XVII Legislatura

Commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale

Resoconto stenografico



Seduta n. 77 di Mercoledì 8 giugno 2016

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 3 

Audizione del professor Ernesto Longobardi sui trasferimenti finanziari a regioni ed enti locali: (ai sensi dell'articolo 5, comma 5, del Regolamento della Commissione) :
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 3 ,
Longobardi Ernesto , Professore ordinario di scienza delle finanze presso l'Università degli studi di Bari Aldo Moro ... 3 ,
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 10 ,
De Menech Roger (PD)  ... 10 ,
Marantelli Daniele (PD)  ... 11 ,
Longobardi Ernesto , Professore ordinario di scienza delle finanze presso l'Università degli studi di Bari Aldo Moro ... 11 ,
Marantelli Daniele (PD)  ... 11 ,
Longobardi Ernesto , Professore ordinario di scienza delle finanze presso l'Università degli studi di Bari Aldo Moro ... 11 ,
Marantelli Daniele (PD)  ... 11 ,
Zanoni Magda Angela  ... 11 ,
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 12 ,
Longobardi Ernesto , Professore ordinario di scienza delle finanze presso l'Università degli studi di Bari Aldo Moro ... 12 ,
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 13 

ALLEGATO: Documentazione depositata dal professor Ernesto Longobardi ... 15

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
GIANCARLO GIORGETTI

  La seduta comincia alle 8.10.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.

  (Così rimane stabilito).

Audizione del professor Ernesto Longobardi sui trasferimenti finanziari a regioni ed enti locali.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione di Ernesto Longobardi, professore di scienza delle finanze presso l'Università degli studi di Bari Aldo Moro, sui trasferimenti finanziari a regioni ed enti locali.
  Ringrazio il nostro ospite, che, oltre ad essere un esperto della materia, è anche uno dei nostri principali consulenti, e che rende quindi veramente un servizio alla Commissione.
  Do la parola al professor Longobardi per lo svolgimento della sua relazione.

