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Resoconto dell'Assemblea

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XVII LEGISLATURA


Resoconto stenografico dell'Assemblea

Seduta n. 871 di lunedì 16 ottobre 2017

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE SIMONE BALDELLI

La seduta comincia alle 14,30.

PRESIDENTE. La seduta è aperta.

Invito il deputato segretario a dare lettura del processo verbale della seduta precedente.

RAFFAELLO VIGNALI, Segretario, legge il processo verbale della seduta del 9 ottobre 2017.

PRESIDENTE. Se non vi sono osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

  (È approvato).

Missioni.

PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del Regolamento, i deputati Gioacchino Alfano, Alli, Amendola, Amici, Bellanova, Bernardo, Dorina Bianchi, Biondelli, Bobba, Bocci, Bonifazi, Michele Bordo, Borletti Dell'Acqua, Boschi, Matteo Bragantini, Bratti, Bressa, Brunetta, Caparini, Casero, Castiglione, Catania, Causin, Antimo Cesaro, Cirielli, D'Alia, Dambruoso, De Micheli, Del Basso De Caro, Dellai, Di Gioia, Epifani, Faraone, Fedriga, Ferranti, Fioroni, Gregorio Fontana, Fontanelli, Franceschini, Garofani, Gelli, Gentiloni Silveri, Giachetti, Giacomelli, Giancarlo Giorgetti, Gozi, La Russa, Laforgia, Locatelli, Lorenzin, Losacco, Lotti, Lupi, Madia, Manciulli, Marazziti, Migliore, Orlando, Pisicchio, Polidori, Portas, Rampelli, Ravetto, Realacci, Rosato, Rughetti, Sanga, Sani, Scalfarotto, Sorial, Tabacci, Simone Valente, Vallascas, Velo e Vico sono in missione a decorrere dalla seduta odierna.

I deputati in missione sono complessivamente ottanta, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell'allegato A al resoconto della seduta odierna (Ulteriori comunicazioni all'Assemblea saranno pubblicate nell'allegato A al resoconto della seduta odierna).

Discussione della mozione Alberti ed altri n. 1-01707 concernente iniziative di competenza in merito alla nomina del Governatore della Banca d'Italia (ore 14,35).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della mozione Alberti ed altri n. 1-01707 concernente iniziative di competenza in merito alla nomina del Governatore della Banca d'Italia

(Vedi l'allegato A).

Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi riservati alla discussione della mozione è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (Vedi calendario).

Avverto che è stata presentata la mozione Busin ed altri n. 1-01726 che, vertendo su materia analoga a quella trattata dalla mozione all'ordine del giorno, verrà svolta congiuntamente. Il relativo testo è in distribuzione.

(Discussione sulle linee generali)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali delle mozioni.

È iscritto a parlare l'onorevole Pesco, che illustrerà la mozione n. 1-01707, di cui è cofirmatario.

DANIELE PESCO. Grazie, Presidente. Oggi siamo riuniti per parlare di una mozione secondo me molto importante, che ha che fare con il Governatore della Banca d'Italia; non per altro, ma, soprattutto, per il fatto che è in scadenza. Sono quasi trascorsi cinque anni dall'ultima nomina, che ha visto l'incarico dato a Ignazio Visco, e per cinque anni la Banca Italia è stata governata, secondo noi, in modo alquanto curioso, visto che negli ultimi cinque anni si sono verificati numerosi crack finanziari di diverse banche, a volte in modo accompagnato a volte no dalla stessa Banca d'Italia, e la cosa, quindi, ci sorprende molto, ma sorprende molto anche gli italiani, i cittadini italiani che hanno riposto nelle banche i loro risparmi. Molti di questi cittadini italiani hanno perso i loro risparmi, spesso utilizzando quel sistema chiamato obbligazione subordinata, che, purtroppo, è rimasta per molto tempo sconosciuta a molti cittadini, e, grazie a questo strumento, molti cittadini hanno veramente perso tanti soldi, ma ci arriveremo dopo.

Banca d'Italia è, diciamo, un ente pubblico, anche se non siamo certissimi che sia proprio un ente pubblico, ma diciamo che svolge un servizio pubblico quale quello di vigilare le banche e, soprattutto, quello di regolamentare, con regole, diciamo così, secondarie, la gestione delle banche. Ma, soprattutto, la cosa più importante: vigila sull'erogazione del credito, un'attività alquanto delicata che deve essere vigilata in modo accurato. La Banca d'Italia, in più, negli ultimi anni è entrata a far parte del sistema europeo delle banche centrali, e quindi vigila, diciamo purtroppo, non solo sulle banche grandi e piccole, ma vigila ultimamente solo sulle banche piccole. Dico purtroppo perché a noi piacerebbe che la nostra Banca Italia possa ancora continuare a vigilare su tutte le banche; purtroppo non è più così. Visti gli esiti, però, ci verrebbe da dire che forse è meglio così, nel senso che, visto cos'è successo sulle banche piccole, dovremmo dire che per fortuna c'è qualcuno che vigila quantomeno su quelle grandi, ma a noi piacerebbe avere una Banca d'Italia gestita in modo corretto e soprattutto efficace, in modo da evitare problemi sia alle banche piccole che alle banche grandi, ma questo non è più possibile.

E non è possibile, probabilmente, perché in Banca d'Italia non sono state elette le persone giuste nello svolgimento di incarichi importanti come quello del Governatore, ed è all'evidenza di tutti, non ho niente di personale contro il Governatore Ignazio Visco; però, vedendo cosa è successo negli ultimi tempi, qualche segnale d'allarme e qualche punto interrogativo sorge su come sia stato gestito il sistema bancario italiano, e, secondo noi, è stato gestito in modo alquanto curioso. Partiamo da una delle più importanti cose che può fare la Banca d'Italia. La Banca d'Italia abbiamo detto che può vigilare, ma cosa può fare nel momento in cui si rende conto che c'è qualcosa che non va?

Può innanzitutto ammonire, chiedendo al dirigente di banca che ha commesso l'infrazione di non farlo mai più; poi, in un secondo tempo, può arrivare, se ci sono infrazioni più gravi, a dare delle sanzioni amministrative, che vanno poi logicamente al bilancio dello Stato; in ultimo caso, in casi ancora più gravi, può arrivare a impedire alle stesse persone che hanno commesso quelle infrazioni di poterle ripetere, escludendole dalla gestione di altri incarichi dirigenziali all'interno delle banche. E quindi, insomma, diciamo che di strumenti la Banca d'Italia ne ha; si è sempre lamentata di non avere strumenti adeguati per riuscire a sanare o a prevenire crisi bancarie, ma, secondo noi, gli strumenti ci sono e vanno solo utilizzati in modo concreto, non com'è stato fatto negli ultimi anni. Per parlare in modo concreto su quello che è successo negli ultimi anni, non possiamo non parlare di banche importanti come Monte Paschi di Siena, le quattro banche salvate con la famosa risoluzione “salva banche” e le banche venete. Ma partiamo dalla più importante secondo noi, Monte Paschi, che non è una banca ancora fallita perché, fortunatamente, ancora qualcosa nelle casse c'è, però è una banca che, per poter andare avanti, ha dovuto utilizzare l'ultimo intervento pubblico, e sappiamo che è stato un intervento alquanto oneroso per le casse pubbliche.

Ebbene, Monte Paschi, facendo una somma del valore azionario della banca circa dieci anni fa, delle perdite che si sono susseguite in questi anni, degli aumenti di capitali fatti, si arriva ad una cifra di circa 61 miliardi di euro. Quindi, Banca d'Italia ha assistito in modo un po' passivo a questo evolversi della situazione in modo negativo della Banca Monte Paschi di Siena, tant'è che le perdite totali sono arrivate a 61 miliardi di euro. Questi 61 miliardi di euro in che modo sono articolati? Sono articolati partendo, ad esempio, da uno dei più grossi buchi creati in una banca grazie ad un solo acquisto. Il solo acquisto a cui mi riferisco è la banca Antonveneta, lo ripetiamo spesso, ma secondo me va ripetuto anche oggi, visto che parliamo proprio di questa mozione. Ebbene, quella banca valeva praticamente tre miliardi; fu venduta grazie a un'autorizzazione che abbiamo qui, firmata non da Visco, ma da Mario Draghi, il Governatore della Banca centrale europea, che nel 2013 ha detto che si poteva proseguire nell'acquisto di questa banca da parte di Monte Paschi per un valore di nove miliardi. I soldi c'erano, non tutti, si potevano utilizzare strumenti ibridi e aumenti di capitale per riuscire a coprire questi nove miliardi di euro, così si legge nell'autorizzazione, ma il conto non era nove miliardi di euro. Il conto era 16 miliardi di euro, perché l'Antonveneta era indebitata per circa 7 miliardi di euro con le banche, mi sembra dello stesso gruppo, Abn Amro. E, quindi, il conto era 16 miliardi di euro, e nessuno se n'è accorto; ma anche il Governatore Visco, negli ultimi anni, non ha fatto nulla, secondo noi, per riuscire a porre rimedio a questa situazione, perché, se ci rendiamo conto, se ci si rende conto che una banca ha fatto un acquisto incauto, acquistando un'altra banca per un valore spropositato, qualcosa bisogna fare. E invece no, assistiamo a continui aumenti di capitale di Monte Paschi, che praticamente hanno sommato diversi, svariati miliardi; ora non ricordo la cifra precisa, ma comunque si parla quasi di 17 miliardi di aumenti di capitale negli ultimi anni, e non è stato fatto nulla. Tutti questi aumenti di capitale sono stati approvati, autorizzati, senza che si intervenisse neanche con l'invio di ispettori in Banca Monte Paschi per capire cosa stesse succedendo.

Questa è una vigilanza fatta un po' a senso unico, un po' con le fette di prosciutto sugli occhi. Perché non si è intervenuti in modo specifico sulla Banca Monte dei Paschi di Siena? Tant'è che è dovuto poi intervenire lo Stato negli ultimi mesi, abbiamo visto cos'è successo; si è intervenuti in modo diverso da quello che è successo nelle altre banche, dove abbiamo assistito a situazioni patrimoniali non identiche, ma simili. E adesso chi pagherà le conseguenze saranno comunque i cittadini italiani, perché comunque i soldi che verranno utilizzati sono soldi pubblici; certo, per fortuna, quanto meno, lo Stato diventa azionista di questa banca e si spera che le cose vadano meglio, ma, secondo noi, di dubbi ce ne sono ancora tanti. Dicevo che su Banca Monte Paschi Bankitalia si è comportata in modo molto diverso, e anche il Governo, logicamente, ha accompagnato in modo diverso queste situazioni, perché, ad esempio, sulle quattro banche si è utilizzato tutto un altro sistema, e mi riferisco alla risoluzione bancaria delle quattro banche, che erano CariChieti, Banca Marche, l'Etruria e Carife. Su queste quattro banche si è seguita la linea di anticipare quello che prevedeva il bail-in, che doveva entrare in vigore in modo integrale e completo solo pochi mesi dopo.

Ebbene, in quel caso Banca d'Italia è stata complice del Governo, perché comunque gli atti sono stati cofirmati sia dal Governo che da Banca d'Italia, ma alcuni atti anche dalla BCE. Ebbene, che cosa c'è scritto su questi atti? C'è scritto che su queste quattro banche era necessario svalutare le sofferenze al 17 per cento, una cifra estremamente bassa. Che cosa vuol dire svalutare le sofferenze al 17 per cento? Vuol dire andare ad analizzare i crediti deteriorati delle banche, esaminare in modo più approfondito le sofferenze e stabilire qual è il valore di quelle sofferenze bancarie. Ebbene, sappiamo che ultimamente queste sofferenze vengono vendute su percentuali tra il 20, 25 o 30 per cento e, in quel caso, sono state valutate al 17 per cento. Una valutazione così drastica è stata un elemento che ha potuto dire che le banche erano insolventi. Banche insolventi e, quindi, si è potuto ricorrere alla risoluzione.

Non è proprio così, nel senso che c'è del pregresso, perché queste banche, a differenza del Monte dei Paschi che non è mai stata commissariata, erano commissariate da Bankitalia. E cosa hanno fatto i commissari negli ultimi anni? Non hanno fatto altro che accrescere la svalutazione di questi crediti in sofferenza a dei livelli anche superiori alla media italiana. Praticamente, hanno svolto un'attività un po' troppo, secondo noi, prudenziale, perché a svalutare in modo così forte i crediti deteriorati, sì ti permette di mettere più fieno in cascina per eventuali tracolli ed eventuali perdite, però alla fine, comunque, non permette alla banca di continuare nella sua gestione. Forse i commissari avrebbero dovuto fare una cosa diversa, fare il possibile per riuscire a compensare eventuali perdite, magari creando maggiori profitti, con altre attività. Però, svalutare in questo modo vuol dire far chiudere la banca e ci sono riusciti, tant'è che appunto il 22 novembre 2015 è arrivata la risoluzione delle quattro banche.

Andiamo al giorno prima del 22 novembre 2015. Sicuramente tre banche avevano i conti, grazie a queste svalutazioni fatte dai commissari negli ultimi tempi, dei valori patrimoniali al di sotto del patrimonio di vigilanza necessario per poter continuare la loro attività. Ma in una banca, CariChieti, probabilmente la svalutazione effettuata dai commissari nei mesi precedenti non era sufficiente per riuscire a dichiarare insolvente la banca, tant'è che il giudice liquidatore della CariChieti, mesi dopo, ha proprio detto questo. Ha detto che la banca al momento dall'avvio della risoluzione non era insolvibile, bensì aveva ancora dei soldi da parte e, quindi, l'attività bancaria poteva ancora proseguire ed è l'unico filone d'inchiesta che è ancora aperto praticamente e che vede un po' protagonista la Banca d'Italia, perché purtroppo le procure in Italia - e su questo mi pesa un po' dirlo, ma è così - non hanno il coraggio di andare ad analizzare l'attività svolta da Banca d'Italia. Ma Banca Italia è un ente fatto di persone e le persone possono sbagliare, e se le persone sbagliano, secondo, me è giusto che la procura indaghi per verificare se hanno fatto degli errori con dolo o no. Secondo noi, sull'attività di Banca d'Italia il dolo c'è, perché Banca d'Italia si è resa protagonista di azioni che potevano essere tranquillamente evitate con delle attività di vigilanza svolte in modo maggiormente efficace. Questo non è successo e siamo arrivati al tracollo delle quattro banche; svalutazione al 17 per cento di queste sofferenze, che tra l'altro adesso stanno fruttando tanti soldini a chi sta gestendo queste sofferenze. Tanti soldini, non si legge molto sulla stampa in proposito, però, a quanto pare, stanno rendendo abbastanza bene, quindi non era un credito da svalutare al 17 per cento, sicuramente valevano di più.

Quindi, che interessi stiamo seguendo, che interessi sta facendo Banca d'Italia? Gli interessi di chi? Secondo noi, sta facendo gli interessi di chi sta gestendo questi crediti deteriorati perché se alla fine questi crediti non erano così malandati, ma si riesce a recuperare qualcosa, vuol dire che alla fine, probabilmente, bisognava fare un'analisi più dettagliata.

Questo è quello che è successo con le quattro banche: azzeramento dei valori delle obbligazioni subordinate, azzeramento delle azioni. Abbiamo diverse centinaia di migliaia di famiglie italiane che si sono ritrovate sul lastrico. Ne sono nate delle proteste, il MoVimento 5 Stelle ha cercato di fare il possibile per sostenere le proteste di questi risparmiatori in queste Aule e nelle Commissioni competenti, tra cui appunto la Commissione finanze, e si è arrivati a dei rimborsi parziali per alcuni. Molti non hanno ancora visto nulla e gli arbitrati - la seconda chance per chi ha perso dei soldi di recuperare qualcosa - stanno partendo molto, ma molto, molto a rilento. Questo che cosa ci fa notare? Ci fa notare che qualcosa non ha funzionato, che l'attività di Banca d'Italia non ha funzionato bene, perché se no adesso non dovremmo essere qui ad affrontare questi temi.

Ma andiamo avanti, perché oltre al Monte dei Paschi, oltre alle quattro banche, ci sono anche le banche venete. Ebbene, anche in questo caso avevamo segnali d'allarme che partivano dal 2007-2008 e nessuno ha fatto nulla per riuscire a dare seguito alle denunce che anche Adusbef ha fatto in quegli anni, ed erano gli anni in cui già molti mutuatari denunciavano il fatto che, per poter accedere a un mutuo o a un finanziamento, bisognava sottoscrivere delle azioni, ma non delle azioni simboliche della banca per diventare socio, per diventare socio della cooperativa, ma azioni imponenti. Leggiamo su un prospetto informativo (uso questa espressione per sintesi, in realtà si parla del terzo supplemento al documento di registrazione e alla nota di sintesi alla nota informativa sugli strumenti finanziari, in pratica non è altro che il prospetto informativo di un aumento di capitale), nel sottotitolo, nella descrizione sommaria di ciò che è questo documento: la sottoscrizione della quantità individuale minima di azioni prevista dallo statuto per richiedere l'ammissione a socio è di 100 azioni, con possibilità per il nuovo socio di accedere ad un finanziamento per il pagamento del prezzo di sottoscrizione delle azioni medesime nel rispetto di quanto disposto dall'articolo 2358 del codice civile. Che cosa vuol dire? Vuol dire che sul prospetto di questo aumento di capitale c'è scritto che la banca poteva finanziare chi faceva questo aumento di capitale per diventare socio. Quindi, era pure scritto e perché Banca d'Italia non ha indagato su questi mutui baciati che servivano per acquistare azioni, che servivano al mutuatario per far le cose che voleva fare (acquisto della casa o investimenti nella propria azienda)? Qui si legge in modo chiaro che l'aumento di capitale poteva essere tranquillamente fatto anche da chi non aveva i soldi e si poteva far prestare questi stessi soldi dalla banca nel rispetto dell'articolo 2358 del codice civile, ma sappiamo benissimo che questo è un proforma. I soldi che sono usciti in questo senso sono veramente tanti e Banca Italia in questi anni per mettere un freno a questa politica non ha fatto assolutamente nulla.

Questo è molto grave, perché in questo caso si parla di diverse decine di miliardi di perdite delle banche venete a cui si è cercato di far fronte attraverso la ricapitalizzazione - ce la ricordiamo tutti - del Fondo Atlante. Un fondo logicamente promosso da privati, ma che secondo noi aveva molto della forma pubblica, i maggiori azionisti erano le banche, ma sappiamo bene che a questo fondo hanno partecipato anche albi professionali, anche ordini professionali, utilizzando i soldi delle pensioni degli aderenti a questi albi.

Secondo noi, anche sulle venete ci sono grandissime responsabilità, ma non per altro, anche perché la Banca Popolare di Vicenza non era altro che la banca di appoggio della Banca d'Italia. Che cosa intendo dire con “banca d'appoggio”? Era quella banca che poteva svolgere gli affari un po' sporchi per la Banca d'Italia.

Entro un pochino più nel particolare. La Banca Popolare di Vicenza era disposta ad accontentare Banca d'Italia in ogni sua richiesta, tanto che la Popolare di Vicenza, a un certo punto, è andata in crisi, aveva bisogno di soldi. “Dove andiamo a trovare questi soldi?”, si sarà chiesto probabilmente il governatore Visco o magari qualcuno che lo consigliava. Sono andati a prendere i soldi in una banca più piccola, guarda caso a più di 700 chilometri di distanza, e mi riferisco alla banca Bene Vagienna. Questa è una banca in provincia di Cuneo gestita diciamo sufficientemente bene, tanto che aveva dei soldi da parte, andava bene, non aveva grossi problemi, ma in questo caso arrivano i commissari perché, secondo Banca d'Italia, il Presidente e l'amministratore delegato di quella banca, negli ultimi anni, non rispondevano in pieno alle indicazioni di Bankitalia. Non è un reato, però sulla base di quella segnalazione viene aperto un fascicolo poi archiviato, poi riesumato, vennero reindagati nuovamente e, alla fine, venne fortunatamente archiviato di nuovo. Ma quando venne riesumato questo fascicolo da parte della magistratura? Venne riesumato al momento in cui i vecchi amministratori della banca Bene Vagienna hanno querelato per falso la Banca d'Italia perché, secondo loro, quella segnalazione non era una segnalazione valida, visto che non è un reato non seguire scrupolosamente le indicazioni della Banca d'Italia. Tant'è che è stato riarchiviato nuovamente quel fascicolo e nelle motivazioni c'è pure scritto che Bedino e Trucco, gli amministratori di quella banca, hanno svolto il loro lavoro in modo prudenziale, avevano gestito bene la banca, quindi Banca d'Italia non aveva nessun motivo per entrare nella gestione di quella banca attraverso gli amministratori straordinari.

Ma andiamo avanti. Qual è la prima azione messa in campo dagli amministratori di Banca d'Italia, cioè dagli ispettori diventati logicamente responsabili, facenti le veci di Bankitalia, cosa hanno fatto?

Hanno preso la liquidità della Banca di Bene Vagienna depositata su conti redditizi in altre banche di credito cooperativo e li hanno spostati nella banca Popolare di Vicenza, ma da parte di questo commissario che si chiamava Duso e che, guarda caso, era pure amministratore delegato di una società finanziaria che faceva parte del gruppo Popolare di Vicenza. Quindi praticamente sussisteva un super conflitto di interessi battezzato, per così dire, dalla Banca d'Italia che o non ha voluto vedere oppure era parte in causa. Quindi anche in questo caso, secondo noi, la magistratura dovrebbe per davvero aprire un po' gli occhi e indagare dove veramente è necessario indagare e non avallare per due o tre volte un fascicolo basato su notizie di reato totalmente infondate. È una cosa molto grave e quindi veramente mi viene anche da rivolgere un appello alla magistratura ad avere un pochino più di coraggio per indagare su ciò che hanno fatto le banche. Qui ho citato alcuni casi ma a dire il vero ce ne sono molti altri su vicende che, a nostro avviso, Banca Italia non ha svolto in modo corretto e quindi, se la gestione di Banca d'Italia è stata svolta così un po' in modo non proprio preciso ed efficace, a nostro avviso ci sarebbe solo una cosa da fare: quanto meno cambiare il Governatore. Quindi, adesso il Governo - per fortuna vi è un rappresentante del Governo in quest'Aula - dovrà procedere, attraverso una deliberazione del Consiglio dei ministri, a scegliere quale sarà il prossimo Governatore della Banca d'Italia e lo farà su indicazione del Consiglio superiore della Banca d'Italia. Si badi che il Consiglio superiore della Banca d'Italia non è altro che appannaggio e rappresentanza degli azionisti della stessa Banca d'Italia che sono, tra l'altro, le stesse banche vigilate dalla Banca d'Italia: è un paradosso che ci portiamo dietro come unica banca centrale al mondo che ha una rappresentanza così alta delle banche vigilate all'interno della stessa Banca d'Italia. Ebbene, il Consiglio Superiore indicherà dei nomi, il Presidente del Consiglio dei ministri valuterà questi nomi, chiederà una deliberazione al Consiglio dei ministri e tutto andrà al Capo dello Stato che dovrà decidere con un decreto chi sarà il nuovo Governatore della Banca d'Italia. In questa decisione, è totalmente escluso il Parlamento: non per volere nostro logicamente ma per volere delle leggi che ci ritroviamo. In una scelta così importante, a nostro avviso, il Parlamento dovrebbe avere voce in capitolo quantomeno con le Commissioni competenti. Purtroppo, non abbiamo alcuna possibilità di dire nulla, quindi per tale motivo abbiamo deciso di presentare la mozione e di sensibilizzare almeno in questo modo il Governo e il Presidente del Consiglio dei ministri. Ebbene, noi chiediamo solo una cosa: se abbiamo seri dubbi che l'attività di vigilanza della Banca d'Italia sia stata svolta negli ultimi cinque anni in modo non propriamente efficace, ebbene è necessario il cambio del Governatore. È necessario cambiare: certo, sappiamo che logicamente il Governo non indicherà o meglio opererà per non arrivare a nomi, secondo noi, alquanto sicuri - permettetemi tale espressione non troppo elegante - però quanto meno, a nostro avviso, è meglio cambiare piuttosto che andare avanti ancora in questo senso. Mi fermo qui, Presidente, però veramente chiedo ai rappresentanti degli altri partiti presenti in quest'Aula di sensibilizzare per competenza i propri colleghi allo scopo di cercare di analizzare la mozione e di proporne altre nella stessa direzione cioè per cercare di arrivare ad una nuova nomina del nuovo Governatore della Banca Italia (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Auci. Ne ha facoltà.

ERNESTO AUCI. Grazie, Presidente. Intervengo per pochi minuti, rivolgendomi anche al sottosegretario per l'economia e per le finanze, per dire che le accuse che la mozione in oggetto rivolge alla Banca d'Italia e alla vigilanza mi sembrano generiche, lacunose o del tutto errate e comunque, secondo me, non autorizzano a trarre le conclusioni sulle quali si vorrebbe impegnare il Governo. Esporrò solo alcune piccole, brevi cose e alcuni punti. Intanto, si trascurano assolutamente quelli che sono stati gli effetti di dieci anni di crisi sul sistema italiano e, in particolare, sulle nostre imprese che dipendono, in misura molto maggiore di quanto non avvenga nel resto del mondo, dal finanziamento bancario. In secondo luogo, ricordo che molti altri Paesi europei e non europei, anche gli Stati Uniti, hanno ricapitalizzato immediatamente le banche appena si sono avvertiti gli effetti della crisi finanziaria e ciò ha certamente evitato i problemi dei depositanti e degli obbligazionisti. Gli azionisti hanno perso perché il loro capitale è stato diluito ma ovviamente forse meno di quanto è avvenuto in Italia.

Ma in Italia le varie banche non sono state ricapitalizzate a quell'epoca non solo per ragioni legate al nostro debito ma anche per un'opposizione forte e populistica anche dei Cinquestelle che andavano organizzando manifestazioni contro il salvataggio delle banche con soldi pubblici. Ricordo appena che il Governo Letta accettò, forse in maniera un po' affrettata, il cambio delle regole e quindi l'introduzione del bail in che ha molto complicato tutto il problema dei salvataggi bancari, impedendo anche qualche ingresso di denaro non pubblico ma privato. Quindi ciò probabilmente ha ritardato il salvataggio e ne ha aumentato i costi. Ma, a proposito delle banche venete e di molte altre di quelle che sono fallite, va ricordato che si tratta soprattutto di banche popolari e che, ad esempio, la Banca d'Italia chiedeva da anni, così come altre forze politiche, una riforma delle banche popolari che solo poco tempo fa il Governo Renzi è riuscito ad imporre, superando la feroce opposizione delle stesse banche popolari, ma anche, qui in quest'Aula, di molti gruppi politici tra cui, mi pare, i Cinque Stelle che erano schierati a difesa delle cosiddette banche del territorio. Ricordo che il Governatore Zaia del Veneto ha vinto la sua campagna elettorale sulla difesa delle popolari e ora poi non ha nulla da dire agli azionisti che nel frattempo hanno rimesso molti soldi in tale vicenda. Non mi dilungo oltre ma certamente ci sono punti interrogativi da risolvere su tutta la questione della situazione delle nostre banche e dei motivi a causa dei quali alcune banche sono andate male, sono fallite, sono state assorbite da altre banche. Per questo è stata istituita in Parlamento e inizia a lavorare una Commissione di inchiesta che, mi auguro, possa fare piena luce su tutti questi fatti e mettere bene a fuoco quali sono i poteri veri della vigilanza e i suoi limiti e se tali poteri sono stati usati bene o male o se si deve intervenire per aumentare i limiti dei poteri della vigilanza. Ad esempio, prima venivano citate con qualche confusione vigilanza e magistratura. Ci sono casi sicuri dove la vigilanza ha trasmesso i fascicoli alla magistratura e questa non si è mossa: la colpa è della vigilanza o della magistratura? È un punto interrogativo che lascio alla Commissione d'inchiesta. Credo che almeno sia necessario aspettare alcune evidenze che scaturiranno dalla Commissione d'inchiesta, evitando strumentalizzazioni demagogiche che, in tempi così delicati per i singoli risparmiatori e per il Paese intero, non sono certo opportune.

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali delle mozioni.

Prendo atto che il rappresentante del Governo si riserva di intervenire successivamente. Pertanto il seguito della discussione è rinviato ad altra seduta.

Discussione del disegno di legge: Delega al Governo per la revisione e il riordino della normativa relativa alle concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali ad uso turistico-ricreativo (A.C. 4302-A); e delle abbinate proposte di legge: Pizzolante ed altri; De Micheli e Epifani; Abrignani ed altri; Nastri (A.C. 2142-2388-2431-3492) (ore 15,02).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge n. 4302-A: Delega al Governo per la revisione e il riordino della normativa relativa alle concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali ad uso turistico-ricreativo; e delle abbinate proposte di legge nn. 2142-2388-2431-3492.

Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi è pubblicato nell'allegato A al resoconto stenografico della seduta del 13 ottobre 2017 (Vedi l'allegato A della seduta del 13 ottobre 2017).

(Discussione sulle linee generali – A.C. 4302-A)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.

Avverto che il presidente del gruppo parlamentare del MoVimento 5 Stelle ne ha chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del Regolamento.

Avverto, altresì, che le Commissioni VI (Finanze) e X (Attività produttive) si intendono autorizzate a riferire oralmente.

Ha facoltà di intervenire il relatore per la Commissione attività produttive, onorevole Arlotti.

TIZIANO ARLOTTI, Relatore per la X Commissione. Grazie, Presidente. Il disegno di legge di delega al Governo per l'adozione di uno o più decreti legislativi per la revisione e il riordino della normativa relativa alle concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali ad uso turistico-ricreativo si pone come obiettivo principale quello di favorire, nel rispetto della normativa europea, lo sviluppo e l'innovazione dell'impresa turistico-ricreativa e di innovare il settore balneare che rappresenta il comparto turistico più importante.

Quest'anno le nostre spiagge sono state prese letteralmente d'assalto dai turisti, totalizzando oltre 90 milioni di presenze, con un aumento straordinario di presenze estere.

Tuttavia, nonostante le potenzialità di questo settore, in cui operano circa 30.000 imprese balneari (circa l'85 per cento a conduzione familiare) e oltre 100.000 lavoratori, che raggiungono quasi 300.000 unità comprendendo l'indotto, da un decennio lo stesso non è stato accompagnato da un'adeguata azione legislativa.

Il 12 dicembre 2006 il Consiglio europeo adotta la direttiva Servizi, cosiddetta Bolkestein, che doveva essere integrata nella normativa nazionale di tutti i Paesi della UE; la direttiva mira a dare piena attuazione agli articoli 49 e 56 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea e a fissare un quadro normativo che garantisca l'effettiva libera prestazione dei servizi nel mercato interno.

Il legislatore italiano, nel 2007, ha introdotto, modificando l'articolo 3 del decreto-legge n. 493, la previsione di una durata massima ventennale delle concessioni. In seguito alle segnalazioni dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, nel 2008 la Commissione europea ammonisce l'Italia formalmente con la procedura d'infrazione n. 2008/4908, intimando la revisione dell'ordinamento giuridico interno e di armonizzare le disposizioni normative ai principi comunitari.

Con ulteriore nota del 4 agosto 2009, la Commissione europea aveva inoltre evidenziato che la preferenza accordata all'articolo 37 del codice della navigazione al concessionario uscente era in contrasto con l'articolo 12 della direttiva Servizi, invitando le autorità italiane a rendere conforme il nostro ordinamento a quello europeo entro il termine ultimo del 31 dicembre 2009.

Con il decreto-legge n. 194 del 2009, convertito dalla legge n. 25 del 2010, il Parlamento ha abrogato il cosiddetto diritto di insistenza, previsto dal codice della navigazione, e ha prorogato sino al 31 dicembre 2015 la scadenza di tutte le concessioni. Tuttavia, in sede di conversione, è stata fatta salva la disposizione dell'articolo 1, comma 2, del decreto-legge n. 400 del 1993, recante il rinnovo di sei anni in sei anni delle concessioni demaniali marittime. Tale emendamento ha comportato l'apertura di una seconda infrazione, accessoria e conseguente alla prima.

Con la legge 15 dicembre 2011, n. 217, è stata disposta l'abrogazione dell'istituto del rinnovo automatico delle concessioni ed è stato delegato il Governo ad adottare un decreto legislativo: con questa soluzione si è riusciti a chiudere definitivamente la procedura di infrazione. Il termine per l'esercizio della prevista delega al Governo è spirato il 17 aprile 2013. Con il decreto-legge 18 ottobre 2012, convertito dalla legge n. 221 del 2012, sono state prorogate, nonostante il parere contrario del Governo, le concessioni demaniali in essere alla data del 30 dicembre 2009 e in scadenza il 31 dicembre 2015 fino al 31 dicembre 2020.

Colgo l'occasione per ricordare che il legislatore italiano, in sede di recepimento della direttiva Servizi, con la trasposizione pedissequa dell'articolo 12 della direttiva nell'articolo 16 del decreto legislativo n. 59 del 2010, non ha previsto regimi transitori o specifici per alcune categorie di beni, come invece la direttiva prima della sua trasposizione avrebbe consentito. Infatti, gli articoli 17 e 18 della direttiva avrebbero consentito agli Stati membri di adottare delle deroghe caso per caso, da notificare alla Commissione, la quale avrebbe dovuto valutarne la compatibilità con il diritto dell'Unione.

