 4 della legge 80 ha proprio come obiettivo, oltre l'efficientamento energetico, il recupero degli alloggi, su cui poi si sono concentrate le ATER. Dovendo scegliere tra il recupero degli alloggi vuoti di risulta, che non sono sempre gli stessi – è una ruota che gira, uno si ristruttura e si assegna, un altro si libera perché muore l'inquilino e lo riprendo – è evidente che insistere per azzerare nel giro di quattro o cinque anni quella fetta, mettendo in circolo un numero comunque consistente di alloggi, non risolverà il problema dei 250.000 che mancano, ma intanto è un primo elemento significativo. Se io metto in campo nel giro di tre anni 15-16.000 alloggi, è una toppa, ma è una toppa che si sente. Credo che, in un quadro di penuria di risorse, la scelta di investire sulla manutenzione straordinaria per il recupero totale degli alloggi di risulta vuoti vada perseguìta.
  Le nuove costruzioni, a mio avviso, vanno incentivate ritirando fuori soldi veri, ma in una chiave di lettura urbanistica, che è quella della rigenerazione urbana, cioè del recupero di patrimonio esistente o facendo demolizione e ricostruzione. Le volumetrie ormai in gioco nel nostro Paese sono più che sufficienti per rispondere alla domanda. In alternativa, cosa che però ritengo assai più complessa e improbabile, ma in linea astratta potenzialmente perseguibile, c'è anche l'acquisto del cosiddetto inutilizzato, più che invenduto. Questo è improbabile, però – lo dico subito – è una chimera teorica astratta. Chi deve vendere fa quel che vuole, giustamente, in termini di libertà – se voglio vendere, vendo; se non voglio vendere, non vendo – e poi comunque come pubblico non possiamo pensare di comprare tanto per comprare. I prezzi di acquisto di un alloggio inutilizzato sul libero mercato devono essere quantomeno equiparabili alla costruzione di un alloggio nuovo. È evidente che, se costruisco con 1.100 euro al metro quadrato, potrò andare a comprare con 1.700 euro al metro quadrato un alloggio esistente dal privato, non a comprarlo a 2.500 euro a metro quadrato, perché è un non senso economico di soldi pubblici, e farebbe bene un sindaco a organizzare un TSO e a venirci a prendere tutti. Questo penso. Credo che la strada di pensare di intervenire sull'inutilizzato o Pag. 10invenduto come soluzione sia teoricamente, astrattamente, ragionevole – c'è, sta lì, non è utilizzato ed è consistente per le vicende urbanistiche italiane – ma, al tempo stesso, ragionevolmente sia difficile da perseguire con la finanza pubblica. Trovo, invece, che scegliere in maniera strategica la strada della rigenerazione urbana come elemento, come precondizione delle nuove costruzioni, sommato alla manutenzione straordinaria finalizzata al recupero degli alloggi di risulta vuoti, sia una risposta che va introdotta. La legge 80 ha, secondo me, gli strumenti perché siano ampliati e utilizzati.
  Vengo alla seconda domanda dell'onorevole Gasparini, questione Aler. Intanto, a Federcasa è associata anche MM Spa, che gestisce il patrimonio immobiliare del comune di Milano, e si sta associando – è arrivata la richiesta – un altro gruppo, un'altra società, un'altra multiutility di comuni dell'area nord-ovest del milanese, verso Varese. Il quadro è il seguente in termini gestionali. Abbiamo gestori di case popolari che gestiscono bene e/o male a macchia di leopardo, in tutta Italia, da nord a sud. Non cito quelli che gestiscono bene, e neanche sto a spiegarvi perché sono gestiti bene, mentre mi sembra che quelli gestiti male, oggetto anche della riflessione dell'onorevole, invece meritino un approfondimento.
  Ci sono due ordini di malagestione. Il primo è quello di aver fatto una scelta di investimenti da immobiliare che erano fuori luogo e sbagliati, che quindi hanno creato un problema di tipo finanziario. Se c'è stato questo tipo di scelte da parte di consigli di amministrazione, di amministratori, hanno fatto una cattiva gestione. Oggi, la proprietà di questi enti è chiamata a farsene carico, come accade in qualunque realtà. Non si può chiedere allo Stato di sollevare da errori fatti in tal senso. Poi c'è una seconda tipologia di cattiva gestione, quella squisitamente gestionale. Su questo, a mio avviso, ci sono ampi margini di manovra. Basta avere un amministratore unico, un commissario o un consiglio di amministrazione che deliberino all'interno delle condizioni date delle modifiche agli assetti gestionali. Abbiamo realtà in cui la morosità sui canoni è assai bassa, la morosità sulle spese condominiali è assai bassa e le occupazioni abusive sono assai basse. È evidente che la gestione può essere fatta per bene, basta volerlo. Quello che è interessante, però, e che in parte avevo introdotto e che lei ha ripreso, è il tema della mediazione sociale, dei mediatori: questa è la vera sfida per queste realtà. Ci rendiamo conto che un'epoca storica anche di relazioni tra inquilini e gestore e tra inquilini dentro il condominio e, magari, dentro il quartiere, è finita. È evidente che diventa prioritario introdurre nelle piante organiche persone in grado di sviluppare questo tipo di servizi o di gestire realtà che con contratti forniscono questo tipo di servizio. Che, però, lo si faccia direttamente, perché abbiamo aziende numericamente robuste, o che lo si faccia in realtà medio-piccole gestendo un servizio esternalizzato che si debba controllare, questo tipo di professionalità va introdotta, perché è la vera sfida su cui si gioca la gestione e il rapporto con gli inquilini. Vengo da una regione che ha scelto in maniera ideologica o politica, nel 1996, insieme alla regione Emilia-Romagna, di unificare i due patrimoni di case popolari: quello dei comuni e quello delle ATER, per legge, per cogenza. In Toscana e in Emilia-Romagna le case popolari sono di un tipo soltanto: sono tutte le stesse e gestite tutte insieme, perché sono di proprietà comunale. Si riteneva, allora, in maniera ideologico-politica che la dimensione pubblicistica fosse maggiormente garantita da un consiglio comunale rispetto a un consiglio di amministrazione: lo hanno fatto due regioni su venti. Le altre diciotto su venti hanno fatto leggi regionali che hanno scelto un sistema in continuità con quello che c'era prima, cioè le ATER come soggetti autonomi e indipendenti, lasciando la proprietà degli immobili alle ATER. Non so dirvi se, in termini di cogenza, sia irrecuperabile questo processo, ma so dirvi che tendere a unificare i due patrimoni anche in termini gestionali, se non di proprietà, è intelligente, ed è più efficiente. Ho sempre invitato i miei colleghi, oltre che a gestire il proprio patrimonio di case popolari, anche a interloquire con i comuni per acquisire in Pag. 11gestione con contratto di servizio quell'altro patrimonio. Continuare a perseverare in diciotto regioni su venti sulla forte distinzione di questi due patrimoni non aiuta. Questa, secondo me, è un'altra sfida che può essere inserita dentro una normativa quadro in un raccordo tra Stato centrale e regioni. È un argomento che ci sta tutto in termini gestionali.
  Quanto ai deficit delle ATER, come dicevo, sono a macchia di leopardo. Abbiamo realtà che hanno deficit consistenti, dove sono stati fatti investimenti sbagliati (Milano), ma consentitemi forse il primo intervento da sindacalista di un comparto, visto che sono il presidente di Federcasa. Nello storytelling fatto per promuovere l’housing sociale, che nei fatti concreti non è decollato per i motivi che ho detto nel primo intervento, c'era anche – secondo me in maniera commercialmente inutile e sbagliata per quello storytelling – l'idea di raccontare che le ATER sono mal gestite e malfunzionanti. Non è vero! È vero in maniera puntuale che alcune ATER sono gestite male e alcune sono gestite bene. La mia è addirittura una S.p.A., quella di Firenze, e faccio utili da sempre, e anche ai miei predecessori facevano utili, da quando è nata. Così ce ne sono anche nel Meridione. Le aziende casa pugliesi funzionano, le aziende casa lucane funzionano. In Sicilia, ci sono realtà come Siracusa che funzionano, per non parlare del nord, della IPES di Bolzano e di quello che chiese il nostro collega Heiner Schweigkofler: che cos'è la morosità? Che cos'è l'occupazione abusiva? Non capiva quale fosse il punto. Questa è la realtà dell'Italia, molto più complessa di quanto sia stata raccontata in maniera superficiale. A mio avviso, non bisogna pensare che la storia di singole realtà che non funzionano sia di tutte. Inoltre, va distinto, in quelle che non funzionano, un problema finanziario dai problemi gestionali. L'elemento di gravità maggiore sta annidato, a mio avviso, nei problemi gestionali. Se c'è un'ATER che non è in grado di controllare la propria anagrafe, di garantire la rotazione nei propri appartamenti, di gestire le morosità, evidentemente ci sono problemi gestionali, non di cogenza delle norme.