  ERNESTO LONGOBARDI, Professore ordinario di scienza delle finanze presso l'Università degli studi di Bari Aldo Moro. Grazie, presidente. La Commissione ha già svolto le importanti audizioni di rappresentanti della Ragioneria generale dello Stato, della Corte dei conti e della direzione finanza locale del Ministero degli interni, che hanno fornito uno spaccato di informazioni quantitative molto completo.
  Pertanto, il mio compito non è tanto quello di dare alla Commissione ulteriori informazioni dal punto di vista della consistenza della finanza derivata, quanto quello di proporre alla Commissione stessa alcune riflessioni metodologiche e di sistema.
  Il primo punto che vorrei sottoporre all'attenzione della Commissione è quali possono essere i motivi dell'esistenza della finanza derivata, cioè del fatto che i livelli sub-centrali di governo siano almeno in parte finanziati con trasferimenti da parte di livelli di governo superiori.
  Il primo rilievo che si può fare è che questo è un dato generale a livello internazionale. In tutti i Paesi dell'area OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) la finanza derivata ha una consistenza notevole per diversi motivi.
  In primo luogo, i motivi a favore del decentramento della spesa dal punto di vista economico sono più rilevanti dei motivi a favore del decentramento dei tributi. In altre parole, le controindicazioni che un forte decentramento dei tributi comporta sono maggiori di quelle del decentramento della spesa.
  Decentrare i tributi vuol dire innescare una serie di distorsioni e di fenomeni potenziali di competizione e di concorrenza fiscale fra i governi sub-centrali. Questo pone un forte problema perequativo, soprattutto negli Stati dove la capacità fiscale è distribuita in modo non uniforme.
  Questo è uno dei motivi per cui si decentra più la spesa di quanto si decentra il prelievo. Se si decentra più la spesa di quanto si decentra il prelievo, la differenza, che nella letteratura viene chiamata vertical Pag. 4 unbalancy (squilibrio verticale), deve essere per forza di cose colmata dai trasferimenti.
  C'è anche un altro motivo: i trasferimenti sono uno strumento importante per garantire la coesione e la coerenza del sistema. Sono uno strumento per il centro del sistema delle relazioni finanziarie intergovernative per dare indirizzo e stabilità al sistema stesso nel suo complesso.
  Nel grafico a pagina 3 del documento scritto che ho consegnato alla Presidenza, riporto una sintetica panoramica della situazione OCSE, dove si può vedere l'indicatore dell'autonomia tributaria, ovvero il totale delle entrate tributarie sulle entrate totali dei governi sub-centrali. Come vedete, siamo molto lontani dal coprire.
  Va tenuto conto che i trasferimenti non sono il complemento a uno delle entrate tributarie, perché abbiamo anche altre forme di entrata, in particolare tutta la componente tariffaria, però sostanzialmente questo rende l'idea che i Paesi in genere fanno affidamento sull'autonomia tributaria con dei limiti.
  In particolare il Canada, il Paese federale che più fa affidamento sul decentramento di tributi, non arriva al 50 per cento di finanziamento degli enti sub-centrali con tributi.
  Nel grafico a pagina 4 del documento scritto sono riportati i trasferimenti intergovernativi, l'altro lato della medaglia. I trasferimenti intergovernativi sono significativi, con riguardo sia ai Paesi federali sia ai Paesi unitari.
  Se questo è il panorama internazionale, perché in Italia, con la riforma del Titolo V, ovvero la legge costituzionale del 2001, è prevalsa la scelta di abolire totalmente la finanza derivata?
  Come la Commissione sa molto bene, l'articolo 119 della Costituzione che esce dalla riforma del Titolo V del 2001 ammette solo i trasferimenti di tipo perequativo e quelli per finalità speciali, ma non ammette il trasferimento come forma ordinaria di finanziamento dei livelli sub-centrali di governo.
  La Commissione ricorderà quale fu il clima culturale in cui si arrivò a questa decisione. Sostanzialmente la motivazione più forte era che si riteneva questa una condizione per responsabilizzare maggiormente i governi locali. Si diceva che, se i governi locali devono finanziarie le proprie spese prelevando imposte sui propri cittadini, che sono anche il proprio elettorato, staranno più attenti a spendere bene i soldi. Mi riferisco alla tematica della responsabilizzazione e dell’accountability.
  Questa ragione, per quanto fu decisiva in quell'epoca, dal punto di vista tecnico non è fondata, perché, per ottenere quell'effetto di responsabilizzazione e di accountability, si potrebbero avere anche molti trasferimenti. L'importante sarebbe che questi trasferimenti fossero rigidi verso l'alto, cioè che, in caso di sfondamento da parte del governo locale, fosse quest'ultimo a dover sopperire con tributi propri.
  Quello che noi diciamo con questa espressione è che sarebbe sufficiente che l'autonomia tributaria ci fosse al margine, non necessariamente su tutto l'ammontare dei finanziamenti.
  In fondo, è quello che è successo con il finanziamento della sanità, per cui le regioni sono state costrette a finanziare gli sfondamenti con l'addizionale regionale IRPEF.
  È vero che qui c'è un problema che gli economisti chiamano soft budget constraint (vincolo di bilancio tenue). Si constata che, per diversi motivi, che hanno una spiegazione teorica, oltre a essere riscontrati sul piano empirico, se i governi centrali pongono una regola fiscale ai governi sub-centrali e questi ultimi non sono adempienti, in genere il governo centrale interviene col bailout, cioè col salvataggio del governo.
  Questo è il problema del vincolo di bilancio tenue: quello che appare come un vincolo di bilancio ex ante non è un vincolo di bilancio a posteriori, quando lo sfondamento avviene, a causa dell'inconsistenza e dell'incoerenza temporale del governo centrale, per cui cambiano gli obiettivi. Una volta che il governo locale Pag. 5è in crisi, prevalgono i motivi a favore del salvataggio.
  Tuttavia, questo è un problema che abbiamo comunque. Non è vero che, se si adottasse la formula di trasferimenti rigidi e autonomia tributaria al di sopra di questo livello rigido di trasferimenti, il problema del soft budget constraint sarebbe maggiore, anzi probabilmente sarebbe minore. Infatti, se esiste la possibilità di coprire gli sfondamenti con imposte locali, probabilmente il governo centrale può più facilmente tenere duro e dire al governo locale di reperire lui le risorse aggiuntive.
  D'altra parte, la scelta italiana compiuta con la riforma del Titolo V del 2001 pone un altro problema: le risorse tributarie sono sostanzialmente limitate e, quindi, trovare risorse tributarie da devolvere ai governi sub-centrali non è un'operazione semplice.
  Peraltro, a un'entrata che venga formalmente classificata come tributaria si possono associare diversi livelli di autonomia effettiva. Anche nel caso di tributi propri, bisogna vedere quanto al governo locale è consentito di cambiare l'aliquota e i criteri di determinazione della base imponibile. Non parliamo delle diverse forme di tax sharing (condivisione di tributi fra i livelli di governo), nelle quali l'autonomia effettiva del governo locale è modesta.
  Ci sono certe forme di compartecipazione che sono difficilmente distinguibili dai trasferimenti e che in effetti nelle classificazioni internazionali vengono equiparate a questi ultimi.
  Voglio dire che questo passaggio da risorse di finanza derivata a risorse proprie può essere abbastanza fasullo e non concedere un'effettiva autonomia al governo locale.
  Io credo – è un'opinione che circola fra di noi esperti, di cui ha parlato anche il professor Bordignon in un convegno recente – che con la riforma approvata dal Parlamento, che sarà oggetto del referendum confermativo, si sia persa un'occasione per rivedere questo aspetto dell'articolo 119 della Costituzione.
  Si sarebbe potuto ripensare e trovare un'altra formulazione per quanto riguarda la possibilità di ricorso alla finanza derivata, anche perché, come dirò alla fine con un brevissimo cenno, adesso abbiamo il problema della costruzione del sistema finanziario dell'ente intermedio (la città metropolitana) e dell'ente di area vasta, dove il ricorso alla finanza derivata potrebbe essere auspicabile.
  Quello italiano è un caso in cui, a fronte di una devoluzione abbastanza consistente di risorse tributarie, l'autonomia effettiva esercitata dai governi sub-centrali è modesta.
  A livello regionale abbiamo l'IRAP, l'addizionale IRPEF e anche la compartecipazione IVA, che viene registrata come entrata tributaria, anche se si tratta sotto tutti i profili di un trasferimento.
  A livello dei comuni abbiamo la tassazione immobiliare, ampiamente potenziata dal 2011 in poi, l'addizionale IRPEF, i rifiuti e altri tributi.
  Eppure, l'autonomia tributaria effettiva è molto limitata, soprattutto in questa fase di sostanziale blocco delle aliquote, o perché la manovra delle aliquote è stata bloccata per provvedimento legislativo oppure perché l'ente ha raggiunto i limiti massimi delle forcelle consentite di variazione delle aliquote.
