XVII Legislatura

Commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale

Resoconto stenografico



Seduta n. 58 di Giovedì 15 ottobre 2015

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 3 

Audizione del professor Marcello Cecchetti su federalismo fiscale e autonomia regionale differenziata ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione (ai sensi dell'articolo 5, comma 5, del regolamento della Commissione):
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 3 
Cecchetti Marcello , Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico nel Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Sassari ... 3 
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 12 
D'Incà Federico (M5S)  ... 12 
Cecchetti Marcello , Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico nel Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Sassari ... 12 
Zanoni Magda Angela  ... 13 
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 14 
Cecchetti Marcello , Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico nel Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Sassari ... 14 
Giorgetti Giancarlo , Presidente ... 15

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIANCARLO GIORGETTI

  La seduta comincia alle 8.35.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
  (Così rimane stabilito).

Audizione del professor Marcello Cecchetti su federalismo fiscale e autonomia regionale differenziata ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del professor Marcello Cecchetti su federalismo fiscale e autonomia regionale differenziata ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione.
  Do la parola al professor Cecchetti per lo svolgimento della relazione.

  MARCELLO CECCHETTI, Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico nel Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Sassari, Grazie, presidente, a lei e alla Commissione, di questo invito. Inizierò con un'esposizione di una trentina di minuti, per poi dare spazio a eventuali curiosità, approfondimenti o domande.
  Per iniziare, devo dire che è difficile sfuggire a una sensazione di fronte al titolo del tema che è stato assegnato e che evoca un ragionamento da mitologia istituzionale, in cui ci si domanda che senso può avere oggi, per un giurista e anche per un'istituzione parlamentare, riflettere sul regionalismo differenziato, particolarmente nella prospettiva del federalismo fiscale, che, a mio parere, è l'unica prospettiva seria per affrontare il tema del regionalismo differenziato. Infatti, sembra quasi vi sia un binomio inscindibile fra la prospettiva della differenziazione regionale e quella del federalismo fiscale.
  Il tema evoca una sensazione da mitologia istituzionale perché la parabola che ha caratterizzato quella che è rimasta, al momento, una prospettiva del tutto teorica e forse addirittura illusoria del nostro regionalismo coincide con la parabola della nostra forma di Stato per come era stata pensata, o immaginata, nel 2001. Peraltro, non potrebbe essere altrimenti perché l'autonomia regionale differenziata, come l'aveva immaginata la revisione costituzionale del 2001, consegnandoci l'articolo 116, terzo comma, è la forma di sviluppo più matura del regionalismo e anche del concetto stesso di autonomia.
  Con il regionalismo differenziato si innesta, infatti, una prospettiva del tutto nuova nell'ordinamento che era concepito dal 1947, o meglio dagli anni Settanta, ovvero dall'attuazione del regionalismo, come un regionalismo dell'uniformità, in cui la prospettiva che singole regioni potessero avere forme e condizioni di autonomia differenziata dalle altre era assolutamente impraticabile per Costituzione.
  Invece, su questo il legislatore della revisione costituzionale del 2001 ha innestato una prospettiva che si collega direttamente al principio supremo della nostra Costituzione, consegnatoci dall'articolo 5, nel quale si fa riferimento, nell'ambito dell'unità e indivisibilità della Repubblica, al riconoscimento e alla promozione delle Pag. 4autonomie locali. La promozione, però, non può che avere un impulso all'ampliamento di un'autonomia, che si differenzia per territori, rispetto a un'autonomia uniforme su tutto il territorio nazionale.
  Allora, merita domandarsi, innanzitutto, le ragioni per cui questa prospettiva è rimasta, al momento, lettera morta e oggi ci appare addirittura illusoria e quasi mitologica. Per fare questo, è opportuno avere consapevolezza e guardare, per tappe parallele, all'attuazione o ai tentativi di attuazione dell'articolo 116, terzo comma, registratisi fino ad oggi e, nello stesso tempo, all'attuazione o alla parabola che ha avuto la riforma costituzionale del 2001 della forma di Stato in Italia.
  Vorrei partire proprio da questa perché, a mio parere, come vedrete, le tappe sono insospettatamente coincidenti. Nell'ambito della cronistoria della riforma costituzionale del Titolo V del 2001, abbiamo alcune date alcune significative.
  C’è una prima fase, che si attesta tra il 2002 e il 2007, in cui la giurisprudenza costituzionale e le istituzioni, in generale, sia nazionali sia regionali, prendono sul serio la riforma del 2001 e provano a interpretarne, cucirne e applicarne le potenzialità. Dal 2007 c’è, invece, un'inversione di tendenza che si avverte nella giurisprudenza costituzionale, che torna ad applicare canoni ermeneutici e soluzioni molto più vicine al testo costituzionale ante 2001 che non a quello post riforma.
  Poi, come è noto, anche in forza della crisi economica, delle esigenze di finanza pubblica, di riequilibrio e di contenimento della spesa, nonché delle difficoltà di attuazione del federalismo fiscale e delle famose leggi attuative dell'articolo 119, si avvia una parabola inesorabilmente discendente del nostro regionalismo, che porta alla legge costituzionale n. 1 del 2012 e alla sua attuazione, che consegna allo Stato una potestà legislativa unilaterale molto più pervasiva in materia di coordinamento della finanza pubblica e, infine, alla riforma costituzionale in corso di approvazione, la quale – non c’è bisogno che lo dica in termini troppo complicati – è evidentemente una controriforma rispetto a quella del 2001, almeno per quel che riguarda il Titolo V, con una vistosissima riduzione delle forme e delle condizioni dell'autonomia regionale. In questa controriforma abbiamo un elemento di insospettata conferma, sia pure con qualche novità, dell'istituto del regionalismo differenziato, su cui tornerò fra breve.
  In parallelo, se guardiamo alla prospettiva del regionalismo differenziato in questi anni ci accorgiamo che essa era stata presa sul serio da qualche regione, che aveva tentato di avviare il procedimento per addivenire all'intesa prevista dall'articolo 116, terzo comma. Ricordo, per esempio, il tentativo della Toscana nel 2003, ma anche i più ben noti i tentativi della Lombardia, del Veneto e del Piemonte nel 2007, cioè, guarda caso, proprio nell'anno in cui si aveva la massima espansione del tentativo di prendere sul serio la riforma del Titolo V.
  Alla fine del 2007 c’è stato, infatti, il disegno di legge del Governo Prodi che provava a dare un impulso di tipo procedimentale all'attuazione dell'istituto previsto dall'articolo 116, terzo comma. Dopodiché, è iniziata una parabola discendente, con la legge n. 42 del 2009, che, con l'articolo 14, non scioglie i nodi del federalismo fiscale e dell'ipotetica maggiore autonomia finanziaria o delle condizioni di sostenibilità finanziaria dell'istituto. Abbiamo, poi, la legge costituzionale n. 1 del 2012, seguita dalla legge attuativa n. 243 del 2012 e il tentativo, con la legge n. 147 del 2013 (legge di stabilità 2014), al comma 571, di ridare un ulteriore impulso, con il chiarimento che il Governo si doveva far carico di avviare il procedimento nei 60 giorni dalla richiesta delle regioni.
