XVII Legislatura

III Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 6 di Martedì 29 ottobre 2013

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Bergamini Deborah , Presidente ... 2 

Audizione del viceministro degli affari esteri, Marta Dassù, sugli orientamenti della politica estera e di sicurezza dell'Unione europea (ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del Regolamento):
Bergamini Deborah , Presidente ... 2 
Dassù Marta , Viceministro degli affari esteri ... 2 
Bergamini Deborah , Presidente ... 2 
Dassù Marta , Viceministro degli affari esteri ... 2 
Bergamini Deborah , Presidente ... 6 
Amendola Vincenzo (PD)  ... 6 
Bergamini Deborah , Presidente ... 7 
Scotto Arturo (SEL)  ... 7 
Cassano Franco (PD)  ... 7 
Cimbro Eleonora (PD)  ... 7 
Bergamini Deborah , Presidente ... 8 
Dassù Marta , Viceministro degli affari esteri ... 8 
Bergamini Deborah , Presidente ... 10 

ALLEGATO: Documento consegnato dal viceministro degli affari esteri, Marta Dassù ... 11

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: PdL;
Scelta Civica per l'Italia: SCpI;
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Lega Nord e Autonomie: LNA;
Fratelli d'Italia: FdI;
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero-Alleanza per l'Italia: Misto-MAIE-ApI;
Misto-Centro Democratico: Misto-CD;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI.

Testo del resoconto stenografico
Pag. 2

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DEBORAH BERGAMINI

  La seduta comincia alle 14.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
  (Così rimane stabilito).

Audizione del viceministro degli affari esteri, Marta Dassù, sugli orientamenti della politica estera e di sicurezza dell'Unione europea.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del viceministro degli affari esteri, Marta Dassù, sugli orientamenti di politica estera e di sicurezza dell'Unione europea.
  Ringrazio Marta Dassù per aver accettato il nostro invito. Il viceministro condivide l'esigenza, che abbiamo più volte fatto presente, di cercare di rafforzare il rapporto fra Governo e Parlamento su questa materia. Spero davvero che possa instaurarsi una periodicità, sulla quale stiamo lavorando e ci siamo sentite, nelle audizioni sulla politica estera europea che permetta al nostro Comitato di lavorare in parallelo e in piena sintonia con i lavori dell'Unione europea.
  Avverto che il viceministro ha consegnato un testo scritto del quale autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato).
  Do quindi la parola al viceministro Dassù per svolgere il suo intervento.

  MARTA DASSÙ, Viceministro degli affari esteri. Grazie mille onorevole Bergamini e grazie alle persone che sono qui oggi, in questo assolato pomeriggio di fine ottobre. Ho lasciato una relazione scritta per non infliggerne la lettura. Ci vediamo sempre su dossier specifici, ma oggi vorrei discutere in modo un po’ più ampio su quello che pensiamo della politica estera europea e del modo in cui l'Italia può contribuire a una politica estera europea più efficace e alle grandi sfide di oggi.
  Non so se questa sia un'audizione fra molte o se abbiate già discusso di politica estera europea.

  PRESIDENTE. Ci siamo visti due volte, ma su contingenze legate a scadenze che avevamo. Questo è l'avvio di un lavoro di riflessione che abbiamo concordato di dover fare tutti insieme.