  Mi permetto di citare un mio lavoro scritto per l'OCSE. Io nel 2013 sottolineavo che anche la legge n. 42 del 2009, che doveva essere quella che applicava il nuovo articolo 119 della Costituzione proprio sotto il profilo dell'abolizione della finanza derivata e della sostituzione dei trasferimenti contributi, in effetti faceva un ampio ricorso a forme di co-occupation (condivisione di tributi tra diversi livelli di governo), che in qualche modo era un po’ una forzatura, una finzione, un'interpretazione dell'articolo 119 piuttosto conservativa.
  Veniamo adesso al secondo punto. Abbiamo detto – e la Commissione ne è ben consapevole – che il cuore della legge n. 42 e dei successivi decreti delegati era la cosiddetta «fiscalizzazione dei trasferimenti» e, quindi, porre fine alla finanza derivata. Pag. 6
  Questo si è fatto. Nella legge n. 42 e nei decreti legislativi era previsto che si facesse nel modo cui ho fatto cenno, cioè con un ampio uso di forme di compartecipazione di addizionali e quant'altro. Tuttavia, quanto previsto nella legge n. 42 e nei decreti legislativi n. 68 e n. 23 del 2011 non è stato attuato.
  Il primo motivo di questo è che, come è stato detto diverse volte, il processo di applicazione della riforma del federalismo fiscale si è intrecciato con la legislazione emergenziale dovuta alla crisi economico-finanziaria, che nel 2011 raggiunge punte di eccezionale gravità per il nostro Paese.
  C'è un dato significativo, che chi seguiva i lavori in quel tempo ricorda molto bene. Nella prima relazione della Commissione tecnica paritetica per l'attuazione del federalismo fiscale (COPAFF) del 30 giugno 2010, con un lavoro accurato, venivano quantificati i trasferimenti statali alle regioni che dovevano essere fiscalizzati nello spirito della legge n. 42.
  Immediatamente dopo, col decreto legge n. 78 dell'estate del 2010, gran parte di quei trasferimenti, che la COPAFF aveva stimato in un volume fra i 5 e i 6 miliardi, venivano semplicemente tagliati (4 miliardi nel 2011 e 4,5 miliardi negli anni successivi). Questa è una norma che, come sapete, è ancora in vigore.
  Sommando questi tagli a quelli successivi, in base ai dati che sono stati forniti alla Commissione sia dalla Ragioneria che dalla Corte dei conti, nel 2017 si arriverà a un taglio cumulato di circa 8 miliardi.
  Questo sostanzialmente ha tolto la materia della finanza derivata: i trasferimenti, anziché essere stati trasformati in risorse tributarie, sono stati semplicemente tagliati.
  Che cosa rimane adesso? Ho ricavato una tabella proprio dai dati che sono stati forniti alla Commissione, in particolare dal documento che ha prodotto il dottor Bilardo della Ragioneria. Non tornerò sulla distinzione fra funzioni LEP (livello essenziale nelle prestazioni) e funzioni non LEP per le regioni. Come ricorderete, oggi per le funzioni non LEP rimangono 252 milioni di trasferimenti.
  Sarebbero di più se tenessimo conto del fondo per i trasporti pubblici locali. Voi ricorderete la scelta dissennata, che fu compiuta con la legge n. 42 e con il decreto n. 68, di dividere il mondo dei trasporti pubblici in due pezzi: la parte corrente rimaneva fuori dai LEP, mentre la spesa in conto capitale doveva essere assoggettata ai LEP.
  Il fondo attuale per il trasporto pubblico locale (TPL) è parte corrente, quindi in linea di principio non dovrebbe essere assoggettato ai LEP. Di fatto, però, come adesso preciserò, i TPL stanno ormai seguendo un proprio percorso di razionalizzazione che è al di fuori dello scenario della normativa sul federalismo fiscale.
  Se includessimo anche il fondo TPL, si arriverebbe a circa 5 miliardi, però – lo ripeto – al momento probabilmente non è corretto farlo. Per le funzioni LEP siamo attorno a un miliardo.
  Teniamo conto che i trasporti pubblici locali dal decreto-legge n. 95 del 2012 stanno seguendo un proprio percorso di efficientamento, di riforma e di razionalizzazione, che, pur faticosamente, sta andando avanti e che, peraltro, pone rimedio a quello che fu un errore della legge n. 42 e del decreto legislativo n. 68, cioè quello di non prevedere i LEP e, di conseguenza, i fabbisogni standard (le due cose sono legate) per la spesa corrente.
  Adesso la legislazione specifica di settore, che parte dal decreto-legge n. 95 del 2012 e va avanti, prevede l'applicazione progressiva dei fabbisogni standard e dei costi standard anche alla spesa di parte corrente del TPL.
  A questo punto, credo che per tutto il TPL si debba proseguire nella via che è tracciata, con una riforma specifica di settore, anche perché si tratta di ridisegnare le competenze fra i diversi livelli di governo coinvolti (Stato, regioni ed enti locali).
  Da un lato, abbiamo le spese non LEP. Certamente non varrà più la pena di mettere in piedi tutto il sistema perequativo che la legge n. 42 e il decreto legislativo n. 68 prevedevano per le spese non LEP. Ricorderete che le spese non LEP dovevano Pag. 7essere perequate in base a capacità fiscale e, quindi, senza riferimento ai fabbisogni standard, in modo parziale e con ricorso all'addizionale IRPEF. Non credo che per 252 milioni convenga mettere le mani a questo comparto.
  Per il resto, pensando di lasciare fuori la spesa dei trasporti pubblici locali e di riconsiderare la spesa sanitaria dal punto di vista dell'opportunità di stimare i LEP – nella spesa sanitaria esistono già i livelli essenziali di assistenza (LEA), ma questi, a mio modo di vedere, non sostituiscono i LEP – per quel miliardo di trasferimenti statali alle regioni che ancora sussistono in tema di assistenza e di istruzione, probabilmente si potrebbe porre nell'agenda il disegno di un percorso che riprenda qualcosa della legge n. 42 e del decreto legislativo n. 68, fissando i LEP e disegnando un sistema perequativo diverso da quello attuale, che è ancora basato sulla spesa storica.
  La Commissione sa che il decreto-legge n. 78 del 2015 ha spostato al 2017 l'entrata in vigore del decreto legislativo n. 68 per le regioni. Secondo questa disposizione, nel 2017 – mi pare che ci sia una scadenza intermedia a luglio 2016 – si dovrebbe procedere con tutto l'armamentario della legge n. 42 e del decreto n. 68.
  Come ho potuto manifestare alla Commissione, io credo che questa norma non potrà essere assolutamente rispettata e sarà opportuno non rispettarla, perché in gran parte il decreto n. 68 non è più applicabile, per quanto ho illustrato.
  Quello che io suggerirei alla Commissione è di prendere una posizione per la quale non si tratti di un'ulteriore semplice rinvio dell'entrata in vigore del decreto n. 68, ma si decida una volta per tutte che cosa di questo decreto può essere salvato e che cosa, invece, deve essere lasciato cadere.
  Secondo me, la parte che riguarda le spese non LEP, almeno al momento, non è nell'agenda. Che cosa fare, però, per le spese LEP, per quel miliardo che rimane di assistenza e istruzione e per quanto riguarda la sanità?
  Ricorderete che, mentre il calcolo dei fabbisogni standard e del meccanismo perequativo era demandato ai lavori della SOSE (Soluzioni per il Sistema Economico Pubblico e Privato) e della COPAFF e a provvedimenti amministrativi, decreti ministeriali, decreti del Presidente del Consiglio dei ministri e quant'altro, la parte che riguardava il sistema perequativo sanitario era disegnata proprio da un titolo del decreto legislativo n. 68, quello che prevedeva la scelta delle tre regioni più efficienti.
  Come la letteratura tecnica ha dimostrato, quel disegno era abbastanza debole e non cambiava molto gli attuali meccanismi di ripartizione del Fondo sanitario nazionale fra le regioni.
  Io credo che in questa operazione di riscrittura di un'agenda su cosa si può portare avanti di tutta l'impalcatura della legge n. 42, del decreto n. 68 e del decreto n. 23 debba essere fatta rientrare anche una riflessione su quale debba essere la ripartizione delle risorse sanitarie tra le regioni, che continua a seguire la contrattazione con la quale da anni ormai si determina la ripartizione stessa.
  Abbiamo parlato delle regioni. A livello dei comuni, un certo ammontare di trasferimenti statali c'è. Io su questo, purtroppo, non ho potuto vedere il documento che ha prodotto il dottor Verde della direzione finanza locale del Ministero degli interni.
  Io ho dei dati pro capite. Tuttavia, moltiplicandoli per la popolazione, che è intorno ai 51 milioni (regioni a statuto ordinario più Sicilia e Sardegna), viene fuori che, al di là del discorso del Fondo di solidarietà, c'è un ammontare di circa 4-5 miliardi di trasferimenti statali ai comuni.
  Questo risulta anche dalle tabelle messe a disposizione della Commissione sia dalla Ragioneria generale che dalla Corte dei conti. Tuttavia, non sono in grado di valutare in dettaglio che cosa va a comporre questi trasferimenti statali ai comuni, che sono di entità non trascurabile, se pensiamo che alle regioni è rimasto un miliardo.
  Consiglierei alla Commissione di cercare di esaminare nella risoluzione finale, Pag. 8anche in base ai documenti prodotti da Verde, da cosa è composto questo panorama.
  Ho ben chiaro, invece, il discorso del Fondo di solidarietà. Il Fondo di solidarietà è diventato sostanzialmente orizzontale, ossia il contributo statale a questo fondo è molto modesto. Il Fondo di solidarietà, come ricorderete, è quello che distribuisce le risorse tra i comuni in sostituzione del Fondo sperimentale e del vecchio criterio della spesa storica.