  Onorevole Miccoli, relativamente alla questione stranieri, i numeri sono quelli del documento. Come si vede, il nostro è un Paese in cui in termini storici – si può anche dire – per la prima volta rispetto ad altri Paesi europei, che lo hanno già avuto e continuano ad averlo, è in corso un processo di forte immigrazione. Dobbiamo organizzarci, a partire dalle normative, in questo caso quelle regionali visto che determinano l'accesso all'edilizia popolare, sempre coordinati in maniera nazionale. Anche su questo ci possono essere margini di coordinamento in una legge quadro, perché è evidente che abbiamo questo squilibrio: un numero oggettivamente basso di stranieri nel patrimonio di edilizia residenziale pubblica in termini complessivi, ma un numero elevatissimo in graduatoria. Questo numero diventa ancora più elevato. Nei comuni ci sono due graduatorie, quelle oggettive date dalla legge regionale per accedere a una casa popolare con i punteggi, e quelle dell'emergenza abitativa. Siccome negli ultimi cinque anni molti comuni hanno inserito gli alloggi di edilizia residenziale pubblica attingendo dalla graduatoria dell'emergenza abitativa, questo squilibrio è ancora di più aumentato.
  Credo che su questo fronte sia ragionevole, anche per senso di equità, comprendere quali sono i processi per avere diritto a una casa popolare rispetto a chi vive e lavora da più anni, rispetto a chi è arrivato da sei mesi (ogni regione ha una norma diversa). Proprio perché siamo in questa fase storica, è ragionevole ragionare sulle cogenze. La vera sfida non sta però tanto nell'essere stranieri, quanto nel fatto che, siano stranieri o italiani, chi è nella marginalità ha un livello di ignoranza pesantissimo che sfocia anche nella delinquenza, che non è soltanto quella della scolarizzazione, ma è l'ignoranza delle relazioni, il che distrugge il tessuto sociale e, distruggendo il tessuto sociale, distrugge la convivenza civile nel condominio e spinge a essere morosi anche quelli che storicamente pagavano: se non paga lui, non pago io. Il tema più importante, sia per un Pag. 12aspetto gestionale sia per un processo di emancipazione di queste marginalità, sta nell'accettare la sfida di combattere l'ignoranza delle relazioni, la debolezza sul fronte relazionale tra persone. Se si migliora su quel fronte, che è quello della convivenza civile, si migliora inevitabilmente a cascata tutto il resto, fino ad arrivare all'aspetto gestionale e, come ultimo tassello, c'è meno morosità nelle spese condominiali.

  MARCO MICCOLI. C'è però uno squilibrio tra il numero di stranieri collocati... Parliamoci chiaro, in questo Paese viene diffusa una notizia, un allarme del tutto ingiustificato rispetto al dato che ci fornite voi: uno su due di quelli che stanno in graduatoria sono stranieri, ma solo il 5 per cento è collocato attualmente come inquilino.

  LUCA TALLURI, presidente di Federcasa. Sì.

  MARCO MICCOLI. Questo è un dato di squilibrio rispetto al comune sentire che anche qualche forza politica manifesta.

  DANIELA MATILDE MARIA GASPARINI. Quando si dice che i comuni possono, per una percentuale che alzano sempre di più, fare la graduatoria d'emergenza e lì dentro hanno i nuovi immigrati, almeno da noi è così: su due appartamenti, almeno uno è straniero, ma è ovvio, così come erano gli immigrati del sud che venivano a lavorare.

  LUCA TALLURI, presidente di Federcasa. L'onorevole Miccoli sollevava la questione che era emersa anche nel dibattito con l'ATER di Roma in senso più puntuale, cioè la redistribuzione degli alloggi, a mio avviso connessa anche all'ultima questione aggiunta dall'onorevole Gasparini sull'assessore Rabaiotti. L'assessore Rabaiotti dice una cosa in linea di principio corretta: un alloggio popolare non può essere per sempre, perché è un servizio pubblico fornito per chi è in difficoltà. Vero. Il problema però è che non riusciamo a emancipare economicamente questi nuclei, quindi molto spesso che l'alloggio rimanga per quarant'anni alla stessa persona nasce dal fatto che non esce da una situazione di disagio economico. Qui vengo anche al tema della rotazione: quel principio va fatto atterrare su aspetti, in parte norme regionali, in parte aspetti gestionali, cioè si deve avere il coraggio di far ruotare gli appartamenti. Bisogna avere conoscenza dell'anagrafe dell'appartamento e poi il coraggio di farli ruotare. Questo è un coraggio che si può avere. È responsabilità delle ATER e dei comuni accettare questa sfida, avere il coraggio di fare arrabbiare un po’ di persone, non buttandole fuori dalla casa popolare, ma riassegnando un alloggio più adeguato alle esigenze di quel momento. Se ti ho assegnato una casa in cui eravate in cinque quando l'hai presa e ora sei rimasto da solo, è evidente: questa è la vera sfida.
  L'emancipazione economica non ha sfondato: l'idea della sfida di un lavoro di cittadinanza, a mio avviso, è centrata, e si interseca perfettamente con i temi della mediazione sociale. Chi fa mediazione sociale deve non solo limare, mitigare, ridurre o azzerare i conflitti, oggetto diretto, immediato, di una mediazione sociale tra inquilini ed ente gestore. In realtà, in quell'azione si apre uno spazio di manovra per introdurre processi di lavoro: se si pensa a un lavoro di cittadinanza, lo si deve pensare prima di tutto dove ce n'è bisogno, e guardate caso si atterra di nuovo in questo mondo dell'edilizia sociale, dove prevalentemente ci sono persone in disagio economico, che poi diventa disagio abitativo.
  Onorevole Mannino, alloggi sfitti e occupati sono distinti. La sfida dell'articolo 4 della legge 80 è proprio quello che dicevo: per quanto riguarda gli sfitti, dobbiamo fare lo sforzo di mettere risorse per recuperarli tutti. Si può fare, perché la logica delle vendite è debole. Innanzitutto ha senso soltanto nei condomini misti in cui siamo minoranza e quindi non ha più senso perché non abbiamo il controllo complessivo dello stabile. Inoltre, c'è un problema rispetto alle vendite, come ci mostrano i numeri. Dal 1993, da quando esistono la legge n. 560 e le leggi regionali – che sono venute dopo ma che assomigliano alla 560 Pag. 13e sono state scritte sulla sua falsariga – si sono venduti circa 210.000 alloggi in 23 anni. Noi ne abbiamo costruiti 150.000, con un saldo leggermente negativo. Ciò motiva il bisogno di un maggior numero di alloggi, ma ci dice anche che, visto che era una legge sulle svendite e anche svendite pesanti, se ci fosse stata gente in grado di comprare, avrebbero comprato in molti di più. Infatti, si vendeva un appartamento quasi come se fosse una macchina. Evidentemente il fatto che se ne siano venduti un numero significativo ma non esorbitante ci dice che negli alloggi di case popolari non ci sono tutti questi ricchi. La regione Emilia-Romagna ha provato a capire, per un motivo di principio astratto, magari condivisibile, se ci sono dei ricchi reali che superano i redditi, per perseguirli e toglierli dalle case popolari. Su 60.000 alloggi in Emilia-Romagna hanno trovato 900 nuclei. Certamente dobbiamo raschiare il fondo del barile anche di questi 900, ma è evidente che la sfida non sta più lì, quindi il teorema dei ricchi nelle case popolari è molto superficiale.
