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Resoconto dell'Assemblea

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XVII LEGISLATURA


Resoconto stenografico dell'Assemblea

Seduta n. 629 di lunedì 23 maggio 2016

Pag. 1

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE LUIGI DI MAIO

  La seduta comincia alle 12.

  PRESIDENTE. La seduta è aperta.
  Invito la deputata segretaria a dare lettura del processo verbale della seduta precedente.

  ANNA MARGHERITA MIOTTO, Segretaria, legge il processo verbale della seduta del 20 maggio 2016.

  PRESIDENTE. Se non vi sono osservazioni, il processo verbale si intende approvato.
  (È approvato).

Missioni.

  PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del Regolamento, i deputati Angelino Alfano, Gioacchino Alfano, Amendola, Amici, Attaguile, Baldelli, Bellanova, Bernardo, Dorina Bianchi, Bindi, Biondelli, Bobba, Bocci, Bonifazi, Michele Bordo, Borletti Dell'Acqua, Boschi, Matteo Bragantini, Brambilla, Bratti, Bressa, Brunetta, Bueno, Caparini, Capelli, Carbone, Casero, Castiglione, Antimo Cesaro, Cicchitto, Costa, D'Alia, D'Uva, Dambruoso, De Micheli, Del Basso De Caro, Del Grosso, Dell'Orco, Dellai, Di Gioia, Fava, Fedriga, Ferranti, Fico, Fioroni, Gregorio Fontana, Fontanelli, Franceschini, Galati, Garavini, Garofani, Gelli, Giacomelli, Giancarlo Giorgetti, Gozi, La Russa, Locatelli, Lorenzin, Losacco, Lotti, Lupi, Madia, Manciulli, Marazziti, Merlo, Migliore, Nicoletti, Orlando, Paris, Pes, Gianluca Pini, Pisicchio, Prestigiacomo, Quartapelle Procopio, Rampelli, Ravetto, Realacci, Rigoni, Rosato, Rughetti, Domenico Rossi, Sanga, Sani, Scotto, Tabacci, Velo, Vignali e Zanetti sono in missione a decorrere dalla seduta odierna.
  I deputati in missione sono complessivamente novantadue, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell’allegato A al resoconto della seduta odierna (Ulteriori comunicazioni all'Assemblea saranno pubblicate nell’allegato A al resoconto della seduta odierna).

Discussione del disegno di legge: S. 2299 – Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 29 marzo 2016, n. 42, recante disposizioni urgenti in materia di funzionalità del sistema scolastico e della ricerca (Approvato dal Senato) (A.C. 3822) (ore 12,05).

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge, già approvato dal Senato, n. 3822: Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 29 marzo 2016, n. 42, recante disposizioni urgenti in materia di funzionalità del sistema scolastico e della ricerca.

(Discussione sulle linee generali – A.C. 3822)

  PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.Pag. 2
  Avverto che il presidente del gruppo parlamentare MoVimento 5 Stelle ne ha chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del Regolamento.
  Avverto, altresì, che la VII Commissione (Cultura) si intende autorizzata a riferire oralmente.
  Ha facoltà di intervenire la relatrice per la maggioranza, deputata Anna Ascani.