  Infine, il progetto di riforma costituzionale in corso di approvazione ci consegna un testo in parte rivisto, con il progressivo ampliamento che ha subito – anche questo è interessante – questo istituto.
  Infatti, mentre nel disegno di legge originario esso veniva abrogato, successivamente, nei passaggi al Senato, alla Camera, Pag. 5e poi di nuovo al Senato, abbiamo avuto una sua progressiva riespansione, con l'ampliamento delle materie e la conferma che anche il legislatore costituzionale del 2016 vorrebbe, forse, confermare tale prospettiva.
  Sotto questo aspetto, anche la sentenza della Corte costituzionale n. 118 del 2015 è molto importante perché ci consegna una novità sulla legge della regione Veneto che prevedeva il referendum consultivo con riferimento allo specifico quesito «Volete voi che la regione Veneto attivi la procedura per l'autonomia differenziata di cui all'articolo 116, terzo comma ?».
  La Corte ha salvato – anche qui sorprendentemente – questa norma di legge, ritenendo quindi costituzionalmente legittimo il referendum consultivo volto ad avviare e a precedere la procedura per attivare l'autonomia regionale differenziata, con un mutamento di indirizzo rispetto a quello che si poteva prevedere.
  Mi sembra importante e utile ricordarvi che la Corte ci dice espressamente che, nonostante l'atto regionale d'iniziativa possa essere politicamente condizionato dall'esito referendario, – che era la ragione su cui la Corte, nel 2000, aveva ritenuto incostituzionale il referendum consultivo sul procedimento di revisione costituzionale di cui all'articolo 138 della Costituzione – in questo caso invece, nonostante il condizionamento politico che il referendum consultivo può dare a questa procedura di intesa con lo Stato, questo referendum consultivo si può fare. Con questa pronuncia, essa ha quindi dato un evidente segnale di considerazione per il movimento che, dal basso, spinge verso il regionalismo differenziato e ha creato un'ulteriore variabile nel procedimento, perché le regioni potranno svolgere forme di consultazione popolare volte ad approvare l'attivazione di una procedura di questo genere.
  Abbiamo, dunque, questa sinusoide che, dall'inizio, ci consegna una prospettiva che le regioni prendono sul serio, a cui segue una sorta di quiescenza dovuta anche alle vicende della lenta attuazione dell'articolo 119 e della crisi finanziaria e, infine, un rinnovo di questa prospettiva che addirittura ci viene di nuovo proposta nel testo costituzionale in via di riforma.
  Detto ciò per capire il contesto in cui ci muoviamo, essendo il tema del regionalismo differenziato una sorta di palestra per i giuristi perché ricchissimo di problemi, di nodi e di quesiti da sciogliere sul piano sia delle fonti, sia dei rapporti fra gli enti, sia dei contenuti della differenziazione, ai fini dell'esposizione di oggi mi concentrerei su tre profili che vorrei sottoporre alla vostra attenzione.
  Il primo è quello dell'ambito e dei limiti di applicazione di questo istituto, ormai da guardare alla luce del nuovo testo costituzionale. Da questo punto di vista, il mio convincimento è che tutte le partite, anche in corso o ipotizzate o prefigurate, rivolte a dare attuazione a questo istituto, faranno necessariamente i conti con il testo della riforma costituzionale in corso di approvazione, per cui siamo destinati a vivere ancora uno stato di quiescenza fino all'approvazione della riforma. Dopodiché, è chiaro che se la riforma andrà in porto si lavorerà su quell'istituto; se, invece, non andrà in porto, avremo ancora una volta lo scenario precedente. Pertanto, quello dell'ambito e dei limiti di applicazione è il primo elemento di riflessione che vorrei sottoporvi, insieme al ruolo del Parlamento o comunque degli organi parlamentari in questa procedura e, ovviamente, al limite dell'articolo 119, con uno specifico focus sul federalismo fiscale.
  Riguardo all'ambito e ai limiti di applicazione, il testo dell'articolo 116, terzo comma, autorizza il riconoscimento di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia a singole regioni limitatamente a determinate materie. Come sapete, le materie del testo attualmente vigente sono tutte le materie concorrenti, e tre materie di potestà legislativa esclusiva. Nel testo che ci ha consegnato il voto del Senato di due giorni fa, ovviamente le materie concorrenti non ci sono più e ci sono, invece, alcune significative materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato.Pag. 6
  C’è la lettera l), limitatamente all'organizzazione della giustizia di pace; la lettera m), limitatamente alle disposizioni generali e comuni per le politiche sociali; abbiamo la lettera n), che riguarda le disposizioni generali comuni su istruzione, ordinamento scolastico, istruzione universitaria e programmazione strategica della ricerca scientifica e tecnologica; la lettera o), limitatamente al commercio con l'estero, che è l'ultima novità introdotta dal voto del Senato di due giorni fa; la lettera s), che si è arricchita nel testo nuovo, ovvero la tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici, ambiente ed ecosistema, ordinamento sportivo, disposizioni generali e comuni su attività culturali e sul turismo; infine, alla lettera u), limitatamente al governo del territorio.
  Ora, la ratio originaria di questa limitazione per materie, che è stata ripresa probabilmente dalla riforma costituzionale in corso, era quella che vedeva il regionalismo differenziato rivolto esclusivamente all'ampliamento della potestà legislativa delle regioni.
  Questa è una prospettiva che nella dottrina è stata subito abbandonata, nel senso che ci si è resi conto, leggendo la norma, che le ulteriori forme e condizioni di autonomia non sono soltanto una riqualificazione o un aumento di potestà regolatoria, ma, evidentemente, tra queste ci sono anche l'autonomia amministrativa, quindi l'ampliamento della potestà amministrativa, e l'autonomia finanziaria, ovvero l'aumento dei margini di spesa o di entrata della regione – su questo rinvio a quello che dirò tra breve – nonché la partita degli strumenti di raccordo fra Stato e regioni.
  Infatti, le ulteriori forme e condizioni di autonomia non possono che comprendere anche forme di collaborazione particolare, come l'istituzione di comitati paritetici, forme di maggiore flessibilità nei rapporti fra Stato e regioni e garanzie di adeguamento dell'autonomia nel tempo.
  Pensate, per esempio, al trasferimento delle funzioni amministrative. Se oggi cristallizziamo, in un'intesa con una regione, un determinato stock di funzioni amministrative che transitano dallo Stato alla potestà amministrativa della regione, dobbiamo pensare alla necessità che questo stock inesorabilmente invecchi nel tempo perché la legislazione dello Stato, nel frattempo, andrà avanti su canoni uniformi, quindi, per non fare invecchiare l'autonomia differenziata, c’è necessariamente bisogno di strumenti che consentano l'aggiornamento nel tempo di questa autonomia. Pertanto, gli strumenti di raccordo e di flessibilità sono un contenuto importantissimo dell'intesa che dovrebbe precedere la definizione del contenuto dell'autonomia differenziata pattuita con la regione.
  Da questo punto di vista, bisogna avere chiaro che chiedere maggiore autonomia o aprire la partita del regionalismo differenziato non significa soltanto riconoscere una maggiore potestà regolatoria. Tra l'altro, garantire solo una maggiore potestà regolatoria significherebbe costruire un regionalismo differenziato a costo zero, mentre aprire la partita del regionalismo differenziato sugli ambiti dell'amministrazione e della finanza, pone un problema di sostenibilità finanziaria della differenziazione regionale: non che non si possa attuare il regionalismo differenziato limitato alla potestà regolatoria, ma è evidente che sarebbe a metà, ossia non in grado di sviluppare tutte le potenzialità perché la regione, con la sola regolazione, non fa politiche pubbliche. In questo senso, infatti, cambia semplicemente il legislatore, non l'amministratore.
