XVII Legislatura

Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro

Resoconto stenografico



Seduta n. 5 di Mercoledì 5 novembre 2014

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 3 

Variazione nella composizione della Commissione:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 3 

Audizione dell'onorevole Gerardo Bianco:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 3 
Bianco Gerardo  ... 4 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 6 
Bianco Gerardo  ... 6 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 7 
Grassi Gero (PD)  ... 7 
Bianco Gerardo  ... 8 
Corsini Paolo  ... 8 
Bianco Gerardo  ... 9 
Gotor Miguel  ... 10 
Bianco Gerardo  ... 10 
Gotor Miguel  ... 11 
Bianco Gerardo  ... 12 
Corsini Paolo  ... 13 
Bianco Gerardo  ... 13 
Corsini Paolo  ... 13 
Bianco Gerardo  ... 13 
Corsini Paolo  ... 13 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 13 
Gasparri Maurizio  ... 13 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 14 
Bianco Gerardo  ... 14 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 15 
Grassi Gero (PD)  ... 15 
Gasparri Maurizio  ... 15 
Grassi Gero (PD)  ... 15 
Gasparri Maurizio  ... 15 
Grassi Gero (PD)  ... 15 
Gasparri Maurizio  ... 15 
Grassi Gero (PD)  ... 15 
Gasparri Maurizio  ... 15 
Grassi Gero (PD)  ... 15 
Pes Caterina (PD)  ... 16 
Bianco Gerardo  ... 16 
Morra Nicola  ... 17 
Bianco Gerardo  ... 18 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 19 
Montevecchi Michela  ... 19 
Gasparri Maurizio  ... 19 
Montevecchi Michela  ... 19 
Gasparri Maurizio  ... 19 
Montevecchi Michela  ... 20 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 20 
Bianco Gerardo  ... 20 
Fornaro Federico  ... 20 
Bianco Gerardo  ... 20 
Cervellini Massimo  ... 20 
Bianco Gerardo  ... 20 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 21 
Bianco Gerardo  ... 21 
Lucidi Stefano  ... 21 
Bianco Gerardo  ... 22 
Lucidi Stefano  ... 22 
Bianco Gerardo  ... 23 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 23

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIUSEPPE FIORONI

  La seduta comincia alle 14.05.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori sarà assicurata anche mediante l'attivazione dell'impianto audiovisivo a circuito chiuso.

Variazione nella composizione della Commissione.

  PRESIDENTE. Comunico che, in data 3 novembre 2014, la Presidente della Camera ha chiamato a far parte della Commissione il deputato Gianluca Pini in sostituzione del deputato Angelo Attaguile, dimissionario, che ringrazio anche a nome dei componenti della Commissione.
  Rivolgo al collega Pini un saluto di benvenuto e l'augurio di un buon lavoro.

Audizione dell'onorevole Gerardo Bianco.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione dell'onorevole Gerardo Bianco, che ringraziamo per la cortese disponibilità con cui ha accolto l'invito a intervenire oggi in Commissione.
  L'onorevole Bianco è stato presidente della Commissione parlamentare d'inchiesta sui risultati della lotta al terrorismo e sulle cause che hanno impedito l'individuazione dei responsabili delle stragi, che venne istituita sul finire della IX legislatura.
  La Commissione operò per poco più di tre mesi, esattamente dal 4 febbraio al 13 maggio 1987, quando cessò i suoi lavori a seguito dello scioglimento anticipato delle Camere, senza avere approvato alcuna relazione.
  Durante tale periodo tenne quindici sedute, nel corso delle quali ascoltò in audizione Mariano Rumor, Luigi Gui e Silvio Gava, rispettivamente Presidente del Consiglio dei ministri, Ministro della difesa e Ministro di grazia e giustizia all'epoca della strage di Piazza Fontana; diversi esponenti degli organismi di intelligence e delle forze dell'ordine; alcuni magistrati e un detenuto per fatti di terrorismo, Stefano Delle Chiaie.
  Di tutta questa attività la Commissione è naturalmente interessata ad approfondire solo la parte eventualmente concernente il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro. In particolare, come convenuto nella riunione dell'Ufficio di presidenza integrato dai rappresentanti dei gruppi del 14 ottobre scorso, l'audizione odierna ha per oggetto due principali profili: gli eventuali filoni di indagine che, pur nella sua breve durata, la Commissione presieduta dall'onorevole Bianco ha concretamente potuto percorrere, con riferimento alla strage di Via Fani e al sequestro e all'uccisione di Aldo Moro; gli ulteriori filoni di indagine che sono eventualmente emersi nel corso dei lavori della Commissione, ma sono rimasti inesplorati a causa dell'anticipata conclusione della IX legislatura.
  Faccio presente all'onorevole Bianco che, se nel corso della sua audizione lo riterrà necessario, i lavori della Commissione potranno proseguire in seduta segreta ed eventualmente riprendere successivamente in forma pubblica. Ricordo ai componenti della Commissione la necessità Pag. 4di evitare interventi a microfono spento, perché non verrebbero registrati.
  I due filoni che ho richiamato, onorevole Bianco, ci servono per avere un'idea del campo che è già stato abbondantemente arato dalle varie Commissioni che si sono susseguite e di che cosa è stato fatto, ma soprattutto per capire se al termine di quel lavoro che si concluse per l'interruzione della legislatura c'erano alcuni filoni o alcune intuizioni di approfondimenti che non fu più possibile portare avanti.
  Lascio subito la parola all'onorevole Bianco; chiederò poi ai colleghi se intendano intervenire per eventualmente chiarimenti o approfondimenti.

  GERARDO BIANCO. Saluto innanzitutto i colleghi qui presenti e ringrazio per l'invito, anche se purtroppo il mio contributo, dal punto di vista dell'indagine che fu portata avanti dalla nostra Commissione, non può essere di grande aiuto per questa opportuna iniziativa di approfondimento di un caso che ancora oggi fa molto discutere.
  Vorrei ricordare, ma lo ha già detto il presidente, che la nostra Commissione durò pochissimi mesi, anche se fu un periodo di indagini e di iniziative di ascolto molto intenso, considerato che in tre mesi tenemmo quindici sedute, quindi ci fu una presenza piuttosto significativa.
  Comunque, era la prima Commissione stragi che era stata costituita, peraltro all'epoca monocamerale e non bicamerale. Ricordo che in una delle clausole si prevedeva che la Commissione dovesse agire in modo segreto, nel senso che c'era la segretezza anche delle conclusioni e dei dati. Tuttavia, tale segretezza fu molto parziale, perché alcuni membri della Commissione davano notizie all'esterno senza rispettare una regola fissata nella stessa deliberazione istitutiva, il che significava che ad ogni comunicazione che compariva su alcuni giornali, in modo particolare l'Espresso, il procuratore Sica, da poco scomparso, che all'epoca aveva una funzione di indagine sui problemi del terrorismo, mi telefonava per chiedere ulteriori approfondimenti, il che creava per la verità un grande imbarazzo.
  Noi, trattandosi di una prima Commissione, ci preoccupammo di impostarla secondo una logica di ricerche. Si trattava di dare un metodo, in modo tale da poter seguire, attraverso la precisazione del metodo, una coerenza di indagini successive.
  La prima scelta che fu fatta dopo la prima riunione dell'Ufficio di presidenza fu di non partire dagli ultimi casi, ma dai primi eventi che avevano segnato, purtroppo, la storia terribile del terrorismo in Italia. In seguito, invece, il mio successore Gualtieri cominciò a indagare soprattutto – lo dico perché su questo nacque anche una polemica nel momento del passaggio – sulla vicenda di Ustica, dando luogo a una serie di interpretazioni che erano anche poco suffragate dai dati e dagli elementi.
  Noi, invece, partimmo anche dalle indagini giudiziarie che erano state condotte sull'attentato di Piazza Fontana. Questo fu il punto di partenza. Acquisimmo all'epoca tutta la documentazione giudiziaria, a cominciare dal processo di Catanzaro, e svolgemmo un lavoro a mio avviso di grande utilità, quello di chiedere all'Ufficio stampa della Camera dei deputati la raccolta di tutto ciò che era stato scritto sui giornali sulle vicende dei primi attentati e delle prime manifestazioni di terrorismo in Italia.
  Raccogliemmo una massa di notizie che, peraltro, erano di grande interesse, poiché ne ricavavamo stimoli per approfondire determinati aspetti. L'esame della stampa contestuale agli eventi è di grande rilievo e di grande importanza, perché molte volte ci sono elementi che sfuggono e che, invece, la stampa all'epoca registrava. Si trattava, quindi, di dare coerenza alle ricerche che facevamo.
  Noi, quindi, cominciammo a indagare sulla vicenda di Piazza Fontana per capire il filo conduttore delle altre stragi, fra cui anche quella che fu indagata anche da noi parzialmente, soprattutto con l'audizione dell'allora giudice Casson, che aveva portato Pag. 5avanti un'inchiesta in tal senso, ossia il fatto terroristico, che aveva visto alcune vittime fra i carabinieri.
  Uno dei passaggi più delicati della nostra indagine fu indubbiamente l'ascolto di Delle Chiaie, che la stampa presentava come personaggio centrale del terrorismo. Delle Chiaie era stato arrestato su ordine di cattura, se non erro, della procura di Bologna. Quando arrivò in Italia, un magistrato romano cercò di infilarsi prima dell'interrogatorio che doveva essere portato avanti dai giudici bolognesi per avere notizie, il che provocò, come è noto, un contrasto fra procure. La questione poi si chiuse in maniera anche poco simpatica.
  All'epoca, chiesi – era una richiesta del nostro Ufficio di presidenza – al procuratore di Bologna di poter ascoltare Delle Chiaie come persona informata sui fatti. Ci fu un accordo positivo fra la procura di Bologna e la nostra Commissione d'inchiesta, e fummo i primi a interrogare Delle Chiaie.
  Non si arrivò a grandi risultati in quell'interrogatorio, nel quale particolarmente attivo fu il componente della nostra Commissione Violante, che incalzò molto con le sue domande. Tuttavia, Delle Chiaie fu piuttosto ambiguo e direi anche sfuggente. La sensazione che avemmo tutti è che aveva sicuramente – questo è il convincimento che ne ricavai – una copertura dei servizi italiani.
  Era all'estero, fu praticamente portato in Italia, forse con qualche accordo. Comunque, queste sono impressioni non suffragate da prove, ma anche quell'interrogatorio non portò a grandissimi risultati e approfondimenti.
  Interrogammo, come ha detto il presidente, innanzitutto l'ex Presidente del Consiglio Rumor, il quale all'epoca non si mostrò molto informato, anzi apparve anche piuttosto scosso dal punto di vista psicologico. Il suo contributo non fu di grande rilievo.
  Chiedemmo al Presidente del Consiglio dell'epoca, Craxi, di poter riferire sulla base di quello che egli poteva acquisire, in ragione della sua carica, dai servizi segreti, ma Craxi rinviò l'incontro con la nostra Commissione. Mi parve riluttante, ma siccome l'attività della Commissione stava per avere termine gli chiesi di pensarci bene, poiché la Commissione sicuramente avrebbe voluto sentirlo e si sarebbe dovuto preparare per riferire quello che sapeva. La Commissione interruppe i lavori a causa della fine della Legislatura e Craxi non fu ascoltato.
  Ascoltammo, invece, quasi tutti i responsabili dei servizi segreti, i cosiddetti «007». Dico «cosiddetti» perché, per quello che io ricordo e per quello che si può evincere anche dai verbali – che credo non siano più secretati, quindi si possono leggere, mentre quando li consegnammo furono secretati – ne ricavai un'impressione che definirei a dir poco penosa. A me parve, infatti, che i responsabili dei servizi segreti poco ci dissero e, secondo me, poco sapevano e conoscevano, perché non controllavano esattamente la loro organizzazione. Si può capire come in Italia si siano verificate anche delle «fughe in avanti» di alcuni pezzi dei servizi segreti. Qualcuno mi pareva completamente sprovveduto. Le loro audizioni furono sostanzialmente inutili ai fini di un approfondimento di quello che era avvenuto in Italia.
  Non affrontammo minimamente il problema del caso Moro, anche perché sapevo che ci sarebbe stata una Commissione che si sarebbe occupata di questo problema in maniera specifica, quindi il nostro obiettivo era capire qual era il filo delle trame, chi c'era dietro di esse, qual era il disegno che voleva portare avanti e anche qual era il colore di quelle trame, se cioè erano espressione, soprattutto quelle che noi esaminammo in un primo momento, di terrorismo di destra, nero, o rosso, come si usava dire allora. Quindi, noi indagammo soprattutto su questi aspetti relativi alla matrice del terrorismo che si era manifestato. Questo è quello che genericamente posso dire.
  Non si arrivò alla conclusione della relazione perché all'epoca, proprio su proposta di Violante, si disse che, siccome avevamo solo raccolto alcuni elementi, sarebbe stato opportuno passare tali elementi Pag. 6di ricerca alla nuova Commissione, in modo tale che continuasse sulla linea che avevamo tracciato, anche perché l'unico elemento positivo della nostra Commissione fu quello di tracciare un percorso da seguire, di dare una coerenza per non andare avanti secondo le tendenze e gli stimoli.
  Aggiungo anche che il contributo di Casson approfondì quello che era stato oggetto della sua analisi. Avevamo rivolto anche una richiesta al sostituto procuratore di Milano, che aveva portato avanti le indagini sull'episodio di Piazza Fontana, ma Gerardo D'Ambrosio ci scrisse una lettera nella quale affermava che, in virtù del principio di separazione tra i poteri dello Stato, non gli era possibile partecipare a un incontro.
  La questione si risolse con lo scioglimento della Commissione e quindi non insistemmo più. Io precisai anche, con una comunicazione, che in realtà la Commissione, se avesse voluto, avrebbe potuto sentire tutti quelli che erano stati convocati.