Ciò avrebbe permesso al legislatore nazionale, essendo comunque limitate nel tempo tali deleghe, di operare un riordino puntuale e specifico della legislazione di settore, tenendo conto anche delle caratteristiche e delle peculiarità territoriali e nazionali di questo importante settore turistico, cosa che invece hanno fatto altri Stati membri.

Le norme italiane hanno più volte previsto il riordino complessivo della materia, che non ha avuto riscontro legislativo. Il 14 luglio 2016 la Corte di giustizia europea ha ritenuto illegittima la proroga generalizzata delle concessioni demaniali marittime e, nello stesso tempo, ha riconosciuto che è consentito agli Stati membri di tenere conto, nello stabilire la procedura di selezione, di motivi imperativi di interesse generale, quali, in particolare, la necessità di tutelare il legittimo affidamento, e ha sancito che spetta al giudice nazionale verificare, ai fini dell'applicazione della direttiva, se le concessioni italiane debbano essere oggetto di un numero limitato di autorizzazioni per via della scarsità delle risorse naturali.

Con un emendamento al decreto-legge n. 113 del 2016, si sono conservati la validità dei rapporti già instaurati e pendenti relativi alle concessioni demaniali in essere, nelle more della revisione e del riordino della materia in conformità ai principi di derivazione europea.

Il 27 gennaio 2017, il Consiglio dei ministri ha approvato il testo del disegno di legge delega al Governo per la revisione e il riordino della normativa relativa alle concessioni demaniali marittime, lacuali e pluviali ad uso turistico e ricreativo. Il testo che esce dal lavoro delle Commissioni risulta integrato e migliorato in molti aspetti, rispetto a quello iniziale approvato dal Consiglio dei ministri e presentato il 15 febbraio 2017.

Le audizioni delle associazioni di categoria, della Conferenza delle regioni, nonché dell'Agenzia del demanio e del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, per la parte dei dati in possesso dell'ex Ministero della Marina mercantile, ha consentito alle due Commissioni di poter integrare e migliorare il testo del disegno di legge.

Sono stati presentati 180 emendamenti, di cui circa sessanta identici, e ha permesso ai relatori di dare parere favorevole e di riformularne altri. Tra le novità e le modifiche che vengono introdotte: viene riconosciuto il principio del legittimo affidamento; è previsto un adeguato periodo transitorio per le concessioni assegnate entro il 31 dicembre 2009; viene riconosciuto il valore commerciale dell'impresa; vengono salvaguardati i livelli occupazionali; vengono valorizzate le peculiarità territoriali, le forme di gestione integrata dei beni e delle attività aziendali e le professionalità acquisite, sia dai concessionari sia dai gestori; vengono stabiliti i criteri per l'affidamento delle concessioni, introducendo criteri premianti per strutture a basso impatto ambientale e per le strutture che offrono servizi di fruibilità dell'infrastruttura e della spiaggia ulteriori rispetto a quelli già previsti per legge a favore delle persone disabili; durante il periodo transitorio, è prevista la regolamentazione degli aspetti giuridici degli atti di pianificazione territoriale e dei relativi strumenti di programmazione negoziata stipulati ai fini del miglioramento dell'offerta turistica e della riqualificazione dei beni demaniali tra le amministrazioni competenti e le associazioni maggiormente rappresentative su base nazionale delle imprese del settore; viene rivisto il sistema di calcolo dei canoni concessori, classificando i beni in un minimo di tre categorie di valenza turistica, e nello stesso tempo si andrà al superamento dei cosiddetti valori dell'Osservatorio immobiliare italiano.

Stiamo parlando di valori che in molti casi hanno creato anche elementi veramente pesanti per l'impatto che hanno avuto per circa 300 imprese, in particolar modo, che hanno visto aumentare addirittura i canoni del 3.000 per cento. Credo che da questo punto di vista vada resa giustizia rispetto a quanto è accaduto nel riordino che verrà fatto delle concessioni stesse.

È previsto il riordino delle concessioni ad uso abitativo; è previsto l'obbligo per i comuni di rendere pubblici, tramite i propri siti Internet, i dati concernenti l'oggetto delle concessioni e dei relativi canoni, nonché l'obbligo per i concessionari di pubblicizzare tali dati sui propri siti Internet.

Le regioni, con specifica legge, dovranno definire il numero massimo di concessioni assegnabili al singolo operatore.

I pareri che sono stati dati dalle Commissioni hanno tenuto conto ovviamente di quelli che sono i vincoli e quindi dell'elaborato che esce dalla Commissione. In particolar modo, hanno dato parere favorevole la I e la II Commissione, la V Commissione (Bilancio), l'VIII Commissione (Territorio e ambiente), la IX, per quanto riguarda le infrastrutture e i trasporti, e la XIV, per gli affari europei.

Inoltre, ai sensi dell'articolo 16-bis, comma 6, del regolamento, è previsto che qualora le Commissioni non intendano adeguare il testo del progetto di legge alle condizioni contenute nel parere del Comitato, debbono indicarne le ragioni nella relazione per l'Assemblea. È quello che mi appresto a fare, rispetto ai rilievi che ha fatto il Comitato.

Il Comitato ha osservato che i principi e criteri direttivi si limitano a previsioni generiche. Nel suo parere ha previsto che, comunque sia, c'è un contenuto omogeneo, rispondente al titolo, e che alla lettera a) vengono richiamati tutti i valori e gli interessi in gioco, talora in contrasto tra loro, per esempio, rispetto al principio di concorrenza e riconoscimento e tutela degli investimenti, dei beni aziendali e del valore commerciale, rimandando nel bilanciamento ai decreti legislativi.

In proposito, si rileva che i principi indicati non si pongono in contrasto tra loro, ma devono essere equamente contemplati, al fine di rispettare le normative dell'Unione europea. La stessa Corte di giustizia europea si è più volte pronunciata (ultimamente con la causa del 28 gennaio 2016), ritenendo che devono considerarsi restrizioni delle libertà di stabilimento e/o della libera prestazione di servizi tutte le misure che vietino, ostacolino o rendano meno allettante l'esercizio delle libertà, garantite dagli articoli 49 del Trattato federale europeo e 56.

Pertanto, una disposizione nazionale, con la quale il concessionario deve cedere a titolo non oneroso, all'atto della cessazione dell'attività, i beni, ivi compresi, nei casi in cui tale cessazione avvenga per il semplice patto della scadenza dei termini di concessione, l'uso delle attrezzature utilizzate, può rendere meno allettante l'esercizio di tale attività. Infatti, la Corte ha evidenziato che il rischio per un'impresa, di dover cedere, senza contropartita economica, l'uso dei beni in suo possesso, può impedire a detta impresa di trarre profitto dal proprio investimento. Da quanto sopra, si arguisce che, per consentire l'esplicarsi della corretta concorrenza fra tutti gli operatori del mercato eventualmente interessati, in sede di procedure ad evidenza pubblica per l'assegnazione dei beni demaniali in concessione, non si può prescindere da riconoscere l'equo valore delle attrezzature e delle attività svolte, in quanto, in caso contrario, non soltanto non vi sarebbe una concreta apertura del mercato, ma si realizzerebbe una sorta di esproprio dei beni aziendali, in contrasto con l'ordinamento europeo. A ciò si aggiunga che in relazione all'ampia diversificazione delle attività turistiche e ricreative, esercitabile nell'ambito dei beni demaniali assentiti in concessione, dalle conseguenti molteplici e differenziate entità degli investimenti necessari al loro svolgimento, non si presta ad estrapolazioni bilanciate in una legge delega.

Ragionamenti analoghi possono essere svolti anche per quanto attiene all'asserita mancata indicazione di un criterio stringente sull'individuazione dei limiti minimi e massimi della durata delle concessioni. Si precisa - e qui vado a concludere - altresì che la giurisprudenza europea e nazionale, è intervenuta sulla questione durata, esclusivamente in relazione ai regimi di proroga o rinnovo e mai sul merito della stessa. Nell'ordinamento nazionale, con riferimento ad altre ben specifiche tipologie concessorie, sono individuate previsioni di durata assai differenti, proprio in relazione alla loro importanza e omogeneità - quindi, come è successo per le grandi derivazioni acqua, autostrade eccetera – ed è demandata, pertanto, al decreto legislativo l'individuazione di una durata congrua, nel rispetto dei principi comunitari e delle prassi ritenute legittime.

Quanto, infine, alla condizione declinata con riguardo al comma 2 dell'articolo 1, si osserva che trattasi di una formulazione già adottata più volte di recente e che riteniamo sia appropriata, visto che siamo a fine legislatura.

PRESIDENTE. A questo punto il Governo avrebbe facoltà di intervenire, ma mi pare di capire che non intenda intervenire. Giusto?

È iscritto a parlare l'onorevole Massa. Ne ha facoltà.

FEDERICO MASSA. Signor Presidente, rappresentanti del Governo, onorevoli colleghi, la relazione ha dato conto, in maniera ampia e coerente, non solo delle ragioni che hanno portato alla definizione del testo, che andrà all'esame del Parlamento, ma anche dell'oggettiva complessità di una materia, che non riveste solo una rilevanza significativa rispetto al contesto economico del nostro Paese, per quello che oggi già è e per il contributo che è già oggi quest'attività, che è un segmento non secondario dell'impresa turistica italiana, del turismo italiano, che rappresenta, a dire di tutti, per opinione comune, non discussa e non contestata, una delle direzioni che è possibile intraprendere, per ridare slancio e consolidare la ripresa economica, di cui in generale danno atto gli indici dello sviluppo economico.

È una materia complessa, anche perché l'occasione dell'utilizzazione di una risorsa naturale implica che qualsiasi decisione tenga conto del contesto naturale e si muova nella direzione di un effettivo contemperamento dei diversi profili di interesse, quello legato allo sviluppo economico e alla crescita virtuosa, piuttosto che alla decrescita felice del Paese, e quello legato alla tutela e alla valorizzazione delle risorse naturali.

Ecco perché, riportandomi a quello che ha detto il relatore, - mi sia consentito dire come forma di confronto dialettico - ritengo particolarmente ingeneroso il giudizio dato dal Comitato per la legislazione. Infatti, qui siamo, effettivamente, in presenza di una serie di interessi pubblici rilevanti, che meritano una disciplina organica, che non sia la scelta di uno dei profili a scapito dell'altro, ma che piuttosto, invece, realizzi l'equilibrato contemperamento degli interessi pubblici in gioco.

Questa materia, pur così complessa e delicata, ha sofferto di una tendenza all'inseguimento delle reiterate emergenze. Siamo partiti da un quadro normativo, quello che veniva definito dall'originaria stesura del codice della navigazione, che si fermava, per così dire, a una scelta assolutamente drastica: chi prima arrivava - articolo 37 del codice della navigazione, diritto di insistenza, sostanzialmente, a questo conduceva - acquisiva un indefinito diritto di prelazione sul bene oggetto della concessione.

E, quando questo elemento è venuto meno, doverosamente è venuto meno, perché in contrasto con il quadro ordinamentale europeo, piuttosto che affrontare la questione in maniera organica, come in maniera organica viene affrontata con questo disegno di legge delega, spesso sotto la spinta di urgenze che non potevano essere diversamente contrastate, si è pensato a una serie di interventi emergenziali, che sostanzialmente rinviavano il problema, ma non lo affrontavano; non davano, cioè, ad una attività economica così importante un quadro normativo di riferimento certo, chiaro, definito, in cui non potesse sorgere equivoco sui diritti, ma anche sui doveri che erano legati all'esercizio di quell'attività e all'utilizzazione di un bene pubblico.

Quando si affrontano le questioni in maniera disorganica, emergenziale, spesso, si rischia di ingenerare equivoci anche nel rapporto con l'ordinamento comunitario. Qui vengo ad uno dei problemi che, secondo me, questo disegno di legge delega risolve, ovviamente, restando affidato ad un esercizio equilibrato della delega nell'ambito dei principi generali che vengono definiti. La Comunità europea, l'ordinamento comunitario, non impone, non definisce criteri rigidi, per esempio, rispetto alla durata delle concessioni o, per contro, rispetto alle caratteristiche che deve avere il rapporto sotto il profilo economico-finanziario con il concessionario, ma afferma principi di carattere generale, che, per quello che attiene lo specifico di questa materia, involgono il rispetto dei principi della concorrenza, della parità di condizioni, dell'obiettività e legalità dell'azione amministrativa.

L'intervento della Corte di giustizia europea, al quale si è fatto fronte con il meccanismo che ricordava il relatore e, cioè, prevedendo un periodo transitorio di proroga legato all'approvazione della legge di riordino, nasce da situazioni particolari specifiche, rispetto alle quali si è determinata una situazione di contenzioso e, probabilmente, anzi sicuramente, rispetto a quelle situazioni, l'intervento della Corte di giustizia non poteva che essere quello che è stato.

Nel momento in cui, però, sul piano normativo e legislativo si va ad una nuova disciplina della materia, che nel suo complesso tenga conto della realtà sulla quale si interviene, io credo che nulla possa impedire, anzi, è doveroso un intervento che tenga conto della realtà sulla quale noi interveniamo. Questo significa l'affermazione del principio del legittimo affidamento, che io credo debba essere legato ad un altro principio immanente all'ordinamento comunitario, che è quello della certezza del diritto.

È del tutto evidente che tutte le situazioni di concessione dei beni demaniali marittimi nate nel contesto di un ordinamento giuridico che non solo consentiva, ma prevedeva e definiva in questa direzione, una durata sostanzialmente indefinita del regime concessorio, salva la rinuncia del titolare di quel diritto medesimo, non può essere un intervento di tipo draconiano, per il quale oggi quel regime cessa e quelle situazioni, che costituiscono l'ossatura di quel settore turistico, vengono, in qualche maniera, indiscriminatamente colpite.

Riconoscimento del principio di affidamento significa riconoscere in capo ai soggetti che rispetto all'ordinamento nazionale hanno acquisito un'aspettativa legittima, consentire a quei soggetti e ragionare con quei soggetti del percorso attraverso il quale progressivamente anche quelle realtà vengano ricondotte alla logica della contendibilità sul piano economico-finanziario; ricondotte progressivamente a un criterio di contendibilità che tenga conto dell'altro parametro che è nelle direttive comunitarie e al quale si richiamano quelle sentenze, che è quello della scarsità della risorsa: cioè, non è possibile intervenire in questa materia se non tenendo conto della realtà esistente, di quanto e di come quella risorsa può essere utilizzata. E, non a caso, nel disegno di legge delega, da un lato, si riconosce il diritto all'affidamento e, dall'altro, si offre il parametro della verifica in concreto e della programmazione territoriale, ambientale e paesaggistica della risorsa, al fine di dare punti di riferimento certi e di costruire - vorrei dire - una gerarchia degli affidamenti che tenga conto dell'oggettività dei dati di partenza.

Affermare questi princìpi nell'ambito di un provvedimento legislativo significa mettere l'Italia nelle condizioni di affrontare, nella sede europea, le questioni problematicamente aperte, non sulla base del rispetto formale e burocratico di parametri che, nella loro astrattezza, non sono coerenti con la realtà oggettiva che si deve andare a disciplinare, ma in modo tale da non esporsi a censure che, sostanzialmente, si fondano proprio sulla episodicità, sulla frammentarietà e sulla generalità degli interventi che sono stati effettuati.

Perché si è fatto riferimento espressamente alla necessità di una disciplina particolare, con riguardo al periodo transitorio, delle concessioni consolidate prima del 31 dicembre 2009? Perché, fino a quella data, noi eravamo in quel contesto normativo che ho innanzi ricordato, cioè in un contesto normativo nel quale le concessioni già assentite avevano in sé l'assenza di un limite predefinito quanto alla durata, e si è fatto riferimento, io credo correttamente - il relatore non lo ha espressamente ricordato nel suo intervento -, alla data di entrata in vigore della disciplina comunitaria di riferimento.

La direttiva Bolkestein aveva come termine per il recepimento nel nostro Paese la data del 28 dicembre 2009: fino a quella data, il contesto normativo nazionale, sostanzialmente, non era in contrasto con specifiche disposizioni dell'ordinamento comunitario europeo.

Poteva ritenersi, ma solo per le situazioni, per le concessioni di particolare rilevanza economica, una situazione di generale contrasto con il principio della libera concorrenza e con l'articolo 49 del Trattato, ma si tratta di principi generali che, non avendo un'efficacia diretta negli ordinamenti nazionali, ma dovendo necessariamente passare attraverso la mediazione del legislatore nazionale, non sono direttamente riferibili agli operatori economici che, su quel contesto normativo, avevano fatto legittimamente affidamento. Per dirla in soldoni, non poteva scaricarsi sul concessionario, o non può valutarsi secondo il criterio dell'affidamento la posizione del singolo concessionario con riguardo all'articolo 49 del Trattato, ma quell'affidamento dev'essere e può essere legittimamente misurato con riguardo alle specifiche disposizioni del diritto comunitario nel momento in cui quelle specifiche, dettagliate, e quindi conoscibili disposizioni vengono recepite nell'ambito dell'ordinamento nazionale. Vengono recepite esplicitamente, come è stato fatto con il decreto di recepimento della direttiva cosiddetta Bolkestein, o vengono recepite automaticamente per lo scadere del termine di recepimento. Quindi, non è stata fatta una scelta capotica, non è stata fatta una scelta casuale: è stata fatta una scelta che sta dentro i princìpi immanenti all'ordinamento comunitario.

È chiaro che passare dall'affermazione dei principi alla definizione della disciplina transitoria implica un'attività che giustifica, anzi direi meglio, che ha obbligato alla scelta dello strumento della legge delega, perché è evidente che la traduzione in norme cogenti, definite, puntuali dei principi che la legge delega afferma… E ricordo a me stesso che, per definizione, una legge delega definisce i principi dentro i quali si deve muovere l'attività legislativa del Governo, con la riserva naturale della successiva verifica in sede di Commissione della corretta applicazione di quei criteri. Se si ragiona per principi, si ragiona per criteri, si ragiona sulla base di una delega, è del tutto evidente che c'è uno spazio per la valutazione discrezionale di quale dovrà e potrà essere la definizione della disciplina transitoria; ma io credo che, in questo schema di legge delega, i principi affermati sono tali, per cui non può ritenersi libera l'attività del Governo. Coerentemente con la previsione costituzionale, il Governo ha dal Parlamento alcune indicazioni che definiscono l'ambito della discrezionalità nella definizione puntuale delle norme.

Penso che gli operatori probabilmente in gran parte, o in parte notevole suggestionati e condizionati dalla situazione di incertezza insita nelle proroghe, insita nel contenzioso che quelle proroghe hanno generato, e insita nella reiterata attivazione da parte dell'Unione europea di censure e procedimenti di infrazione, oggi guardino con preoccupazione alle scelte che il Parlamento sta compiendo. Capisco che le parole spesso non sono sufficienti a tranquillizzare; penso però sia giusto richiamare l'attenzione degli operatori, delle associazioni di categoria, gran parte delle quali io credo sono entrate in questo ragionamento, sui passi decisivi in avanti che si compiono con questa normativa; soprattutto di quegli operatori, proprio in ragione della rilevanza dell'attività, e della loro attività per il Paese, ma di quell'attività per la loro sussistenza, per la sussistenza delle loro famiglie, per il mantenimento dei livelli occupazionali che oggi quella attività garantisce, e per le implementazioni di quelle componenti occupazionali che sono possibili in un quadro di riferimento più compiuto.

Se questa legge non venisse approvata… Ma io credo che questo Parlamento abbia il dovere di approvarla e di applicarla, non solo per la procedura di infrazione europea, che sostanzialmente è stata chiusa perché l'Italia si è impegnata a compierlo, questo percorso legislativo, ma anche per la normativa attualmente esistente. Io ricordo a me stesso che noi abbiamo affermato, nella disciplina normativa che richiamava il relatore, cioè nella disciplina normativa con la quale, a valle di quella pronunzia della Corte di giustizia europea, abbiamo deciso di prorogare le concessioni in essere sempre con riferimento alle concessioni anteriori al 31 dicembre 2009, fino alla definizione della normativa quadro; ecco, io penso che la serietà imponga a questo Paese di rispondere di quell'impegno, e quindi di definirlo un quadro certo e di affermare principi che io credo possano essere validamente sostenuti e difesi nella sede comunitaria. Diceva il relatore quando mi ha preceduto che, forse, nel momento in cui quella direttiva fu approvata, e nel momento in cui si è definito il quadro dell'ordinamento nazionale di recepimento di quella procedura, poteva, in quel frangente, in quel contesto, utilmente farsi quello che stiamo facendo oggi. E lo stiamo facendo nei limiti in cui possiamo farlo, perché anche questo è un parametro di cui un Parlamento responsabile e forze politiche responsabili debbono tenere conto: stiamo facendo il massimo possibile nella sede della legge delega, per dare a quel settore le certezze che quel settore chiede, stando dentro l'ambito comunitario, e quindi superando il rischio di ulteriori momenti di infrazione comunitaria, che determinerebbero, porterebbero a cascata ulteriori elementi di incertezza.

Quindi, se noi affrontiamo questa impostazione legislativa, tenendo conto di tale contesto, penso che il Parlamento, con una larga maggioranza, con una larga condivisione, possa, per un verso, rispondere alle legittime esigenze degli operatori del settore, e, per altro verso, evitare che polemiche strumentali determinino in quel settore situazioni di tensione che non servirebbero a nessuno: non servirebbero agli operatori del settore, e non aiuterebbero il Paese, l'Italia, il Governo a reggere, nella sede europea, un confronto autorevole, perché si rischierebbe di avere e di portarsi appresso il vizio originario di scelte che, se apparentemente soddisfano ambizioni o esigenze comprensibili, ma non strutturabili rispetto al quadro nazionale ed europeo nel quale ci muoviamo, rischiano di avere l'effetto boomerang, l'effetto esattamente opposto.

Del resto, non a caso questa materia ha attraversato Governi di varia ispirazione, ha attraversato maggioranze diverse, ha visto impegnati partiti politici su sponde opposte; e non si era mai arrivati, non si è mai riusciti ad arrivare (non a caso, una delega è inutilmente scaduta) ad affrontare la questione. L'unico modo per affrontare questa questione è di tenersi ancorati ai principi e di valorizzare le novità importanti. Ne segnalo solo due che, in questa legge, sono presenti.

Accennavo al rapporto esplicito fra l'utilizzazione del bene, la concessione del bene e gli strumenti della programmazione, anche della programmazione negoziata, perché questo significa legare ab origine lo sfruttamento economico del bene naturale, nella misura in cui quello sfruttamento economico è compatibile con la gestione ambientale e naturalistica di quel bene, con il momento della concessione; e valorizzare l'elemento della tutela ambientale come criterio selettivo nelle procedure per la scelta del concessionario significa, in qualche misura, valorizzare l'elemento della partecipazione del soggetto privato alla tutela ambientale come esemplificazione della possibilità che lo sfruttamento economico del bene naturale non sia in contrasto, non sia incompatibile, non determini un danno per la risorsa naturale. Ed anche la previsione, per altro verso, della differenziazione del canone con riferimento alla diversa consistenza economica delle attività, sottraendosi a un criterio di pura automaticità, inserisce un elemento di equità e inserisce un elemento che consente, per espressa previsione di questa legge delega, di dotare i comuni e le regioni delle risorse necessarie per la gestione e l'infrastrutturazione pubblica di quel bene.

Credo che questo vada valorizzato anche perché si comprenda come questa legge in nessun caso possa essere letta come penalizzante per quelle attività, per quelle che ci saranno, ma anche per quelle in essere. Cioè, se noi abbiamo così ampiamente contestualizzato l'intervento normativo, diciamo, ci siamo mossi tenendo conto di tutti i profili che investono e convergono su quella materia, è evidente che questo rappresenta di per sé il riconoscimento del valore, e concludo, di quelle attività. Quindi, un passo avanti; ma non un passo avanti qualsiasi, un passo avanti che consente all'Italia di presentarsi nella sede europea rivendicando la correttezza del proprio operato, rivendicando la necessità del rispetto del tessuto economico-sociale di questo Paese, e quindi riuscendo a dare finalmente, dopo tanti anni, a questa materia una disciplina che non costringe le imprese a sopravvivere pensando con angoscia alla prossima scadenza, ma che consenta agli operatori economici che ci sono e a quelli che in questo settore hanno il diritto di entrare di programmare l'attività aziendale e di avere - e su questo concludo veramente -, come ha detto il relatore, la certezza del riconoscimento del valore economico dell'impresa. Il riconoscimento del valore economico dell'impresa tutto può essere, ma mai può essere contrasto con i principi della concorrenza e del libero mercato.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Battelli. Ne ha facoltà.

SERGIO BATTELLI. Grazie, Presidente. Il disegno di legge delega - e ci tengo a ripetere questa parola, delega - ad un Governo che ormai non sta più in piedi la revisione e il riordino della normativa relativa alle concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali ad uso turistico e ricreativo. Oggi non possiamo più rimandare. Siamo d'accordo che l'intervento normativo sia necessario per uniformare la disciplina italiana alle linee guida europee, in particolare per stabilire specifiche modalità di affidamento, al fine di rispettare i principi di concorrenza, di libertà di stabilimento, di promozione e di valorizzazione dell'attività imprenditoriale e di tutela degli investimenti.

Altrettanto non procrastinabile appare il bisogno di dare certezze agli operatori di un settore in cui da troppi anni gli investimenti sono quasi fermi a causa dell'incertezza. Così è necessario introdurre procedure di selezione che assicurino garanzie di imparzialità e di trasparenza che tengano conto della professionalità acquisita nell'esercizio di concessioni di beni demaniali marittimi, lacuali e fluviali per finalità turistico-ricreative. In questo quadro è necessario stabilire limiti minimi e massimi di durata delle concessioni in maniera chiara e definitiva entro i quali le regioni fissano la durata delle stesse, per garantire adeguata pluralità e differenziazione dell'offerta, con la previsione di un adeguato periodo transitorio per l'applicazione della disciplina di riordino. Nella materia delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative diversi sono stati gli interventi normativi che hanno riguardato, come anticipato, principalmente i profili della durata e del rinnovo automatico delle concessioni, nonché la liceità della clausola di preferenza per il concessionario uscente, il cosiddetto diritto di insistenza, previsto dall'articolo 37, secondo comma, del codice di navigazione, poi abrogato nel 2009.

La direttiva Bolkestein, signori, è stata approvata nel 2006 e teoricamente recepita nel 2010. Oggi è lunedì 16 ottobre del 2017 e siamo ancora qui a parlare di Bolkestein; quindi vuol dire che qualcosa obiettivamente non ha funzionato. Nessun Governo, né di centrodestra né di centrosinistra, ha mai preso seriamente la questione, promettendo norme e deroghe ad hoc a tempo determinato che si sono rilevate un ulteriore tassello all'incertezza e al blocco degli investimenti. Voi pensavate di fare un favore, ma in realtà avete solo rimandato e sotterrato il problema per anni, e con questa delega lo continuate a fare. Oggi arrivano anche le regioni a normare quello che non è di loro competenza; ultima la mia regione, la Liguria, che ha approvato in Commissione un pacchetto di norme che indicano la durata di concessione, quando sappiamo benissimo, tutti lo sappiamo, che la competenza è nazionale e che sicuramente la legge verrà impugnata dal Governo.

In Liguria il centrodestra sta ancora una volta prendendo in giro la categoria, gli operatori e l'intero settore, promettendo cose che sa di non poter fare, solo per mettere la bandierina in vista delle elezioni politiche. A tal proposito, anche la Toscana e l'Abruzzo hanno fatto medesime leggi regionali, che sono state impugnate, e questo è il continuo vostro prendere in giro le persone e le categorie di lavoratori. Oggi le categorie economiche interessate sono esauste e preoccupate perché ancora vige l'incertezza totale sul loro futuro. Per sette anni appesi ad un filo, oggi vi presentate con un'altra delega scritta a immagine e somiglianza delle grandi cooperative che vogliono tutto, perché di questo stiamo parlando. Una delega, dicevamo, tutta in capo al Governo, che non sta in piedi, come ho già detto, che non riesce più a far passare neanche un provvedimento senza porre la fiducia, non ultima la legge elettorale. Una delega che va oltre la durata della legislatura stessa. La verità, signori, è che, ancora una volta, state prendendo in giro la categoria. Sapete che riuscirete a portare in porto questo provvedimento lasciando la palla a chi verrà dopo, e lo anticipo già: noi su questa tematica abbiamo le idee molto chiare. Ma questa famosa direttiva Bolkestein cosa diceva? Tecnicamente è la n. 2006/123/CE, recepita con decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, e in particolare l'articolo 16, che si riferisce alla selezione tra diversi candidati, prevedeva procedure selettive nell'ipotesi in cui il numero di titoli autorizzativi disponibili sia limitato per ragioni correlate alla scarsità delle risorse naturali, il cui fine è quello di creare i presupposti per un'ampia varietà di servizi nel mercato interno, per assicurare la libertà di stabilimento e la libera circolazione dei servizi tra gli Stati membri.

Voglio far notare, inoltre, Presidente, che con il decreto sviluppo, il n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 134 del 2012, nella sua versione originaria approvata dal Governo Berlusconi, si prevedeva l'estensione del periodo di durata delle concessioni demaniali marittime fino a novant'anni; disposizione, questa, che è stata modificata, e di conseguenza l'intera riforma scongiurata, a seguito dei rilievi mossi dal Presidente della Repubblica, con la conseguenza che il nuovo diritto ha una durata di vent'anni e si mantiene con il pagamento di un corrispettivo annuo calcolato dal demanio. La questione inerente le concessioni è senza dubbio molto spinosa. Non bisogna dimenticare gli operatori seri, che sono tantissimi, ma la prima cosa da fare oggi è definire norme chiare che tutelino la concorrenza leale e chi ha lavorato onestamente, investendo e facendo crescere il turismo in Italia. Molte sono piccole imprese, imprese familiari, e noi vogliamo aiutarle in questa fase di necessario cambiamento. Abbiamo proposto modifiche chiare che andavano a limitare al massimo questo.

Abbiamo messo nero su bianco la durata delle concessioni, abbiamo trovato un sistema per indennizzare il concessionario uscente che ha effettivamente fatto investimenti. Abbiamo creato premialità per chi ha lavorato bene e vuole investire nel rispetto delle norme e del turista, dei residenti e dell'ambiente, mettendo - e dico anche: finalmente - chiarezza nello sfruttamento dell'arenile libero.

La procedura selettiva sarà importante al concessionario, al fruitore di servizi, all'offerente che garantirà l'offerta migliore, attenzione, non economica, ma in base a punteggi che con i nostri emendamenti vanno a dare premialità a chi ha già operato nel settore, a chi garantirà piena sostenibilità ambientale e rispetto delle regole. Crediamo che avere tempi certi di concessione potrà far ripartire lo sviluppo e gli investimenti dell'intero settore.

Sappiamo per certo che dietro questa delega, dietro gli emendamenti approvati e riformulati, ci sono le grosse cooperative italiane che vogliono prendere tutta la torta. Ecco, a questo gioco noi non vogliamo giocare. A chi ci attaccherà diciamo chiaramente che noi non vogliamo distruggere il settore, ma anzi vogliamo che finalmente l'intero settore abbia delle norme chiare, definite, che si rispetti la concorrenza leale - e ripeto: leale -, che vengano tutelati il nostro mare, i nostri laghi, la nostre località turistiche. Noi crediamo che il turismo e tutti i suoi operatori siano il motore per far ripartire l'Italia di domani.

PRESIDENTE. Faccio un saluto, ancorché postumo, all'Istituto Comprensivo “Umberto I” di Lanciano, in provincia di Chieti, agli studenti e agli insegnanti che hanno appena lasciato le tribune e che hanno assistito ai nostri lavori (Applausi).

È iscritta a parlare l'onorevole Bergamini. Ne ha facoltà.

DEBORAH BERGAMINI. Grazie, Presidente. Onorevoli colleghi, tenterò, nel tempo che ho a disposizione, di provare, al di là della legittima retorica, dell'uso retorico che si vuole fare di questa occasione di discussione, di fare un ragionamento, dove proverò a spiegare perché noi di Forza Italia siamo convintamente contrari all'approvazione di questo provvedimento. Infatti non ne condividiamo l'intero impianto, non ne condividiamo la tempistica, non ne condividiamo l'opportunità e i nostri emendamenti, sia in Commissione finanze, che in Commissione attività produttive, sono stati di nettissimo rifiuto rispetto alla logica che sottende questo disegno di legge delega.

Abbiamo depositato anche per l'Assemblea degli emendamenti soppressivi, che, qualora miracolosamente, perché purtroppo i numeri sono crudeli, fossero approvati, smonterebbero in modo completo tutto il disegno, il criterio di questa legge delega, sulla quale peraltro abbiamo deciso anche di presentare una pregiudiziale di costituzionalità, al fine di evitarne il prosieguo dell'esame.

Allora, in questo disegno di legge delega si discute - è già stato detto dai colleghi che mi hanno preceduto - del riordino - si fa per dire - delle concessioni demaniali marittime e dunque del futuro del comparto degli stabilimenti balneari italiani. È un po' un ossimoro parlare di riordino, perché si fa tutto fuorché riordinare una materia i cui confini sono ad oggi non chiari, non delimitati, e cui mancano elementi sostanziali per poterla, appunto, riordinare; e ci tornerò fra poco.

