CAMERA DEI DEPUTATI
Mercoledì 29 ottobre 2014
324.
XVII LEGISLATURA
BOLLETTINO
DELLE GIUNTE E DELLE COMMISSIONI PARLAMENTARI
Agricoltura (XIII)
ALLEGATO

ALLEGATO 1

Interrogazione 5-03477 Cenni: Sulle semine illegali di mais transgenico in comune di Mereto di Tomba (Udine).

TESTO DELLA RISPOSTA

  In merito all'interrogazione cui mi accingo a rispondere, concernente la semina di mais transgenico MON810 in Friuli Venezia Giulia e su tematiche correlate, preciso che con il decreto-legge 24 giugno 2014, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 116, è stato completato il quadro normativo del decreto interministeriale 12 luglio 2013, per quanto concerne le misure sanzionatorie.
  In particolare, l'articolo 4, comma 8, del citato decreto, prevede il pagamento di una multa da 25.000 a 50.000 euro per chiunque violi i divieti di coltivazione introdotti, anche in via cautelare, ai sensi degli articoli 53 e 54 del regolamento (CE) n. 178 del 2002.
  Altresì, il contravventore è tenuto a rimuovere, a propria cura e spese, secondo le prescrizioni del competente organo di vigilanza, nell'esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria, le coltivazioni di sementi vietate nonché alla realizzazione delle misure di riparazione primaria e compensativa nei termini e con le modalità definiti dalla regione competente per territorio.
  Ciò posto, riferisco che nel corso della scorsa campagna di semina, nei mesi di luglio e agosto, il Corpo forestale statale e regionale, su delega della procura della Repubblica di Udine e di Pordenone, ha posto sotto sequestro i terreni nei comuni di Colloredo di Monte Albano (UD), Vivaro (PN) e di Panna (PN), dove erano state impiantate coltivazioni di mais MON810 transgenico, in violazione del divieto di coltivazione, imposto dal decreto interministeriale 12 luglio 2013 e, parallelamente al provvedimento nazionale, dalla legge regionale del Friuli-Venezia Giulia n. 5 del 2014.
  Nella fattispecie, preciso che il Corpo forestale dello Stato ha operato in conformità alle suddette disposizioni penali nei confronti dei soggetti responsabili.
  Inoltre, in attuazione della legge regionale, lo scorso 19 luglio, il Corpo forestale regionale, in collaborazione con il Corpo forestale dello Stato e della procura della Repubblica di Udine, ha disposto la distruzione delle piantagioni illegali nel comune di Colloredo di Monte Albano (UD).
  Evidenzio, peraltro, che la regione Friuli-Venezia Giulia, nel mese di marzo 2014, ha notificato alla Commissione europea lo schema di disegno di legge regionale relativo a «Modifiche alla legge regionale 8 aprile 2011, n. 5 (Disposizioni relative all'impiego di organismi geneticamente modificati (OGM) in agricoltura)», approvato dalla Giunta regionale il 7 marzo 2014, secondo quanto previsto dall'articolo 8, comma 1, della direttiva 98/34/CE, per il tramite del Ministero dello sviluppo economico.
  La citata amministrazione regionale con il suddetto schema di legge ha inteso introdurre l'esclusione di coltivazione di mais GM dal territorio regionale e prevedere una sanzione amministrativa pecuniaria in caso di mancato rispetto dell'esclusione.
  In data 2 luglio 2014 sul sito web della regione Friuli-Venezia Giulia è stato reso noto che il Ministero dello sviluppo economico ha informato la regione circa il fatto che, non essendo giunta né dall'Unione europea né dagli Stati membri Pag. 265alcuna osservazione in merito allo schema della suddetta legge regionale, nell'arco dei tre mesi previsti dall'articolo 9, comma 1, della direttiva 98/34/CE, intervenendo il silenzio-assenso, la legge regionale poteva essere adottata.
  Le richieste disposizioni sono state quindi introdotte ai sensi dell'articolo 2, comma 26, della legge regionale 11 agosto 2014, n. 15, che ha inserito l'articolo 2.1 nella legge regionale n. 5 del 2011.
  Tale norma regionale costituisce il primo esempio in Italia di norma tecnica con la quale viene dimostrata l'inapplicabilità delle misure di coesistenza sul territorio interessato da cui poi scaturire il diniego di coltivazione e può rappresentare un utile precedente anche per altre regioni interessate dalla problematica, fino a quando non sarà adottata e recepita la direttiva che modifica la direttiva 2001/18/CE per quanto concerne la possibilità per gli Stati membri di limitare o vietare la coltivazione di OGM sul loro territorio.
  Rilevo, inoltre che a livello europeo, al fine di disporre di norme giuridiche che rispondano alla questione sulla coltivazione degli OGM in modo efficace, definitivo e in linea con la politica nazionale perseguita sinora per il settore agroalimentare, il Governo, in occasione del semestre di Presidenza italiana, sta promuovendo il proseguo dei lavori sulla proposta di direttiva che, modificando la direttiva 2001/18/CE, consentirà agli Stati membri di decidere in modo autonomo sulla coltivazione di OGM nel proprio territorio.
  Detta proposta, dopo l'accordo politico raggiunto in Consiglio ambiente il 12 giugno scorso, è in procinto di essere sottoposta in seconda lettura al Parlamento europeo. Il Governo, in ogni caso, si sta impegnando a livello europeo affinché essa possa entrare in vigore all'inizio del prossimo anno.
  In attesa della versione definitiva del testo, preciso che uno degli aspetti più importanti su cui gli Stati membri hanno trovato un accordo comune è rappresentato dalla possibilità di intervenire sia durante la fase istruttoria per il rilascio del l'autorizzazione, nel caso di OGM non ancora autorizzati, sia sulle autorizzazioni già rilasciate.
  La proposta di direttiva prevede che le restrizioni dell'ambito geografico di coltivazione vengano stabilite principalmente sulla base di ragioni socio-economiche e di politica agricola e ambientale che si aggiungeranno agli aspetti di sicurezza ambientale e sanitaria valutati nel corso dell'attuale procedura di valutazione di rischio, così come previsto dalla direttiva 2001/18/CE e dal regolamento (CE) n. 1829 del 2003.

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ALLEGATO 2

Interrogazione 5-02209 Pili: Sulla crisi della zootecnica ovina e suinicola della Sardegna determinata dalle epidemie di blue tongue e di peste suina africana.