  PRESIDENTE. Ringraziamo l'onorevole Bianco.
  Prima di passare la parola ai colleghi, ho preparato alcune domande da rivolgergli, anche se ad alcune di esse ha già risposto con il suo intervento. Infatti, avrei voluto chiedere il tipo e la qualità del contributo dei vertici delle forze dell'ordine e dell’intelligence, e se c'erano state resistenze. Mi sembra che l'onorevole Bianco, più che parlare di resistenze, ci abbia dato un quadro da cui si evince che il vertice dava la sensazione di non conoscere o di non guidare per intero la complessità della struttura.
  Inoltre, vorrei sapere se si fossero evidenziati nel caso Moro, e in generale per le stragi, la presenza e il coinvolgimento dei servizi di Paesi stranieri.
  Ancora, chiedo se, nell'ambito di quel periodo di lavoro, oltre agli eventuali Paesi stranieri o servizi stranieri della cui presenza o interferenza avete avuto traccia – questo è un filone che a noi interessa molto – vi siete occupati anche della vicenda della loggia massonica P2 e delle presenze nelle stragi di soggetti ad essa iscritti.
  Infine, visto il ruolo che lei ha svolto come autorevole esponente della Democrazia Cristiana, desidero chiederle, come sua opinione personale e in base alla sua storia e alle sue responsabilità, se ci siano circostanze relative al caso Moro che si sentirebbe di suggerire come elementi di approfondimento.

  GERARDO BIANCO. Io ho riferito impressioni generali su una Commissione che, come ho detto, si occupò soprattutto di alcuni fatti che avevano la chiara impostazione di un terrorismo che veniva dalle cosiddette correnti di destra.
  Per quanto riguarda il problema della presenza di servizi stranieri, una sensazione del genere emerse anche nella nostra Commissione quando si trattò degli attentati che furono effettuati nella zona di competenza del giudice Casson. Lì si ebbe la sensazione che ci fosse un qualche coinvolgimento. Il giudice Casson parlò di responsabilità anche di alcune componenti della magistratura. Comunque, secondo me, se voi lo ritenete, sarebbe opportuno riscontrare tutto ciò direttamente nei resoconti della Commissione.
  Non voglio ripetere una battuta molto felice del Presidente della Repubblica – «non ho la memoria di Pico della Mirandola» – però alcuni episodi li ricordo bene e anche le impressioni nette che ebbi in quella situazione, cioè di uno Stato che non era, anche nei suoi organismi preposti all’intelligence, adeguatamente preparato. Questa era la sensazione, oltre a quella della mancanza di serie direttive che fossero state date all'interno degli apparati di sicurezza e di intelligence per indagare in direzioni appropriate.
  La vicenda di Aldo Moro fu seguita da me in precedenza, e anche successivamente, nelle mie funzioni di deputato che aveva dei ruoli soprattutto all'interno del gruppo parlamentare. Quando purtroppo ci fu la vicenda del sequestro e poi dell'uccisione di Aldo Moro, mi trovavo a essere vicepresidente del gruppo della Democrazia Pag. 7Cristiana. Immediatamente si prospettò l'idea di portare avanti un'indagine mirata, specifica e particolare in quella direzione, che poi si concretizzò con la Commissione d'inchiesta.
  Per quanto riguarda la P2, allora, nell'VIII legislatura, ero capogruppo e devo ricordare, per quello che può servire, che fummo subito pronti a presentare – con un'iniziativa, se non erro, del collega Carta e poi del collega Azzaro – la proposta di legge per la costituzione della Commissione P2. All'epoca fui anche interpellato dal Presidente della Camera per l'indicazione della nomina, e ci si accordò su un nome indiscutibile e di grande valore quale era quello di Tina Anselmi.
  La questione della P2, comunque, non fu direttamente seguita, in quanto seguimmo il criterio di lasciare alla Commissione la totale libertà di analisi e di indagine, senza inframmettenze e senza alcuna presenza che potesse apparire ingombrante, per lasciare una totale autonomia.
  Gli atti della Commissione d'inchiesta sulla loggia P2 sono quelli che sono.
  Naturalmente, ci interrogavamo su una serie di vicende, che poi sono state oggetto anche di analisi, di scritti, di libri e di altro, che hanno lasciato una serie di dubbi e che non a caso sono stati raccolti dal Parlamento e hanno portato all'opportuna, secondo me, istituzione di una Commissione, quella dove oggi mi trovo, per cercare di capire meglio come sono andate le cose.
  Ci sono una serie di interrogativi che indubbiamente ancora si pongono, anche se gran parte di quello che è avvenuto credo sia stato anche abbastanza chiarito nelle precedenti Commissioni.
  Il caso Moro rimane, per alcuni aspetti, un mistero che va chiarito, soprattutto riguardo ad aspetti di coinvolgimento o meno di servizi segreti, ma su questo non saprei dire altro, se non qualche impressione che non è opportuno che qui io esponga, perché non serve alla Commissione. Credo che, comunque, alcune affermazioni che sono state fatte di recente non siano convincenti.
  Posso dire che ebbi una serie di contatti, all'epoca, con il Ministro degli interni Cossiga e anche lì ebbi la sensazione che girassero un po’ a vuoto. Vidi Cossiga molto turbato, molto preso da interrogativi. Insomma, non mi sembrarono imboccare una strada che potesse portare a un chiarimento effettivo di come erano andate le cose. Però escluderei quello che è stato scritto anche da qualche studioso, da qualche autore di libri, ossia che ci fosse una qualche debolezza nelle ricerche. Si era impreparati – questo è il punto – a portare avanti una vera e adeguata analisi dei fenomeni, all'epoca.
  Ricordo che, fra le altre cose, circolava l'idea di un accordo fra servizi segreti americani e russi – mi trovai fra le mani perfino lo studio di un funzionario della Camera dei deputati che aveva fatto un'analisi linguistica dei comunicati delle Brigate Rosse – ma si trattava di deduzioni che non erano suffragate da prove inconfutabili.
  È una grande scommessa quella che la Commissione attuale deve portare avanti, rispondendo a una serie di interrogativi che non hanno ancora trovato risposta.

  PRESIDENTE. Grazie. Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  GERO GRASSI. Intervengo solo per sfidare il livello di memoria del presidente Bianco, se ci riesco. Il 9 aprile 1987 la Commissione da lei presieduta interrogò Stefano Delle Chiaie. Quell'interrogatorio, storicamente parlando, è il primo nel quale, seppur in forma criptica per la maggior parte, viene fuori Gladio. Delle Chiaie fece riferimento, senza citarne il nome, a quella struttura.
  In quell'audizione Delle Chiaie parlò anche del tentativo suggeritogli di uccidere il Presidente del Consiglio Mariano Rumor e sempre in quell'interrogatorio ci fu, da parte di Delle Chiaie, una circumnavigazione storico-politica sul capitano Labruna.
  Le domande sono due. La prima è se lei ricorda qualcosa. In secondo luogo, Pag. 8chiedo al presidente di tentare di recuperare quell'audizione, perché a me risulta essere inesistente: 9 aprile 1987.
  A lei, presidente Bianco, chiedo se ricorda, più precisamente di quello che ha già detto, qualcosa su quella giornata che nella storia della Repubblica non fu di secondo piano.