Quel che, a monte delle considerazioni che sto facendo, mi sembra è che né il Governo, né la maggioranza di questo Parlamento abbia del tutto compreso il valore delle conseguenze dell'andare avanti con questo presunto riordino - lo ripeto: un ossimoro - e che sfugga al Governo e alla maggioranza l'importanza di questo comparto per l'economia del nostro Paese.

Ciò a meno che non si debba pensar male, ossia si debba pensare che, proprio perché non gli sfugge l'importanza di questo comparto, si voglia mettere le mani su queste concessioni e si voglia, di fatto, procedere a un esproprio proletario nei confronti di oltre 30.000 imprese balneari italiane, che sono un fiore all'occhiello riconosciuto del comparto turistico del nostro Paese.

Queste aziende balneari valgono circa il 10 per cento del PIL turistico del nostro Paese, che a sua volta vale il 10 per cento del PIL complessivo, quindi rappresentano una grossa fetta di economia del nostro Paese. Allora, perché tutta questa fretta, tutta questa vaghezza, questo impeto, nel giungere alla necessità di espropriare queste aziende?

All'inizio dell'esame, il Governo aveva dichiarato che il testo non era blindato e le associazioni di categoria avevano ricordato che in Italia operano circa 30.000 imprese, con un impatto occupazionale ed economico notevole e in continuo aumento; anche i dati di questa estate che si è appena conclusa ci confortano in questo senso. Voglio sottolineare che si tratta per lo più di imprese familiari, una realtà ormai che equivale a un panda nella nostra economia: le abbiamo sterminate tutte. Appena il 14 per cento, infatti, del totale è composto da società di capitali.

All'interno di queste imprese familiari ci sono imprese che per generazioni hanno svolto questo lavoro, che hanno investito grandemente in queste imprese balneari. In taluni casi hanno ipotecato case e proprietà, pur di poter continuare a investire e garantire un ammodernamento costante e continuo di questi stabilimenti, sui quali naturalmente pende la spada di Damocle delle concessioni. Si sono assunte il rischio d'impresa e lo hanno fatto in silenzio, ma sono riuscite a produrre un modello economico che è invidiato da tutte le parti. Un sistema che funziona, che fa contenti i clienti, che fa contenti gli imprenditori, che fa contenti gli esegeti dell'ordine ambientale, perché garantisce anche la pulizia, l'ordine e la sicurezza degli arenili: insomma, un modello che funziona e giustamente lo dobbiamo, o meglio questa maggioranza, questo Governo, dicono che lo dobbiamo distruggere, va fatto in un'altra maniera.

Cui prodest? Vedremo se lo capiremo e se, quando lo capiremo, non sarà troppo tardi. Diciamo che c'è una grande solerzia nel portare a casa questo provvedimento. Si dice, si è detto, che bisogna farlo in ottemperanza a una serie di dettami. Mi sembra, esprimo la mia opinione (mi riferisco naturalmente alla direttiva Servizi, alla direttiva Bolkestein), che forse si stia dando un'interpretazione un po' troppo stringente e, pertanto, strumentale di questa direttiva Servizi, ormai celeberrima, purtroppo, che è stata persino criticata da colui che ne porta il nome, da Fritz Bolkestein. Lui stesso l'ha rivista, ne ha rivisto la funzione e anche il senso. Però si può sbagliare; soltanto questa maggioranza pensa di non sbagliare mai.

Il mio timore è che questa eccessiva solerzia nell'applicazione così stringente della direttiva Bolkestein distruggerà completamente questo comparto e anche i figli di un Dio minore che vi si accompagnano, cioè il settore lacuale e fluviale, del quale non parliamo mai abbastanza. A questo proposito, voglio ricordare che la Commissione europea è intervenuta sulla questione delle concessioni di beni demaniali marittimi, lacuali e fluviali, con finalità turistico-ricreative, inviando all'Italia, nel gennaio del 2009, una lettera di messa in mora, di fatto un'apertura di procedura di infrazione, in ragione del mancato adeguamento della legislazione nazionale all'articolo 12, comma 2, della direttiva Bolkenstein; poi un'ulteriore lettera di messa in mora complementare, il 5 maggio dell'anno successivo, il 2010, alle quali l'Italia ha risposto con una legge comunitaria, sempre nello stesso anno, delegando il Governo ad emanare entro il 17 aprile del 2013 un decreto legislativo avente ad oggetto la revisione e il riordino della legislazione relativa al settore, chiudendo con ciò la procedura di infrazione in data 27 febbraio 2012.

A tale delega però i Governi che si sono succeduti dopo la caduta del Governo Berlusconi, nel 2011, non hanno dato seguito. È vero che, nel vuoto normativo che si è venuto a creare, è intervenuta la sentenza della Corte di giustizia europea del 14 luglio 2016 - è stato già ricordato -, che ha disposto quanto segue, leggo: la direttiva n. 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno, all'articolo 12, dispone che, qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano una procedura di selezione; e qui entriamo nel tema delle aste.

Ora, se è vero - perché bisogna dirsele le cose - che la sentenza succitata rischia di provocare una nuova procedura di infrazione nei confronti dell'Italia, è anche vero che al momento non risulta neppure una procedura pilot che la Commissione usa porre in atto proprio per prevenire l'apertura di un'infrazione.

Insomma, qui torno al cui prodest: non si capisce allora la fretta di chiudere un provvedimento messo insieme in modo confuso, ma chiamato “riordino”, senza ragionare sul fatto che il nostro Paese possiede, solo di litorali marittimi, 8.000 chilometri di coste e che ha le capacità tecniche di realizzare stabilimenti balneari ecocompatibili e non impattanti anche in luoghi diversi da quelli che sono già soggetti a concessione.

Quindi, manca il presupposto fondante su cui si basa l'esecuzione della direttiva cioè la scarsità delle risorse naturali a cui si riferisce la Corte di giustizia europea che fa proprio riferimento a tale elemento. Dunque c'è scarsità di risorse naturali o non c'è? No, non c'è. Ripeto: non c'è. Ma proseguiamo. Le associazioni di categoria italiane hanno più volte sottolineato il fatto che nel nostro Paese non c'è scarsità di materia prima, vale a dire di spiagge, perché è ancora disponibile il 48 per cento delle nostre coste. Lo stesso vale per la tutela del legittimo affidamento dietro il quale c'è un patto di reciproca fiducia fra lo Stato e gli imprenditori che non può essere rotto. Ma i patti fatti dallo Stato si rompono con grande facilità quando fa comodo. Cerchiamo di contestualizzare quanto sta avvenendo in Italia con quanto è avvenuto in Paesi interessati anch'essi dalla direttiva Bolkestein per quello che riguarda le concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali. Pensiamo un attimo alla Spagna. Ricordiamo la Spagna perché, quando esiste la volontà politica di difendere gli interessi nazionali di un Paese, ci si riesce anche nell'ambito dell'Unione europea ma è necessaria la volontà politica. La Spagna nel 2013 approva la revisione della ley de Costas del 1988: prevede una proroga da 30 a 75 anni delle concessioni in essere in base alla loro tipologia senza procedure d'asta di evidenza pubblica proprio grazie all'invocazione del diritto di godere della proprietà dei propri beni di cui all'articolo 17 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea. Quindi, ci sono molte incongruità, fretta, eccessiva solerzia, e un tessuto legislativo intorno all'applicazione della direttiva Bolkestein senza dubbio complesso naturalmente: altrimenti dal 2006 non saremmo arrivati sino ad oggi con una sostanziale mancanza di chiarezza. Non è materia facile da sbrogliare per carità. Quello che ci interessa è capire la volontà che sottende al modo in cui si vuole intervenire ed è una volontà che non ci convince, che non riusciamo a capire e che abbiamo cercato di capire. Per non rischiare di decidere in maniera superficiale, prima di esprimerci, noi di Forza Italia abbiamo studiato con grande approfondimento la realtà balneare in tutta la sua complessità per capire come un settore così ben funzionante e strategico per l'Italia, per davvero un modello di imprenditoria nazionale proprio dell'impresa italiana che funziona, possa venire valorizzato attraverso una riforma strutturata che tenga in considerazione però le peculiarità italiane: non siamo uguali agli altri Paesi ma abbiamo una nostra peculiarità, ad esempio 8.000 chilometri di coste che sono i nostri confini nazionali nel mezzo del Mediterraneo. Molti rappresentanti del settore - li abbiamo ascoltati con attenzione in questi mesi - chiedono alle Commissioni di effettuare una verifica comparativa dei quadri normativi che si sono venuti a delineare nei vari Paesi comunitari, ponendo particolare attenzione proprio alla vicenda spagnola e alle proroghe volute dalla Spagna. Analizzare i casi di successo e avere un quadro esaustivo delle discipline relative alle concessioni demaniali marittime è fondamentale per un'azione politica che vuole muoversi o, così dice almeno, in linea con l'idea di una concreta difesa degli interessi economici e produttivi rilevanti del Paese che si è chiamati a rappresentare. Per questo avevamo chiesto nei mesi scorsi nuove audizioni nelle Commissioni competenti e un approfondimento ulteriore del disegno di legge di delega di riforma del demanio marittimo che tuttavia sono state rifiutate.

Ci siamo dovuti accontentare di sentirci dire che è l'Europa che ce lo chiede: non è proprio esatto perché proprio gli accadimenti della Spagna e anche del Portogallo, seppure differenti rispetto alla Spagna, dimostrano che c'è la possibilità di esercitare proroghe alle concessioni in scadenza - addirittura ho ricordato prima in Spagna fino a 75 anni - e che ciò è stato possibile principalmente attraverso una revisione del demanio marittimo. In quei Paesi permane una concreta tutela per gli attuali titolari di concessioni balneari, mentre in Italia il disegno di legge delega e altri provvedimenti normativi sembrano, al contrario, la dimostrazione di quanto il Governo proprio non comprenda il comparto: non ne comprenda il funzionamento, non ne comprende il potenziale e non ne comprenda l'interesse nazionale. Con il disegno di legge si rischia di consegnarlo al mercato - lo sentivamo prima - alla libera concorrenza, mercato che vale sempre per le aziende piccole, per le aziende familiari.

In questo Paese la libera concorrenza è imposta alle piccole aziende che campano marito, moglie e due figli ma per i grandi gruppi di potere la libera concorrenza non c'è mai: per essi il mercato non entra dominante a fare le leggi. Per essi si fanno concessioni a vita, ad esempio per le autostrade. Ma per le imprese familiari che gestiscono una piccola azienda che fa felici tutti ci vuole la libera concorrenza e ci vuole la legge del mercato. Non è disarmante? Io lo trovo disarmante. Rischiamo così di consegnare al mercato dei grandi interessi economici nazionali e anche internazionali le concessioni demaniali italiane aventi ad oggetto - lo ricordo - i nostri confini, i confini del nostro Paese tra l'altro secondo un principio che non è di reciprocità perché gli spagnoli, per esempio, potranno venire a partecipare alle aste per le nostre concessioni balneari ma gli imprenditori italiani non potranno fare la stessa cosa in Spagna. Il principio di reciprocità non è un principio fondante all'interno di qualunque elemento di costruzione dell'architettura europea? Dov'è la reciprocità? Non c'è. Tuttavia sembra che sia un dettaglio. Durante i lavori nelle Commissioni ci siamo resi conto di come sia evidente che la maggioranza sta procedendo a riordinare - si fa per dire - il settore delle concessioni demaniali approvando una legge delega ampia, complessa, con tempistiche misteriose, senza conoscere l'attuale assetto delle competenze recato dalle normative regionali né quali siano le concessioni demaniali attualmente in essere. Ce l'ha detto il demanio: non sappiamo quante concessioni abbiamo; non sappiamo quanto valgono; non sappiamo quanti contenziosi sono aperti e per quanto denaro; non sappiamo niente ma noi riordiniamo su questo non sapere niente. Parlare del riordino delle concessioni in tali condizioni rappresenta proprio un ossimoro: lo ripeto e lo ripeterò sino alla fine. Infatti, come risulta dai lavori di indagine conoscitiva parlamentare, non sappiamo niente di tali concessioni o, meglio, non sappiamo abbastanza e, peraltro, nell'ambito di applicazione del provvedimento, non è ricompreso tutto il territorio nazionale perché ci sono regioni per le quali sono previste deroghe. Quindi tra l'altro è un lavoro neanche coerente e neanche completo. A mio avviso, la delega al Governo per la revisione e il riordino della normativa sulle concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali è un mero ossequio alla cosiddetta direttiva Bolkestein che, insisto, sembra valere per le coste italiane grazie al nostro Governo ma non sembra valere per altre zone costiere dell'Unione europea dove si sono applicati criteri ben diversi. Le persone che sono oggi titolari delle concessioni hanno prodotto un tessuto sociale ed economico che ha generato ricchezza e benessere, contribuito al decoro, all'ordine e alla pulizia, alla tutela degli interessi pubblici connessi alla tutela dei luoghi e alla loro valorizzazione, un grandissimo patrimonio per il nostro Paese. Mi chiedo perché si voglia colpire in tutti i modi un settore che funziona bene. Credo che non si otterrà altro che mettere in ginocchio il settore, violando, come ho accennato poco fa, due principi contenuti nella direttiva Bolkestein: il principio di reciprocità e la condizione di scarse risorse. Il provvedimento inoltre lascia - è un altro elemento che voglio sottolineare - la fissazione di un eventuale numero massimo di concessioni che un operatore economico possa detenere nell'ambito territoriale di riferimento alla discrezionalità delle regioni e ci si domanda a quale interesse risponda una simile disposizione cioè un imprecisato numero di concessioni possono essere accorpate presso un unico operatore economico ma non si sa quante, si deciderà, lo decideranno le regioni. A che serve, qual è lo scopo, perché? Ci sarebbe piaciuto poterlo sentire con grande chiarezza. Anche in questo caso, si dispone in ipotesi, senza avere certezza dei dati esistenti e si può arrivare al risultato che, in alcune regioni, possa essere determinato in un certo modo, in altre no: numeri, criteri ma è questo il riordino? Tutto in maniera disunita, tutt'altro che ordinata. Rivolgo un ultimo invito accorato a cercare di mettere da parte la fretta su una materia così delicata e ad evitare ulteriori pasticci: c'è l'opportunità di farlo. Ricordo che si sta deliberando sulla possibilità di mandare all'asta zone che rappresentano i nostri confini nazionali, in un momento storico estremamente delicato, con sfide che il nostro Paese è chiamato a fronteggiare ben oltre le proprie forze.

Concludo riaffermando che Forza Italia è contraria a questo disegno di legge delega, perché ritiene che questa materia non debba essere sottratta ad un legittimo, opportuno, necessario, ampio, approfondito dibattito parlamentare. Il fatto che questa maggioranza voglia evitare, su questo provvedimento, un ampio dibattito parlamentare non ci lascia tranquilli, tutt'altro, ci trova fermamente contrari. Io credo che, da un ampio dibattito parlamentare, sarebbero potute emergere soluzioni e visioni utili a migliorare il senso e la costruzione di questo provvedimento, ma così non è stato.

Le implicazioni sociali ed economiche sottese all'esito di questo provvedimento sono importanti e dobbiamo tenerne conto, se vogliamo essere seri, usando un aggettivo che è stato usato da un collega che mi ha preceduto poco fa.

Pensiamo che l'approvazione di questo provvedimento avrebbe un risultato certo, uno lo avrebbe senz'altro: mettere in ginocchio migliaia di piccole e medie aziende italiane. Non vi sono giustificazioni per chi porterà all'estinzione un comparto che costituisce una peculiarità nazionale di successo. Riteniamo che un provvedimento di legge come quello presentato dal Governo porti con sé una conseguenza estremamente pericolosa: la morte di migliaia di aziende, cosa che Forza Italia non permetterà in alcun caso (Applausi dei deputati del gruppo Forza Italia-Il Popolo della Libertà-Berlusconi Presidente).

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

(Repliche - A.C. 4302-A)

PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare il relatore, onorevole Pizzolante.

SERGIO PIZZOLANTE, Relatore per la VI Commissione. Presidente, ho ascoltato il dibattito e ho registrato alcuni appunti critici sull'impianto e anche alcune valutazioni di rifiuto totale di quella che viene definita la logica del provvedimento, oltre al rifiuto del metodo, cioè della scelta di procedere con una legge delega.

Voglio ricordare che siamo già intervenuti, alcuni anni fa, con un legge, e fu scelta quella volta la stessa modalità, cioè la delega al Governo, e la stessa logica d'intervento anche nei contenuti di quella delega. La delega, che poi è scaduta, era una delega del Governo Berlusconi, quindi anche il Governo Berlusconi, anche la maggioranza di centrodestra scelse lo strumento della delega, che poi non riuscì nemmeno a chiudere con i decreti legislativi; quindi, fu scelta quella modalità. Quella delega era poi, nei contenuti, figlia del lavoro dell'allora Ministro di Forza Italia, l'onorevole Raffaele Fitto, al quale io ho dato una mano - se posso dirlo -, e che proprio ieri il presidente Berlusconi ha definito - io sono d'accordo - uno dei migliori ministri del suo Governo. Quella era una delega di quel Governo, con il Ministro Fitto e maggioranza di centrodestra; quindi, una delega.

Per quanto riguarda i contenuti e la logica del provvedimento, essi non erano molto diversi da quelli di questa delega: lì non c'era un mandato al Governo per fare una proroga di trent'anni, quarant'anni, cinquant'anni, ottant'anni. Non c'era. Quella delega aveva una struttura che somiglia a quella attuale, molto più povera di quella attuale perché poi negli anni sono intervenute cose, sono successe cose (sentenze, leggi in altri Paesi europei) che ci hanno permesso di arricchire la logica di quella delega.

Per esempio, in quella delega non c'era il riferimento al riconoscimento del legittimo affidamento, cioè il riconoscimento del fatto che, avendo gli operatori nei decenni precedenti fatto investimenti e creato impresa basandosi sulle leggi dello Stato che gli davano un affidamento legittimo infinito nel tempo - può piacere o non piacere quella cosa, ma così era -, avendo quegli operatori creato impresa in base a quelle norme, indefinite come tempo, hanno costruito un affidamento legittimo del quale bisognerà tener conto nella costruzione della legge e dei decreti, sia per quanto riguarda il periodo transitorio sia per quanto riguarda la questione delle selezioni, delle evidenze pubbliche.

Questo concetto importante, fondamentale, a tutela degli operatori, dei loro investimenti, che c'è in questa delega, non c'era nella delega del Governo Berlusconi. Non c'era il riferimento al riconoscimento dell'articolo 12, comma 3, della Bolkestein, che dice che gli Stati debbono far valere questioni di interesse nazionale. Non c'era. Noi abbiamo inserito sia il legittimo affidamento che il riferimento agli interessi nazionali, in questa delega, anche perché, al di là delle opinioni del Commissario europeo e della Commissione europea, c'è stata una sentenza, un anno fa, della Corte di giustizia europea - che, per essere onesto, non c'era ai tempi della delega di Berlusconi - che riconosce il legittimo affidamento e l'articolo 12, comma 3. Quindi, va riconosciuto, ma dice che, però, non può servire a non fare le selezioni pubbliche. Va riconosciuto perché ci sono delle imprese che hanno fatto investimenti, che vanno tutelate, ma non possono servire a evitare all'infinito le selezioni pubbliche. Quindi, noi abbiamo seguito lo stesso metodo (la delega), la stessa logica, con gli arricchimenti che abbiamo potuto aggiungere, e li abbiamo aggiunti in quanto anche figli del dibattito in Commissione e dell'apporto importante che hanno dato le associazioni di categoria; ma la logica e il metodo sono come quelli del Governo Berlusconi, con maggioranza di centrodestra e primo partito Forza Italia.

Si dice che si danno maggiori garanzie agli operatori, si tutelano meglio gli operatori attuali se - questo era in molti emendamenti di molti partiti - diamo trent'anni, quarant'anni, cinquant'anni eccetera: io non ho un'opposizione politica pregiudiziale rispetto a questa possibilità, non ce l'ho, dico soltanto che bisogna guardare la realtà, e se noi non guardassimo la realtà prenderemmo in giro gli operatori; li prenderemo in giro. Infatti, fu fatto un tentativo al Senato per una proroga di trent'anni (firma del senatore Gasparri), ma poi quei trent'anni diventarono cinque anni. Quindi, come dire, si poteva fare anche allora, perché non si è fatto? Perché non si sono previsti trent'anni, allora? Si è fatta una proroga di cinque anni, ma quella proroga di cinque anni è stata oggetto di una sentenza dalla Corte di giustizia europea, che dice che una proroga di cinque anni, di vent'anni o di centocinquant'anni significa rinnovo automatico, che è in conflitto con il diritto europeo, e quindi non si può fare, ed è stata bocciata.

Qui non stiamo parlando della Commissione europea, non stiamo parlando dell'organo politico dell'Unione europea, stiamo parlando della Corte di giustizia, stiamo parlando delle sentenze, quindi qualcuno mi deve spiegare come sia possibile che, avendo la Corte di giustizia bocciato una proroga di cinque anni, poi possa non bocciare una proroga di vent'anni, trent'anni, quarant'anni, cinquant'anni!

Qualcuno me lo deve spiegare come sia possibile! A meno che abbandoniamo il campo della verità e della realtà e passiamo al campo della post-verità. Siamo nel campo della post-verità, non ha alcuna logica.

E si dice però: la Spagna e il Portogallo. Ebbene, però, bisogna studiare, bisogna leggere gli interventi legislativi della Spagna e del Portogallo, bisogna capire di che cosa sono figli.

Ora la Spagna. Sino al 1988, Governo González, le spiagge erano private. Furono espropriate e poi il Governo diede trent'anni di concessione, come indennizzo ad un esproprio. E poi, oggi, ha dato un ulteriore rinnovo, sino a settantacinque anni. Sino a settantacinque anni, ma è una risposta ad un esproprio! Non è la nostra situazione. Ci sono delle similitudini e, infatti, noi interveniamo per tutelare le imprese, perché anche da noi le imprese avevano, appunto, un affidamento legittimo, che bisogna riconoscere, ma non era proprietà. Non era proprietà!

E il Portogallo. Il Portogallo ha fatto una legge. Io sfido tutti quelli che utilizzano il riferimento al Portogallo a chiedere alle associazioni di categoria, tutte, se sono d'accordo con la legge del Portogallo. Non so come faccia a reggere rispetto al diritto europeo e, infatti, il commissario ha già preannunciato una procedura d'infrazione, ma fatti loro. Il Portogallo approva una norma e inserisce nella legge il diritto di preferencia, cioè il diritto di preferenza. E, però, questo diritto di preferenza è basato sull'offerta economica!

Noi non vogliamo creare un meccanismo che porti alle aste. Anche qui c'è un imbroglio. Noi non facciamo le aste. Il Portogallo fa le aste, chi si riferisce al Portogallo vuole le aste. Noi stabiliremo prima il valore dei canoni, non ci sarà una corsa al rialzo. Il Portogallo fa le aste, noi non facciamo le aste. Noi facciamo le selezioni, facciamo le evidenze pubbliche, stabiliremo prima, stabiliamo prima, il valore dei canoni. Quindi, in contrasto con quest'impianto legislativo, mi si dice: il Portogallo. Io non lo voglio l'impianto del Portogallo, perché io non le voglio davvero le aste, a differenza di quelli che sbandierano la bandiera “no alle aste” e che, di fatto, ci porterebbero alle aste.

Quindi, è un imbroglio, è un altro, un ulteriore imbroglio. Siamo, appunto, nel mondo della post-verità. Dice: ma perché avete fretta? Non ci sono procedure di infrazione in atto. Se non ci sono procedure di infrazione in atto, vuol dire che sta succedendo qualcosa. Se noi prendiamo un impegno con l'Europa, io ricordo che, dopo la sentenza della Corte di giustizia europea, che annulla la proroga al 2020, noi abbiamo fatto un'ora dopo (un'ora dopo!), nel decreto enti locali, una norma in cui c'è scritto - non c'è scritto letteralmente così, ma la sostanza è quella - che, nonostante la sentenza della Corte di giustizia europea, le concessioni sono legittime in attesa, nelle more della legge di riordino. E su questo si è aperto un confronto con l'Unione europea, che naturalmente non interviene con una procedura di infrazione, perché siamo nelle more della legge di riordino. Ma se noi, come dicono qui alcuni colleghi e alcuni partiti, come dice Forza Italia, non la facciamo, ci fermiamo, è evidente che questo porta alla procedura di infrazione europea. Ma la procedura di infrazione non è che la paga lo Stato, la pagano gli operatori! E, quindi, bisogna andarglielo a dire agli operatori che si devono far carico dei costi della procedura d'infrazione! E bisogna dire che la conseguenza di questa cosa sono le gare subito, perché, se noi facciamo una proroga di trent'anni, quarant'anni, di cinquant'anni, sicuramente verrà bocciata dalla Corte di giustizia europea e, poi, non è che ci sarà un altro appello. Non è che possiamo fare un'altra norma, che dice che le concessioni sono legittime in attesa della nuova legge. Presi in giro una volta, non è più possibile. Quindi, come si fa a dire che non c'è una procedura d'infrazione? Non c'è procedura perché siamo in una fase di legislazione, ma, se noi interrompiamo la fase di legislazione, è evidente che ci sarà la procedura.

Insomma, quindi, noi abbiamo costruito un impianto che, dal nostro punto di vista, tutela e valorizza le nostre imprese. Noi facciamo un provvedimento a favore delle imprese, perché questo è un sistema di imprese che ha fatto grande la nostra offerta turistica balneare. E non è vero, come è stato detto prima, che il turismo balneare italiano rappresenta il 10 per cento del turismo generale. No! Rappresenta il 50 per cento! Bisogna, appunto, conoscerle, bisogna studiarle queste cose e capire che rappresenta il 50 per cento. Ed è l'unica realtà industriale dentro un turismo che non è ritenuto ancora un comparto industriale.

Noi dobbiamo tutelare le imprese, ma dobbiamo tutelarle dentro il diritto europeo, ma anche dentro le sentenze. Non si può non leggere le sentenze, europee e nazionali. Allora, noi siamo per un periodo congruo di transizione, per il passaggio dal vecchio sistema al nuovo sistema. Non può essere diversamente, ma chiaramente non subito, con una fase di transizione. Se noi approviamo questa legge con questi principi, siamo più forti nel confronto con l'Europa, per definire anche un periodo di transizione più congruo. Se noi non l'approviamo, non ci sarà transizione.

E poi le evidenze pubbliche, che - ripeto - non sono aste e che tengono in conto della professionalità dell'impresa - quindi delle imprese esistenti -, con meccanismi di premialità a loro favore, e tengono in conto i valori commerciali delle imprese. È stato possibile inserirlo, perché due anni fa c'è stata una sentenza della Corte di giustizia europea, sui giochi, la sentenza Laezza, che riconosce questo principio - e l'abbiamo inserito -, che dimostra la volontà di tutela e di valorizzazione.

Quindi, questo impianto ci permette, da una parte, di tutelare un comparto economico importantissimo e di proteggere le nostre imprese, ma, nello stesso tempo, anche di valorizzarle e di fare ripartire gli investimenti. In alternativa a questo non c'è nulla, c'è la post-verità.

PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare il rappresentante del Governo.

PIER PAOLO BARETTA, Sottosegretario di Stato per l'Economia e le finanze. Grazie, Presidente. Molto brevemente, tre osservazioni.

La prima: la discussione sulle concessioni demaniali marittime, come veniva ricordato, viene da lontano, ma quello che è certo è che ha attraversato tutta questa legislatura, in più occasioni, con un'interlocuzione ampia con gli operatori del settore, tra le forze politiche e tra i due rami del Parlamento. Concludere la legislatura senza assumersi la responsabilità di una risposta a questo argomento sarebbe irresponsabile.

Dal nostro punto di vista, quindi, la necessità di mettere dei punti di riferimento su questo tema, così controverso, così complesso, così difficile, ma così anche delicato, come è stato detto - sì, sicuramente delicato -, è molto importante, per gli operatori e per lo Stato. È un tema al quale non possiamo abdicare la nostra responsabilità.

La seconda osservazione è che il dibattito c'è stato. Non è vero che è mancato un dibattito pubblico, parlamentare. Peraltro, basta confrontare il testo della legge, come è entrato, e il testo come esce, con l'apporto delle Commissioni parlamentari, per renderci conto che anche il Parlamento ha svolto una parte importantissima nell'aggiungere e modificare, tenendo conto anche delle sensibilità e dei problemi diffusi nel settore.

In questo senso la scelta della delega corrisponde esattamente ad un modello di tipo democratico, vista la delicatezza del tema, ovvero vogliamo continuare il dialogo con il settore, vogliamo continuare il dialogo con gli operatori e anche il definire la delega - e il tempo c'è per definire la delega - va fatto non chiudendoci in un'unica decisione.

L'alternativa tra fare tutto o non fare niente, come anche oggi viene proposto, è invece quella di fissare dei punti di riferimento e arrivare il più rapidamente possibile a renderli operativi, ma dopo avere anche continuato il dialogo.

La terza ed ultima considerazione: dopo la Bolkestein si è determinata un'impasse nel nostro Paese, un'impasse nel dibattito, una difficoltà, una problematica che ha coinvolto gli operatori, che ha coinvolto le forze politiche sulle decisioni da prendere, su quale fosse la linea più efficace, su come tutelare meglio gli operatori.

Il tentativo ad oggi, dopo tutto il tempo che è passato, dopo gli approfondimenti, dopo le vicende che adesso ha ricordato anche l'onorevole Pizzolante in termini di rapporto con l'Europa, di continuare a negare la realtà non è difendere gli operatori, ma è lasciarli allo sbando, è lasciarli di fronte a logiche di mercato che neghiamo, ma non le controlleremo se continuiamo ad avere un atteggiamento che le nega completamente.

Quello che, invece, si tenta di fare con questa scelta, con questi contenuti è proprio di tutelare gli operatori, andare incontro agli operatori italiani che hanno costruito questo settore e che si trovano esposti, se non trovano un punto di protezione e anche di aiuto da parte dell'intervento legislativo. Sostanzialmente, la scelta dei tempi di transizione, da un lato, e del legittimo affidamento, dall'altro, sono i due presupposti che consentono agli operatori italiani di affrontare questa materia con la tutela e anche la tranquillità che lo Stato italiano li accompagna, li protegge nell'ambito delle regole, ma, soprattutto, li mette nelle condizioni di vincere la sfida che si è aperta, che è una sfida molto ampia e che non può essere assolutamente considerata una sfida da negare.

Queste sono le ragioni per le quali io penso che il Parlamento faccia bene ad approvare questa delega, questa legge che è in funzione di una delega, e l'impegno del Governo è di non lasciare nulla di intentato perché questa si realizzi nei tempi più brevi possibili.

(Annunzio di una questione pregiudiziale - A.C. 4302-A)

PRESIDENTE. Avverto che è stata presentata la questione pregiudiziale di costituzionalità, cui aveva peraltro fatto già accenno la collega, Bergamini ed altri n. 1, che sarà esaminata e posta in votazione prima di passare all'esame degli articoli del provvedimento.

Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Saluto le classi partecipanti al concorso “Fenomeni di odio e diritti e doveri di Internet” dell'Istituto “Calvi” di Padova, del liceo “Vasco Beccaria Govone” di Mondovì, in provincia di Cuneo, e del liceo “Vittoria Colonna” di Roma, che assistono ai nostri lavori dalla tribuna (Applausi).

A questo punto, prima di passare al punto successivo all'ordine del giorno, sospendo la seduta, che riprenderà alle ore 16,40. La seduta è sospesa.

La seduta, sospesa alle 16,35, è ripresa alle 16,40.

Discussione della mozione Martelli ed altri n. 1-01716 concernente iniziative per prevenire e contrastare la violenza contro le donne.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della mozione Martelli ed altri n. 1-01716 concernente iniziative per prevenire e contrastare la violenza contro le donne (Vedi l'allegato A).

Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi è pubblicato nell'allegato A al resoconto stenografico della seduta del 29 settembre 2017 (Vedi l'allegato A della seduta del 29 settembre 2017).

Avverto che è stata altresì presentata la mozione Carfagna ed altri n. 1-01727 che, vertendo su materia analoga a quella trattata dalla mozione all'ordine del giorno, verrà svolta congiuntamente. Il relativo testo è in distribuzione.

(Discussione sulle linee generali)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali delle mozioni.

È iscritta a parlare l'onorevole Martelli, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-01716. Ne ha facoltà.

GIOVANNA MARTELLI. Grazie, signor Presidente. L'obiettivo di questa mozione è quello di promuovere un confronto costruttivo e condiviso sul fenomeno della violenza contro le donne: auspico, pertanto, un dialogo e una risoluzione condivisi che ci consentano di affrontare un fenomeno strutturale della società italiana.

La violenza contro le donne è riconosciuta a livello giuridico internazionale già dagli anni Sessanta come una manifestazione delle relazioni di potere asimmetriche tra gli uomini e le donne ed è considerata come uno dei meccanismi sociali attraverso i quali le donne permangono in una condizione subordinata rispetto agli uomini. L'asimmetria è il frutto del sistema di dominio degli uomini sulle donne che, a tutti i livelli ed in particolare quello simbolico, ha infiltrato e ha egemonizzato politica, cultura, religioni, relazioni pubbliche e private.