  ANNA ASCANI, Relatrice per la maggioranza. Grazie, Presidente. Onorevoli colleghi, il decreto che ci apprestiamo a discutere è un decreto molto complesso, per questo, pur non essendoci abituata, leggerò una relazione, riservandomi ovviamente qualche commento a margine, perché ci sono tanti argomenti diversi, anche dovuti all'esame che si è tenuto al Senato sul decreto-legge n. 42 del 2016, che oggi ci avviamo a convertire in legge, e che si è concluso il 12 maggio scorso al Senato.
  L'obiettivo di questo decreto è quello di migliorare la funzionalità del sistema scolastico e della ricerca e cercherò, in questo senso, di dare credito a questa affermazione nello spiegare cosa contiene. Come fatto in Commissione, per completezza illustrerò prima il contenuto degli articoli che riguardano il disegno di legge di conversione, ovvero la parte di delega che era presente nella cosiddetta «Buona scuola» e le modifiche contenute all'interno di questo decreto, per concentrarmi poi, invece, sulle disposizioni del decreto-legge, cioè su quelle che riguardano, da un lato, il sistema scolastico, dall'altro, il sistema della formazione superiore della ricerca, e, infine, tutte le altre disposizioni che, in particolare, riguardano gli ordinamenti professionali, le prestazioni sociali e gli acquisti culturali.
  Le disposizioni del disegno di legge di conversione intervengono sulla delega in materia di riordino del sistema di formazione iniziale e di accesso nei ruoli di docente della scuola secondaria, cioè su come si entra a scuola dopo l'attuazione della delega prevista, appunto, dalla legge n. 107 del 2015, e intervengono, dall'altro lato, sulla delega in materia di istituzione del sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita fino a sei anni, cioè il cosiddetto 0-6, anch'esso previsto all'interno della «Buona scuola».
  La prima disposizione reca una modifica terminologica e, in particolare, stabilisce che, ai fini della determinazione degli standard nazionali per la valutazione, oltre che al conseguimento del diploma di specializzazione, deve farsi riferimento non al periodo di apprendistato, ma al periodo di tirocinio. In particolare, ci tengo a dire che, nella nostra Commissione si è fatto un lungo dibattito su questo, perché il rischio del fraintendimento nell'utilizzo del termine apprendistato era molto alto, soprattutto nella fase in cui dovremo avere i nuovi contratti dei nuovi insegnanti, e per questo motivo si era già insistito in Commissione, nel corso di diverse discussioni su diverse risoluzioni presentate da vari gruppi politici, affinché si intervenisse con una modifica in questo senso. E quindi esprimo favore nei confronti di questa modifica che interviene attraverso il decreto e che farà sì che il decreto con cui il Governo attuerà la delega che il Parlamento gli ha dato attraverso la legge n. 107 del 2015 risponda a questa particolare esigenza.
  La seconda previsione – che riguarda, come ho detto prima, la fascia 0-6, cioè la prima fascia del percorso di istruzione dei nostri bambini – dispone la definizione dei fabbisogni standard. Questa modifica è necessaria per adeguare il futuro sistema 0-6 alle indicazioni europee ed in particolare a quanto previsto dal Consiglio europeo di Barcellona, che ha fissato al 33 per cento l'obiettivo di copertura del servizio nel segmento 0-3 anni. Quindi, di conseguenza, questa seconda previsione stabilisce l'istituzione di una quota capitaria per il raggiungimento di questi fabbisogni standard e l'approvazione e il finanziamento di un Piano d'azione nazionale per la promozione del Sistema integrato, finalizzato, anche qui, al raggiungimento di questi fabbisogni.
  Di fatto, il decreto che attuerà questa delega finalmente ci darà un nuovo sistema Pag. 3inclusivo e capace di rispondere alle esigenze, da un lato, delle famiglie, che naturalmente sono molto legate alla presenza o meno di questo tipo di servizi sul territorio, ma soprattutto dei bambini, perché cominciamo finalmente a sostenerli, attraverso una compiuta sinergia tra le istituzioni, sin dai primi passi del loro percorso di formazione. Quindi, per noi è importante che questa delega venga attuata bene e presto dal Governo, per rendere finalmente realtà quello che il Parlamento ha previsto attraverso la legge n. 107 del 2015.
  Vengo ora all'illustrazione delle disposizioni contenute, invece, nel decreto-legge, che non riguardano, quindi, le deleghe. Inizio da quelle che intervengono sul sistema scolastico. L'articolo 1 è volto ad assicurare la prosecuzione degli interventi di mantenimento del decoro degli edifici scolastici e lo svolgimento dei servizi di pulizia e ausiliari nelle scuole. In particolare, questo articolo prevede lo stanziamento di 64 milioni di euro per assicurare la prosecuzione del cosiddetto programma «Scuole belle» per il 2016: risorse che si aggiungono ai 450 milioni di euro utilizzati a partire dal luglio del 2014. Io credo che sia difficile anche per i più accaniti detrattori non riconoscere lo sforzo inedito che questo Governo e questo Parlamento hanno portato avanti con costanza in questi due anni e mezzo, dopo troppi anni in cui si era semplicemente ignorata la pessima condizione in cui versavano – e purtroppo in alcuni casi ancora versano – gli edifici scolastici in cui tutti i giorni i nostri insegnanti, i nostri dirigenti e, soprattutto, i nostri bambini e i nostri ragazzi studiano. Credo che questo tipo di sforzo sia decisamente apprezzabile e sia dovuto ad una volontà precisa di questo Parlamento, che trova realizzazione con lo stanziamento di risorse.
  In particolare, il programma «Scuole belle» solo nel 2014 ha coinvolto 7.235 scuole, mentre, per il primo semestre del 2015, 5.290 interventi. Non si tratta solo di un programma per assicurare la funzionalità e la manutenzione delle scuole, cioè interventi di manutenzione ordinaria, come la tinteggiatura, la riparazione o la sostituzione di mobili, infissi, eccetera, ma è anche una risposta a una esigenza occupazionale. Sappiamo bene, infatti, come nasce il programma «Scuole belle»: sulla base di un accordo promosso da questo Governo nel marzo del 2014, uno dei primi atti, e all'interno di questo accordo hanno trovato collocazione quasi 18 mila lavoratori, di cui circa 12 mila ex LSU, lavoratori che altrimenti non avrebbero trovato impiego nell'ambito di contratti con le scuole per i servizi di pulizia. In realtà, questo disagio occupazionale ha origini lontane, esattamente con l'avvio del piano di riduzione della spesa per la pulizia delle scuole, voluto già nel 2009 dal Governo Berlusconi, e poi è un percorso molto lungo, che arriva fino alle gare Consip e alla recente pronuncia del Consiglio di Stato del 17 marzo del 2016; un disagio a cui, con questo decreto, si cerca di porre un rimedio, garantendo la continuità dello svolgimento di questi servizi anche nei territori in cui la convenzione-quadro Consip non sia stata attivata o sia sospesa a causa di contenziosi; in particolare, questo è avvenuto in due regioni, uno arrivato a sentenza e uno per il quale ancora ci sono dei problemi. Spetterà, invece, ai dirigenti la competenza di pianificare i vari interventi, coordinandosi con il consiglio d'istituto e gli enti locali, ed insieme ai direttori dei servizi generali e amministrativi nella scuola si dovranno impegnare a seguire i lavori, a ottimizzare il servizio degli ex LSU, a segnalare eventuali inefficienze e lentezze, per evitare di sprecare questa che, comunque, è una grande occasione per la comunità educante.
  Questo decreto, poi, all'articolo 1-bis, estende all'anno scolastico 2016-2017, e quindi ai docenti assunti col piano straordinario della «Buona scuola», la possibilità di richiedere l'assegnazione provvisoria, in deroga al vincolo triennale di permanenza nella provincia, e anche sul contingente annuale di posti non facenti parte dell'organico dell'autonomia. Questa misura, al contrario di quanto si è detto purtroppo in questi giorni, non ha lo Pag. 4scopo e soprattutto non può influenzare il numero di supplenze perché semplicemente, nel caso in cui si decidesse di accedere all'assegnazione provvisoria in deroga, cambia il luogo nel quale eventualmente il supplente viene nominato, mentre quello che succede con questa disposizione è che si amplia di molto l'opportunità di restare o di tornare vicino ai propri cari per i docenti già assunti, problema, anche questo, che era stato sollevato più volte, sia in fase di discussione della legge n. 107, che in fase di prima attuazione, con le assunzioni avvenute nel corso dei primi mesi di questo anno scolastico.
  La disposizione successiva, l'articolo 1-ter, invece proroga dal 31 agosto al 15 settembre 2016 il termine per le assunzioni a tempo indeterminato del personale docente; questa è una disposizione molto importante perché è legata allo svolgimento delle prove concorsuali, quelle che sono in corso in questi mesi, e ci consente, insieme all'attesa – diciamo – della pubblicazione delle graduatorie anche di svolgere e di attendere l'esito del piano straordinario di mobilità previsto per il 2016 e 2017. Quindi, questo piccolo slittamento, evidentemente urgente, aiuta anche una migliore organizzazione dell'anno avvenire, riconoscendo appunto il percorso che si sta facendo attraverso il concorso.
   Un'altra cosa, che è stata introdotta al Senato, e che dà una risposta, che da tempo era chiesta a questo Parlamento (ci sono interrogazioni di diverse forze politiche a questo proposito), è l'assorbimento delle graduatorie di merito per la scuola dell'infanzia del concorso 2012, assorbimento che c'era stato in molte regioni d'Italia con alcune eccezioni; in particolare alcune graduatorie erano state pubblicate in ritardo rispetto ad altre regioni d'Italia.
   Grazie alla mobilità interregionale volontaria si sana questo problema. Ci tengo a sottolineare che comunque il Senato ha previsto una quota del 15 per cento sul 50 per cento di posti spettanti ai vincitori di concorso, così da far sì che i vincitori di questo concorso si distribuiscano tra le regioni che appunto andranno ad assumere nella scuola dell'infanzia e non si concentrino in singole regioni, venendo evidentemente a creare una situazione di disagio per altri.