  Il secondo tema da focalizzare è il ruolo del Parlamento nell'attivazione di questa prospettiva. Come sapete, il testo dell'articolo 116, terzo comma, demanda questo istituto all'approvazione di una legge cosiddetta «rinforzata», quindi atipica, perché ha un procedimento di approvazione particolare. In futuro, nella prospettiva della riforma costituzionale, sarà una legge approvata da entrambe le Camere sulla base di un'intesa fra lo Stato e la regione interessata.
  Il presupposto dell'intesa viene, peraltro, confermato nel nuovo testo. Tuttavia, il procedimento è più ricco perché si Pag. 7prevede che questa legge dello Stato possa essere richiesta, quindi anche avere un'iniziativa regionale (ed è evidente che sia così, se poi occorre l'intesa), e devono essere sentiti gli enti locali, come condizioni procedimentali minime per addivenire all'autonomia differenziata.
  La domanda di fondo è: qual è il ruolo del Parlamento di fronte a una legge a cui è posto il vincolo dell'intesa intervenuta fra Stato e regione interessata ? Difatti, da un lato, è evidente che l'intesa, se conclusa tra lo Stato e la regione, è stipulata dal Governo, che rappresenta lo Stato, e dal presidente della regione, che rappresenta la regione. Ora, una volta che arriva in Parlamento questo progetto di legge con l'intesa allegata, qual è il ruolo del Parlamento ?
  Ebbene, secondo la dottrina prevalente e, a mio avviso, più convincente il ruolo del Parlamento non è sui contenuti, ma solo sull’an. Detto altrimenti, la legge parlamentare avrebbe soltanto il potere di prendere o lasciare rispetto all'intesa già stipulata. Questo è vero, ma è necessaria una precisazione. Infatti, è vero che il Parlamento non può approvare una legge difforme dall'intesa, ma è altrettanto vero che può rifiutarsi di approvare quella legge, indicando le modifiche necessarie. A quel punto la legge non viene approvata, per cui, verosimilmente, si riapre una fase di dialettica istituzionale in cui l'intesa torna sul tavolo del Governo e della regione interessata.
  Quindi, a mio parere, non è vero che il Parlamento non ha voce in capitolo o ha solo il potere di prendere o lasciare, ma è un codecisore necessario. È l'altro organo del cui consenso c’è bisogno per addivenire all'autonomia regionale differenziata e per concretizzarla, con il potere di attivare o di riattivare una dialettica istituzionale, se alcuni dei contenuti dell'intesa non sono convincenti e ne impediscono l'approvazione.
  C’è, poi, un altro possibile ruolo del Parlamento che non deve essere sottovalutato. Mi riferisco al ruolo che può essere assegnato a organi parlamentari, o a rappresentanti degli stessi, nell'ambito degli strumenti di raccordo che ho citato come contenuti non solo possibili, ma anche auspicabili, dell'intesa. Se tra le ulteriori forme e condizioni di autonomia prevediamo degli strumenti di raccordo permanente fra Stato e regioni, come, ad esempio, un comitato paritetico, in quella sede potrebbero esserci rappresentanti delle istituzioni parlamentari. Ugualmente, potremmo immaginare che per alcuni atti che servono a far vivere quell'intesa e i rapporti fra Stato e regioni nell'ambito dell'autonomia differenziata sia previsto un passaggio o il parere delle Commissioni parlamentari.
  Su questo si può lavorare all'interno dei contenuti dell'intesa. Pertanto, l'intesa potrebbe prevedere un ruolo delle istituzioni parlamentari nel raccordo e nella vita dinamica della differenziazione regionale.
  Vengo al focus delle competenze di questa Commissione, che è il «famigerato» limite del rispetto dei principi dell'articolo 119 della Costituzione. Il legislatore costituzionale del 2001 lo aveva posto come unico limite esplicito della differenziazione regionale, usando l'espressione «nel rispetto dei principi dell'articolo 119 della Costituzione».
  Il legislatore della riforma della Costituzione in corso utilizza questa stessa espressione, consegnandoci una specificazione in più: «purché la regione sia in condizione di equilibrio fra le entrate e le spese del proprio bilancio».
  Partiamo da un dato generale. Il limite del rispetto dei principi dell'articolo 119 ci dice, innanzitutto, che non tutto l'articolo deve essere rispettato, ma solo i suoi principi, come anche che non tutta la disciplina attuativa dell'articolo 119 deve essere rispettata come condizione di legittimità della differenziazione regionale. Il rispetto si valuta in termini di condizioni o di parametri di legittimità, quindi la maggiore autonomia regionale che viene pattuita con lo Stato ha il vincolo costituzionale esplicito dei soli principi dell'articolo 119.
  Questa è la prima precisazione iniziale. Un altro aspetto che vorrei precisare è che Pag. 8potremmo immaginare una differenziazione che non comporta dei costi e un'altra che ne comporta. È evidente che la differenziazione che non costa è quella che si limita ad affidare alla regione solo la potestà regolatoria, senza funzioni amministrative. Ricordate, infatti, che non c’è più il principio del parallelismo: alla funzione regolatoria non corrisponde più necessariamente quella amministrativa, quindi potremmo immaginare un regionalismo differenziato «light», in cui la regione conquista esclusivamente nuovi spazi di competenza normativa.
  Non so quanto questo modello sia auspicabile per le regioni, però questa differenziazione è a costo zero. Invece, l'altro tipo di differenziazione – quella che comporta anche il passaggio e l'allocazione di funzioni amministrative – ha evidentemente un costo, quindi fa i conti con la sostenibilità finanziaria a cui fa riferimento il testo costituzionale, imponendo il rispetto dei principi dell'articolo 119.
  Ora, il punto è: qual è la portata di questo limite ? Quanto si può costruire una differenziazione sul piano finanziario, rispetto al diritto comune, al diritto finanziario e al sistema tributario, da una parte, e al sistema della regolazione della spesa dall'altra ?
  Innanzitutto, guardiamo alla storia che ha condizionato la prospettiva del regionalismo differenziato. Abbiamo una fase, quella prima della legge n. 42 del 2009 e della sua attuazione, in cui, ad articolo 119 non attuato, la Corte costituzionale ci aveva consegnato in una sorta di stato di quiescenza, fino all'attuazione della legge sul coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.
  In quella fase si è ritenuto, anche sulla base della giurisprudenza della Corte, che il regionalismo differenziato non si potesse realizzare perché, in assenza della legge attuativa dell'articolo 119, non si sarebbe potuto far valere il limite dei principi ivi contenuti, ai quali il testo costituzionale fa espresso riferimento.
  Naturalmente, ad attuazione sia pure ancora parziale, con i decreti delegati soprattutto del 2011 e del 2012, quindi a partire dall'anno finanziario 2013, mi pare si possa dire che si è aperta un'altra fase che a tutt'oggi viviamo, quella di un articolo 119 che ha ricevuto una sua attuazione e non è più quiescente.
  Tuttavia, a partire dall'anno finanziario 2014, abbiamo un nuovo sistema, che si innesta sull'articolo 119: si è aperta una fase ulteriore, quella dell'entrata a regime della legge costituzionale n. 1 del 2012 e della legge n. 243. L'articolo 119 è, quindi, integrato e modificato, con i due nuovi limiti dell'equilibrio dei bilanci e del concorso ai vincoli di spesa europei, con l'articolo 5 della legge n. 1 del 2012 e con gli articoli da 9 a 12 della legge n. 243