TESTO DELLA RISPOSTA

  Le problematiche evidenziate dall'interrogante, connesse alla diffusione di talune patologie tra gli ovini e i suini della Sardegna (note come blue tongue e peste suina africana), rientrano principalmente nelle specifiche competenze del Ministero della salute.
  Pertanto, sulla base delle informazioni acquisite dalla predetta amministrazione, e per quanto di competenza evidenzio quanto segue.
  Preciso, anzitutto, che l'unico mezzo di controllo che può essere utilizzato per combattere la cosiddetta blue tongue e, soprattutto, che ha dimostrato garanzie di successo è la vaccinazione dell'intera popolazione recettiva composta, non solo, da ovini e caprini (che possono sviluppare la malattia e ammalarsi), ma anche dai bovini che, pur non presentando la malattia, sono pericolosi serbatoi d'infezione e possono perpetuare efficacemente la trasmissione e la persistenza del virus nel territorio.
  Il tipo di vaccino utilizzato in Italia e in Europa, tuttavia, richiede interventi ripetuti per garantirne la massima efficacia. Peraltro, avendo rilevato come la Sardegna presenti le condizioni ecologiche e climatiche ideali per il mantenimento dell'infezione, appare evidente che, in assenza di una pratica continua, costante e attenta di vaccinazione, l'infezione e le conseguenti forme cliniche sono destinate a ripresentarsi.
  Infatti, dopo l'iniziale quasi scomparsa dei focolai della malattia nel 2003, l'incostante replica del programma vaccinale ha determinato la ricomparsa della malattia nel 2012.
  Peraltro, nonostante le comunicazioni alle autorità regionali da parte della competente Unità di crisi nazionale, la regione Sardegna non ha programmato in tempo utile né attuato, fino a dicembre 2013, alcuna campagna di vaccinazione che, dal 2012, come previsto dal Piano di sorveglianza nazionale presentato e approvato dalla Commissione europea, è a carattere facoltativo.
  Infatti, solo dopo l'emergenza epidemica del 2013 la regione Sardegna ha disposto una campagna di vaccinazioni, immunizzando 1.797.832 animali di cui 1.759.811 ovini e 35.779 bovini.
  Mi preme inoltre far presente che il sistema di sorveglianza posto in atto dal Ministero della salute, basato sull'utilizzo di una rete di «animali sentinella», svolge efficacemente anche il compito di monitorare continuamente e in modo precoce la diffusione di tale virus sul nostro territorio nazionale.
  Riguardo al virus della peste suina africana, la cui diffusione in Sardegna ha portato all'introduzione, a livello europeo, del divieto di esportare fuori regione le carni suine ivi prodotte (con pesanti conseguenze economiche per il comparto produttivo regionale), vorrei far presente che, da qualche anno, è stato attivato un processo di qualificazione e valorizzazione di questo tipo di allevamento tradizionale fondato sull'attività del Registro Pag. 267anagrafico, tenuto dall'Associazione nazionale allevatori suini e sottoposto alla vigilanza del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali che permette la salvaguardia della razza autoctona sarda.
  L'attività del Registro ha come finalità la conservazione del patrimonio di biodiversità della razza autoctona sarda che, a tal fine, deve essere allevata in modo controllato in appositi allevamenti all'aperto dotati dei requisiti strutturali e organizzativi che garantiscano la piena tracciabilità e la salute degli animali ed impediscano la diffusione di epidemie quali la peste suina.
  L'attività del Registro anagrafico, unitamente ad una puntuale ed efficace applicazione della normativa sanitaria in vigore per il controllo e l'eradicazione della malattia, rappresenta un importante strumento per regolamentare l'attività di numerose aziende suinicole sarde che praticano l'allevamento estensivo e per garantire l'adozione di efficaci standard di sicurezza sanitaria all'interno di queste realtà allevatoriali.
  Nell'ottica di dover utilizzare tutti gli strumenti e le risorse disponibili per giungere ad una definitiva soluzione del problema, ritengo opportuno il consolidamento dell'attività del Registro anagrafico per la razza Sarda perché può contribuire a superare la piaga dell'abusivismo e a creare le condizioni per un sano sviluppo economico dell'allevamento suinicolo estensivo.
  Premesso quanto sopra, preciso che le epizoozie sono ammissibili all'assicurazione agricola agevolata da contributo pubblico. Pertanto, gli interventi compensativi ex post previsti, a favore degli allevatori, dal decreto legislativo n. 102 del 2004 attraverso il Fondo di solidarietà nazionale, possono essere attivati, in deroga al Piano assicurativo, solo qualora si accerti l'impossibilità di sottoscrizione delle coperture agevolate per l'assenza di offerta assicurativa da parte delle compagnie.
  La regione Sardegna, comunque, non ha formalizzato alcuna richiesta in tal senso.
  Inoltre, gli Orientamenti comunitari in materia di aiuti di Stato nel settore agricolo e forestale 2007-2013 stabiliscono che «gli aiuti agli agricoltori a titolo di indennizzo delle perdite causate da epizoozie o fitopatie possano essere autorizzati unicamente nell'ambito di un idoneo programma di prevenzione, controllo ed eradicazione della malattia realizzato a livello comunitario, nazionale o regionale».
  Infatti, le misure di aiuto destinate alla semplice compensazione a favore degli agricoltori delle perdite subite, che non prevedono nessuna iniziativa per risolvere il problema alla fonte, sono considerate come meri aiuti al funzionamento, incompatibili con i principi europei.
  Pertanto, l'attivazione di un regime di aiuto nel senso richiesto dovrà rispettare le disposizioni europee ed essere preventivamente notificato alla Commissione.
  In ogni caso, il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali si è sempre impegnato alla difesa e valorizzazione delle produzioni nazionali in generale e quelle del settore ovino in particolare, di cui la Sardegna è il territorio con la maggiore produzione.
  In particolare per il settore ovino sardo, caratterizzato da sistemi di allevamento estensivi o semi estensivi, le linee guida della riforma della PAC tendono a premiare tali tipi di produzione.
  Peraltro, le misure previste dall'articolo 68 del Regolamento n. 73 del 2009, oltre a diffondere l'utilizzo di riproduttori ovini resistenti alla scrapie e a favorire la certificazione degli agnelli IGP (agnello sardo, abbacchio romano) sono dirette anche a premiare l'allevamento estensivo.
  Nell'anno 2013, le risorse messe disposizione sono state completamente utilizzate e gli interventi previsti hanno Pag. 268favorito la qualificazione della produzione del prodotto agnello IGP che stenta a decollare.
  Purtroppo nell'estate del 2013 c’è stata una recrudescenza della blue tongue che ha messo in crisi molti allevamenti colpiti dalla malattia.
  Al riguardo evidenzio che, a seguito della crisi della zootecnia, il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali ha istituito il Tavolo di filiera zootecnica e in quella sede potranno essere concordare le azioni per il rilancio di sistema agropastorale sardo.

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ALLEGATO 3

Interrogazione 5-03179 Mucci: Iniziative per il conseguimento dell'obiettivo del rendimento massimo sostenibile nell'ambito della politica comune della pesca.

TESTO DELLA RISPOSTA

  L'interrogazione cui mi accingo a rispondere concerne talune iniziative da intraprendere a tutela della pesca.
  Al riguardo vorrei preliminarmente far presente che il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, tenuto conto della necessità di tutelare le biodiversità marine nonché di garantire lo sfruttamento sostenibile delle risorse acquatiche (sotto il profilo economico, ambientale e sociale) è costantemente impegnato all'individuazione delle attività prioritarie per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo della filiera pesca.
  Tale intento, come ovvio, è necessariamente informato al rispetto dei tempi e degli indirizzi dettati dalle numerose direttive europee che trattano, a livello sovranazionale, le tematiche afferenti la conservazione, la gestione e lo sfruttamento delle risorse acquatiche e dell'acquacoltura, della trasformazione e commercializzazione dei prodotti della pesca e dell'acquacoltura, perseguendo le medesime finalità.
  In tale contesto, i competenti organismi internazionali tengono in considerazione i richiami dell'Amministrazione italiana alla «dimensione sociale del settore della pesca», prevedendo la possibilità di un approccio graduale ai principi della Politica comune della pesca, differenziandoli a seconda delle varie attività di pesca, in modo coerente con i principi del rendimento massimo disponibile (MSY) e della cosiddetta «organizzazione comune dei mercati nel settore dei prodotti della pesca e dell'acquacoltura» di cui al Regolamento n. 1379 del 2013.
  In particolare, recependo in larga misura le richieste avanzate, detti Organismi hanno stabilito che l'arresto temporaneo delle attività di pesca sarà inserito nella lista delle misure tecniche ritenute valide ai fini della protezione delle risorse ittiche. Inoltre, l'obbligo di sbarco di tutte le catture, ovvero il divieto di rigetto in mare, sarà applicato solo alle specie per le quali è già fissata una taglia minima di cattura, con un margine di tolleranza pari al 5 per cento delle catture totali. Il nuovo obbligo di sbarco sarà operativo secondo un calendario differenziato a partire dal 2015 e sino al 2019, come nel caso delle specie demersali del Mediterraneo.
  Il criterio del rendimento massimo sostenibile (MSY) entrerà in vigore dal 2015 per tutti gli stock per i quali sono già a disposizione sufficienti dati scientifici. Per tutte le altre specie, invece, la scadenza sarà prolungata ma, in ogni caso, non andrà oltre il 2020.
  Con riferimento alla catture multispecifiche, come quelle che prevalgono nel Mediterraneo, il Consiglio ha invece convenuto che il rendimento massimo disponibile dovrà essere attuato tenendo conto delle interazioni nella gestione delle diverse specie interessate, in modo da concentrare l'attenzione solo su quelle in maggiore sofferenza biologica.
  Mi preme infine evidenziare che il Governo, al fine di porre in essere tutte le necessarie iniziative ed offrire adeguate prospettive all'intera filiera ittica, ha approntato Pag. 270un primo piano d'azioni che comprende, tra l'altro, l'utilizzo ottimale delle risorse europee attualmente disponibili. La fase d'avvio delle nuova Politica comune della pesca e del Fondo europeo per gli affari marittimi e della pesca (FEAMP) sono pertanto costantemente monitorati a garanzia dello sviluppo sostenibile del settore, tenuto conto degli aspetti ambientali, ecologiche sociali.
  Ad ogni buon conto, considerata altresì la primaria necessità di contenere ogni fenomeno di illegalità nel settore della pesca, continueremo ad assicurare il nostro impegno finalizzato ad adottare adeguate misure volte ad attenuare le procedure di follow up in sede d'implementazione delle nuove regole della Politica comune della pesca.
  Per quanto attiene, infine, la Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio COM (2014) 388 in tema di possibilità di pesca per il 2015, evidenzio che gli obblighi informativi e di trasparenza connessi alla pertinente procedura di consultazione sono di esclusiva competenza e responsabilità della Commissione europea. Pertanto, tutte le eventuali osservazioni da parte dei soggetti interessati devono essere formalizzate on line sul sito della stessa Commissione che pone in essere successivamente tutti gli adempimenti conseguenti.

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ALLEGATO 4

Risoluzioni 7-00249 Cenni e 7-00268 Bernini: Interventi in materia di danni all'agricoltura provocati dalla fauna selvatica.