   Questo non incide minimamente sul concorso a venire perché evidentemente le procedure concorsuali per la scuola dell'infanzia si concluderanno successivamente, mentre quei posti di turnover sarebbero stati comunque coperti attraverso altre procedure; quindi, in questo senso, coloro che in questi mesi svolgeranno il concorso per la scuola dell'infanzia non devono essere preoccupati dal fatto che i vincitori di questo concorso del 2012 possano in qualche modo andare ad incidere sui posti loro destinati.
   Poi, all'articolo 1-quinquies si prevede che, a decorrere dal 2017, sia rifinanziato il Fondo per il sostegno degli alunni con disabilità che frequentano le scuole paritarie. In questo provvedimento è infatti previsto un contributo statale di mille euro per ogni alunno disabile fino a 12,2 milioni di euro annui; uno stanziamento finalizzato a rimediare all'impedimento che di fatto si è purtroppo registrato alla libera scelta da parte delle famiglie con figli disabili rispetto alla tipologia di istituto scolastico cui iscrivere i propri figli.
   Con questa norma quindi superiamo una discriminazione. D'altra parte, però non dobbiamo dimenticare che nella «Buona Scuola», la legge n. 107, il Parlamento ha voluto fortemente inserire una verifica puntuale del mantenimento dei requisiti di parità delle scuole paritarie, di tutte le scuole paritarie ed evidentemente la capacità di inclusione degli alunni con handicap è parte fondamentale della verifica di questi requisiti. Quindi, queste cose comunque vanno nella stessa direzione: si aiutano le scuole paritarie a fare questo tipo di lavoro; dall'altra parte, però si pretende che quei requisiti siano effettivamente mantenuti e garantiti proprio per riconoscere la parità a quelle scuole e quindi per integrarle pienamente – come è previsto dalla legge «Berlinguer» – all'interno del sistema di istruzione.
   All'articolo 1-sexies si introduce un meccanismo per garantire il tempestivo Pag. 5pagamento delle somme spettanti al personale della scuola per incarichi di supplenza breve e saltuaria, in particolare, prevedendo che il pagamento sia effettuato entro il trentesimo giorno successivo all'ultimo giorno del mese di riferimento.
  Sappiamo benissimo che ci sono state molte polemiche fondate sul fatto che questi supplenti spesso venivano pagati in ritardo. In realtà, non è una novità: purtroppo, è stata una costante degli ultimi anni, una costante che meritava una soluzione tempestiva ed urgente.
  In questo senso, si va appunto a rimediare a un problema di cui questo Parlamento, anche attraverso interrogazioni, si era fatto più volte carico. Quindi, speriamo che questa soluzione individuata dal Governo sia la soluzione per far sì che quelle situazioni non si verifichino più.
  Dall'altra parte, si prevede che, in caso questo mancato pagamento derivasse dai dirigenti (che si tratti di dirigenti scolastici, di dirigenti del MIUR o del MEF), da una responsabilità diretta di questi dirigenti, sarà elemento di valutazione di responsabilità dirigenziale e questo è un altro modo di prendersi carico di un problema che evidentemente si era andato a creare.
  Per fare in modo che questo pagamento avvenga il più rapidamente possibile poi si prevede l'attribuzione di un codice identificativo univoco al personale docente e ATA, che appunto svolge questo tipo di supplenze brevi e saltuarie, un codice che rimarrà fino all'eventuale assunzione in ruolo e anche questo dovrebbe appunto aiutare una sistemazione finalmente strutturale di un problema che il Parlamento più volte aveva sottoposto al Governo. Naturalmente, il Parlamento vigilerà per verificare che questo effettivamente avvenga.
  Tra i numerosi altri punti su cui interviene questo provvedimento, all'articolo 2-quater, c’è l'incremento di 8 milioni di euro per il 2016 per i compensi delle commissioni esaminatrici dei concorsi. Anche qui, il Parlamento e anche l'opinione pubblica avevano sollevato la questione del compenso basso dei commissari dei concorsi; di fatto, questa previsione ci consente di raddoppiarlo.
  Poi veniamo alle disposizioni riguardanti invece il sistema della formazione superiore e della ricerca. All'articolo 2, questo provvedimento finanzia la stabilizzazione della scuola sperimentale di dottorato internazionale «Gran Sasso Science Institute», con 3 milioni di euro. Quindi, dopo il parere favorevole dell'ANVUR, questa scuola di eccellenza potrà diventare stabilmente un istituto universitario a ordinamento speciale. Ci tengo a dire alcune cose sul Gran Sasso Science Institute, perché era stato attivato inizialmente, nel dopo terremoto dell'Aquila, in via sperimentale dall'Istituto nazionale di fisica nucleare e dall'Università degli studi dell'Aquila, che si erano posti l'obiettivo di rilanciare lo sviluppo dei territori terremotati dell'Abruzzo, ricostruendo le capacità del sistema scientifico e produttivo.
  L'obiettivo era quello di realizzare un polo di eccellenza internazionale, di valorizzare le competenze delle risorse umane infrastrutturali già esistenti sul territorio, anche per attrarre risorse dall'estero.
  Grazie al provvedimento di cui oggi trattiamo queste intenzioni, dopo la sperimentazione, diventano realtà, quindi si procede alla stabilizzazione e il GSSI può iniziare a reclutare personale, in deroga anche ad altre disposizioni previste per le università, e avviare la propria attività di ricerca, insieme alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati, la SISSA di Trieste, alla Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, aggiungiamo quindi all'offerta formativa italiana un'altra istituzione d'eccellenza, che potrà fregiarsi anche del supporto dell'Istituto nazionale di fisica nucleare.
  Questa previsione però è ancora più importante per quello che ho detto all'inizio, per il luogo in cui GSSI lavora, cioè l'Abruzzo, vicino a L'Aquila, e quindi la capacità di contribuire alla rinascita di quella città, che tanto ha sofferto e tanto ancora sta soffrendo, come del resto la stessa OCSE ci ha suggerito, individuando Pag. 6questa struttura all'interno dei progetti strategici per il risanamento della città terremotata.
   Sempre nell'ambito della formazione e dell'università, con questo decreto si risolve un'altra questione importante, all'articolo 2-bis, cioè quella del blocco dei corsi di specializzazione delle professioni non mediche, un blocco determinato dalla necessità di attendere una definizione organica della materia, che aveva impedito a tanti giovani, laureati magistrali, di potersi specializzare. Vengono finalmente attivate delle disposizioni in deroga, che consentiranno ai futuri veterinari, odontoiatri, farmacisti, biologi, chimici, fisici e psicologi di potersi formare ed esercitare la propria professione.
   Viene infine diminuito il limite minimo dei crediti formativi universitari da riconoscere agli studenti che intendono iscriversi a un corso universitario a conclusione dei percorsi realizzati negli ITS. Nello specifico, la disposizione prevede che da cento si passi a quaranta crediti necessari e, nello specifico, prevede che l'ammontare dei CFU necessari non può essere inferiore a 40 – mi scusi: devo dire «non può essere inferiore», perché questa disposizione fondamentale è scritta in questo modo (poi spiegherò il perché) invece che 100, come prevedeva la disposizione precedente – per i percorsi della durata di quattro mesi, e non può essere inferiore a 62, invece che a 150, per i percorsi della durata di sei semestri. In questo modo si viene incontro alle esigenze delle università che di fronte alle precedenti disposizioni, cioè a quel numero molto alto di crediti, avevano incontrato delle difficoltà nel riconoscimento di percorsi che, invece, il Parlamento ha voluto valorizzare e vuole valorizzare proprio per quell'alto numero di crediti che ho citato. Dall'altra parte, però, dicendo «non inferiore a» il Parlamento ed il Governo – il Governo in questo senso, con l'eventuale accordo del Parlamento – prevedono che non si possa scendere al di sotto di quei crediti nel riconoscimento di quei percorsi, cioè che gli ITS comunque devono avere un riconoscimento minimo da parte delle università nel momento in cui decidono di accedere ad un corso universitario.
  Da ultimo, il decreto contiene alcune disposizioni relative agli ordini professionali, alle prestazioni sociali e agli acquisti culturali (siamo, quindi, all'ultima parte per come le avevo ordinate all'inizio). In particolare, all'articolo 1-septies è previsto un intervento sulla disciplina relativa all'ordinamento professionale dei periti industriali e, in linea con le professioni europee, si innalza il titolo richiesto per esercitare la libera professione. È comunque prevista una disciplina transitoria. Nel corso dell'esame in Commissione è emersa la necessità di utilizzare questo momento di transizione di cinque anni per riordinare complessivamente la materia, in armonia con quanto previsto appunto dalle disposizioni europee.
  Altre disposizioni importanti sono l'estensione della card per i consumi culturali anche ai cittadini extra UE. Si tratta di un impegno che ci eravamo presi anche attraverso degli ordini del giorno, un impegno che in questo caso viene mantenuto ampliando a quasi 25 mila ragazzi, che hanno il permesso di soggiorno, la possibilità di accedere a quella card. Infine, l'esclusione dal calcolo dell'ISEE di ogni trattamento assistenziale, previdenziale e indennitario erogato da enti pubblici, in attesa che, conformemente alla sentenza recente, il Governo si adegui rispetto all'ISEE stesso.
  In definitiva, questo è un altro dei decreti che discutiamo in questo Parlamento non trattando il mondo dell'istruzione e della formazione come un bancomat. Anni e anni abbiamo trascorso – io fuori da questo Parlamento, molti qui dentro – a discutere di come drenare via risorse dal sistema della scuola. Qui di nuovo, invece, le risorse si mettono dentro. Quindi, se è vero che far scuola non è riempire un secchio, ma accendere un fuoco a chi aveva tolto completamente l'ossigeno, qui si cerca di rispondere, invece, mettendo a disposizione della grande comunità educante tutta la legna necessaria. Poi, ovviamente queste riforme camminano Pag. 7sulle gambe dei nostri insegnanti e dei nostri ragazzi e quindi quando è giusto fare delle piccole correzioni, come avviene in parte in questo caso, ovviamente è giusto che il Parlamento ed il Governo si mettano a disposizione di quella comunità perché la scuola funzioni al meglio. Questa riforma può funzionare soltanto attraverso...