  Riguardo alla questione urbanistica dei privati, innanzitutto i privati per cogenza non possono gestire edilizia residenziale pubblica né possono essere proprietari di edilizia residenziale pubblica. L'edilizia residenziale pubblica è di proprietà delle ATER e dei comuni oppure, come avviene in Toscana e in Emilia-Romagna, solo dei comuni. Quello che fanno i privati, magari, che siano essi impresari o cooperative, sono dei PIP (piani di iniziativa pubblica), cioè di edilizia convenzionata. È un modo per costruire, per vendere o per fare un'evoluzione della convenzionata 2.0 che è il rent to buy, ma si tratta comunque di vendere. A mio avviso, non c'è rischio di confusione, se non si fa confusione. È chiaro che il privato costruisce per vendere, fosse anche un rent to buy, ed è un percorso che ci sta. Abbiamo una cultura dell'acquisto della prima casa spiccata che rimane tutt'oggi e, quindi, ci sta. Forse in alcune città c'è stato il tentativo di promuovere un housing sociale che mascherava il rent to buy, che ha fatto troppa confusione, perché l’housing sociale è la complementarità dell'ERP in termini numerici e in termini di customizzazione dei singoli progetti di housing sociale ed è un qualcosa che soltanto pochi possono fare. Infatti, abbiamo un Paese che mantiene questa alta vocazione all'acquisto della prima casa in proprietà e l’housing sociale prevede comunque un alloggio a 430-450 euro al mese di affitto per 70 metri quadri. L'operazione tecnico-finanziaria deve stare in piedi. È evidente che, se mi posso permettere la certezza di pagare tutti i mesi 450 euro, appena arriverò ad avere la certezza di poterne pagare 600, andrò a prendere il mutuo per acquistare in proprietà 50 metri quadri invece di avere in affitto 70 metri quadri, perché siamo fatti così. Siccome questa è la nostra condizione, è evidente che i progetti di housing sociale avventurosi non sono decollati. Rimangono le fondazioni bancarie, che hanno un loro patrimonio e una vocazione di un certo tipo per scelta, che non prevede un'attività di business, che possono mettere in gioco un housing sociale. Rimaniamo noi che possiamo mettere in gioco un housing sociale. A Firenze abbiamo 120 appartamenti in housing sociale come azienda casa dell'ERP. Tuttavia, è evidente che un housing sociale diffuso fatto da privati è altamente improbabile, perché richiede una customizzazione del singolo progetto. Parlo di customizzazione in termini edilizi (quanto mi costa fare quel condominio), ma anche in termini di scelta di chi ci metto dentro, perché devo mettere dentro uno che per 25 anni mi paga tutti i mesi 450 euro al mese per ripagarmi l'operazione. È evidente che, in un quadro in cui la cultura dell'acquisto della prima casa è ancora molto spiccata, la certezza di avere uno che per 25 anni paga 450 euro al mese è molto dura. Ciò si aggiunge al fatto che costruire housing sociale a 450 euro al mese per 70 metri quadri è difficile nelle undici aree metropolitane, per i valori in gioco delle aree stesse e degli immobili che si recupera facendo quell'operazione. Ecco perché non è decollato e non può decollare: questi parametri, che fanno il contorno della situazione, prevedono che un housing sociale possa essere sviluppato, come è in parte adesso, soltanto da soggetti che si possono Pag. 14permettere di svilupparlo. Inoltre, anche quei soggetti devono customizzarlo, perché altrimenti rischierebbero anch'essi, che siamo noi o le fondazioni bancarie.
  Il presidente faceva due domande. È vero che l'Italia ha un decremento demografico, a parte la provincia di Bolzano. Anche Milano sale. Complessivamente in media l'Italia decresce dal punto di vista demografico, ma poi ci sono alcune realtà in cui cresce, quali Milano, come ho scoperto adesso, e Bolzano, come è noto. Tuttavia, il problema dell'edilizia sociale sta nel fatto che è aumentata la fascia in disagio economico. Diminuisce il numero complessivo di abitanti, ma il problema è che è aumentata la fascia di quelli che sono in disagio economico e, quindi, in disagio abitativo. Negli anni ’90 avevamo in graduatoria circa 300.000 nuclei familiari, mentre oggi ne abbiamo circa 650.000. In graduatoria vuol dire che avrebbero diritto, secondo le prescrizioni delle leggi regionali, ad avere una casa popolare, se ci fosse. Sono più del doppio. Il problema vero non è se c'è una diminuzione demografica, ma il quadro di disagio economico e quindi abitativo del Paese. La diminuzione demografica ci dice che probabilmente non c'è bisogno di andare a occupare nuove porzioni di suolo nei piani regolatori, ma di fare rigenerazione urbana con demolizioni e ricostruzioni, magari aumentando gli indici volumetrici dove si fa la demolizione. C'è il recupero delle aree dismesse e c'è anche, se siamo in grado di farlo, il riutilizzo degli alloggi esistenti inutilizzati, che però, per i motivi che dicevo prima, trovo assai improbabile da perseguire.
  Cito un ultimo dato: mentre le case popolari servono in tutta Italia, perché il disagio economico e abitativo è in tutti gli 8.000 comuni d'Italia, è evidente che l’housing sociale, oltre a essere al massimo complementare dell'ERP – quindi, è inutile starlo a inseguire come se fosse il sol dell'avvenire, perché non lo sarà in un Paese come il nostro a vocazione infrastrutturale – entra in gioco soltanto nelle undici aree metropolitane. Ho domandato all'assessore regionale dell'Abruzzo: «Mi scusi, in libero mercato in Abruzzo una casa a quanto si prende in affitto?» Mi ha risposto: «A 500 o a 400 euro»: dunque, l’housing sociale non ha senso in Abruzzo. È inutile stare a fare un fondo regionale o una fondazione regionale, perché non ha senso, mentre ha senso fare le case popolari in Abruzzo, anche nei paesini, perché il disagio economico si annida ovunque.
  Ecco perché penso che sia arrivato il momento dell'approfondimento e della customizzazione in questo settore, perché con ragionamenti troppo superficiali, anche se astrattamente affascinanti, si rischia di fare confusione e di non dare risposte ai cittadini.

  PRESIDENTE. Ringrazio il presidente di Federcasa e i suoi collaboratori. Acquisiamo anche la relazione, che è ricca di dati per il lavoro della Commissione.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione del presidente del CONI-Comitato Olimpico Nazionale Italiano, Giovanni Malagò.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del presidente del CONI-Comitato olimpico nazionale Italiano, Giovanni Malagò, che ringrazio per aver accolto l'invito della Commissione.
  Sono altresì presenti il capo di gabinetto, avvocato Francesco Soro, e l'assistente del capo di gabinetto, dottoressa Flaminia Ielo, che ringrazio per la loro presenza.
  Come convenuto nella riunione dell'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, gli interventi dei deputati componenti la Commissione dovranno essere contenuti entro i cinque minuti.
  Come le è stato riferito, ci stiamo occupando della questione del degrado e del disagio nelle periferie. Dalle prime visite che abbiamo fatto nelle grandi città è emerso, com'era è evidente, che lo sport è un tema sicuramente di grande rivalutazione e di rigenerazione per le persone e anche per le comunità. Visti il suo importante incarico in seno al CONI e la sua conoscenza delle partite, non ultimo economiche, che gestisce il CONI, è un piacere Pag. 15per la nostra Commissione poter fare un confronto con lei e con l'ente, per poter capire anche quali suggerimenti accogliere e poi trasferire al Parlamento e al Governo. La ringrazio veramente per aver accettato l'invito.
  Abbiamo Assemblea intorno alle 11,30-11,40: qualora l'argomento non fosse esaurito, i parlamentari si riserveranno di mandarle domande scritte
  Do la parola al dottor Malagò, con riserva per me e per i colleghi di rivolgergli, al termine del suo intervento, domande e richieste di chiarimento.