  A questo si aggancia il nuovo testo costituzionale che ci consegnerebbe la riforma, in cui si prevede che, oltre al rispetto dei principi dell'articolo 119, la regione deve essere in condizione di equilibrio fra le entrate e le spese del proprio bilancio.
  Qui, a mio avviso, non si aggiunge tanto un parametro di diritto, bensì una condizione di fatto; in base al testo della legge – che commenteremo e analizzeremo se e quando sarà diritto positivo – si può attivare il regionalismo differenziato purché la regione sia in condizioni di equilibrio fra le entrate e le spese del proprio bilancio. Questo ci dice che tale meccanismo – cioè la stessa iniziativa e la stipulazione dell'intesa – non può essere contemplato se la regione non è già in condizione di equilibrio. Quindi, al regionalismo differenziato non possono accedere le regioni che non siano in condizioni di equilibrio finanziario.
  Si aggiunge, dunque, una condizione di fatto alle condizioni di diritto che sto per rappresentare e che chiamo una sorta di «sistema di limiti a cannocchiale», il quale risulta composto dai principi dell'articolo 119, esplicitamente richiamati, oltre che dai principi che servono a garantire l'equilibrio di bilancio e il concorso ai vincoli europei, in quanto innestati non solo nell'articolo 119, ma anche nell'articolo 5 della legge costituzionale n. 1 del 2012 e nella sua attuazione per il tramite della legge n. 243.Pag. 9
  In altri termini, quei principi fanno parte del corpo di limiti che l'autonomia regionale differenziata è chiamata a rispettare, cioè l'equilibrio di bilancio e le sue declinazioni, nonché il concorso ai vincoli europei e le sue declinazioni.
  Il terzo step è dato da quei principi che c'erano anche prima, cioè i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, ossia di quella legislazione che dà attuazione al coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; da qui il federalismo fiscale. Non è un caso che la legge n. 42, all'articolo 14, dia un elemento di novità importante, l'unico che merita di essere menzionato. Mi riferisco alla richiesta che la legge di attuazione del regionalismo differenziato si conformi ai principi del sistema tributario.
  In altri termini, l'idea è che il regionalismo differenziato, che esaminerò poi nel dettaglio, non possa costruirsi al di fuori, o in termini non coerenti, da una parte, con il sistema di finanza pubblica sul versante spesa e, dall'altra, con il sistema tributario previsto in via generale per tutti.
  Nel dettaglio, proviamo a fare un esercizio per capire quali sono i principi che si possono ricavare dall'articolo 119. Si tratta di una prova perché, come sapete, l'estrazione di principi da un testo normativo è un'operazione opinabile. L'ultima parola è del giudice di ultima o unica istanza che non è appellabile; per il resto, si tratta di opinioni.
  Quali sono i principi dell'articolo 119 che il regionalismo differenziato deve rispettare ?
  Innanzitutto, abbiamo il principio dell'autonomia finanziaria di entrata e di spesa, certamente oggi arricchito dal necessario equilibrio dei bilanci e dal concorso ai vincoli europei; c’è, poi, il principio dell'autonoma disponibilità da parte degli enti (in questo caso la regione) di risorse finanziarie, sotto le due forme di tributi propri e di compartecipazioni al gettito di tributi del territorio di competenza, nonché la disponibilità di un proprio patrimonio; inoltre, vi è il principio della perequazione territoriale in relazione alla diversa capacità fiscale per abitante, di cui l'autonomia regionale differenziata deve tenere conto; vi è il principio dell'equilibrio complessivo e del necessario coordinamento tra il regime finanziario di ciascun ente e il sistema complessivo di finanza pubblica e il sistema tributario in generale.
  Un altro principio determinante è quello dell'integrale copertura finanziaria delle funzioni pubbliche attribuite ai diversi enti territoriali. Dunque, se si attribuiscono maggiori funzioni, le risorse a disposizione devono essere sufficienti. Qui si innestano i principi dei costi standard e il meccanismo di determinazione dei costi delle funzioni. A ogni modo, a nuove funzioni devono corrispondere non dico nuove risorse, ma risorse sufficienti o calcolate come potenzialmente tali.
  Abbiamo, inoltre, il principio del bilanciamento fra regime finanziario ordinario, che costituisce il normale esercizio delle funzioni pubbliche e scopi diversi, di cui al quinto comma dell'articolo 119, tra cui la promozione dello sviluppo economico, della coesione e della solidarietà sociale, la rimozione degli squilibri economico-sociali, l'effettivo esercizio dei diritti della persona. Ciò vale, ovviamente, per le regioni più svantaggiate.
  C’è, poi, il principio del divieto di indebitamento, salvo che per spese di investimento. Oggi, forse, a questo proposito, vi è qualche arricchimento dovuto alla legge costituzionale n. 1 del 2012. Inoltre, c’è il principio di esclusione delle garanzie finanziarie dello Stato sui prestiti.
  Poiché questi principi sono stati individuati dal professor Cecchetti, che non ha nessuna autorevolezza dal punto di vista istituzionale, ma, eventualmente, solo in quanto studioso, aggiungo un altro elemento.
  Infatti, oltre all'opinabilità di questi principi, che ho provato a declinare, c’è anche la loro mobilità nel tempo. Dai medesimi principi, in una materia come questa, non si ricavano necessariamente conclusioni vincolanti e immobili nel Pag. 10tempo, perché tali principi fanno riferimento a esercizio di funzioni e di autonomia, ma anche a situazioni finanziarie ed economiche contingenti. Pertanto, c’è anche un principio di livello più generale, che è quello dell'esigenza di assicurare necessariamente la dinamicità di questa sostenibilità finanziaria.
  Lo stesso concetto di sostenibilità finanziaria non fa riferimento a un sistema di vincoli rigidi e immutabili, ma evoca la necessità di costruire un modello dinamico. L'intesa che costituirà la base del regionalismo differenziato deve prevedere meccanismi di mutamento nel tempo delle relazioni finanziarie. Non si tratta di dare delle risorse, per poi lasciare che gli enti si arrangino.
  Allora, venendo alle conclusioni che ricavo da questa lettura meramente esemplificativa, posso dire che il limite del rispetto dei principi dell'articolo 119 costituisce sicuramente il primo parametro di legittimità costituzionale di queste leggi atipiche o rinforzate che servono ad attuare il regionalismo differenziato. Su questo non c’è dubbio.
  Bisogna, però, essere consapevoli che tale parametro non è affatto predefinito in astratto e una volta per tutte. Tra l'altro, non è più contenuto solo all'articolo 119, ma si tratta di un parametro complesso, a cannocchiale, in cui rientrano altri sottoparametri. Non è, dunque, sufficiente limitarsi a estrarre – come ho provato a fare – i singoli principi dal testo dell'articolo 119, ma è necessario che l'intesa fra lo Stato e la regione ponga esplicitamente alla base dei suoi contenuti normativi un determinato assetto di relazioni finanziarie, individuando un sistema di relazioni reciproche sul quale far convergere espressamente il consenso, in modo da renderlo contenuto, e non solo parametro, di questa intesa.
  In sostanza, l'intesa va stipulata pattuendo prima di tutto le condizioni di sostenibilità finanziaria. È indispensabile anche che i contenuti normativi dell'intesa siano definiti in modo da tenere conto della mobilità nel tempo del confine imposto dall'articolo 119 alla differenziazione, prevedendo espressamente delle clausole di salvaguardia o dei meccanismi di compensazione che siano in grado di garantire la sufficiente elasticità del modello prescelto.