  GERARDO BIANCO. Ho ricordato l'interrogatorio di Delle Chiaie come una delle audizioni più importanti che abbiamo avuto, fra quelle di molteplici altri personaggi, compresi i capi dei servizi segreti, che noi interpellammo ma che ci dettero uno scarsissimo contributo.
  Lei ha ricordato perfettamente che fummo i primi a interrogare Delle Chiaie, che poi ritornò a Bologna. Sarebbe opportuno anche conoscere, secondo me, gli interrogatori dei magistrati bolognesi e le deposizioni di Delle Chiaie.
  È esatta la definizione «risposte criptiche», tant’è vero che ricavai da quella audizione delle impressioni, poiché non potevamo avere delle risposte precise e puntuali, quindi fattuali. Delle Chiaie era ambiguo e criptico. Aveva il linguaggio di uno che aveva frequentato alcuni ambienti dell’intelligence.
  Come ho detto prima, Delle Chiaie fu incalzato molto da una serie di domande del collega Violante, peraltro esperto in materia di interrogatori. Ci fu un accenno, credo di ricordarlo anch'io, al capitano Labruna, ma non ci furono poi grandi approfondimenti.
  L'interrogatorio con Delle Chiaie durò molto; aveva un atteggiamento vagamente ironico. A un certo punto mi chiese il permesso di fumare una sigaretta. Ricordo che eravamo all'epoca in seduta segreta. Dovemmo sfuggire ai giornalisti perché, come ho detto, la nostra Commissione era legata al segreto delle indagini, quindi andammo in una sede dei Carabinieri all'Aurelio, dove c'era una specie di grande cavea, e lì si svolse l'interrogatorio, con molte domande. Rispose sempre con un'aria leggermente sfuggente e ironica, ma facendo forse degli accenni. Non so se i pubblici ministeri di Bologna li hanno approfonditi; se non erro, chiesero anche gli atti dell'audizione, perché noi fummo i primi a interrogarlo. Su questo non posso dare risposte precise, ma non credo che siano stati dati, perché all'epoca, quando noi li depositammo, quegli atti erano coperti dal segreto. Una decisione piuttosto strana, ma che comunque era legata alla legge istitutiva della Commissione stessa.
  All'epoca interrogammo Rumor, che aveva subito, come è noto, un attentato, ma era molto scosso psicologicamente e quindi non aveva molti elementi da offrire.

  PAOLO CORSINI. C’è sicuramente un'assenza di riferimenti fattuali nell'esposizione del presidente Bianco, com’è peraltro comprensibile a tantissimi anni di distanza. Purtuttavia, mi pare che le osservazioni che proposte siano per più versi interessanti, perché ci possono predisporre con un'attitudine metodologicamente corretta rispetto allo scopo di questa Commissione d'inchiesta.
  Quali sono gli elementi che io traggo dalla sua esposizione ? Innanzitutto, credo che dovremmo partire da una distinzione che mi sembra fondamentale e che non risponde semplicemente a un'esigenza di chiarezza accademica: la distinzione fra lo stragismo e il terrorismo. In realtà, la sua Commissione, per quello che io vidi qualche anno dopo, non si occupò tanto di terrorismo quanto di stragismo. Lei in effetti ha fatto riferimento a Peteano, alla strage della questura di Milano, al famoso attentato a Rumor e così via. Credo che si debba distinguere metodologicamente lo stragismo dal terrorismo.
  Nel caso di Aldo Moro, siamo in presenza di un fenomeno che appartiene alla sfera terroristica e non alla sfera stragistica. Perché dico questo ? Lei ha fatto due osservazioni che mi hanno colpito, la prima delle quali riguarda Delle Chiaie. Stefano Delle Chiaie, come è noto, è un esponente di primissimo piano del movimento Avanguardia Nazionale, che nasce nel momento in cui settori della destra estrema contestano la politica del «doppio binario» di Almirante, cioè la politica, da un lato, «del doppiopetto» e dall'altro, Pag. 9invece, di un supporto magari indiretto a componenti che non riconoscono la legittimità costituzionale dello Stato. Ora, siccome agli occhi di questa componente Aldo Moro è il cavallo di Troia del comunismo italiano – ho visto la pubblicistica e questa definizione ricorre continuamente – nell'audizione fu richiesto a Delle Chiaie di dare una sua versione, una sua interpretazione della vicenda che riguarda Aldo Moro ?
  Vengo alla seconda osservazione. Io non sono d'accordo con lei nell'interpretazione che dà dei servizi segreti e del loro ruolo. In realtà, quei servizi segreti non erano affatto impreparati. Lei stesso, peraltro, ci dice giustamente che ha avuto l'impressione – ma la cosa poi è stata suffragata da un'ulteriore audizione di Delle Chiaie svolta nel corso della XIII legislatura – che i servizi segreti italiani in sostanza tutelassero e proteggessero esponenti del radicalismo di destra che erano esuli o fuggiaschi all'estero.
  La mia tesi è che i servizi segreti non sono affatto impreparati e non sono semplicemente deviati; sono anche deviati, nel senso che c’è qualcuno che li ispira e che li devia, ma in realtà questi settori dei servizi segreti, non tutti – peraltro la vostra Commissione ne aveva audito alcuni esponenti – agiscono sulla base di una logica assolutamente coerente dal loro punto di vista, cioè quella che gli studiosi hanno definito della cosiddetta «doppia fedeltà». Quindi, in realtà essi hanno come compito istituzionalmente introiettato quello di deviare, di produrre omissioni, silenzi, deviazioni, depistaggi e così via.
  In relazione al caso Moro, la sua Commissione, lei e i suoi colleghi avete avuto occasione di interrogarvi sul rapporto che ci fu tra servizi segreti e caso Moro ?
  E lei condivide l'interpretazione che le propongo ?

  GERARDO BIANCO. Ripeto che noi non prendemmo in considerazione il caso Moro, perché si prevedeva una Commissione ad hoc che indagasse sulle situazioni che si erano verificate all'epoca e valutasse i vari elementi che potevano emergere in rapporto al sequestro e poi all'uccisione dell'onorevole Moro. Non credo che la domanda sia stata rivolta dai commissari. C'erano, come ho detto, Violante, Teodori e altri che fecero una serie di domande. Io stesso chiesi qualcosa, ma non mi risulta che ci sia stata una domanda specifica in relazione a Moro. Si cercava di capire che cosa Delle Chiaie rappresentasse all'interno del fenomeno del terrorismo, tenendo presente che la stampa – ovviamente ognuno di noi era anche influenzato da queste notizie – individuava in Delle Chiaie uno dei grandi registi.
  In realtà, questa sensazione dal suo interrogatorio in un certo senso sparì; non avemmo più la sensazione che a fare da regista e da «puparo» del terrorismo italiano ci fosse Delle Chiaie. Le fonti e le iniziative appartenevano ad altre situazioni, ad altre persone o gruppi organizzati.
  Ci trovammo di fronte a un personaggio di notevole intelligenza, questo lo si capiva, che rispondeva, come ho detto, anche in modo ironico e – mi piace la definizione dell'onorevole Grassi – «in modo criptico», allusivo, e poi bisognava ovviamente sciogliere i nodi.
  Rispetto alla valutazione che ho dato, piuttosto secca e brutale, penso che voi adesso possiate accedere agli atti della nostra Commissione e leggere le risposte che dettero i capi dei servizi segreti. Siccome li incalzammo parecchio e furono molto sollecitati a dare risposte, erano o deliberatamente sfuggenti o, a mio avviso – questa è la mia sensazione psicologica – poco preparati per dare risposte adeguate.
  Potrei citare i nomi, ma li evito. Sono presenti negli atti. Più calzanti – come è noto – furono le risposte per esempio dei magistrati, a cominciare da Casson, che avevano elementi e davano anche risposte puntuali, però volgevano le loro risposte in una certa direzione. Come ho detto, una delle direzioni lasciava intendere che nei casi sui quali aveva indagato c'erano state forse infiltrazioni che venivano da altri Paesi. Questa è la mia sensazione.Pag. 10
  Io non discuto sul fatto che i servizi segreti potessero poi avere una loro capacità e una loro struttura, perché questo è un discorso che riguarda tutti gli apparati. È noto, per esempio, che i cosiddetti «servizi riservati» del Ministero degli interni, diretti da un personaggio piuttosto capace, funzionavano e sapevano alcune cose, però ci fu anche la crisi successiva e le riforme che furono introdotte. Noi avevamo anche intenzione di passare ad altri gradi, ma la limitatezza del tempo non ce lo consentì. Come ho detto, in tre mesi facemmo quindici sedute, che non erano poche per i tempi che avevamo a disposizione all'epoca.
  Per avere più elementi, ripeto, raccogliemmo tutto ciò che la stampa – e sarebbe molto interessante riconsultare quel materiale – aveva scritto sui fatti che erano avvenuti, sugli atti terroristici che si erano verificati. Quindi, la mia sensazione fu di persone che non avevano il controllo vero della situazione e mi pareva che, come capi, non fossero molto preparati.
  Per quanto riguarda il resto, non saprei dare nessuna puntuale risposta sul caso specifico. Ho parlato del caso Moro più come parlamentare che ha avuto delle responsabilità di direzione politica del gruppo parlamentare, quindi mi riferisco alle impressioni, agli scambi di idee.
  C'era un giornalista di fama che mi telefonava spesso e in qualche maniera dava degli input, ma non credo che questo possa interessare alla Commissione. Erano scambi di idee. Brancolavamo nel buio.

  MIGUEL GOTOR. Onorevole Bianco, lei è un uomo di grande conoscenza, di grande cultura e anche di grande esperienza, non solo per la sua formazione classica e per i suoi studi, ma anche per la sua esperienza universitaria, politica, parlamentare, istituzionale e anche, credo, di uomo di governo, per un periodo, come Ministro della pubblica istruzione.
  In spirito di verità e di collaborazione con questa Commissione che sta iniziando i suoi lavori, proprio in virtù di questa sua grande esperienza, ci sono (e se ci sono, quali sono, secondo lei) alcuni punti che riguardano la vicenda Moro – intendendo quell'evento che comincia il 16 marzo del 1978, ma poi, attraverso la questione degli scritti di Moro e del loro recupero, arriva certamente fino al 1990 – che a lei non tornano ? Intendo quei punti sui quali a lei è capitato di riflettere, come intellettuale, abituato a pensare in modo complesso, e poi come uomo politico, dirigente di partito eccetera, e anche come cittadino. Le chiedo di dirci, spontaneamente, senza che si debba preparare una risposta, quelle tre o quattro cose che l'hanno sorpresa, come uomo di esperienza, se ci sono.
  Poi naturalmente possiamo anche dire che va bene così, che non c’è nulla da eccepire su quanto è avvenuto. La ringrazio.