  GIOVANNI MALAGÒ, presidente del CONI. Sono sempre non solo doverosamente disponibile ogni volta che il Parlamento invita il sottoscritto o rappresentanti del CONI a relazionare, a riferire, a rendervi partecipi dello stato dell'arte e delle attività, ma – lo dico con molta franchezza – ne sono anche felice, perché fa parte di un mio modo di interpretare il ruolo.
  Magari un giorno verrete voi e sarete voi, dietro nostro invito, a rendervi conto della realtà del Comitato olimpico. Sono assolutamente dell'idea che c'è una dinamica, che penso sia giusta e doverosa, in linea con il momento storico che stiamo vivendo, di grandissima apertura, di grande trasparenza e di grande correttezza. Questo non vuol dire che non ci siano anche problemi e criticità, perché come in tutte le cose sarebbe sbagliato essere autoreferenziali sempre in positivo, però vogliamo assolutamente rendere partecipe possibilmente fino all'ultimo degli oltre 60 milioni di italiani dello stato dell'arte e di quello che stiamo facendo.
  Abbiamo mezz'ora e gli argomenti sono tanti. Provo a essere sintetico e soprattutto a rendervi partecipi sui temi che probabilmente interessano nello specifico questa Commissione e gli onorevoli presenti.
  Il CONI per statuto è tante cose e lo è da oltre cento anni. È una realtà quasi unica nel panorama internazionale, proprio in virtù del suo percorso di storia e della qualità dei risultati, che non sono necessariamente legati solo al ranking e al medagliere. L'Italia è tra il quinto e il sesto di all time per ciò che riguarda le medaglie ottenute nelle competizioni olimpiche.
  Il CONI è soprattutto l'ente al quale viene dato l'onore e l'onere di promuovere e organizzare l'attività sportiva nel nostro Paese, con tutto quello che questo implica. È un tema forte in termini di comunicazione, perché nell'immaginario delle persone che non leggono necessariamente i tre nostri quotidiani sportivi magari ci dobbiamo occupare solo di preparare al meglio, tramite le federazioni, un atleta, che poi vince un campionato del mondo, ma non è così. Sulla base dell'evoluzione delle leggi Melandri e Pescante, bisogna tener conto che abbiamo sostanzialmente 76 stakeholder che reggono l'attività del Comitato olimpico, che sono i rappresentanti del Consiglio nazionale, che è, senza voler mancare di rispetto a nessuno, il Parlamento dello sport. Questi 76, in realtà, non rappresentano per intero tutti i portatori di interessi e di valori all'interno del mondo sportivo. Infatti, pensate che il CONI attualmente ha una cifra record di 384 discipline sportive che sono sotto la sua tutela, supervisione, controllo e anche logicamente responsabilità. Peraltro, è una situazione in fieri, perché soprattutto per i giovani oggi ci sono dinamiche di appeal di nuovi sport che stanno prepotentemente entrando sul mercato, ma soprattutto negli interessi dello stesso movimento olimpico. Per darvi un'idea del percorso di modernizzazione in atto, tenete conto che a Tokyo fra tre anni e mezzo arriveranno cinque nuove discipline sportive che non solo cinquant'anni fa, ma anche due anni fa sarebbero state impensabili. Ritornano il baseball e il softball, che erano sport già praticato, e il karate, anche in virtù del fatto che in Giappone ha sicuramente una radice molto forte, ma arrivano anche tre nuovi sport che sono in qualche modo collegati al tema di questa audizione, cioè al tema delle periferie.
  Il primo è il surf. Oggi sugli 8.000 chilometri di coste italiane è diventata quasi una filosofia di vita. Vedete questi ragazzi che stanno lì ore ad aspettare l'onda buona. È una loro quotidianità, anche sociale; si tratta di condividere un intero percorso. Pag. 16C'è lo sport, ma è anche un modo di stare insieme. La seconda è una disciplina che è finita nell'ambito del programma estivo, ma poteva anche andare in quello invernale: l'arrampicata sportiva. Sembra paradossale, ma oggi, soprattutto in molte regioni del nord, è diventato uno sport di moda e addirittura coinvolge le scuole. È un modo di socializzare molto forte, anche a livello interclassista e intergenerazionale, ma soprattutto è una vera e propria disciplina sportiva. Il terzo e più che mai in linea con l'argomento di oggi: lo skateboard. Questi ragazzi nelle periferie, sui marciapiedi, l'hanno fatto diventare a tutti gli effetti uno sport che ha saputo attrarre le grandi masse di nuove generazioni, sponsor e, quindi, diritti televisivi e che è entrato nell'ambito del programma olimpico.
  Partiamo da un primo presupposto: il CONI ha fortissimamente voluto partire da un censimento, ovvero da una mappatura della realtà esatta dell'impiantistica nel nostro Paese. Perché ha fatto questo? Innanzitutto, il CONI conta 11,5 milioni di sportivi tesserati. Per esattezza, un terzo sono sotto il controllo delle federazioni e due terzi sono sotto il controllo degli enti di promozione. Abbiamo una distinzione molto chiara, anche se ogni tanto c'è qualche elemento di promiscuità e, se volete, di affettuosa conflittualità, che alla fine risolviamo sempre. I primi si occupano dello sport di vertice, lo sport agonistico; i secondi della dinamica dello sport più amatoriale, dello sport per tutti, come d'altronde è nella stessa genetica degli enti di promozione. Questi 11,5 milioni sono divisi in 45 federazioni e in quindici enti di promozione, più diciannove discipline sportive associate.
  Oggi il censimento è stato fondamentale, in virtù della grande opportunità che il Governo italiano ha assegnato al CONI, da ente pubblico a ente pubblico, per la gestione del Fondo sport e periferie. Ovviamente dovevamo partire dal presupposto della realtà esistente per capire quello di cui c'era veramente bisogno e quello che assolutamente non dovevamo prendere in considerazione. Infatti, è evidente che, come in tutti i settori merceologici, il più grande errore che oggi si può commettere in un'azione del genere è quello commesso nella grande distribuzione, nel sistema bancario e in molte altre attività: pensare di realizzare un palazzetto se ne hai uno a un chilometro di distanza, magari in comuni diversi, o paradossalmente fare un impianto natatorio se ne hai un altro dove non c'è una sufficiente densità abitativa. Questa, purtroppo, è stata una situazione che ha caratterizzato fortemente la generazione dell'impiantistica.
  Siamo partiti con uno stanziamento interamente finanziato dalla Presidenza del Consiglio con quattro regioni pilota: il Friuli Venezia Giulia, la Toscana, il Molise e la Calabria.
  Abbiamo completato il censimento di queste quattro regioni e adesso stiamo raccogliendo i dati delle altre. Se ricordo bene, entro il 31 dicembre 2019 sarà completata in un modo, certificato, una risonanza magnetica di tutto l'esistente in questa materia sul suolo italiano. Quando parlo dell'esistente, intendo dallo Stadio olimpico di Roma, per citarne uno che conosciamo bene, al più remoto impianto di una bocciofila. Siamo molto polverizzati e radicalizzati, perché ovviamente quelli della bocciofila in termini di necessità di servizio hanno le stesse esigenze di cui parlavo prima di un palazzetto o di una piscina. In questo progetto abbiamo finora coinvolto – e ne siamo molto orgogliosi – 30 ragazzi, ingegneri e architetti, con un progetto di contrattualizzazione a termine legato a questo censimento, che penso sia lo strumento più importante.
  Torniamo all'argomento sport e periferie. È stata istituita una cabina di regia che ha avuto inizialmente come coordinatore il prefetto Riccardo Carpino, con tre persone assolutamente super partes: l'avvocato Carlo Deodato, già responsabile legislativo di un governo precedente, e due avvocati generali dello Stato, Del Gaizo e Nunziata. Il prefetto Carpino è stato chiamato a non so se più importanti, ma sicuramente più urgenti necessità, perché attualmente è il Commissario straordinario per l'organizzazione dell'evento del G7. Al suo posto ho chiamato a fare il coordinatore di questa attività di Pag. 17commissione, che riteniamo rappresenti un elemento di grandissima garanzia, non solo istituzionale, ma anche di correttezza morale e di trasparenza, Raffaele Squitieri, andato recentemente in pensione dal suo incarico di presidente della Corte dei conti. Peraltro, ci tengo a dire che è un incarico di carattere completamente gratuito.