  MARTA DASSÙ, Viceministro degli affari esteri. Bene. Prima di tutto si pone un problema concettuale, a cui dobbiamo cercare di rispondere. Si tratta di capire se esista una politica estera dell'Unione europea degna di questo nome o se semplicemente la politica estera dell'Unione europea sia la ventinovesima politica estera che vediamo in Europa.
  È un problema di definizione perché, come sapete, dal punto di vista istituzionale la politica estera è comune e non unica. Una politica unica, per esempio, è la politica commerciale, in cui l'Unione europea riceve dagli Stati membri il mandato negoziale e poi negozia a nome degli Stati membri. Quella estera e di sicurezza è, invece, una politica comune, in cui si Pag. 3decide per consenso. Il suo impianto istituzionale è, pertanto, per definizione, piuttosto debole.
  C’è poi un altro problema istituzionale importante. È vero, il Trattato di Lisbona ha rafforzato l'impianto, stabilendo la figura dell'Alto rappresentante per la politica estera – che è anche vicepresidente della Commissione – e soprattutto creando il Servizio europeo per l'azione esterna. È in corso un processo di revisione su cui potremmo lavorare come Commissione, perché verrà discusso dagli Stati membri in questi mesi. Tutto questo è vero, ma è anche vero che i ministri degli affari esteri in quanto tali hanno perso molto peso al tavolo di Bruxelles. È un problema che vediamo anche noi, come Commissione affari esteri, oltre che come Governo.
  Al Consiglio europeo partecipano i Capi di Stato e di Governo da soli e il Consiglio affari esteri è diventato un Consiglio a sé stante, con Lady Ashton come chair. Come risultato della riforma del sistema dei consigli, i ministri degli affari esteri non hanno più una voce tanto rilevante sul futuro dell'Europa in quanto tale.
  Questo è un grave problema, onestamente. Da una parte, esso riflette due tendenze indubbie, ossia lo spostamento del peso decisionale sulle scelte internazionali verso la Presidenza del Consiglio, il che è vero dovunque in Europa e anche in Italia e, dall'altra, il fatto che la politica europea sia ormai quella che i politologi definiscono una politica intermestic, ossia una politica intra-domestica, non una vera e propria politica estera.
  Resta il fatto che il peso specifico dei ministri degli affari esteri al tavolo dell'Europa si è ridotto. Un tema che potremmo discutere è, quindi, in che modo una Commissione come questa riesca comunque ad avere un peso e un'influenza nel dibattito europeo. Questo è un primo punto che mi sembra importante.
  Secondo tema, sempre da un punto di vista concettuale: l'Unione europea ha una strategia comune che, come sapete, è stata adottata diversi anni fa, nel 2003 – si tratta della cosiddetta «Strategia di Solana» – e che non è mai più stata aggiornata. Come Italia, insieme alla Svezia, abbiamo cercato di affermare che è difficile avere una politica estera senza avere un concetto, ossia una dottrina di politica estera. Per varie ragioni, però, questo esercizio di aggiornamento, che è difficile perché si tratta di ventotto Paesi, non è stato fatto.
  Rimaniamo, quindi, fondamentalmente con una strategia di politica estera piuttosto obsoleta, perché non è stata più aggiornata. Secondo me, questo sarebbe un lavoro importante da fare e che potremmo anche cercare di fare insieme. C’è bisogno di una strategia up-to-date, che tenga conto di quello che è successo in questi ultimi anni.
  Un terzo punto che mi sembra molto importante è il seguente: l'unica politica estera dell'Europa che ha funzionato certamente è l'allargamento. Dal 2004 in poi l'Europa è riuscita a esportare democrazia e standard comuni in una serie di Paesi ai suoi confini, particolarmente quelli dell'Europa centro-orientale.
  Nonostante si parli in continuazione di enlargement fatigue, ossia di fatica per l'allargamento, la realtà è che questo potere morbido, questo soft power di attrazione verso l'Europa per Paesi più lenti economicamente e non modernizzati sul piano delle strutture amministrative, rimane un obiettivo valido. È appena uscito il Rapporto sull'allargamento. Non so se l'avete visto, ma in gennaio si terrà molto probabilmente (vedremo l'andamento delle elezioni in Kosovo) l'inizio dei negoziati di associazione con la Serbia. Col Kosovo ci sarà un accordo di stabilità e di associazione. Se io dovessi indicare dove ha funzionato la politica estera dell'Unione europea, direi che ha certamente funzionato in questi ultimi anni verso l'ex Europa orientale, verso i Balcani.
  Il problema è che, quando l'Unione europea non è in grado di offrire la membership, la sua politica estera è molto meno efficace. Lo vediamo, per esempio, per tutto ciò che riguarda il Mediterraneo. Nel Mediterraneo, dove l'Unione europea non offre la prospettiva della membership, Pag. 4perché la politica di vicinato non è una politica che prevede l'ingresso nell'Unione europea, la politica estera europea non funziona. Possiamo girare intorno quanto vogliamo a questa vicenda Europa-Mediterraneo ma, senza tema di smentite particolari, direi che non funziona.
  Non funziona perché l'Unione per il Mediterraneo, l'impianto istituzionale che si trova e governa questa regione semplicemente non ha un impatto vero. Non funziona perché esistono divisioni fra i grandi Paesi membri. Nella politica estera europea esistono alcuni Stati che sono più uguali degli altri. Sono gli Stati che prima di tutto siedono nel Consiglio di sicurezza e che conservano le vestigia di una «potenza» in politica estera.
  Nel Mediterraneo, Francia, Gran Bretagna e Germania hanno posizioni diverse. Abbiamo visto, per esempio, caso tipico e clamoroso, la guerra in Libia, con l'astensione della Germania in Consiglio di sicurezza, una scelta di politica estera che sarebbe molto interessante discutere.
  L'Italia avrebbe gli oneri e gli onori di essere il Paese più vicino e coinvolto, ma in realtà è la grande discussione da fare, non riesce a esercitare il suo peso nel Mediterraneo per mille e una ragioni, che vanno dalla scarsa continuità del Governo e, quindi, della politica interna, alla riduzione dei fondi per la politica estera. Questo è un grande tema: non abbiamo risorse sufficienti nella proiezione internazionale.
  Il punto da discutere è il seguente: dobbiamo rassegnarci al fatto che l'Unione europea sia in grado di avere un'influenza internazionale solo quando promette la membership o dobbiamo pensare che possa avere una politica estera più efficace, ma modificandola, perché quella che c’è non funziona ?
  Vi ho detto che non funziona nel Mediterraneo. A mio modo di vedere, l'emigrazione è una parte del problema, ma non è l'unico. La politica estera europea funziona relativamente, verso lo spazio fra le nuove frontiere orientali e la Russia. È uno spazio geopolitico molto importante innanzitutto per le questioni energetiche.
  A fine novembre si terrà il vertice di Vilnius e si porrà il grande problema di che fare con l'Ucraina. Il problema per l'Italia, per esempio, è come conciliare gli interessi che abbiamo con la Russia, che sono sostanziali sia economicamente, sia dal punto di vista energetico, con quelli verso nuovi Paesi che avranno nei prossimi dieci anni un grosso peso. Mi riferisco ad Azerbaigian, Ucraina, Moldova e Georgia. C’è tutto uno spazio fra l'Europa e la Russia che deve trovare una sua collocazione e su cui l'Europa non ha, anche in questo caso, una linea particolarmente unitaria.
  Questa è l'Europa con i suoi confini. L'Italia riflette piuttosto bene, secondo me, la geopolitica dell'Europa. Siamo veramente una nuova frontiera. C’è una sorta di mezzaluna di instabilità ai nostri confini, dai Balcani verso la Russia e poi dal Medioriente fino al Marocco che individua anche le frontiere sensibili dell'Europa. Tutto sommato, i punti di forza e di debolezza dell'Italia riflettono le debolezze complessive dell'Unione europea, incluse quelle finanziarie. Come sappiamo benissimo, l'UE nel suo insieme destina troppo pochi soldi al bilancio dell'azione esterna.
  Passo all'ultimo punto. Questa è la geopolitica delle aree vicine, ma l'Europa ha anche di fronte a se alcune sfide globali. Fondamentalmente, direi che l'Europa deve diventare credibile, per essere un attore internazionale, su tre punti, che devono avere una traduzione istituzionale. Cerco di esporli molto in fretta.
  Il primo è l'energia, che rappresenta ormai un grosso capitolo della politica estera. Io credo che l'energia, non solo per l'Italia – un Paese che dipende per l'80 per cento da fonti estere – ma in genere per l'Europa, sia diventata un elemento essenziale, perché è una componente decisiva della nostra scarsa competitività industriale.
  Come risultato della rivoluzione energetica americana – tight oil, shale gas – esiste un divario di prezzo energetico fra Stati Uniti ed Europa molto forte, di uno a tre circa. Questo sta già generando un effetto di reshoring, con uno spostamento Pag. 5di una parte della nostra industria energy intensive, l'industria chimica per esempio, verso gli Stati Uniti. Dobbiamo riuscire a ridurre assolutamente il prezzo dell'energia anche per ragioni economiche e di competitività.
  Questa, d'altra parte, non è solo una questione di politica industriale o energetica, ma implica accordi con i grandi fornitori esterni, come la Russia e l'Azerbaigian. Avete seguito la vicenda del Trans Adriatic Pipeline (Tap), la state seguendo. Quanto agli Emirati Arabi, sarebbe molto interessante fare una discussione sulla nuova geopolitica dei fornitori energetici, che sta cambiando.
  Per esempio, il grande screzio tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla Siria è anche figlio di questa nuova geopolitica dell'energia, dal momento in cui l'Arabia Saudita non solo era un grande fornitore dell'America, ma era anche, ed è tuttora, un grande rivale energetico della Russia. Il fatto che gli Stati Uniti abbiano potuto fare un accordo con la Russia sulla Siria e sulle armi chimiche è per l'Arabia Saudita, aldilà dello scontro sunniti/sciiti, un grande problema.
  Nella geopolitica dell'energia ci sarebbe in teoria la necessità che l'Unione europea abbia una politica comune esterna di negoziato con i grandi fornitori, cosa che non è. Ci dividiamo ogni volta che c’è un problema di accordo con la Russia, su South Stream e North Stream. Ci siamo divisi sul Tap, sul gasdotto dall'Azerbaijan, con tutto il fronte dei Paesi nordici che, invece, promuoveva Nabucco West.
  Il secondo capitolo è il trade. Il trade è altrettanto importante, io credo. Si può essere believers or not del libero scambio come fonte di crescita, ma io ritengo che per un Paese come il nostro, che ha la domanda interna sottoterra, esso sia davvero importante. Sul trade è interessante osservare come sia finita l'epoca del grande negoziato globale. L'agenda di Doha è in uno stallo totale ed è difficile pensare che possa risollevarsi, ma stiamo firmando una quantità – voi li vedete passare da qui – di accordi bilaterali e multilaterali. È un grande tema per l'Unione europea.
  Come vi dicevo prima, questa è una single policy, non una politica comune: gli Stati membri danno mandato al Commissario del commercio, che poi negozia. Il problema è riuscire, io credo, a esercitare un monitoring. Noi vogliamo, come Italia, sapere come sta negoziando il nostro negoziatore europeo prima che l'accordo sia concluso.
  Oltre a energia e trade, c’è, per i Paesi come il nostro che sono aree di frontiera, una politica che chiameremmo di sviluppo o che chiamavamo di cooperazione allo sviluppo. Possiamo chiamarla come vogliamo, ma non c’è dubbio che abbiamo l'enorme problema di riuscire a far crescere queste aree di instabilità e di conflitto ai nostri confini, da cui poi derivano i flussi migratori.
  La questione è molto complicata, non c’è dubbio. Siamo in una situazione in cui c’è una riduzione dei fondi europei molto notevole e non solo. Secondo me, il vero problema nato sulla cooperazione allo sviluppo dell'Europa – l'Europa, ricordiamocelo, è comunque sempre il principale donatore del mondo – è che le sue condizionalità, i criteri che noi abbiamo sempre applicato per fare rispettare le condizioni a cui concedevamo aiuti a questi Paesi, sono stati completamente scavalcati dai soldi facili dei nuovi attori finanziari, dal Qatar alla Cina.
  Il peso che questi Paesi esercitano, per esempio in Egitto, è enormemente superiore al nostro. La rapidità con cui possono erogare fondi senza alcuna delle condizioni che a noi interessano, come la partecipazione democratica, ha spiazzato, io credo, la politica di cooperazione allo sviluppo dell'Unione europea.
  Energia, commercio e cooperazione allo sviluppo sono, a mio avviso, i tre grandi ingredienti di una posizione internazionale forte dell'Europa nel mondo. Naturalmente, per avere efficacia essi dovrebbero essere inseriti in un sistema coerente. Tutti gli strumenti dell'Azione esterna dell'Unione europea dovrebbero Pag. 6agire coerentemente. Dovrebbe esserci una coerenza di azione e soprattutto l'Europa dovrebbe finalmente decidersi ad avere la famosa posizione più unitaria nei grandi organismi internazionali che ancora contano, a cominciare dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca mondiale.
  Questo però, come sapete, è sempre molto difficile. Non solo nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il che è più evidente, ma anche nei grandi organismi economici internazionali la mia impressione è che, fino a quando non ci sarà questa coerenza fra le politiche e fra gli attori, l'Europa continuerà a contare meno di quanto dovrebbe e si meriterebbe.