I fatti accaduti nei mesi scorsi e nelle ultime settimane in Italia hanno messo in luce con nettezza quanto sia radicalizzato il patriarcato nella nostra società: la strumentalizzazione del corpo della donna con fini elettorali, la trasformazione di stralci di verbali della polizia di Stato in racconti pornografici che spettacolarizzano eventi drammatici come lo stupro, per non dimenticare che alcune parlamentari sono state oggetto di umiliazioni e di insulti per il solo dal fatto di essere donne. La stessa Presidente della Camera dei deputati, onorevole Laura Boldrini, subisce sistematicamente attacchi sessisti.

L'Osservatorio italiano sui diritti Vox riporta, nella “Mappa dell'intolleranza” redatta nel 2016, che le donne restano il vero bersaglio per i messaggi discriminatori: il 63,1 per cento dei tweet negativi è, infatti, rivolto contro di loro. Una violenza, quella contro le donne, che sembra inarrestabile, come dimostrano i fatti che la cronaca continua incessantemente a riportare. In particolare, l'intolleranza si concentra in Lombardia con 9.856 tweet negativi, nel Lazio dove si sono raggiunti 6.102 messaggi discriminatori e in Umbria con 8.096 insulti contro le donne. Complessivamente, sono stati rilevati 1.007.540 tweet contro le donne.

Mi soffermerò, prima di entrare nel merito del dispositivo della mozione, su due atti fondamentali che rappresentano due capisaldi giuridici dai quali non sarà più possibile prescindere, che pongono in primo piano e in modo perentorio la questione dell'attuazione dei diritti delle donne nel panorama mondiale. 18 dicembre 1979: l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite adotta la Convenzione sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne (CEDAW).

La Convenzione, definita la Carta dei diritti femminili, rappresenta una pietra miliare nella storia dei diritti delle donne. Nei trenta articoli che la compongono, la CEDAW non si limita a delineare le garanzie che la legge deve assicurare alle donne, ma indica le misure che gli Stati parte devono impegnarsi ad attuare nel concreto per ottenere una uguaglianza tra donne e uomini non solo nell'esercizio dei diritti civili e politici o sul piano economico, sociale e culturale, cioè in quella che potremmo definire la sfera pubblica dei comportamenti e delle azioni, ma anche nella vita privata, specialmente per quanto attiene ai rapporti che si instaurano all'interno delle relazioni interpersonali.

L'articolo 1 definisce le discriminazioni contro le donne come distinzioni, esclusioni o limitazioni basate sul sesso, con la conseguenza o lo scopo di incidere sulla possibilità di esercitare i propri diritti politici, economici, sociali, culturali, civili o di altro genere. La Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, la Convenzione di Istanbul approvata dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa il 7 aprile 2011, introduce un nuovo paradigma nel definire la violenza contro le donne, dando impulso a politiche pubbliche a contrasto dalla stessa. In particolare, prevede la correlazione tra l'assenza della parità di genere e il fenomeno della violenza; una nozione ampia di violenza che comprende anche quella psicologica ed economica, e soprattutto l'attenzione verso la forma di violenza più diffusa, quella domestica; la necessità di politiche antidiscriminatorie e che favoriscano l'effettiva parità tra i sessi, al pari di misure atte alla prevenzione e al contrasto della violenza contro le donne.

La definizione di violenza contro le donne si riferisce a tutte le forme di violenza, ovvero psicologica, gli atti persecutori, la violenza fisica, la violenza sessuale, il matrimonio forzato, le mutilazioni genitali femminili, l'aborto forzato, la sterilizzazione forzata e le molestie sessuali. Essa si riferisce, inoltre, alla violenza domestica nei confronti delle donne, definita come violenza fisica, sessuale, psicologica, economica e che si verifica all'interno della famiglia e del nucleo familiare, o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l'autore condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima.

Sul nostro fronte legislativo interno, oltre alla legge 27 giugno 2013, n. 77, che ratifica la Convenzione di Istanbul, il Parlamento ha anche approvato la legge n. 119, recante disposizioni urgenti in materia di sicurezza, e in data 7 luglio 2015 è stato adottato, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, il piano d'azione straordinario contro la violenza sessuale di genere.

Da queste considerazioni si è ritenuto necessario proporre all'attenzione di quest'Aula il seguente dispositivo: ad ottimizzare al più presto le modalità di ricognizione e di denuncia del fenomeno della violenza di genere, e a promuovere con urgenza misure atte a evitare l'impunità per i responsabili di reati tanto gravi quali quelli relativi alla violenza contro le donne; ad incrementare, utilizzando i più rapidi strumenti normativi a disposizione, le politiche pubbliche volte all'empowerment femminile; ad assumere iniziative normative per rendere più agevole e snello e protetto l'accesso da parte delle donne vittime di violenza agli strumenti inerenti alle misure restrittive nei confronti degli aggressori, e più in generale, in ambito processuale, per garantire la priorità assoluta nella formazione dei ruoli di udienza e nella trattazione dei processi relativi ai reati di violenza di genere; in conformità con l'articolo 31 dalla Convenzione di Istanbul, a promuovere un intervento normativo affinché, a fronte di separazioni e divorzi, in sede di determinazione dei diritti di custodia e di visita dei figli, si tenga conto delle condanne per maltrattamenti o stalking, ma anche di eventuali processi penali pendenti per maltrattamenti a carico del padre in danno della madre, nonché per escludere l'affidamento condiviso dei figli ove risultino precedenti di violenze nelle coppie; ad assumere iniziative normative per escludere il ricorso a sistemi alternativi di risoluzione delle controversie, quali la mediazione e la conciliazione, nei casi di violenza di genere contro le donne, sistemi vietati dall'articolo 48 della Convenzione di Istanbul; a promuovere al più presto politiche pubbliche per contrastare l'impatto cumulativo e la intersezione tra atti razzisti, xenofobici e sessisti contro le donne; ad istituire una commissione di studio sulle cause strutturali della violenza contro le donne; ad assumere iniziative, nell'ambito delle proprie competenze, per sanare le disparità regionali e locali inerenti alla disponibilità e alla qualità dei servizi di protezione, compresi i rifugi per le donne vittime di violenza, nonché rispetto alle forme di discriminazione contro le donne vittime di violenza che appartengono alle minoranze.

Signor Presidente, i diritti umani delle donne e delle bambine sono parte inalienabile, integrante e indivisibile dei diritti umani universali. La piena ed uguale partecipazione delle donne alla vita politica, civile, economica, sociale e culturale, a livello nazionale, regionale e internazionale, e l'eliminazione radicale di tutte le forme di discriminazione basate sul sesso sono obiettivi prioritari della comunità internazionale. La violenza sessuale e tutte le forme di molestia e sfruttamento sessuale sono incompatibili con la dignità e il valore della persona umana e devono essere eliminate.

Tina Anselmi, la prima donna ad essere nominata Ministra della Repubblica italiana, in un documentario a lei dedicato, La grazia della normalità, ci racconta: “Quando le donne si sono impegnate nelle battaglie, le vittorie sono per tutta la società. La politica che vede le donne in prima linea è politica di inclusione, di rispetto delle diversità, di pace”.

Oggi la nostra battaglia in quest'Aula è la battaglia di Paola Regeni per la ricerca della verità e della giustizia per l'assassinio di suo figlio Giulio: una battaglia di tutti noi, una vittoria di tutta la società italiana.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Bergamini, che illustrerà la mozione n. 1-01727, di cui è cofirmataria.

DEBORAH BERGAMINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, la violenza contro le donne rappresenta una delle più estese e raccapriccianti violazioni dei diritti umani fondamentali, perché costituisce il principale ostacolo al raggiungimento della piena parità dei sessi, del godimento dei diritti fondamentali, nonché dell'integrità fisica e psichica. E oggi più che mai sta acquisendo ai nostri occhi una centralità stringente, che impone prima di tutto alla politica una riflessione che non si limiti a considerazioni spot o a semplici slogan, troppo spesso ricchi di buona volontà, ma scarsi di soluzioni e di consistenza.

Un paio di numeri, molto sinteticamente: ogni giorno vengono denunciate 11 violenze sessuali nel nostro Paese, e in 12 anni sono state oltre 2 mila le donne vittime di femminicidio. Proprio per questo motivo, alla luce di questi dati e di questi numeri, il nostro impegno per la lotta e la prevenzione di ogni forma di violenza nei confronti delle donne deve essere quanto mai convinto e incisivo: lo dobbiamo alle tante vittime di violenza e, per tutte loro, non possiamo in alcun modo mai abbassare la guardia su quella che ormai si configura come un'emergenza dilagante, in aumento, un'emergenza alla quale bisogna dare risposte concrete. Perché, se ogni forma di abuso, in modo particolare quella sulle donne e sui minori, è e deve essere in cima alle priorità di qualunque forza di Governo autenticamente vigile e per questo riformatrice, questa esigenza non può lasciare nell'ombra la necessità di coinvolgere, in stretto rapporto con le numerose realtà all'interno di enti e associazioni di categoria, i rappresentanti proprio della cosa pubblica.

Le notizie di cronaca riportano in modo sistematico, crescente ogni giorno episodi commessi nei confronti di donne che vengono isolate, molestate, minacciate, violentate, stuprate e uccise e che si trovano a vivere nella paura e nel disagio per le strade, nei mezzi pubblici e specialmente nelle proprie case.

Un'idea della pervasività del fenomeno e del suo dilagare ce la dà la crudezza di altri numeri, che voglio ricordare: tra gennaio e giugno 2017 sono state commesse oltre 2.300 violenze carnali e nel nostro Paese il numero delle donne che hanno subito una forma di abuso o di violenza, in forme naturalmente diverse, secondo le statistiche più recenti supera i 7 milioni. Purtroppo molte delle donne vittime di violenze e omicidi erano donne che da tempo avevano trovato il coraggio di denunciare soprusi e violenze, ma le loro denunce non erano state raccolte con la dovuta sensibilità, con la dovuta attenzione, con la dovuta reazione.

Un altro elemento da sottolineare è che spesso si tratta di donne professionalmente affermate, indipendenti, colte, pienamente inserite nella vita sociale, quasi che violenze, stupri e femminicidi siano in qualche maniera l'ombra, l'escrescenza negativa della crescente emancipazione femminile. Questa è un'equazione da tenere sotto controllo.

Purtroppo, quando parliamo di numeri, parliamo in larga parte di numeri basati su stime, perché vi è una mancanza oggettiva rilevante di dati certi, di dati empirici, su questo fenomeno, considerato che ancora oggi, nel 2017, sono poche rispetto al totale le donne che trovano il coraggio, la forza, l'autonomia psicologica, per denunciare. Spesso non lo fanno perché hanno paura o vergogna. Ma quello che è certo è che ci sono ancora troppe donne oggi che scelgono e privilegiano la strada del silenzio, piuttosto che quella della denuncia sulle violenze subite.

Qui ci sarebbe da aprire una parentesi anche sulle varie forme di violenza che le donne subiscono, molto spesso sorda, silente, viscida. Sarebbe bello che la Presidente della nostra Assemblea potesse proprio in quest'Aula (oltre alla importante cerimonia che sta organizzando per il 25 novembre, ricorrenza annuale contro la violenza alle donne) ospitare un giorno, prima della fine della legislatura, un confronto aperto, un dibattito vero, trasparente, franco, netto, dove non sono solo le donne a parlare della violenza alle donne, ma dove fossero gli uomini i protagonisti di questo dibattito. Sarebbe interessante che in quest'Aula, che tanto negli ultimi anni è riuscita a produrre in termini di tutela contro la violenza sulle donne, fossero gli uomini a prendere voce e dire come la pensano, a dire qual è la loro idea, a dire cosa sarebbe importante fare, perché c'è un muro intorno al dibattito sulla violenza contro le donne e questo muro è fatto di tanti mattoni, che sono il silenzio degli uomini. Le donne parlano della violenza sulle donne, gli uomini preferiscono il silenzio ed è un'assenza importante, grave, in un dibattito che oggi è uno dei principali che riguardano la civiltà di ogni comunità, di ogni Stato, di ogni Paese.

L'approccio al fenomeno della violenza delle donne è cambiato nel corso degli anni, questo è vero, dobbiamo riconoscere i risultati ottenuti grazie al lavoro, all'impegno, anche e soprattutto della politica. L'analisi, il monitoraggio, le azioni di supporto alle vittime, la prevenzione e la sensibilità sul tema sono stati punti prioritari, per esempio, durante i Governi presieduti da Forza Italia, i Governi Berlusconi. Molte le misure che sono state messe in campo per fornire alle vittime di violenza almeno un approdo sicuro, un approdo certo, un luogo di ascolto nel momento di maggiore vulnerabilità e fragilità, nel momento di shock, puntando il faro su quelle che devono essere pietre miliari di tutti noi, cittadini, amministratori, rappresentanti politici ai più alti livelli, ovvero le campagne di prevenzione, da una parte, e le politiche di assistenza, dall'altra.

Elenco rapidamente qualche esempio: durante il quarto Governo Berlusconi, per la prima volta è stato adottato un Piano nazionale contro la violenza di genere e contro lo stalking finanziato con un numero ingente di milioni di euro, per avviare una strategia di contrasto delineata finalmente su base nazionale, con l'obiettivo di mettere in rete l'esperienza dei centri antiviolenza nelle regioni italiane e del numero verde, il 1522, e anche le professionalità delle forze dell'ordine, preziosissime nel contrasto e nella repressione di ogni forma di violenza contro le donne.

Nel 2009, con l'introduzione nell'ordinamento giuridico italiano del reato di stalking, il Governo e il Parlamento hanno dimostrato la grande importanza concentrata sull'individuazione di strategie di contrasto, di prevenzione della violenza e di reinserimento delle vittime. È stato compiuto un passo avanti fondamentale in quella data per quel che riguarda il nostro ordinamento sulla materia.

Il decreto-legge n. 11 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 38 del 2009, che ha introdotto il reato di stalking, ha inoltre previsto ulteriori interventi necessari e fondamentali per dotare gli organi giurisdizionali di strumenti che consentissero di punire chi commette reati di violenza sessuale e proteggere le vittime: proteggere le vittime.

Nell'ambito delle numerose attività portate avanti proprio in quegli anni sul tema della violenza nei confronti delle donne, a partire dal 2009, ogni anno, per la durata di una settimana, nelle scuole di ogni ordine e grado, vengono organizzate iniziative di prevenzione e di sensibilizzazione, di informazione ed educazione, sulla prevenzione della violenza fisica psicologica, compresa quella fondata sull'intolleranza razziale, religiosa e di genere. Questo al fine di creare un momento di attenzione e di riflessione sui temi del rispetto, della diversità e della legalità, al fine di coinvolgere studenti, genitori e docenti.

Sempre nell'ambito della prevenzione di episodi di violenza, con un protocollo d'intesa siglato nel gennaio del 2009 tra il Ministero per le pari opportunità e il Ministero della difesa, è stata istituita una task force composta da carabinieri, uomini e donne, impegnati specificamente nelle strategie di prevenzione e di contrasto dei reati di stalking e di violenza contro le donne.

Successivamente con un altro protocollo di intesa, sempre nel 2009, tra il Ministero per le pari opportunità e il Ministero dell'interno, sono state adottate misure per consentire una specifica preparazione delle forze di polizia nel contrasto ai reati di violenza contro le donne.

Mi preme anche ricordare che sempre nel 2009, a settembre, si è tenuta a Roma la prima Conferenza internazionale sulla violenza contro le donne, su iniziativa della Presidenza italiana del G8, a cui hanno preso parte oltre venti Stati; è stato un momento importante, di grande prestigio per il nostro Paese: l'Italia ospitava la prima Conferenza internazionale contro la violenza alle donne. Dalle conclusioni della Presidenza è emerso un impegno al rafforzamento della cooperazione internazionale nel contrasto alla violenza sulle donne e alla violazione dei loro diritti umani.

A tutti questi importanti interventi ha fatto seguito, da parte dei Governi di sinistra della presente legislatura, un'assenza di strategia volta a contrastare il fenomeno della violenza sulle donne. Basti pensare che per circa tre anni, purtroppo, è mancato un interlocutore istituzionale unico che avesse una delega relativa alle politiche delle pari opportunità e che poi, quando questa delega finalmente è stata conferita, in realtà, non possiamo dire di aver assistito a sostanziali progressi.

Questo crediamo sia il nodo: le istituzioni, in modo trasversale, debbono tornare ad essere capaci di dialogare fra loro. Laddove c'è stato vero dialogo, mai strumentale, ma sempre mirato alla concretezza delle realizzazioni in favore delle donne, lì - questo Parlamento in particolare - si è riusciti a raggiungere risultati fondamentali, per esempio con la firma della Convenzione di Istanbul, che è il primo strumento davvero giuridicamente rilevante, globale, per il contrasto alla violenza contro le donne e per la prevenzione di questa violenza, che l'Italia, grazie all'impegno di tutte le forze parlamentari rappresentate proprio qui in Parlamento, è stato uno dei primi Paesi a firmare, fornendo così un esempio ad altri Paesi che poi hanno seguito questa strada.

La tutela e la sicurezza di ciascuno non è un'esigenza avvertita maggiormente da questa o da quella formazione politica. È chiaro che non è così, non possiamo e non dobbiamo immaginare anche soltanto di dividerci sulla garanzia di diritti così essenziali, così semplici, così primari, come quello di trovarci nelle condizioni di minima tranquillità o serenità nelle cose che facciamo, nella vita che conduciamo. Tutti quanti dobbiamo tenere ferma la necessità di vigilare sempre sulla nostra stessa sicurezza, sull'assistenza alle vittime delle violenze e sull'effettiva applicazione delle leggi in vigore nel punire gli autori dei reati, incentivando il più possibile la sinergia fra le migliori risorse del Paese, Stato centrale, governi locali, società civile, medici, psicologi, magistratura, e così via.

L'ultimo Piano d'azione straordinario contro la violenza sessuale di genere è stato adottato con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri il 7 luglio del 2015 con durata biennale. Riguardo al nuovo Piano nazionale antiviolenza vi è stata soltanto la presentazione di una bozza di linee strategiche, quando, invece, l'importanza e l'aumento inquietante del fenomeno impongono, come assoluta priorità di ogni livello di governo, di mettere in campo ogni misura normativa, lo studio e l'attuazione di interventi, volti a prevenire ancora ulteriori episodi di violenza, di abuso o vessazione di cui le donne sono vittime quotidianamente.

Davanti al muro di indifferenza con cui il Governo ha affrontato, in questi anni, il tema dell'assistenza alle donne vittime di violenza, Forza Italia non ha mai abbassato la guardia; un esempio su tutti: nel 2014, grazie ad una puntuale proposta emendativa, è stata scongiurata l'abolizione della carcerazione preventiva per il reato di stalking, prevista inizialmente nel disegno di legge in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata del sovraffollamento carcerario. Sarebbe stata una misura assurda, inconcepibile, appunto, la cancellazione e l'abolizione della carcerazione preventiva per lo stalking proprio per la natura stessa di questo reato.

La scarsa attenzione nei confronti di questa tematica è stata dimostrata da ultimo con la riforma del codice penale, approvata con la legge 23 giugno 2017, n. 103, che, attraverso l'articolo 162-ter del codice penale, conferisce la possibilità, per uno stalker, di estinguere il suo reato pagando una somma pecuniaria decisa dal giudice, anche - lo sottolineo - se la vittima è contraria e rifiuta quel denaro.

La mozione presentata da Forza Italia impegna quindi il Governo a dare contezza delle tempistiche di attuazione del nuovo piano nazionale antiviolenza, nonché ad informare il Parlamento sui costi economici, sociali e morali di questo fenomeno dilagante, al fine di poter avere un quadro il più possibile chiaro, perché il fenomeno della violenza contro le donne è un fenomeno che muta, che si articola in modo diverso, che si evolve - o sarebbe meglio dire involve - con la stessa velocità con cui si modificano e si evolvono o involvono le condizioni sociali di una collettività, di un Paese.

È un fenomeno che va tenuto in rigido monitoraggio, muta costantemente, si arricchisce di elementi, di modalità, di culture che lo rendono sempre più grande, sempre più sviluppato e sempre più articolato.

Pensiamo anche che sia necessario garantire proprio per questo ulteriori stanziamenti da erogare ai centri antiviolenza e alle case rifugio, per evitare la loro chiusura laddove questa sia probabile, e assumere le opportune iniziative volte ad eliminare le disparità regionali e locali che concernono la disponibilità e anche la qualità dei servizi di protezione per le donne vittime di violenza.

Se veramente l'intenzione del Governo è quella di impegnarsi profondamente e seriamente sul tema della violenza sulle donne, pensiamo che sia necessario adottare ogni opportuna iniziativa legislativa volta ad escludere che, nella fattispecie di cui all'articolo 612-bis del codice penale in materia di atti persecutori, sia applicabile l'istituto previsto dall'articolo 162-ter del codice penale relativo all'estinzione del reato per condotte riparatorie.

Accanto alla risposta normativa, importante, ma non sufficiente, bisogna mettere in campo una battaglia culturale ed educativa ancora più forte, ancora più impegnativa, ancora più totalizzante di quella che si è fatta in questi anni e che parte, deve partire, dal rifiuto dell'idea malata che l'amore si affermi attraverso il possesso e il possesso attraverso la sopraffazione o l'abuso.

L'obiettivo, che non deve essere percepito come utopico, ma come un serio impegno di civiltà, deve essere quello di dare forma a una vera e propria cultura della sicurezza, da contrapporre a quei batteri culturali; è proprio una malattia che sta colpendo l'intero tessuto sociale, in ogni sua sfaccettatura e che vede il rapporto tra uomini e donne spesso sbilanciato in maniera drammatica.

E veniamo ora al punto che più di ogni altro, come un imperativo, deve farci interrogare: il ruolo dello Stato e delle sue istituzioni nel contrastare e prevenire il propagarsi di un'illegalità sempre più diffusa, odiosa, umiliante e violenta. Troppo spesso i cittadini hanno lamentato e lamentano l'assenza dello Stato e dei suoi rappresentanti sui territori, per troppo tempo le cattive amministrazioni e la grave mancanza di politiche sociali - magari a causa di restrizioni budgettarie o di bilancio - al nord come al sud hanno contribuito ad aumentare la sfiducia, l'allontanamento rispetto alle istituzioni da parte dei cittadini, favorendo la convinzione, purtroppo sempre più diffusa, di uno Stato Moloch, uno Stato fantasma, che non sia capace o magari addirittura non voglia intervenire con iniziative efficaci e mirate laddove i cittadini sentano messa a repentaglio la loro sicurezza e la loro integrità.

Questo è naturalmente intollerabile sempre, lo è ancora di più in relazione all'integrità, alla serenità, alla tutela delle donne e dei minori.

E concludo dicendo che bisogna tornare a promuovere il valore della diversità di genere, essendo la prima ricchezza che incontriamo nella nostra vita, da quando veniamo al mondo.

Insegnare agli uomini e alle donne la bellezza di crescere in libertà e in parità: oltre ad essere un nostro dovere, questo è un punto di partenza fondamentale per raggiungere quella modernità, quel progresso sociale, quel criterio di convivenza a cui tanto noi oggi ambiamo.

Serve un cambiamento profondo, in grado di penetrare nel tessuto sociale dell'intero Paese, che affronti il problema alla sua origine, lo guardi nella realtà e si poggi sui principi inalienabili della prevenzione, dell'educazione e dicevo della cultura, un percorso di rieducazione non solo degli uomini deboli o violenti, ma della società tutta, lavorando insieme – politici, amministratori, personale di categoria - riappropriandoci del ruolo di garanti del rispetto della legalità e dei principi che stanno alla base della convivenza civile, altrimenti non potremo mai parlare di una società sana o avanzata.

PRESIDENTE. Saluto studenti e insegnanti della scuola primaria “Rocco Carabba” di Lanciano, in provincia di Chieti, che assistono ai nostri lavori dalla tribuna (Applausi).

È iscritta a parlare l'onorevole Fabbri. Ne ha facoltà.

MARILENA FABBRI. Grazie, Presidente, io chiedo di lasciare agli atti il mio intervento in quanto non riesco a rimanere per la conclusione dei lavori.

PRESIDENTE. La ringrazio, certamente ha facoltà di consegnare.

È iscritta a parlare l'onorevole Binetti. Ne ha facoltà.

PAOLA BINETTI. Sono talmente pochi i minuti a disposizione per un tema di questo rilievo, che anche io chiedo di consegnare la relazione, ma in premessa voglio dire una cosa: anch'io sto presentando una mozione su questo tema, contro la violenza alle donne, però il punto di partenza che voglio assumere - tenendo conto che abbiamo già approvato, all'inizio di questa legislatura, una mozione su questo tema e allora mi ricordo che era a mia prima firma e che ottenne il consenso di tutta l'Aula – è che vorrei che questa volta la mozione contro la violenza alle donne facesse leva su un diverso valore, che è l'empowerment delle donne, perché siano loro stesse in grado di difendersi e di tutelarsi. E quando dico “difendersi” o “tutelarsi” lo dico sul piano, per esempio, della difesa psicologica contro i soprusi che vengono fatti in modo molto sottile e ricattatorio, lo dico anche sul piano della violenza fisica, ma lo dico anche sotto quel piano che va sotto il nome del coraggio della denuncia, della coesione delle donne che tra di loro fanno una rete positiva a sostegno delle donne e, quindi, si rifiutano in qualche modo di - come dire? - avallare quella che è la mercificazione del corpo femminile.

Troppe volte noi assistiamo al fatto ad esempio che dietro operazioni di violenza contro le bambine, per esempio avviate alla prostituzione, ci sono anche donne stesse che gestiscono quella rete di prostituzione. Noi dobbiamo riuscire a cambiare la mentalità anche delle donne, in una chiave di prevenzione, di rafforzamento e di empowerment.

Cito soltanto una cosa, perché una collega vi ha fatto riferimento: una delle grandi case farmaceutiche, la Johnson & Johnson, ha lanciato una grandissima operazione di difesa e di tutela della donna chiedendo agli uomini di metterci la faccia, cioè noi abbiamo anche bisogno che la mozione della violenza contro le donne riesca a coinvolgere gli uomini a metterci la faccia.

Qualcosa di questo genere, ma con un sapore di profonda vigliaccheria, sta emergendo in questo momento anche rispetto a quel famoso produttore americano, di cui tutti sapevamo del forte potere ricattatorio e davanti al cui potere, però, tutti si inchinavano.

L'operazione vera oggi è un'operazione culturale, che dà alle donne non solo il senso della dignità, ma la forza e la potenza di una dignità che si fa rete e dà agli uomini il coraggio della denuncia, davanti a questioni che in qualche modo compromettono la loro stessa immagine.

Consegno il mio intervento e mi auguro davvero che, nell'ambito del dibattito, questa dimensione del femminile come risorsa positiva e del maschile come alleato della donna e non come controparte possa emergere con tutta la sua forza e con tutta la sua potenza.

PRESIDENTE. La ringrazio. Ovviamente la Presidenza la autorizza a consegnare.

È iscritta a parlare l'onorevole Giuliani. Ne ha facoltà.

FABRIZIA GIULIANI. Presidente, il tema del contrasto alla violenza che qui affermiamo è stato più volte al centro della discussione parlamentare nel corso di questa legislatura. Questa discussione ha prodotto atti concreti a livello legislativo, che oggi qui proverò a ripercorrere.

Prima però di dare avvio a questa ricognizione, vorrei svolgere due ordini di considerazioni, perché credo aiutino a dare il senso del cammino compiuto e soprattutto della direzione che abbiamo provato ad imprimere ad esso.

Ci troviamo spesso a ricordare con orgoglio che il primo atto di questa legislatura è stato proprio il varo, la ratifica della Convenzione di Istanbul. Questo è stato un atto politico che per prima istanza andava a colmare un vulnus che si era prodotto nella scorsa legislatura, che la scorsa legislatura aveva lasciato aperto. Ricordo come dato cronologico, come dato politico, anche come pezzo di storia di queste istituzioni, che quando il Senato, nella scorsa legislatura, si trovò ad affrontare il tema della ratifica di questa Convenzione, ebbene, il Senato era privo di Presidenza. Quest'assenza, un'assenza quanto mai desueta, restituisce la misura della scarsa rilevanza che si attribuiva a queste politiche. Mi chiedo, se nel corso della storia fosse stato un altro il provvedimento al centro di quella discussione, se un Presidente, un Vicepresidente o un Presidente vicario sarebbe stato assente nella stessa misura, insomma se altri provvedimenti avrebbero consentito questa latitanza, perché politicamente parliamo di latitanza. Infatti, quella Convenzione rappresentava molto, non solo per le istituzioni ma per tutta la società civile, per donne e uomini che erano in piazza e che aspettavano con ansia questo varo, quindi quell'assenza è un'assenza che ha pesato.

Dunque, la ratifica, parto da lì, proprio per ricordare la caratura politica di quella vicenda e di questa vicenda. La ratifica è stato un atto politico, è stata la scelta e anche l'indicazione di un cammino nel solco europeo. Partiamo da qui, perché la Convenzione di Istanbul concludeva un percorso di cui le donne in tutta Europa - in tutto il mondo, ma soprattutto in tutta Europa - erano state protagoniste. Parlo di movimenti, di associazioni, che hanno portato, a quelle che noi chiamiamo in Europa le istituzioni, questo problema. E dalla raccomandazione che il Consiglio d'Europa adotta nel 2002 alla Convenzione di Istanbul, nel 2011, non passano soltanto nove anni, passa un processo intero, passa una stagione di battaglie culturali, politiche e giuridiche. Voglio dire questo per ricordare quanto arrivare alla Convenzione di Istanbul non sia stato né scontato né semplice. Nella raccomandazione confluivano studi, acquisizioni internazionali che mettevano in evidenza la correlazione tra la diseguaglianza, la discriminazione e la violenza. Violenze e abusi uscivano dal cono d'ombra dell'ambito domestico o anche da quello della dicitura di un generico problema sociale e venivano finalmente inquadrate nella dimensione giusta, ossia nella dimensione politica. Sulla scorta appunto di studi già confluiti nei trattati internazionali, finalmente in quel testo si mettevano alcuni punti fermi che qui vorrei molto brevemente ricordare: inprimis, che la violenza di genere è un atto palesemente discriminatorio che comprime o nega il godimento dei diritti umani delle donne, dunque rappresenta in questo senso una lesione importante; secondo, che questa violenza è un dato strutturale, non è un dato emergenziale, e affonda le sue radici nel rapporto impari tra uomini e donne, nella diseguaglianza sociale dei rapporti di potere tra uomini e donne.

Da qui appunto arriviamo al primo punto che veniva anche evocato dalle colleghe che hanno illustrato le mozioni prima di me, cioè la necessità di coinvolgere gli uomini. Seppure in questa raccomandazione noi troviamo una tappa decisiva del cammino culturale, simbolico e politico, seppure in questa raccomandazione troviamo la prima importante definizione giuridica, la raccomandazione, per sua natura, come sappiamo, non ha un carattere vincolante, appartiene a quella che definiamo la soft law, si limita dunque ad indicare una priorità agli Stati, senza imporre vincoli e senza esplicare effetti direttivi sugli ordinamenti degli Stati. Per questa ragione, quando si è giunti finalmente ad approvare nel Consiglio d'Europa uno strumento giuridicamente vincolante come appunto la Convenzioni di Istanbul, si è fatto un vero e proprio passo avanti.

Che cosa mette nero su bianco la Convenzione di Istanbul? Riconosce che il raggiungimento dell'uguaglianza di genere de iure e de facto è un elemento chiave per prevenire la violenza contro le donne, che la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione. Si riconosce, altresì, la natura strutturale della violenza contro le donne in quanto basata sul genere e in quanto meccanismo sociale cruciale per mezzo del quale le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini.

Queste istanze sono racchiuse anche in un approccio che sul piano metodologico rappresenta una vera novità, a mio avviso non sempre adeguatamente sottolineata. Cosa dice la Convenzione di Istanbul? Dice una cosa importantissima: prevenire la violenza, proteggere le vittime e perseguire gli autori sono percorsi che vanno portati avanti insieme e simultaneamente; individua la simultaneità delle azioni tra questi piani senza stabilire gerarchie tra essi, perché infatti, in politica, molto spesso, nelle istituzioni ma anche fuori di esse, tra questi aspetti si stabilisce una concorrenza o addirittura una gerarchia, e ogni volta che lo si è fatto si è commesso un grave errore, un errore molto grave. Far giocare questi piani l'uno contro l'altro (la prevenzione contro la repressione) ha depotenziato l'azione e ha costretto anche la stessa discussione su un piano sterile. Ce lo confermano i fatti, ce lo conferma l'esperienza che abbiamo di questi fenomeni, e ci dicono che è tempo di mandare questi approcci, che sono fondati spesso su un malinteso tratto ideologico, in soffitta. Ogni volta che è prevalsa la separazione tra questi piani la politica ha mancato la sua sintesi; ogni volta che si è inteso il contrasto alla violenza solo sul piano culturale, solo sul piano della scuola oppure solo sul piano repressivo, le cose sono rimaste come erano, e di questo hanno fatto spesa le donne.