PROPOSTA DI TESTO UNIFICATO

  La XIII Commissione,
   premesso che:
    l'agricoltura rappresenta uno dei settori maggiormente incisivi sulla bilancia commerciale del Paese, una delle voci principali di export e di produzioni di eccellenza capace di essere, anche nella grave e perdurante crisi economica ed occupazionale, un comparto anticiclico di irrinunciabile valenza;
    da anni le rilevanti criticità determinate dai danni causati all'agricoltura e alla zootecnia da alcune specie di fauna selvatica o inselvatichita, hanno assunto dimensioni allarmanti, con gravi ripercussioni che incidono inevitabilmente, oltre che sui bilanci economici delle aziende agricole (in particolare delle aziende di medie e piccole dimensioni che vedono compromesso gran parte del reddito ed interessando produzioni di grande qualità ed eccellenza come il settore vitivinicolo) e compromettendo in vaste aree l'equilibrata ed integrata coesistenza sostenibile tra attività umane e specie animali;
    la necessità di affrontare e risolvere il problema è stata, nel corso degli anni, sollecitata dalle associazioni agricole di categoria, dagli enti locali territoriali e dalla Conferenza delle regioni;
    il fenomeno dei danni provocati dalla fauna selvatica alle produzioni agricole e zootecniche continua ad avere i connotati di una vera e propria emergenza, che sollecita l'avvio urgente di iniziative da parte delle istituzioni pubbliche, volte a prevedere un sistema adeguato di efficaci misure preventive e di contrasto;
    dal punto di vista giuridico la fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato, così come disposto dalla legge n. 157 del 1992;
    sempre la legge n. 157 del 1992 attribuisce alle regioni la competenza in materia di normativa, di programmazione e gestione dell'attività venatoria (nel rispetto dei princìpi generali della legislazione quadro nazionale e delle norme internazionali recepite), che hanno per lo più normato ed attivato in materia le amministrazioni provinciali e gli ATC determinando attività di prevenzione e di prelievo della fauna presente in eccesso;
    tali attività sembrano non risultare sufficientemente efficaci e, secondo quando segnalato da numerose amministrazioni locali, pare essere divenuto più complesso ed in alcuni casi quasi inapplicabile, l'iter previsto dalla legge per giungere ai prelievi (province, regioni, Ispra, Atc);
    alla luce di queste difficoltà e per contrastare e prevenire tale fenomeno sono state effettuate numerose e diversificate iniziative parlamentari, che hanno interessato vari gruppi politici, sia nella XVI che nell'attuale legislatura. Sul tema sono state infatti presentati atti di sindacato ispettivo, risoluzioni, proposte di legge ed avviate approfondite indagini conoscitive;
    secondo le stime le perdite economiche causate dalla fauna selvatica alle Pag. 272colture, la maggior parte delle quali riconducibili ai cinghiali, sono indicate, da alcune associazioni di categoria, in oltre 70 milioni di euro annui (in molti casi rimborsati solo parzialmente);
    sussiste comunque una palese difficoltà a reperire dati ufficiali ed aggiornati sui danni provocati dalla fauna selvatica. A livello nazionale infatti non esiste ad oggi un «database» complessivo con dati qualitativi e quantitativi provocati dalla fauna selvatica. Possiedono «database» le regioni Toscana, Piemonte, Emilia Romagna ed Umbria;
    nel mese di novembre 2010 la Conferenza delle regioni e delle province autonome ha prodotto un documento relativo ad una indagine conoscitiva sui danni causati dalla fauna selvatica alle produzioni agricole e zootecniche relative al periodo (2005-2009). Da tale documento sono emerse, in sintesi, le seguenti indicazioni:
     a) i danni causati dalla fauna selvatica sono ingenti e presenti in tutte le regioni, anche se sono differenziati in ragione del territorio, delle culture presenti e delle specie che li causano;
     b) le specie animali che procurano danni sono in particolare: cinghiale, capriolo, daino, lepre, fagiano, storno, lupo, nutria;
     c) le percentuali significative dei danni sono provocate dalle tre specie maggiormente immesse a scopo venatorio: cinghiale, lepre e fagiano;
     d) i maggiori danni sono stati registrati alle coltivazioni, in particolar modo alle produzioni erbacee (oltre 40 milioni di euro) ed alle produzioni arboree (circa 16 milioni di euro);
     e) i danni interessano anche la zootecnia ed i veicoli stradali a seguito di incidenti causati da animali selvatici;
    la Conferenza delle regioni e delle province autonome ha sollecitato in numerose occasioni il Governo a dare completa attuazione alle disposizioni contenute all'articolo 66, comma 14, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (legge finanziaria per il 2001), che dispone il trasferimento, da ripartire tra le regioni per la realizzazione di programmi di gestione faunistico-ambientale a decorrere dall'anno 2004, di una somma pari al 50 per cento dell'introito derivante dall'applicazione della tariffa sulle concessioni governative relative alle licenze di porto di fucile a uso caccia. Maggiori risorse, a giudizio della conferenza, sarebbero inoltre di aiuto anche agli osservatori faunistici regionali per svolgere l'attività di monitoraggio degli habitat e della fauna selvatica nonché per i prelievi e per le deroghe;
    nella XVI legislatura la Commissione agricoltura della Camera dei deputati ha approvato un documento a conclusione dell'indagine conoscitiva sul «Fenomeno dei danni causati dalla fauna selvatica alle produzioni agricole e zootecniche». Nella relazione viene evidenziata:
     a) la necessità di una analisi quantitativa e qualitativa del fenomeno attendibile basata su dati certi, realizzata da un ente terzo qualificato e con protocolli scientifici adatti ai censimenti;
     b) una rivalutazione, anche temporanea, dei criteri di immissione sul territorio di esemplari di fauna per le specie di cui è stato accertato uno squilibrio delle popolazioni che causa danni gravi alle popolazioni agricole;
     c) la valorizzazione, da parte degli organismi pubblici competenti, di una interazione sinergica ed integrata con gli agricoltori ed i cacciatori, anche attraverso collaborazioni specifiche e progetti di filiera;
     d) una puntuale individuazione delle aree da ritenersi vocate alla presenza faunistica e di quelle, invece, ove la presenza delle attività agro-silvo-pastorali impone la riduzione al minimo del numero di cinghiali, al fine di prevenire danni alle persone e cose, nonché alle attività che risultano essere quelle maggiormente colpite;Pag. 273
     e) il concreto funzionamento delle aree contigue (articolo 32 della legge n. 394 del 1991) in modo che le stesse possano svolgere la loro funzione di «zona cuscinetto» tra l'area protetta ed il territorio in cui si esercita la caccia;
     f) una maggiore attenzione alla prevenzione ed ai finanziamenti che questa comporta incoraggiando le amministrazioni locali competenti ad incentivare le aziende nella realizzazione di investimenti strutturali per la difesa dai danni;
    appare quindi evidente che ogni strumento o azione efficace per contrastare adeguatamente tale fenomeno debba essere basato su una conoscenza capillare e certificata dei danni prodotti dalla fauna selvatica. La raccolta di questi dati necessita quindi di un protocollo rigoroso ed omogeneo. L'Ispra (l'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, vigilato dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare) sembrerebbe quindi rappresentare l'ente statale preposto di riferimento scientifico e di ricerca, per mettere a punto e coordinare, di concerto con i Ministeri competenti e gli enti locali di riferimento, un protocollo rigoroso, omogeneo ed efficace di raccolta dei dati per i danni causati dalla fauna selvatica; l'Ispra è stato infatti istituito con la legge n. 133 del 2008 e svolge anche le funzioni, con le inerenti risorse finanziarie, strumentali e di personale, che erano di competenza dell'ex Ispra (Istituto nazionale per la fauna selvatica normato dalla legge n. 157 del 1992); l'Istituto nazionale per la fauna selvatica, organo scientifico e tecnico di ricerca e consulenza per lo Stato, le regioni e le province, aveva il compito di censire il patrimonio ambientale costituito dalla fauna selvatica; di studiarne lo stato, l'evoluzione ed i rapporti con le altre componenti ambientali; di elaborare progetti di intervento ricostitutivo o migliorativo sia delle comunità animali sia degli ambienti al fine della riqualificazione faunistica del territorio nazionale; di effettuare e di coordinare l'attività di inanellamento a scopo scientifico sull'intero territorio italiano; di collaborare con gli organismi stranieri ed in particolare con quelli dei Paesi della Comunità economica europea aventi analoghi compiti e finalità; di collaborare con le università e gli altri organismi di ricerca nazionali; di controllare e valutare gli interventi faunistici operati dalle regioni e dalle province autonome; di esprimere i pareri tecnico-scientifici richiesti dallo Stato, dalle regioni e dalle province autonome;
    nonostante i danni interessino tutto il territorio nazionale il fenomeno ha colpito e colpisce in particolare rilevanza alcune regioni, ed in particolare Toscana, Piemonte, Liguria;
    la gravità di tale problematica ha spinto ad esempio la regione Toscana, nei giorni scorsi e per voce dell'assessore all'agricoltura Gianni Salvadori, a chiedere al Governo italiano di farsi promotore nei confronti dell'Unione europea per favorire l'introduzione dello storno fra le specie cacciabili, dal momento che «dopo il cinghiale e il capriolo, è la specie che causa più danni all'agricoltura toscana», e numerose amministrazioni provinciali a scrivere allo stesso Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali segnalando la gravità di danni prodotti da cinghiali e caprioli, come evidenziato da Anna Maria Betti, assessore all'agricoltura e caccia della provincia di Siena e coordinatore Upi Toscana: «Le norme e i regolamenti in materia di gestione della fauna selvatica – ha dichiarato – non sono più adeguati alla situazione attuale e non consentono di mantenere densità sostenibili e giusto equilibrio fra le specie, con l'ambiente circostante e con l'attività agricola»,
    in particolare, in Italia l'approccio ai problemi faunistici legati alla proliferazione dei suidi, è condizionato pesantemente da una burocrazia farraginosa e dalla sottovalutazione della dimensione sociale di questo fenomeno, valutato come una faccenda che riguarda solo i singoli agricoltori o allevatori, di fatto lasciati soli a fronteggiare un fenomeno e che in alcune aree del Paese, ha assunto dimensioni preoccupanti; Pag. 274
    in particolare la diffusione delle popolazioni di cinghiale interessa molte aree del nostro Paese, anche quelle che per loro natura non ne erano vocate, come i pascoli di alta montagna, provocando gravissimi danni alla rinnovazione delle malghe che date le basse temperature ed il ciclo vegetativo molto breve, si rimarginano con molta difficoltà;
    in particolare la proliferazione dei suidi è effetto ed al contempo causa dell'abbandono delle aree agricole e montane da parte delle popolazioni che oltre alla «sofferenza» dovuta alla recente crisi economica, subiscono gravi perdite della produzione che mina ulteriormente la sussistenza degli agricoltori e delle loro famiglie;
    in particolare, tale proliferazione risulta particolarmente impattiva a causa dell'irrazionale introduzione a scopo venatorio di esemplari provenienti dal centro Europa che hanno pressoché soppiantato o contaminato incrociandosi, le specie autoctone quali la Sus scrofa majori in Maremma ed il Sus scrofa meridionalis in Sardegna, che morfologicamente ed etologicamente risultavano essere perfettamente integrate e in equilibrio con l'ambiente;
    in particolare, a differenza di quanto si sia erroneamente ritenuto fino ad oggi, l'ordinaria attività venatoria, così come viene organizzata e gestita in Italia, non rappresenta una forma di controllo delle popolazioni di cinghiale, tantomeno può rappresentarlo un'estensione del periodo di prelievo (deregulation dei calendari venatori) o la concessione del prelievo in aree altrimenti protette. Altresì, l'attività venatoria ha determinato negli anni una destrutturazione della piramide delle classi di età, agevolando la riproduzione degli esemplari più giovani, abbattendo i capi adulti con più di due anni di età;
    in particolare, i metodi di contenimento non cruento, quali le recinzioni meccaniche permanenti e le recinzioni elettrificate (Allegato 1, Metodi di prevenzione diretta dei danni da cinghiale, «Linee guida per la gestione del Cinghiale», ISPRA) ed il trappolaggio per la successiva sterilizzazione farmacologica (Allegato 3, Sistemi di cattura del cinghiale), benché risolutive ed eticamente accettate, non trovano applicazione o perdono di efficacia a causa della mancanza di applicazione da parte degli enti territoriali preposti, di uno schema di piano per la programmazione degli interventi di controllo numerico del cinghiale nelle aree protette (Allegato 2, delle «Linee guida per la gestione del Cinghiale») e della presenza di coadiutori ai piani di controllo numerico del cinghiale, formati secondo lo schema dell'Allegato 4 delle «Linee guida per la gestione del Cinghiale» dell'ISPRA;
    in particolare, oltre all'ISPRA, altri enti come l'ARSIA (Agenzia regionale per lo sviluppo e l'innovazione nel settore agricoloforestale) della Toscana, hanno individuato sistemi di contenimento non cruenti delle popolazioni di cinghiali, come riportato nella pubblicazione «I danni causati dal cinghiale e dagli altri ungulati alle colture agricole. Stima e prevenzione», del 1999. Questi metodi purtroppo hanno trovato scarsa applicazione a causa dell'assenza di una pianificazione a livello territoriale da parte degli enti competenti, e per il fatto che i conduttori dei fondi debbano sobbarcarsi gli ingenti oneri economici necessari alla realizzazione degli interventi;
    occorre evitare che si sia costretti ad affrontare in modo autonomo l'emergenza, ricorrendo all'abbattimento di capi in modo disorganico e in aperta infrazione delle norme costituzionali a tutela della fauna selvatica;
    la legge quadro sulla caccia n. 157 del 1992 e le singole leggi regionali ove emanate, istituiscono un fondo al fine di indennizzare i conduttori di aziende agricole che ne facciano richiesta documentata, con il consiglio regionale che ne regolamenta l'utilizzo. Tuttavia questo piano «no-fault» che dovrebbe rendere quasi scontato l'accoglimento delle domande di risarcimento, trova difficile o Pag. 275impossibile applicazione nelle aree interessate dai danneggiamenti, a causa di lungaggini burocratiche, dell'estrema eterogeneità delle procedure per l'istruzione delle pratiche risarcitorie sul territorio nazionale, nella mancanza di un'assunzione di responsabilità da parte delle autorità degli enti preposti, e nella difficoltà di ottenere dei sopralluoghi condotti da personale qualificato, creando spesso contenziosi a cui corrispondono ulteriori oneri da parte degli agricoltori;
    il mancato rilascio delle certificazioni del danno subito dalle aziende agricole, comporta la mancata registrazione del debito effettivo da parte della regione, ponendola nell'impossibilità di ottemperare al decreto-legge n. 35 dell'8 aprile 2013;
    a seguito di inefficienze amministrative e difficoltà in sede applicativa, il diritto soggettivo al risarcimento che deve essere integrale, viene impugnato dal danneggiato presso il giudice ordinario per contestare l'applicazione dei criteri di liquidazione da parte delle PA, con tempi di attesa delle sentenze tali da ledere il diritto del soggetto privato, e che ingolfano ulteriormente il sistema giudiziario;
    secondo le stime delle associazioni di categoria, la percentuale di danneggiamento da parte dei suidi, ha superato la soglia di tolleranza fissata al 4-5 per cento di perdita di prodotto, ingenerando un allarme sociale. Tra le regioni più colpite abbiamo il Lazio, con circa tre milioni di euro di danni nel solo 2013, soprattutto nei comprensori di Amatrice, Vallepietra, Bracciano, nel reatino e nel viterbese, la Valle d'Aosta, il Piemonte, le Marche, la Toscana, dove rappresentano il 66 per cento dei danni, nel Molise, in provincia di Campobasso, nell'oasi di monte Vairano e in altre regioni,