  PRESIDENTE. Ringrazio il Viceministro Dassù.
  Do la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  VINCENZO AMENDOLA. Grazie presidente. Vorrei chiedere innanzitutto, dato che la viceministro ci consegna una relazione, se essa potesse essere inserita anche negli atti dell'indagine conoscitiva che stiamo conducendo proprio sulla vocazione geopolitica dell'Italia. Non solo condivido i temi, ma credo che questi siano capitoli fondamentali per il lavoro della Commissione di indagine.
  Nel sottolineare i tre capitoli, vorrei porre una domanda al viceministro anche per le sue competenze e il suo lavoro sulla politica estera russa. Noi veniamo da una delegazione dell'OSCE che ha monitorato le ultime elezioni presidenziali in Georgia, dove c’è anche un problema territoriale, con l'occupazione ancora dell'Abkhazia e dell'Ossezia. Parlando anche con molti esperti e con molte personalità politiche, sia della Black Sea Area, sia del mondo del Caucaso, nonché vedendo i dossier mediorientali, abbiamo la sensazione che la politica estera russa negli ultimi due anni abbia riacquistato una forza di intervento.
  Noi eravamo abituati un po’ a quello che, tra fine anni Novanta e inizio di questo secolo, era – non vorrei usare l'espressione «un gigante addormentato» – comunque un soggetto che aderiva al consenso generale. Sembra, invece, che negli ultimi dossier, negli ultimi due anni, in aree strategiche, con riferimento ai capitoli che lei citava, energia, commercio e cooperazione allo sviluppo, la Russia abbia assunto un attivismo.
  Noi abbiamo avuto qui un incontro col presidente della Commissione affari esteri del Parlamento russo. Io credo che la forza di questo Paese sullo scenario internazionale sia molto cambiata. Volevo conoscere il suo parere, perché ritengo che l'Europa, un po’ perché prevale a volte la visione mercantilista, assecondi questa situazione. Non pongo alcun pregiudizio verso la Russia e la sua politica estera, ma credo che andrebbero discusse alcune posizioni che la Russia ha su alcune aree fondamentali dello scacchiere di cui stiamo discutendo.
  La seconda domanda è relativa, invece, all'Unione del Mediterraneo. Purtroppo, noi ci stiamo avvitando negli stereotipi. Lei ha giustamente spiegato questo aspetto, come ha fatto anche il Ministro Bonino nelle audizioni. Vengo più allo specifico per evitare di volare sempre nello stereotipo del dovere e diritto dell'Unione europea e porto un esempio.
  Parlo di Sigonella. Sembra che la Sicilia stia diventando uno dei luoghi fondamentali non solo per le tragedie umanitarie che viviamo, come quelle di Lampedusa, ma anche per avere un osservatorio sulle crisi. Non sarebbe il caso, anche in vista della nostra indagine conoscitiva sulla vocazione internazionale dell'Italia, di chiedere più Unione europea per le crisi, come nella vicenda dei 366 morti di Lampedusa, ma anche di avere una maggiore ambizione ?
  Non dobbiamo vergognarcene. A volte sembra che quella di Sigonella sia una base dove non sappiamo che cosa succede. Ci sono forze alleate in quello scenario. Forse l'Italia dovrebbe pretendere di avere il comando non dico militare, ma politico sulla nostra funzione nel Mediterraneo.
  Purtroppo, come dice lei, noi siamo sul confine. Forse, invece di parlare sottovoce – non mi riferisco ovviamente al Governo Pag. 7in carica, ma a una tradizione degli ultimi anni – noi dovremmo, anche in sede di Unione europea, pretendere, per interventi come quelli di Sigonella o per le presenze di intelligence e di analisi su scenari drammatici come quello della Libia, di ricoprire una funzione quasi di Paese ospitante.
  Per evitare di stare sempre nel generico e nello stereotipo, ci accorgiamo che, invece, da Sigonella partono interventi che io reputo giustissimi e utilissimi in uno scenario, come quello della Libia, per esempio, dove c’è il rischio di una nuova Somalia.
  Queste erano le mie due domande. Ripeto, secondo me sarebbe utile acquisire la sua relazione, visto anche quello che ha detto nell'intervento, agli atti dell'indagine conoscitiva sulla proiezione dell'Italia e dell'Europa nei nuovi scenari geopolitici.