  Il contributo statale ormai è molto modesto, quindi il Fondo di solidarietà è diventato di carattere orizzontale.
  Sono i comuni che versano e che alimentano il fondo.
  Dal punto di vista della presentazione contabile, forse si dovrebbe parlare col dottor Bilardo e con la Ragioneria, perché l'alimentazione del fondo da parte dei comuni contabilmente passa per il bilancio dello Stato. Pertanto, se voi guardate i dati forniti da Bilardo, quella parte risulterebbe come trasferimenti statali ai comuni, ma questo è fuorviante.
  Si discute tanto sull'opportunità che i conti pubblici e il bilancio dello Stato diano una rappresentazione più fedele possibile dei rapporti finanziari intergovernativi. Mi pare che per alcuni versi siamo ancora lontani.
  Un aspetto che la Commissione conosce bene e sul quale si è pronunciata in diverse occasioni è che, nell'ambito del Fondo di solidarietà, il passaggio al meccanismo fondato sulla ripartizione delle risorse in base a fabbisogni standard e capacità fiscali è molto lento.
  Ci si accontenta di dire che nel 2016 il 30 per cento del fondo sarà distribuito in base a fabbisogni standard e capacità fiscali. Questo non è vero, perché lo dice la legge, ma poi in sede di intesa si è stabilito che questo si applica al 30 per cento e al 45,8 per cento.
  Devo dire che questa è una cosa un po’ sorprendente, perché è stata una decisione presa contro una norma di legge, in un accordo in sede di Conferenza Stato-città.
  Se si tiene conto che il rimborso della TASI sull'abitazione principale si fa in base a dati storici e non a capacità fiscali, si può calcolare che praticamente quanto si distribuisce e si distribuirà, tenendo conto anche della TASI, con il Fondo di solidarietà in base a capacità fiscali e fabbisogni standard è intorno al 7 per cento.
  Se pensiamo che il processo è partito nel 2011, stiamo procedendo con una lentezza veramente incredibile.
  Segnalo – anche di questo la Commissione è consapevole – che Roma pone un problema particolare. Sappiamo molto bene che pone un problema particolare alla finanza pubblica (basta leggere i giornali), ma pone tecnicamente anche un problema particolare dentro al Fondo di solidarietà.
  Roma è un elemento di scompenso del Fondo di solidarietà, perché, anche in questo caso, per un accordo di tipo «politico», i fabbisogni standard e le capacità fiscali di Roma sono stati calcolati inserendo nella stima statistica anche i contributi speciali che in due tranche sono stati riconosciuti a Roma (400 e poi altri 100). Questo ha alterato la stima di tipo statistico, per cui Roma prende troppi soldi dal fondo rispetto a quelli che dovrebbe prendere.
  Non so se la Commissione ha consapevolezza che a questo si è posto rimedio con quei tagli sulle code che è stato fatto. Nell'accordo Stato-città per la distribuzione del Fondo di solidarietà 2016 si è tolto un po’ al percentile dei comuni più alti (praticamente a Roma), per darlo a quelli che perdevano di più. Oltre al 30 per cento, al 45,8 per cento e alla TASI a costo storico, c'è stato un ulteriore taglio sulle code, per far fronte al problema che Roma scompensa il fondo.
  Io credo che forse la Commissione farebbe bene ad aprire un'indagine specifica su questo e a proporre che a questo punto Roma sia esclusa dal fondo. Vista la specialità di Roma Capitale, forse la cosa migliore è che si ricalcolino i fabbisogni standard al netto dei trasferimenti speciali di cui ha goduto Roma oppure che Roma sia tolta dal fondo e diventi un fatto a sé stante anche dal punto di vista Pag. 9della perequazione. È un problema che mi permetto di segnalare alla Commissione.
  Un altro punto che, secondo me, è ai primi posti dell'agenda – so che a fine mese la Commissione ascolterà il Ministro per gli affari regionali e le autonomie locali – è tutto il comparto delle province e delle città metropolitane, che oggi sostanzialmente vivono sui tre tributi «automobilistici» delle ex province e sono ormai in una situazione di stress fiscale assolutamente insostenibile. Anche di questo la Commissione è perfettamente consapevole.
  Io credo che in questo caso probabilmente non si tratterà di operare con provvedimenti tampone, ma di comporre un disegno, che non poteva essere compreso nel decreto legislativo n. 68. Ci sono delle disposizioni che riguardano le entrate delle città metropolitane nel decreto legislativo n. 68, ma sono assolutamente insufficienti. Mi riferisco all'imposta particolare sulle emissioni sonore degli aeroporti eccetera.
  Su questo adesso c'è un ampio dibattito a livello tecnico. C'è stato un convegno, del quale probabilmente avete avuto notizia, organizzato dall'Istituto regionale per la programmazione economica della Toscana (IRPET), in collaborazione con l'ANCI e altri soggetti, sul finanziamento delle città metropolitane.
  Durante questo convegno sono state prospettate diverse ipotesi di tributi specifici che potrebbero prestarsi al finanziamento delle città metropolitane. Sono tributi particolari, che si basano sulla congestione o sui benefici di agglomerazione che vengono da attività produttive locali. C'è una batteria di possibili soluzioni.
  Quello che io dico, riprendendo il discorso iniziale, è che forse, essendo le città metropolitane e l'eventuale organo di area vasta che permanga enti di secondo livello, che sono espressioni dei comuni, un certo spazio alla finanza derivata per questi enti si sarebbe forse potuto prevedere.
  È vero che l'articolo 119 della Costituzione è rimasto quello che è e che questo non può essere strettamente previsto, però forse si può pensare a forme di compartecipazione a entrate verso l'alto (entrate delle regioni) o verso il basso (entrate dei comuni). Infatti, contare per le città metropolitane esclusivamente su tributi propri potrebbe portare a un aggravio della pressione fiscale complessiva, che va valutato con attenzione.
  Le conclusioni sono piuttosto semplici. Credo che la finanza derivata non sia scomparsa perché i trasferimenti sono stati sostituiti con tributi propri, ma semplicemente perché è stata ampiamente erosa dalla legislazione di consolidamento dei conti pubblici che è partita nel 2010-2011.
  È necessario, quindi, fare partire questa riflessione su come riscrivere l'agenda della finanza regionale, al di là di ogni richiamo di principio al federalismo fiscale.
  Ripeto che, secondo me, qualcosa di quello che era previsto nella legge n. 42 e nel decreto legislativo n. 68 sulle spese LEP può essere ripreso opportunamente.
  C'è un altro punto che io qui non ho segnalato, perché è specifico e molto tecnico, ma è un peccato che si sia lasciato cadere. Nel decreto legislativo n. 68 si prevedeva una modifica profonda della compartecipazione IVA regionale, che l'avrebbe trasformata in una compartecipazione vera e propria, con una territorialità molto più marcata di quella attuale.
  Oggi la compartecipazione IVA, da una parte, fa riferimento a un dato statistico, cioè ai consumi delle famiglie come registrati dall'ISTAT, e, dall'altra, è l'oggetto della contrattazione quando si stabilisce la distribuzione del Fondo sanitario nazionale.
  C'era un articolo specifico del decreto n. 68 che prevedeva, invece, le modalità per la territorializzazione della compartecipazione IVA. Quello è un altro punto limitato, però importante, perché, se si guarda alla letteratura o ai dati OCSE ci sono diverse modalità di compartecipazione e uno dei requisiti per cui la compartecipazione possa essere effettivamente considerata un'entrata tributaria è che questo legame con l'economia del territorio sia forte. Ciò comporta anche la possibilità Pag. 10di uno sforzo dal punto di vista dell'accertamento della riscossione del tributo da parte del governo locale, quindi è un'incentivazione.
  Se il gettito che il governo locale prende non è connesso all'economia territoriale, è un dato statistico, non ci può essere neanche un incentivo dell'impegno del governo locale di contribuire all'attività di accertamento e di riscossione del tributo erariale.
  Questo è un altro punto che, per quanto limitato, si potrebbe probabilmente riprendere a livello locale, salvo la riflessione, che io non ho potuto portare a termine completamente, su cosa abbiamo ancora in quel nucleo che rimane di trasferimenti statali ai comuni. Io non mi aspettavo che fosse così consistente. Pensavo che, una volta retrocesso lo Stato dal Fondo di solidarietà, i trasferimenti statali ai comuni residui fossero di entità modesta (attorno a un miliardo o al massimo a 2 miliardi). Invece, dai dati sembrerebbero attorno ai 4-5 miliardi.
  Francamente, secondo me, bisogna vedere più in dettaglio che cosa rimane in quel nucleo e se si tratta di porvi mano.
  Salvo questo problema, io credo che al momento, dato anche lo scarso appetito politico per certe questioni che riguardano l'assetto delle relazioni finanziarie intergovernative, la precedenza dovrebbe essere data alla finanza dell'ente intermedio, da una parte, e a cercare di dare una spinta a questo processo di rinuncia alla spesa storica come criterio di distribuzione delle risorse fra i comuni e di passaggio pieno ai fabbisogni standard e alle capacità fiscali, dall'altra.