impegna il Governo

   ad intraprendere urgentemente, secondo il principio che la tutela ambientale debba comunque conciliarsi con l'esercizio dell'attività d'impresa, tutte le iniziative tecniche, organizzative e normative, sia in sede nazionale che in sede comunitaria, per contrastare e prevenire con efficacia il problema dei danni alle colture causati dalla fauna selvatica e in particolare i danni dovuti alla proliferazione dei suidi prevedendo una maggiore sinergia con le regioni e le province autonome e con l'ISPRA;
   ad istituire, mediante il concerto tra i Ministeri competenti, ISPRA, le regioni e le province autonome, un osservatorio permanente in grado di censire con puntualità, certezza e per mezzo di comprovati parametri tecnici e scientifici, i danni provocati dalla fauna selvatica su tutto il territorio nazionale e ad avviare, nell'ambito delle proprie competenze e di intesa con le regioni e le province autonome, un monitoraggio nazionale sull'applicazione dell'articolo 10 della legge n. 157 del 1992, e in particolare del comma 8, lettera f), al fine di valutare oggettivamente se siano state messe in atto tutte le misure previste dalla legislazione nazionale in materia di risarcimento dei danni da fauna selvatica agli agricoltori e di assicurarsi che si raggiungano dei risultati omogenei sul territorio nazionale così da garantire, al contempo, la tutela della fauna selvatica e il diritto degli agricoltori di essere risarciti in tempi rapidi e certi;
   a verificare l'attuazione e la dotazione del fondo presso il Ministero dell'economia e delle finanze ai sensi dell'articolo 24 della legge n. 157 del 1992 e a constatare se siano stati istituiti fondi regionali per il risarcimento dei danni prodotti dalla fauna selvatica e dall'attività venatoria, come previsto dall'articolo 26, cagionati delle specie animali indicate negli articoli 2 e 18 e a reperire risorse adeguate per risarcire gli agricoltori dai danni causati dalla fauna selvatica a partire dalla completa attuazione alle disposizioni contenute all'articolo 66, comma 14, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, citata in premessa;
   ad assumere tutte le iniziative normative per scorporare il risarcimento o Pag. 276l'indennizzo per i danni di alcune specie selvatiche o inselvatichite e in particolare dei suidi, dalla quota massima (nell'arco di tre esercizi fiscali) prevista per gli aiuti delle aziende agricole rientranti nel regolamento de minimis;
   a promuovere bandi per la realizzazione e la manutenzione di strumenti di prevenzione a difesa dei comprensori o di singole proprietà, con le caratteristiche stabilite dall'ISPRA o dagli enti di ricerca preposti e l'applicazione dei metodi non cruenti per il controllo della fertilità nonché ad attivare strumenti e risorse finanziarie per promuovere, da parte dei soggetti pubblici e privati interessati, una reale ed efficace azione di prevenzione e la promozione di azioni sperimentali;
   a convocare quindi in tempi brevi un tavolo tematico di concertazione con le regioni e le province autonome sul problema dei danni causati dalla fauna selvatica;
   ad assumere iniziative per vietare ogni ulteriore introduzione per fini venatori di esemplari di cinghiali su tutto il territorio nazionale, attuando o promuovendo azioni concrete per il recupero e la successiva reintroduzione, al termine dell'emergenza, dei suidi autoctoni italiani quali il Sus scrofa majori ed il Sus scrofa meridionalis;
   ad adottare e promuovere, per quanto di competenza, tutte le misure necessarie per prevenire l'ibridazione con i suini allevati al pascolo e quindi iniziative per la regolamentazione di queste forme di allevamento;
   ad assumere iniziative normative volte ad introdurre una moratoria nei confronti dei debiti che i conduttori dei fondi hanno contratto nei riguardi della pubblica amministrazione e di tutti gli atti di pignoramento conseguenti, maturati a seguito del mancato reddito causato dal danneggiamento alle colture e ai ritardi degli indennizzi e risarcimenti dovuti;
   ad assumere le opportune iniziative in sede europea al fine di riconoscere possibili indennizzi per i danni provocati all'agricoltura dalle specie selvatiche non cacciabili.

Pag. 277

ALLEGATO 5

Risoluzioni 7-00249 Cenni e 7-00268 Bernini: Interventi in materia di danni all'agricoltura provocati dalla fauna selvatica.