  Non si può pensare di costruire, soprattutto sotto il profilo finanziario, un'autonomia regionale differenziata che sia cristallizzata una volta per tutte. Bisogna inventare meccanismi dinamici. Per questo, all'inizio, tra i contenuti dell'intesa, ho parlato della costituzione di forme di raccordo e di strumenti di flessibilità. È inutile costruire un regionalismo differenziato di mera facciata fatto di un passaggio di competenze oggi, dopodiché – come prevedeva il disegno di legge Prodi – si aggiorna tutto tra 10 anni.
  Ecco, non funziona così. Concludo con una nota di prospettiva e di sintesi rispetto a tutto quello che ho provato a rappresentarvi. Quali sono le precondizioni e i presupposti per rendere seriamente praticabile la prospettiva che il nostro legislatore costituzionale in itinere ci riconferma ?
  Innanzitutto, la precondizione del regionalismo differenziato è quella di un regionalismo maturo e percepito come un valore democratico autentico. Non abbiamo, però, questa precondizione. Credo che siamo sicuramente in risalita, perché abbiamo superato il punto più basso. Tuttavia, certamente il regionalismo non va di moda e l'autonomia ci sembra un lusso che non ci possiamo più permettere.
  L'autonomia regionale non è percepita come un valore democratico irrinunciabile. Infatti, torniamo indietro, con un nuovo modello di rapporti fra Stato e regioni che, per fortuna, non ci dà inesorabilmente una direzione obbligata; ci sono infatti tantissimi spunti per poter ancora rafforzare il regionalismo. La partita non è chiusa. Comunque, il progetto di riforma della Costituzione è il segnale di un regionalismo non più percepito nel suo valore prospettico.
  Come ho detto all'inizio, se non percepiamo come valore il regionalismo, a maggior Pag. 11ragione quello differenziato non ha quasi ragion d'essere perché ne costituisce una versione ancora più matura.
  Prima di questa chiacchierata parlavo dell'altra precondizione, ovvero di un passaggio che è necessario compiere. Su questo, apro una prospettiva più ampia poiché, a mio parere, occorrerebbe superare la concezione diarchica o binomica che vede un regionalismo dell'uniformità da un lato e un regionalismo della specialità dall'altro e che ha caratterizzato il nostro ordinamento fino ad oggi, così come pensato dai Padri costituenti. Abbiamo, infatti, un regionalismo delle 15 regioni di diritto comune, cioè dell'uniformità, e cinque autonomie speciali che vivono di vita propria, più o meno da separate in casa, per così dire.
  Nel regionalismo della specialità, nelle sue più marcate espressioni, anche di prassi, la specialità è vissuta realmente ed è richiesta come una separazione. Da questo binomio tra uniformità e specialità bisognerebbe transitare a un nuovo binomio, tra diritto differenziabile e diritto comune indifferenziabile, cioè percepire i nuovi rapporti fra Stato e autonomie individuando il diritto comune non differenziabile e, per converso o in via residuale, tutto ciò che è diritto differenziabile, ossia affidabile all'autonomia delle regioni.
  Per usare dei canoni immediatamente percepibili, i livelli essenziali delle prestazioni e dei diritti sono concettualmente un classico diritto indifferenziabile. I livelli essenziali dei diritti assicurano un trattamento comune e uguale su tutto il territorio nazionale. Poi c’è la parte residua, quindi tutto ciò che è oltre i livelli essenziali che è, per definizione, diritto differenziabile.
  A quel punto, è diritto differenziabile per il Trentino Alto Adige come per la Regione siciliana, come per la Campania, per l'Umbria o la Liguria. Non ha nessun senso ragionare di diritto speciale, di regionalismo differenziato e di diritto dell'uniformità. Il binomio è un altro.
  Bisognerebbe quindi favorire il regionalismo differenziato e assorbire le problematiche della specialità, che oggi è gravemente in crisi perché percepita come una condizione di diseguaglianza inaccettabile, nel senso che la diseguaglianza della Sicilia è opposta a quella delle province autonome di Trento e di Bolzano, ma è pur sempre una diseguaglianza inaccettabile. Percependo questa diseguaglianza, si dice «basta al regionalismo speciale», per cui le regioni speciali dovrebbero tornare nell'alveo del diritto costituzionale comune, perdendo tutti i benefici e i vantaggi della specialità.
  Prima di iniziare questa chiacchierata, dicevo che la stessa giurisprudenza costituzionale dell'ultimo anno e mezzo ha evidenziato come la stessa Corte percepisca le regioni speciali come un lusso inaccettabile e cerchi di ricondurle al diritto comune. Basti pensare alle vicende della finanza pubblica, con il paradosso in cui l'accordo di Milano prevede che ciascuna regione a statuto speciale debba pattuire i saldi, ma poi la Corte ci dice che i vincoli di spesa, quelli più puntuali che servono a quei saldi, non sono da pattuire, ma vengono imposti unilateralmente dallo Stato.
  È una logica totalmente schizofrenica: si pattuiscono i saldi, ma i vincoli puntuali sono imposti. Dovrebbe essere l'esatto opposto: si pattuiscono i vincoli puntuali e vengono imposti i saldi complessivi. Tuttavia, la Corte, in via giurisprudenziale, afferma che l'accordo di Milano vale solo per i saldi. Tutto ciò che l'accordo di Milano non tratta, rientra, invece, nel coordinamento della finanza pubblica, nel rispetto del Patto di stabilità e negli equilibri di bilancio a cui anche le regioni speciali sono vincolate.
  Siamo, dunque, in una parabola anche per le regioni speciali. Il nuovo binomio consentirebbe sia di valorizzare la prospettiva della differenziazione per le regioni di diritto comune che già l'hanno maturata e hanno le condizioni per conquistarla, sia per ricondurre a sistema il tema delle regioni speciali.
  Vi sono altre due precondizioni e poi concludo. Innanzitutto, bisognerebbe maturare una concezione dell'autonomia per politiche e non per competenze. Le stesse Pag. 12regioni sono abituate a ragionare della loro autonomia per competenze, nel senso che pensano che quanti più poteri o competenze hanno, tanto più sono forti, ma non è così perché l'autonomia vera è sostanza, è, cioè, data dalle politiche.
  Allora, le regioni, prima di tutto, dovrebbero cominciare a pensare per politiche. Ciò significa per i bisogni a cui rispondere attraverso determinate azioni pubbliche. Mi piacerebbe che la regione Veneto, la regione Lombardia o la regione Toscana si mettessero di fronte all'articolo 116, terzo comma, che ci consegna il legislatore della revisione, pensando a cosa serve loro, a cosa vogliono fare (politiche per il turismo, politiche del territorio, politiche dei beni culturali) e agli strumenti utili per farlo. Solo dopo dovrebbero ragionare di competenze e di risorse. Insomma, se si comincia a pensare all'autonomia per politiche, abbiamo un'autonomia di sostanza e non di mera facciata.
  Chiudo con l'ultima precondizione, che è – sono in casa vostra – il federalismo fiscale della responsabilità. Il regionalismo differenziato non può prescindere da un sistema tributario che assegni all'ente che drena la risorsa anche la responsabilità di quello che fa. Funzioni e potestà impositiva devono andare di pari passo. Quanto più scindiamo l'ente impositore da quello che svolge la funzione o eroga il servizio, tanto più non costruiamo un sistema che possa incamminarsi nella prospettiva del regionalismo differenziato.
  Il regionalismo differenziato ha bisogno come il pane della coincidenza fra l'ente che impone il tributo e quello che svolge la funzione o eroga il servizio. Quanto più saremo in grado di costruire, anche con il contributo di questa Commissione che ha questa mission particolare, un federalismo fiscale fondato sulla responsabilità, tanto più sarà stata realizzata una precondizione indispensabile perché si dia corpo alla prospettiva del regionalismo differenziato.
  Ho concluso la mia relazione.