  PRESIDENTE. Grazie, professor Longobardi.
  Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  ROGER DE MENECH. Rispetto all'ente intermedio, mi pare di capire dalle sue valutazioni che, vista la conformazione di un ente di secondo grado, sarebbe opportuno arrivare a una finanza derivata, che puntualizzi in maniera particolare le funzioni e le competenze, ne stimi i costi e fornisca l'ente intermedio delle relative risorse per mantenere le funzioni fondamentali o tutte le funzioni che vogliamo attribuire all'ente stesso.
  Io credo, presidente, che su questo la seconda parte del 2016 sia decisiva, perché, al netto delle valutazioni sulla legge Delrio, oggi la situazione di quell'ente diventa di fatto insostenibile per il mantenimento delle funzioni.
  Peraltro, avrebbe la sua congruità un ente di secondo grado che basi la sua capacità operativa sulle funzioni attribuite e, quindi, sul peso che queste hanno in termini economici. Sarebbe anche un motivo per applicare finalmente nel nostro Paese la differenziazione fra l'ente di area vasta che ha 1.000 chilometri in gestione e l'ente di area vasta che ne ha cento, per essere molto chiari. Questo è il primo punto.
  Sul resto, se incrocio la relazione di oggi con una lettura molto veloce del parere che ci è stato consegnato rispetto al lavoro svolto, io credo che noi abbiamo la necessità di riprendere in mano in maniera profonda la normativa, altrimenti corriamo il rischio di sentirci sempre rispondere: «Bravi, bravi, avete ragione, ma la norma prevede un'altra cosa».
  Dovremmo riuscire a mettere in campo delle azioni per rivedere profondamente questo sistema, perché di fatto sono cambiate le condizioni. Questa è la sintesi: sono cambiate le condizioni e la normativa non tiene più. Questa è la verità. È inutile che noi aggiustiamo con interventi puntuali, quando invece è l'impianto che è messo in forte discussione.
  Dovremmo veramente aprire una riflessione seria, secondo me, anche in quel campo con gli stessi princìpi. Ormai dovremmo andare verso il pagamento puntuale del servizio o della prestazione che l'ente eroga al cittadino, definirlo, specificare gli standard minimi, stabilire con precisione quanto costano questi standard minimi e poi fornire le relative risorse, dirette o indirette. Pag. 11
  Presidente, credo che questa riflessione serva a noi. Ciò conferma quello che ci siamo detti nell'ultimo anno.