  GERARDO BIANCO. La ringrazio per l'apprezzamento dovuto a benevolenza; so benissimo quali sono i miei limiti, e sono gravi.
  Che cosa posso dire ? Gli interrogativi e i dubbi ci sono. Se non ci fossero stati non sarebbe sorta questa Commissione, che peraltro è stata anche alimentata da una serie di ricerche.
  Per esempio, una delle questioni che a mio avviso andrebbe affrontata è capire la provenienza delle lettere che venivano da Firenze, dei comunicati delle BR che avevano in Firenze un loro punto di produzione, il che ci porta anche ad alcuni nomi che andrebbero in qualche maniera approfonditi.
  Io sono convinto – lo dico con mia convinzione, visto che la domanda è personale – che la gestione del caso Moro è una questione tutta interna. Questo è il mio convincimento. Intendo dire che è una decisione che viene assunta da terroristi italiani che pensano di poter cambiare il corso della storia democratica del Paese con iniziative ispirate anche a una precisa ideologia e che ritengono di poter far questo attraverso un meccanismo terroristico.
  D'altra parte, che il fenomeno terroristico presume di poter utilizzare la violenza per avere adesioni è un caso che si rivela in quasi tutti i Paesi del mondo e Pag. 11quello che sta avvenendo in Iraq e in Siria lo dimostra: l'idea che la violenza diventi un elemento in grado anche di creare consenso. L'illusione di poter creare questo era un'ideologia deviata. La mia convinzione personale è che il caso Moro è gestito da terrorismo interno, terrorismo delle Brigate Rosse che aveva caratteristiche interne.
  Però, siccome erano organizzazioni conosciute, presenti già da tempo, non è da escludere – questo è il punto – che vi possano essere state delle infiltrazioni nelle stesse Brigate Rosse, non credo tanto italiane, quanto anche di altri Paesi. Questa è un'analisi che, secondo me, dovrebbe essere approfondita. Non è da escludere anche per la ragione molto semplice che questi nuclei terroristici che si denominavano Brigate Rosse avevano rapporti sicuramente – e questo lo si evince da molti atti – con gruppi terroristici di altri Paesi. Avevano rapporti con la Rote Armee Fraktion (RAF), rapporti anche con gruppi che praticamente svolgevano un'azione di lotta per l'indipendenza nazionale, più che terroristica; sappiamo degli addestramenti che alcuni hanno fatto in campi specifici. Su questi elementi indagherei.
  È evidente che, essendo il loro un raggio piuttosto ampio, non ristretto soltanto nel segreto di una stanza, ma anche con relazioni molto più ampie, internazionali, i servizi segreti di altri Paesi potevano essere in grado di infiltrarsi e di trovare anche forme indirette di pressione o di altro.
  Escluderei personalmente che ci sia stata una decisione di altri Paesi – come si è supposto – di uccidere Moro per evitare quello che viene definito il compromesso storico o altro. Peraltro, su questa materia le analisi che sono state fatte erano parecchio diverse. Non si era all'intesa fra il Partito Comunista e la Democrazia Cristiana per creare il compromesso storico. La questione era molto diversa. Lo stesso IV Governo Andreotti che nasceva era un governo in un certo senso di equilibrio democratico. Non credo che, malgrado le resistenze che erano state dichiarate da Kissinger e dal Governo americano, e anche presenti come elemento di differenziazione da parte dell'Unione Sovietica, questi elementi potessero indurre a decidere la cancellazione della presenza di Moro nella vita politica italiana.
  Penso che la questione sia tutta interna e mi concentrerei su questo aspetto per capire bene quale logica ha guidato le Brigate Rosse, perché hanno preso certe decisioni e se il destino di Moro sia stato segnato sin dall'inizio.
  È da tener presente che ci sono dei libri che, secondo me, dovrebbero essere tenuti in conto, come quello di Belci e di Bodrato, che ricostruiscono le vicende dei rapporti nella Democrazia Cristiana e anche i tentativi di liberazione. C’è improvvisamente, quando la riunione della Democrazia Cristiana prevede la possibilità di una trattativa, l'accelerazione dell'esecuzione di Aldo Moro.
  Ci sono alcune di queste domande che, secondo me, bisogna approfondire per capire qual è stata la dinamica interna. Non è da escludere che all'interno delle Brigate Rosse ci fosse qualcuno che determinò le cose perché aveva in testa un progetto diverso o comunque un collegamento anche esterno.

  MIGUEL GOTOR. La ringrazio. Mi ha sorpreso che la prima cosa che lei ha detto, che le è venuta in mente, riguardi il problema delle lettere e dei comunicati che arrivavano da Firenze e che ci porterebbero ad alcuni nomi. Vorrei sapere, e magari possiamo passare in seduta segreta, quali sarebbero secondo lei. È un'affermazione molto specifica e, in realtà, con una sua originalità, perché quello che noi sappiamo nella verità giudiziaria, ma anche in quella memorialistica, è che l'epicentro della vicenda Moro è Roma, è un rettangolo di quattro o cinque chilometri per lato. Quando lei inserisce come prima questione l'elemento di Firenze è perché ne sentì parlare già allora o l'ha desunto da letture fatte ?
  Qual è stato il suo grado di interesse, come dirigente politico, della vicenda Moro ? Lei l'ha seguita o c’è stato un Pag. 12fenomeno di rimozione ? A me è capitato di parlare con diversi dirigenti democristiani e le reazioni sono state diverse. È certamente un trauma, una ferita incredibile che poi ha prodotto le più diverse reazioni.
  Nel 1978, lei era vicecapogruppo alla Camera, quando il capogruppo era Piccoli.
  Come l'ha vissuta, se può ricordarlo, a distanza di tanti anni ? C'era un clima di sospetto tra voi democristiani, tra il 1978 e il 1980, in quei primi anni, o no ? Oppure si pensava: è stato un attacco terroristico delle Brigate Rosse, di una precisa matrice, hanno ucciso il povero Moro, e basta ?
  Quindi, Firenze: quali sono quei nomi, se ce lo può dire ?
  Infine, che atteggiamento ha avuto lei, essendo – ripeto – uomo non solo di esperienza, ma abituato a ragionare filologicamente sulle parole e sulle cose ?

  GERARDO BIANCO. La questione Moro è rimasta – diciamo la verità – un grande macigno dentro la nostra storia, quindi non credo che si possa mai parlare di rimozione, almeno fino a quando è esistita la Democrazia Cristiana e anche la sua prosecuzione. Ci si è interrogati continuamente e direi che questo bisogno di verità lo si è dimostrato anche con l'iniziativa che è stata assunta di una nuova Commissione.
  Io ho fatto cenno a Firenze perché ci sono dei comunicati che vengono da quella città. Ha ragione senz'altro quando dice che il centro è Roma: qui Moro viene sequestrato; qui Moro viene praticamente messo prima in un luogo e poi altrove; comunque, sicuramente entro il perimetro di Roma c’è il fulcro della vicenda Moro. Però, c’è anche un dato che è emerso dalle ricerche: molti comunicati delle Brigate Rosse sembra che siano stati redatti a Firenze e ritrasmessi qui a Roma. Perché Firenze ? Che nucleo c'era a Firenze ? Chi sono ? Ci sono alcuni nomi che circolano e sui quali, secondo me, la luce non è stata completamente fatta. Forse approfondire in quella direzione può essere estremamente utile per capire meglio come stanno le cose.
  C’è qualche personaggio misterioso del nucleo che sequestrò Moro che ha parlato parzialmente, in maniera ancora più criptica di quello che non è stato il linguaggio di altri personaggi. Insistere, andare dai protagonisti di quella vicenda per tirare fuori ancora verità oppure elementi occultati è un modo per chiarire bene, a mio avviso meglio, come sono andate le cose.
  Ci si è interrogati continuamente. Le Commissioni d'inchiesta poi hanno avuto i poteri per fare queste indagini. Poi ci sono le sentenze e i vari giudizi. Non dimentichiamo che qui a Roma sono stati portati avanti, credo, quattro o cinque giudizi, e non è un caso che alla fine si è ritenuto che le questioni fossero praticamente definite. Ci sono libri secondo i quali la questione è completamente chiusa, però ogni tanto viene fuori qualche notizia che apre di nuovo elementi sui quali, secondo me, conviene portare avanti le ricerche.
  Non mi sentirei di dare indicazioni precise, perché non sono in grado di farlo. Quello che escludo, se permettete, è la tesi di un magistrato che ha scritto un libro nel quale ipotizza l'idea che a volere la morte di Moro siano stati Cossiga e Andreotti. Alla domanda che gli ho rivolto «ma quale interesse potevano avere ?» la risposta non c’è stata. Si tratta di stare attenti a non trasformare un'indagine che deve essere seria e severa in una serie di ipotesi. Nel momento in cui si procede per ipotesi, si può portare avanti il discorso deduzione per deduzione e andare molto lontano.
  Io starei solo ai fatti e guarderei le vicende che non sono state chiarite, visto che lei ha chiesto un mio parere. Guarderei le cose che veramente sono acquisite come fatti, sui quali però il chiarimento non c’è stato.
  In questo senso, penso che forse sarebbe opportuno approfondire e chiarire la corrispondenza che veniva da Firenze, per capire perché, che cosa è avvenuto; inoltre, bisognerebbe verificare se è vero che alcuni dei comunicati importanti siano Pag. 13stati praticamente redatti a Firenze, ritrasmessi a Roma e rilanciati da Roma. Se ciò è avvenuto, che cosa ha spinto a seguire questo percorso ?
  Su queste vicende, secondo me, si possono trovare anche dei filoni che portino a un maggiore approfondimento. È un'indagine estremamente complicata quella che la Commissione attuale, presieduta dal presidente Fioroni, porta avanti, perché si tratta di trovare qualche filo conduttore.
  Io, per esempio, prenderei con le molle – se permettete – le dichiarazioni di uno dei membri della Commissione costituita da Cossiga, un americano, il quale dice «nessuno voleva salvare Moro». Sono deduzioni postume e forse anche sue idee personali. La mia sensazione è che questo non è vero, perché ci fu una discussione vivacissima all'interno della Democrazia Cristiana per trovare strade che fossero alternative alla trattativa con le Brigate Rosse, per risolvere il caso Moro.
  Il procuratore dell'epoca, De Matteo, che ha scritto un libro su questa materia intitolato Diario degli anni di piombo, racconta che lui, essendo il procuratore che fece le prime indagini – sarebbe interessante anche guardare che cosa lui ha acquisito – era stato convocato da Leone, il quale voleva mettere la firma sotto la liberazione di quella terrorista che non aveva commesso fatti di sangue, e nel momento in cui stava per apprestarsi a questo arrivò la notizia dell'uccisione di Aldo Moro.
  Ci sono parecchi aspetti che, secondo me, possono essere combinati insieme, ma attenendosi ai fatti e non alle deduzioni.