  PRESIDENTE. Grazie. Penso sia un'ottima idea e, quindi, procederemo in questo senso.
  Ci sono altri due colleghi iscritti a parlare. Do loro la possibilità di intervenire. Poi il viceministro potrà rispondere e, se ci saranno altre domande, le formuleremo successivamente.

  ARTURO SCOTTO. Molto rapidamente, ho apprezzato molto la relazione del viceministro per la sincerità, l'asciuttezza e, allo stesso tempo, anche la capacità di scavare su alcuni argomenti estremamente interessanti. Voglio fare due domande, riallacciandomi anche alle considerazioni del collega Amendola.
  Lei prima ha detto che l'Unione per il Mediterraneo promossa da Nicolas Sarkozy si è sostanzialmente arenata. Dalla lettura dei documenti, tra cui lo stesso discorso del Presidente Sarkozy, essa era apparsa come una grande occasione di ripresa di dialogo e di ponti commerciali, economici e politici.
  Allo stesso tempo, lei ha aggiunto che la difficoltà di esercitare lo stesso ruolo che l'Italia e l'Europa hanno esercitato per la stabilizzazione dei Balcani è dovuta all'impossibilità di offrire una membership. La domanda che le pongo è: come si riesce a reintervenire rilanciando questo processo e superando anche il tema della membership ?
  In secondo luogo, il Presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, qualche giorno fa, a proposito del secondo asse che lei indicava, quello del trade, ha chiesto, all'indomani delle rivelazioni – le leggiamo ogni giorno sui giornali, il Copasir sta facendo moltissime audizioni, c’è una discussione che attraversa tutte le cancellerie europee – la sospensione dei negoziati sull'accordo transatlantico. L'Italia su questo punto non si è ancora espressa, o comunque la sua voce non è stata particolarmente visibile.
  Volevo chiederle la sua opinione su questo punto, che io reputo non un atto di ostilità nei confronti degli Stati Uniti d'America, perché sarebbe un errore, ma comunque un giusto atto di cautela in un momento tanto drammatico anche sul terreno delle relazioni.

  FRANCO CASSANO. Mi limito a una domanda, perché buona parte dei problemi che mi stavano a cuore è già stata anticipata dagli altri due interventi.
  È stato fatto il nome di Sigonella, che mi evoca un'altra occasione. La domanda è la seguente: anche in direzione delle tre linee di lavoro che lei prospettava, in una situazione quale quella che ha citato all'inizio della politica estera europea, che margine di conflitto è consentito a un'iniziativa relativamente autonoma dell'Italia in politica estera ? Qual è la soglia che non si può superare ? Noi abbiamo esplorato tutto lo spazio che precede, oppure questa soglia è tanto bassa che non ci poniamo più il problema ?

  ELEONORA CIMBRO. Ho avuto modo di leggere una proposta di risoluzione del Parlamento europeo, discussa e poi votata il 15 ottobre a Strasburgo, che riguarda la politica estera e di sicurezza europea. Chiedo la possibilità al presidente del Comitato di analizzare questo testo, perché mi sembra molto interessante.
  In tale testo tutti i limiti che sono stati evidenziati dal viceministro vengono affrontati Pag. 8e analizzati nello specifico. Sono compresi capitoli che riguardano i seguenti temi: bilanciare gli interessi e i valori in una nuova politica estera dell'Unione europea, costruire un nuovo approccio globale alla politica estera dell'Unione europea – un altro degli aspetti che forse sono mancati – garantire la guida e la coerenza nella politica estera dell'Unione europea e coniugare gli obiettivi alle risorse adeguate. Per ogni capitolo ci sono, secondo me, alcune declinazioni molto interessanti, sulle quali si potrebbe fare un approfondimento. Eventualmente si potrebbero recepire i contenuti di questa proposta di risoluzione.
  A me interessa capire qual è la sua opinione rispetto a uno dei punti più critici che riguarda, nello specifico, il rapporto tra politica estera e politica di difesa comune. In merito è stato evidenziato, per esempio, il ritardo tra il momento delle decisioni politiche prese dai singoli Stati membri e quello dell'effettivo dispiegamento delle diverse missioni in campo. Si sono presi in considerazione i casi della Libia e del Mali quali esempi eclatanti di come anche la politica estera di difesa comune non sia riuscita a intervenire prontamente.
  Volevo sapere anche da lei se ritiene che questo sia uno degli aspetti che forse andrebbero rivisti.

  PRESIDENTE. Do la parola al viceministro Dassù per la replica.