  PRESIDENTE. La ringrazio, professor Cecchetti perché, pur in una materia tanto complessa e in continua evoluzione, ci ha fatto un quadro completo della situazione dell'articolo 116, terzo comma, soprattutto in relazione ai temi posti alla nostra Commissione dall'articolo 119 della Costituzione.
  Do ora la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  FEDERICO D'INCÀ. Ringrazio il professore per l'esauriente ricognizione. Le chiedo se potessimo avere qualche suo scritto perché sarebbe veramente gradito.
  Vorrei, inoltre, farle una domanda. Provengo da un territorio nel quale alcuni comuni hanno fatto richiesta di trasferimento da una provincia a un'altra. La provincia nella quale vorrebbero essere trasferiti è una provincia autonoma, come le province del Trentino Alto Adige, o facente parte di una regione a statuto speciale. Quando viene fatto il referendum e le richieste giungono alle Commissioni, secondo lei uno Stato civile in quanto tempo dovrebbe dare una risposta ai suoi cittadini ?

  MARCELLO CECCHETTI, Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico nel Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Sassari. La domanda contiene già la risposta. Mi limito a osservare, essendomi occupato di questa materia quando facevo l'assistente di studio alla Corte costituzionale a metà degli anni 2000, che esiste, sia pure con formulazioni normative a maglie larghe, un obbligo del Governo, quando perviene l'esito referendario di richiesta della modificazione territoriale, di presentare il relativo disegno di legge.
  Nel caso prospettato, è vero che la sentenza della Corte del 2007 non ha espressamente detto che ci vuole la legge costituzionale per la modifica dello Statuto speciale, ma è altrettanto vero che quella sentenza apre con molta chiarezza la prospettiva di questo percorso, indicando anche quali sono gli organi responsabili. In questo caso, direi che l'organo responsabile è, in primis, il Governo, che deve Pag. 13presentare il disegno di legge e, in secondo luogo, il Parlamento.
  Mi rendo conto del fatto che, in questi casi, sussiste il problema di conciliare le istanze di una piccola parte di territorio e di una piccola porzione di cittadini con le esigenze di una maggioranza molto più ampia che deve ottenere un consenso di livello nazionale. Mi rendo altresì conto del fatto che, probabilmente, la disciplina procedimentale non assicura tempi certi, quantomeno di esame della proposta di deliberazione, il che è una lacuna che andrebbe colmata.
  Si potrebbe, infatti, prevedere, come avviene in altri casi, che questi disegni di legge abbiano una corsia preferenziale, da prevedere nei regolamenti parlamentari, non essendo necessarie, a tale scopo, fonti legislative o costituzionali. Per esempio, si potrebbe prevedere semplicemente che le Camere organizzino i loro lavori prevedendo una corsia preferenziale per disegni di legge particolari come questi, quantomeno per assicurarne l'esame e la deliberazione in tempi certi. Dopodiché, non è detto che l'esito sia preconfezionato o assicurato, poiché, peraltro, ciò non sarebbe nemmeno giusto.
  In ogni caso, quei cittadini che hanno presentato quelle istanze e hanno votato quei referendum hanno certamente il sacrosanto diritto politico di ottenere una decisione in tempi relativamente certi. Questo è, quindi, un punto su cui i regolamenti parlamentari potrebbero dare un segnale di grande attenzione, nonché di rilievo politico.