  PAOLO CORSINI. Lei dice che sono stati fatti dei nomi...

  GERARDO BIANCO. Sono circolati dei nomi.

  PAOLO CORSINI. Circolano dei nomi in ordine ai comunicati provenienti da Firenze. Io ho in testa alcuni nomi. Lei a quali nomi sta alludendo ? Ce li può dire ?

  GERARDO BIANCO. Uno dei quali è quello di Senzani.

  PAOLO CORSINI. Giovanni Senzani.

  PRESIDENTE. Mi sembrava del tutto evidente. Credo che i senatori Corsini e Gotor non potessero pensare altro rispetto alla qualità della produzione di Firenze e alla rilevanza del contenuto culturale e al ruolo, semmai quel signore l'abbia avuto. Lo vedremo.

  MAURIZIO GASPARRI. Proprio quest'ultima considerazione mi riporta a un'analisi che faccio da anni su questi fatti.
  Intanto saluto e ringrazio il presidente Bianco, a cui rinnovo stima e considerazione sincera, come sa, per questa sua presenza. Lei ha parlato di vicenda interna ed esterna. Io credo che ci possano essere ambiti da chiarire, da approfondire, però non vorrei che questa Commissione – ed è l'intento per cui ne voglio far parte – alimentasse polveroni e suggestioni.
  La ringrazio per la citazione di Firenze, altrimenti saremmo usciti da qui oggi pomeriggio pensando che lei casomai avesse alluso a Licio Gelli, che è vero che stava ad Arezzo e non a Firenze, però si poteva... Invece, lei ha parlato di Senzani che è uno storico esponente delle Brigate Rosse, con un percorso diverso da quello di altri, però riconducibile a una certa matrice.
  Anche oggi vedo, dalle domande, che si allarga il discorso ad altri campi. Si parla di terrorismo, di Commissioni d'inchiesta, di situazioni varie che hanno anche investito negativamente gli apparati dello Stato, ma non capisco cosa c'entri Delle Chiaie – che non devo certo difendere io – con l'uccisione di Moro. Non vorrei che questa Commissione fosse utilizzata per creare un po’ di polverone.
  Lei ha fatto anche riferimenti ai rapporti esterni, ma rientrando nell'analisi storica. Le Brigate Rosse hanno avuto sostegni esterni – Cecoslovacchia, addestramenti, forniture di armi, rapporti con alcuni gruppi palestinesi per scambio di armi, viaggi – questo è notorio, però si inscrive sempre in una matrice, in un'appartenenza, in una collocazione, anche Pag. 14rispetto alla storia del mondo di quegli anni, molto precisa.
  Se dobbiamo fare la Commissione per dire tra poco che gli americani, o non so chi, hanno fatto rapire e uccidere Moro, credo che questo debba essere demistificato, e la sua saggezza può essere un buon viatico in questa fase iniziale.
  Lei ha citato dei libri. C’è stato quello, che io citerò in tutte le sedute, del senatore Imposimato (non so se lei ha avuto modo di leggerlo) che contiene tesi farneticanti secondo le quali i servizi segreti, militari, italiani, americani stazionavano fuori dalla prigione di Moro, all'appartamento di sopra, ma si sono scordati di intervenire e quando hanno deciso di farlo era il giorno della morte di Moro.
  È un libro che merita un'inchiesta, come si è fatto da parte della procura di Roma, perché c’è della mitomania in circolazione, che purtroppo alcuni trasformano in libri.
  Quindi, vorrei capire meglio. Sulla collocazione internazionale delle Brigate Rosse le verità giudiziarie sono abbastanza chiare. Che ci sia stato un dibattito all'epoca tra il partito della fermezza e il partito della trattativa, è anch'esso un fatto storico acclarato. Anche adesso, quando l'ISIS minaccia di tagliare le teste – e purtroppo spesso le ha tagliate – c’è un dibattito a livello internazionale tra coloro che vogliono cedere, e qualcuno ha anche ceduto, e gli altri. Forse anche l'Italia, in altri casi non recentissimi, ha alimentato trattative e pagamenti di riscatti. Possono essere successe cose di questo tipo, però io credo che anche all'epoca il partito della fermezza e il partito della trattativa... Tutti ricordiamo le vicende, la sofferenza soprattutto della Democrazia Cristiana, l'atteggiamento diverso del Partito Socialista, di Craxi e di altri. Non credo che fossero manovrati da potenze esterne, dalla NATO, dall'America o dalla CIA. C'erano sensibilità, anche sofferenze, da parte di alcuni esponenti politici diversi. La vicenda di Cossiga in questo senso è emblematica della personalizzazione, con la fisicizzazione di una sofferenza che manifestò.
  Su questo spero che si possa sgombrare il campo da una serie di tentativi di mistificazione intorno alla tragedia di Moro.
  Che Moro potesse essere simpatico o antipatico, che potesse essere visto come l'elemento di congiunzione di alcuni mondi e quindi altri più conservatori potessero non ammirarlo o condividerne le idee, questo è un altro discorso. Un conto è non condividere la linea politica di un esponente, di un protagonista della vita politica; altro è da questo far discendere matrici improprie dell'uccisione di Moro, del sequestro, dell'uccisione della scorta.
  La domanda è: cosa pensa di queste ricostruzioni ? Questa è una sede parlamentare. Non so se ha avuto modo di leggere il libro del senatore Imposimato, che ha al suo interno una ricostruzione basata su... Ne parlerò in tutte le sedute, da libero parlamentare, perché bisogna demistificare alcune questioni e credo che la Commissione non debba servire ad alimentare situazioni improprie. Le Brigate Rosse appartenevano a un certo tipo di mondo politico. Alcune ricostruzioni che ancora circolano, come le giudica ?

  PRESIDENTE. Il senatore Gasparri tra poco farà avere un picco di aumento di volumi venduti dal senatore Imposimato grazie alle pluricitazioni in ogni seduta.

  GERARDO BIANCO. Credo di aver già dato la risposta, più che altro come convincimento personale, perché gli elementi che posso portare sono stati già chiariti, e sono pochi, sulla base della prima Commissione di inchiesta che ho avuto, come si usa dire, l'onore di presiedere.
  Ho dichiarato – non so se era presente – che sono convinto che le Brigate Rosse, autrici della morte e del sequestro di Moro, sono un fatto classico di realtà interna del Paese. Se si vuole indagare sulla possibilità che le Brigate Rosse siano state in qualche maniera influenzate, è forse un filone di indagine. Quello che escluderei – e l'ho detto – è la presenza, nelle decisioni sull'uccisione di Moro, delle cosiddette grandi potenze. Questo mi sentirei Pag. 15di escluderlo, l'ho già dichiarato. Per quello che può valere, la mia idea è che la Commissione deve attenersi ai fatti; però, laddove ci sono fatti incerti nella loro interpretazione, forse approfondire questi elementi può essere utile per portare avanti un ulteriore conoscenza.
  Secondo me, è fondamentale raccogliere tutta la produzione degli atti giudiziari. Quando facemmo il primo esame delle vicende di Piazza Fontana, analizzammo in maniera approfondita le sentenze che erano state emesse dal Tribunale di Catanzaro, dov'era stato inopinatamente spostato il processo, perché da quelle carte, molte volte poco razionalizzate, si ricavano tanti elementi.
  Ho ricordato anche che raccogliemmo tutta la stampa che si era occupata di quei problemi, perché molte volte, nelle pieghe della stampa, si trovano stimoli e notizie che possono essere utili anche ad aprire indagini.
  Per il resto, non mi sento di fare valutazioni, perché – ahimè – devo fare un'affermazione: col sangue di Moro, secondo me, è stato sconfitto in gran parte il terrorismo. Oggi ci sono dei rigurgiti che si manifestano, ma non hanno più la dimensione pericolosa e grave che ha avuto il terrorismo di destra e di sinistra all'epoca, perché allora c'era anche una larghezza di consenso della contrapposizione piuttosto grave. Non dimentichiamo che ci furono alcuni grandi intellettuali che dichiararono «né con lo Stato né con le Brigate Rosse», mettendo pericolosamente a rischio la democrazia italiana.

  PRESIDENTE. Onorevole Grassi, intervento preventivo: non apriamo un dibattito con il senatore Gasparri.

  GERO GRASSI. No, ma un minimo di replica, per dignità della Commissione, devo farla. Siccome sono stato uno dei firmatari della proposta di legge istitutiva di questa Commissione, a differenza del senatore Gasparri che notoriamente non la voleva...

  MAURIZIO GASPARRI. No, non è vero. Mi interessa.

  GERO GRASSI. Io non intendo minimamente sentire ogni volta una discussione su un libro, perché i libri non sono oggetto di valutazione della Commissione. Quando l'autore di quel libro, che peraltro è un magistrato, invitato dalla Commissione verrà qui, il senatore Gasparri in un angoletto potrà discutere del libro con Imposimato...

  MAURIZIO GASPARRI. Perché in un angoletto ? Nella Commissione !

  GERO GRASSI. No, del libro fuori della Commissione. Con Imposimato discutiamo delle cose che ha fatto come magistrato.

  MAURIZIO GASPARRI. Questo non lo decidi tu.

  GERO GRASSI. Senatore Gasparri, il buonsenso vuole che quando uno parla l'altro ascolti e se ci riesce rifletta sulle cose che l'altro sta dicendo.

  MAURIZIO GASPARRI. Non sei tu il censore della Commissione !