  Sono arrivate ben 1.681 domande. Ci sono criteri assolutamente basilari e trasparenti. Se arriva una domanda di un privato, il discorso è diverso, come considerazione e come pesi, rispetto alla domanda di un ente pubblico, è logico (e previsto da un cdg approvato in Parlamento). Nell'ambito del bando c'erano prescrizioni molto importanti: creare opportunità nelle periferie, con attività sociali e di integrazione, ma al tempo stesso verificare dove ci poteva essere l'opportunità di fare sport ad alto livello. Infatti, ci dobbiamo occupare da una parte di aprire a tutti il più possibile, ma dall'altra anche di scoprire magari il nuovo Mennea o la nuova Pellegrini. Sono state prese in considerazione 183 domande. Sono orgoglioso del fatto che, è stato al 100 per cento compito della commissione stabilire i criteri cui attenersi e conseguentemente individuare gli impianti che avessero i requisiti, che poi logicamente sono risultati nell'elenco e hanno ottenuto l'opportunità di essere finanziati da questo fondo. Non vi nascondo che è stato un successo, una bella opportunità, che al momento è stata gestita con grande correttezza. Finora non c'è stato neanche un ricorso. Questo è un segnale di come tutto si è svolto con grande trasparenza. Mi auguro che il futuro Governo o anche questo siano in condizione di poterlo rifinanziare, perché indubbiamente è uno degli strumenti indispensabili, in considerazione dei parametri legati alla crescita economica e sociale e soprattutto alla qualità della vita, su cui adesso magari spenderemo qualche parola.
  In Italia moltissime regioni del Nord sono a posto sotto il profilo dell'impiantistica. Mi sento di dire che forse il loro problema è manutenere al meglio l'esistente. Molte regioni del Centro e tutte le regioni del Sud, invece, chi più chi meno, sono in uno stato di fortissima arretratezza. Non a caso oltre i due terzi di quei 180 impianti sono stati indirizzati nelle regioni del Centro e del Sud, con un caso limite. Mentre in Trentino, in Alto Adige e in Val d'Aosta, non solo non c'è stato nessun impianto individuato, ma addirittura le regioni o i singoli comuni non hanno neanche fatto la richiesta, in Calabria, che ha il record, sono stati individuati ben 35 impianti su 284 che ne avevano fatto richiesta. Dico questo per darvi l'idea, sulla base anche della mappatura e dell'esistente, della mancanza dell'offerta. Il punto è che oggi abbiamo messo in moto una grandissima forza propulsiva, raccontando all'opinione pubblica, soprattutto alle nuove generazioni, che fare sport migliora la qualità della vita, che fare sport magari ci fa trovare un campione del domani, che fare sport aiuta la gente a vivere meglio e magari a distogliere da alcune distrazioni negative soprattutto in certe zone. Oggi è una giornata particolarmente importante dal punto di vista simbolico in questo senso. Tuttavia, c'è il problema di dove fare sport. Il sistema scolastico italiano soffre di una fortissima arretratezza sotto il profilo dell'impiantistica. Oggi tutti, anche a scuola, vorrebbero fare sport. Se vostro figlio o vostra figlia vanno in un istituto scolastico dove non c'è fisicamente la palestra, l'unica cosa che può fare il preside della scuola è convenzionarsi con un'associazione sportiva, la più vicina possibile. Non c'è alternativa. Laddove la scuola non è particolarmente attrezzata, anche in termini di trasporti, la mamma o il papà prendono i ragazzini all'uscita da scuola e li portano chi a fare scherma, chi a fare tennis, chi a fare pallacanestro. Questo è il segreto di tutta questa dinamica dell'impiantistica che abbiamo messo in moto.
  Ci sono stati sette progetti «urgenti» che abbiamo ritenuto dovessero avere priorità rispetto agli altri. Sette situazioni simbolo rispetto ai 180 progetti, palesemente sotto gli occhi di tutti. Ovviamente c'è il progetto di Scampia. Di Scampia si parla molto. Molti sono stati coinvolti, molti sono testimonial e molti sono a conoscenza di quella realtà, però c'è un dato di fatto che Pag. 18la rende una situazione più unica che rara, non solo nel nostro Paese, ma in tutto il mondo. Ci sono le Vele, tutta la dinamica sociale del quartiere, che conosciamo bene (non vado avanti su questo), ma soprattutto è successa una cosa incredibile. Nella palestra di judo di Gianni Maddaloni, oltre alla funzione sociale, c'è un ragazzo, che guarda caso è il figlio ma poteva essere benissimo uno dei tanti atleti che frequentano e si sono iscritti a questa palestra, che ha vinto una medaglia d'oro alle Olimpiadi. È esattamente l'incarnazione assoluta di quel dogma nell'ambito Fondo sport e periferia. Oltre a Scampia, c'è la realizzazione del palazzetto a Corviale qui a Roma, c'è il rifacimento della pista di Barletta intitolata proprio a Pietro Mennea, c'è il discorso dell'impianto del palazzo dello sport di Palermo nello Zen, c'è la piscina del Cardellino a Milano, che è una zona dove c'è una densità demografica impressionante. A Ostia, che, come voi sapete, è un municipio commissariato per mafia, c'è la ristrutturazione dello stadio Michele Giannattasio. Inoltre, c'è la piscina di Reggio Calabria. Non so se in Aula ci sono delle persone che rappresentano questo territorio. Questa città, che ha oltre 200.000 abitanti, vanta il tristissimo record di non avere un solo impianto pubblico. Adesso finalmente ne hanno aperto uno, dopo lunghe e anche affettuose pressioni di moral suasion da parte del sottoscritto. L'impianto della piscina di Reggio Calabria, che era stato sequestrato per attività mafiose, in quel momento verteva in condizioni pessime.
  Cosa sta facendo il CONI, integrando la questione dell'impiantistica? Sta portando avanti un progetto che si chiama «CONI ragazzi», che è un grande successo. Sono stati investiti dalla Presidenza del Consiglio dei ministri circa 4,5 milioni nelle due annualità precedenti. Il progetto scade a giugno di quest'anno e mi auguro che il Parlamento o la stessa Presidenza del Consiglio ci diano la possibilità di continuare a portarlo avanti. Ci tengo a dire che il CONI direttamente non fa nulla, è tutto un discorso di catena: CONI e federazioni, federazioni e associazioni sportive, che sono quelle presenti sul territorio. Sono coinvolte oltre 18.000 persone e oltre 1.000 associazioni sportive. Non vi nascondo che abbiamo avuto più del doppio delle richieste. Dato il budget previsto, più di questo non siamo riusciti a fare. È un grandissimo successo, in modo particolare in certe zone degradate.
  Abbiamo fatto un'altra cosa. Non so se si può dire, però dico anche questo. C'è un'azienda, la Lottomatica, con la quale abbiamo fatto un progetto. Anziché investire direttamente sul Comitato olimpico, così come fa su attività museali o sul terzo settore, abbiamo richiesto espressamente di svolgere semplicemente un'attività di compensazione, cioè sponsor a noi, e noi a progetti che avessero un significativo valore sociale. In che modo? Abbiamo individuato quattro aree particolarmente complicate dove loro realizzano nuove strutture, in particolare impiantistiche, dove ce n'è necessità. Cito un caso: la palestra di Quarto Oggiaro, un sobborgo della Lombardia, dove – non so se ha ancora questo record – oltre il 90 per cento delle persone iscritte non sono italiane. Logicamente c'è anche una dinamica sociale particolare: è la zona individuata per realizzare una palestra polifunzionale, che sicuramente è un elemento particolarmente utile.