  MARTA DASSÙ, Viceministro degli affari esteri. Grazie infinite. Avete sollevato spunti molto interessanti, di cui assolutamente tenere conto.
  La Russia è un grande tema per noi. Con la Russia abbiamo uno storico rapporto, dovuto certamente all'aspetto energetico, ma non solo. Il 26 novembre si terrà il vertice bilaterale italo-russo a Trieste. Stiamo cercando di rilanciare il foro di dialogo delle società civili, aspetto critico.
  Riagganciandomi al tema di quanto spazio di autonomia abbia l'Italia rispetto ai suoi alleati tradizionali, in particolare gli Stati Uniti, rilevo che abbiamo cercato di giocare una «carta russa» sulla Siria, naturalmente in accordo con Washington. Da questo punto di vista, Emma Bonino ha giocato di anticipo. Ed ha avuto ragione.
  D'altra parte è un momento difficile nelle relazioni internazionali. La Russia è un caso tipico di quelli che potremmo definire Paesi neosovranisti, cioè Paesi che hanno riscoperto, come l'onorevole Amendola sosteneva giustamente, il senso della loro forza comparativa in politica estera, forza che poi la Russia esercita fondamentalmente oggi verso il Medio Oriente e il suo cosiddetto vicinato estero.
  In questo neosovranismo rientra una fortissima sensibilità di tipo politico. Oggi ciascuno di noi può dire su Obama quello che pensa davvero, in open air, perché, nonostante il Datagate, l'America è una grande democrazia. Se io affermo qui, come viceministro, che Obama ha sbagliato nella sua gestione della crisi siriana, non mi succede nulla nei miei rapporti con gli Stati Uniti e posso partecipare ai prossimi tre vertici senza alcun problema.
  Ci sono, invece, Paesi che non sono compiutamente democratici.
  Questo aspetto va capito. È difficile in questo momento fare politica estera anche per questo motivo, perché questo vento neosovranista, che sembrava un po’ travolto dalla grande fase di sviluppo della globalizzazione, ha ripreso molto piede.
  La Russia ha vinto una grande battaglia diplomatica in Siria, perché Lavrov, il suo Ministro degli affari esteri, è stato molto abile. Tutto sommato, però, io non credo che la Russia, nonostante questo coming back siriano e l'influenza con cui sta giocando le sue carte verso il suo vicinato estero, abbia una sufficiente forza di attrazione. In tutta la discussione in corso fra l'Europa e la Russia sulle prospettive da offrire all'Ucraina, alla Moldavia e alla Georgia, la Russia sta giocando le sue carte. Detto tutto questo, però, io credo che la Russia non abbia alle spalle un Paese sufficientemente forte per poter ambire a un ruolo da grande potenza globale. Ha un ruolo regionale molto importante, Pag. 9in particolare in Siria, per i legami storici, e nel vicino estero, ma ha fragilità interne economiche e demografiche ancora predominanti, secondo me.
  Da un certo punto di vista questo offre anche alcune opportunità all'Europa. Non c’è dubbio che il problema della partnership per la modernizzazione economica – con riferimento soprattutto alla tecnologia – sia per la Russia un grosso problema, che non può essere risolto guardando alla Cina. Per ragioni di vario tipo la Russia e la Cina hanno un rapporto molto complicato. Per esempio, sul piano demografico c’è una sorta di invasione cinese di tutto lo spazio siberiano, ma la Cina non ha ancora il livello tecnologico che possa supplire ai gap della Russia.
  La politica estera comincia a casa. Le basi interne della politica estera sono assolutamente decisive. Poi è chiaro che uno deve avere gli strumenti e le idee, ma se un Paese è internamente fragile e debole, e la Russia lo è ancora, secondo me non potrà giocare un ruolo globale così rilevante.
  Sul Mediterraneo e su come avere una politica che funzioni di più io non credo che la membership, l'allargamento, sia una vera opzione. Potremmo vedere l'Europa in modo del tutto diverso, cioè tornare alla teoria dello spazio e della potenza. Potremmo dire che l'Europa si struttura per tier, per cerchi concentrici. C’è uno spazio integrato, fatto di mercato interno, di rapporti di diverso genere e di liberalizzazione dei visti, ragion per cui potremmo essere molto più netti anche verso il Mediterraneo in quel senso. Tuttavia, ciò è molto controverso, in particolare per i temi migratori. Io non credo che ce la faremo.
  La Turchia è la cartina di tornasole di questo aspetto. È vero che abbiamo riaperto un capitolo, che abbiamo ricominciato a trattare con la Turchia, ma resta difficile che essa possa entrare – evento auspicato dall'Italia – in tempi rapidi nell'Unione europea.
  Dobbiamo partire da altre idee e io credo che sia veramente complicato farlo, perché in questi anni in fondo l'equilibrio di quella regione, dalle cosiddette primavere arabe – un termine veramente sbagliato – in poi, è stato dominato in larga misura dallo scontro regionale fra l'Arabia Saudita e l'Iran.
  Un grande fattore di cambiamento potrebbe essere il ridimensionamento relativo dell'Arabia Saudita, che è in corso, e il recupero relativo dell'Iran. Questo altererebbe gli equilibri. È una delle scelte che ha fatto l'Italia, attraverso il Ministro Emma Bonino, con l'invio del viceministro Pistelli ai primi di agosto e la decisione di scommettere, questo almeno in linea di principio, sul corso di Rohani. Bisogna, però, che le cose vadano bene. Quello sarebbe un grande cambiamento, perché modificherebbe il contesto in cui questa fascia di Paesi si muove.
  Ci sono poi le grandi difficoltà della Libia. In merito io credo che noi abbiamo giocato di rimessa, sbagliando. Avremmo dovuto – molti di voi l'hanno detto giustamente – avere una posizione più profilata. Siamo stati presi un po’ di contropiede, di sorpresa.
  La situazione attuale è veramente difficile da gestire. La crisi della Somalia c’è già, purtroppo. In Libia il buco nero di Misurata è la fonte dei nostri problemi migratori. Rimettere insieme una cosa che possiamo chiamare Libia è veramente molto difficile. Noi abbiamo assunto un ruolo primario, cioè ci siamo presi sulle nostre spalle il carico di riuscire a rimettere a posto la situazione.
  Io credo che per la Libia ci vorrebbe una sorta di Piano europeo o transatlantico, una sorta di grande Action plan, perché la Libia rischia davvero moltissimo. Si rischia moltissimo nel retroterra della Libia, perché tutta l'instabilità che abbiamo visto nella fascia del Sahel in realtà è anche figlia della disgregazione libica.
  Su Martin Schulz e l'idea di far dipendere il TTIP, ossia il Trattato sugli investimenti e sul commercio con gli Stati Uniti, dalla questione Datagate io non sono d'accordo e neanche il Governo italiano lo è. Enrico Letta ha già parlato al Consiglio Pag. 10europeo nel senso di tenere separati i due tavoli. Anche la Germania li vuole tenere separati.
  Io non sono d'accordo per due ragioni. La prima è che credo che il caso Snowden e tutte le questioni che sono venute fuori produrranno un cambiamento di politica degli Stati Uniti. Penso che per il presente e per il futuro, come si è detto, le cose cambieranno in modo molto positivo e radicale in materia di data protection.
  Il secondo motivo è che io credo che il TTIP sia nel nostro interesse. La questione è valutare i costi e i benefici dell'accordo commerciale. Naturalmente, come in tutti gli accordi commerciali, ci sono settori beneficiati maggiormente e altri meno, ma gli studi che abbiamo fatto noi, e che una volta potremmo anche discutere con voi, indicano che per l'Italia i benefici sono superiori ai costi.
  Infine, gli spazi di azione sono, secondo me, molto aumentati. La politica estera ha vincoli interni, in un caso come l'Italia: non abbiamo stanziamenti sufficienti e non abbiamo continuità di Governo. Ne possiamo discutere, ma non si tratta più di vincoli esterni. Questo è un momento in cui, tutto sommato, le leadership di tutti i Paesi che contano sono fortemente orientate sui loro problemi interni. Obama è un presidente domestico. Anche concettualmente pensa che il nation building non si debba fare in Iraq, perché si è capito che non ci si riesce. Lo si deve fare in America.
  Questo lascia una grande spazio, che è uno spazio delle idee e con questo vorrei arrivare al mio punto finale. Prima avevamo un vincolo esterno e lo usavamo nel senso al quale si alludeva, ossia ci faceva comodo che l'America pagasse la nostra sicurezza, in un mondo diviso in due, perché noi ci concentravano sulla crescita economica. Abbiamo sempre speso pochissimo per la difesa perché eravamo garantiti dal contesto esterno, dagli Stati Uniti. Oggi i problemi di sicurezza sono completamente cambiati. Non c’è più l'idea di un'aggressione convenzionale e tradizionale. Questo vincolo esterno si è enormemente ridotto, si è veramente abbassato. Oggi abbiamo la libertà di stipulare coalizioni diverse, più flessibili, più mobili. Il gioco internazionale è davvero a geometria variabile.
  Le idee contano, perché su di esse si riescono a costruire coalizioni. Lo sforzo che stiamo facendo, e da questo punto di vista Emma Bonino è un Ministro degli affari esteri molto adatto ai tempi, è quello di avere idee solide. Poi però, e in questo senso la legge di stabilità non è di grandissimo aiuto, dobbiamo anche avere le risorse per metterle in atto.