  DANIELE MARANTELLI. Io ringrazio il professor Longobardi perché nelle sue audizioni riesce sempre a darci qualche elemento di stimolo. Ce ne sono stati molti anche in questa sua relazione, a partire dalla suggestione, che mi sembra tutt'altro che teorica, relativa alla rimessa in discussione della presenza di Roma nel Fondo di solidarietà.
  Credo che la nostra Commissione abbia sempre un problema di identità: non essere un luogo di convegno e, nello stesso tempo, però, non avere nemmeno una funzione operativa. Dobbiamo cercare di darci noi questo ruolo, per quanto possibile, al di là di quello che è previsto dalla legge.
  Io vorrei approfittare della sua presenza. Ieri ho ascoltato una persona, che ha altissime responsabilità e sulle cui spalle insistono grandi aspettative da parte del Paese, esprimere un giudizio perentorio sulla riforma del Titolo V, che è stata definita da questa persona «criminale».

  ERNESTO LONGOBARDI, Professore ordinario di scienza delle finanze presso l'Università degli studi di Bari Aldo Moro. Riferendosi alla riforma del 2001?

  DANIELE MARANTELLI. Sì. Io sono affezionato alla cultura del dubbio, che è tipicamente europea e che nei secoli scorsi ci ha permesso, peraltro, di acquisire risultati impensabili in altre parti del mondo. Fedele a questa cultura, chiedo al professor Longobardi se condivide questo giudizio così perentorio, anche perché nelle prossime settimane e nei prossimi mesi con ogni probabilità, se vogliamo recuperare il drammatico gap che c'è tra cittadini e istituzioni e che è stato segnalato anche in queste ultime consultazioni popolari, dovremmo compiere uno sforzo per far comprendere ai cittadini qual è la durezza dei problemi.
  Lei giustamente ha sottolineato che i LEA non sostituiscono i LEP. Su questo c'è ancora moltissimo lavoro da fare. Mi è capitato di ricordare in altre circostanze che, dopo tutta la discussione sui diritti, sulla famiglia, sulle unioni civili, sulla maternità surrogata, con il ministro che propone il bonus bebè, scopriamo che forse se su 8.000 comuni ci sono gli asili nido in 2.500 è un successo.
  Ecco perché mi pare giusto raccogliere la sua valutazione in ordine all'esigenza di riscrivere la stessa legge n. 42 del 2009, che è andata in sofferenza per le condizioni materiali del Paese, non per dibattiti.
  Sulla base di queste premesse, vorrei conoscere la sua valutazione su questo giudizio così perentorio. Chiaramente a me non sfuggono le incongruenze che in quella riforma, beninteso, c'erano.