  Abbiamo poi altri due progetti. Uno è legato al grande tema dei migranti ed è un progetto portato avanti con il Ministero dell'interno. Si parte da un presupposto molto semplice: i ragazzi e le ragazze (più i ragazzi ovviamente) che stanno nei centri di accoglienza hanno anche il problema di come passare la loro giornata. Sicuramente lo sport rappresenta un elemento di grande aggregazione, per cui insieme stiamo realizzando impianti sportivi per consentire a queste persone, fino a quando non si capisce il loro futuro e la loro destinazione, di avere quantomeno un coinvolgimento su presupposti di natura sportiva. Questo progetto, peraltro, è fortemente sostenuto e caldeggiato dal Comitato olimpico internazionale. Addirittura c'è la possibilità che il CIO destini parte di un fondo che è stato istituito, proprio in virtù del ruolo dell'Italia Pag. 19 nelle problematiche che sono sotto gli occhi di tutti.
  C'è poi il quarto progetto, che è Sport e integrazione. Anche in questo caso c'è sensibilizzazione su ragazze e ragazzi con problemi specifici, una dinamica di sostegno gratuito a frequentare scuole di sport e corsi di sport con le associazioni locali. Questo progetto è stato realizzato con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, che ci ha aiutato sia su questo che sul tema della Nuova stagione, cioè sulla procedura per preparare gli atleti e le atlete che stanno facendo attività per cercare di avere un'occupazione e un ruolo nel mondo dello sport. Oggi, infatti, c'è una grande questione: per lo status italiano, a parte i calciatori e i giocatori di pallacanestro, sono tutti dilettanti. Sapete perfettamente che è uno status giuridico assolutamente sui generis, probabilmente anche sbagliato, perché uno che fa pallavolo, tennis o nuoto non si allena meno di un calciatore, anzi probabilmente si allena di più. Questo non li mette in condizione di avere un percorso di studi formativi, sia a scuola sia all'università, che oggi è assolutamente indispensabile.
  Aggiungo un'informazione molto importante. La scorsa settimana c'è stato un incontro pubblico col presidente dell'ISTAT, Giorgio Alleva. Siamo molto felici perché tutti gli anni telefoniamo per sapere come sono andate le rilevazioni statistiche della pratica sportiva. Su una cosa vi dico che possiamo tutti essere fieri, pur avendo i nostri problemi, soprattutto al Sud: non si è mai fatto così tanto sport nel nostro Paese come nel 2016. Non si era mai fatto così tanto sport nel 2015, nel 2014 o nel 2013. Ogni anno, quantomeno da quando sono presidente del CONI, a forza di smuovere le coscienze e sensibilizzare l'opinione pubblica, abbiamo avuto un trend tendenziale di circa 1,5 per cento in più. Questo dato già di per sé è moltissimo, ma diventa triplicato su rilevazioni statistiche assolutamente certificate, perché – è inutile che lo racconto a voi, sono argomenti che conoscete a memoria – il nostro è un Paese molto vecchio, il Paese più longevo del mondo dopo il Giappone. Tra i sei e i dieci anni, fascia in cui siamo molto deboli rispetto al benchmark di riferimento, soprattutto anglosassone, perché loro hanno lo sport nella scuola che garantisce otto ore mentre noi a stento riusciamo a farne due, abbiamo avuto una crescita del 5 per cento. Sapendo che siamo un Paese che ha un'aspettativa di vita di oltre 80 anni per le signore e di quasi 80 anni per i maschietti, ovviamente fare pratica sportiva è complicato. Pertanto, questi numeri sono veramente fantastici.
  Credo che, in virtù del combinato disposto che abbiamo tra sensibilizzazione, programmi e impiantistica sportiva, che adesso è tutta partita – ci siamo dimenticati di raccontare una cosa – paradossalmente continueremo a migliorare.
  È inutile che vi ricordi che ogni punto percentuale – non lo dice Giovanni Malagò, ma lo dicono tutti gli esperti mondiali e il Ministero della salute – impatta per circa 200 milioni di euro di risparmio sul sistema pubblico, non tanto attraverso l'allungamento della vita, ma attraverso la qualità della vita delle persone che è migliorata negli ultimi anni. Questo è un dato di fatto. Considerate che oggi, se facciamo le rilevazioni, ogni anno di vita rispetto alle aspettative è molto importante.
  Sul comune di Roma abbiamo già completato il censimento, che era dovuto al progetto Roma 2024. Avevamo l'impegno, che abbiamo mantenuto malgrado la chiusura della candidatura per Roma nel 2024, di realizzare nei quindici municipi degli impianti pilota polifunzionali, soprattutto nelle aree di periferia. Il primo che partirà a giorni è nel quinto municipio. È stata sdoganata l'ubicazione. Su qualcuno, in virtù del cambio dell'amministrazione, è stato richiesto di fare scelte diverse rispetto a quelle iniziali fatte con la giunta Marino. Abbiamo preso atto e ci siamo resi assolutamente disponibili, per cui la localizzazione è stata individuata per tutti.
  Non so se rientra nel piano delle periferie e degli aspetti sociali, però noi siamo molto impegnati sulle aree del terremoto. Cito un'informazione, che peraltro è proprio di ieri, freschissima. Sono coinvolti enti locali, regioni Abruzzo, Marche e Lazio, Pag. 20 Commissario straordinario, Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca. Siamo di questa idea: oggi, tramite il Fondo sport e periferie, abbiamo la possibilità di ristrutturare il preesistente dell'impiantistica sportiva. Il famoso palazzetto dello sport di Amatrice, che avete visto in mille occasioni, che è diventato luogo di ricettività per tutte le vittime e gli sfollati del terremoto, oggi ha dei problemi di agibilità. Tuttavia, prima di realizzare il nuovo palazzetto dello sport e capire se si può fare in quella zona – ripeto che i fondi sono stanziati ed esistono – bisogna capire quale sarà la realtà di vita di quest'area. Pertanto, abbiamo sostenuto il progetto del liceo sportivo. Non so se sapete bene di cosa si tratta. Il liceo sportivo è partito come un progetto sperimentale tre o quattro anni fa e oggi ha un successo enorme in tutta Italia. Inizialmente c'era solamente a Roma e poi a Milano, ma in seguito è arrivato in ogni provincia italiana. Adesso ovunque vado, anche nei comuni più impensabili, ho richieste pazzesche, perché è un bel prodotto. Molti ragazzi vogliono avvicinarsi a questa filosofia, che è un po’ distorta rispetto all'iniziale, perché serviva per chi faceva sport a un certo livello. Se hai tuo figlio o tua figlia che torna la domenica sera a mezzanotte, magari col pulmino, perché ha giocato in serie B una partita a Palestrina, ad esempio, si spera che, rispetto a una scuola normale, alle 8 di mattina alla prima lezione non ti interroghino. Il ragazzo può dire: «Guardi, non voglio avere un privilegio o un beneficio, però magari mi può interrogare dopodomani, perché ieri sono tornato a mezzanotte da Palestrina». Oggi si è un po’ allargata questa maglia agonistica, perché ci sono molti giovani che fanno sport a buon livello senza essere necessariamente agonisti. È chiaro che deve essere supportato dal MIUR, perché diamo l'associazionismo sportivo a supporto, però c'è una dinamica di coinvolgimento e di fondi. Ad Amatrice abbiamo portato un liceo sportivo. Una scommessa complicatissima, che sembrava impossibile vincere, perché bisognava arrivare almeno a 25 ragazze e ragazzi, ovviamente non di Amatrice. Pensate che il primo che si è iscritto è un bresciano. La cosa bella è che sono arrivate anche delle da fuori Italia. Forse hanno una mentalità diversa dalla nostra, perché io per primo, se avessi una figlia che a 14 anni mi dice «Papà, ti saluto, vado ad Amatrice a fare il liceo sportivo», da una parte forse sarei preoccupato, ma dall'altra sarei molto orgoglioso di avere una figlia che fa questa scelta di vita. Sono arrivati da tutta Italia, siamo arrivati a 27, per cui oggi è esattamente quella la filosofia che serve: riportare la gente, a prescindere dalla realizzazione della nuova impiantistica. Siamo molto orgogliosi di questo.