  PRESIDENTE. Ringrazio il viceministro Dassù per il suo esauriente contributo.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 14.55.

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ALLEGATO

Audizione del Viceministro Marta Dassù sulla Politica Estera di Sicurezza Comune.

  Alla Politica Estera di Sicurezza Comune è dedicato l'intero Titolo V del Trattato sull'Unione Europea, che si apre affermando: «L'Azione dell'Unione sulla scena internazionale si fonda sui principi che ne hanno informato la creazione, lo sviluppo e l'allargamento e che essa si prefigge di promuovere nel resto del mondo: democrazia, Stato di diritto, universalità e indivisibilità dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, rispetto della dignità umana, principi di uguaglianza e solidarietà e rispetto dei principi della carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale».
  Più precisamente, ai sensi dell'articolo 24 del TUE, la PESC comprende tutti i settori della politica estera e tutte le questioni relative alla sicurezza dell'UE, inclusa la definizione progressiva di una politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC).
  Con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, si è tentato di rispondere all'esigenza di un ripensamento generale dell'impianto istituzionale dell'azione esterna dell'UE, nell'obiettivo di renderla più coerente e tempestiva per garantire un'azione europea coesa sulla scena internazionale.
  Le principali novità introdotte dal Trattato di Lisbona sono di natura istituzionale. Ha infatti previsto:
   1) L'istituzione della figura dell'Alto Rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, che è anche Vice Presidente della Commissione. L'AR guida la PESC e la PESD, contribuendo alla formazione di dette politiche e presiedendo quale mandatario la loro attuazione. L'attuazione della PESC avviene sotto la sua responsabilità. È una figura chiave nel nuovo sistema.
   2) Nell'esecuzione delle sue funzioni, l'Alto Rappresentante si avvale del Servizio europeo per l'azione esterna (SEAE), composto da funzionari dei servizi competenti del Segretariato generale del Consiglio e della Commissione e da personale distaccato dai servizi diplomatici nazionali.