  PRESIDENTE. Deve concludere, collega !

  ANNA ASCANI, Relatrice per la maggioranza. Grazie, Presidente. Può funzionare, dicevo, soltanto attraverso questo tipo di collaborazione tra istituzioni e mondo della scuola, tra chi la scuola la fa tutti i giorni.

  PRESIDENTE. Ha facoltà di intervenire il relatore di minoranza, deputato Luigi Gallo.

  LUIGI GALLO, Relatore di minoranza. Grazie, Presidente. Che l'intervento in campo scolastico di questo Governo sul tema dell'istruzione, appunto, fosse pasticciato l'ha detto lo stesso Presidente del Consiglio: «Abbiamo fatto un pasticcio con questo decreto», cioè la legge n. 107 del 2015, quella che ha visto poi una mobilitazione del mondo della scuola che non si era mai vista negli ultimi anni, e questo disegno di legge certificano il pasticcio. Cioè, basta vederlo, leggerlo e certifica che si va a intervenire su una norma approvata nemmeno l'anno scorso e, quindi, si vanno a fare delle modifiche, delle correzioni, che a nostro avviso introducono ulteriori pezze d'appoggio che non certo imbelliscono il disegno di questo Governo nel mondo della scuola.
  Ricordiamo che c’è stato un iter di quella legge, la n. 107 del 2015, che ha previsto in Commissione gli «emendamenti canguro», che facevano decadere tutti gli emendamenti dell'opposizione. Ha previsto un improvviso collegamento al Documento di economia e finanza per avere una votazione a data certa e, quindi, velocizzare l'iter, contro qualsiasi logica di confronto e di ascolto, ed ha visto una fiducia al Senato sul provvedimento che ha eliminato la discussione nell'Aula del Senato. Quindi, è chiaro che, con questi presupposti, ci saremmo trovati poi dinanzi a una normativa raffazzonata – tra l'altro, con un solo articolo e centinaia di commi – che avrebbe definito il nuovo assetto della scuola.
  Quali sono i provvedimenti che in sostanza si sono scritti in questo disegno di legge e sui quali si interviene ? Noi riconosciamo effettivamente, per esempio, nel campo dell'edilizia scolastica lo sforzo del Governo di intervenire in questo settore. A nostro avviso, il Governo non è promosso; non è promosso e deve ripetere gli esami, perché se andiamo sulla specifica norma, che c’è in questo decreto, si fa riferimento a una norma di proroga di appalti, di quello che viene chiamato dal Governo «il piano delle scuole belle» che, in realtà, è un piano che deve mantenere l'appalto ad alcune cooperative e ditte che agiscono nel mondo della scuola.
  La relatrice di maggioranza ha parlato di problema occupazionale. Sì, c’è un problema occupazionale su cui si interviene, ma in realtà questi lavoratori sono in ostaggio delle cooperative, delle ditte, di alcuni sindacati e del Governo, che dal 2001 ha deciso una strada che noi stiamo ostacolando, all'interno di questa legislatura, e su cui avanziamo proposte alternative, tant’è che c’è una nostra proposta di legge, in Commissione lavoro, che propone l'internalizzazione di un servizio che era inizialmente di pulizia e a cui poi sono stati dati ulteriori appalti per «scuole belle».
  Però, che cosa accade ? Siccome è strutturato sostanzialmente sulla tenuta occupazionale e al fine di finanziare queste ditte che precarizzano il lavoro all'interno della stessa ditta – e, quindi, con i lavori che sono a contratto con le ditte – succede che non è efficiente il progetto «scuole belle», perché si interviene con una tinteggiatura, non con soggetti esperti (perché prima si occupavano solo della pulizia) e si interviene con tinteggiature su scuole che hanno magari bisogno di interventi Pag. 8diversi: quelli strutturali e quelli di sicurezza; e non c’è un piano organico che prevede un intervento coordinato e ben preciso, anche in ordine temporale, delle iniziative da mettere in campo per avere un'efficacia di intervento sull'edilizia scolastica.
  Cioè, se abbiamo una scuola che ha delle crepe, è chiaro che devo fare prima un intervento di messa in sicurezza che un intervento di tinteggiatura, ma questo il programma del Governo non lo permette. In altri termini, non si ha un quadro chiaro, un quadro operativo e un quadro di tempistica chiaro che permetta, diciamo, l'efficacia dell'utilizzo delle risorse. Quindi risorse sì, ma che vanno a ditte e cooperative che non necessariamente producono un intervento efficace per il mondo della scuola.
  Ricordiamo, poi, che nella legge n. 107, che è stata approvata dal Governo e dalla maggioranza, sono state inserite delle figure cosiddette «organico potenziato», che ancora oggi non hanno un ruolo preciso all'interno della scuola. Tanti si lamentano, ci scrivono che i docenti fanno semplicemente i tappabuchi di ore e suppliscono altri docenti assenti, senza poter portare un programma organico di intervento.
  Una norma contenuta all'interno della legge n. 107 su cui si interviene è quella che riguarda la delega al Governo del nuovo processo di formazione e reclutamento dei docenti. Su tale norma ci sono parecchie zone d'ombra da chiarire e una di queste è quella che ci fa domandare: ma se un docente che sta facendo il tirocinio in questi tre anni va a sostituire un altro docente perché può fare anche supplenze, dal momento che la norma, almeno così come è scritta, non è chiarificatrice e, quindi, non esclude la possibilità che il tirocinante possa fare anche le supplenze in questi tre anni, cosa gli riconosciamo ? Gli riconosciamo una retribuzione pari a quella del salario del docente o lo continuiamo a pagare con una borsa da tirocinio ? Infatti, questo fa la differenza perché, se siamo nella ipotesi a), allora significa che retribuiamo il giusto lavoro alle persone che sono nel mondo della scuola; se siamo nell'ipotesi b), significa che effettuiamo un taglio sulle risorse che ci servono per fare le supplenze nelle scuole: questa è ancora una norma da chiarire.
  Il presente disegno di legge è anche un'occasione mancata perché, se il Governo si accorge che ci sono norme poco chiare, pasticciate tant’è che si interviene, allora si doveva intervenire in maniera più approfondita e risolvere definitivamente tante di quelle norme, di quei regolamenti su cui oramai, diciamo, i tribunali stanno impazzando perché ci sono una miriade di ricorsi, di docenti, di dirigenti che stanno colpendo il mondo della scuola e il mondo del Ministero.
  Quindi, a nostro avviso, la norma andava chiarita ulteriormente tant’è che abbiamo presentato anche una risoluzione su questo punto per dire che innanzitutto i docenti che attualmente sono abilitati dallo Stato, perché lo Stato li ha fatti abilitare in funzione di un fabbisogno, devono essere assunti prima di qualsiasi altra forma di concorso che faccia accedere laureati che non hanno questa abilitazione. E, invece, questo non è previsto.
  C’è, poi, la norma che riguarda i periti tecnici; cioè, abbiamo ascoltato tantissimo la retorica di questo Governo dell'alternanza scuola-lavoro, di una scuola che si avvicina al mondo del lavoro e che cosa si fa ? Si toglie il titolo professionale ai diplomati, si chiede al perito tecnico un percorso più lungo di istruzione e, quindi, di laurea e questo crea un danno enorme in tante zone del Paese dove il perito tecnico veniva rubato dalla scuola, il diplomato veniva rubato dalla scuola, dalle aziende del territorio perché era una risorsa importante, era una risorsa tecnologica, una risorsa scientifica su cui il nostro Paese è carente, come dicono tutti i dati. Quindi, credo che l'occasione di questo provvedimento è stata perduta e, quindi, ci troveremo di nuovo di fronte ad una contrapposizione che avremmo voluto evitare perché sarebbe stato molto più proficuo per il Paese riuscire a risolvere, dopo un anno di prova, tutte le problematiche Pag. 9di questo provvedimento. Invece, dovranno risolverlo i cittadini perché adesso, nel frattempo, mentre noi siamo qui, i cittadini stanno raccogliendo anche le firme per abrogare quattro norme della buona scuola che sono considerate assurde da una fetta importante della popolazione italiana.

  PRESIDENTE. Prendo atto che il rappresentante del Governo si riserva di intervenire in altra fase.
  È iscritta a parlare la deputata Carocci. Ne ha facoltà.