RISOLUZIONE APPROVATA DALLA COMMISSIONE

  La XIII Commissione,
   premesso che:
    l'agricoltura rappresenta uno dei settori maggiormente incisivi sulla bilancia commerciale del Paese, una delle voci principali di export e di produzioni di eccellenza capace di essere, anche nella grave e perdurante crisi economica ed occupazionale, un comparto anticiclico di irrinunciabile valenza;
    da anni le rilevanti criticità determinate dai danni causati all'agricoltura e alla zootecnia da alcune specie di fauna selvatica o inselvatichita, hanno assunto dimensioni allarmanti, con gravi ripercussioni che incidono inevitabilmente, oltre che sui bilanci economici delle aziende agricole (in particolare delle aziende di medie e piccole dimensioni che vedono compromesso gran parte del reddito ed interessando produzioni di grande qualità ed eccellenza come il settore vitivinicolo) e compromettendo in vaste aree l'equilibrata ed integrata coesistenza sostenibile tra attività umane e specie animali;
    la necessità di affrontare e risolvere il problema è stata, nel corso degli anni, sollecitata dalle associazioni agricole di categoria, dagli enti locali territoriali e dalla Conferenza delle regioni;
    il fenomeno dei danni provocati dalla fauna selvatica alle produzioni agricole e zootecniche continua ad avere i connotati di una vera e propria emergenza, che sollecita l'avvio urgente di iniziative da parte delle istituzioni pubbliche, volte a prevedere un sistema adeguato di efficaci misure preventive e di contrasto;
    dal punto di vista giuridico la fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato, così come disposto dalla legge n. 157 del 1992;
    sempre la legge n. 157 del 1992 attribuisce alle regioni la competenza in materia di normativa, di programmazione e gestione dell'attività venatoria (nel rispetto dei princìpi generali della legislazione quadro nazionale e delle norme internazionali recepite), che hanno per lo più normato ed attivato in materia le amministrazioni provinciali e gli ATC determinando attività di prevenzione e di prelievo della fauna presente in eccesso;
    tali attività sembrano non risultare sufficientemente efficaci e, secondo quando segnalato da numerose amministrazioni locali, pare essere divenuto più complesso ed in alcuni casi quasi inapplicabile, l'iter previsto dalla legge per giungere ai prelievi (province, regioni, ISPRA, ATC);
    alla luce di queste difficoltà e per contrastare e prevenire tale fenomeno sono state effettuate numerose e diversificate iniziative parlamentari, che hanno interessato vari gruppi politici, sia nella XVI che nell'attuale legislatura. Sul tema sono state infatti presentati atti di sindacato ispettivo, risoluzioni, proposte di legge ed avviate approfondite indagini conoscitive;
    secondo le stime le perdite economiche causate dalla fauna selvatica alle Pag. 278colture, la maggior parte delle quali riconducibili ai cinghiali, sono indicate, da alcune associazioni di categoria, in oltre 70 milioni di euro annui (in molti casi rimborsati solo parzialmente);
    sussiste comunque una palese difficoltà a reperire dati ufficiali ed aggiornati sui danni provocati dalla fauna selvatica. A livello nazionale infatti non esiste ad oggi un «database» complessivo con dati qualitativi e quantitativi provocati dalla fauna selvatica. Possiedono «database» le regioni Toscana, Piemonte, Emilia Romagna ed Umbria;
    nel mese di novembre 2010 la Conferenza delle regioni e delle province autonome ha prodotto un documento relativo ad una indagine conoscitiva sui danni causati dalla fauna selvatica alle produzioni agricole e zootecniche relative al periodo (2005-2009). Da tale documento sono emerse, in sintesi, le seguenti indicazioni:
     a) i danni causati dalla fauna selvatica sono ingenti e presenti in tutte le regioni, anche se sono differenziati in ragione del territorio, delle culture presenti e delle specie che li causano;
     b) le specie animali che procurano danni sono in particolare: cinghiale, capriolo, daino, lepre, fagiano, storno, lupo, nutria;
     c) le percentuali significative dei danni sono provocate dalle tre specie maggiormente immesse a scopo venatorio: cinghiale, lepre e fagiano;
     d) i maggiori danni sono stati registrati alle coltivazioni, in particolar modo alle produzioni erbacee (oltre 40 milioni di euro) ed alle produzioni arboree (circa 16 milioni di euro);
     e) i danni interessano anche la zootecnia ed i veicoli stradali a seguito di incidenti causati da animali selvatici;
    la Conferenza delle regioni e delle province autonome ha sollecitato in numerose occasioni il Governo a dare completa attuazione alle disposizioni contenute all'articolo 66, comma 14, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (legge finanziaria per il 2001), che dispone il trasferimento, da ripartire tra le regioni per la realizzazione di programmi di gestione faunistico-ambientale a decorrere dall'anno 2004, di una somma pari al 50 per cento dell'introito derivante dall'applicazione della tariffa sulle concessioni governative relative alle licenze di porto di fucile a uso caccia. Maggiori risorse, a giudizio della conferenza, sarebbero inoltre di aiuto anche agli osservatori faunistici regionali per svolgere l'attività di monitoraggio degli habitat e della fauna selvatica nonché per i prelievi e per le deroghe;
    nella XVI legislatura la Commissione agricoltura della Camera dei deputati ha approvato un documento a conclusione dell'indagine conoscitiva sul «Fenomeno dei danni causati dalla fauna selvatica alle produzioni agricole e zootecniche». Nella relazione viene evidenziata:
     a) la necessità di un'analisi quantitativa e qualitativa del fenomeno attendibile basata su dati certi, realizzata da un ente terzo qualificato e con protocolli scientifici adatti ai censimenti;
     b) una rivalutazione, anche temporanea, dei criteri di immissione sul territorio di esemplari di fauna per le specie di cui è stato accertato uno squilibrio delle popolazioni che causa danni gravi alle popolazioni agricole;
     c) la valorizzazione, da parte degli organismi pubblici competenti, di una interazione sinergica ed integrata con gli agricoltori ed i cacciatori, anche attraverso collaborazioni specifiche e progetti di filiera;
     d) una puntuale individuazione delle aree da ritenersi vocate alla presenza faunistica e di quelle, invece, ove la presenza delle attività agro-silvo-pastorali impone la riduzione al minimo del numero di cinghiali, al fine di prevenire danni alle persone e cose, nonché alle attività che risultano essere quelle maggiormente colpite;Pag. 279
     e) il concreto funzionamento delle aree contigue (articolo 32 della legge n. 394 del 1991) in modo che le stesse possano svolgere la loro funzione di «zona cuscinetto» tra l'area protetta ed il territorio in cui si esercita la caccia;
     f) una maggiore attenzione alla prevenzione ed ai finanziamenti che questa comporta incoraggiando le amministrazioni locali competenti ad incentivare le aziende nella realizzazione di investimenti strutturali per la difesa dai danni;
    appare quindi evidente che ogni strumento o azione efficace per contrastare adeguatamente tale fenomeno debba essere basato su una conoscenza capillare e certificata dei danni prodotti dalla fauna selvatica. La raccolta di questi dati necessita quindi di un protocollo rigoroso ed omogeneo. L'ISPRA (l'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, vigilato dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare) sembrerebbe quindi rappresentare l'ente statale preposto di riferimento scientifico e di ricerca, per mettere a punto e coordinare, di concerto con i Ministeri competenti e gli enti locali di riferimento, un protocollo rigoroso, omogeneo ed efficace di raccolta dei dati per i danni causati dalla fauna selvatica; l'ISPRA è stato infatti istituito con la legge n. 133 del 2008 e svolge anche le funzioni, con le inerenti risorse finanziarie, strumentali e di personale, che erano di competenza dell'ex ISPRA (Istituto nazionale per la fauna selvatica normato dalla legge n. 157 del 1992); l'Istituto nazionale per la fauna selvatica, organo scientifico e tecnico di ricerca e consulenza per lo Stato, le regioni e le province, aveva il compito di censire il patrimonio ambientale costituito dalla fauna selvatica; di studiarne lo stato, l'evoluzione ed i rapporti con le altre componenti ambientali; di elaborare progetti di intervento ricostitutivo o migliorativo sia delle comunità animali sia degli ambienti al fine della riqualificazione faunistica del territorio nazionale; di effettuare e di coordinare l'attività di inanellamento a scopo scientifico sull'intero territorio italiano; di collaborare con gli organismi stranieri ed in particolare con quelli dei Paesi della Comunità economica europea aventi analoghi compiti e finalità; di collaborare con le università e gli altri organismi di ricerca nazionali; di controllare e valutare gli interventi faunistici operati dalle regioni e dalle province autonome; di esprimere i pareri tecnico-scientifici richiesti dallo Stato, dalle regioni e dalle province autonome;
    nonostante i danni interessino tutto il territorio nazionale il fenomeno ha colpito e colpisce in particolare rilevanza alcune regioni, ed in particolare Toscana, Piemonte, Liguria;
    la gravità di tale problematica ha spinto ad esempio la regione Toscana, nei giorni scorsi e per voce dell'assessore all'agricoltura Gianni Salvadori, a chiedere al Governo italiano di farsi promotore nei confronti dell'Unione europea per favorire l'introduzione dello storno fra le specie cacciabili, dal momento che «dopo il cinghiale e il capriolo, è la specie che causa più danni all'agricoltura toscana», e numerose amministrazioni provinciali a scrivere allo stesso Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali segnalando la gravità di danni prodotti da cinghiali e caprioli, come evidenziato da Anna Maria Betti, assessore all'agricoltura e caccia della provincia di Siena e coordinatore Upi Toscana: «Le norme e i regolamenti in materia di gestione della fauna selvatica – ha dichiarato – non sono più adeguati alla situazione attuale e non consentono di mantenere densità sostenibili e giusto equilibrio fra le specie, con l'ambiente circostante e con l'attività agricola»,
    in particolare, in Italia l'approccio ai problemi faunistici legati alla proliferazione dei suidi, è condizionato pesantemente da una burocrazia farraginosa e dalla sottovalutazione della dimensione sociale di questo fenomeno, valutato come una faccenda che riguarda solo i singoli agricoltori o allevatori, di fatto lasciati soli a fronteggiare un fenomeno e che in alcune aree del Paese, ha assunto dimensioni preoccupanti; Pag. 280
    in particolare la diffusione delle popolazioni di cinghiale interessa molte aree del nostro Paese, anche quelle che per loro natura non ne erano vocate, come i pascoli di alta montagna, provocando gravissimi danni alla rinnovazione delle malghe che date le basse temperature ed il ciclo vegetativo molto breve, si rimarginano con molta difficoltà;
    in particolare la proliferazione dei suidi è effetto ed al contempo causa dell'abbandono delle aree agricole e montane da parte delle popolazioni che oltre alla «sofferenza» dovuta alla recente crisi economica, subiscono gravi perdite della produzione che mina ulteriormente la sussistenza degli agricoltori e delle loro famiglie;
    in particolare, tale proliferazione risulta particolarmente impattiva a causa dell'irrazionale introduzione a scopo venatorio di esemplari provenienti dal centro Europa che hanno pressoché soppiantato o contaminato incrociandosi, le specie autoctone quali la Sus scrofa majori in Maremma ed il Sus scrofa meridionalis in Sardegna, che morfologicamente ed etologicamente risultavano essere perfettamente integrate e in equilibrio con l'ambiente;
    in particolare, a differenza di quanto si sia erroneamente ritenuto fino ad oggi, l'ordinaria attività venatoria, così come viene organizzata e gestita in Italia, non rappresenta una forma di controllo delle popolazioni di cinghiale, tantomeno può rappresentarlo un'estensione del periodo di prelievo (deregulation dei calendari venatori) o la concessione del prelievo in aree altrimenti protette. Altresì, l'attività venatoria ha determinato negli anni una destrutturazione della piramide delle classi di età, agevolando la riproduzione degli esemplari più giovani, abbattendo i capi adulti con più di due anni di età;
    in particolare, i metodi di contenimento non cruento, quali le recinzioni meccaniche permanenti e le recinzioni elettrificate (Allegato 1, Metodi di prevenzione diretta dei danni da cinghiale, «Linee guida per la gestione del Cinghiale», ISPRA) ed il trappolaggio per la successiva sterilizzazione farmacologica (Allegato 3, Sistemi di cattura del cinghiale), benché risolutive ed eticamente accettate, non trovano applicazione o perdono di efficacia a causa della mancanza di applicazione da parte degli enti territoriali preposti, di uno schema di piano per la programmazione degli interventi di controllo numerico del cinghiale nelle aree protette (Allegato 2, delle «Linee guida per la gestione del Cinghiale») e della presenza di coadiutori ai piani di controllo numerico del cinghiale, formati secondo lo schema dell'Allegato 4 delle «Linee guida per la gestione del Cinghiale» dell'ISPRA;
    in particolare, oltre all'ISPRA, altri enti come l'ARSIA (Agenzia regionale per lo sviluppo e l'innovazione nel settore agricoloforestale) della Toscana, hanno individuato sistemi di contenimento non cruenti delle popolazioni di cinghiali, come riportato nella pubblicazione «I danni causati dal cinghiale e dagli altri ungulati alle colture agricole. Stima e prevenzione», del 1999. Questi metodi purtroppo hanno trovato scarsa applicazione a causa dell'assenza di una pianificazione a livello territoriale da parte degli enti competenti, e per il fatto che i conduttori dei fondi debbano sobbarcarsi gli ingenti oneri economici necessari alla realizzazione degli interventi;
    occorre evitare che si sia costretti ad affrontare in modo autonomo l'emergenza, ricorrendo all'abbattimento di capi in modo disorganico e in aperta infrazione delle norme costituzionali a tutela della fauna selvatica;
    la legge quadro sulla caccia n. 157 del 1992 e le singole leggi regionali ove emanate, istituiscono un fondo al fine di indennizzare i conduttori di aziende agricole che ne facciano richiesta documentata, con il consiglio regionale che ne regolamenta l'utilizzo. Tuttavia questo piano «no-fault» che dovrebbe rendere quasi scontato l'accoglimento delle domande di risarcimento, trova difficile o Pag. 281impossibile applicazione nelle aree interessate dai danneggiamenti, a causa di lungaggini burocratiche, dell'estrema eterogeneità delle procedure per l'istruzione delle pratiche risarcitorie sul territorio nazionale, nella mancanza di un'assunzione di responsabilità da parte delle autorità degli enti preposti, e nella difficoltà di ottenere dei sopralluoghi condotti da personale qualificato, creando spesso contenziosi a cui corrispondono ulteriori oneri da parte degli agricoltori;
    il mancato rilascio delle certificazioni del danno subito dalle aziende agricole, comporta la mancata registrazione del debito effettivo da parte della regione, ponendola nell'impossibilità di ottemperare al decreto-legge n. 35 dell'8 aprile 2013;
    a seguito di inefficienze amministrative e difficoltà in sede applicativa, il diritto soggettivo al risarcimento che deve essere integrale, viene impugnato dal danneggiato presso il giudice ordinario per contestare l'applicazione dei criteri di liquidazione da parte delle PA, con tempi di attesa delle sentenze tali da ledere il diritto del soggetto privato, e che ingolfano ulteriormente il sistema giudiziario;
    secondo le stime delle associazioni di categoria, la percentuale di danneggiamento da parte dei suidi, ha superato la soglia di tolleranza fissata al 4-5 per cento di perdita di prodotto, ingenerando un allarme sociale. Tra le regioni più colpite abbiamo il Lazio, con circa tre milioni di euro di danni nel solo 2013, soprattutto nei comprensori di Amatrice, Vallepietra, Bracciano, nel reatino e nel viterbese, la Valle d'Aosta, il Piemonte, le Marche, la Toscana, dove rappresentano il 66 per cento dei danni, nel Molise, in provincia di Campobasso, nell'oasi di monte Vairano e in altre regioni,