  Il dato complessivo della presenza nel SEAE è di circa 100 funzionari (di cui 13 provenienti dalla carriera diplomatica, 3 da altre Amministrazioni ed i restanti dalle Istituzioni UE). La presenza italiana è la seconda per consistenza numerica, dietro soltanto alla Francia. Restringendo tuttavia l'ottica ai soli funzionari diplomatici, la nostra presenza si colloca su livelli inferiori a quelli di Francia, Regno Unito, e Germania.
  Per quanto riguarda la rete estera del SEAE, al termine della rotazione 2012, sono italiani 14 Capi Delegazione (di cui tre provenienti dalla carriera diplomatica: l'Ambasciatore Sequi a Tirana, l'Ambasciatore Zappia a Ginevra – Organizzazioni internazionali, l'Ambasciatore Fabrizi a Canberra).Pag. 12
  Per quanto riguarda la sede centrale del SEAE, sono italiani il Direttore Generale per la Risposta alle Crisi e il Coordinamento delle Operazioni (Agostino Miozzo), 2 Direttori (il Direttore per l'Europa occidentale, i Balcani e la Turchia, Ministro Plenipotenziario Fernando Gentilini ed il Direttore per l'Asia Meridionale ed il Sud-Est Asiatico, Ministro Plenipotenziario Ugo Astuto).
  Gli ultimi anni hanno visto sforzi organizzativi consistenti per dare vita a una singola rete diplomatica che dia peso reale e visibilità alle posizioni comuni nel mondo. Come era prevedibile, questo processo non è rapido perché si tratta di superare differenze burocratiche e perfino culturali, nonostante la lunga abitudine a collaborare sul piano diplomatico.
  Proprio a luglio l'Alto Rappresentante ha presentato un Rapporto di valutazione sui primi anni di operatività del SEAE con proposte di revisione (review) del Servizio che potranno essere attuate a partire dal 2014. Le principali proposte di riforme delineate nel Rapporto riguardano la struttura del Servizio (in particolare l'organigramma) e il suo funzionamento (in particolare le relazioni con le altre Istituzioni e specialmente con la Commissione).
  Sul piano più generale, secondo i Trattati, la politica estera e di sicurezza è «comune» (con decisioni prese all'unanimità dal Consiglio) e non «unica»: dunque, deve essere anzitutto compatibile con quelle nazionali che restano come una sorta di filone parallelo – quantomeno parallelo e anzi auspicabilmente complementare.
  PESC e PSDC sono state mantenute saldamente nella sfera intergovernativa: gli Stati membri rimangono in pieno controllo delle decisioni dell'Unione e possono condizionarne gli sviluppi. Detto ciò, non è corretto portare questa interpretazione alle sue più estreme conseguenze, facendo di queste politiche solo l'espressione di un «minimo comune denominatore» che accontenti tutti senza soddisfare nessuno.
  I critici della PESC affermano che la più efficace linea di politica estera europea sia stata legata al processo di allargamento dell'UE. La prospettiva stessa della membership produce incentivi positivi che rendono efficace il meccanismo della condizionalità – non solo nel senso più pressante del do ut des, ma anche di una vera moral suasion. Lo dimostrano i passi avanti compiuti nel processo di dialogo tra Belgrado e Pristina.
  La UE è un attore assai più credibile quando offre l'accesso al suo mercato unico, alla cittadinanza, alle garanzie politiche della piena appartenenza. È bene non dimenticarlo anche nella fase di obiettiva difficoltà, economiche ma anche di autostima, che la UE sta attraversando. Soprattutto in considerazione dei paesi attualmente con status di candidati, che rappresentano casi particolarmente delicati per ovvie ragioni anche storiche: dopo la Croazia nel luglio scorso, Macedonia, Montenegro, Serbia e naturalmente Turchia (più con lo status di candidati potenziali Albania, Bosnia e Kosovo).
  Laddove l'Unione Europea non promette l'allargamento, la PESC funziona meno. Una politica estera europea per essere effettivamente «comune» dovrebbe rispondere a priorità dell'Unione in quanto tale, mentre è invece ancora il risultato finale di un «tiro alla fune» tra Pag. 13gli Stati Membri, ognuno dei quali impegnato ad usare la UE e la PESC come un mero moltiplicatore della proiezione nazionale.
  Allo stato attuale sul cammino della PESC esistono ancora molti ostacoli che non riguardano solo il «tiro alla fune» fra i paesi membri.
  Un primo limite è senz'altro la mancanza di una Strategia aggiornata. L'ultima, la Strategia di Sicurezza Europea, varata sotto la guida di Javier Solana nel 2003: «Un'Europa più sicura in un Mondo Migliore», si basava sul mantra che «la visione del mondo è globale, ma gli interessi prioritari sono inevitabilmente anzitutto regionali e si concentrano nel grande vicinato europeo».
   Con l'eccezione dell'area dei Balcani occidentali, le cosiddette politiche di vicinato soffrono però di una cattiva reputazione o quantomeno di una difficile eredità: nel caso del Mediterraneo c’è stato il tentativo decisamente deficitario dell'Unione per il Mediterraneo, che poi è stata travolta dagli eventi dal 2011 ad oggi; nel caso dell'Est ci sono grandi questioni strategiche di tipo strutturale, che come tali non si prestano a interventi risolutivi in tempi rapidi, come Russia e Ucraina (ma anche tutti i rapporti tra la Russia stessa e i paesi del Caucaso).
   Sul versante orientale, la Eastern Partnership sembra dover competere con il tentativo russo di dar vita a un blocco alternativo, e i rapporti con Mosca sono quindi destinati a restare misti, di cooperazione selettiva e parziale competizione politica.
   Nel Mediterraneo, è ancora oggettivamente arduo consolidare i rapporti con le nuove leadership emergenti in paesi come Egitto, Tunisia e Libia, nel contesto della profonda instabilità che interessa le società arabe: a maggior ragione, conta soprattutto la capacità europea di ragionare su obiettivi complessivi di progressiva apertura e interdipendenza economica, oltre che di gestione comunque dei flussi migratori. Tale sfida dell'UE è resa ancora più difficile dalla presenza di nuovi e più ricchi attori, capaci di esercitare un'influenza e una forza attrattiva maggiore nelle situazioni di crisi (v. Arabia Saudita in Egitto).
   Un secondo limite sono le risorse. Non solo gli Stati membri subiscono progressivamente tagli ai budget nazionali destinati alla proiezione esterna e alla difesa, ma non possiamo ignorare una simile tendenza anche a livello aggregato UE. Nell'ambito del Quadro Finanziario Pluriennale 2014-2020 sono stati allocati 58,7 miliardi di euro per le relazioni esterne dell'UE (ben 1,9 miliardi in meno rispetto all'attuale esercizio finanziario 2007-2013).
   Un terzo limite è la mancanza di hard power a sostegno del soft power dell'UE. Quanto sta avvenendo ai nostri confini meridionali sta infatti mostrando come la UE non possa esercitare il proprio indubbio soft power a favore della pace e sicurezza internazionale se non ha alle spalle la forza di un hard power su cui poter fare affidamento in caso di esplosione di una crisi internazionale. Si pensi ad esempio al rifiuto da parte delle autorità egiziane della mediazione dell'Alto Rappresentante Ashton, durante la crisi di luglio. In quel caso, come ha detto anche il Ministro Bonino, la UE era presente e parlava con una sola voce, ma la mancanza di strumenti «forti» ha reso questa voce flebile.Pag. 14
   Per attivare concretamente quel comprehensive approach, ovvero quell'approccio globale dell'azione esterna dell'Unione, che consiste nell'utilizzo coordinato ed integrato di tutti gli strumenti UE per potenziarne gli effetti, non può mancare anche la componente «sicurezza e difesa», a norma di Trattato parte integrante della PESC, e, de facto, il suo logico sostegno.