  MARCO MICCOLI. La ringrazio per l'esaustiva descrizione di quello che il CONI sta facendo. Noi, come Commissione periferie, che studia e deve dare risposta alla questione del degrado nelle periferie e della sicurezza, pensiamo che quello dello sport sia un tema cruciale. A me ha colpito molto, da deputato romano, la citazione di alcuni progetti che si collegano a esperienze che lei conosce. Lei ha citato Corviale. Siamo orgogliosi dell'esperienza del calcio sociale, che lei conosce, fatta al Campo dei miracoli. Sa quanto è importante per noi l'idea del palazzetto e di una riqualificazione che metta al centro lo sport.
  Vorrei comprendere questa progettazione. So che metto il coltello in una ferita per lei. Vorrei approfondire il tema delle risorse economiche e della possibilità di sviluppo di ulteriori progetti, grandi e ambiziosi, in questa fase di incertezza politica, sia a livello nazionale sia a livello locale. Mi riferisco, ad esempio, alla vicenda romana, che ha visto il CONI protagonista, purtroppo, della negazione della possibilità di fare a Roma le Olimpiadi oppure di altri episodi di più recente attualità, come lo stadio. C'è una difficoltà, dopo un'ondata positiva che, però, magari era più che altro legata a esperienze private o di grandi squadre di calcio, che hanno potuto mettere in campo infrastrutture importanti. Pensate che sul progetto diffuso, sul fatto di costruire un palazzetto a Corviale, a Tor Bella Monaca o in altre periferie, in questo quadro politico di difficoltà, ci sarà un ritardo? L'elenco che avete fatto può subire Pag. 21prolungamenti di iter, anche burocratici? Questa difficoltà che è stata riscontrata di recente può incidere in modo negativo rispetto a questo ambizioso programma, che vorremmo tutti andasse in porto così come lei l'ha descritto?

  CLAUDIA MANNINO. Ringrazio il presidente per la relazione e faccio una premessa. A noi piace leggere i documenti, quindi le chiedo se ci può fornire una relazione su tutti questi progetti e qualche dettaglio in più sulle modalità di scelta, perché quello che ci interessa in questa Commissione è il metodo più che le situazioni puntuali.
  Relativamente agli argomenti che ha trattato, vorrei concentrarmi sull'attività oggi svolta dal CONI e in particolare sull'attuale patrimonio del CONI. Avete detto che state facendo una mappatura. Vorrei capire se la state facendo anche in termini di impianti che richiederebbero manutenzioni ordinarie e straordinarie, se non anche di demolizioni e ricostruzioni. Infatti, anche le vicende citate dal collega Miccoli, a mio avviso – magari è una mia visione personale – sono il frutto di un metodo che, se dal punto di vista agonistico dà sicuramente risultati, a livello urbano forse dovrebbe prevedere un meccanismo un po’ più condiviso. L'individuazione delle aree in cui realizzare un determinato tipo di attrezzature probabilmente dovrebbe vedere, anche su vostro stimolo, una partecipazione e una condivisione con il territorio, un po’ come succede in America.
  Relativamente al patrimonio esistente, vi chiedo se ci potete comunicare quello che oggi sapete, soprattutto in termini di personale che avete sui vari territori dedicato a questa attività. Inoltre, vorrei sapere se avete un piano di gestione della programmazione che avete proposto, cioè se vi siete dati una scadenza. Se entro cinque anni non avviamo questi progetti, che facciamo? Ci rinunciamo o continuiamo in eterno?
  Lei ha citato la situazione del meridione e le carenze di attrezzature. Mi focalizzo un attimo sulla mia città, Palermo. Lei ha parlato giustamente del nuovo stadio, che ha già ricevuto un diniego qualche anno fa, se non sbaglio, e di cui oggi si ricomincia a parlare. A tal proposito, non posso non chiederle cosa è successo per abbandonare totalmente il palazzetto dello sport di Palermo e il palazzo «diamante» di baseball di Palermo. Le attrezzature ci sono, solo che poi le facciamo... Chi è il referente? Chi è il responsabile? Se riusciamo a individuarlo, siamo tutti contenti. Facendo l'esempio di Palermo, vorrei capire più in generale quali sono i meccanismi che oggi portano ad abbandonare importanti infrastrutture sportive, che sono un diamante per il nostro Paese, anche in termini olimpiaci. Parliamo di costruirne nuovi senza magari demolire o recuperare quelli che abbiamo.

  BARBARA SALTAMARTINI. Ringrazio il presidente Malagò per l'ampia relazione che ha voluto illustrare a tutta la Commissione. Io, presidente, mi concentro in particolare sul tema sport e periferie, ossia sul fondo, perché credo che anche rispetto agli indirizzi della Commissione sia centrale nell'ambito della nostra analisi e della nostra inchiesta. Relativamente a questo, presidente, chiedo se sia possibile avere l'elenco esatto dei 183 progetti che sono stati valutati dalla commissione creata ad hoc, per capire anche come sono distribuiti territorialmente. Sarebbe importante, presidente, anche avere un elenco preciso di quegli enti locali e territoriali che non hanno inteso porre alcuna domanda o presentare alcun progetto. Glielo chiedo, presidente, per fugare alcuni dubbi che ci sono stati – è inutile nascondercelo – perché, nel momento in cui c'è un'alta discrezionalità da parte della commissione aggiudicatrice, è opportuno fugare tutti i dubbi, rendendo pubblico il più possibile quali sono stati gli esiti della valutazione, proprio per non inficiare la valenza sportiva e sociale dell'impiego che è stato fatto su questo progetto. Sarebbe importante avere questi dati per noi. Non so se è possibile per il CONI fornirceli.
  Ovviamente non posso non parlare di Roma, come ha fatto il collega Miccoli. Non so quanti di questi 183 progetti, oltre ai due più urgenti che ha voluto citare di Corviale e di Ostia, siano stati valutati e avviati. Pag. 22Comunque, è indubbio che la periferia romana, essendo vastissima, ha problemi sociali che abbiamo già verificato, ma che purtroppo emergono di giorno in giorno. Credo che questo ragionamento valga per tutte le grandi città italiane, non solo per Roma, ma Roma ha alcune problematiche specifiche che negli anni si sono, ahimè, complicate e aumentate e si sono auto-alimentate giorno dopo giorno. Sarebbe importante capire la situazione dell'impiantistica sportiva a Roma, specie nelle aree più degradate. Inoltre, sarebbe importante capire esattamente, ovviamente per quanto possibile in base alla mappatura che avete completato su Roma come impegno e come obbligo rispetto alle Olimpiadi, che non si faranno, dove siete già intervenuti in questi quindici municipi e dove, invece, è possibile ancora intervenire. Se non siete potuti intervenire, sarebbe interessante comprendere quali sono state le cause, se sono legate magari a un rapporto con l'amministrazione, comunale o municipale, o se sono di altra natura.
  A questo proposito mi collego all'intervento della collega Mannino. C'è un tema di strutture nelle periferie romane che sono state create e che sono in totale stato di abbandono, alcune purtroppo non completate per note vicende su cui non vale la pena ritornare, perché le conosciamo tutti. Vorrei capire l'esito di queste strutture: che fine faranno? Alcune sono sottoposti a un'indagine giudiziaria e sotto sequestro, ma di fatto sono ruderi in mezzo alla nostra città, che aumentano lo stato di degrado.

  GIOVANNI MALAGÒ, presidente del CONI. Onorevole Miccoli, sul caso specifico di Corviale, data la delicatezza dell'area, siamo in piena conferenza di servizi. Stiamo collaborando – devo dire la verità – con l'amministrazione comunale. In particolare è l'assessore Frongia ad avere questa delega. C'è disponibilità a collaborare. È chiaro che comunque l'amministrazione ha voluto verificare la bontà del progetto. Non ci sono controindicazioni e stiamo assolutamente procedendo. Mi sento di dire che in quest'area, così come in altre situazioni che ci interessano – mi riaggancio al riferimento dell'onorevole Saltamartini – non c'è al momento nessun tipo di elementi ostativi.