  ERNESTO LONGOBARDI, Professore ordinario di scienza delle finanze presso l'Università degli studi di Bari Aldo Moro. Probabilmente il giudizio si riferisce all'attuale riforma.

  DANIELE MARANTELLI. No, io mi riferisco a quella del 2001. Diciamolo chiaramente: il dottor Cantone ieri l'ha definita una riforma criminale. È un giudizio perentorio, sul quale io mi permetto di avere qualche dubbio. Io credo che, se in questo Paese non ci prendiamo l'abitudine di buttar giù qualche tabù, cioè che, diminuisci la spesa pubblica corrente in maniera corretta se applichi correttamente i costi standard, altrimenti ci parliamo addosso.
  Questa è l'impressione di uno che fa politica partendo dal marciapiede; un'altra cosa è la valutazione di un autorevole studioso come lei. Mi piacerebbe che mi dicesse, con l'esperienza e con la conoscenza approfondita dei problemi che ha, se questo dubbio che ho io rispetto a questo giudizio perentorio è fondato oppure no.

  MAGDA ANGELA ZANONI. Ringrazio anch'io il professor Longobardi per la bellissima relazione. Devo dire che ci dà sempre tanti spunti di riflessione profonda davvero interessanti e mai banali. La ringrazio davvero. Credo che a questo punto, Pag. 12però, noi dobbiamo fare tesoro di questi suggerimenti.
  Devo dire che già da tempo e in altre occasioni abbiamo parlato della necessità di una revisione della normativa che riguarda gli enti locali, dal punto di vista fiscale ma anche complessivamente.
  Il Testo unico degli enti locali dal 2000 è stato rivisto ogni volta con degli interventi tampone su delle singole situazioni, ma manca il quadro generale. Ormai bisogna prendere atto di quelle che sono state le luci e le ombre di applicazione della legge n. 42 del 2009, tenendo conto di una situazione emergenziale, sottolineata anche dal professore, che giustifica atti presi in certi momenti. Valutando adesso le leggi del 2011 senza tener conto di qual era la situazione in quel momento si rischia di dare dei giudizi ingenerosi, perché eravamo oggettivamente in una situazione di grande difficoltà, quindi era necessario prendere delle decisioni, che certamente, viste a cinque anni di distanza, assumono altre valutazioni.
  Sicuramente occorre ridefinire il sistema, perché la sottolineatura sull'ente intermedio è fondamentale. Noi siamo di nuovo in una fase in cui metteremo delle pezze. Ad esempio la revisione della legge n. 243, la revisione di tutto l'impianto della contabilità, unito di nuovo a un provvedimento di un decreto-legge sugli enti locali.Secondo me, è anche giusto che ogni anno a luglio ci sia un decreto sugli enti locali, perché definisce le regole per i bilanci di previsione. Questo consente progressivamente ai comuni di poter tornare a fare i bilanci entro il 31 dicembre o semmai, al massimo, entro il febbraio dell'anno successivo. Questo dà una logica temporale agli eventi.
  Tuttavia, ormai il quadro è insostenibile, perché, come sempre, in ogni impianto teorico ci sono aspetti positivi e negativi, ma qui non c'è più un impianto teorico. È questo che manca. Manca una coerenza fra tutti gli atti che sono stati adottati in questi anni.
  Pertanto, credo che sia compito della nostra Commissione provare a fare il passaggio successivo. Noi finora abbiamo audito molto, che ovviamente ci è molto servito, perché siamo cresciuti nella nostra capacità di leggere la realtà, e siamo intervenuti con pareri su alcuni provvedimenti, come quest'ultimo. Leggerò approfonditamente le considerazioni, però è abbastanza particolare che, di fronte a dei pareri che sono già stati molto limati e molto concordati, ci sia ancora questa caduta di stile. Di fronte a un parere che ormai era davvero all'acqua di rose, in cui avevamo indicato delle linee di principio vaghe, non vengano colte neanche quelle.
  Vuol dire che c'è davvero bisogno di un ripensamento. Bisogna vedere se questa Commissione ha la forza di fare uno scatto d'orgoglio e di procedere a un'elaborazione teorica che porti a una modifica delle norme e soprattutto a un raccordo, anche perché negli enti locali non riescono più a districarsi e a capirci qualcosa. Non si può pensare che in comuni di piccole dimensioni, dove il numero del personale è estremamente contenuto, riescano a star dietro a tutte le norme. Rischiano di incorrere in sanzione, non perché non applicano, ma perché non capiscono, non ce la fanno più a star dietro alle modifiche e non hanno un testo chiaro di riferimento.
  Forse da questo punto di vista dobbiamo avere il coraggio di accogliere la sua sollecitazione.