  MAGDA ANGELA ZANONI. Vorrei fare alcune considerazioni. Innanzitutto, mi associo ai ringraziamenti al professor Cecchetti perché la sua relazione è stata davvero molto interessante. Gli chiederei anch'io, quindi, se è possibile avere del materiale un po’ più strutturato da utilizzare in altre sedi e nelle nostre Commissioni.
  La ringrazio, pertanto, per questa relazione in punto di diritto, che è molto utile per fare chiarezza nelle nostre idee. Credo, però, che tutto questo debba essere interpretato con il fatto che in questi anni, per vari motivi, il livello istituzionale delle regioni non ha saputo conquistare i favori dei cittadini. Forse è una mia posizione personale, ma ritengo che, anziché attaccare frontalmente le province, bisognava avere il coraggio di attaccare più frontalmente le regioni e di riformare questo livello istituzionale, che è stato quello che non ha saputo né utilizzare i suoi spazi normativi attraverso la produzione di una legislazione regionale, né svolgere il proprio ruolo in modo pulito dal punto di vista della gestione.
  Insomma, le peggiori «porcherie», per quanto riguarda le trasgressioni e l'uso non corretto delle proprie possibilità, anche da parte dei singoli, sono avvenute proprio a livello delle regioni. Il controllo, anche da parte dei cittadini, infatti, non è arrivato fino a quel livello. Al contrario, nei comuni e, per certi versi, anche nelle province, le quali svolgono funzioni fondamentali dirette (avendo competenza sulle scuole superiori, sulle strade, e così via), è stato mantenuto il contatto con il cittadino, il quale ha potuto svolgere, appunto, un ruolo di controllo.
  Lo stesso ruolo lo svolge nei confronti dello Stato, perché c’è una rappresentanza politica complessiva. Invece, il sistema regionale è diverso, anche dal punto di vista delle modalità della sua elezione. In questo periodo si è discusso molto della capacità dei cittadini di eleggere direttamente i propri rappresentanti. L'elemento più evidente è stato proprio il fallimento delle elezioni dirette nelle regioni, dove il sistema delle preferenze ha mostrato tutti i limiti e le difficoltà percepite fin dagli anni Sessanta e Settanta, in cui si dava alle preferenze un connotato ben diverso da quello che gli si attribuisce in questo momento, ossia di strumento di grande democrazia. Credo che, da questo punto di vista, vada fatto un ragionamento anche in termini di prospettiva.
  Mi piace molto l'idea di superare le regioni a statuto speciale, le quali hanno ormai fatto la loro storia. Avevano un senso nel dopoguerra, perché i territori di tali regioni coincidevano con le aree di Pag. 14confine, quindi facevano da cuscinetto per evitare che alcune parti del Paese passassero agli Stati vicini. All'epoca, dare un'autonomia alla Valle d'Aosta aveva un senso, mentre adesso non ha nessun significato, oggettivamente, che questa regione abbia molte più risorse del Piemonte o della zona di Ivrea, che confina con essa.
  Pertanto, forse bisognava studiare insieme il sistema di riforma delle province e delle regioni perché non ha senso che ci sia una provincia in Val d'Aosta che coincide esattamente con i confini del territorio della regione. Nelle regioni più piccole, le province non avevano senso di esistere: o si sarebbero dovute istituire le macroregioni, riformando il sistema delle regioni, oppure eliminare le province.
  Tuttavia, come sempre, quando su questi temi parte la fiera mediatica, per cui o si ama o si odia, ovvero o si vogliono o non si vogliono determinati livelli istituzionali, non si pensa a una riforma, soprattutto se non sembra essere particolarmente apprezzata dai cittadini. Del resto, è difficile fare questi discorsi con i cittadini perché non si appassionano, per cui è molto più facile dire sì o no alle province, buttando giù alcuni politici e togliendo qualche seggiola.
  La ringrazio molto per questa relazione che, invece, ci ha fornito un bel quadro sistematico.