  Non voglio essere ipocrita sul tema grandi eventi e candidatura olimpica. È una partita finita. Non ho nessun problema a dirlo, non è un fatto personale. Rappresento un mondo che si chiama «Comitato olimpico» e, di conseguenza, per noi è stata una ferita e un'opportunità persa clamorosa. Abbiamo cercato di spiegarlo, ma purtroppo non ci siamo riusciti. Non era un tema che riguardava la città di Roma, tutt'altro, a cominciare da Amatrice. Sembra paradossale, ma una serie di regioni, anche del Nord e del Sud – penso alla Sardegna con Cagliari e alla Sicilia con Palermo – potevano avere opportunità. Erano cambiate le regole del gioco e avremmo avuto dei fondi perduti da parte del Comitato olimpico internazionale. È la vita, è andata. Credo che siamo usciti con stile da questa partita, però è chiaro che per noi è stato fatto un errore strategico molto importante.
  Rispondo all'onorevole Mannino su Palermo, realtà che conosco molto bene. È talmente grave quello è successo al palazzetto dello sport che è uno dei sette provvedimenti urgenti che finanziamo per intero col Fondo sport e periferie. Non chieda a me come mai dopo dieci, quindici o vent'anni quel palazzo dello sport è ridotto così. Credo che parta tutto da una cattiva manutenzione del tetto o da una cosa del genere, a fronte di un'infiltrazione e di danni che c'erano stati. È una follia nel vero senso della parola, non ho nessun problema a dirlo. Noi interveniamo. È chiaro che a questo punto l'intervento è significativo e importante, tant'è vero che abbiamo al bilancio del Fondo sport 5 milioni di euro...

  FRANCESCO SORO, capo di gabinetto del CONI. Cinque milioni del Fondo, mentre il comune e i fondi europei coprono il resto. Complessivamente il valore dovrebbe essere di circa 11 milioni. Adesso sono partiti i lavori per il tetto, perché se non si parte dal tetto non si può fare nient'altro. Ci sarà una rigenerazione dell'impianto esistente.

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  GIOVANNI MALAGÒ, presidente del CONI. È clamoroso che una città con gli abitanti che ha Palermo (600.000-700.000) non abbia un palazzetto dello sport. Siamo i primi a dirlo. Sulla storia del Diamante, mentre parlavamo siamo andati su internet a guardare. È di proprietà del comune. Sono onesto: a memoria non le so dire se l'amministrazione comunale ha fatto la richiesta anche per la ristrutturazione del Diamante di baseball storico, che credo fu costruito in occasione dei Giochi del Mediterraneo.
  Per ciò che riguarda la domanda dell'onorevole Saltamartini, non ho nessun problema a dare la lista di chi è stato individuato, ma anche quella di chi aveva fatto la richiesta. Noi giochiamo con assoluta trasparenza, ci mancherebbe che non sia così. È chiaro che per quanto concerne questi 183 impianti, Roma è stata in qualche modo avvantaggiata – la parola può sembrare forte – perché, a prescindere dagli impianti iniziali (vedi Ostia e Corviale) i quindici impianti, che sono interventi meno invasivi, per dare una mano a risolvere il problema che l'onorevole Miccoli sosteneva, erano già concordati precedentemente nell'ambito del supporto e della promozione della candidatura olimpica. Abbiamo voluto mantenere questo impegno con l'amministrazione comunale e la cittadinanza. Dopodiché, in parte sono stati confermati, mentre per altri la nuova amministrazione ha ritenuto che le scelte fatte precedentemente erano sbagliate. Su questo non abbiamo voluto polemizzare o entrare in conflittualità. Ne abbiamo preso atto, anche perché serve comunque realizzare una conferenza dei servizi. Se non c'è la conferenza di servizi, fra cinque anni, come qualcuno ha detto, siamo ancora qui a parlare di realizzare gli impianti. Abbiamo accettato, credo nell'interesse di una democratica rappresentanza dei singoli municipi, quindi tutti e quindici sono partiti.
  Anche su questo, onorevole Saltamartini, daremo la lista specifica delle ubicazioni individuate. Lei ha ragione: la questione della mappatura è molto importante. Infatti, nella mappatura abbiamo tutto, dagli impianti cinque stelle di lusso a quelli che vanno rigenerati.
  Cosa succederà, almeno secondo me? Magari non sarò io a quel punto a deciderlo. Con la nuova opportunità del Fondo sport e periferie, si tratterà di scendere a un gradino inferiore della problematica. Faccio un esempio. Se c'è una palestra che versa in cattivo stato a Ravenna o a Imperia, conviene buttarla giù e rifarla nuova, conviene risistemarla, oppure conviene buttarla giù e farne un'altra perché in quella zona nel frattempo c'è un problema di mobilità, c'è un problema di trasporto urbano o ne hanno creato un'altra che fa concorrenza? Mi sento di dirle con molta franchezza che una regola certa non ci può essere. È chiaro che tutto questo deve essere fatto in collaborazione con i comuni. Abbiamo un'eccellente comunicazione sia con l'Anci sia con gli specifici comuni e regioni. Questo lavoro senza la collaborazione dei comuni non si può fare, è sbagliato a prescindere, quindi non c'è nessuna prevaricazione o voglia di calare dall'alto delle responsabilità. Questo è uno dei motivi per cui i comuni sono i primi partner di questi progetti.
  Mi sono dimenticato di dire una cosa, su cui forse c'è confusione: il CONI non ha neanche un impianto di proprietà. Chi ce l'ha è CONI Servizi. CONI Servizi – anche questo va ricordato – è una società giuridicamente molto particolare che fu creata qualche anno fa e partecipata al 100 per cento dal Ministero dell'economia e delle finanze. A differenza del CONI, che è un ente pubblico – io sono al 100 per cento un funzionario pubblico, esattamente come voi – il CONI Servizi è una società per azioni, che praticamente deve valorizzare il patrimonio e gli asset della stessa CONI Servizi. Tanti anni fa, quando il CONI era pieno di risorse, perché tutto si muoveva con le dinamiche del Totocalcio – era l'epoca delle cose esagerate – il CONI aveva sparsi sul territorio centinaia di impianti. Oggi tutto questo è completamente razionalizzato. In questo momento, mentre parliamo, la CONI Servizi ha in tutto diciannove impianti, praticamente quasi tutti concentrati con i centri di preparazione olimpica, che sono il Pag. 24nostro core business, cioè praticamente quello che serve per prepararci. Fra dieci mesi siamo in Corea per le Olimpiadi invernali: stiamo andando alla grande e speriamo che fra un anno rimangano i risultati, perché nello sport è tutto un terno al lotto. Sono concentrati nel centro sportivo dell'Acqua Acetosa, intitolato al mio predecessore Giulio Onesti, a Tirrenia e a Formia. Per quanto riguarda le altre cose che abbiamo (sono rimaste pochissime), siccome a noi non interessano, vogliamo devolverle tutte ai singoli comuni.
  Con voi gioco a carte scoperte. Siccome non abbiamo interesse di fare i gestori degli impianti, non è il nostro mestiere e non lo vogliamo fare, nel caso l'amministrazione comunale non sia interessata, restituiamo l'impianto al demanio, quindi pubblico con pubblico, perché a fronte di questo, invece, abbiamo altre esigenze. Ad esempio, dobbiamo preparare le scuole di formazione, abbiamo la scuola di scienza, abbiamo l'istituto di medicina, che oggi è un grandissimo asset e un'eccellenza del Paese. Dobbiamo sviluppare tutta l'attività antidoping, e anche su questo oggi abbiamo una credibilità che prima non avevamo. Rispetto al CONI di 20, 30 o 40 anni fa, dobbiamo fare anche delle scelte – consentitemi di dirlo – immobiliari, ma di quel patrimonio a noi non è rimasto praticamente nulla, se non quello che specificamente ci serve.

  PRESIDENTE. È stato utilissimo: se avremo bisogno di ulteriori integrazioni, la sentiremo volentieri. Ringrazio il presidente Malagò e i suoi collaboratori e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 11.45.