  PRESIDENTE. Do la parola al professor Longobardi per la replica.

  ERNESTO LONGOBARDI, Professore ordinario di scienza delle finanze presso l'Università degli studi di Bari Aldo Moro. Non sono state domande, ma sono state osservazioni molto pertinenti, che condivido.
  Sulle città metropolitane avevo segnalato l'opportunità di pensare a quale spazio dare alla finanza derivata. Ovviamente non credo che tutta la finanza delle città metropolitane possa essere derivata. Bisognerà trovare un equilibrio fra tributi propri e finanza derivata.
  Certamente il nesso che è stato fatto fra ricorso a finanza derivata e fissazione di LEP e di fabbisogni standard è fondamentale, Pag. 13 perché, se ti vado a finanziare, ti finanzierò a costi efficienti e secondo determinati obiettivi di servizio e determinati livelli essenziali delle prestazioni.
  Peraltro, segnalo che in questo ridisegno della finanza delle città metropolitane si dovrà forse valutare se gli attuali tre tributi «automobilistici» (l'IPT, l'RCA e quello ambientale) sono i più appropriati per le città metropolitane. Quelli sono stati dedicati alle province, che svolgevano questo ruolo importante nella mobilità.
  Una possibilità potrebbe essere pensare a tributi diversi e acquisire quei tributi a livello regionale. Si potrebbe pensare a una ricomposizione dei tributi locali nell'occasione del disegno della finanza delle città metropolitane.
  Sul Titolo V del 2001 ci fu un'impronta, come accennavo, di tipo culturale e ambientale. La riforma del 2001 ha una forte impronta regionalista. Le regioni, con l'inversione nell'attribuzione delle competenze dell'articolo 117 della Costituzione, dovevano diventare l'attore forte, anche se, con la riforma del 2001, non ci si spinse al punto di stabilire una gerarchia, come c'è negli altri Paesi, fra livelli di governo, dicendo che le regioni avevano una funzione di gestione della finanza locale e che erano gerarchicamente al di sopra. Questo non si è mai fatto. Anche nell'articolo 114 della Costituzione tutti i livelli di governo sono allo stesso livello e hanno la stessa dignità costituzionale. Questo è sempre rimasto anche e nonostante la forte impronta regionalista della riforma del 2001.
  A questo punto, però, parlerei della riforma del 2001 nell'ottica della riforma che è in corso, perché questa dà una svolta totalmente diversa: c'è un forte accentramento, vengono meno le competenze concorrenti e il ruolo delle regioni viene fortemente ridimensionato dal punto di vista funzionale.
  In compenso, dal punto di vista dell'architettura istituzionale e politica, viene riconosciuto il Senato come Camera di rappresentanza delle regioni. È come se fossero depotenziate nelle funzioni, ma potenziate dal punto di vista della rappresentanza e dell'architettura istituzionale.
  Un punto che può essere sottolineato nel nuovo Titolo V come disegnato dalla riforma in corso è il riferimento ai fabbisogni standard nell'articolo 119 della Costituzione. Le capacità fiscali erano già previste, ma adesso c'è un riferimento esplicito ai fabbisogni standard, che diventano un principio costituzionale.
  Ho detto che forse si poteva cercare di andare un momento oltre e rimuovere l'impossibilità costituzionale di fare ricorso a forme di finanza derivata.
  Rispetto all'ultimo intervento, che è ad ampio raggio, io segnalerei alla Commissione l'opportunità di seguire gli sviluppi del disegno di legge governativo sulla riforma della legge n. 243.
  Come avete visto, forse opportunamente, in qualche modo mette in stand by quel meccanismo complicato, che però aveva una sua ragione d'essere, che stabiliva che il Governo centrale, per il quale le regole di saldo erano poste in termini di saldo strutturale, poteva ribaltare questa maggiore flessibilità a livello sub-centrale, dove invece i vincoli erano espressi in termini di saldo nominale.
  C'era la particolare architettura della composizione di quel fondo che doveva alimentare le entrate degli enti locali in presenza di congiuntura sfavorevole previsto dalla legge n. 243, che l'attuale disegno di legge governativo spazza via totalmente.
  Probabilmente è giusto, perché era troppo complicato dal punto di vista tecnico, era una cosa veramente irragionevole, però quello che mi preoccupa è che il disegno di legge governativo non dice da cosa sarà sostituito, ma dice semplicemente che è spazzato via e che si rimanda alla legge ordinaria statale, mentre la legge n. 243 è una legge rafforzata. Praticamente viene depotenziata la norma, nel senso che per ora abroghiamo quanto previsto dalla legge n. 243 e poi ne parleremo con legge ordinaria statale.
  Io mi fermerei qui, presidente.

  PRESIDENTE. Rispondo alla senatrice Zanoni. Stavo pensando che la relazione semestrale potrebbe essere l'occasione in Pag. 14cui la Commissione fa qualche proposta e dà qualche tipo di indirizzo.
  C'è anche l'audizione del ministro a fine mese, che sarà un momento in cui il Governo dovrebbe dimostrarci, se non per iscritto almeno come contributo di audizione, di avere le idee chiare su come mettere a sistema tutte queste questioni aperte.
  Ringrazio il professor Longobardi per il suo intervento e per la documentazione consegnata, della quale autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato).
  Dichiaro chiusa l'audizione.

  La seduta termina alle 9.05.

ALLEGATO

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