  MARA CAROCCI. Grazie, Presidente. Vorrei soffermarmi soltanto su alcune delle disposizioni che riguardano in modo più diretto la scuola. In questo anno scolastico, come sappiamo, è entrata in vigore la legge n. 107, una legge importante che ha introdotto molte modifiche.
  Era prevedibile, quindi, che si sarebbero dovuti predisporre degli aggiustamenti in corso d'opera. Quando si introducono grossi cambiamenti si deve monitorare il loro effetto e predisporre conseguenti misure di accompagnamento, ed è quello che si propone questo decreto-legge che vuole intervenire su alcuni punti critici da rivedere con urgenza ma, proprio per la sua natura, non può e non intende essere una nuova riforma.
  Il primo punto affrontato, come diceva bene la relatrice, è la prosecuzione del progetto «scuole belle» per il mantenimento del decoro e della funzionalità degli edifici scolastici. Si vuole continuare a garantire fino alla fine del prossimo anno scolastico lo svolgimento dei servizi di pulizia e ausiliari nelle scuole laddove sono stati appaltati a ditte esterne. Si tratta di una proroga non dei contratti di appalto, che già prevedono come scadenza il 31 dicembre di quest'anno, ma del rifinanziamento fino a tale data proprio per consentirne la prosecuzione fino a scadenza dando la possibilità di indire così nel frattempo le nuove gare di appalto. Non vi sono dunque proroghe di appalti che violino le disposizioni dei contratti pubblici. L'appalto Consip, ancora vigente, è valido fino alla fine di quest'anno, come dicevo. Quindi il decreto-legge è solo volto ad individuare nuove risorse in un contesto amministrativo assolutamente legittimo. L'unico aspetto di anomalia è dovuto ad un contenzioso giudiziario in atto in Campania, essendo venuto a soluzione quello della Sicilia. Il secondo tema affrontato riguarda le assegnazioni provvisorie: anche per il prossimo anno scolastico sarà possibile a tutti i docenti assunti a tempo indeterminato richiedere l'assegnazione provvisoria interprovinciale. Nella scuola, infatti, continueranno per forza di cose ad essere necessarie le supplenze non più come avveniva prima su quei posti che tecnicamente vengono definiti come «vacanti e disponibili», cioè quelli proprio liberi perché derivanti da cessazioni di servizio per i quali si assumono adesso i docenti di ruolo, ma sicuramente rimarranno supplenze sui posti cosiddetti «vacanti ma non disponibili»: malattie lunghe, aspettative, maternità, comandi. Su questi posti i docenti, anche neoassunti, potranno chiedere di essere assegnati provvisoriamente evitando così di dover insegnare lontano da casa, se si libera appunto provvisoriamente ma per tutto l'anno scolastico un posto vicino a casa.
  Altro tema affrontato è quello della data ultima per l'immissione in ruolo e la nomina dei docenti per il prossimo anno scolastico. Si è voluto tenere conto dei tempi necessari all'espletamento dei concorsi e delle procedure di mobilità, considerando che difficilmente si potranno concludere in date compatibili con la possibilità di nominare i docenti entro il 31 agosto, come avviene normalmente. Per consentire che questi insegnanti siano immessi in ruolo ed assegnati alle scuole per il prossimo anno scolastico, il termine è stato perciò procrastinato al 15 settembre e, di conseguenza, si prevede anche che le nomine verranno fatte dai dirigenti territoriali del MIUR e non dai dirigenti scolastici fino a tale data. Un caso particolare riguarda poi i docenti della scuola dell'infanzia le cui graduatorie di merito non sono ancora esaurite in alcune regioni Pag. 10mentre lo sono in altre. La relatrice ha ben spiegato questo punto per cui andrò molto veloce. Infatti ai docenti di queste graduatorie, quelle di merito, viene data l'opportunità di essere assunti a domanda anche in altre regioni ma, come appunto spiegava la collega, è sul 15 per cento del 50 per cento dei posti disponibili per l'assunzione da graduatorie e questo fino all'approvazione delle nuove graduatorie relative al concorso bandito nel 2016. In questo modo si dà l'opportunità anche a chi ha superato l'ultimo concorso, senza però togliere diritti ai candidati del prossimo. Questo è importante che sia chiaro perché si tratta di posti di turnover che comunque sarebbero stati assegnati a docenti delle graduatorie a esaurimento e delle graduatorie di merito. Importante è anche l'ultimo articolo che riguarda direttamente la scuola. Con la legge n. 107 si era inteso scongiurare una volta per tutte i ritardi del pagamento del personale supplente. Però sappiamo che anche quest'anno scolastico è accaduto, come nei precedenti, ma questa volta con maggiore clamore mediatico, che si sia ritardato anche di mesi il pagamento al personale a tempo determinato a causa di incapienza dei fondi, di malfunzionamento di piattaforme dedicate e di ritardi burocratici vari. Su questo il Parlamento si è più volte impegnato in atti di sindacato ispettivo. Da qui l'intervento urgente che vede interessati i due Ministeri competenti, MEF e MIUR, nelle loro articolazioni e le scuole affinché i pagamenti avvengano entro i trenta giorni. Questi adempimenti concorrono alla valutazione dei dirigenti, sia scolastici, sia ministeriali e sono fonti di responsabilità dirigenziale qualora i ritardi siano a loro imputabili.
  Vorrei soffermarmi su quest'ultimo punto. Di questa previsione si sta dando una lettura fuorviante secondo la quale i dirigenti scolastici saranno responsabili degli eventuali ritardati pagamenti, anche se dovuti a incapienza dei fondi. Non è così. I dirigenti scolastici risponderanno solo ed esclusivamente se il ritardo sarà dovuto agli adempimenti di loro competenza, mentre – e questo sarebbe invece da sottolineare – per la prima volta si richiama la responsabilità delle amministrazioni dei Ministeri. Quante volte i dirigenti scolastici hanno cercato di venire a capo dei malfunzionamenti dovuti, per esempio, alle piattaforme troppo rigide o troppo intasate, scontrandosi con la sensazione di trovarsi di fronte a un moloc inavvicinabile e immodificabile ? Ecco, adesso qualcuno e non il dirigente scolastico dovrà rispondere anche di ciò. Voglio ancora ricordare che con l'articolo 2-sexies si incrementa il fondo, che tutti avevamo valutato troppo esiguo, per retribuire i commissari d'esame per il concorso a docenti. Troppo esiguo e rendeva, quindi, difficile il reperimento dei commissari stessi.
  Per concludere, ritengo importante e positivo l'aver affrontato, anche grazie al contributo dei colleghi del Senato, alcuni dei punti critici che si sono manifestati per risolverli con urgenza.

  PRESIDENTE. È iscritta a parlare la collega Centemero. Ne ha facoltà.

  ELENA CENTEMERO. Grazie, signor Presidente. Il mio intervento darà uno sguardo un po’ a trecentosessanta gradi su questo decreto-legge con una considerazione di natura politica all'inizio. Innanzitutto, ci troviamo di fronte all'ennesimo decreto-legge che arriva dal Senato in un perfetto monocameralismo di fatto, nel senso che questo decreto-legge è sostanzialmente immodificabile alla Camera; è stato modificato, sicuramente ampiamente, al Senato, ma non è stata data la possibilità a chi alla Camera rappresenta le cittadine e i cittadini italiani di incidere su questo provvedimento. Quindi, di fatto non stiamo neanche aspettando la riforma costituzionale, che non abolisce però il Senato, per trovarci in un perfetto monocameralismo di fatto. E questo è il primo appunto di natura politica. Secondo appunto di natura politica è che ci troviamo di fronte ancora una volta ad un decreto diciamo omnibus nel senso che vi sono contenuti una serie di provvedimenti più o meno urgenti e, quindi, provvedimenti e Pag. 11iniziative che non hanno la caratteristica d'urgenza del decreto-legge. Essi hanno uno scopo ben preciso, che è quello di andare a risolvere alcune criticità e alcune problematiche che sono emerse a partire anche dalla legge n. 107 che abbiamo approvato lo scorso anno. Quindi, di fatto si tratta di un pot-pourri che, appunto come dicevo prima, va a toccare alcune criticità. Ne metto in luce alcune che io ritengo peggiorative e altre invece rispetto alle quali indubbiamente esprimo un giudizio favorevole, positivo. Parto da quelle positive sicuramente. Positivo è l'intervento, come è stato ricordato già prima da chi mi ha preceduto, dalla relatrice e dai colleghi che sono intervenuti, a favore delle graduatorie di merito della scuola dell'infanzia. Qui si è veramente sanato un vulnus grave e una disparità di trattamento che la legge n. 107 del 2015 aveva prodotto rispetto alla platea di chi aveva superato il concorso per la scuola dell'infanzia. Chi aveva superato il concorso, rispetto agli inseriti nelle graduatorie di merito degli altri ordini e gradi di scuola, aveva potuto, fin dalla legge n. 107 del 2015, veder riconosciuto il proprio diritto legittimo all'assunzione; invece, le graduatorie di merito, residue ovviamente di alcune regioni, pubblicate tra l'altro in ritardo – penso per esempio al Lazio – non vedevano riconosciuto un proprio diritto e, quindi, una disparità di trattamento.
  Su questo noi ci siamo battuti insieme a tante altre forze politiche. Saluto con grande favore questo riconoscimento appunto del merito delle persone che hanno superato questo concorso e anche il fatto che si è posto comunque un limite alla possibilità di spostarsi, di fare domanda assunzionale nelle diverse regioni perché sappiamo che appunto l'Italia ha esigenze e situazioni molto diverse. Di fatto, però, noi ci troviamo di fronte ancora una volta ad una situazione in cui – mi auguro che sia una situazione di passaggio – veramente il sistema di assunzione all'interno delle istituzioni scolastiche risulta farraginoso, risulta pieno di diritti e contro-diritti e risulta pieno di situazioni che si sono sovrapposte e che danno vita ad un contenzioso enorme e a un dispendio economico enorme per l'amministrazione rispetto al quale bisogna porre veramente un termine. E mi auguro – non concordo con il collega Gallo – che veramente l'unica forma di reclutamento possa essere il concorso. Non è vero che laddove lo Stato ha dato la possibilità di abilitarsi – penso ai PAS, ad esempio – ci sia stato un bisogno effettivo. L'abilitazione in alcune fattispecie è stata data a fronte semplicemente di aver superato, senza nemmeno la valutazione, determinati giorni di supplenza. Quindi, il fatto di aver a mio giudizio svolto giorni di supplenza non dà diritto, come l'abitazione, all'assunzione. E io credo che dobbiamo avviarci in modo deciso ad un sistema in cui la valutazione dei docenti e dei dirigenti diventi un elemento cardine perché al centro della scuola non ci stanno le assunzioni e i posti di lavoro, ma al centro della scuola ci stanno gli studenti e le studentesse e la loro formazione. Quindi, io credo che su questo dovremmo tutti spenderci in modo ben diverso.
  Poi è molto positivo l'aspetto del contributo che viene dato per le scuole paritarie, per i ragazzi disabili. Noi siamo in un sistema integrato di istruzione in cui, come ricordava prima l'onorevole Ascani, una legge del 2000, la legge Berlinguer, riconosce sostanzialmente che in questo sistema hanno pari dignità scuole paritarie e scuole statali, che tutte insieme si chiamano pubbliche. Quindi, anche in questo caso viene riconosciuto – e ne sono contenta – un diritto appunto al sostegno dei ragazzi disabili che frequentano le scuole paritarie, che stanno aumentando, probabilmente perché c’è un'attenzione, mi spiace dirlo, educativa molto più forte rispetto ad altre realtà. Stiamo affrontando piccole cose, ma importanti per le persone che ci ascoltano. Un altro elemento positivo che voglio sottolineare è l'aumento del compenso ai commissari del concorso. Ecco, io veramente la ritenevo una vergogna, ma non solo per questo concorso; l'ho ritenuta una vergogna anche per i concorsi precedenti, sia per Pag. 12dirigenti, che per docenti. Il compenso che viene dato ai commissari è veramente vergognoso. Quindi, bene ci sta – e anche per tale questione ci siamo battuti – aumentare il compenso dei commissari perché poi ne va della qualità indubbiamente del lavoro.
  Vedo anche positivamente tutto l'aspetto che riguarda le assegnazioni provvisorie interprovinciali. Voglio ricordare – qui entro nella parte un po’ più critica per quanto ci riguarda – che noi stiamo dando vita a questo decreto-legge per mettere mano ad una serie di criticità. Avremmo dovuto affrontare la legge n. 107 del 2015 in modo più consono e in modo più disteso nei tempi, non per far vedere che il 1o settembre, che poi non è stato il 1o settembre, si assumevano tutti i precari di questo mondo, che poi non è così. Non per mettere una bandierina, ma avremmo avuto veramente bisogno di un tempo disteso per dar vita all'intervento delle assunzioni, ma anche all'intervento relativo alla mobilità. Infatti, l'altra criticità che qui voi non affrontate è tutto il tema del piano straordinario di mobilità, che è veramente molto complesso e veramente tocca i diritti delle persone. Di fatto, se il provvedimento fosse stato affrontato in modo – lo ripeto – più disteso, con dei tempi adatti alle istituzioni scolastiche, sicuramente non ci troveremmo di fronte alla confusione che abbiamo. Pensiamo al caos del piano dell'offerta formativa triennale. Se alle scuole avessimo dato tutto il tempo di realizzarlo durante quest'anno e se il piano straordinario delle assunzioni fosse fatto a partire dal piano di offerta formativa triennale, forse la situazione sarebbe diversa. Ci troviamo di fronte a scuole che, a fronte di aver richiesto insegnanti di matematica, si trovano insegnanti di scienze pittoriche, che non c'entrano niente con l'offerta formativa della scuola in cui sono. Quindi, forse un po’ più di attenzione all'offerta formativa e alle richieste delle scuole andava fatta e nei tempi adatti.
  Su questo tema delle assunzioni provvisorie interprovinciali ricordo un mio emendamento alla legge n. 107, che riguardava questo tema, mi fa molto piacere che finalmente vi siete accorti di questo aspetto; lo trovo qui, molto bene e mi auguro di trovare anche tanti altri interventi, soprattutto nel piano straordinario di mobilità.
  Vi sono altre quattro criticità. Le riepilogo molto velocemente. La prima è quella relativa al sistema di formazione iniziale di accesso ai ruoli. Così come per quanto riguarda il sistema 0-6 anni, stiamo parlando delle deleghe. Mi piacerebbe capire a che punto sono – non mi ricordo più se erano 11 o 18 – le deleghe, che nell'arco di diciotto mesi avrebbero dovuto e dovrebbero essere emanate dal Governo su temi così importanti e così sensibili, come appunto la formazione iniziale e il sistema integrato 0-6 anni. Sul primo punto, la disquisizione tra tirocinio e apprendistato non è banale, non è semplice, è modello proprio completamente diverso, che richiede, da una parte, un sistema retributivo in un modo e un altro sistema in un altro modo. Reputo che, comunque, l'aspetto positivo sia nel fatto che si punti l'attenzione su questo.
  Sull'altro aspetto, lo 0-6 anni, vedremo come sarà questa diffusione del servizio 0-6 anni. Noi abbiamo adesso lo 0-3 e il 3-6, forse sarebbe stato molto meglio allargare, viste le realtà che ci sono. Noi abbiamo una molteplicità di realtà dei nidi da 0 a 3 anni, che sono anche strutture estremamente piccole, sono micronidi – penso alla mia regione, per esempio – o nidi famiglia, cioè sono realtà molto piccole che difficilmente riusciranno a integrarsi all'interno di questo sistema. Quindi, cosa facciamo ? Perdiamo tutto questo sistema di sussidiarietà ? Sarebbe stato forse molto più interessante estendere le classi primavera.
  Vado verso la conclusione. Degli altri due aspetti che reputo un po’ critici, il primo è quello relativo agli ITS. È vero che si dice che il riconoscimento dei crediti formativi nel passaggio tra ITS e atenei e università è «almeno di», ma passare da 100 a 40 e da 120 a 62 significa, a mio giudizio e a nostro giudizio, non dare valore e riconoscimento. Quindi, in questo Pag. 13caso devo dire: «Decidetevi». L'alternanza scuola lavoro, la formazione in stretto contatto con il mondo dell'impresa è importante o non è importante ? Gli ITS sono una realtà che sta realizzandosi come scuole di formazione terziaria, scuole ad alta specializzazione tecnologica, nata per rispondere alle domande delle imprese e alle esigenze di elevate competenze tecniche nel campo tecnico e tecnologico. Diciamoci se questa cosa la riteniamo importante o non la riteniamo importante. Quindi, secondo me, il riconoscimento di «almeno», passando da 100 a 40, da 150 a 62, mi sembra un po’ svilente rispetto a una formazione che è altamente professionale e tecnica, che è la direzione verso la quale noi dovremo andare, anche perché state parlando di Europa. La strategia UE 2020 ricorda che bisogna promuovere una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, in cui il 75 per cento delle persone tra i 20 e i 64 anni abbia un lavoro e il 40 per cento dei giovani tra i 30 e i 34 anni debba essere laureato. Mi sembra che siamo molto lontani da queste indicazioni dell'Unione europea.
  Da ultimo, vi è l'aspetto più critico, che è stato rilevato anche in Commissione. Io non ho partecipato in Commissione, perché tanto era inutile partecipare, visto che questo decreto era blindato, pertanto mi sono permessa di intervenire oggi per dare il mio giudizio qui. Il mio giudizio per alcune parti è positivo; su altre parti, indubbiamente, vi sono delle criticità, lo voglio ribadire, nel rapporto di collaborazione che si ha sempre tra minoranza e maggioranza, tra forze di opposizione e forze di Governo e rispetto al quale, almeno io, ho sempre cercato di operare.
  L'ultimo aspetto è quello dell'ordinamento professionale dei periti industriali, che, per accedere alla professione, vede innalzato il titolo di studio dal diploma di perito tecnico al diploma di laurea. In questo caso probabilmente andiamo incontro all'esigenza dell'Unione europea di elevare i livelli di alta formazione, però mi chiedo quale sia il nostro obiettivo. Perché innalziamo così tanto il livello di professionalità di formazione per definire una professionalità ? Stiamo dicendo forse che gli istituti tecnici sono inadeguati a preparare al mondo del lavoro ? Quindi, mi chiedo che cosa ci sia. Questo intervento è già stato fatto, ad esempio, nell'ambito dei geometri e adesso viene fatto anche in questo settore. Io credo che questa sia una cosa su cui riflettere, perché la storia delle nostre istituzioni scolastiche, soprattutto nell'ambito degli studi tecnici, è sempre stata altamente formativa dei nostri studenti e altamente formativa nell'ottica dell'immissione nel mondo del lavoro e soprattutto nella definizione di professionalità. Allora, anche in questo caso, decidiamoci: per quale motivo nella legge n. 107 abbiamo dato 200 e 400 ore agli istituti tecnici professionali e ai licei ? Riteniamo gli istituti tecnici professionalizzanti o no ?