  GERO GRASSI. No, ma io sono abituato ad ascoltare. E quando ascolto, il tentativo del polverone qui non c’è, ma non ci può essere nemmeno il tentativo di una riduzione dei lavori della Commissione a un'analisi storica del problema del terrorismo e del caso Moro. Noi, come dice il presidente Bianco, dobbiamo occuparci dei fatti e dobbiamo discutere attraverso gli atti.
  Quando arriveremo alla presenza di Gelli nel caso Moro, le porterò gli atti che dimostrano che la presenza di Gelli c'era, e c'era tutta.
  Il presidente Bianco ha parlato di Firenze in riferimento a Senzani, io le potrei parlare di Arezzo e di quello che sono andati a fare ad Arezzo, durante i cinquantacinque giorni... Ma non è questa la sede.
  Allora, inviterei a stare al tema, senza ogni volta farci passare – perché credo che il giudizio possa essere generale – Pag. 16come quelli che vogliono fare un polverone e riscrivere la storia. No, noi vogliamo la verità sul caso Moro, senza sconti e senza guardare in faccia nessuno, nemmeno le storie di appartenenza politica nelle quali noi siamo vissuti.

  CATERINA PES. Penso che siamo qui per capire e nessuno debba evidentemente anticipare conclusioni che al momento non ci sono. Credo che questo debba valere per tutti. Siamo qui e ci rimarremo il tempo che ci serve per cercare di capire; le conclusioni le trarremo dopo, si spera.
  Proprio per questo, poiché lei ci invita a rimanere ai fatti, vorrei ritornare alle domande che le ha posto il senatore Gotor, perché le ho trovate molto interessanti. Lei, presidente Bianco, anche come illustre testimone dell'epoca, ha parlato della ricerca – dentro la Democrazia Cristiana, anche piuttosto sofferta – di una soluzione che non prevedesse la trattativa, evidentemente.
  Lei ha detto che con il sangue di Moro si è sconfitto il terrorismo. Con il sangue di Moro è anche cambiata completamente la storia della nostra Repubblica, perché tutto quello che è accaduto dopo è anche un seguito di quanto avvenne in quei giorni.
  La mia domanda riporta anche a quanto chiesto prima, perché bisogna capire quale fu il dibattito, che avvenne prevalentemente dentro il suo mondo. Ci fu quel dibattito sulle soluzioni possibili: quali furono le soluzioni ? Lei prima ne ha citata una, che è quella del Presidente Leone, che pensò e decise di liberare una terrorista che non si era macchiata di spargimento di sangue. Ma questo – lei sarà d'accordo con me o con il semplice cittadino che legge le cose – avvenne evidentemente in tempo non utile.
  La domanda è questa: intorno a che cosa si discusse e ci fu dibattito, sulle possibili soluzioni nei cinquantacinque giorni della vicenda ?

  GERARDO BIANCO. Voglio ricordare che, a distanza di poche ore dal sequestro Moro, il 16 marzo 1978, ci fu immediatamente un discorso di Zaccagnini alla Camera dei deputati sul IV Governo Andreotti. Zaccagnini peraltro, evidentemente non perfettamente informato, disse: «Noi della Democrazia Cristiana, in nome di Aldo Moro, della sua famiglia – queste sono sostanzialmente le sue espressioni – respingiamo totalmente, serenamente, in maniera assolutamente ineccepibile, qualsiasi forma di ricatto da parte delle Brigate Rosse». Ricordo la sua espressione: «Non ci piegheremo».
  Dopo un po’ arrivò anche la smentita della famiglia, che evidentemente voleva tentare di agire con maggiore cautela.
  All'interno della Democrazia Cristiana, durante quei famosi cinquantacinque giorni, il dibattito sulla trattativa e la possibilità di andare incontro alle richieste delle Brigate Rosse, cioè il riconoscimento delle Brigate Rosse, non si pose proprio come argomento. Il massimo che si considerò riguardò la specie di trattativa che poteva essere di altro genere, come la liberazione di qualcuno, ma il discorso del riconoscimento, dal punto di vista politico, della democrazia italiana nei confronti delle Brigate Rosse non si pose mai come argomento.
  Due personaggi che furono molto vicini a Moro, e sono stati collaboratori stretti anche di Zaccagnini, Belci e Bodrato, hanno scritto un libro molto importante, da questo punto di vista, perché racconta anche i tentativi che furono fatti. Per esempio, una delle questioni che viene trattata nel libro è il racconto di una telefonata, che era arrivata da parte delle tra Brigate Rosse, per un incontro che doveva avvenire proprio tra Bodrato e Belci, e un emissario delle Brigate Rosse, ma a quell'appuntamento che era stato fissato non si presentarono. Nel frattempo ci fu l'uccisione di Aldo Moro, il che farebbe sospettare che la decisione dell'uccisione era stata presa a prescindere dal problema delle trattative. Quindi, vi sono una serie di elementi di questo genere.
  Il problema della concessione di qualcosa che le Brigate Rosse chiedevano più che altro si aprì con il Partito Socialista, Pag. 17all'epoca. Oggi si dice che il Partito Socialista chiedeva la trattativa. In realtà, la proposta fu avanzata, ma non fu mai realmente formalizzata. Questo è un altro elemento da tener presente. Nella coscienza politica dell'epoca c'era l'idea che lo Stato non dovesse cedere. Questo è il punto.
  Ci fu poi l'ultimo tentativo di Fanfani di riunire il Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana per decidere la concessione della grazia a una delle personalità aderenti alle Brigate Rosse. La cosa si chiuse subito negativamente perché arrivò la notizia dell'uccisione di Aldo Moro. Quindi, una vera discussione non ci fu. Ci furono solo alcuni esponenti della Puglia, deputati anche rilevanti – come il vicepresidente dell'epoca, che era stato sindaco di Bari, Vernola – che insistettero per la trattativa, ma erano spinte che venivano più che altro da ambienti amicali e ambienti locali.
  Non so se sono stato esauriente.

  NICOLA MORRA. Presidente, io ho ascoltato, spero con la massima attenzione possibile, il dibattito che si è sviluppato e mi pare che si debba registrare una sorta di confronto fra coloro che elaborano ipotesi e coloro che rinviano filologicamente ai fatti. Però, ritengo che la ricerca storica – e in questa sede, in qualche misura, noi stiamo anche facendo questo – nasca appunto dalla capacità di elaborare tesi, altrimenti ci accontenteremmo di quanto già si sa e naturalmente ci dedicheremmo ad altro.
  Lei ha fatto un quadro certamente condivisibile per quanto riguarda la ricostruzione di fatti che l'hanno vista protagonista, oltre che testimone. Tuttavia, è anche vero che, quando si è coinvolti, si elaborano dei giudizi che sono comunque espressione di soggettività.
  Lei ha definito i vertici dei servizi segreti dell'epoca, per certi versi, penosi o improvvidi. Su questo già qualche collega è intervenuto manifestando la propria perplessità, perché, piuttosto che a impreparazione, forse si potrebbe pensare a ben altro. Questo «ben altro», pur accettando con fermezza la distinzione fra stragismo e terrorismo, penso ci debba rinviare ad alcuni elementi fattuali e filologicamente accertati che fanno comprendere come, su questa vicenda, ci sia stato un intervento da parte di forze politicamente non riscontrabili in un agone democratico, appunto perché sfuggivano la trasparenza – rinvio in particolar modo alla loggia P2 – anche perché diversi soggetti coinvolti sia sul fronte politico, sia sul fronte giudiziario e investigativo con ruoli e compiti importantissimi, risultarono successivamente iscritti a tale loggia.
  Ora, capisco anche che lei viva con difficoltà e sofferenza la memoria di quei giorni, che penso siano stati, per milioni di italiani, di assoluta drammaticità. Ma ricordo anche come, con incredibile leggerezza, il partito da cui lei proveniva, a distanza di pochi anni, in occasione del caso Ciro Cirillo, assunse un comportamento che della fermezza e della inflessibilità non diede assolutamente testimonianza.
  Tutto questo fa certamente elaborare delle ipotesi, fa gemmare delle domande che noi, però, da storici, filologicamente dobbiamo accompagnare in un lavoro di ricerca che ci porti a risposte fattualmente verificabili.
  La mia domanda adesso è: in che misura qualcosa di opaco, di non perfettamente chiaro, ha accompagnato l'inchiesta e l'operato degli stessi investigatori ? In parecchie occasioni sembrò, all'epoca, che si stesse per arrivare al dunque e in tutte quelle occasioni, però, le indagini si rivelarono del tutto infondate.
  Ora, o ci si deve far credere che noi veramente eravamo in mano a dei «Pulcinella» – scusate l'espressione, senza offesa per la maschera partenopea – oppure sull'intervento di apparati deviati, di parlamentari che tramavano nell'ombra affinché certe manovre potessero andare in porto, qualche perplessità la si deve conservare. Senza tirare in ballo i libri di Imposimato, ma con la sincera sofferenza di chi non si è spiegato perché, in casi analoghi, a distanza di pochissimi anni, lo Pag. 18stato maggiore della Democrazia Cristiana abbia assunto un atteggiamento del tutto diverso.
  Ricordo che il primo rapimento che fece scalpore, all'epoca, agli inizi degli anni Settanta, fu quello del giudice Sossi a Genova. Anche in quel caso, lo Stato assunse una posizione netta, forte e univoca. Successivamente, però, ci sono stati altri che hanno provato a introdurre ulteriori elementi di riflessione. Più che il mondo socialista, per esempio, vorrei anche confrontarmi con i rappresentanti del mondo radicale, perché sono stati in particolar modo i radicali che hanno perorato la causa del confronto, recuperando all'istituzione parlamentare forze che parlamentari non erano.