Ora, voglio ricordare che sappiamo come in Italia mettere mano, sanare questo vulnus, sia un dato rilevantissimo (i dati li hanno ricordati le colleghe prima di me e sono ancora molto drammatici), per questo, nel corso di questa legislatura, proprio provando a seguire il solco tracciato dalla Convenzione di Istanbul, abbiamo messo in campo una serie di interventi legislativi che hanno seguito anche il quadro legislativo predisposto dalla direttiva sulle vittime di reato e sulla tutela delle vittime vulnerabili, e che hanno fatto leva su una categoria che veniva poco prima ricordata anche dalla collega Binetti, dell'empowerment delle vittime.

Voglio ricordare sinteticamente questi interventi: la legge n. 119 del 2013, che ha introdotto modifiche processuali rilevantissime a tutela delle vittime riconducibili essenzialmente a tre filoni, quello informativo, quello delle misure cautelari e quello riferibile alle modalità di assunzione delle dichiarazioni della persona offesa. Da un lato, si è puntato, appunto seguendo la filosofia di Istanbul, a rafforzare gli strumenti repressivi, dall'altro a tutelare la vittima.

Presidente, poi lascerò anch'io agli atti delle altre considerazioni che volevo svolgere approfonditamente rispetto a questo piano, però voglio ricordare velocemente anche altri aspetti importanti che abbiamo seguito nel corso di questa legislatura: la misura in stabilità che abbiamo messo, a proposito della questione del percorso di tutela delle vittime, cosiddetto codice rosa, che esorta tutte le istituzioni ad agire in sinergia, fin dai pronto soccorsi, proprio per intervenire sul piano dell'emersione della violenza, che sappiamo essere il vulnus più drammatico.

In secondo luogo - e concludo con un appello rivolto anche alle colleghe e ai colleghi degli altri partiti -, la norma a tutela degli orfani di femminicidio è ferma in Senato. È una legge che è uscita dalla Camera all'unanimità, grazie al corale lavoro di tutti i parlamentari. Contiene delle norme rilevantissime, per quanto riguarda la possibilità per il coniuge di accedere finalmente all'aggravante, dunque rappresenterebbe uno strumento straordinario per fermare i femminicidi e, finalmente, mandare una volta per tutte in soffitta quella cultura del delitto d'onore, che ancora segna il nostro codice penale. Proprio perché condivido l'appello di tutte le colleghe ad agire in sinergia, è fondamentale che questo capitolo venga finalmente chiuso e il contrasto alla violenza trovi davvero un'azione coordinata e condivisa. Questo hanno detto, del resto, le migliori pratiche, le migliori norme, nel nostro Paese (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Di Salvo. Ne ha facoltà.

TITTI DI SALVO. Grazie, Presidente. L'argomento, di cui oggi parliamo, è un argomento che abbiamo tutti il dovere di tenere fuori dalla polemica politica. È troppo serio, troppo dedicato, troppo difficile anche, non certo da affrontare, ma da risolvere. Allora, io penso che sia veramente da tenere fuori dalla polemica politica. Non voglio, quindi, mettere a confronto scelte del passato con scelte attuali, legislature precedenti con la legislatura attuale. Non voglio farlo per una ragione, perché sono convinta che su questi temi maturino dei processi. La cultura condivisa, grazie all'impegno, al lavoro, alla passione, alla lotta di molti e di molte, mano a mano, costruisce mattoni, su cui è possibile agire.

Allora, dire, come è stato detto prima - e sono molto d'accordo - dalla collega Fabrizia Giuliani, che questa legislatura inizia con un atto significativo e decisivo, non è rivendicare un protagonismo o un merito a noi, al Partito Democratico - che pure l'abbiamo - o confrontare questa legislatura con altre. No! Vuol dire riconoscere che il tempo, il lavoro di molti e di molte, ha costruito una cultura, che ha consentito di fare un atto molto importante e di svolta.

La collega Giuliani ha approfondito tutto il carattere e il senso del contenuto della Convenzione di Istanbul. Per questa ragione mi fermo soltanto a due punti, per dare il senso della svolta. Lì, si dicono due cose. Si dice che la violenza contro le donne è una violenza che determina una violazione, appunto, dei diritti umani. E si dice anche che la violenza contro le donne non è un fatto privato. Fatemi dire meglio: la violenza maschile contro le donne non è un fatto privato.

Infatti, intorno a queste due grandi affermazioni, ruota il senso e la possibilità di costruire quello che veniva ricordato prima e cioè un approccio integrato, per contrastare quella violenza maschile contro le donne. Infatti, è possibile. Che cosa lo rende possibile? Lo rende possibile il riconoscimento pubblico che la violenza maschile contro le donne non è un fatto privato, non è un fatto che riguarda una relazione tra un uomo e una donna o una relazione dentro una famiglia o dentro una relazione sessuale o sentimentale. No! È un fatto che, siccome riguarda tutti, determina la responsabilità di tutti nel contrastarla: la responsabilità delle istituzioni, della politica, dei partiti, la responsabilità collettiva, quelle individuali, quella della scuola, quella dell'università, quella delle forze dell'ordine.

Sappiamo e abbiamo costruito nel tempo l'esperienza e la consapevolezza che soltanto l'integrazione di tutte queste responsabilità, in politiche integrate, possono realizzare un risultato. Ed è quello che abbiamo provato a fare in questi anni che abbiamo alle spalle. È esattamente quello che abbiamo provato a fare, perché questo vuol dire scomporre gli interventi, sulla base di punti di vista e, appunto, mantenendo, però, integrato l'intervento.

Agire, quindi, sulle cause profonde, culturali e profonde, che alimentano le radici della violenza. Allora, è la scuola, naturalmente, perché lì si chiamano in causa dall'inizio le donne e gli uomini. Nel rispetto della libertà di tutti e delle donne, li si comincia a chiamare in causa lì. Non basterebbe, però, l'intervento sulla scuola, ma nominare quell'intervento come importante - ultimamente è stato finanziato, da poco, con 5 milioni, un progetto - è cominciare a mettere un mattone di quell'approccio integrato.

Ma non basterebbe. Non basterebbe nemmeno, ma pure bisogna cominciare - e abbiamo cominciato a farlo - ad agire, perché l'autonomia delle donne e la loro libertà si rafforzi. E vuol dire agire sul lavoro. Abbiamo cominciato a farlo, abbiamo cominciato a farlo mettendo nei diversi provvedimenti il riconoscimento di congedi per le donne che hanno subito violenza. Ma c'è anche un tavolo aperto presso il Dipartimento per le pari opportunità che riguarda esattamente questo, cioè il rafforzamento della possibilità di lavoro per le donne, perché è l'elemento di rafforzamento dell'autonomia che le rende più forti, in questo rapporto di potere sbilanciato, che non riguarda - ha ragione chi lo diceva prima di me - soltanto una fragilità sociale, ma qualcosa di più profondo ancora.

Vuol dire contrastare e rendere nel senso comune la gravità del reato di cui stiamo parlando. E anche questo abbiamo cominciato a fare. Qui c'è un punto molto delicato. Noi siamo portatori e portatrici, lo è il Partito Democratico, i suoi dirigenti e le sue dirigenti, il Popolo Democratico, il popolo della sinistra, molto attenti a non confondere i piani, a non pensare che soltanto la gravità di una pena può risolvere e contrastare ciò che c'è alla sua base. Ma non c'è dubbio che non possiamo, però, non capire che questi reati, in un Paese in cui fino al 1981 esisteva il delitto d'onore, abbiano bisogno di essere sanzionati nella loro gravità sociale.

Da questo punto di vista ricordo, per avere partecipato a quella discussione - e la ricordo a tutti -, la discussione sulla necessità che la querela per stalking fosse revocabile o irrevocabile. Si giocava una discussione importante, naturalmente, perché irrevocabile voleva dire negare la libertà alle donne di revocare, appunto. Ma, dietro quella discussione e dentro quella discussione, noi dobbiamo leggere quello che è successo e sta succedendo. Il fatto che si sia deciso di distinguere i reati di stalking tra gravi e non gravi, distinguendo tra revocabilità e irrevocabilità a seconda della gravità, se poi determina la sentenza di Torino, io penso che debba essere riaffrontato. In due modi lo si può riaffrontare: sia rendendo irrevocabile, in qualunque caso, il reato di stalking, in modo che da esso discenda, appunto, la conseguenza che non può essere oggetto di giustizia riparatoria, se irrevocabile; sia con un altro modo, che è quello di agire direttamente, con una norma specifica, sul fatto che lo stalking oggi è compreso tra i reati per cui è possibile la giustizia riparatoria. Ma non si può non vedere questa cosa. Lo dice una persona che ha partecipato con sentimento a quella discussione, tra l'irrevocabilità o la revocabilità del reato di stalking.

E ancora, quindi, come dicevo, approccio integrato, scuola, lavoro, sanzione del reato, sanzione sociale del reato, a cui deve corrispondere una sanzione penale, ma anche formazione degli operatori. Anche questo abbiamo cominciato a fare, con l'accordo con l'Arma dei carabinieri, per esempio. Abbiamo cominciato intanto a farlo con quello che veniva detto prima, cioè la presa in carico delle vittime, anche nell'accoglienza, all'arrivo nei luoghi in cui una vittima, una donna colpita da violenza, va in ospedale (il percorso rosa, che veniva prima ricordato).

L'approccio integrato è una scelta politica, intelligente, necessaria, e però verrebbe da dire: che risultati ha prodotto? Sta producendo risultati? Qualcuno parla, e a mio avviso sbaglia, di recrudescenza della violenza contro le donne: io penso che sia giusto parlare della strutturalità di quella violenza, cioè non c'è un'emergenza, c'è un fatto strutturale che va combattuto con scelte strutturali.

Ci dicono i dati che i femminicidi rimangono uguali in termini quantitativi, ma aumenta l'incidenza, cioè si abbassano gli omicidi e aumentano i femminicidi. Questo fatto ci deve aiutare a capire come sia molto importante rendere strutturali tutti gli interventi che dicevo prima - rendere strutturale l'intervento per la scuola, per l'autonomia delle donne e il lavoro, sanzionare i reati, il “percorso rosa”, la presa in carico, la formazione degli operatori -, ma ci dice anche che dobbiamo di più e ancora andare avanti in questa direzione.

Presidente, concludo subito con due ultime considerazioni. La prima, è successa recentemente una cosa, ossia la denuncia di Asia Argento, che è particolarmente significativa di tante cose: del fatto che il silenzio e la vigliaccheria di cui diceva l'onorevole Binetti sono elementi sempre in agguato; ci dice di come i social abbiano un effetto di amplificazione della violenza, in questo caso anche di amplificazione della solidarietà; ci dice come stanno cambiando i tempi. Quindi aumenta la violenza, ma aumenta anche la risposta intorno a quella donna che ha rotto quel silenzio, perché ha pensato che oggi lo poteva fare, che esistevano le condizioni per farlo.

Infine, nel G7 a novembre ci sarà una sessione dedicata alle pari opportunità: lì il Governo italiano pensa di chiedere l'estensione del piano, non più straordinario, ma ordinario, contro la violenza in tutti i Paesi. È una cosa molto importante, così come molto importante - ho concluso veramente, Presidente - e l'unico strumento vero per combattere questa battaglia è che si sottragga alla polemica politica e che, con una grandissima alleanza tra le donne e gli uomini, si proceda in questa direzione.

Io penso che questa legislatura abbia dato, da questo punto di vista, un grande messaggio e il Partito Democratico, noi, ci assumiamo la responsabilità di continuare in questa direzione, perché pensiamo che un'alleanza tra tutti e tutte e una presa di responsabilità, soprattutto, delle istituzioni possa aiutarci ad andare avanti positivamente.

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali delle mozioni.

(Intervento del Governo)

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare la sottosegretaria di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri, Sesa Amici.

SESA AMICI, Sottosegretaria di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Prenderò solo pochi minuti, essendo arrivate per il momento solo due mozioni, quindi, credo che i gruppi si stiano autodeterminando nella stesura di altrettanti punti di vista: quindi, ci si riserva anche, come Governo, di dare una risposta più nel merito anche degli impegni. Però mi permetto di intervenire in questa sede del dibattito per sottolineare due aspetti.

Il primo: mi pare che stia crescendo una consapevolezza non solo della gravità del fenomeno, ma anche di un approccio che tende a fare della questione della violenza maschile contro le donne un punto che riguarda non un fatto legato solo al genere, ma che interroga profondamente anche la politica e la responsabilità della politica ad intervenire con estrema determinazione, perché ne va non solo dell'uso della convivenza civile, ma anche di un'idea moderna del rispetto, pur nella differenza.

Io credo che questo sia il primo punto che dovrebbe contraddistinguere l'azione che mi pare gli ultimi interventi abbiano teso a sottolineare: che su questa mozione si possa trovare con calma e determinazione la possibilità di avere un orientamento unitario. Sarebbe un segnale non di falso unanimismo, ma sicuramente dell'assunzione di una responsabilità.

La responsabilità è data non solo dalla gravità: lo dobbiamo alle tante vittime che ancora oggi, pur dentro la difficoltà della mancanza di denunce, vivono quella che è definita una violenza pubblica e non più privata, la forza di farla riconoscere come un fatto non privato.

È una solidarietà che si chiama femminile, ma è anche una solidarietà che viene da un tempo, da una cultura: io vorrei che quando analizziamo gli effetti - lo ha fatto l'onorevole Fabrizia Giuliani - non dessimo mai la sensazione di vivere l'evoluzione di quello che è stato l'approdo della Convenzione di Istanbul come una fase astorica: c'è tutta la storicità del pensiero, della crescita delle donne, non solo in Italia, ma, soprattutto, nel mondo e in Europa, un'Europa contraddittoria anche nelle scelte dei movimenti delle donne. Credo che, però, a quella evoluzione ha contribuito molto un elemento: quello che ha fatto sì che, dalla raccomandazione del Consiglio d'Europa alla Convenzione, si stabilisce in maniera oramai inequivocabile che la violenza sulle donne è la violazione di un diritto umano; ed è una violazione che legata alla storia di rapporti impari fra uomini e donne, ma che è stata contraddistinta nella storia delle donne come l'idea del possesso di un sesso sull'altro.

Io vorrei che quando noi ragionassimo, proprio dall'interno dell'assunzione di responsabilità nel costruire questa mozione - perlomeno le prime due che sono arrivate mi pare convergano su molti elementi -, non ci fosse l'idea di rivendicare cosa è stato fatto prima e cosa è stato fatto dopo. C'è un interrogativo: quello che dobbiamo fare da ora in poi, perché se è vero come è vero che il fenomeno ormai è un fenomeno strutturale, non può esserci per nessuno e per nessuna l'alibi di non affrontarlo in maniera strutturale. È un tema che riguarda la società che noi abbiamo in mente, quale società vogliamo costruire e lasciare anche a chi viene dopo di noi e, soprattutto, l'idea che il rispetto passa non per la subalternità di un sesso sull'altro, ma sul riconoscimento preciso di due soggettività che, alla pari, ragionano del mondo, della loro tutela, della loro protezione, ma anche della loro libertà.

Io penso che questi cardini, per come si è svolto per il momento il dibattito, fanno sperare che ci sia questa possibilità e invito le colleghe a lavorare sul serio questa volta, a trovare un modo per lasciare un segno a fine legislatura di un lavoro che il Governo sta portando avanti - ma quello sarà più l'oggetto della riflessione al momento delle mozioni -, ma che mi pare possa essere il suggello di un'esperienza che aiuta, in questa evoluzione positiva nella sua drammaticità, l'idea che le donne sono diventate veramente padrone di se stesse, ma, forse, dovrebbero essere anche padrone del mondo.

PRESIDENTE. Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Discussione della proposta di legge: S. 968 - D'iniziativa dei senatori: Pagliari ed altri: Norme in materia di domini collettivi (Approvata dal Senato) (A.C. 4522) (ore 17,46).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della proposta di legge, già approvata dal Senato, n. 4522: Norme in materia di domini collettivi.

Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi è pubblicato nell'allegato A al resoconto stenografico della seduta del 13 ottobre 2017 (Vedi l'allegato A della seduta del 13 ottobre 2017).

(Discussione sulle linee generali – A.C. 4522)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.

Avverto che il presidente del gruppo parlamentare MoVimento 5 Stelle ne ha chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del Regolamento.

Avverto, altresì, che la Commissione XIII (Agricoltura) si intende autorizzata a riferire oralmente.

Ha facoltà di intervenire il relatore, onorevole, Giuseppe Romanini. Collega, come è buona norma, il relatore interviene non dal proprio banco dell'Aula, quindi scenda giù e parli da lì. Prego.

GIUSEPPE ROMANINI, Relatore. Grazie, Presidente. Onorevoli colleghi, l'Assemblea della Camera inizia oggi l'esame di un provvedimento che fornisce una sistemazione giuridica a quelle diverse, eterogenee situazioni giuridiche legate al godimento da parte di una determinata collettività di specifiche estensioni di terreno, di proprietà sia pubblica che privata, abitualmente riservate ad un uso agro-silvo-pastorale. Il provvedimento istituisce la figura giuridica dei domini collettivi, termine con il quale ci si riferisce ad una situazione giuridica in cui una data estensione di terreno è di proprietà di una collettività determinata, per modo che solo chi fa parte di quella collettività può trarre utilità da quel bene indipendentemente dal fatto che lo stesso possa essere sfruttato individualmente o congiuntamente tra tutti gli aventi diritto. Trae le proprie origini da una storia millenaria di consuetudini: già nella “tavola di Polcevera” del 117 avanti Cristo, il Senato di Roma tratta di una controversia su questi beni di una comunità ligure. Consuetudini poi cristallizzate in laudi, statuti, per lo più nel corso del Medioevo, e giunti così pressoché integri fino ai giorni nostri.

Il dominio collettivo è una situazione giuridica antitetica rispetto a quella della proprietà privata individuale, e non è riconducibile allo schema della comproprietà: un diverso modo di possedere, come teorizzò il professor Paolo Grossi nel suo omonimo saggio di qualche anno fa. La proprietà privata individuale implica nel titolare il diritto di godere e disporre del bene in modo pieno e assoluto; quando invece uno stesso bene si trova nella comproprietà di più soggetti, si produce per il nostro ordinamento una situazione fragile, poiché ciascun comproprietario ha il diritto unilaterale e potestativo di chiederne lo scioglimento, ottenendo di essere proprietario esclusivo di una frazione del bene o del suo equivalente. Il dominio collettivo implica al contrario per ogni singolo partecipante solo il diritto a usare della cosa, secondo i termini consuetudinari che caratterizzano quella singola situazione; al contrario della comproprietà, è una situazione permanente e duratura: i partecipanti non possono, neanche con accordo unanime, vendere a terzi i beni che costituiscono l'oggetto del loro diritto, né dividerli tra loro.

La proprietà collettiva presenta così caratteri di affinità tanto con la proprietà privata quanto con la proprietà pubblica, oltre ad una caratteristica che la rende diversa da entrambe. Il dominio collettivo è affine alla proprietà privata nell'intensità dei poteri proprietari: il soggetto proprietario gode del bene in esclusività. Risulta poi affine alla proprietà pubblica per il vincolo teleologico che la distingue: i beni non possono essere utilizzati in modo tale da sottrarre il godimento ai singoli membri della comunità. È diverso da entrambe queste situazioni proprietarie per la sua assoluta indisponibilità: la proprietà collettiva non può essere alienata, non può essere espropriata, non può essere usucapita e non può essere neanche data in garanzia. Da qui una serie di problemi nella gestione della proprietà collettiva, cui il progetto di legge intende porre rimedio attraverso l'adozione di un regime uniforme per il riconoscimento di personalità giuridica alla proprietà collettiva. Non esiste, infatti, allo stato attuale una definizione normativa dei domini collettivi: fino ad oggi essi sono stati considerati come patrimonio dei beni oggetto del diritto d'uso civico.

Storicamente, come ricorda la Cassazione nella sentenza 19792 del 28 settembre 2011, la funzione dei diritti ad uso civico era quella di fornire un sostentamento vitale alle popolazioni in un momento storico nel quale la terra rappresentava l'unico elemento dal quale quelle potevano ricavare i prodotti necessari per la sopravvivenza. I beni gravati da uso civico sono stati sovente ricostruiti come terre di dominio collettivo, la cui negoziazione e circolazione presupponeva l'assenso di tutti i cives, talvolta perfino fondata sul malagevole criterio dell'unanimità.

Allo stato attuale, i domini collettivi appartengono a una di queste due situazioni: proprietà già dotate di una personalità giuridica derivante da antiche consuetudini, riconosciuta da precedenti leggi dello Stato; proprietà non dotate di una personalità giuridica, perché frutto della concentrazione di diritti collettivi effettuata all'esito della legge 1766 del 1927, che oggi appartengono formalmente al patrimonio indisponibile dei comuni. Il disegno di legge intende allora uniformare il regime giuridico delle proprietà collettive appartenenti al primo tipo ed estenderlo a quelle del secondo tipo, onde consentire a queste proprietà di essere convenientemente gestite ed avere certezza nei rapporti giuridici con i terzi, privati come pubblici.

Gli enti gestori dei domini collettivi, pur nella molteplicità dei nomi attraverso cui si contraddistinguono: comunioni familiari montane, comunalie, consorzi di utenti, università agrarie, beni sociali, vicinie, regole, comunelle, partecipanze agrarie, società di antichi originari, ius, consorterie, ademprivi, ASUC, ASBUC, frazioni eccetera, sono riassumibili a tre elementi necessari: la comunità, cioè una pluralità di persone fisiche legate fra loro da un vincolo agnatizio, oppure individuata sulla base dell'incolato come pluralità di soggetti titolati e chiamati a gestire collettivamente il patrimonio civico secondo regole consuetudinarie per preservarne il godimento alle future generazioni di utenti; la terra di collettivo godimento, che va riguardata come un ecosistema completo, con una propria individualità, un patrimonio non solo economico ma naturale e culturale; e poi l'elemento teleologico, ossia lo scopo istituzionale, diverso e trascendente rispetto agli interessi individuali delle singole persone fisiche che compongono la comunità.

Solo in taluni casi il patrimonio collettivo viene gestito da un ente dotato di personalità giuridica; in assenza di tale ente dotato di personalità giuridica privata, il bene è amministrato dall'amministrazione comunale ed è questa la situazione più diffusa in Italia, specie nel sud e nelle isole. In base all'ultimo censimento dell'agricoltura si ricava che dei quasi 17 milioni di ettari di superficie agricola totali in Italia, ben 1,66 milioni di ettari, cioè il 9,77 per cento, risulta appartenere a comunanze, università agrarie, regole o comuni che gestiscono la proprietà collettiva. Questo è l'inquadramento.

Quanto al contenuto del provvedimento, l'articolo 1, comma 1, riconosce i domini collettivi come ordinamento giuridico primario delle comunità originarie e questa è un'affermazione importante. Le caratteristiche connotative sono esplicitate nelle lettere seguenti: i domini collettivi sono soggetti alla Costituzione, lettera a); sono dotati di capacità di produrre norme vincolanti valevoli sia per l'amministrazione soggettiva che oggettiva, lettera b); hanno la gestione del patrimonio naturale, economico e culturale che coincide con la base territoriale della proprietà collettiva, lettera c); si caratterizzano per l'esistenza di una collettività che è proprietaria collettivamente dei beni, che esercita, individualmente o congiuntamente, i diritti di godimento sui terreni sui quali insistono tali diritti; il comune svolge di norma funzione di amministrazione di tali terreni, salvo che la comunità non abbia la proprietà pubblica o collettiva degli stessi, lettera d). Si prevede poi che gli enti esponenziali delle collettività titolari del diritto d'uso civico e della proprietà collettiva abbiano personalità giuridica di diritto privato e autonomia statutaria.

L'articolo 2 riconosce come compito della Repubblica (e discende un po' da quello che abbiamo visto all'articolo 1) quello di valorizzare i beni collettivi di godimento, in quanto fondamentali per lo sviluppo delle collettività locali e strumentali per la tutela del patrimonio ambientale nazionale. La Repubblica riconosce e tutela i diritti di uso e di gestione collettivi preesistenti alla costituzione dello Stato italiano; sono altresì riconosciute le comunioni familiari esistenti nei territori montani, nelle quali mantengono il diritto a godere e a gestire i beni in esame, conformemente a quanto previsto negli statuti e nelle consuetudini loro riguardanti.

Un diritto sulle terre di collettivo godimento sussiste quando ha ad oggetto lo sfruttamento del fondo dal quale ricavare una qualche utilità, riservato ai componenti della collettività, salvo diversa decisione dell'ente collettivo.

L'articolo 3, l'ultimo, definisce i beni collettivi che costituiscono il patrimonio civico, prevedendo che essi siano inalienabili, indivisibili, inusucapibili e a perpetua destinazione agro-silvo-pastorale; su tali beni è inoltre imposto il vincolo paesaggistico.

In particolare, il comma 1 qualifica i seguenti beni come beni collettivi: essi sono le terre di originaria proprietà collettiva; le terre con le costruzioni di pertinenza assegnate in proprietà collettiva agli abitanti di un comune o di una frazione a seguito della liquidazione dei diritti di uso civico e di qualsiasi altro diritto di promiscuo godimento esercitato sulle terre di soggetti pubblici e privati; le terre derivanti da scioglimento delle promiscuità ai sensi dell'articolo 8 della legge n. 1766 del 1927 sul riordino degli usi civici; le terre derivanti da conciliazioni nelle materie regolate dalla predetta legge, che ha previsto la possibilità, in ogni fase del procedimento di liquidazione degli usi civici, di promuovere un esperimento di conciliazione. Poi: le terre derivanti dallo scioglimento di associazioni agrarie, ovvero le associazioni di cui alla legge n. 397 del 1894; le terre derivanti dall'acquisto, ai sensi dell'articolo 22 della legge n. 1766 del 1927 e dell'articolo 9 della legge 3 dicembre 1971, n. 1102; le terre derivanti da operazioni e provvedimenti di liquidazione o estinzione di usi civici; le terre derivanti da permuta o donazione; le terre di proprietà di soggetti pubblici o privati su cui i residenti del comune o della frazione esercitano usi civici non ancora liquidati.

Tutti questi beni, con la sola eccezione delle terre di proprietà pubblica o privata sulle quali gli usi civici non siano ancora stati liquidati, costituiscono il patrimonio antico dell'ente collettivo, detto anche patrimonio civico o demanio civico; l'utilizzazione di tale patrimonio dovrà essere effettuata in conformità alla destinazione dei beni e secondo le regole d'uso stabilite dal dominio collettivo.

Poi i commi 3 e 6 definiscono il regime giuridico dei beni collettivi, prevedendo l'inalienabilità, l'indivisibilità, l'inusucapibilità, la perpetua destinazione agro-silvo-pastorale e la loro sottoposizione a vincolo paesaggistico.

Il comma 7 prevede che, entro un anno dall'entrata in vigore della legge, nell'ambito del riordino della disciplina delle comunità montane, di cui al comma 4, le regioni debbano, nel rispetto degli statuti di tali organizzazioni, esercitare le competenze loro attribuite dalla legge n. 97 del 1994, la legge sulla montagna, cioè disciplinare con legge i profili relativi ai seguenti punti: le condizioni per poter autorizzare una destinazione, caso per caso, di beni comuni ad attività diverse da quelle agro-silvo-pastorali; le garanzie di partecipazione alla gestione comune dei rappresentanti liberamente scelti dalle famiglie originarie; forme specifiche di pubblicità dei patrimoni collettivi vincolati; le modalità e i limiti del coordinamento tra organizzazioni comuni e comunità montane, garantendo appropriate forme sostitutive di gestione, preferibilmente consortile, dei beni in proprietà della collettività in caso di inerzia o impossibilità di funzionamento delle organizzazioni stesse.

Decorso il termine di un anno, a questi provvedimenti provvedono, con atti amministrativi, resi esecutivi con deliberazione della giunta regionale, gli enti esponenziali delle collettività titolari sul territorio dei beni collettivi.

Il comma 8, infine, stabilisce che, nell'assegnazione di terre o beni collettivi, ai sensi della legge in esame, gli enti esponenziali delle collettività debbano dare priorità ai giovani agricoltori, come definiti ai sensi della normativa UE.

Il provvedimento è stato esaminato dalla XIII Commissione agricoltura, dopo essere stato esaminato al Senato in prima lettura. Nel corso dell'esame in sede referente è stata svolta l'audizione di rappresentanti della Consulta nazionale della proprietà collettiva, della Comunanza agraria dell'Appennino gualdese e dell'Associazione per la tutela delle proprietà collettive e dei diritti di uso civico (APRODUC) nonché del professor Pietro Nervi.

Nella seduta del 18 luglio 2017 sono state esaminate le proposte emendative presentate, nessuna modifica al testo è stata approvata.

Nella seduta del 12 ottobre 17 è stato votato il mandato al relatore a riferire favorevolmente in Aula.

La II Commissione (Giustizia), la VI Commissione (Finanze), l'VIII Commissione (Ambiente) e la XIV Commissione (Politiche dell'Unione europea) hanno espresso parere favorevole. Il Comitato pareri della I Commissione ha espresso parere favorevole, chiedendo alla Commissione di merito un'osservazione: valutare l'opportunità di quanto contenuto nell'articolo 3, comma 7, rispetto a quanto previsto dall'articolo 120 della Costituzione. La stessa osservazione è stata espressa dalla Commissione parlamentare per le questioni regionali.

Dalle premesse dei pareri si evince che il potere sostitutivo attribuito in capo agli enti esponenziali delle collettività, in caso di inerzia delle regioni, potrebbe confliggere con il profilo pubblicistico delle competenze in questione.

La XIII Commissione non ha ritenuto di dare seguito a tale osservazione, in quanto la modifica di tale parte del testo intanto avrebbe potuto rendere incerta l'approvazione definitiva del provvedimento, che si attende da anni, causa l'avvicinarsi della scadenza naturale della legislatura, ma è stato considerato inoltre che l'attribuzione di poteri e funzioni agli enti esponenziali delle collettività trova un preciso riferimento costituzionale nell'articolo 118, quarto comma, della Costituzione, che ha riconosciuto il principio di sussidiarietà orizzontale, laddove ha previsto che Stato, regioni, città metropolitane, province e comuni, favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini singoli e associati per lo svolgimento di attività di interesse generale sulla base del principio di sussidiarietà.

La V Commissione (Bilancio) si è riservata di esprimere il prescritto parere nel corso dell'esame dell'Assemblea.

Io chiedo al Presidente, visto che la relazione era un po' più articolata, di essere autorizzato a presentare la stessa in forma scritta.

PRESIDENTE. La ringrazio, certamente.

A questo punto, non mi pare che il Governo intenda intervenire.

C'è un'intesa tra coloro che sono iscritti per far intervenire prima il collega Palese.

È iscritto a parlare il collega Palese. Ne ha facoltà.

ROCCO PALESE. Grazie, signor Presidente. Signor rappresentante del Governo, colleghi e colleghe presenti, che ringrazio per avermi concesso di intervenire per primo. Il progetto di legge in esame è d'iniziativa parlamentare e affronta un tema molto avvertito e presente in diverse realtà del territorio italiano, specie nella grande vasta realtà della provincia italiana, quello dei domini collettivi.

Trattasi, signor Presidente, di un testo completo, che affronta in modo organico i diversi problemi di tipo giuridico, di tipo pratico, legati ai beni di godimento collettivo, già esaminato e approvato da parte della Senato, dall'altro ramo del Parlamento, con il convinto voto favorevole anche del gruppo di Forza Italia.

I domini collettivi rappresentano innanzitutto un'autentica ricchezza naturale, ma anche un patrimonio culturale ed economico del nostro Paese. Si arriva a varare questo nuovo disciplina, signor Presidente, dopo circa novant'anni; lo ripeto: dopo circa novant'anni, perché le disposizioni che sinora hanno regolato la materia risalgono al 1927, per le norme primarie, e al 1928, per i regolamenti di attuazione e le prime disposizioni.

Appare, pertanto, quanto mai necessaria l'approvazione di questo disegno di legge, e va rilevato appunto che l'utilizzo dei domini collettivi è in uso e si tramanda di generazione in generazione. Ad essi sono legati gli interessi di vaste collettività specie in determinate zone, ad esempio quelle di montagna. In tante realtà della nostra montagna, tanto per fare un esempio concreto, si utilizzano i boschi, si taglia il legname e si impiegano i fondi per la valorizzazione dell'intera comunità. In altre località, i domini collettivi sono utilizzati per il pascolo comune del bestiame di tanti allevatori che, oltre a sviluppare la nostra economia agricola, costituiscono un puntuale presidio del territorio anche da un punto di vista idrogeologico.