impegna il Governo

   1. ad intraprendere urgentemente, secondo il principio che la tutela ambientale debba comunque conciliarsi con l'esercizio dell'attività d'impresa, tutte le iniziative tecniche, organizzative e normative, sia in sede nazionale che in sede comunitaria, per contrastare e prevenire con efficacia il problema dei danni alle colture causati dalla fauna selvatica e in particolare i danni dovuti alla proliferazione dei suidi prevedendo una maggiore sinergia con le regioni e le province autonome e con l'ISPRA;
   2. ad istituire, mediante il concerto tra i Ministeri competenti, ISPRA, le regioni e le province autonome, un osservatorio permanente in grado di censire con puntualità, certezza e per mezzo di comprovati parametri tecnici e scientifici, i danni provocati dalla fauna selvatica su tutto il territorio nazionale e ad avviare, nell'ambito delle proprie competenze e di intesa con le regioni e le province autonome, un monitoraggio nazionale sull'applicazione dell'articolo 10 della legge n. 157 del 1992, e in particolare del comma 8, lettera f), al fine di valutare oggettivamente se siano state messe in atto tutte le misure previste dalla legislazione nazionale in materia di risarcimento dei danni da fauna selvatica agli agricoltori e di assicurarsi che si raggiungano dei risultati omogenei sul territorio nazionale così da garantire, al contempo, la tutela della fauna selvatica e il diritto degli agricoltori di essere risarciti in tempi rapidi e certi;
   3. a verificare l'attuazione e la dotazione del fondo presso il Ministero dell'economia e delle finanze ai sensi dell'articolo 24 della legge n. 157 del 1992 e a constatare se siano stati istituiti fondi regionali per il risarcimento dei danni prodotti dalla fauna selvatica e dall'attività venatoria, come previsto dall'articolo 26, cagionati delle specie animali indicate negli articoli 2 e 18 e a reperire risorse adeguate per risarcire gli agricoltori dai danni causati dalla fauna selvatica a partire dalla completa attuazione alle disposizioni contenute all'articolo 66, comma 14, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, citata in premessa; Pag. 282
   4. ad assumere ogni possibile iniziativa normativa per scorporare il risarcimento o l'indennizzo per i danni di alcune specie selvatiche o inselvatichite e in particolare dei suidi, dalla quota massima (nell'arco di tre esercizi fiscali) prevista per gli aiuti delle aziende agricole rientranti nel regolamento de minimis;
   5. a valutare la possibilità di promuovere bandi per la realizzazione e la manutenzione di strumenti di prevenzione a difesa dei comprensori o di singole proprietà, con le caratteristiche stabilite dall'ISPRA o dagli enti di ricerca preposti e l'applicazione dei metodi non cruenti per il controllo della fertilità nonché ad attivare strumenti e risorse finanziarie per promuovere, da parte dei soggetti pubblici e privati interessati, una reale ed efficace azione di prevenzione e la promozione di azioni sperimentali;
   6. a convocare quindi in tempi brevi un tavolo tematico di concertazione con le regioni e le province autonome sul problema dei danni causati dalla fauna selvatica
   7. ad assumere iniziative per vietare ogni ulteriore introduzione per fini venatori di esemplari di cinghiali su tutto il territorio nazionale, attuando o promuovendo azioni concrete per il recupero e la successiva reintroduzione, al termine dell'emergenza, dei suidi autoctoni italiani quali il Sus scrofa majori ed il Sus scrofa meridionalis;
   8. ad adottare e promuovere, per quanto di competenza, tutte le misure necessarie per prevenire l'ibridazione con i suini allevati al pascolo e quindi iniziative per la regolamentazione di queste forme di allevamento
   9. a valutare la possibilità di assumere iniziative normative, compatibilmente con le esigenze di finanza pubblica, volte ad introdurre una moratoria nei confronti dei debiti che i conduttori dei fondi hanno contratto nei riguardi della pubblica amministrazione e di tutti gli atti di pignoramento conseguenti, maturati a seguito del mancato reddito causato dal danneggiamento alle colture e ai ritardi degli indennizzi e risarcimenti dovuti;
   10. ad assumere le opportune iniziative in sede europea al fine di riconoscere possibili indennizzi per i danni provocati all'agricoltura dalle specie selvatiche.
(8-00085) «Cenni, Massimiliano Bernini, Sani, L'Abbate, Oliverio, Luciano Agostini, Antezza, Anzaldi, Benedetti, Carra, Cova, Covello, Dallai, Dal Moro, Fiorio, Gagnarli, Gallinella, Mongiello, Palma, Romanini, Taricco, Tentori, Terrosi, Lupo, Parentela, Prina, Venittelli, Zanin».