  PRESIDENTE. È iscritta a parlare la collega Pannarale. Ne ha facoltà.

  ANNALISA PANNARALE. Grazie, Presidente. Colleghe e colleghi, Governo, svolgo un intervento in discussione generale che equivale – ahimè ! – ad una dichiarazione finale, perché questo testo, giunto dal Senato, è chiuso e resterà immodificabile. Siamo dentro l'ennesimo passaggio di mera ratifica alla Camera, in ossequio ad una prassi, ormai abusata da questo Governo, di espropriare il Parlamento della sua funzione costituzionale a colpi di decretazione d'urgenza. In questo caso devo dire che non è accettabile come motivazione neanche la scadenza ravvicinata del 28 maggio, perché si è giunti a ridosso di questa data non per una responsabilità, magari ostruzionistica, delle opposizioni al Senato, ma per il comportamento colpevolmente dilatorio del Governo, che, per giorni e giorni, di rinvio in rinvio, di riscrittura in riscrittura, ha tenuto bloccato il decreto nella Commissione referente al Senato, impedendo qualunque discussione nel merito degli emendamenti e imponendo alla fine un testo completamente rivisitato, su cui è stata messa la fiducia.
  Si tratta di un decreto blindato due volte, dunque, con quella consueta arroganza Pag. 14che non è soltanto lo svilimento di ogni funzione parlamentare, ma è innanzitutto la sottrazione di ogni possibilità di migliorare testi insufficienti o inadeguati per rispondere ai bisogni che sono fuori, bisogni materiali, bisogni incarnati, bisogni, in certi casi, persino attivati dalla stessa insipienza con cui vengono partoriti gli atti di Governo. E qui bisognerebbe rimediare con un'azione parlamentare opposta, cioè dialogica e costruttiva. Ed è il caso di questo decreto.
  Questo atto alla fine è diventato il tentativo di provare a sanare alcuni dei pasticci e delle contraddizioni irrisolte che voi avete generato, sottosegretaria, con la legge n. 107. Ma, siccome l'esperienza dimostra che siete troppo arroganti per riconoscere gli errori e i possibili rimedi, che vi vengono anche proposti, e, al tempo stesso, troppo superficiali per avere uno sguardo più complesso e sistemico sulle cose, con questo decreto, mentre affrontate un pezzetto delle discriminazioni legate alla legge n. 107, ne causate altre, in una sorta di coazione a ripetere che non avrà mai fine. Infatti, l'errore grande è a monte, nell'approvazione della legge n. 107, che sta già determinando conseguenze pesanti, e questi effetti non potranno certo essere fronteggiati con qualche misura tampone che andrete, come in questo caso, ad inserire qua e là oppure in successivi provvedimenti. Con questo decreto, ad esempio, data l'enorme confusione che sta accompagnando il concorso che avete appena avviato, prendete atto che non riuscirete ad espletare a settembre le assunzioni e assumete finalmente docenti della scuola dell'infanzia inseriti nelle graduatorie di merito del concorso 2012, assunzioni che, come sappiamo, si concentrano in sole tre regioni – Lazio, Campania, Sicilia – e che potranno fruire dell'opzione dell'interregionalità, della mobilità. Bene, Sinistra Italiana aveva presentato in legge di stabilità un emendamento che andava esattamente in questa direzione. È il riconoscimento di un diritto precedentemente leso dalle vostre scelte. Vi avevamo detto subito che dimenticando la scuola dell'infanzia nel piano assunzionale, si sarebbe posto un problema di ingiustizia e una grave carenza di personale. Oggi lo riconoscete. Restano ancora senza risposta, però, circa 18 mila docenti della scuola dell'infanzia, ancora inseriti nelle graduatorie ad esaurimento. A questo rilievo, voi della maggioranza rispondete ricordandoci che le graduatorie ad esaurimento, a differenza di quelle di merito, si chiuderanno dopo il loro effettivo esaurimento, come se sia già accettabile lasciare i docenti nel limbo per mesi e mesi, ma aggiungo: come pensate di esaurire davvero queste graduatorie, se continuate a non prevedere per la scuola dell'infanzia l'organico potenziato ?
  Abbiamo proposto un emendamento sull'organico potenziato in questo decreto, perché passa da qui l'incremento dell'offerta formativa e la possibilità che bambini e bambine possano avere accesso pieno alla scuola dell'infanzia. Ma questo emendamento, come tutti gli altri, lo abbiamo già ricordato, finirà nell'imbuto cieco del testo blindato. Non solo: con un emendamento al Senato avete sostituito la definizione ’livelli essenziali’ con quella di ’fabbisogni standard’, e non parliamo solo di una modifica terminologica. Quello che state preordinando, temo, è un cambio di fase su quel terreno dei diritti essenziali, fondamentali, primari, che uno Stato dovrebbe garantire alla collettività. L'accesso ai servizi educativi e alle scuole dell'infanzia è un diritto primario. Abbandonare il profilo tutto costituzionale dei ’livelli essenziali’, per abbracciare la nuova definizione di ’fabbisogni standard’, significa misurare i diritti con il metro degli indicatori economici e degli obiettivi finanziari. Io non so se è su questo impianto che intendete riorganizzare il ciclo 0-6 anni. Dite: ce lo chiede l'Europa. Siamo certi che dietro il pretesto dell'Europa non ci sia, invece, l'intenzione di trasformare gli asili nido e le scuole dell'infanzia in servizi alla persona privatizzati ? Lo abbiamo già posto in Commissione cultura questo punto. A Roma rischiano di chiudere 1600 sezioni di asili comunali, a Firenze e a Milano gli asili comunali vengono dati in gestione ai privati: è Pag. 15questo il nuovo modello a cui stiamo pensando ? Quali risposte pensiamo di dare ai lavoratori e alle lavoratrici, alle famiglie, in nome dell'efficacia dei costi, cioè di questi nuovi fabbisogni standard ?
  Vado avanti, sperando di avere risposte a queste domande. Riconoscete, in deroga al vincolo dei tre anni, la possibilità di assegnazione provvisoria per i neoassunti: bene ! Bene, anche se lo decidete soltanto ora, dopo aver costretto tanti docenti a trasferimenti forzosi a migliaia di chilometri da affetti, da famiglie, da legami, e nonostante avessimo segnalato già in sede di discussione della legge n. 107 del 2015 quali sarebbero stati i pesantissimi effetti della cosiddetta «fase B». C’è una domanda, però, cui continuate a non rispondere: che destino avranno quei circa 40 mila docenti che, in ragione di questi trasferimenti forzosi, hanno dovuto scegliere di non partecipare alla «fase B» del piano assunzionale. Ora che avete cambiato le regole del gioco, rimediando a quelle che sono state a monte scelte folli, cosa succederà di questi lavoratori, che non erano nelle condizioni di accettare l'assunzione dietro il prezzo altissimo di spostarsi a migliaia di chilometri, prezzo che per alcuni è insostenibile materialmente ? Le regole si modificano per tutti o – come al solito, devo dire, quando si parla di docenti in maniera particolare – vige la discrezionalità ?
  E se le regole si modificano in ragione di un vostro errore di previsione e di scelta, la responsabilità di questo errore può mai ricadere su chi ha potuto subire soltanto gli effetti di questo errore ? Chiedo al Governo e alla maggioranza.
  Persino la decisione di spostare dall'1 al 15 settembre le assunzioni future dimostra l'incapacità previsionale e la condizione di stallo e di caos in cui sta operando il Ministero della pubblica istruzione. E le disfunzioni sono talmente grandi che in questo Paese bisogna ricorrere ad un decreto persino per ottenere i pagamenti degli stipendi dei supplenti. Bene, ci sono state numerosissime interrogazioni da parte della maggioranza e da parte delle opposizioni, ma in questo Paese per garantire il pagamento degli stipendi bisogna ricorrere ad un decreto.
  Andiamo ancora oltre. Penso ad una misura certamente necessaria come quella della proroga degli appalti per i servizi di pulizia e ausiliari nelle scuole, soprattutto laddove la convenzione Consip non sia stata ancora attivata o sia scaduta. Parliamo di una questione sociale datata, che coinvolge migliaia di lavoratori, ex LSU, o i cosiddetti appalti storici, più di 20 mila lavoratori, metà dei quali sono nelle regioni del sud. La scadenza al 31 marzo del progetto «Scuole belle» aveva determinato, già alla fine di dicembre scorso, l'apertura delle procedure di licenziamento per 8 mila, 9 mila lavoratori. Ecco perché consideriamo necessaria e positiva la proroga del programma alla fine del 2016, ma al tempo stesso inadeguata e insufficiente.
  Il fallimento delle esternalizzazioni, sottosegretaria, è oggi indiscutibile. È indiscutibile sul piano della qualità dei servizi, sul piano della trasparenza, sul piano della stabilità contrattuale, sul piano della sicurezza del lavoro, perché questi lavoratori vengono troppo spesso adibiti a delle mansioni che sono inappropriate e per le quali non hanno la formazione adeguata. Urge allora una riflessione: occorre trovare una soluzione che sia definitiva, che garantisca qualità dei servizi nelle scuole e stabilità del lavoro. Non è più possibile rinviare questa soluzione di proroga in proroga, bisogna optare per una reinternalizzazione di questi servizi, per la stabilizzazione dei precari, per un piano straordinario di assunzione del personale ATA, quello stesso personale che è rimasto dimenticato, escluso dalla legge n. 107 del 2015. Anche su questo abbiamo proposto gli emendamenti, ma, come sappiamo, in maniera assolutamente inutile.
  Le risorse ci sono, il punto resta sempre quello delle priorità, e accade allora che, utilizzando come al solito – vado avanti – la corsia preferenziale del decreto, si decida di fondare un istituto universitario, il Gran Sasso Science Institute, prevedendo deroghe alle ordinarie limitazioni del turnover e prelevando risorse Pag. 16dal Fondo di finanziamento ordinario dell'università e da quello degli enti di ricerca. Ora, il punto non è oggetto di contestazione, ma aggiungo: queste misure, quelle di deroga, quelle di prelievo, di utilizzo delle risorse riservate agli enti di ricerca pubblici e all'università pubblica, perché non devono valere per tutti gli istituti pubblici della ricerca e dell'università ? Perché si continuano a compiere scelte discrezionali per decreto, come nel caso del Technopole di Milano ? Perché si continua a rinviare la questione urgentissima della carenza di personale docente universitario, generata dei tagli ingenti risorse e dalle insostenibili limitazioni del turnover ? Le risorse – ribadisco – ci sono, ed è tanto vero che in questo decreto si stanziano altri 12 milioni di euro per le scuole paritarie, proporzionalmente agli alunni con disabilità: 12 milioni che si aggiungono ai 225 milioni previsti in legge di stabilità.
  Ora, quella della disabilità – lo dico a chi generalmente mormora in questi casi – è una questione serissima – serissima ! – che impone interventi di sostegno. La via, però, non può essere sempre quella del drenaggio permanente di risorse dalla scuola pubblica a quella privata. Non solo, aggiungo un ulteriore elemento: le scuole paritarie – anche questo l'ho già detto in Commissione cultura – si dividono in scuole paritarie degli enti locali e scuole private; le prime, le scuole paritarie degli enti locali, svolgono spessissimo un'importantissima funzione sussidiaria, in maniera particolare nella fascia dell'infanzia, ma, a differenza delle paritarie private, non possono assumere liberamente, sono vincolate al blocco delle assunzioni e al patto di stabilità.
   Allora, non sarebbe stato più ragionevole – chiedo – prevedere risorse per le paritarie degli enti locali, come abbiamo proposto negli emendamenti, e ulteriori risorse per la scuola pubblica, dove oggi continuano a mancare i docenti di sostegno che sarebbero necessari per assicurare la garanzia costituzionale del diritto allo studio per tutti e per tutte ?
  Avreste potuto migliorare moltissimo questo decreto – sono arrivata alla fine – ma avete come al solito considerato sufficienti i vostri interventi. Avete operato tutte le modifiche necessarie al Senato e avete impacchettato il provvedimento perché venisse votato identico da quest'Aula. Forse nei prossimi provvedimenti ci darete nuovamente ragione, esattamente come avete fatto, su alcune misure che avete inserito in questo decreto e forse nei prossimi provvedimenti raccoglierete in maniera nuovamente parziale le nostre osservazioni e le nostre proposte emendative.
  Nel frattempo le contraddizioni che avete scelto ancora una volta di non risolvere e le discriminazioni nuove che avete prodotto avranno leso altri diritti e avranno penalizzato altre vite e questo non è, sottosegretaria e maggioranza, un capriccio dell'opposizione; questa è una questione enorme per il Paese, alla quale si continua a non rispondere (Applausi dei deputati del gruppo Sinistra Italiana – Sinistra Ecologia Libertà).

  PRESIDENTE. È iscritta a parlare la collega Binetti. Ne ha facoltà.