  GERARDO BIANCO. Ovviamente esprimo valutazioni soggettive, con nessuna pretesa dell'oggettività.
  Il caso Moro non è assimilabile a nessuno degli altri casi. Va ricordato che l'uccisione della scorta di Moro e il sequestro Moro ponevano – cosa che non è verificabile col caso Cirillo, che è un caso, mi permetto di dire, di trattativa molto partenopea, una cosa un po’ diversa – lo Stato di fronte alle Brigate Rosse. Questo è il punto sostanziale.
  Non va dimenticato che, come ho detto, un personaggio che ha vissuto in maniera tragica quella vicenda, perché era un amico di lunga data, come Zaccagnini, pone il problema dell'intransigenza nella trattativa. Ciò perché viene subito percepito che cedere alle BR significava compromettere la stabilità democratica; era anche prevedibile che questo avrebbe provocato una rivolta all'interno delle forze di polizia, con tutte le conseguenze che potevano derivarne. Era un momento di estrema debolezza dello Stato.
  Non dimentichiamo anche che la vicenda di Aldo Moro, a prescindere dalla valutazione, avviene in un momento in cui anche le formazioni dei governi erano estremamente precarie. Noi vivevamo, da due o tre anni, una situazione di grande difficoltà, di grande debolezza politica nel Paese. È questo contesto che deve essere tenuto in conto.
  L'idea delle Brigate Rosse di poter sferrare un attacco per aprire una crisi irreversibile all'interno del Paese, con la debolezza del Governo e con tutte le conseguenze che ne derivavano, è una vicenda che va vista sotto il profilo della difesa della democrazia.
  Questa è la posizione che viene assunta, non dopo molti mesi o dopo molti giorni, ma dopo quattro ore dalla vicenda, con un'assunzione di responsabilità diretta dal segretario del partito democratico cristiano, che era il primo amico di Aldo Moro.
  Naturalmente, in questo senso c’è anche, come è noto – non è niente di nuovo, sapete meglio di me queste cose – la posizione intransigente del Partito Comunista che all'epoca sosteneva il Governo Andreotti, anche se nel momento in cui si stava per votare la fiducia al Governo Andreotti c'erano molte perplessità. Per evocare quella vicenda, il Governo non era piaciuto e il PCI stava decidendo di astenersi. La vicenda del sequestro Moro accelerò la decisione della formazione del Governo e il voto fu preso d'emblée; il Partito Comunista all'epoca cambiò la posizione, che forse era di astensione, in voto favorevole.
  Questo è un dato che posso testimoniare direttamente perché ero lì presente nel momento in cui si decisero queste cose.
  Il caso Cirillo – che ho definito, in termini un po’ sbrigativi, «partenopeo» – è una vicenda completamente diversa, molto confusa. Lo Stato non c'entrava. Per giunta, poi, c'era una sorta – potrei dire – di accettazione che le cose andavano gestite in maniera completamente diversa.
  Penso che, poiché ormai la Democrazia Cristiana non c’è più, è inutile fare polemiche contro l'atteggiamento diverso della Democrazia Cristiana. Le vicende hanno una natura diversa. Se si vuole capire il caso Moro, bisogna inquadrarlo in quel contesto storico-politico che è praticamente di sfida allo Stato. Le altre vicende, Pag. 19come quella del giudice Sossi e altre successive, non sono casi di questo genere.
  Il caso Moro è la sfida alla democrazia. Lo dissero, peraltro, con molta chiarezza Pertini e anche La Malfa nei loro discorsi, individuandolo come un caso specifico particolare, che va considerato per quello che è in sé. Non saprei valutare in maniera diversa la vicenda.
  Come ho detto, dubbi sul mantenimento della fermezza in realtà non ci furono. Ci furono speranze e anche il tentativo di trattativa. Non è che non ci fu la trattativa, la trattativa ci fu. Fu avviata in maniera indiretta, attraverso sacerdoti che avevano ricevuto messaggi delle BR. Però questa era una trattativa, per dir così, di tipo diverso da quello che chiedevano, cioè il riconoscimento della dimensione politica delle Brigate Rosse. Questo era il punto forte in questione.
  Su questo il discorso fu reciso e netto. Non si poteva fare diversamente. Poi le vicende, come sapete, precipitarono, perché subentrarono altri problemi già nel 1978 e il Governo Andreotti, che era nato nel marzo del 1978, già era in crisi con la vicenda del «serpente monetario europeo» del settembre-ottobre 1978. La prima scelta di carattere europeo che fu fatta provocò la crisi.
  Comunque, io non vi posso dare, se permettete, altri seri contributi. L'unica cosa che dico, per rispondere alla cortese domanda sul contributo personale, è che secondo me bisogna attenersi strettamente ai fatti. Vanno chiarite le cose.
  Se volete, uno dei problemi che per me è rimasto un punto interrogativo non chiarito è la vicenda della seduta spiritica di via Gradoli. Quello è un punto interrogativo non spiegabile dal punto di vista della logica. C’è una seduta spiritica che indica via Gradoli e questa è una vicenda sulla quale, secondo me, un chiarimento definitivo va fatto. Di che si tratta ?
  Questi sono i tanti punti interrogativi che sono ancora aperti sulla vicenda del caso Moro. Ho detto Firenze e dico anche questo, ma ce ne sono altri secondo me.

  PRESIDENTE. Le rubiamo ancora dieci minuti. Invito i colleghi a essere rapidi.

  MICHELA MONTEVECCHI. Sarò velocissima. Chiederò all'onorevole Bianco di fare non un esercizio di memoria, ma un esercizio speculativo.
  Lo scorso marzo è stata data notizia sui quotidiani di una missiva che sarebbe stata fatta pervenire al quotidiano La Stampa nel 2009; una missiva scritta di proprio pugno, si presume, da una delle due persone che si trovavano sulla famosa motocicletta Honda, quella che bloccò il traffico durante le operazioni di quella mattina.
  In quella missiva sono contenute dichiarazioni importanti. Vorrei chiedere all'onorevole Bianco innanzitutto che grado di veridicità attribuisce a quella missiva e alle dichiarazioni dell'ispettore che afferma di essere stato ostacolato nello svolgimento delle sue indagini per arrivare all'identificazione della seconda persona che si trovava appunto su quella Honda insieme all'autore di quella missiva. Quindi, vorrei conoscere il grado di veridicità che l'onorevole attribuisce al contenuto della missiva e alle affermazioni dell'ispettore.
  In secondo luogo, vorrei fare una proposta sull'ordine dei lavori. Poiché mi pare che al senatore Gasparri piaccia molto recensire libri, potremmo ricavare durante le nostre sedute cinque minuti di tempo per fare «l'angolo del libro» e chiedere al senatore Gasparri di recensire per tutti noi, una volta a settimana, un libro, in modo da arrivare preparati.

  MAURIZIO GASPARRI. Visto che lei non legge libri, la sostituirò in questo e gliene consiglierò molti.

  MICHELA MONTEVECCHI. Io ne leggo molti più di lei, senatore Gasparri. Era giusto per aiutarla a soddisfare un suo desiderio. Sono molto più acculturata di lei, non si preoccupi.

  MAURIZIO GASPARRI. Abbiamo la notizia che lei sa leggere.

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  MICHELA MONTEVECCHI. Sì, anche i suoi tweet.

  PRESIDENTE. Basta. Non offriamo questo spettacolo all'onorevole Bianco.
  L'onorevole Bianco può rispondere alla domanda, ma noi abbiamo già abusato allargando l'ambito delle domande dalla Commissione che ha presieduto al ruolo politico che ha svolto all'interno della Democrazia Cristiana.
  Sulle rimanenti domande, come questa, appropriata, della senatrice Montevecchi, credo che l'onorevole Bianco possa rispondere se ha letto i giornali, altrimenti non ha motivo di conoscere.

  GERARDO BIANCO. Non sono in grado di dare una risposta. Non saprei che dire.

  FEDERICO FORNARO. Ringrazio il presidente Bianco per lo sforzo di memoria e la disponibilità. Vorrei chiedere, nello spirito di questa Commissione che ci ha ricordato anche Gero Grassi, un aiuto a comprendere un fatto che è coevo alla sua presidenza.
  Nella primavera del 1987 Remigio Cavedon, vicedirettore del Popolo, incontra in carcere Moretti. Si apre una serie di colloqui tra Cavedon e Moretti. Vorrei sapere se lei ne era a conoscenza o ne era stato tenuto al corrente; se può spiegare la genesi di quell'incontro, di quell'iniziativa; qual era, a suo giudizio, l'obiettivo che si voleva perseguire e se è stato ottenuto un obiettivo da questi incontri.

  GERARDO BIANCO. Francamente non abbiamo preso in esame il problema. Ne capisco l'importanza, però all'epoca ci mancò il respiro necessario per poter portare avanti l'indagine, però indubbiamente è un tema rilevante, che forse sarebbe opportuno chiarire.

  MASSIMO CERVELLINI. La ringrazio, presidente Bianco, innanzitutto per la sua disponibilità. Lei sostiene che vi fosse un'autonomia di giudizio del gruppo di comando delle Brigate Rosse. Contemporaneamente, non esclude infiltrazioni di servizi stranieri e dà un giudizio di impreparazione e inadeguatezza riguardo ai nostri servizi. Questo suo giudizio di irrilevanza della presenza cogente dei servizi stranieri si conferma anche di fronte al fatto che, pur nello stato di confusione dei nostri, lei nel caso di Stefano Delle Chiaie aveva avvertito un elemento di collegamento, persino di copertura. Se questa presenza, nella confusione, riguardava anche altri personaggi importanti nelle vicende di cui stiamo parlando, perché si è comunque fatto un'idea di ininfluenza, sostanzialmente, della presenza dei servizi stranieri sul gruppo dirigente delle BR, non avendo la possibilità di un giudizio rispetto ai nostri servizi, che erano in uno stato sostanziale di confusione ?