Pag. 283

ALLEGATO 6

7-00454 Benedetti, 7-00472 Venittelli, 7-00477 Benedetti e 7-00491 Franco Bordo: Sull'attuazione della politica comune della pesca (PCP).

SECONDA RIFORMULAZIONE DELLA RISOLUZIONE 7-00454

  La XIII Commissione,
   premesso che:
    in base all'articolo 2 del regolamento dell'Unione europea n. 1380/2013, viene posto come obiettivo cardine della politica comune della pesca per il periodo 2014-2020 il rispetto del tasso di rendimento massimo sostenibile (MSY), obiettivo che deve essere ottenuto entro il 2015 ove possibile, e progressivamente al più tardi entro il 2020 per tutti gli stock ittici;
    a norma dell'articolo 15 del regolamento dell'Unione europea n. 1380/2013 vige l'obbligo di sbarco per «tutte le catture di specie soggette a limiti di cattura e, nel Mediterraneo, anche le catture di specie soggette a taglie minime quali definite nell'allegato III del Regolamento UE 1967/2006, effettuate nel corso di attività di pesca nelle acque unionali, o da pescherecci unionali al di fuori delle acque unionali in acque non soggette alla sovranità o alla giurisdizione di Paesi terzi, nei luoghi di pesca e nelle zone geografiche elencati di seguito sono portate e mantenute a bordo dei pescherecci, registrate, sbarcate e imputate ai contingenti, se del caso». Per rendere possibile l'obbligo di sbarco a partire dal 1o gennaio 2015 è necessario che gli Stati membri, anche sulla base di un approccio decisionale maggiormente regionalizzato, cooperino e ne elaborino le effettive misure di attuazione;
    per quanto riguarda la pesca al tonno rosso, vige un totale ammissibile di cattura (TAC) stabilito annualmente dall'ICCAT. Gli Stati membri dell'Unione europea coinvolti attivamente nella pesca di questa risorsa sono: Spagna, Francia, Italia, Grecia, Portogallo, Cipro, Malta e Croazia. Gli 8 Paesi condividono il contingente dell'Unione europea, di cui Spagna e Francia detengono le quote maggiori. Nel 2014 il contingente dell'Unione europea è stato aumentato del 5 per cento, pari a 7.939 tonnellate, ed è probabile un aumento di quote anche per il 2015. La Spagna ha già chiesto formalmente l'aumento delle quote di tonno rosso a partire dalla prossima campagna di pesca, dopo che negli ultimi anni il comparto ha fatto sacrifici importanti per consentire al tonno rosso di recuperare gli stock. L'Unione europea presenterà la sua proposta in merito alle quote pesca del tonno rosso dopo il Consiglio dei ministri europei della pesca di ottobre, che si terrà sotto la presidenza italiana dell'Ue;
    la Commissione europea ha chiesto formalmente all'Italia di conformarsi alle norme comunitarie in materia di pesca nel Mediterraneo; a norma del regolamento (UE) 1967/2006, gli Stati membri devono infatti adottare piani nazionali di gestione per le attività di pesca condotte con reti da traino, sciabiche da natante, sciabiche da spiaggia, reti da circuizione e draghe all'interno delle rispettive acque territoriali. I piani di gestione italiani dovevano essere Pag. 284adottati entro il 31 dicembre 2007, tuttavia il nostro Paese, come altri Stati membri, non dispone ancora di validi piani di gestione per le attività di pesca condotte con i vari sistemi di pesca;
    i piani nazionali sono strumenti importantissimi per uno sfruttamento sostenibile delle risorse alieutiche nel Mediterraneo, mare in cui, tradizionalmente, non si applica la gestione della pesca basata sui contingenti. In mancanza di una risposta soddisfacente entro due mesi, la Commissione potrà pertanto deferire l'Italia alla Corte di giustizia dell'Unione europea;
    a norma del regolamento (UE) 1380/2013, la Commissione e gli Stati membri provvedono affinché il sostegno dei fondi strutturali e di investimento europei sia coerente con le pertinenti politiche, con i principi orizzontali e con le priorità dell'Unione europea. Ad aprile 2014, a seguito della trasmissione dell'Accordo di partenariato da parte del Governo italiano, i competenti servizi della Commissione europea formulavano delle osservazioni in merito, rilevando dei vulnus nella strategia di utilizzo determinata per i Fondi SIE. In particolare, in relazione alla programmazione del Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (FEAMP) la Commissione europea evidenziava alcune criticità relative al meccanismo di attuazione, posto che molte funzioni sono delegate al livello regionale, sebbene incluse nel PON, alla strategia di sviluppo delle imprese dell'acquacoltura; alle strategie di sviluppo tra attività economiche marittime ed ambiente marino; all'analisi sulla biodiversità marina, le zone marine protette e la qualità delle acque marine,

impegna al Governo:

   ad attivare urgentemente le iniziative volte alla definizione del rendimento massimo sostenibile entro i termini stabiliti, posto che il mare Mediterraneo è il bacino che presenta il 91 per cento degli stock ittici sovra sfruttati;
   a promuovere immediatamente in sede di Consiglio dell'Unione europea la conclusione degli accordi di cooperazione tra Stati membri in modo da raggiungere l'implementazione dei piani gestione degli sbarchi nelle aree di pesca condivise entro il termine stabilito del 1o gennaio 2015;
   a intervenire nelle opportune sedi comunitarie affinché, qualora l'ICCAT, la cui prossima riunione è in calendario per il mese di novembre 2014, stabilisca un aumento delle quote di cattura del tonno rosso per la campagna 2015, si privilegi la redistribuzione a favore dei sistemi di pesca più sostenibili, in particolare quelli inclusi nella piccola e media pesca;
   ad adottare urgentemente il piano nazionale di gestione per le attività della pesca per cui non sia stato ancora adottato (ad esempio draghe);
   a predisporre il programma operativo nazionale del FEAMP in modo da superare le criticità evidenziate nell'Accordo di partenariato da parte della Commissione dell'Unione europea.
(7-00454)
(Nuova formulazione) «Benedetti, Massimiliano Bernini, Gagnarli, Gallinella, L'Abbate, Parentela, Brugnerotto, Businarolo, Busto, Cozzolino, Da Villa, D'Incà, Fantinati, Grillo, Rizzetto, Rostellato, Spessotto, Turco».

Pag. 285

ALLEGATO 7

7-00454 Benedetti, 7-00472 Venittelli, 7-00477 Benedetti e 7-00491 Franco Bordo: Sull'attuazione della politica comune della pesca (PCP).