   In questo contesto la PSDC (ex PESD) sta già conoscendo da dieci anni un importante sviluppo, con più di 30 missioni in giro per il mondo. Attualmente sono 16 le missioni PSDC dispiegate principalmente in Africa e nei Balcani, di cui 4 sono militari (in Mali, Bosnia, Somalia e Atalanta nell'Oceano Indiano). Nell'ambito di queste missioni si realizza già in maniera piuttosto evoluta quell'integrazione civile-militare che permette di unire attività di consulenza e mentoring delle istituzioni locali a quelle di mantenimento della sicurezza e di lotta al terrorismo.
   Come si vede, per la maggior parte si tratta di strumenti di soft power (di aiuto per lo sviluppo, per lo stato di diritto, per la stabilità del vicinato) con cui l'UE cerca di esportare il proprio modello di equità, pace ed integrazione regionale, che ha garantito sessant'anni di pace nel nostro continente. Esportare cioè un modello di valori di cui l'Europa deve andar fiera, ma che a volte ha impedito un approccio più pragmatico e meno basato su questioni filosofiche e/o identitarie: un errore che sta rischiando, per esempio, di mettere in crisi i rapporti fra UE e Russia.
   L'Europa ha potuto trincerarsi finora dietro al suo sistema di valori facendo a meno di una difesa europea grazie all'ombrello americano, ma di fronte alle crisi più recenti ha dovuto confrontarsi con le conseguenze di un graduale disimpegno americano, evidente soprattutto in alcune aree. In questi casi, le carenze dei sistemi di difesa europei si sono manifestate con grande chiarezza.
   Anche per queste ragioni, da più di un anno è stato riavviato il dibattito sulla Difesa europea, che ha portato all'elaborazione di un Rapporto da parte dell'Alto Rappresentante Ashton, in discussione al Consiglio Europeo di dicembre dedicato alla Difesa europea.
   Il Consiglio Europeo prenderà decisioni su tre filoni di approfondimento: 1) aumento dell'efficacia, visibilità e impatto della Politica di Sicurezza e Difesa Comune; 2) sviluppo delle capacità di difesa europee; 3) rafforzamento dell'industria europea della difesa.
   Riprendere l'integrazione proprio da un settore tanto legato alle sensibilità nazionali può sembrare a prima vista un controsenso. In realtà sta emergendo che, diversamente dalla stessa PESC, nel settore della difesa si può applicare molto più facilmente un approccio pragmatico fondato su necessità e progetti concreti.
   È un cambio di passo delicato ma possibile, se sapremo trarre lezioni dalla crisi finanziaria e sviluppare, anche grazie ad essa, una visione strategica che ci permetta di contenere i bilanci in modo coerente e coordinato, grazie ad una maggiore integrazione europea nel settore (citazioni utili: «it's the economy, stupid», «never waste a crisis», ma anche «non abbiamo più soldi: dobbiamo iniziare a pensare», attribuita a Churchill).
   Non esistendo una politica di difesa UE, gli Stati membri stanno continuando a finanziare duplicazioni delle stesse capacità operative, Pag. 15mentre i tagli ai bilanci stanno provocando la perdita di capacità tecnologiche e industriali a duplice uso/duali. Non ci sono alternative: le duplicazioni devono finire. Anche quelle per cui esistono tornaconti nazionali.
   L'Unione Europea deve mettere a sistema le proprie potenzialità di spesa (che anche se ridotte continuano a fare dell'UE il secondo mercato mondiale per la Difesa, superiore a Cina, Russia e Giappone sommati assieme), moltiplicandone l'efficacia e minimizzando l'impatto negativo dei tagli.
   Riguardo il Rapporto presentato dall'Alto Rappresentante Ashton al Presidente Van Rompuy siamo piuttosto soddisfatti, per una serie di ragioni.
   È stata enfatizzata la necessità di collaborare con la NATO e trovare sinergie con l'ONU e l'Unione Africana nella gestione delle crisi, nonché quella di favorire la partecipazione di Paesi terzi alle missioni PSDC (Alleati Nato non-UE come la Turchia, Paesi del Partenariato Orientale, ecc.).
   Ambiti per noi essenziali, quali la sicurezza cibernetica, marittima e dei confini hanno ciascuno una propria autonoma rilevanza, proprio come auspicato dall'Italia. Esiste anche un paragrafo specifico sulla sicurezza e gestione delle frontiere di paesi terzi. In quest'ultimo aspetto, parte integrante della sicurezza europea, trova spazio anche l'immigrazione clandestina ed il crimine organizzato, come fortemente desiderato dall'Italia.
   Di particolare interesse, per favorire una capacità di intervento rapido dell'UE, è poi la proposta di utilizzare l'articolo 44 del Trattato UE, ovvero la disposizione che prelude a una sorta di Cooperazione Strutturata Permanente (PESCO) in forma alleggerita e meno strutturata (una «PESCO light»). Con l'articolo 44 ci troviamo di fronte ad un'ipotesi di Europa della difesa asimmetrica (così come asimmetrici rispetto alla composizione dell'UE sono lo spazio Schengen e l'eurozona), ma non permanente né strutturata, dato che la collaborazione sarebbe limitata agli Stati Membri che vogliono impegnarsi in una missione specifica. Una coalition of the willing con imprimatur UE.
   Relativamente al dispiegamento rapido delle missioni civili UE, particolare rilievo assume anche la revisione delle procedure per la gestione delle crisi, su cui l'Italia si è molto spesa e che potrebbe vedere importanti seguiti durante il nostro Semestre di Presidenza.
   Un tema interessante è quello dei raggruppamenti tattici multinazionali detti «Battlegroups», che potrebbero diventare una forza europea di intervento/reazione rapida; un tema anch'esso fortemente sostenuto da parte italiana.
   Viene, poi, articolato il concetto di una Defence roadmap strategica: anche se purtroppo difficilmente potrà trasformarsi in un vero Libro Bianco della Difesa Europea, potrà esserne una sorta di embrione.
   Si fa molta attenzione alla necessità di incentivi anche fiscali, innovativi per la cooperazione nel settore della difesa e si menziona esplicitamente la proposta di un'esenzione IVA (una proposta francese che l'Italia sostiene, anche se di difficile applicazione e potenzialmente non accettabile per Berlino e Londra).Pag. 16
   Molto importante anche l'enfasi su progetti europei originali e credibili in settori ad alta tecnologia (aerei senza pilota, spazio reale e cyberspazio) e/o in cui le capacità europee sono scarse (per esempio il trasporto strategico o il rifornimento in volo), nonché il fondamentale inserimento della necessità di sostenere il ruolo delle PMI nelle filiere dell'industria della difesa europea.
   Desidero, infine, attirare l'attenzione su due possibili seguiti operativi del Consiglio Europeo di dicembre, che potrebbero essere curati durante il nostro semestre di Presidenza della UE. Il primo riguarda l'elaborazione di una Strategia di Sicurezza Marittima UE e del relativo Piano di Azione. Si tratta di un tema di nostro diretto interesse, soprattutto alla luce degli ultimi eventi nel Mediterraneo, e per il quale penso l'Italia dovrebbe essere in prima fila fra gli Stati membri.
   In secondo luogo, se — come noi auspichiamo — il Consiglio Europeo prenderà a dicembre decisioni di sostanza per sviluppare la base industriale e tecnologica della Difesa europea, potremmo organizzare sotto nostra Presidenza quale seguito concreto un apposito evento di alto livello sull'industria della difesa.