  PRESIDENTE. Do la parola al professore per una breve replica.

  MARCELLO CECCHETTI, Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico nel Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Sassari. Vorrei rubarvi solo due minuti. Le considerazioni svolte sollecitano tantissime riflessioni perché la sfida del nostro regionalismo, ovvero del Titolo V del 2001, è sicuramente stata una grande occasione, perduta per molteplici concause.
  Ne cito qualcuna. Tutte le grandi riforme costituzionali si innestano su un terreno naturale di controriforma. Anche questa riforma è nata così, nel senso che è stata consegnata come una grande sfida, ma certamente aveva i suoi contropoteri, ovvero coloro che non la volevano.
  Questa riforma partiva dalla logica che l'esercizio del potere pubblico si sarebbe dovuto avvicinare al livello più vicino al cittadino: si trattava quindi di una grande sfida per rilegittimare le istituzioni politiche nazionali le quali, dopo la crisi degli anni Novanta, avevano perso legittimità, senza i grandi partiti che costruivano il consenso.
  Allora, la logica era la creazione di un sistema di elezioni dirette e di avvicinamento del potere ai cittadini per riconquistare legittimazione. Tuttavia, sarebbe stato necessario attribuire alle regioni questi poteri, non solo con «scatole vuote», ponendo quelle istituzioni nella condizione di funzionare secondo logiche di responsabilità. La prima concausa che ha frenato e invertito la direzione è dovuta al fatto che le amministrazioni statali non hanno ceduto poteri, perché lo Stato non si è occupato, dopo il decreto n. 112 del 1998, di trasferire le funzioni o di aggiornarne il trasferimento.
  In tal senso, il tema del federalismo fiscale, ovvero l'attuazione dell'articolo 119 della Costituzione, è emblematico. Non avendo assegnato alle regioni le risorse per fare le politiche pubbliche e, soprattutto, di cui essere responsabili, abbiamo creato competenze non esercitabili, le quali sono scatole vuote, con i consigli regionali che, sostanzialmente, non avevano poteri.
  Che cosa hanno fatto, allora, quei consiglieri regionali ? Hanno alimentato logiche clientelari e di opportunismo o, addirittura, di corruttela e di mala gestione del denaro pubblico. Quei pochi spiccioli che avevano li usavano per metterseli nelle tasche perché non avevano da fare e non rispondevano ai cittadini.
  Ora, da dove partire per affrontare tutto ciò ? Voi siete la Commissione bicamerale per il federalismo fiscale. Ecco, mi verrebbe da dire che bisogna ripartire proprio dal federalismo fiscale, cioè dal principio di responsabilità. La regione deve avere 10 cose da fare, che, però, Pag. 15devono essere finanziate il più possibile con risorse di cui risponde essa stessa. Questo è il punto.
  Non possiamo continuare a finanziare i comuni con la TASI, la quale poi non viene riversata ai gestori dei servizi perché viene utilizzata altrimenti. In questo caso, il cittadino non si rende conto di chi gli impone quel tributo, se il comune o lo Stato, perché ha difficoltà a rendere responsabile e a far valere la responsabilità nei confronti dell'ente impositore. Allora, se vogliamo creare le precondizioni per un nuovo sviluppo – stavolta maturo ed efficace – dell'autonomia, proporrei di partire dal federalismo fiscale.
  Questa è la sede più opportuna per dirlo perché mi pare che quella sia una precondizione, anche per far sviluppare maturità, non solo per arrivare a maturità già ottenuta. Potrebbe essere, dunque, una delle chiavi di lettura dei prossimi anni. Grazie.

  PRESIDENTE. Ringrazio il professor Cecchetti per il suo contributo e dichiaro chiusa l'audizione.

  La seduta termina alle 9.50.