Altrettanto importante è il valore della conservazione delle diverse specie naturali, soprattutto delle biodiversità che si trovano in territori estesi addirittura per migliaia di ettari di terreno. Vorrei infatti ricordare che la proprietà collettiva rappresenta circa il 3,6 per cento del territorio italiano, e che secondo la stima più attinente consta di più di 11 mila chilometri quadrati. Lo stesso discorso riguarda le dimensioni: sono circa 2.500 i soggetti e gli enti preposti alla gestione di un territorio così vasto e variegato, spesso intere montagne e interi orizzonti sono racchiusi in proprietà collettive e custodite dalle popolazioni locali consapevoli che da quei luoghi viene il loro passato, ma procede per quei luoghi anche il loro futuro. Ai beni collettivi è legata una serie di valori: soprattutto quello dell'idea di sussidiarietà, attraverso la quale si compie la gestione partecipata dei territori in modo fattivo e positivo, così come previsto dalla Costituzione, così come poco fa il relatore ci ha richiamato in maniera puntuale. Attraverso la proprietà collettiva si realizza l'impegno di tante persone che vivono il territorio ed aiutano a gestire quello che è un autentico patrimonio comune, la propria terra. Attraverso questo patrimonio condiviso si possono raggiungere, e si raggiungono infatti, diversi scopi istituzionali che, in quanto interessi della propria comunità di riferimento, vengono sempre prima degli interessi dei singoli. Anche la classificazione, anche la dizione di domini collettivi, di usi civici, chiaramente aiuta a comprendere la dimensione del problema. Ecco perché quello dei domini collettivi è un patrimonio culturale italiano da salvaguardare, da valorizzare, da lasciare in eredità alle generazioni future attraverso un complesso aggiornato e coerente di norme. Insomma, un capitale da trasmettere alle generazioni future perché tante sono le generazioni che lo hanno tramandato a noi.

Questa è oltretutto una proposta di legge molto attesa dagli amministratori dei demani e degli usi civici, così come delle comunioni familiari, istituti che sono vere e proprie reti delle prime democrazie dei villaggi. Tra l'altro va ricordato che viene lasciata alle singole regioni la possibilità di regolamentare le fattispecie non previste da questa, che rappresenta una vera e propria legge quadro, e ovviamente viene lasciata al dominio collettivo la possibilità di stabilire le regole per l'utilizzazione del demanio, facendo così cessare anche i numerosi contenziosi fra Stato e regioni. Così come rimane intoccabile il regime della inalienabilità, della indivisibilità, della inusucapibilità e della perpetua destinazione agro-silvo-pastorale dei terreni.

Pertanto, signor Presidente, è auspicabile che, così come questa proposta di legge ha avuto un vasto consenso nell'Aula del Senato, si realizzi anche un voto positivo da parte dell'Assemblea, dell'Aula, rispetto a quelli che sono i contenuti, per avere una rapida approvazione. Posso assicurare, essendo vicepresidente alla Commissione bilancio, che quasi certamente domani sarà reso anche il parere, dopo l'articolata relazione tecnica che è giunta dalla Ragioneria generale dello Stato, dal Ministero dell'economia e delle finanze: così l'Aula avrà la possibilità e l'opportunità di votare questa proposta di legge e far sì che questo problema venga risolto nel migliore dei modi.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Zanin. Ne ha facoltà.

GIORGIO ZANIN. Grazie, Presidente. La legge che discutiamo, già approvata dal Senato ,si occupa di normare la delicata materia dei domini collettivi. Al Senato ha avuto una coerente ed approfondita lavorazione tra la Commissione giustizia e la Commissione ambiente, e anche un buon contributo della Commissione bilancio per sbloccare una certa resistenza. Qui alla Camera la discussione è stata affrontata anzitutto in Commissione agricoltura, con la cura attenta del collega relatore Romanini, e già questa molteplicità di soggetti parlamentari coinvolti lascia intuire quale matassa la legge provi a tessere in modo nuovo.

Ci ricorda il presidente della Corte Costituzionale Paolo Grossi che, se noi non cominciamo ad ammettere l'elementare verità che non esiste soltanto una cultura ufficiale e che non esiste, a livello di utilizzazione e gestione dei beni, soltanto il modello della proprietà individuale di indistruttibile stampo romanistico, ma che possono ben coesistere altre culture giuridiche portatrici di mondi alternativi nella concezione dell'appartenenza, ci precludiamo ogni possibilità di capire il problema della proprietà collettiva. Dunque il riconoscimento formale dei domini collettivi, che è l'obiettivo strategico della legge, non è cosa di poco conto.

Come dice la proposta di legge, il pianeta delle proprietà collettive costituisce una realtà a sé stante, che unisce fattispecie diverse quali la proprietà, la gestione e l'uso civico delle terre, dei boschi e - perché no? - anche delle lagune: una specie di origine premoderna, che vive quasi una vita separata dagli altri domini privati o pubblici, a partire dallo specifico ruolo esercitato dalla collettività locale, un ruolo non solo di utilità, ma soprattutto di gestione civica. Si tratta perciò di un riconoscimento non secondario, che di fatto rende giustizia ad una storia che, per modificazioni socio-economiche e volontà di superamento politico, rischiava di far perdere molti treni al nostro contesto nazionale.

Bisogna anzitutto sforzarsi di scendere in profondità dentro la radice storica della formazione dei domini collettivi, e ricordare come la solidarietà intracomunitaria abbia costituito un modello indispensabile per la sopravvivenza delle famiglie di numerosissime comunità. A prescindere dall'atto formale di nascita del dominio, possedere ed usare insieme era la chiave di gestione che permetteva di avere sempre qualcosa: partecipazione, controllo, mutualità erano le regole per costruire passo passo un equilibrio di benessere, un equilibrio che intrecciava i diritti del presente con la garanzia del futuro, sia in termini intergenerazionali che in termini ecologici. Rovinare qualcosa significava danneggiare in modo percepibile gli altri e in primis la propria famiglia, con conseguenze non banali in termini di auto e mutuo controllo nella gestione, e con la formazione perciò di un senso civico, di cui si avverte francamente il bisogno oggi più che mai. Non si trattava infatti solo di comproprietà di beni particolari quali bosco e pascoli, goduti in un modo particolare, cioè collettivo, ma si trattava e si tratta di persone che esprimono nell'articolazione fondiaria una scelta squisitamente antropologica della vita: il primato della comunità sul singolo.

È giusto domandarsi perciò in quale misura questi valori, queste forme di gestione e questi interessi siano ancora attuali e necessari. Non va nascosto, infatti, che essi sono stati via via abbandonati in tanta parte del Paese, sulla base della fase di sviluppo socio-economico che si è determinato dopo la seconda guerra mondiale, in particolare con lo spopolamento nelle aree interne e nelle zone di montagna, ma anche con la mentalità, non sempre in linea, dei molti amministratori locali, che, invece di accompagnare la resistenza di queste istituzioni, hanno spesso costituito un polo di energia per il loro superamento definitivo.

Ma ora, con questa legge siamo di fronte ad un atto di discontinuità rispetto a questo declino, delineato peraltro sin dalla legge n. 1766 del 1927, che indirizzava verso la liquidazione giuridica della proprietà collettiva. Ora anche in queste Aule vogliamo certo affermare con questa legge la salvaguardia di qualcosa di antico, e nel contempo anche affermare qualcosa di nuovo, un seme di futuro.

Non è un caso, del resto, a segnalare la nota sui tempi che riferisce del clima politico e dell'analisi socioeconomica che accompagna questa discussione, che sono trascorsi appena 20 giorni dall'approvazione parlamentare della legge per il sostegno ai piccoli comuni, quasi a dire come la sensibilità del legislatore sia, più spesso di quanto si creda, in trazione con modelli e riflessioni dove l'identità viene coniugata non solo con la difesa di qualcosa, ma anche con la volontà di declinare diversamente il futuro.

In quali termini? In primo luogo, proprio tramite il riconoscimento della centralità della comunità come soggetto neoistituzionale del patrimonio civico; in una stagione di grandi crisi dei corpi sociali intermedi, si tratta di un'apertura di credito non secondaria, capace di riavviare il risveglio dei soggetti dormienti per cogliere le opportunità che il modello collettivo offre.

Non si tratta, in questo senso, di paradigmi ideologici, ma di vere esperienze, che in numerose comunità locali stanno segnando la stagione di riconsiderazione di una serie di valori connessi al dominio collettivo, non ultima la valorizzazione delle comunità, laddove i necessari processi di aggregazione istituzionale dei comuni eppure anche delle realtà religiose tradizionali, come le parrocchie, vanno accompagnate da forme di riequilibrio identitario.

Certo la terra, certo la possibilità dell'iniziativa e della rendita economica, ma non solo questo: anche la partecipazione e la cultura della condivisione e della solidarietà, merce preziosa al tempo della globalizzazione.

Senza dimenticare, inoltre, che gli enti gestori delle terre di collettivo godimento rientrano a pieno titolo nell'imprenditoria locale, cui competono le responsabilità di tutela e di valorizzazione dell'insieme di risorse naturali ed antropiche presenti nel demanio civico, il che da un lato afferma in modo chiarissimo la centralità della comunità quale motore di sviluppo locale, dall'altro si capisce la ragione per cui questa proposta di legge diventi fondamentale per il territorio e il paesaggio, che comprende specificità agrosilvopastorali inalienabili.

Non va dimenticato, infatti, che in Italia dei quasi 17 milioni di ettari di superficie agricola ben il 9,77 per cento risulta appartenere a comunanze, università agrarie, regole o comune che gestiscono le proprietà collettive, secondo i dati forniti dall'Istat nel 2010; circa il 10 per cento della superficie agricola utile del nostro Paese costituisce un valore enorme per il passato e per il futuro, che da solo basta a rendere ragione dell'importanza della legge, tanto più quando la legge individua anche un'impostazione non solo conservativa, ma anche dinamica, volta a comprendere l'attuale fase di sviluppo delle aree rurali della montagna in particolare, le cui strategie fanno affidamento essenzialmente sul modello di sviluppo locale e su quello di sviluppo sostenibile, una fase in cui ai domini collettivi viene riconosciuta la capacità di rendere locali anche gli stimoli provenienti dall'esterno della comunità per la mobilitazione delle risorse interne, di trattenere in loco gli effetti moltiplicativi, di far nascere indotti nella manifattura familiare, artigianale, nella filiera dell'energia, delle risorse rinnovabili e del settore dei servizi.

Insomma, c'è in ballo una capacità delle aree interne - quelle che, turismo a parte, faticano a produrre PIL - di costruire un modello economico alternativo, orientato ad autosostenersi, un modello in cui non sia centrale la capacità di appropriarsi delle risorse, ma la loro gestione.

È tempo, anche in Italia, di orientarsi diversamente, come suggerisce da qualche anno anche il nuovo indicatore BES promosso dall'Istat.

Si parla sempre delle cose che si possono acquistare, ma meno di quelle che si distruggono per poterle produrre.

I costi della crescita senza limite sono tanti, basti pensare ai danni all'ambiente, ma anche ad alcuni costi sociali che non vengono presi in considerazione quando si calcola il PIL.

Nei Paesi occidentali è vero che la gente guadagna di più, ma spende ancora di più per compensare ciò che distrugge.

Questa legge va, dunque, in un'altra direzione e non è un caso che in tante regioni le iniziative per la realizzazione dei distretti di economia solidale vedano tra i protagonisti le comunità che detengono i domini collettivi.

Dicevamo, perciò, che il dato più importante sul piano della dottrina è il riconoscimento dei domini collettivi, comunque denominati, come ordinamento giuridico primario delle comunità originarie, nonché il riconoscimento del diritto d'uso del dominio collettivo in quanto diritto avente ad oggetto, normalmente e non eccezionalmente, le utilità del fondo, consistenti in uno sfruttamento del dominio riservato ai cittadini del comune, un riconoscimento di grande valore per la conservazione dei caratteri identitari dei territori e per la valorizzazione degli ambienti naturali antropizzati.

Bisogna anche ricordare che questo importante passaggio giuridico si sviluppa e si attua con un riconoscimento di autonormazione che mira a garantire che le leggi che le regioni intendono eventualmente emanare sugli assetti collettivi non possano disconoscere l'idea e i valori della proprietà collettiva. Qui i riferimenti sono decisamente rilevanti, basta pensare al modo peculiare della comunità di vivere il rapporto uomo-terra, e al riferimento inevitabile alla disciplina dettata dalla consuetudine per cui le collettività agiscono con il fine di proteggere la natura salvaguardando l'ambiente. Del resto, le quattro “i” delle proprietà collettive (inalienabilità, inusucapibilità, inespropriabilità, immutabilità della destinazione agro-silvo-pastorale) bastano da sole a descrivere un profilo che si incastra precisamente con la discussione, purtroppo ancora non del tutto conclusa in sede legislativa, a proposito dello stop al consumo di suolo. Un tema questo certamente evocato anche dalla legge sui domini collettivi proposta dei senatori Pagliari, Astore, Dirindin e Palermo, quando all'articolo 3 la chiusura è assegnata ad un comma che recita: con l'imposizione del vincolo paesaggistico sulle zone gravate da usi civici. Un impegno tutt'altro che secondario, nel tempo in cui si cerca sempre di più e sempre meglio una progettazione urbanistica che cerca di mettere a sistema le specificità dei territori e la loro valorizzazione.

Questa sottolineatura per dire, infine, di una legge che, frutto del lavoro annoso di tanti, in primis del coordinamento nazionale delle proprietà collettive, ponendo al centro un nuovo rapporto tra le comunità e i loro territori, pare cogliere in pieno la sfida lanciata dalla “Laudatosi'” di Papa Francesco, là dove dice: non ci sono due crisi separate, una ambientale e un'altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale; le direttrici per la soluzione richiedono un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura.

È una questione di modello di sviluppo, insomma, e la legge che mi auguro venga approvata definitivamente nei prossimi giorni penso possa rappresentare una tessera del mosaico di questa consapevolezza attiva.

Spetterà poi alle comunità locali cogliere l'occasione, rilanciare l'iniziativa, a questo punto senza più alibi, tanto più se, come è auspicato, le regioni sapranno cogliere l'opportunità offerta per sviluppare un'attività normativa che, oltre a favorire il riconoscimento in sé e per sé, uscendo da ambiguità e frammentazione, ricercando e costruendo occasioni di dialogo con le comunità, gli enti gestori e le associazioni che li rappresentano sul territorio, sappia offrire energia per rilanciare davvero i domini collettivi, una fattispecie, tra l'altro, che avrebbe ragionevolmente da essere anche spinta con la creazione di nuovi domini, ad esempio, al superamento della frammentazione fondiaria nelle aree interne, piaga perniciosa che impedisce tanto spesso una gestione attiva delle risorse di bosco e pascoli in montagna.

Concludendo, la legge sui domini collettivi apre quindi una breccia importante nella rassicurante e lapidaria incertezza delle forme più diffuse ed affermate di gestione dei beni, e semina una cultura che noi tutti dobbiamo con sempre più vigore continuare ad irrigare per farla crescere rigogliosa al servizio delle generazioni future.

L'auspicio è, dunque, che l'approvazione della legge diventi anche un'occasione preziosa per una discussione anche più ampia e progressiva, a diversi livelli, dove tra l'altro, almeno una volta, si dovrà riconoscere che il legislatore parlamentare, dopo aver recepito la storia e gli sforzi promossi anche nelle passate legislature, in primo luogo da chi rappresenta la memoria e la cultura attiva dei domini collettivi, tra i quali certamente merita una particolare citazione il Centro studi e documentazione sui demani civici e le proprietà collettive dell'Università di Trento, guidato dai professori Pietro Nervi e Paolo Grossi, ha saputo collaborare e orientare la direzione nell'interesse della comunità e dell'Italia tutta (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Massimiliano Bernini. Ne ha facoltà.

MASSIMILIANO BERNINI. Presidente, colleghi, ci troviamo quest'oggi a discutere di una proposta di legge di fondamentale importanza per il riconoscimento e il consolidamento delle radici e delle origini delle comunità rurali del nostro Paese. Parliamo di un altro modo di possedere, come disse Carlo Cattaneo, ossia di beni comuni che non sono e non possono essere né pubblici né privati. Infatti, secondo definizione, l'uso civico è l'utilizzazione di un bene comune da parte di una collettività, ovvero diritti che spettano a ciascun residente non come singolo ma come membro della comunità.

Questa utilizzazione comune si diversifica in una serie di usi specifici, aventi lo scopo di ricavare benefici essenziali dal territorio.

Abbiamo ad esempio il legnatico, il fungatico, la semina, il pascolo, il cipollatico ed altri usi ancora, laddove la popolazione per consuetudine soddisfa i propri bisogni raccogliendo legname, funghi, eccetera, seminando, pascolando e via discorrendo. Insomma, un modo dal sapore antico, ma a nostro avviso estremamente moderno e comunque virtuoso, di gestire il nostro territorio attraverso il coinvolgimento pieno e responsabile dei cittadini, che possono sentirsi facenti parte di una comunità nel senso più autentico del termine.

Infatti, il concetto fondamentale è che la terra appartiene collettivamente a tutta la popolazione ed è vincolata a soddisfare i bisogni di quest'ultima. Per tale ragione, la terra collettiva è inalienabile, indivisibile e inusucapibile e spetta infine alla comunità darsi delle regole partecipate affinché le risorse della terra vengano equamente distribuite.

Dal punto di vista ambientale, invece, si sancisce la sostenibilità di questo altro modo di possedere, in primis con la legge “Galasso”, dove si sottopongono a vincolo paesaggistico tutte le terre di uso civico, e successivamente con la legge n. 97 del 1994, la terza legge sulla montagna, con la quale si obbligano le regioni a riordinare la disciplina al fine di valorizzare le potenzialità dei beni agro-silvo-pastorali in proprietà collettiva, sia dal punto di vista produttivo che della tutela ambientale.

È un bene, perciò, che con questa proposta di legge, l'atto Camera n. 4522, dal titolo “Norme in materia di domini collettivi”, il Parlamento italiano torni a parlare, dopo una lunga pausa, di usi civici e proprietà collettive. Nello specifico, trattasi di una proposta di legge che, a partire dal Senato, ha trovato sin da subito un ampio e responsabile coinvolgimento di tutte le forze politiche. Lo dimostra l'approvazione all'unanimità in prima lettura e la ferma volontà, anche del gruppo politico del MoVimento 5 Stelle, di procede alla deliberazione in sede legislativa nella Commissione referente, ossia la XIII Commissione (agricoltura) della Camera dei deputati, disponibilità non da poco e che va oltre le divisioni dovute alle varie appartenenze e al clima preelettorale che stiamo vivendo, ma che dimostra la ferma convinzione e la volontà anche del mio gruppo di addivenire all'approvazione rapida di questo testo, sul quale esprimiamo un giudizio positivo.

Nonostante questa disponibilità, quest'oggi iniziamo la discussione della proposta nell'Aula di Montecitorio; poco male, anzi: la dignità della norma, i cui princìpi ivi contenuti potranno essere suggellati ulteriormente proprio da un'ampia approvazione presso la nostra Assemblea; questo perlomeno è quello che mi auguro e che ci auguriamo.

Prima di entrare brevemente nel merito, consentitemi di ringraziare tutti i soggetti auditi in Commissione agricoltura, che rappresentano la memoria storico-giuridica degli usi civici del nostro Paese e che, oltre ai contenuti tecnici, hanno trasmesso a tutti i commissari la passione per la tutela delle proprietà collettive.

Ringrazio i membri della Consulta nazionale della proprietà collettiva, della Comunanza agraria dell'Appennino gualdese, dell'Aproduc, i membri del coordinamento Proprietà collettive del Friuli-Venezia Giulia, il professor Nervi.

Vorrei altresì ringraziare i membri della Onlus Gruppo di intervento giuridico, che ci hanno fornito utili spunti che abbiamo utilizzato per formulare le poche proposte emendative o gli ordini del giorno, nonché per i vari interventi che faremo.

Come dicevo, bene abbiamo fatto ad occuparci di domini collettivi, benché un po' di corsa e a fine legislatura, quindi senza la possibilità di un maggiore approfondimento. Infatti, secondo i dati statistici, che anche i miei colleghi hanno ricordato, sull'estensione delle proprietà collettive in Italia, ricavabili dal censimento del 2010 dell'Istat, nell'ambito del censimento dell'agricoltura con la collaborazione della Consulta nazionale della proprietà collettiva, parliamo di ben 1,668 milioni di ettari interessati da questa realtà, su una superficie agricola totale (SAT) di quasi 17 milioni di ettari. Insomma, il 9,77 per cento della SAT fa capo a vari enti esponenziali, a comunanze, alle università agrarie, alle regole o ai comuni che gestiscono le proprietà collettive. Parliamo quindi di una realtà rilevante, di cui non è possibile non tenere conto.

Secondo altre fonti, invece, i terreni a uso civico e i demani civici riguardano boschi, pascoli, coste, terreni agricoli, per complessivi circa 5 milioni di ettari in tutta Italia, e costituiscono un patrimonio di grandissimo rilievo per le collettività locali, sia sotto il profilo economico-sociale sia per gli aspetti di salvaguardia ambientale, concetti tra l'altro ribaditi più volte in sede giurisprudenziale, con molteplici sentenze della Corte costituzionale e della Cassazione.

Anche per questa discrepanza di dati, è necessario affrontare seriamente il tema, per dare appunto una chiarezza a tutto il sistema. Non solo. La stragrande maggioranza dei cittadini e molto spesso anche gli stessi rappresentanti istituzionali non conoscono gli usi civici e le proprietà collettive. È bene, invece, che si sappia che, quando ognuno di noi va in campagna e raccoglie qualcosa, probabilmente sta esercitando il proprio uso civico o dominio collettivo.

Condividiamo la necessità di novellare la normativa che regolamenta gli usi civici e i domini collettivi, che ha avuto un excursus abbastanza travagliato, anche se siamo ben consapevoli - prendendo un po' in prestito le parole del senatore Tommaso Tittoni - che la legge più giusta che li regolamenti è quella che la stessa popolazione determina, con il proprio vivere sul territorio.

Questo modo di gestione autonoma e incontrollata non venne visto di buon occhio, ad esempio, dal regime fascista, che con la legge 16 giugno 1927, n. 1766, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno e che ancora oggi disciplina integralmente la materia, sostanzialmente dava il via alla liquidazione degli usi civici. Aveva, insomma, intenti liquidatori, attraverso l'affrancazione della quota delle terre collettive a vocazione agricola, mentre rimanevano in capo alle università agrarie i terreni boschivi e i pascoli.

Questo accadeva, ad esempio, nel Lazio, nella mia regione, e un po' in tutte le associazioni agrarie dell'ex Stato Pontificio, mentre nel nord Italia, riguardo alla legge del 1927, ci fu una vera e propria sommossa, che portò in seguito, con le due leggi sulla montagna, la legge n. 991 del 1952 e la legge n. 1102 del 1971, a riconoscere l'estraneità della legge del 1927 alle proprietà collettive, appartenenti a quei nuclei familiari montani che si consideravano comunità chiuse di originari.

In alta Italia esistono, infatti, realtà molto diverse, come le partecipazioni emiliane, le regole della Magnifica comunità del Cadore, le regole di Cortina d'Ampezzo e altre comunità dell'arco alpino, che gestivano e gestiscono la terra - parliamo di grandi proprietà collettive - in base ad antichi statuti risalenti al Medioevo, spesso tramandati di padre in figlio e da gruppi circoscritti di famiglie.

Con la terza legge sulla montagna già citata, all'articolo 3, si parla di organizzazioni montane per la gestione di beni agro-silvo-pastorali. Infatti, al comma 1, si legge - oltre alla valorizzazione delle potenzialità dei beni agro-silvo-pastorali in proprietà collettiva indivisibile e inusucapibile - che le regioni sono tenute al riordino della disciplina delle organizzazioni montane, anche unite in comunanze, comunque denominate, ivi comprese le comunioni familiari, le regole cadorine e le associazioni, sulla base di principi contenuti nelle lettere a) e b) dell'articolo 3.

Tra questi principi, annoveriamo il conferimento alle associazioni agrarie della personalità giuridica di diritto privato, il riconoscimento alle associazioni agrarie dell'autonomia statutaria, anche se alle regioni è affidato il compito disciplinare con leggi alcuni aspetti, ovvero che sia garantita la gestione democratica, che nel cambio di destinazione d'uso da quello agro-silvo-pastorale sia garantita, all'antico patrimonio della comunità, la primitiva consistenza, compreso l'eventuale maggior valore derivante dalla diversa destinazione dei beni, che siano previste forme specifiche di pubblicità dei patrimoni collettivi vincolati e che si individuino, infine, meccanismi di gestione sostitutiva, qualora le singole associazioni agrarie o gli enti esponenziali non funzionino.

Purtroppo, dopo più di venti anni, solo alcune regioni hanno attuato la legge del 1994, lasciando quindi che venisse applicata la legge del 1927, che, come abbiamo detto, ha intenti liquidatori e non di tutela vera e propria delle proprietà collettive.

Invece, con la presente proposta di legge, a prima firma Pagliari - e questo è un indubbio aspetto positivo - si salva il salvabile, riconoscendo, all'articolo 1, i domini collettivi come ordinamento giuridico primario delle comunità originarie, benché anche, al comma 2, si preveda che gli enti esponenziali delle collettività, titolari di diritto di uso civico e della proprietà collettiva, abbiano personalità giuridica di diritto privato e autonomia statutaria e che lo Stato, come sancito dall'articolo 2, si impegni alla valorizzazione dei beni collettivi di godimento.

Dell'articolo 3 condividiamo la definizione di beni collettivi, come elementi costituenti il patrimonio civico, e la loro inalienabilità, indivisibilità, inusucapibilità, la perpetua destinazione agro-silvo-pastorale e l'impostazione del vincolo paesaggistico, in modo da legare indissolubilmente proprietà collettive e salvaguardia dell'ambiente, prevenendo così i fenomeni speculativi e il consumo di suolo.

Invece, non ci convince molto l'efficacia del disposto all'articolo 3, comma 7, che impegna le regioni ad applicare le disposizioni della terza legge sulla montagna. Ci chiediamo per quale ragione le regioni, appunto, lo debbano fare ora, con questa nuova legge, visto che fino ad oggi, dopo più di venti anni dall'approvazione della terza legge sulla montagna, non vi hanno ottemperato.

Non solo. Riteniamo opportuno che le regioni e le province autonome adottino uno schema di statuto, che possa solo indirizzare gli enti esponenziali, lasciando intatta l'autonomia nella predisposizione di atti, volti a una migliore forma di gestione delle terre collettive, così da facilitare e rendere più rapide le approvazioni da parte di regioni e province autonome.

Inoltre, sempre al comma 7, qualora le regioni e le province autonome non fossero in grado di elaborare la normativa, si dà la possibilità agli enti esponenziali stessi di autodisciplinarsi. In merito, sarebbe stato più opportuno, a nostro modesto parere, individuare, ad esempio, un garante terzo, fornito di potestà legislativa, tenendo conto del fatto che la tutela ambientale, che gli usi civici garantiscono, è di competenza statale.

Infine, visti i virtuosismi che innescano gli usi civici e i domini collettivi, avremmo voluto una norma che desse la possibilità di crearne di nuovi.

Queste sono alcune delle nostre osservazioni, che metteremo nero su bianco, presentando alcuni, pochissimi, emendamenti e ordini del giorno. Ovviamente, nel suo complesso, la legge ci convince, come siamo convinti che pensare agli usi civici, oggi, significhi pensare al futuro. Le proprietà collettive sono per noi l'espressione più alta di ciò che si intende per beni comuni.

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e, pertanto, dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

(Repliche - A.C. 4522)

PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare il relatore, ma non credo intenda replicare. Giusto, relatore? Non replica. Il Governo? Non replica.

Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Ordine del giorno della prossima seduta.

PRESIDENTE. Comunico l'ordine del giorno della prossima seduta.

  Martedì 17 ottobre 2017, alle 11:

1.  Svolgimento di una interpellanza e interrogazioni.

  (ore 15)

2.  Seguito della discussione delle mozioni Alberti ed altri n. 1-01707, Busin ed altri n. 1-01726 e Paglia ed altri n. 1-01728 concernenti iniziative di competenza in merito alla nomina del Governatore della Banca d'Italia.

3.  Seguito della discussione della proposta di legge:

S. 580-B - D'INIZIATIVA DEI SENATORI: FALANGA ed altri: Disposizioni in materia di criteri per l'esecuzione di procedure di demolizione di manufatti abusivi (Approvata dal Senato, modificata dalla Camera e nuovamente modificata dal Senato). (C. 1994-B)

Relatori: SARRO e DI LELLO.

4.  Seguito della discussione del testo unificato delle proposte di legge:

REALACCI ed altri; GOZI e GIACHETTI; GOZI e GIACHETTI; DANIELE FARINA ed altri; GOZI e ZACCAGNINI; CIVATI ed altri; ERMINI; FERRARESI ed altri; DANIELE FARINA ed altri; TURCO ed altri; NICCHI; GIACHETTI ed altri; TURCO ed altri; BRUNO BOSSIO e STUMPO; AMATO ed altri; CIVATI ed altri; GIGLI ed altri; D'INIZIATIVA POPOLARE: Disposizioni concernenti la coltivazione e la somministrazione della cannabis a uso medico.

(C. 76-971-972-1203-1286-2015-2022-2611-2982-3048-3229-3235-3328-3447-3993-4009-4020-4145-A/R)

Relatori: BAZOLI (per la II Commissione) e MIOTTO (per la XII Commissione), per la maggioranza; FERRARESI, di minoranza.

5.  Seguito della discussione del disegno di legge e del documento:

S. 2834 - Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l'attuazione di altri atti dell'Unione europea - Legge di delegazione europea 2016-2017 (Approvato dal Senato). (C. 4620)

Relatori: TANCREDI, per la maggioranza; GIANLUCA PINI, di minoranza.

Relazione consuntiva sulla partecipazione dell'Italia all'Unione europea (Anno 2016).  (Doc. LXXXVII, n. 5)

Relatore: BERGONZI.

6.  Seguito della discussione del disegno di legge

S. 1324 - Delega al Governo in materia di sperimentazione clinica di medicinali nonché disposizioni per il riordino delle professioni sanitarie e per la dirigenza sanitaria del Ministero della salute (Approvato dal Senato). (C. 3868-A)

e delle abbinate proposte di legge: CATANOSO GENOESE; RONDINI ed altri; GRIMOLDI; LENZI; FABBRI; VARGIU ed altri; MURER; MIOTTO ed altri; SENALDI ed altri; BINETTI; LODOLINI ed altri; GREGORI ed altri; VEZZALI; VEZZALI; LENZI e GHIZZONI; PAOLA BOLDRINI ed altri; ELVIRA SAVINO; ELVIRA SAVINO.

(C. 334-993-1088-1229-1429-1485-1599-1961-2312-2518-2781-3263-3307-3319-3377-3603-3999-4556)

Relatore: MARAZZITI.

7.  Seguito della discussione del disegno di legge (previo esame e votazione della questione pregiudiziale di costituzionalità presentata):

Delega al Governo per la revisione e il riordino della normativa relativa alle concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali ad uso turistico-ricreativo. (C. 4302-A)

e delle abbinate proposte di legge: PIZZOLANTE ed altri; DE MICHELI e EPIFANI; ABRIGNANI ed altri; NASTRI. (C. 2142-2388-2431-3492)

Relatori: PIZZOLANTE, per la VI Commissione; ARLOTTI, per la X Commissione.

8.  Seguito della discussione delle mozioni Martelli ed altri n. 1-01716 e Carfagna ed altri n. 1-01727 concernenti iniziative per prevenire e contrastare la violenza contro le donne.

9.  Seguito della discussione della proposta di legge:

S. 968 – D'INIZIATIVA DEI SENATORI: PAGLIARI ed altri: Norme in materia di domini collettivi (Approvata dal Senato). (C. 4522)

Relatore: ROMANINI.

La seduta termina alle 18,35.

TESTI DEGLI INTERVENTI DI CUI È STATA AUTORIZZATA LA PUBBLICAZIONE IN CALCE AL RESOCONTO STENOGRAFICO DELLA SEDUTA ODIERNA: MARILENA FABBRI; PAOLA BINETTI; FABRIZIA GIULIANI (MOZIONE CONCERNENTE INIZIATIVE PER PREVENIRE E CONTRASTARE LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE)

MARILENA FABBRI. (Intervento in discussione sulle linee generali su mozione concernente iniziative per prevenire e contrastare la violenza contro le donne). Secondo i dati del primo rapporto sulla violenza contro le donne dell'Agenzia europea per i diritti fondamentali presentato a Bruxelles nel 2014, sono 62 milioni le donne in Europa che hanno subito violenze fisiche o sessuali (o entrambe) a partire dall'adolescenza.

Una su tre di tutte quelle tra i 15 e i 74 anni che vivono nei 28 Paesi dell'Unione Europea.

Non solo, quasi sette su dieci (il 67%) tra coloro che hanno subito abusi dal partner non lo hanno denunciato, né si sono rivolte a centri antiviolenza. La percentuale sale al 74% se gli abusi sono commessi da persone diverse dal partner.

L'Italia, secondo il rapporto, è ai livelli più bassi dopo le repubbliche post socialiste per denuncia: le donne che riferiscono di aver subito violenze da un partner o un ex sono il 19% e quelle che ammettono abusi psicologici sono il 38% (contro il 43% della media Ue). Per le molestie la percentuale sale al 51% (la media Ue è del 55%, la punta è l'81% della Svezia). C'è una tendenza diffusa a non riportare alle autorità la violenza subita dalle donne, anche se negli ultimi anni, secondo gli ultimi dati Istat, è migliorata la fiducia verso le forze di polizia e il numero delle denunce.