RIFORMULAZIONE DELLA RISOLUZIONE 7-00472 VENITTELLI

  La XIII Commissione,
   premesso che:
    la filiera produttiva del settore primario della pesca è in una fase di straordinaria difficoltà; dal 2000, la produttività si è quasi dimezzata (-48,84 per cento); il personale imbarcato si è ridotto di circa il 40 per cento (persi 20.000 posti di lavoro diretti) a fronte di una riduzione della flotta del 30 per cento. I ricavi della pesca marittima si sono contratti del 31 per cento, con una crisi di redditività che ha raggiunto dimensioni straordinarie per il concomitante aumento dei costi di produzione delle imprese, anche per effetto dell'aumento del costo del gasolio. Il deficit della bilancia commerciale ittica si attesta sui 4,3 miliardi di euro l'anno, con una spesa sui mercati esteri di circa 11 milioni di euro al giorno;
    il settore della filiera ittica gioca un ruolo importante tra i diversi comparti che costituiscono il cluster marittimo italiano (trasporti marittimi, armamento, servizi di logistica portuale, porti, cantieristica, nautica): con un contributo di 4,4 miliardi, genera il 15 per cento del PIL, delle attività marittime, al pari della cantieristica navale, e il maggior numero di occupati, pari a circa 60 mila addetti diretti, acquacoltura compresa, rispetto agli altri segmenti del sistema marittimo (dati Censis);
    la filiera ittica nazionale fronteggia la sfida di dare attuazione alla ambiziosa riforma della Politica comune della pesca 2014-2020, entrata in vigore il 1o gennaio scorso, che impone sostanziali e gravosi cambiamenti introducendo inediti approcci alla gestione delle risorse e nuovi obblighi, come ad esempio il raggiungimento del rendimento massimo sostenibile (MSY) per tutti gli stock nel 2020, l'obbligo di sbarco delle catture sottotaglia, la redazione di piani pluriennali di gestione delle risorse e la regionalizzazione della gestione;
    i Piani di gestione pluriennali, da redigersi in forma regionalizzata e quindi di concerto con altri Stati membri, rappresentano lo strumento fondamentale per dare risposta allo stato di profonda difficoltà in cui si dibattono segmenti specifici della pesca professionale, come ad esempio ed in particolare la pesca dei piccoli pelagici e la pesca dei molluschi bivalvi, le cui catture hanno un peso notevole sulla produzione nazionale;
    il 1o gennaio 2014 è entrato in vigore anche il nuovo Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (FEAMP) che dovrà sostenere e contribuire al conseguimento degli obiettivi della PCP riformata. Per l'Italia gli stanziamenti ammontano a circa 537 milioni di euro nei prossimi sette anni, stanziamenti in cui per la prima volta rientrano anche gli interventi previsti dalla Politica marittima integrata;
    a fronte di una consistente e progressiva riduzione degli stanziamenti nazionali a favore della filiera ittica per effetto degli interventi di contenimento Pag. 286della finanza pubblica, è una priorità strategica per il nostro Paese garantire la più immediata attivazione e la migliore capacità di spesa delle risorse europee del FEAMP, ovviando a tutte quelle lentezze ed inefficienza varie che sono culminate, quanto alla precedente gestione del Fondo Europeo Pesca (FEP), nella perdita definitiva di consistenti aiuti, soprattutto nella parte decentrata alle regioni;
    la presidenza italiana dell'Unione europea rappresenta una grande opportunità per affrontare da una posizione di leadership in Europa alcuni dossier fondamentali per la filiera ittica nazionale, che rappresentano un grave rischio per gli impatti sociali ed occupazionali attesi, quali l'attuazione, del piano d'azione (Action Plan) per i controlli delle attività di pesca professionale; la discussione delle misure contenute nella proposta di Regolamento europeo cosiddetto Omnibus (COM 889/2013); la discussione della proposta di Regolamento europeo (COM 265/2014) per la messa al bando delle reti derivanti dal 1o gennaio 2015;
    il coordinamento pesca dell'Alleanza delle cooperative italiane ha presentato al tribunale dell'Unione europea un ricorso contro l’Action Plan presentato alla Commissione europea e adottato dalla stessa con decisione C(2013) 8635 del 6 dicembre 2013 «per ovviare alle carenze del sistema italiano di controllo della pesca». Il tribunale è stato chiamato a valutare l'arbitrarietà, la proporzionalità e la consistenza di nuove e gravose limitazioni che appesantiscono ulteriormente un quadro sanzionatorio e ispettivo già iper-regolamentato e con diverse difficoltà applicative;
    la proposta di Regolamento europeo cosiddetto Omnibus (COM 889/2013) rappresenta una sorta di provvedimento ponte, in vista di un più omogeneo provvedimento sulle misure tecniche, resosi necessario per dare attuazione ed eliminare gli ostacoli legislativi relativi all'obbligo di sbarco introdotto con la riforma della Politica comune della pesca a partire dal 1o gennaio 2015. Nel testo, all'esame del Parlamento europeo, trovano spazio ulteriori obblighi introdotti a carico delle imprese di pesca (stivaggio separato delle catture sottotaglia, nuova strumentazione a bordo per il controllo a distanza delle catture, e altro);
    la proposta di Regolamento COM 265/2014 che istituisce il divieto di pesca con reti da posta derivanti a partire dal 1o gennaio 2015 prevede l'abolizione definitiva di una serie di attrezzi di pesca artigianali che in l'Italia riguardano ben 9 mestieri in totale di pesca tradizionale (tra cui manaide, occhiatara, sgomberare, ricciolara, e altro). Si tratta di mestieri che vengono esercitati stagionalmente, rappresentando una indispensabile fonte di reddito e occupazione nelle aree costiere, dove mancano reali alternative occupazionali, e dove costituiscono la base di rinomate lavorazioni gastronomiche artigianali, la cui scomparsa costituirebbe tra l'altro una perdita per le produzioni tipiche dell'agroalimentare nazionale;
    due studi scientifici condotti da enti di ricerca indipendenti per conto della stessa Commissione europea (Progetto DRIFTMED e «Study in support of the review of the eu regime on the small-scale driftnet fisheries») hanno messo in discussione l'opportunità di un bando totale, da una parte confermando la gravità dell'impatto socio-economico ed occupazionale di questa misura, dall'altra mettendo in guardia sulla incertezza delle sue ricadute ambientali, difficili da quantificare soprattutto per il rischio che lo sforzo di pesca si sposti su mestieri meno sostenibili;
    a questo scenario comunitario si aggiungono le misure di politica nazionale, non meno complesse;
    il Programma nazionale triennale 2013-2015 ha registrato ampio consenso nella categoria, ma gli strumenti nevralgici più innovativi in esso contenuti, quali il Pag. 287Fondo per lo sviluppo dell'imprenditoria ittica, il Piano assicurativo nazionale ed il Fondo interbancario di garanzia, sono rimasti lettera morta, perché privi di adeguate risorse finanziarie. Ciò ostacola il raggiungimento degli obiettivi prefissati per il rilancio della competitività delle imprese ittiche;
    per garantire adeguati ammortizzatori sociali agli occupati del settore della pesca, che al momento continuano ad essere esclusi dal poter beneficiare in forma stabile di queste tutele, è necessario prevedere apposite dotazioni nell'ambito del Fondo sociale per l'occupazione e la formazione (articolo 18, comma 1, decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, e succ. mod.) per la copertura degli interventi previsti dalla Cassa integrazione in deroga;
    il sovrasfruttamento delle risorse continua a rappresentare il principale ostacolo per lo sviluppo della filiera ittica, ma non va però dimenticato che contribuiscono ad aggravare la crisi del settore gli impatti delle crisi ambientali (mucillagini, cambiamenti climatici, proliferazioni algali, morie, eccetera) e di tutte le altre fonti di alterazione dell'ecosistema marino, che incidono sulla tenuta e sulla qualità delle produzioni ittiche, non ultime le attività connesse alla ricerca e sfruttamento di giacimenti di idrocarburi in mare;
    i nuovi e più qualificanti impegni derivanti dall'attuazione della riforma della Politica comune della pesca e del nuovo FEAMP necessitano di una urgente e più adeguata organizzazione della Direzione generale pesca e acquacoltura, oggi sotto organico;
    è necessario sostenere il processo di transizione della pesca italiana ai cambiamenti imposti dalla riforma della politica comune della pesca e del suo nuovo strumento finanziario. È pienamente funzionale a questo obiettivo il rafforzamento delle Convenzioni tra pubblica amministrazione e Associazioni di categoria, per sostenere operatori ed imprese sul fronte degli interventi di semplificazione degli adempimenti e dell'agevolazione dell'accesso al credito,

impegna il Governo:

   a garantire una attuazione della Politica comune della pesca in linea con i principi di sostenibilità ambientale e socio-economica per valorizzare la filiera ittica come risorsa della crescita blu e dell'agroalimentare italiano di qualità;
   a promuovere il dialogo nell'area mediterranea per la realizzazione dei piani di gestione pluriennali previsti dalla Politica comune della pesca;
   ad intraprendere senza ulteriori indugi tutte le azioni possibili per dare al Fondo europeo degli affari marittimi e della pesca (FEAMP) una piena e veloce attuazione, scongiurando ritardi che potrebbero avere ripercussioni sul sistema delle imprese e sulla qualità ed efficienza dei Fondi strutturali comunitari;
   a mettere in atto tutte le iniziative possibili per semplificare gli adempimenti a carico degli operatori e per permettere agli organismi dediti al controllo di svolgere al meglio i propri compiti;
   a prevedere nella prossima legge di stabilità sufficienti dotazioni per procedere all'attivazione dei qualificanti strumenti previsti nel programma nazionale triennale di settore, nonché a reperire risorse finanziarie per un rifinanziamento della cassa integrazione in deroga per il settore;
   a salvaguardare lo sviluppo ottimale e sostenibile di tutte le attività connesse al mare come requisito fondamentale per garantire la produttività della pesca e la qualità delle produzioni ittiche, in maniera prioritaria rispetto a tutte le altre attività di sfruttamento del mare;Pag. 288
   a procedere in tempi stretti al rafforzamento della struttura ministeriale della direzione generale della pesca e acquacoltura, colmando i ritardi dovuti alle prorogate vacatio dirigenziali;
   ad assumere le necessarie iniziative per procedere al rinnovo e al rafforzamento delle convenzioni tra pubblica amministrazione ed associazioni per una migliore qualifica della spesa e per garantire l'erogazione di servizi che non sarebbe possibile fornire se non tramite la loro esternalizzazione e a valutarne nel tempo l'efficacia.
(7-00472)
(Nuova formulazione) «Venittelli, Luciano Agostini, Oliverio, Antezza, Anzaldi, Carra, Cenni, Cova, Covello, Dal Moro, Fiorio, Marrocu, Mongiello, Palma, Prina, Romanini, Sani, Taricco, Tentori, Terrosi, Zanin».