  GERARDO BIANCO. Il problema è questo. Io parto da una considerazione: le Brigate Rosse elaborano una «teoria» politica. Le Brigate Rosse sono dentro la vicenda politica italiana, per dare una risposta a una democrazia che ritengono da superare e distruggere per realizzare un ordine diverso. Quindi, c’è una cultura che è legata anche a un filone teorico e filosofico. Da questo punto di vista, gli aderenti alle Brigate Rosse sono dei «rivoluzionari» che vogliono instaurare in Italia una sorta di democrazia che è quella che loro ritenevano essere la democrazia autentica, vera, cioè una democrazia di stampo comunista. Quindi, è lì la loro cultura.
  Siccome le Brigate Rosse adottano le tecniche terroristiche come criterio di rovesciamento dello Stato democratico, tali tecniche terroristiche sono non soltanto immaginate, ma anche esercitate dal punto di vista concreto. Lo fanno – questi sono elementi noti – non solo nei campi italiani, ma anche fuori, quindi hanno contatti.
  Mi permetto di dire anche che io ritengo che tutte le lettere di Moro siano autentiche. Lo dico adesso, ma l'ho dichiarato anche all'epoca, quando qualcuno parlò di lettere dettate e di un Moro che era ormai sotto una suggestione particolare, Pag. 21era plagiato, e quindi scriveva lettere improprie. La lettura delle lettere di Moro è, secondo me, un veicolo importante per capire alcune cose. Quei richiami che lui fa, per esempio, al capitano che aveva rapporti con i palestinesi, hanno un punto di riferimento piuttosto chiaro. Nelle lettere di Moro si trovano parecchi spunti.
  Come ho detto prima, mi sento di ripetere che forse questa cosa va esplorata, cioè l'idea che l'ampiezza dell'attività terroristica delle Brigate Rosse, che erano venute in contatto con altri gruppi terroristici, possa aver portato anche a possibili contaminazioni e quindi anche a indirette strumentalizzazioni; è noto che tra terroristi si facevano dei favori reciproci (uso un'espressione piuttosto brutale e volgare). Questa esplorazione, secondo me, è per escludere, però sempre attenendosi ai fatti. Le ipotesi vanno fatte, ma per vedere se hanno una corrispondenza nei fatti. Questo è importante. Potrebbe non esserci alcuna corrispondenza nei fatti.
  Certo, tra le cose che rimangono inquietanti, anche per me, c’è la composizione del gruppo cosiddetto di contatto, di emergenza, formato da Cossiga, con dentro una serie di personaggi quasi tutti iscritti alla P2. Che Cossiga l'abbia fatto deliberatamente mi sentirei di escluderlo, non per un'amicizia politica o personale con Cossiga, ma perché può darsi benissimo, come spesso capita a chi ha fatto politica, che sia stato avvicinato dall'uno o dall'altro, gli sia stato detto che determinati soggetti fossero esperti e si sia creato un gruppo del genere. Forse sarebbe opportuno indagare per vedere concretamente cosa ha fatto questo gruppo in termini di proposte.
  La sensazione che ebbi come persona che era presente nelle vicende fu, anche in quel caso, di totale impreparazione. Basti pensare a come venivano fatti all'epoca i controlli. Non c'era ancora una cultura attrezzata per reggere questo impatto, che poi si è formata secondo me in maniera piuttosto cospicua dopo.
  Mi sono permesso di dire alcune cose perché, se la Commissione vuole sciogliere dei dubbi, alcuni sono questi; altri dubbi possono nascere dalla lettura attenta dei documenti che sono praticamente già a disposizione e forse anche da una lettura attenta delle lettere di Moro, perché in esse ci sono alcuni punti che suscitano degli interrogativi. Uno degli interrogativi è la richiesta di appello, per esempio, a quello che era stato un punto di contatto, il capitano che aveva rapporti con i palestinesi.

  PRESIDENTE. Il colonnello Giovannone.

  GERARDO BIANCO. Era un punto di contatto con i rappresentanti della Palestina, a cui Moro aveva dato anche un importante contributo per creare condizioni di rapporto particolare.

  STEFANO LUCIDI. Abbiamo già toccato alcuni temi che mi permetto soltanto di citare. Noto con positiva sorpresa il fatto che lei ha fatto spesso riferimento a un substrato culturale e intellettuale che in quegli anni sosteneva o comunque giustificava determinate azioni, anche terroristiche; un substrato culturale e intellettuale che, come sappiamo bene, anche nel corso degli ultimi venti anni, con i Presidenti che abbiamo avuto, è venuto a mancare. Quindi, questo sarebbe un tema di particolare importanza.
  Lei ha parlato di inadeguatezza dei servizi segreti. Un dubbio che ho sempre avuto è questo: se è vero che i servizi segreti erano inadeguati o comunque lo era la risposta dello Stato a livello tecnico, viene da presupporre che anche l'azione terroristica, in qualche misura, fosse inadeguata, proprio perché figlia di quel tempo. La domanda è: per sua esperienza, c'era un livello di inadeguatezza anche nelle azioni terroristiche o stragiste, che possa far presupporre aiuti esterni nei vari episodi che si sono succeduti nel corso del tempo ?
  Inoltre, rispetto al dibattito interno e rispetto soprattutto alla figura di Cossiga, quali erano le posizioni ? Tutta la Democrazia Cristiana era solidale e compatta con la linea della fermezza e dell'intransigenza, Pag. 22oppure effettivamente c'era un dibattito interno forte, aspro, anche contro la figura predominante all'interno della Democrazia Cristiana, cioè Francesco Cossiga ?
  L'ultima domanda riguarda la Commissione in sé. Lei ci ha già detto che esistono degli aspetti a livello più investigativo, quindi rivolti verso i fatti, che però a distanza di molti anni risultano sicuramente un po’ patinati. Ha senso investigare ancora e limitarsi esclusivamente ai fatti oppure noi dovremmo passare a un livello di accertamento di responsabilità anche politico ? Uno degli output di questa Commissione dovrebbe essere effettivamente un accertamento di responsabilità anche e soprattutto a livello politico ?

  GERARDO BIANCO. È chiaro che quel clima culturale che aveva identificato, a mio avviso sbagliando profondamente, lo Stato con un regime democratico cristiano era un clima culturale favorevole a chi diceva di voler fare la rivoluzione. È stato l'errore concettuale di quei teorici, peraltro molto omaggiati, ma secondo me poco avveduti, che quindi finivano per essere oggettivamente sostenitori o comunque «né con lo Stato né con le Brigate Rosse», in una neutralità che favoriva le Brigate Rosse. Quindi, una responsabilità – esprimo il mio giudizio – di questo tipo di cultura esiste.
  Non è un caso, però, che per fortuna su questo piano i grandi partiti costituzionali dissero «no». Questo vale sia per il Partito Comunista sia per la Democrazia Cristiana, più gli altri partiti. Ricordo, infatti, che anche altri partiti, compresi i partiti della destra, dissero «no».
  All'interno della Democrazia Cristiana un dibattito di posizioni contrapposte, dove si misurarono quelli che sostenevano il partito della fermezza con quelli che sostenevano il partito della trattativa, per quello che io ho registrato, non c’è mai stato. L'idea della fermezza fu un atteggiamento comune a tutti. Quello che esisteva, invece, era un tentativo di disarticolare il rapporto con le Brigate Rosse da trattativa sul piano politico a una trattativa di tipo personale, compreso il problema di pagare dei prezzi, delle tangenti, oppure non di dare un riconoscimento ma di pagare un prezzo con la concessione di una grazia o di altro, cioè tentativi di declassare la trattativa da trattativa tra Stato e forza politica a elemento di trattativa diverso, così come è avvenuto per altri casi. Nel momento in cui questa trattativa era portata, lo ripeto, a livello di Stato, credo che tutti abbiano detto «no».
  L'unica proposta, ultima, mediatrice fu quella di Fanfani, che voleva far consentire al Consiglio nazionale l'accordo per dare la grazia a una persona che era stata individuata in Paola Besuschio. La grazia, peraltro, secondo la testimonianza del procuratore capo dell'epoca De Matteo, era già pronta perché Leone era disponibile a firmare. Questo è in un libro intitolato Diario degli anni di piombo, dove ci sono degli elementi che possono essere anche recuperati (un libro un po’ fuori commercio, ma che forse è opportuno consultare).
  Venendo alla terza questione, personalmente ritengo questa Commissione utile, perché sono sorti troppi interrogativi ancora, comprese alcune strane dichiarazioni postume di chi dice: «Sapevamo dov'era Moro e ci fu impedito...». Secondo me, fare chiarezza sui fatti, non sulle ipotesi, è un dato importante per far luce laddove le inchieste finora non hanno chiarito.
  Questa Commissione, secondo me, è utilissima per accertare i fatti. Poi c’è il giudizio storico, e quella è un'altra questione che procede indipendentemente. Già ce ne sono alcuni in circolazione, taluni accettabili, altri no.

  STEFANO LUCIDI. Non mi è chiaro un passaggio del suo discorso. Noi stiamo parlando di uno degli episodi politici più drammatici e importanti della storia della Repubblica, in cui una formazione politica e di governo assume una posizione di importanza decisiva. Però lei ci ha anche detto che, a quattro ore dal rapimento Moro, quella posizione era già formata.
  Le chiedo: le sembra possibile che, con riferimento a uno degli avvenimenti più Pag. 23importanti della storia della Repubblica italiana, una delle posizioni politiche di tale rilevanza possa essersi formata in quattro ore ?

  GERARDO BIANCO. Si formò perché apparve immediatamente chiarissimo il dato che era una sfida allo Stato e che quindi la risposta doveva essere forte: «Non ci pieghiamo al ricatto». Non si poteva aspettare. Come ho ricordato, i giornali dettero notizia di uno Zaccagnini terreo, vacillante, sconvolto, che prese la parola e fece la dichiarazione che ho ricordato.
  Era inevitabile che si rispondesse subito, perché se ci fosse stata appena un'incertezza sarebbe praticamente finita la forza di dire di no. Fu concordato, perché l'atteggiamento di fermezza nasceva dalle decisioni dei partiti e fu una decisione che, come ho detto, fu assunta contemporaneamente anche dal Partito Comunista, che non a caso cambiò la sua posizione: si stava orientando verso il voto di astensione perché insoddisfatto della composizione del Governo e decise di votare a favore sulla base di un no secco. Questo è il punto, quindi la risposta non poteva che essere immediata. Aggiungo e ripeto che all'epoca si sparse la voce che a dire «no» fosse stata anche la famiglia, che poi smentì questo diniego. All'epoca – l'onorevole Garofani lo ricorderà – il capo dell'ufficio stampa Cavina dette notizia che la famiglia aveva respinto il ricatto. La famiglia, dopo la dichiarazione, smentì per cui il povero Zaccagnini si trovò ad aver detto nel suo discorso che anche la famiglia Moro era d'accordo. Però poi la linea fu quella e non fu cambiata.

  PRESIDENTE. Ringrazio l'onorevole Bianco per la disponibilità e anche per averci dato la dimensione del termine di ore che ci servono per approfondire il tema.
  Mi permetto di ringraziarlo per averci trasmesso alcuni spunti che credo terremo a memoria: la sensazione di contesto di un Paese che era spaesato, come erano spaesate le forze dell'ordine, i servizi segreti e la politica, perché l'antiterrorismo nasce realmente in quei momenti; la considerazione di servizi – poi possiamo valutarli come riteniamo – che diedero una risposta inadeguata; la convinzione di un'autonomia decisionale delle BR, collocata anche in un contesto culturale, non escludendo contiguità o permeabilità con ciò che era a latere anche in Paesi stranieri; un approfondimento di storia politica (dopo sole quattro ore, Zaccagnini riesce a prendere una decisione, perché il periodo non era simile a quello attuale; molto probabilmente il momento, con i morti che c'erano, richiedeva quel tipo di reazione, e poi approfondiremo se il dibattito c’è stato oppure no); infine, due linee investigative: Firenze e Senzani, e le lettere di Moro con riferimento esplicito al colonnello Giovannone.
  Lo ringraziamo per questi indirizzi.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 16.