La recrudescenza dei casi dì femminicidio e di violenza sulle donne ci inducono a pensare che nonostante siano state messe a punto nuove norme, molto altro ci sia ancora da fare per arginare una situazione emergenziale.

Illuminanti sono le parole del Presidente Mattarella: "i femminicidi sono una piaga che costituisce un oltraggio sia alla dignità umana che alla convivenza. Una piaga inammissibile ini un Paese moderno e civile come l'Italia".

In questa legislatura, che a breve volgerà al termine, sono state approvate moltissime norme per contrastare la violenza contro le donne e numerosi sono gli interventi legislativi che hanno rafforzato gli strumenti di tutela per le vittime vulnerabili: ci siamo mossi con decisione nella direzione tracciata dalle Convenzioni internazionali e dalla Direttiva UE sulla tutela delle vittime di reato, la n. 2012/291UE.

I nostri interventi principali: legge 27 giugno 2013, n. 77: Ratifica della Convenzione del Consiglio d'Europa cd. di Istanbul (2011) sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. Che riconosce espressamente la violenza contro le donne quale violazione diritti umani; l'Italia è stata tra i primi Paesi europei a ratificarla, approvando all'unanimità — il 19 giugno 2013. La Convenzione è alla base della nostra iniziativa antifemminicidio; legge 15 ottobre 2013, n. 119, conversione DL. 93/2013 (disposizioni urgenti contro la violenza di genere) contiene disposizioni per prevenire e reprimere la violenza domestica e di genere, ha introdotto misure quali un'aggravante per i delitti contro la vita e l'incolumità individuale, contro la libertà personale nonché per i maltrattamenti in famiglia, da applicare se i fatti sono commessi in danno o in presenza di minori; ha modificato e integrato il reato di atti persecutori (art. 612-bis, c.d. stalking), con particolare riferimento al regime della querela di parte, rendendola irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate e aggravate; in tutti gli altri casi, comunque, una volta presentata la querela, la rimessione potrà avvenire soltanto in sede processuale, mentre il delitto resta perseguibile d'ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d'ufficio; si consentono le intercettazioni quando si indaga per stalking; ha introdotto la misura di prevenzione dell'ammonimento del questore anche per la violenza domestica, sulla falsariga di quanto già previsto per il reato di stalking; sempre per tutelare le vittime sono state inserite alcune misure relative all'allontanamento - anche d'urgenza - dalla casa familiare e all'arresto obbligatorio in flagranza dell'autore delle violenze.

In merito, la Camera ha introdotto la possibilità di operare anche un controllo a distanza (c.d. braccialetto elettronico) del presunto autore di atti di violenza domestica; prevede specifici obblighi di comunicazione da parte dell'autorità giudiziaria.

Con tale provvedimento si è inoltre previsto per la prima volta un Piano d'azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere.

Decreto Ministeriale 15 luglio 2014 - del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali - è stato approvato il Piano Triennale delle azioni positive per il triennio 2014-16, un documento programmatico finalizzato all'adozione di azioni positive all'interno del contesto organizzativo e di lavoro e all'armonizzazione delle attività per il perseguimento e l'applicazione dei principi di pari opportunità tra uomini e donne.

Presidenza del Consiglio dei Ministri – Conferenza Unificata Stato/Regioni/province autonomi/autonomie locali, INTESA 27 novembre 2014: per definire i requisiti minimi dei Centri antiviolenza e delle Case rifugio, prevista dall'articolo 3, comma 4, del D.P.C.M. del 24 luglio 2014.

Decreto Legislativo 15 giugno 2015, n. 80: Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell'articolo 1, commi 8 e 9, della legge 10 dicembre 2014, n, 183. Introdotto un congedo retribuito di tre mesi per le lavoratrici dipendenti e per le lavoratrici titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa vittime di violenza di genere che potrà servire per l'inserimento in percorsi di protezione relativi alla violenza subita.

Legge 13 luglio 2015, n. 107: Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione (buona scuola) e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti. Gomma 16. Il piano triennale dell'offerta formativa assicura l'attuazione dei principi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l'educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni, al fine di informare e di sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori.

Legge 28 dicembre 2015, n. 208: è stato introdotto, con la legge di Stabilità per il 2016 di un percorso "ad hoc" di protezione delle vittime di violenza già sperimentato in alcuni ospedali italiani da qualche anno che viene ora esteso all'intero territorio nazionale che intende assicurare un accesso privilegiato alle cure sanitarie alle donne che abbiano subito maltrattamenti ed abusi. In via di definizione le linee guida.

Istituzione al Senato della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio nonché su ogni forma di violenza di genere - 18 gennaio 2017.

Si è intervenuti sull'articolo 612-bis del codice penale, adeguando i limiti di pena alla gravità del fatto e rendendo applicabile ai responsabili, ove ne ricorrano le condizioni, anche le più gravi misure cautelari personali. Ricordiamo tutti l'intervento normativo in tema di custodia cautelare in carcere, approvato da questo Parlamento, e anche l'applicazione di questa misura ai reati di cui all'articolo 612-bis quando si parla di custodia cautelare in carcere.

Sempre sul versante processuale, si è intervenuti escludendo il reato di atti persecutori dal novero di quelli in relazione ai quali è possibile applicare l'istituto del proscioglimento per particolare tenuità del fatto. Nella prospettiva di affinare ulteriormente il sistema di tutela, sempre nel 2013 sono state introdotte misure di prevenzione, quali l'ammonimento, finalizzato all'anticipazione della tutela delle donne e di ogni vittima di violenza domestica. Tale strumento preventivo è stato diffusamente applicato, come emerge dai dati comunicati dal Ministero dell'interno, e nel periodo 2011-2016 sono stati emessi complessivamente 6.400 provvedimenti. Ulteriori prospettive su tale fronte si aprono con la riforma del codice antimafia recentemente approvato, che prevede tra l'altro l'applicazione, anche ai soggetti indiziati del delitto di atti persecutori, delle misure di prevenzione personali più incisive.

Sempre l'obiettivo di tutelare i soggetti più deboli ha ispirato ulteriori recenti iniziative nominative del Governo, attraverso le quali si è inteso delineare un vero e proprio statuto delle persone vulnerabili, attraverso una disciplina generalizzata per la protezione, l'assistenza e la tutela di ogni persona offesa dal reato. In attuazione della direttiva "vittime di reato", il decreto legislativo n. 212 del 15 dicembre 2015, in vigore dal 20 gennaio 2016, ha infatti apprestato un adeguato apparato difensivo Per tutte le vittime di reato, soprattutto le più vulnerabili; sistema ulteriormente affinato con l'adozione del decreto legislativo n. 122 del 2016, che ha istituito un fondo destinato al ristoro patrimoniale delle vittime di reati intenzionali violenti. Sul tale Fondo si sta lavorando per cercare di eliminare i limiti di reddito, al fine di renderlo maggiormente accessibile;

C'è poi la proposta di legge A.S. 2719 sugli orfani di crimini domestici approvato all'unanimità dalla Camera dei deputati il 1° marzo 2017, riconosce tutele processuali ed economiche ai figli minorenni e maggiorenni economicamente non autosufficienti della vittima di un omicidio commesso da: il coniuge, anche legalmente separato o divorziato; la parte dell'unione civile, anche se l'unione è cessata; una persona che è o è stata legata da relazione affettiva e stabile convivenza con la vittima, che è stata approvata all'unanimità alla camera con l'apporto di tutti i gruppi e a cui ho contribuito fattivamente che si rivolge agli orfani di crimini domestici che interviene ad anticipare già in fase di processo a carico dell'imputato, una serie di tutele processuali ed economiche tese a garantire agli organi di crimini domestici le necessarie garanzie economiche sia per partecipare gratuitamente alle diverse fasi processuali, sia economiche e di curatela. Credo che il Senato non si possa permettere di tenere ferma una tale legge che introduce strumenti reali di tutela verso chi rischia di essere orfano tre volte, per la perdita di un genitore per mano dell'altro e per indifferenza dello Stato. Prima del termine della legislatura deve essere legge.

Con DPCM del 7 luglio 2015, è stato adottato il piano d'azione straordinario finalizzato alla prevenzione della violenza di genere. In tale ambito è prevista una capillare rete informativa tra forze dell'ordine, presidi sanitari e istituzioni pubbliche. È stato istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri-Dipartimento delle pari opportunità un numero verde nazionale a favore delle vittime degli atti persecutori per un servizio di pronta e prima assistenza psicologica e giuridica. Presso l'Arma dei carabinieri è prevista un'apposita sezione con competenze specifiche e sono stati inoltre istituiti i Fondi di solidarietà a livello territoriale e sportelli di tutela. Particolare attenzione è stata poi riservata al tema della formazione e quanto al personale della magistratura, diversi uffici giudiziari requirenti, hanno istituito gruppi di lavoro specializzati nella tutela delle fasce deboli. La legge di bilancio 2017 ha aumentato fondi di altri 5 milioni di euro: complessivamente, per l'anno in corso sono stati destinati al Piano e ai centri antiviolenza e case rifugio 21,7 milioni di euro e oltre 70 milioni di euro sul fondo per le pari opportunità.

La Sottosegretaria di Stato alla Presidenza del Consiglio, il 7 settembre u.s. nel corso della Cabina di regia nazionale costituita in forza del Piano straordinario, ha presentato alle Amministrazioni centrali interessate, alle rappresentanze delle Regioni, delle Autonomie locali, delle associazioni maggiormente rappresentative sul tema e alle organizzazioni sindacali la bozza del nuovo Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2017-2020, frutto di un apposito gruppo di lavoro con la partecipazione delle Istituzioni e delle associazioni sopra richiamate, che a breve dovrebbe essere presentato ufficialmente, Inoltre è stata data garanzia nel corso dell'ultimo question time in I Commissione che nel disegno di legge di bilancio in corso di predisposizione particolare attenzione sarà dedicata a tali interventi con la previsione di una specifica provvista finanziaria che si aggiunge a quella già prevista a legislazione vigente

Il DPCM 12 gennaio 2017, recante «Definizione ed aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza» prevede che nell'ambito dell'assistenza distrettuale, domiciliare e territoriale, il Servizio sanitario nazionale garantisca alle donne, ai minori, alle coppie e alle famiglie, le prestazioni, anche domiciliari, mediche specialistiche, diagnostiche e terapeutiche, psicologiche e psicoterapeutiche, e riabilitative necessarie ed appropriate in diversi ambiti di attività, alcuni dei quali sono specificamente dedicati alle vittime di violenza sessuale e di genere. L'impegno da mettere in campo per contrastare ed eliminare la violenza di genere non può prescindere dal raggiungimento della piena eguaglianza tra i sessi. Il sistema educativo, contro questa piaga, può e deve giocare un ruolo di primissimo piano favorendo l'emersione delle situazioni di violenza già in atto, al fine di proteggere le vittime ma soprattutto puntando sulla prevenzione. Tra le norme che riguardano il mondo della scuola voglio ricordare: il comma 16 dell'art.1 della L.107 del 2015 (buona scuola) dando attuazione all'art. 14 della Convenzione di Istanbul, stabilisce che: "Il piano triennale dell'offerta formativa assicura l'attuazione dei principi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l'educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni, al fine di informare e di sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori sulle tematiche indicate dall'articolo 5, comma 2, del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n. 11".

La preparazione delle linee guida nazionali per l'attuazione dell'articolo 1 comma 16 della legge 107/2015, accompagnate da un più generale piano d'azione che favorisca anche l'inclusione del tema della violenza contro le donne nei programmi di formazione degli insegnanti.

Il tavolo di lavoro avviato dal MIUR, in collaborazione con l'Associazione Editori Italiani, per promuovere una riflessione su linguaggio e contenuti dei libri di testo, per la valorizzazione delle tematiche inerenti le differenze di genere, la valorizzazione del contributo delle donne in tutte le discipline, e il superamento degli stereotipi sessisti. Il complesso delle iniziative illustrate testimonia la costante, effettiva, attenzione riservata alla violenza di genere. E' evidente che ancora non basta e che molto c'è da fare però la strada imboccata è quella giusta, nel solco dell'attenzione, della determinazione, di fare passi in avanti e non indietro su una materia che interessa tutti. E' davvero importante che si dia un segnale di sicurezza alle tante donne, vittime e non solo, di queste forme di violenza cieca, bisogna dare voce a queste persone che più che mai hanno bisogno di un intervento forte dello Stato, e di sentire la presenza delle Istituzioni nei fatti e non a parole.

Questa legislatura, come ho finora evidenziato, si è fino ad oggi caratterizzata per i molti provvedimenti che si sono adottati in materia di contrasto della violenza alle donne, dalla ratifica della Convenzione di Istanbul, all'introduzione di modifiche al codice penale e di procedura penale per inasprire le pene di alcuni reati, più spesso commessi in danno di donne, all'approvazione del Piano d'azione straordinario contro la violenza di genere alla previsione di stanziamenti per il supporto delle vittime.

Ciò nondimeno la violenza sessuale nonché quella di genere rimane un fenomeno strutturale delle nostre società, come i più recenti dati Istat confermano registrando una costanza del fenomeno negli anni (a differenza degli omicidi in netto calo) e con una grave recrudescenza dei fatti.

Per questo il nostro obiettivo deve essere quello di mettere a sistema e rendere conoscibile e, soprattutto, possibile l'accesso per le donne ad una così considerevole mole di interventi e di nuovi strumenti: lavorare sempre di più sull'accoglienza e sull'accompagnamento della vittima di violenza verso I' "emersione", la denuncia e la consapevolezza di non essere sola: per arrivare a questo, però, è necessario puntare sempre di più sulla formazione di tutti gli "attori" chiamati ad operare nei presidi strategici per evitare, in qualunque modo, di incorrere nell'insidiosa trappola della "vittimizzazione secondaria". Con questa intenzione e con gli strumenti adeguati, quali quelli che ci stiamo dando e che, in divenire, continueremo a mettere a punto, si potrà finalmente arrivare ad un cambio di passo culturale profondo e determinante, puntando con determinazione al monitoraggio del fenomeno, all'educazione e formazione delle nuove generazioni per fare in modo che a tutti i livelli d'istruzione si promuovano, i valori egualitari e la prevenzione di comportamenti violenti e sessisti: perché il rischio di violenze ed aggressioni alle donne si riduce radicalmente.

PAOLA BINETTI. (Intervento in discussione sulle linee generali su mozione concernente iniziative per prevenire e contrastare la violenza contro le donne). Siamo eredi di una storia di enormi condizionamenti che, in tutti i tempi e in ogni latitudine, hanno reso difficile il cammino della donna, misconosciuta nella sua dignità, travisata nelle sue prerogative, non di rado emarginata e persino ridotta in servitù. Ciò le ha impedito di essere fino in fondo se stessa, e ha impoverito l'intera umanità di autentiche ricchezze spirituali. Non sarebbe certamente facile additare precise responsabilità, considerando la forza delle sedimentazioni culturali che, lungo i secoli, hanno plasmato mentalità e istituzioni.

E' ora di guardare con il coraggio della memoria e il franco riconoscimento delle responsabilità alla lunga storia dell'umanità, a cui le donne hanno dato un contributo non inferiore a quello degli uomini, e il più delle volte in condizioni ben più disagiate. Penso, in particolare, alle donne che hanno amato la cultura e l'arte e vi si sono dedicate partendo da condizioni di svantaggio, escluse spesso da un'educazione paritaria, esposte alla sottovalutazione, al misconoscimento ed anche all'espropriazione del loro apporto intellettuale. Della molteplice opera delle donne nella storia, purtroppo, molto poco è rimasto di rilevabile con gli strumenti della storiografia scientifica. Per fortuna, se il tempo ne ha sepolto le tracce documentarie, non si può non avvertirne i flussi benefici nella linfa vitale che impasta l'essere delle generazioni che si sono avvicendate fino a noi. Rispetto a questa grande, immensa «tradizione» femminile, l'umanità ha un debito incalcolabile.

E che dire poi degli ostacoli che, in tante parti del mondo, ancora impediscono alle donne il pieno inserimento nella vita sociale, politica ed economica? Basti pensare a come viene spesso penalizzato, più che gratificato, il dono della maternità, a cui pur deve l'umanità la sua stessa sopravvivenza. Certo molto ancora resta da fare perché l'essere donna e madre non comporti una discriminazione. È urgente ottenere dappertutto l'effettiva uguaglianza dei diritti della persona e dunque parità di salario rispetto a parità di lavoro, tutela della lavoratrice-madre, giuste progressioni nella carriera, uguaglianza fra i coniugi nel diritto di famiglia, il riconoscimento di tutto quanto è legato ai diritti e ai doveri del cittadino in regime democratico.

Si tratta di un atto di giustizia, ma anche di una necessità. I gravi problemi sul tappeto vedranno, nella politica del futuro, sempre maggiormente coinvolta la donna: tempo libero, qualità della vita, migrazioni, servizi sociali, eutanasia, droga, sanità e assistenza, ecologia, ecc. Per tutti questi campi, una maggiore presenza sociale della donna si rivelerà preziosa, perché contribuirà a far esplodere le contraddizioni di una società organizzata su puri criteri di efficienza e produttività e costringerà a riformulare i sistemi a tutto vantaggio dei processi di umanizzazione che delineano la «civiltà dell'amore».

Guardando poi a uno degli aspetti più delicati della situazione femminile nel mondo, come non ricordare la lunga e umiliante storia di soprusi perpetrati nei confronti delle donne nel campo della sessualità? È ora di condannare con vigore, dando vita ad appropriati strumenti legislativi di difesa, le forme di violenza sessuale che non di rado hanno per oggetto le donne. In nome del rispetto della persona non possiamo non denunciare la diffusa cultura edonistica e mercantile che promuove il sistematico sfruttamento della sessualità, inducendo anche ragazze in giovanissima età a cadere nei circuiti della corruzione e a prestarsi alla mercificazione del loro corpo.

Il 14 giugno 2013, dopo appena tre mesi dall'inizio di questa legislatura, il Parlamento approvò, pressoché all'unanimità, una mozione a mia prima firma, per la lotta e il contrasto alla violenza sulle donne. Poco dopo venne l'approvazione del trattato di Istanbul, la legge contro il femminicidio…e così via via, molte altre iniziative legislative, tutte centrate sulla lotta alla violenza, nelle sue molteplici forme, compresa la violenza sui social media, che con tanta volgarità aggrediscono senza motivo donne, fortemente impegnate nel loro ruolo pubblico. Oggi questa mozione vuole avere un taglio diverso e vuole valorizzare le donne nella loro specificità femminile, garantendo loro accesso a tutti i ruoli professionali anche alle più alte cariche istituzionali, ma senza per questo dover rinunciare alla loro dimensione familiare, maternità inclusa; storicamente la società occidentale si è fortemente caratterizzata per una prevalenza dei modelli maschili di riferimento nei diversi contesti professionali, riservando alla donna l'ambito domestico e familiare, come format prevalente in cui mettere in gioco le sue competenze ed esprimere affetti, valori, creatività e soprattutto relazione di cura verso gli altri.

Si tratta di una situazione, che ha comunque le sue eccezioni, anche se ne resta traccia nel sistema politico, economico, aziendale, organizzativo dell'intera forma di governo dello stato, che vede la donna moderna, sempre più consapevole dei suoi diritti e delle sue responsabilità. La donna appare tesa verso il riconoscimento di pari opportunità, mentre sarebbe molto più adeguato per lei chiedere opportunità coerenti con la sua specificità, dal momento che ottenere opportunità uguali o simili a quelle degli uomini significa in premessa assumere come paradigma di riferimento quello maschile; nel XXI secolo non è possibile immaginare che possa essere in gioco una sottile guerra di potere tra uomini e donne; serve piuttosto un nuovo stile di collaborazione e di integrazione nel riconoscimento delle reciproche identità. L'asimmetria del maschile e del femminile è indispensabile per raggiungere nella nostra società un equilibrio complessivo orientato al benessere di tutti, come più volte è stato sottolineato dai sostenitori del pensiero della differenza. In questo contesto concettuale e operativo la specificità di ognuno si orienta alla complementarietà, che è intrinsecamente generativa e proprio per questo può generare in senso proprio figli e figlie, dando luogo alla famiglia nella completezza del suo valore e del suo significato; quando questo viene meno, sia a livello domestico e familiare che nel più vasto contesto della società, le discriminazioni che si creano possono dar luogo a nuove forme di violenza nei confronti delle donne, sia a livello psicologico che fisico, mettendo in discussione l'intero sistema dei diritti umani.

Sono passati ormai 25 anni da quando Giovanni Paolo II pubblicò la Lettera apostolica Mulieris Dignitatem, diventata da allora vero punto di riferimento per pensatori laici e cattolici, che desiderano approfondire i fondamenti antropologici e teologici necessari a risolvere i problemi relativi al significato e alla dignità dell'essere donna e dell'essere uomo. In base al principio del reciproco essere «per» l'altro, nella relazione interpersonale, si sviluppa l'integrazione nell'umanità stessa di ciò che è «maschile» e di ciò che è «femminile». La discriminazione della donna è stata ed è un fatto che contraddice profondamente alla dignità di entrambi. Quando il maschio domina, non tenendo adeguatamente conto della diversità femminile è l'«ethos» della intera società a soffrirne perché i diritti di tutti restano schiacciati in una logica di sopraffazione che esprime assoluta mancanza di rispetto per i doveri di reciprocità, su cui si fonda la coesione sociale.

Scrisse Giovanni Paolo II una lettera alle donne in occasione della Conferenza di Pechino, che si concludeva con queste parole, ancora pienamente attuali: “desiderare che, nella prossima Conferenza, promossa a Pechino dalle Nazioni Unite, si metta in luce la piena verità sulla donna. Si ponga davvero nel dovuto rilievo il «genio della donna», non tenendo conto soltanto delle donne grandi e famose vissute nel passato o nostre contemporanee, ma anche di quelle semplici, che esprimono il loro talento femminile a servizio degli altri nella normalità del quotidiano. È infatti specialmente nel suo donarsi agli altri nella vita di ogni giorno che la donna coglie la vocazione profonda della propria vita, lei che forse ancor più dell'uomo vede l'uomo, perché lo vede con il cuore. Lo vede indipendentemente dai vari sistemi ideologici o politici. Lo vede nella sua grandezza e nei suoi limiti, e cerca di venirgli incontro e di essergli di aiuto.

Ai nostri tempi la questione dei «diritti della donna» ha acquistato un nuovo significato nel vasto contesto dei diritti della persona umana. Ma occorre difendere contestualmente la dignità e l'identità che risulta dalla specifica diversità e originalità personale dell'uomo e della donna. La donna - nel nome della liberazione dal «dominio» dell'uomo - non può tendere ad appropriarsi delle caratteristiche maschili, contro la sua propria «originalità» femminile. Esiste il fondato timore che su questa via la donna non si «realizzerà», ma potrebbe invece deformare e perdere ciò che costituisce la sua essenziale ricchezza. Si tratta di una ricchezza enorme. Le risorse personali della femminilità non sono certamente minori delle risorse della mascolinità, ma sono solamente diverse. La donna - come, del resto, anche l'uomo - deve intendere la sua «realizzazione» come persona, la sua dignità secondo la sua specifica femminilità, che nulla ha da invidiare alla presunta superiorità maschile. La stessa violenza dell'uomo non si sconfigge con la violenza sull'uomo. Ma sembra che in tanti anni alcuni uomini non abbiano ancora finito di scoprire questa verità elementare e trasparente: l'unità che si genera dalla differenza è la principale ricchezza dell'intero genere umano. Diventa necessario a questo punto agire su di un doppio fronte: promuovere in tutti i modi opportuni le donne, valorizzando il femminile che c'è in loro, e contrastare ogni forma di violenza, che scaturisce da uomini immaturi, prepotenti, incapaci di una apertura affettiva che li ponga su di un effettivo piano di integrazione delle differenze. Questa unità non annulla la diversità. Vogliamo rilanciare una cultura della relazione uomo-donna in chiave di collaborazione e di integrazione, in una visione positiva dei rapporti reciproci, basati sul rispetto, e sulla pari dignità, a cui rispondono pari diritti e doveri nella specifica differenza dei rispettivi ruoli, si ispira questa mozione che intende essere a supporto della donna, considerata nella globalità delle sue esigenze e delle sue aspirazioni.

Per questo si impegna il governo a mettere in atto una strategia nazionale per:

- eliminare e modificare gli atteggiamenti che risultino discriminanti nei confronti delle donne, con particolare attenzione ai gruppi di minoranza;

- valorizzare le figure femminili nei mezzi di comunicazione, ma anche nei libri di testo con l'obiettivo di dare il giusto riconoscimento alle donne nella storia e nella contemporaneità;

- condurre campagne di informazione rivolte alle donne e agli uomini, per promuovere stili di vita che riconoscano la differenza e contestualmente la piena uguaglianza dei diritti;

- condurre campagne di informazione rivolte ai media e alle agenzie pubblicitarie per evitare l'uso e la strumentalizzazione del corpo delle donne;

2. ad accelerare l'adozione e l'effettiva attuazione di una politica nazionale che tenga conto della specificità femminile sia in merito alla maternità e agli impegni familiari che nella specifica tutela professionale, soprattutto in quegli ambiti in cui finora la discriminazione è stata maggiore, assicurando la tutela dei diritti delle donne anche nella fase di formulazione ed attuazione delle leggi, le normative ed i programmi dei Ministeri e delle Strutture Governative decentrate;

3. a rafforzare la rappresentanza delle donne nelle posizioni decisionali della vita politica, comprese le posizioni ministeriali, in magistratura, nei consigli di amministrazione ed in posizioni senior della Pubblica Amministrazione, in particolare il Servizio Diplomatico.

4. a promuovere campagne di sensibilizzazione per politici, giornalisti, insegnanti ecc. al fine di accrescere la comprensione che la partecipazione piena, uguale, libera e democratica delle donne, nella vita politica e pubblica, requisito indispensabile per la piena attuazione dei diritti umani delle donne; a promuovere attraverso corsi di alta formazione la capacità di leadership delle donne;

5. a rivedere la normativa sullo stalking e sulle molestie sessuali, che attualmente non risulta del tutto efficace per il raggiungimento degli obiettivi specifici;

6. a fare in modo che già dalla Legge di Bilancio 2018 si possa:

- assicurare un'adeguata assegnazione di risorse al sistema Famiglia, con particolare riguardo alle famiglie numerose, in modo da facilitare nella donna la giusta armonizzazione tra lavoro professionale e relazione di cura familiare;

- assicurare alle donne il diritto al mantenimento del posto di lavoro anche durante la gravidanza, stigmatizzando quei comportamenti che ricattano le donne, limitando il loro diritto ad avere figli;

- rendere possibili periodi di congedo prolungato, se necessario, a seconda delle necessità dei familiari se portatori di handicap o di qualche rara malattia genetica;

- facilitare la possibilità che ragazze che desiderano lasciare la prostituzione possano sottrarsi a vere e proprie forme di schiavitù e trovare attività lavorative alternative - assicurare risorse umane, tecniche e finanziarie per la realizzazione sistematica ed efficace delle misure a contrasto della violenza contro le donne.

FABRIZIA GIULIANI. (Intervento in discussione sulle linee generali su mozione concernente iniziative per prevenire e contrastare la violenza contro le donne). Grazie Presidente, il contrasto alla violenza contro le donne, tema che qui affrontiamo, è stato più volte al centro della discussione parlamentare nel corso di questa legislatura.

Una discussione che ha prodotto atti legislativi, norme di contrasto e prevenzione importanti che qui proverò a ripercorrere. Ma prima di dare avvio a questa ricognizione vorrei svolgere due ordini di considerazioni, perché aiutano a dare il senso del cammino compiuto e della direzione che ad esso abbiamo provato ad imprimere.

1) Ci troviamo spesso a ricordare, con orgoglio come il primo atto della legislatura si stata la Ratifica della Convenzione d'Istanbul. Un atto che ha sanato un vulnus lasciato aperto nel corso della scorsa legislatura.

Basterà ricordare che il Senato, allora, chiamato a decidere sul tema non poté procedere perché privo di Presidenza. Fatto quanto mai desueto, ma che bene restituisce la misura della rilevanza attribuita al tema. È lecito chiedersi se una simile assenza sarebbe stata tollerata per altri provvedimenti, quali altre questioni avrebbero consentito una Presidenza scoperta.

Ma fu, quella, un'assenza registrata dall'opinione pubblica, dai movimenti delle donne che aspettavano la Ratifica con impazienza, che ne conoscevano il contenuto e il valore.

Ecco, abbiamo allora insieme sanato una ferita, nel rapporto tra istituzioni e opinione pubblica, e lo abbiamo fatto insieme, oltre le appartenenze.

Ho voluto ricordare questo episodio anche per un'altra ragione, per sottolineare quanto quel gesto rappresentasse per noi un atto politico preciso, una scelta, l'indicazione di un cammino nel solco europeo.

Istanbul concludeva un percorso politico, normativo, giuridico di cui erano state protagoniste le donne: singole, movimenti, associazioni che avevano portati all'attenzione delle Istituzioni europee il tema della violenza di genere. Dalla Raccomandazione, che metteva al centro la protezione delle donne, approvata dal Consiglio nel 2002 (Rec 5/2002) alla Convenzione d'Istanbul (2011) non passano solo nove anni, ma una lunga stagione di battaglie culturali, politiche e giuridiche. La Convenzione non è stata un esito né scontato né facile.

Nella Rec confluivano studi e acquisizione internazionali volti a mettere in evidenza la correlazione tra diseguaglianza, discriminazione e violenza. Abusi e soprusi uscivano dal cono d'ombra dell'ambito domestico, privato, e anche da quello della definizione di un generico problema sociale e venivano finalmente inquadrati nella giusta dimensione, ossia nella dimensione politica. Sulla scorta di lavori confluiti nei trattati internazionali, finalmente si mettevano punti fermi, si affermava che la violenza di genere è un problema strutturale, proprio di società fondate su rapporti impari di potere tra donne e uomini. Di qui la necessità di coinvolgere gli uomini nella rimozione degli ostacoli all'uguaglianza di genere sociale politica e culturale.

Seppure qui si trova una tappa decisiva sul piano culturale simbolico e politico, se qui si trova una prima importante definizione giuridica del fenomeno, la natura non vincolante di questo atto si limita ad indicare una priorità agli Stati senza esplicare effetti diretti negli ordinamenti, siamo sul piano della soft law.

Diversa cogenza ed efficacia ha invece lo strumento della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, aperta alla firma nel maggio del 2011, dove si afferma che il raggiungimento dell'uguaglianza di genere de iure e de facto è un elemento chiave per prevenire la violenza di genere, che essa è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali, che hanno portato alla dominazione degli uomini sulle donne e impedito la loro emancipazione, si riconosce altresì la natura strutturale della violenza contro le donne, in quanto basata sul genere e in quanto meccanismo sociale cruciale per mezzo del quale le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini.

In essa sono racchiuse dunque istanze fondamentali, ma voglio sottolineare la novità dell'approccio metodologico di questo testo: la Convenzione esorta a far procedere in parallelo la prevenzione della violenza, la protezione delle vittime, la repressione dei crimini.

Non si apre tra questi piani una gerarchia. Troppo spesso la politica, da noi, dentro e fuori le istituzioni, si è divisa sostenendo priorità o primazie, o addirittura sostenendo l'esclusività di un piano sull'altro. Errori gravi, da non ripetere.

Far giocare i livelli l'uno contro l'altro – prevenzione vs repressione – ha depotenziato l'azione e costretto la discussione su un piano sterile. I fatto, l'esperienza che abbiamo di questi fenomeni ci dicono che è tempo di mandare in soffitta approcci ideologici datati.

Che ogni volta che è prevalsa la separazione tra questi piani la politica ha mancato la sintesi, mostrando la sua impotenza.

Che ogni volta che si è ridotta la violenza ha un fenomeno ‘solo' culturale o solo repressivo le cose sono rimaste com'erano e le donne, le donne ne hanno fatto spesa.

Veniamo al nostro paese, i dati sono noti: secondo l'ultimo report pubblicato dall'Istat nel 2015, nel nostro Paese il 31,5% delle 16-70enni (stiamo parlando di quasi 7 milioni di donne) ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale.

Lo studio conferma inoltre una delle verità allo stesso tempo più conosciute e difficili da affrontare e prevenire, ovvero che “le forme più gravi di violenza sono esercitate da partner, parenti o amici”.

I dati sono impietosi: nel 62,7% dei casi gli stupri dichiarati sono stati commessi da partner, nel 3,6% da parenti e nel 9,4% da amici. Un'evoluzione confermata anche per quel che riguarda le violenze fisiche come schiaffi, calci, pugni e morsi, mentre gli sconosciuti sono autori soprattutto di molestie sessuali.

Abbiamo anche segnali incoraggianti, ma resta che i femminicidi sono stabili presentano maggior incidenza, mentre gli omicidi calano.

Nel corso di questa legislatura, seguendo il solco tracciato dalla Convenzione di Istanbul, abbiamo messo in campo un ampio e innovativo spettro di interventi legislativi, i quali – inserendosi anche nel quadro legislativo europeo predisposto dalla Direttiva sulle vittime di reato, della tutela delle vittime vulnerabili – hanno avuto come obiettivo principale quello di migliorare la condizione delle vittime di violenza offrendo loro strumenti per una maggiore protezione e per garantire una giustizia più rapida e certa.

La Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, è stata aperta alla firma nel maggio 2011 (e ratificata da questo Parlamento nel 2013), con l'obiettivo di fornire – allo stesso tempo - una protezione “nel” e “dal” processo, attraverso l'elaborazione di specifici strumenti informativi e processuali.

Ed è proprio sulla scorta dei principi della Convenzione, che la legge n. 119 del 2013 ha introdotto profonde modifiche processuali a tutela della vittima, riconducibili essenzialmente a tre filoni: quello informativo, quello delle misure cautelari personali e quello riferibile alle modalità di assunzione delle dichiarazioni della persona offesa.

L'obiettivo che si è perseguito è stato duplice: da un lato quello di rafforzare gli strumenti repressivi, secondo un disegno che tenga specificamente conto delle caratteristiche delle violenze di genere. Dall'altro si è cercato di migliorare gli strumenti volti a tutelare la vittima.

Questo ha significato non tanto il varo di nuove fattispecie, quanto la creazione di apposite circostanze aggravanti volte a tutelare le persone vulnerabili (donne e minori in particolare) contro i fenomeni di violenza.

Con l'approvazione della legge contro la violenza sulle donne, per la prima volta abbiamo definito con chiarezza la centralità e la peculiarità della violenza compiuta entro le mura domestiche da chi ha vincoli familiari o affettivi con la persona colpita.

Un risultato che reputo particolarmente importante, non solo per le donne, ma per la coscienza civile del Paese.

Si è cercato inoltre di sostenere le donne e i minori coinvolti nella fase processuale, assegnando loro un protagonismo finora inedito: modalità protette nei processi per le testimonianze, gratuito patrocinio a spese dello Stato, dovere di comunicare del giudice rispetto alle modifiche delle misure cautelari, processi più rapidi e l'estensione del permesso di soggiorno alle donne straniere vittime di violenza domestica slegato dal permesso del marito, irrevocabilità della querela per le situazioni particolarmente gravi di stalking; infine la consapevolezza dell'importanza del capitolo della prevenzione, che dovrà essere applicato, finanziato e adeguatamente potenziato.

Permettetemi di ricordare che il provvedimento (approvato da questo Parlamento) prevede nello specifico:

- un'aggravante per i delitti contro la vita e l'incolumità individuale, contro la libertà personale nonché per i maltrattamenti in famiglia, da applicare se i fatti sono commessi in danno o in presenza di minori;

- la modifica del reato di atti persecutori (art. 612-bis, c.d. stalking), con particolare riferimento al regime della querela di parte: la querela è irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate e aggravate, in tutti gli altri casi, comunque, una volta presentata la querela, la rimessione potrà avvenire soltanto in sede processuale. Il delitto resta perseguibile d'ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d'ufficio;

- di poter disporre intercettazioni quando si indaga per stalking;

- la misura di prevenzione dell'ammonimento del questore anche per condotte di violenza domestica, sulla falsariga di quanto già previsto per il reato di stalking;

- l'allontanamento - anche d'urgenza - dalla casa familiare e l'arresto obbligatorio in flagranza dell'autore delle violenze.

- specifici obblighi di comunicazione da parte dell'autorità e della polizia giudiziaria alla persona offesa dai reati di stalking e maltrattamenti in ambito familiare nonché modalità protette di assunzione della prova e della testimonianza di minori e di adulti particolarmente vulnerabili;

- l'inserimento dei reati di maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale e stalking tra quelli che hanno priorità assoluta nella formazione dei ruoli d'udienza;

- l'estensione del gratuito patrocinio anche in deroga ai limiti di reddito alle vittime dei reati di stalking, maltrattamenti in famiglia e mutilazioni genitali femminili;

- l'elaborazione di un Piano straordinario contro la violenza sessuale e di genere, per il quale è sono già state previste apposite risorse nelle passate leggi finanziarie, prevedendo azioni a sostegno delle donne vittime di violenza, con lo scopo di affrontare in modo organico e in sinergia con i principali attori coinvolti a livello sia centrale che territoriale il fenomeno della violenza contro le donne.

Vorrei inoltre ricordare che nell'ultimo triennio siamo intervenuti sul piano cautelare, creando appositi filtri fra accusato e offeso, nelle ipotesi in cui la vita e l'incolumità della vittima possano essere poste a repentaglio dalla libertà dell'imputato.

La legge di bilancio 2017 ha inoltre destinato all'indennizzo delle vittime dei reati intenzionali violenti contro la persona le somme dovute a titolo di sanzione pecuniaria civile, le quali, anziché essere devolute alla Cassa delle ammende, confluiranno nel Fondo di rotazione, per la specifica destinazione all'indennizzo delle vittime dei reati intenzionali violenti.

La legge europea 2015-2016 ha poi dato attuazione alla direttiva 2004/80/CE, in materia di indennizzo in favore delle vittime di reati intenzionali violenti, ponendo fine alla procedura di infrazione avviata dalla Commissione europea per il non corretto recepimento della direttiva (C-601/14).

Vorrei non essere fraintesa, questo non significa in alcun modo che il problema della violenza di genere sia stato risolto o che non sia attuale. Mi sono permessa di ricapitolare alcune misure importanti approvate nel corso di questa legislatura esclusivamente per ricordare a tutti noi che non partiamo da zero ma che anzi con molta fatica siamo riusciti a delineare una strada molto precisa sulla quale inserire e potenziare gli strumenti normativi e finanziari a disposizione del nostro Paese per contrastare la violenza di genere.

Un percorso che credo debba essere condiviso con il più ampio numero possibile di forze parlamentari - oltre che con le altre istituzioni e soggetti direttamente e quotidianamente coinvolti nella prevenzione e nel contrasto della violenza di genere.

Occorre poi proseguire e concretizzare alcune misure già approvate negli scorsi mesi da quest'aula. Innanzitutto penso sia fondamentale procedere con la definizione delle linee guida, previste dall'art. 1, commi 790 e 791, della legge n. 208 del 28 dicembre 2015 per rendere operativo a livello nazionale il percorso di protezione denominato “Percorso di tutela delle vittime di violenza, con la finalità di tutelare le persone vulnerabili vittime della altrui violenza, con particolare riferimento alle vittime di violenza sessuale, maltrattamenti o atti persecutori (stalking). Un percorso che ha già trovato attuazione in alcune regioni del nostro Paese attestandosi come una “buona pratica” riconosciuta nella prevenzione, nel contrasto e nell'emersione della violenza di genere. In Toscana, terra in cui nasce ha consentito risultati straordinari sul piano dell'emersione, la piaga più grande se consideriamo che, il 23,5% delle donne non parla con alcuno della violenza subìta dai partner precedenti, quota che aumenta al 39,9% nelle violenze da partner attuale. Lo fanno prevalentemente con amici (35%), familiari (33,7%) o altri parenti (11,2%), ma anche con carabinieri, polizia, avvocati o magistrati (6,7%), colleghi o superiori (1,5%), medici o infermieri (1,4%), operatori del pronto soccorso (1,2%), assistenti sociali (1,1%). Inoltre il 3,7% si è rivolta a un centro antiviolenza o a un servizio per il supporto delle donne e il 12,3% ha denunciato la violenza alle forze dell'ordine. Tra le donne che hanno subìto violenza, tuttavia, il 12,8% non sapeva dell'esistenza dei centri antiviolenza o dei servizi o sportelli di supporto per le vittime. Soltanto il 35,4% delle donne che hanno subìto violenza fisica o sessuale nel corso della vita ritiene di essere vittima di un reato, il 44% sostiene che si è trattato di qualcosa di sbagliato ma non di un reato, mentre il 19,4% considera la violenza solo qualcosa che è accaduto

In secondo luogo - come ho già avuto modo di affermare a più riprese – bisogna procedere con l'approvazione definitiva del disegno di legge recentemente approvato dalla Camera - e ora all'esame del Senato - volto a rafforzare le tutele per i figli rimasti orfani a seguito di un crimine domestico, che riconosce tutele processuali ed economiche ai figli minorenni e maggiorenni economicamente non autosufficienti della vittima di un omicidio commesso dal coniuge, anche legalmente separato o divorziato; dalla parte dell'unione civile, anche se l'unione è cessata; da una persona che è o è stata legata da relazione affettiva e stabile convivenza con la vittima. Il provvedimento contiene inoltre una, a mio avviso importantissima, modifica del codice penale intervenendo sull'omicidio aggravato dalle relazioni personali, di cui all'art. 577 c.p. che, rispetto alla norma vigente, che punisce l'uxoricidio (omicidio del coniuge) con la reclusione da 24 a 30 anni (la pena base per l'omicidio non può essere inferiore a 21 anni di reclusione), il provvedimento aumenta la pena ed estende il campo d'applicazione della norma. Modificando l'art. 577 c.p., infatti, è prevista la pena dell'ergastolo se vittima del reato di omicidio è il coniuge, anche legalmente separato; la parte dell'unione civile; la persona legata all'omicida da stabile relazione affettiva e con esso stabilmente convivente. Il provvedimento equipara la pena per l'uxoricidio e ne estende l'applicazione al rapporto di unione civile e alla convivenza, prevedendo l'ergastolo in caso di attualità del legame personale. Questa norma ha profonda valenza culturale, archivia definitivamente la cultura del delitto d'onore che ‘proteggeva' il coniuge impedendogli l'accesso all'aggravante. E' una norma essenziale per colpire il femminicidio, per questo non possiamo che augurarci che il Senato approvi rapidamente e Forza Italia riveda la propria posizione contraria, dato che qui alla Camera il provvedimento è uscito, lo ricordo, all'unanimità.

Credo sia poi opportuno richiamare anche la proposta di legge sul regime di procedibilità del delitto di atti sessuali con minorenne, già approvata dalla Camera e ora all'esame del Senato, la cui finalità è quella di assicurare una più completa tutela ai minori vittime di abusi sessuali; a ben vedere, infatti, quando la vittima del reato di atti sessuali è un minore di età compresa tra 10 e 14 anni, il delitto è procedibile a querela, con tutte le difficoltà ed i ritardi connessi all'esercizio del diritto di querela da parte di un minorenne.

Altra questione da affrontare al più presto e sulla quale stiamo lavorando insieme ai colleghi della Commissione Giustizia, è quella relativa la limitazione dell'accesso al rito abbreviato - con il conseguente sconto di pena - per i colpevoli di reati gravi puniti con l'ergastolo. Molti, troppi, sono i casi di femminicidio o violenze che si sono risolti con pene molto ridotte in virtù del rito scelto dagli imputati.

La ricerca di un migliore equilibrio tra i diritti delle vittime e le garanzie dell'imputato, credo rappresenterà un altro campo fondamentale di confronto parlamentare.

Come avrete potuto notare si tratta, per la quasi totalità, di misure già approvate da quest'aula e sulle quali ci siamo già ampiamente confrontati.

Per questa ragione credo si debba concentrare il nostro sforzo per cercare di terminare questa legislatura con un quadro normativo ampiamente rafforzato per quanto riguarda la tutela delle vittime di violenza ed il contrasto di quest'ultima.

Le condizioni per farlo sono:

1) il venir meno di logiche di appartenenza: la violenza è battaglia di tutti, battaglia di civiltà e crescita di un paese. Questo testimoniano le conquiste legislative che abbiamo dietro le spalle.

2) Farne non più una battaglia di donne, ma di tutti. Donne e soprattutto uomini, perché il cambiamento riguarda soprattutto loro.

È vero la cronaca mette continuamente sotto gli occhi casi drammatici, ma dobbiamo registrare anche reazioni importanti. La battaglia contro l'hate speech e il sessismo, e da ultimo l'onda delle denunce di molestie in seguito al caso Weisman. Il racconto di tante donne, nel nostro paese come altrove, è un racconto che restituisce un quadro triste. Ma è anche il segno di una reazione, di una reazione che si è imposta e nessuno ha più potuto negarne l'entità. Quest'onda deve trovare una sponda nelle istituzioni, nella politica, solo così si possono fare passi avanti significativi, per la vita delle donne e per l'equilibrio civile di tutto il Paese.

TESTI DEGLI INTERVENTI DI CUI È STATA AUTORIZZATA LA PUBBLICAZIONE IN CALCE AL RESOCONTO STENOGRAFICO DELLA SEDUTA ODIERNA: GIUSEPPE ROMANINI (A.C. 4522)

GIUSEPPE ROMANINI, Relatore. (Relazione - A.C. 4522). Presidente, Onorevoli colleghi, l'Assemblea della Camera inizia oggi l'esame di un provvedimento che fornisce una sistemazione giuridica a quelle diverse ed eterogenee situazioni giuridiche legate al godimento da parte di una determinata collettività di specifiche estensioni di terreno (di proprietà sia pubblica che privata) abitualmente riservata ad un uso agrosilvopastorale.

Il provvedimento istituisce la figura giuridica dei domini collettivi intesi come ordinamento giuridico in cui si organizzano le comunità alle quali afferiscono i beni di proprietà collettiva e i beni gravati da diritti di uso civico.

Con il termine domini collettivi si intende riferirsi ad una situazione giuridica in cui una data estensione di terreno è di proprietà di una collettività determinata, per modo che solo chi fa parte di quella collettività può trarre utilità da quel bene, indipendentemente dal fatto che lo stesso possa essere sfruttato individualmente o congiuntamente tra tutti gli aventi diritto,

Trae la propria origine da una storia millenaria di consuetudini (già nella Tavola di Polcevera del 117 a.C. il Senato di Roma tratta di una controversia su questi Beni di una comunità ligure) poi cristallizzate in Laudi e Statuti per lo più nel corso del Medioevo e giunti così, pressoché integri, fino ai giorni nostri.

Il dominio collettivo è una situazione giuridica antitetica rispetto a quella della proprietà privata individuale e non è riducibile allo schema della comproprietà.

La proprietà privata individuale implica nel titolare il diritto di godere e disporre del bene in modo pieno e assoluto. Quando invece uno stesso bene si trova nella comproprietà di più soggetti, si produce per il nostro ordinamento una situazione fragile, poiché ciascun comproprietario ha il diritto unilaterale e potestativo di chiederne lo scioglimento, ottenendo di essere proprietario esclusivo di una frazione del bene, o del suo equivalente.

Il dominio collettivo implica, al contrario, per ogni singolo partecipante, solo il diritto di usare della cosa, secondo i termini consuetudinari che caratterizzano quella singola situazione. Al contrario della comproprietà, è una situazione permanente e duratura: i partecipanti non possono, neanche per accordo unanime, vendere a terzi i beni che costituiscono l'oggetto del loro diritto, né dividerli tra loro.

La proprietà collettiva presenta così caratteri di affinità tanto con la proprietà privata, quanto con la proprietà pubblica, oltre a una caratteristica che la rende diversa da entrambe.

Il dominio collettivo è affine alla proprietà privata nell'intensità dei poteri proprietari: il soggetto proprietario gode del bene in esclusività. Risulta poi affine alla proprietà pubblica per il vincolo teleologico che la distingue: i beni non possono essere utilizzati in modo tale da sottrarre il godimento ai singoli membri della comunità. È diversa da entrambe queste situazioni proprietarie per la sua assoluta indisponibilità: la proprietà collettiva non può essere alienata, non può essere espropriata, non può essere usucapita e non può essere neanche data in garanzia (Art.12 L.16 giugno 1927, n. 1766).

Da qui una serie di problemi nella gestione della proprietà collettiva, cui il progetto di legge intende porre rimedio attraverso l'adozione di un regime uniforme per il riconoscimento di personalità giuridica alla proprietà collettiva.

Non esiste infatti, allo stato attuale una definizione normativa dei "domini collettivi". Fino ad oggi essi sono stati considerati come patrimonio dei beni oggetto del diritto ad uso civico.

Storicamente - come ricorda la Cassazione nella sentenza n. 19792 del 28 settembre 2011- la funzione dei diritti ad uso civico era quella di fornire un sostentamento vitale alle popolazioni, in un momento storico nel quale la terra rappresentava l'unico elemento dal quale quelle potevano ricavare i prodotti necessari per la sopravvivenza; e si ricollegava, per ragioni storiche, sostanzialmente alla difficoltà, in larghe parti del territorio italiano, di ricostruire una personalità dell'ente collettivo che fosse distinta da quella dei suoi appartenenti, tanto che costoro potevano mantenere una sorta di diritto, sia pure limitato in quanto destinato a particolari esigenze, sui beni collettivi o comuni, talvolta ricondotto a figure prossime alla comunione.

I beni gravati da uso civico sono stati sovente ricostruiti come terre in dominio collettivo, la cui negoziazione e circolazione presupponeva l'assenso di tutti i cives, talvolta perfino fondata sul malagevole criterio dell'unanimità, nel senso cioè che nessun membro della collettività civica nel momento negoziale poteva mancare, né essere di contrario avviso, affinché la popolazione non si privasse dei suoi secolari diritti senza un'apprezzabile contropartita: non veniva riconosciuta al Comune o all'associazione agraria una rappresentanza negoziale della collettività, ma soltanto la qualificazione di centro d'imputazione per il godimento collettivo delle terre e per l'inizio di determinate procedure tutte intese alla conservazione degli usi civici.

Allo stato attuale, i domini collettivi appartengono a una di queste due situazioni:

a) proprietà già dotate di una personalità giuridica derivante da antiche consuetudini e riconosciuta da precedenti leggi dello Stato, come la L. n. 397 del 1894;

b) proprietà non dotate di una personalità giuridica, perché frutto della concentrazione di diritti collettivi effettuata all'esito della legge numero 1766 del 1927 e che oggi appartengono formalmente al patrimonio indisponibile dei comuni.

Il disegno di legge intende allora uniformare il regime giuridico delle proprietà collettive appartenenti al primo tipo e estenderlo a quelle del secondo tipo, onde consentire a queste proprietà di potere essere convenientemente gestite e avere certezza nei rapporti giuridici con i terzi, privati come pubblici.

Gli enti gestori dei Domini Collettivi, pur nella molteplicità di nomi attraverso cui si contraddistinguono (Comunioni Familiari Montane, Comunalie, Consorzi di Utenti. Università agrarie, Beni sociali, Vicinie, Regole, Comunelle, Partecipanze agrarie. Società di antichi originari, Jus, Consorterie, Ademprivi, ASUC, ASBUC, Frazioni ecc.), sono riassumibili a tre elementi necessari:

1) la comunità, una pluralità di persone fisiche legate fra loro da un vincolo agnatizio oppure individuata sulla base dell'incolato e considerata non solo come destinataria delle utilità del fondo, ma come pluralità di soggetti titolati chiamati a gestire collettivamente il patrimonio civico secondo regole consuetudinarie per preservare il godimento dei beni stessi alle future generazioni di utenti;

2) la terra di collettivo godimento, che va riguardata come un ecosistema completo con una propria individualità, un patrimonio non solo economico, ma naturale e culturale, comprendente tutte le componenti naturali ed antropiche, dal suolo, con i connessi miglioramenti, al sottosuolo, alle acque superficiali e sotterranee e più in generale al paesaggio;

3) l'elemento teleologico, ossia lo scopo istituzionale, diverso e trascendente rispetto agli interessi individuali delle singole persone fisiche che compongono la comunità.

Solo in taluni casi il patrimonio collettivo viene gestito da un ente dotato di personalità giuridica. Quando ciò accade, questo è formalmente titolare nei rapporti con i terzi di beni la cui proprietà sostanziale spetta agli associati nei confronti dei quali funge solo da amministratore.

In assenza di un ente dotato di personalità giuridica privata il bene è amministrato dalla amministrazione comunale ed è questa la situazione più diffusa in Italia, specie nel centro sud e nelle isole.

In base all'ultimo censimento dell'Agricoltura si ricava che dei quasi 17 milioni di ettari di superficie agricola totale in Italia, ben 1,668 milioni di ettari (il 9,77%) risulta appartenere a "Comunanze, Università Agrarie, Regole o Comune che gestisce le Proprietà Collettive".

Quanto al contenuto del provvedimento, l'articolo 1, comma 1, riconosce i domini collettivi come ordinamento giuridico primario delle comunità originarie.

Le caratteristiche connotative sono esplicitate nelle lettere a), b), c) e d).

I domini collettivi sono soggetti alla Costituzione (lett. a). Sono dotati di capacità di produrre norme vincolanti valevoli sia per l'amministrazione soggettiva e oggettiva, sia per l'amministrazione vincolata e discrezionale (lett. b). Hanno la gestione del patrimonio naturale, economico e culturale che coincide con la base territoriale della proprietà collettiva (lett. c). Si caratterizzano per l'esistenza di una collettività che è proprietaria collettivamente dei beni e che esercita, individualmente o congiuntamente, i diritti di godimento sui terreni sui quali insistono tali diritti. Il Comune svolge di norma funzioni di amministrazione di tali terreni salvo che la comunità non abbia la proprietà pubblica o collettiva degli stessi (lett. d),

Si prevede, poi, che gli enti esponenziali delle collettività titolari del diritto d'uso civico e della proprietà collettiva abbiano personalità giuridica di diritto privato ed autonomia statutaria.

L'articolo 2 riconosce come compito della Repubblica quello di valorizzare i beni collettivi di godimento in quanto: fondamentali per lo sviluppo delle collettività locali; strumentali per la tutela del patrimonio ambientale nazionale; insistenti su territori che hanno costituito la base di istituzioni storiche finalizzate alla salvaguardia del patrimonio culturale e naturale degli stessi territori; fondativi di strutture eco-paesisitiche del paesaggio agro-silvo-pastorale nazionale; patrimonio di risorse rinnovabili da utilizzare a favore della collettività degli aventi diritto (comma 1).

La Repubblica riconosce e tutela i diritti di uso e di gestione collettivi preesistenti allo costituzione dello Stato italiano. Sono, altresì, riconosciute le comunioni familiari esistenti nei territori montani le quali mantengono il diritto a godere e a gestire i beni in esame conformemente a quanto previsto negli statuti e nelle consuetudini loro riguardanti.

Un diritto sulle terre di collettivo godimento sussiste quando: esso ha ad oggetto lo sfruttamento del fondo dal quale ricavare una qualche utilità; è riservato ai componenti della collettività, salvo diversa decisione dell'ente collettivo.

L'articolo 3 definisce i beni collettivi (comma 1) che costituiscono il patrimonio civico (comma 2) prevedendo che essi siano inalienabili, indivisibili, inusucapibili e a perpetua destinazione agro-silvo-pastorale (comma 3). Su tali beni è inoltre imposto il vincolo paesaggistico (comma 6). In particolare, il comma 1 qualifica i seguenti beni come beni collettivi. Esse sono: le terre di originaria proprietà collettiva della generalità degli abitanti del territorio di un comune o di una frazione, imputate o possedute da comuni, frazioni o associazioni agrarie comunque denominate (lett. a) le terre, con le costruzioni di pertinenza, assegnate in proprietà collettiva agli abitanti di un comune o di una frazione, a seguito della liquidazione dei diritti di uso civico e di qualsiasi altro diritto di promiscuo godimento esercitato su terre di soggetti pubblici e privati (lett. b);

le terre derivanti da scioglimento delle promiscuità ai sensi dell'art. 8 della legge n. 1766 del 1927, sul riordinamento degli usi civici. Il riferimento è alla disposizione che ha sciolto senza compenso tutte le comunioni per servitù reciproche e per condominio attribuendo a ciascun Comune o a ciascuna frazione una parte delle terre in piena proprietà, corrispondente in valore all'entità ed estensione dei reciproci diritti sulle terre, tenuto conto della popolazione, del numero degli animali mandati a pascolare e dei bisogni di ciascun Comune e di ciascuna frazione (Cass., sent. n. 10748 del 1992, ha riconosciuto in materia una soggettività diversa della frazione da quella dell'ente di appartenenza ed autonomamente esercitabile);

-le terre derivanti da conciliazioni nelle materie regolate dalla predetta legge n. 1766 del 1927 (lett. c) che ha previsto la possibilità, in ogni fase del procedimento di liquidazione degli usi civici, di promuovere un esperimento di conciliazione, sia per iniziativa del commissario, sia per richiesta delle parti. le quali, per questo oggetto, potranno farsi rappresentare da persona di loro fiducia munita di speciale mandato le terre derivanti dallo scioglimento di associazioni agrarie (lett. c), ovverosia le "associazioni di cui alla le gen. 397 del 1894", il cui elenco indica a titolo esemplificativo le Università Agrarie del Lazio, ricomprendendo, però, tutte le Associazioni od Università agrarie d'Italia;

-le terre derivanti dall'acquisto ai sensi dell'articolo 22 della medesima legge n. 1766 del 1927 e dell'articolo 9 della legge 3 dicembre 1971, n. 1102 (lett. e); Il riferimento all'art. 22 della legge del 1927 richiama la possibilità, in caso di terreni poco estesi e con necessità di divisione tra più famiglie, di aumentare la massa da dividere, consentendo a Comuni e associazioni di fruire delle agevolazioni per l'acquisto di nuovi terreni. L'art. 9 della legge del 1971, invece, prevede che le Regioni, le Comunità montane e i comuni possano acquistare ed espropriare terreni compresi nei rispettivi territori montani non più utilizzati a coltura agraria o nudi o cespugliati o anche parzialmente boscati per destinarli alla formazione di boschi. prati, pascoli o riserve naturali.

-le terre derivanti da operazioni e provvedimenti di liquidazione o da estinzione di usi civici (lett. e);

le terre derivanti da permuta o da donazione (lett. c);

-le terre di proprietà di soggetti pubblici o privati, su cui i residenti del comune e della frazione esercitano usi civici non ancora liquidati (lett. d). Tutti i beni richiamati, con la sola eccezione delle terre di proprietà pubblica o privata sulle quali gli usi civici non siano stati ancora liquidati (lett. d), costituiscono il patrimonio antico dell'ente collettivo, detto anche patrimonio civico o demanio civico. L'utilizzazione di tale patrimonio dovrà essere effettuata in conformità alla destinazione dei beni e secondo le regole d'uso stabilite dal dominio collettivo (comma 5).

I coltimi 3 e 6 definiscono il regime giuridico dei beni collettivi prevedendo: l'inalienabilità; l'indivisibilità; l'inusucapibilità; la perpetua destinazione agro-silvo-pastorale; la loro sottoposizione a vincolo paesaggistico.

Ricordo in proposito che l'art. 142 del Codice dei beni culturali (D. Lgs. n. 42 del 2004), appositamente richiamato, prevede infatti che siano di interesse paesaggistico e sottoposti alla disciplina della tutela e valorizzazione dei beni paesaggistici, «le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici» (comma 1, lett. h). Il provvedimento precisa che, con l'imposizione del vincolo paesaggistico sulle zone gravate da usi civici, l'ordinamento giuridico garantisce l'interesse della collettività generale alla conservazione degli usi civici per contribuire alla salvaguardia dell'ambiente e del paesaggio. Inoltre, la proposta di legge precisa che il vincolo è mantenuto sulle terre anche in caso di liquidazione degli usi civici. Anche in questo caso si valuti se la disposizione debba valere esclusivamente per i beni che, a seguito di liquidazione, siano stati assegnati all'ente collettivo.

Il comma 4 stabilisce che, in relazione alle proprietà collettive di organizzazioni montane, anche unite in comunanze, comunque denominate, ivi comprese le comunioni familiari montane e le regole cadorine, sono fatte salve le previsioni dell'art. 11, terzo comma, della legge n. 1102/1971.

Il primo comma di tale disposizione stabilisce l'inalienabilità, indivisibilità e vincolatività delle attività agro-si Ivo-pastorali come patrimonio antico delle comunioni, trascritto o intavolato nei libri fondiari.

Il riferimento alla salvezza delle previsioni del terzo comma dell'art. 11 è alla possibilità di libera contrattazione dei soli beni acquistati dalle comunioni montane dopo il 1952; per tutti gli altri beni la legge regionale determinerà limiti, condizioni, controlli intesi a consentire la concessione temporanea di usi diversi dai forestali, che dovranno comunque essere autorizzati anche dall'autorità forestale della regione.

Il comma 7 prevede che, entro un anno dall'entrata in vigore della legge in esame - nell'ambito del riordino della disciplina delle comunità montane di cui al comma 4 - le regioni debbano, nel rispetto degli statuti di tali organizzazioni, esercitare le competenze loro attribuite dalla legge 97 del 1994 (art. 3, comma 1, lett. b) nn. da 1 a 4) cioè disciplinare con legge i profili relativi ai seguenti punti:

1) le condizioni per poter autorizzare una destinazione, caso per caso, di beni comuni ad attività diverse da quelle agro-si Ivo-pastorali, assicurando comunque al patrimonio antico la primitiva consistenza agro-silvo-pastorale compreso l'eventuale maggior valore che ne derivasse dalla diversa destinazione dei beni;

2) le garanzie di partecipazione alla gestione comune dei rappresentanti liberamente scelti dalle famiglie originarie stabilmente stanziate sul territorio sede dell'organizzazione, in carenza di norme di autocontrollo fissate dalle organizzazioni, anche associate;

3) forme specifiche di pubblicità dei patrimoni collettivi vincolati, con annotazioni nel registro dei beni immobili, nonché degli elenchi e delle deliberazioni concernenti i nuclei familiari e gli utenti aventi diritto, ferme restando le forme di controllo e di garanzie interne a tali organizzazioni, singole o associate:

4) le modalità e i limiti del coordinamento tra organizzazioni, comuni e comunità montane, garantendo appropriate forme sostitutive di gestione, preferibilmente consortile, dei beni in proprietà collettiva in caso di inerzia o impossibilità di funzionamento delle organizzazioni stesse, nonché garanzie del loro coinvolgimento nelle scelte urbanistiche e di sviluppo locale e nei procedimenti avviati per la gestione forestale e ambientale e per la promozione della cultura locale.

Decorso il citato termine annuale, ai citati adempimenti provvedono con atti amministrativi - poi resi esecutivi con deliberazione della Giunta regionale - gli enti esponenziali delle collettività titolari sul territorio dei ben collettivi.

Il comma 7 stabilisce, infine, l'abrogazione della norma transitoria di cui al comma 2 dell'art. 3 della citata legge del 1994 che prevede che, fino alla data di entrata in vigore delle norme regionali indicate al comma 1, continuano ad applicarsi le norme vigenti alla data di entrata in vigore della stessa legge 97/1994, in quanto con essa compatibili.

II comma 8 stabilisce che nell'assegnazione di terre-beni collettivi ai sensi della legge in esame, gli enti esponenziali delle collettività debbano dare priorità ai giovani agricoltori, come definiti a sensi della normativa UE.

Il provvedimento è stato esaminato dalla XIII Commissione Agricoltura dopo essere stato esaminato dal Senato in prima lettura.

Nel corso dell'esame in sede referente è stata svolta l'audizione dei rappresentanti della Consulta nazionale della proprietà collettiva, della Comunanza agraria dell'Appennino gualdese e dell'Associazione per la tutela delle proprietà collettive e dei diritti di uso civico (APRODUC), nonché del Prof. Pietro Nervi.

Nella seduta del 18 luglio 2017 sono state esaminate le proposte emendative presentate. Nessuna modifica al testo è stata approvata.

Nella seduta del 12 ottobre 2017 è stato votato il mandato al relatore a riferire favorevolmente in Aula.

La Il Commissione Giustizia, la VI Commissione Finanze, la VIII Commissione Ambiente e la XIV Commissione politiche dell'Unione europea hanno espresso parere favorevole.

Il Comitato pareri della I Commissione ha espresso parere favorevole chiedendo alla Commissione di merito con un'osservazione di valutare l'opportunità di quanto contenuto nell'articolo 3, comma 7, rispetto a quanto previsto dall'articolo 120 della Costituzione.

La stessa osservazione è stata espressa dalla Commissione parlamentare per le questioni regionali. Dalle premesse dei pareri si evince come il potere sostitutivo attribuito in capo agli enti esponenziali delle collettività in caso di inerzia delle regioni potrebbe confliggere con il profilo pubblicistico delle competenze in questione.

La XIII Commissione non ha ritenuto di dare seguito a tale osservazione in quanto la modifica di tale parte del testo avrebbe potuto rendere incerta l'approvazione definitiva del provvedimento causa l'avvicinarsi della scadenza naturale della Legislatura. E' stato, inoltre, considerato come l'attribuzione di poteri e funzioni agli enti esponenziali delle collettività trova un preciso riferimento costituzionale nell'articolo 118, quarto comma della Costituzione che ha riconosciuto il principio di sussidiarietà orizzontale, laddove ha previsto che Stato, regioni, Città metropolitane, province e comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.

Da qui si fa discendere la capacità di autonormazione e di amministrazione delle collettività organizzate di cittadini nello svolgere un'attività di interesse generale, quale quella della valorizzazione dei propri beni a fini ambientali. La disciplina della gestione dei beni civici trova la propria fonte naturale nello statuto dell'associazione dei titolari dei beni civici. Secondo quanto riportato da autorevole dottrina (Germanò e Basile, Terre civiche e proprietà collettive, in Rivista di diritto agrario n.1, 2006) "le associazioni dei titolari dei beni civici rappresentano il rispettivo territorio e le regole che esprimono non sono dirette a realizzare interessi loro particolari, ma interessi del territorio. Sicché il territorio impone "regole" attraverso la voce e l'opera dei beni."

La V Commissione Bilancio si è riservata di esprimere il prescritto parere nel corso dell'esame in Assemblea.