  PAOLA BINETTI. Presidente, illustri membri del Governo, colleghi presenti in quest'Aula, il provvedimento, che inizialmente si componeva di quattro articoli, come è stato fatto notare da tutti coloro che sono intervenuti prima di me, è stato notevolmente ampliato nel corso dell'esame al Senato. Modifiche di rilievo, infatti, sono state apportate sia al decreto-legge, che al disegno di legge di conversione e attualmente il disegno di legge si compone di 15 articoli e contiene, oltre ad un complesso di interventi destinati alla scuola, al personale docente e alla ricerca, anche ulteriori misure non pienamente riconducibili a tali ambiti materiali.
   Devo dire che, nonostante questo possa essere letto e interpretato da alcuni colleghi come una sorta di mancanza di coerenza, in realtà il fatto che questo disegno di legge intervenga sulla disciplina dell'ISEE dei nuclei familiari con componenti Pag. 17con disabilità e intervenga quindi anche poi sul cosiddetto bonus cultura a favore dei diciottenni, a mio avviso, rappresenta, soprattutto per quello che riguarda l'ISEE, una semplice ma fondamentale operazione di riparazione a un danno occasionato da una legge mal formulata in un Governo precedente e quindi ben venga che una legge si assuma la responsabilità di azioni ed interventi che non rispondevano realmente al fabbisogno delle persone e intervenga per correggerli. Che lo si faccia nella prima occasione opportuna mi sembra comunque un fatto di giustizia.
   Un punto chiave del decreto è l'aver fissato principi e criteri per il riordino, l'adeguamento e la semplificazione del sistema di formazione iniziale e di accesso nel ruolo di docente nella scuola secondaria, con l'introduzione di un sistema unitario coordinato, che comprenda sia la formazione iniziale dei docenti, sia le procedure per l'accesso alla professione.
   L'avvio di un sistema a cadenza regolare, i concorsi nazionali per le assunzioni, riservati a chi possiede un diploma di laurea magistrale, anche in base al numero di crediti formativi universitari acquisiti nelle discipline antropopsicopedagogiche e poi nelle discipline concernenti metodologie e tecniche didattiche, fissando – come è stato rilevato da alcune persone – in ventiquattro il numero minimo di crediti conseguibili nelle stesse discipline costituisce, a mio avviso, lo sforzo di chiarificare delle corse.
   L'itinerario che è stato disegnato, per cui si prevede un concorso, la possibilità per i vincitori di questo concorso di essere inseriti per tre anni nella scuola, la possibilità che questi tre anni definiscano, per il primo anno, una sorta di diploma di specializzazione e, per gli altri due anni, un itinerario di formazione specifico metodologico, fino poi ad arrivare a una valutazione finale positiva per il tirocinio effettuato e quindi a poter arrivare alla stipula di un contratto di assunzione anche a tempo indeterminato è una cosa che rappresenta per chi viene, tanto per dire, dalla facoltà di medicina, un itinerario molto naturale, molto logico e molto simile a quello che succede agli studenti che si laureano in medicina e accedono alla scuola di specializzazione, in quel caso vi accedono con una borsa di studio e dopodiché attraversano i quattro o i cinque anni, attraverso un percorso di assunzione progressiva di responsabilità.
  Nessuno considera l'assunzione del diploma di laurea come un automatico riconoscimento della possibilità di sapersi inserire professionalmente nel lavoro che è chiamato a svolgere.
  Quindi, il fatto che i laureati nelle diverse discipline che costituiscono poi ambiti concreti di insegnamento, debbono prima sostenere un concorso, che a questo concorso segua un itinerario di formazione graduale, perfettamente scandito, uguale per tutti, che preveda ovviamente un investimento massiccio in discipline che sono di tipo – chiamiamolo così – pedagogico, antropologico, psicologico e metodologico, attiene anche al fatto che molti di questi laureati verranno dalla facoltà di biologia, dalla facoltà di chimica, dalla facoltà di fisica e da tutte quelle discipline che si insegnano e che non prevedono però, nei percorsi di studio adeguati, percorsi di tipo pedagogico o didattico e quindi percorsi che consentono loro di approcciare tutta la complessa dinamica dell'insegnamento con un'attrezzatura scientifica e culturale adeguata.
  Aver fatto ordine in tutto questo e averlo ritmato in modo, se vogliamo, molto semplice, ma nello stesso tempo proprio strutturale, ci fa auspicare una sola cosa. Qualcosa del genere, sia pure in modi diversi e con formule diverse, era stato anche negli intendimenti dei Governi precedenti. Peccato che ogni Ministro che è venuto dopo ha archiviato il sistema precedente e ne ha inventato uno nuovo e questo ha creato tutto quel malcontento che abbiamo visto proprio accumularsi tra persone che avevano titoli di un tipo, persone che avevano titoli di un altro, la possibilità che queste persone potessero accedere di fatto, prima ai concorsi, corsi abilitanti; devo dire onestamente che vi è stata una bella oggettiva confusione, di cui Pag. 18hanno pagato molto spesso le conseguenze le persone che avevano l'unico torto di considerare il lavoro dell'insegnante a tutti i livelli una vera e propria passione e un autentico servizio al Paese.
  Questo ha creato una serie di disagi, che siamo in grado perfettamente di leggere poi guardando al contesto sociale in cui viviamo. Questo sistema ci auguriamo soltanto che funzioni, che si possa vincere un concorso perché uno ne ha le capacità e le competenze, che si possa fare un primo anno che equivale quasi a una scuola di specializzazione per avere un diploma di specializzazione, che si possano fare due anni di tirocinio, in qualche modo retribuiti, che ci si possa inserire nelle supplenze e che poi si possa assumere con pienezza la responsabilità di docente. Sembra facile da dire, sembra quasi un uovo di Colombo; peccato che finora non l'aveva ancora fatto nessuno.
  Quindi, noi auspichiamo davvero che questo sistema funzioni. Per inciso, poi resta anche il fatto che coloro che non hanno partecipato al concorso o che non hanno vinto quel concorso potranno comunque accedere a questo corso di specializzazione, evidentemente a carico loro, pagandoselo loro.
  Ma non solo: questo decreto-legge prevede anche che coloro che già sono inseriti nell'ambito della scuola, indipendentemente dagli anni in cui sono inseriti, pochi o tanti che siano, possono anche loro – e mi auguro che questo «possono» diventi un «debbano» – percorrere un processo, che è un processo di formazione continua. Insisto: gli esempi che faccio sono evidentemente gli esempi di strutture che conosco molto bene, ma mi basta pensare a quei famosi crediti ECM, all'educazione medica continua, che obbliga i medici ad acquisire ogni anno un certo numero di crediti per poter continuare a esercitare la propria professione, per non stupirmi affatto se non perché sono arrivati in ritardo, che anche in questo caso gli insegnanti debbano continuamente rivedere e aggiornare la loro formazione. Per quanto riguarda questa parte, la considero – lo diciamo fra virgolette – un punto direi decisamente positivo di questo disegno di legge.
  Vorrei poi soffermarmi su un altro punto, su cui i colleghi che sono intervenuti precedentemente pure hanno fatto riferimento e che è quello che riguarda il sistema integrato di educazione e di istruzione, dalla nascita fino a sei anni, che dovrebbe mettere a disposizione di tutti i bambini una rete di servizi scolastici, quali l'asilo nido e la scuola materna, mentre invece corriamo il rischio che l'enfasi messa, che ha spostato l'attenzione dalla concezione di livello essenziale a quella di fabbisogno standard, possa creare qualche equivoco.
  Allora, per quale ragione dico questo e per quale ragione, invece, mi sembra che sia necessario e meritevole un approfondimento di questo ? Noi abbiamo sostenuto da anni – da anni e tutte le volte che parliamo – le politiche per la famiglia e credo che in quest'Aula ne abbiamo parlato con passione, con convinzione e con determinazione a proposito di mille disegni di legge diversi. Tutte le volte che ci siamo riferiti al grande tema degli asili nido, l'ottica principale con cui si è guardato a questo tema è stata sempre quella di favorire nella donna la conciliazione dei tempi – chiamiamoli così – tra famiglia e lavoro. Abbiamo sempre considerato i servizi per l'infanzia sostanzialmente un servizio per la madre, un servizio per la famiglia, cioè qualcosa che garantisca alla donna la possibilità di continuare la propria attività professionale, sapendo che i propri figli sono seguiti e accuditi in un certo modo in strutture che offrono determinate garanzie.
  Questo disegno di legge in questo passaggio compie una sorta di rivoluzione, semplicemente perché sposta l'attenzione dalla risposta al bisogno dei genitori e al bisogno della famiglia alla risposta al bisogno del bambino. Cioè, quello che fa è sottolineare che è un diritto del bambino, e anche in questo noi possiamo stupirci che non ci si sia arrivati prima per una semplice ragione: perché se c’è un'età ad altissima densità per l'acquisizione di Pag. 19competenze, per lo sviluppo dell'intelligenza, per lo sviluppo delle capacità relazionali, per lo sviluppo della capacità di inserirsi in un sistema di regole, insieme a quelli che sono i compagni, cioè i bambini che frequentano insieme l'asilo nido, tenendo conto, peraltro, che molti di questi bambini vengono da famiglie in cui ci sono 1,4 figli e, quindi, mancano spesso dell'esperienza della vita di comunità, che nelle famiglie numerose è un fatto totalmente naturale, questi bambini acquisiscono, quindi, il sistema delle regole nella compresenza con i bambini della stessa età. Dunque, acquisiscono capacità e competenze e realizzano quell'integrazione sociale della diversità, quel multiculturalismo di cui soltanto un bambino può dare veramente lezioni a un adulto per la capacità di non fare discriminazioni di nessun tipo. Peraltro, sappiamo tutti che il contesto in cui i genitori sono più vicini ai figli nella relazione scolastica è proprio quello che riguarda i bambini più piccoli e, quindi, la rete anche di relazioni e di rapporti che si stabiliscono tra madri che provengono da Paesi diversi, con culture diverse, con abitudini diverse, può diventare uno di quegli strumenti di coesione sociale di cui il nostro Paese ha veramente bisogno, tenendo conto che c’è quasi il 12 per cento di alunni ormai nelle classi che sono stranieri.
  Quindi, noi che cosa vogliamo ? Noi vorremmo davvero che ciò fosse permesso a tutti i bambini, come un riconoscimento di diritto, come un'opportunità di sviluppo di capacità, come un fondamento di democrazia, come un'acquisizione delle regole, tra virgolette, che caratterizzano la vita sociale attraverso questo. L'aver spostato l'accento al concetto di fabbisogno standard, che è una misura di natura prettamente economica, perché serve per stabilire quanto tocca ad ognuno e come vanno ripartiti i fondi, non vorremmo che diventasse un modo semplicemente per giustificare il trasferimento di risorse dal Governo agli enti locali, ma in questo trasferimento di risorse, che peraltro l'Europa pone fino a una copertura di circa il 30 per cento di questi bambini, ci si dimenticasse che se prima non era il criterio del diritto della mamma non vorremmo nemmeno che fosse il criterio economico quello che sottrae, a norma dell'articolo 3 della nostra Costituzione, un vero e proprio diritto a questi bambini.
  Il terzo punto che vorrei segnalare, che mi sembra particolarmente interessante di questo disegno di legge, è quello che fa riferimento alle scuole di specializzazione non mediche per coloro che di fatto condividono con i medici molte di quelle responsabilità che sono di natura squisitamente anche assistenziali, di ricerca, di indagini, di diagnosi, eccetera. Sappiamo tutti oggi che nella gran parte dei laboratori di analisi che ci sono nei grandi ospedali, ma anche nei laboratori di analisi che ci sono in giro, sono impegnati i biologi, cioè gente che viene dalla facoltà di biotecnologie e gente che viene dalla facoltà di chimica.
  Nessuno di noi oggi pensa alle macchine – e mi riferisco alla risonanza magnetica, alla TAC, alla PET e a tutte queste macchine sofisticate senza le quali nessuno oggi farebbe una diagnosi e nessuno prenderebbe in considerazione nemmeno un consiglio per potersi poi porre il famoso problema se operare o non operare, operare in un modo od operare in un altro – senza la presenza di fisici e di fisici sanitari. Oggi c’è una presenza vitale che costituisce l’entourage irrinunciabile dell'attenzione alla salute dei cittadini che passa, per l'appunto, per le competenze dei biologi, per le competenze dei chimici, per le competenze dei biotecnologi e per le competenze dei fisici.
  Allora, che a queste persone vengano riconosciute delle borse che permettano loro di integrare un poco, come dicevamo prima con gli insegnanti, un'attività di servizio con un'attività di formazione e con una progressiva assunzione di responsabilità a me sembra una cosa del tutto giusta. Il punto vero è che il provvedimento non dice quante saranno, non dice con che progressione verranno messe, non dice come saranno ripartite tra le diverse specialità e, quindi, immagino che questo toccherà ad un decreto attuativo dirlo. Pag. 20Quello che mi sembra fondamentale è che non prenda le risorse di queste borse sottraendole a quelle dei medici. Proprio in questa legislatura abbiamo fatto ogni anno una battaglia più forte e più incisiva. Siamo arrivati a garantire 6.300 borse di studio ai medici – e ci rallegriamo, perché tutti ricordiamo quando eravamo partiti da 3 mila – ma sappiamo anche che 6.300 sono insufficienti, perché da noi per numero chiuso ogni anno si laureano quasi il 98 per cento degli studenti di medicina. Noi scriviamo 10 mila studenti e non possiamo poi porre 6.300 borse, perché questo già crea una perdita secca programmata che non va bene. Non va bene, perché il laureato in medicina, se non è specializzato, non può avere accesso alla professione all'interno delle strutture pubbliche e, quindi, noi abbiamo bisogno di dare garanzie anche agli studenti di medicina, ma questo è un altro discorso (però è interessante affiancare le due cose).
  Poi c’è un altro punto che vorrei sottolineare e vorrei sottolinearlo in una logica e con una lettura leggermente diversa da quella della collega che mi ha preceduto. Quando il Ministero ha stabilito un trasferimento di fondi per i ragazzi che presentano disabilità anche se frequentano scuole paritarie, ha fatto quello che è di stretta giustizia, perché questo attiene all'articolo 3 della Costituzione il quale dice che non devono esserci discriminazioni o altrimenti noi l'articolo 3 lo leggiamo soltanto quando ci pare per alcuni problemi e per alcuni temi mentre per altri ci sembra interessante – diciamo – dimenticarcene. Ma il primo handicap e la prima diversità è quella che ci deve essere, tra virgolette, tra un bambino sano e un bambino che presenta una difficoltà. Se c’è un contesto in cui questi handicap si possono ridurre è proprio quanto più precocemente si interviene e quindi se è giusto che l'articolo 3 della Costituzione trovi la sua applicazione è proprio nell'infanzia (quanto prima meglio).
  Quindi, è necessario il fatto che un bambino e la sua famiglia possano, in primo luogo, esercitare il diritto a scegliere dove formarsi. Prima la collega Centemero ha detto – e io non posso che sottoscriverlo – che a volte la qualità della formazione che a questa età ricevono, in strutture che in qualche modo rispondono a criteri e a canoni educativi di un certo tipo, è migliore di quella che non ricevono in altre scuole (ma questo già sarà un altro discorso). Però, è un fatto, è un fatto ! Che questi bambini possano ottenere e trovare gli stessi aiuti che trovano i compagni che frequentano un'altra scuola è cosa di pura giustizia; non stiamo parlando di benignità, di magnanimità, di misericordia del Ministero: stiamo parlando di un diritto costituzionalmente tutelato da quello che è il documento fondamentale. D'altra parte, il Presidente del Consiglio ha detto, pochi giorni fa, che lui giurava sulla Costituzione e non giurava sul Vangelo. Quindi, se giura sulla Costituzione che giuri pure sull'articolo 3 della Costituzione, senza fare ombra di discriminazione.
  L'ultimo punto lo accennavo all'inizio. Tutti noi abbiamo visto sollevare – e fra l'altro l'abbiamo visto recentemente davanti a un altro disegno di legge – il famoso problema dell'ISEE. Io in questi casi vorrei proprio considerarlo come uno dei valori più importanti, e lo dico veramente, perché è una delle cose su cui mi sono impegnata nella precedente legislatura come componente della Commissione affari sociali e mi sono impegnata più di quanto non avrei fatto su altri temi. Quelle tabelle ISEE erano sbagliate e lo dicevano tutte le associazioni. Non ci fu verso di attirare l'attenzione dell'allora Ministro Fornero facendo tutte le simulazioni per farle capire che nella misura in cui l'indennità di accompagnamento diventa fonte di reddito per il soggetto automaticamente diventa tassabile; se diventa tassabile sommandosi ai redditi che ci sono può spostare l'aliquota in modo tale che il vantaggio acquisito dall'indennità di accompagnamento si può convertire in una nefasta situazione per cui quanto questa persona riceve è meno ancora di quello che ha investito. Avendo fatto tutte le simulazioni, avendo stabilito le quote – diciamo tra virgolette di reddito di partenza – non ci fu un modo, proprio come Pag. 21quando si innalza una parete così, nemmeno l'eloquenza dei numeri di fronte ad un Ministro del lavoro fu capace di ottenere questo. Ci sono volute tre sentenze del TAR, tre sentenze della magistratura che sono intervenute a dire che il Governo aveva sbagliato. Ora siamo abituate a sentenze creative della magistratura, io stessa ne contesto alcune ma – devo dire – ben venga in questo caso una sentenza della magistratura che fa esattamente quello per cui è pagata la magistratura cioè fa la giustizia e restituisce a qualcuno ciò che gli era stato tolto. Quindi che questo disegno di legge intervenga su questo punto, non è che faccia grandi cose: semplicemente cancella quella norma e torna alla norma del 1998. Quindi semplicemente ristabilisce qualcosa e questo è un aspetto positivo. L'unico aspetto negativo è che quel «transitorio» non sappiamo cosa significhi perché potrebbe essere il «transitorio» positivo, per cui si torna al 1998, tutto finito, abbiamo archiviato la Fornero e non se ne parli mai più oppure quel «transitorio» può significare che tra un anno si torna indietro. Questo è un punto chiave.
  Ora mi avvio per davvero alla conclusione, soltanto voglio accennare alla mozione che tra poco si discuterà in quest'Aula che è la mozione sul diritto allo studio. Lasciatemi dire: ma ci poteva essere maggiore dabbenaggine che prendere le borse di studio di studenti meritevoli e in condizioni economiche disagiate e mettere a reddito anche queste borse di studio perché poi su queste ci si potessero pagare le tasse, per cui il vantaggio avuto dalla borsa di studio venisse divorato da questa specie di Leviatano che ogni tanto è il MEF, per dirlo in qualche modo ? Ora questo disegno di legge fa giustizia su questo. Il disegno di legge in esame dice: signori, le borse di studio non si toccano. Se gliele date perché se le meritano e perché ne hanno bisogno, non riprenderete con la mano sinistra quello che gli avete dato con la mano destra perché ancora una volta anche questo interviene in quel complesso meccanismo di dinamiche delle tabelle dell'ISEE così malintese, mal interpretate e male applicate e ingiustamente causa di danno per le famiglie e per gli studenti. Quindi vorrei dire che questo disegno di legge non sarà perfetto, questo disegno di legge presenta come tutti i disegni di legge luci ed ombre ma perlomeno su alcuni punti concreti fa luce e in vista di questo credo che daremo tutto il nostro appoggio su tale disegno di legge.

  PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

(Repliche dei relatori e del Governo – A.C. 3822)

  PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare il relatore di minoranza, Luigi Gallo. Colleghi, avete un paio di minuti perché avete esaurito tutto il tempo.

  LUIGI GALLO, Relatore di minoranza. Grazie Presidente, intervengo solo perché nell'intervento in discussione sulle linee generali la collega di Forza Italia ha detto che si devono assumere tutti gli abilitati senza concorso, cosa che non è mai stata affermata nella mia relazione perché, come sappiamo, esiste la possibilità di fare anche concorsi per titoli e servizio.

  PRESIDENTE. Prendo atto che la relatrice per la maggioranza, deputata Ascani e la rappresentante del Governo rinunziano alla replica.

(Annunzio di una questione pregiudiziale – A.C. 3822)

  PRESIDENTE. Avverto che è stata presentata a norma l'articolo 96-bis, comma 3, del Regolamento la questione pregiudiziale Borghesi ed altri n. 1.
   Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta. A questo punto sospendo la seduta per trenta minuti, riprenderà alle ore 14,10.

Pag. 22

  La seduta, sospesa alle 13,40, è ripresa alle 14,10.

Missioni.

  PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del Regolamento, la deputata Bergamini è in missione a decorrere dalla ripresa pomeridiana della seduta.
  I deputati in missione sono complessivamente novantatré, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell’allegato A al resoconto della seduta odierna.

Discussione del disegno di legge: Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell'impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale (Approvato dalla Camera e modificato dal Senato) (A.C. 2617-B) (ore 14,11).

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge, già approvato dalla Camera e modificato dal Senato, n. 2617-B: Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell'impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale.
  Avverto che è in distribuzione un errata corrige dello stampato A.C. 2617-B. L’errata corrige precisa che a pagina 22, seconda colonna, quarta riga, all'articolo 10, comma 4, primo periodo, del disegno di legge, nel testo modificato dal Senato, la parola: «sodali» deve intendersi sostituita dalla seguente: «sociali».
  Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi è pubblicato in calce al resoconto stenografico della seduta del 20 maggio 2016.

(Discussione sulle linee generali – A.C. 2617-B)

  PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
  Avverto che i presidenti dei gruppi parlamentari MoVimento 5 Stelle e Partito Democratico ne hanno chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del Regolamento.
  Avverto che la XII Commissione (Affari sociali) si intende autorizzata a riferire oralmente.
  Ha facoltà di intervenire la relatrice, deputata Donata Lenzi.

  DONATA LENZI, Relatrice. Grazie Presidente. Arriva oggi all'attenzione dell'Aula in seconda lettura il disegno di legge delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell'impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale approvato da questa Camera il 9 aprile 2015; il Senato ne ha concluso l'iter il 30 marzo 2016. Nel corso dell'esame presso la Commissione affari costituzionali del Senato e successivamente in Assemblea, sono state introdotte diverse modifiche al testo. Mi concentrerò sulle principali, lasciando la lettura integrale della relazione agli atti e un più completo esame delle molte modifiche apportate dal Senato. In sostanza, il Parlamento ha discusso due anni sulla legge delega proposta dal Governo ampliando e approfondendo. Ritengo sia ora necessaria una rapida approvazione per dar tempo all'Esecutivo di emanare nei dodici mesi previsti i molti e complessi decreti legislativi.
  Per semplicità e per contenere i tempi indicherò i punti principali modificati. Partendo dall'articolo 1, recante la definizione di Terzo settore, rilevo che la definizione è stata ampliata. La riporto: si intende per Terzo settore «il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale che, in attuazione del principio di sussidiarietà, in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontarie e gratuite o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi». Alle finalità civiche e solidaristiche già previste sono state, quindi, aggiunte quelle di utilità Pag. 23sociale. Si accentua così una visione più utilitaristica di Terzo settore e si restringe ulteriormente il campo rispetto al complesso degli enti rientranti nel titolo secondo del libro I del codice civile. In pratica, a fronte di più di 300 mila soggetti censiti dall'ISTAT, in grande maggioranza associazioni o associazioni riconosciute e, quindi, regolate dal libro I del codice civile, solo una parte di essi, quella che risponde, non solo al requisito dell'essere no profit, ma a tutti quelli indicati dalla definizione riportata, potrà essere considerata Terzo settore e quindi oggetto degli articoli dal 4 in avanti della presente legge.
  Sento la necessità di chiarire che con il termine «utilità sociale» non può intendersi la sola produzione di beni o di servizi, ma in senso più vasto ciò che fa bene alla comunità, crea solidarietà, costruisce comunità. Si aggiunge poi «mediante forme di azione volontaria e gratuita», rispondendo alle preoccupazioni del mondo del volontariato, timoroso di rimanere schiacciato in un mondo troppo attento all'impresa e già in cerca di un eventuale Quarto settore. La dizione citata chiarisce definitivamente la piena appartenenza del volontariato al mondo del Terzo settore. D'altronde, chi da tempo lo frequenta sa che in realtà il volontariato è la radice, la madre di quasi tutte le associazioni o le imprese solidali.
  Alla precisazione, già presente nel testo approvato dalla Camera, per cui non fanno parte del Terzo settore le formazioni, le associazioni politiche, i sindacati, le associazioni professionali di categoria economica, è stato aggiunto dal Senato che le fondazioni bancarie, pur perseguendo la finalità degli altri enti del Terzo settore, sono escluse dall'applicazione delle disposizioni in esame e da quelle contenute nei decreti attuativi da queste discendenti. Se ne conferma così implicitamente la natura ibrida, a cavallo tra beneficenza e impresa, che le caratterizza sin dall'origine. Spiace però che la scelta fatta le sottragga alle norme generali contenute nella presente legge, dirette a immettere trasparenza e chiarezza nel sistema.
  Sottolineo l'importanza dell'articolo 3, che prevede la revisione delle procedure per acquisire la personalità giuridica; regole valide per tutti i soggetti appartenenti al libro I e non solo per il Terzo settore. L'articolo riconosce l'evoluzione giurisprudenziale che ha concretamente applicato ai soggetti esercenti un'attività di impresa, ma aventi forma giuridica di fondazione o associazione riconosciuta, parte della normativa del libro V in quanto compatibile. Si pensi, ad esempio, alle fondazioni che gestiscono ospedali. Mentre il Senato ha chiarito che si debba tener conto di parametri oggettivi di grandezza. È stata, inoltre, introdotta la lettera e), che prevede la disciplina dei procedimenti e delle trasformazioni omogenee, ossia della possibilità per gli enti non lucrativi di modificare la loro struttura giuridico-organizzativa pur rimanendo nell'ambito delle figure giuridiche contemplate dal libro I. In particolare, la procedura per ottenere la trasformazione e la fusione tra associazioni e fondazioni dovrà avvenire nel rispetto del principio generale della trasformabilità tra enti collettivi diversi, introdotto dalla riforma del diritto societario di cui al decreto legislativo n. 6 del 2003.
  La terza novità di rilievo riguarda l'articolo 5, ossia la revisione dei centri di servizio per il volontariato. Nella nuova formulazione, i centri di servizio per il volontariato possono essere promossi e gestiti da tutte le realtà del Terzo settore, con esclusione degli enti gestiti in forma societaria, ma deve comunque essere garantita la maggioranza alle associazioni di volontariato e garantito il libero ingresso nella compagine sociale di nuove associazioni – è il principio della porta aperta – a garanzia di un necessario continuo ricambio.
  La costituzione dei centri di servizio per il volontariato è finalizzata a fornire supporto tecnico, formativo e informativo, per promuovere e rafforzare la presenza e il ruolo dei volontari nei diversi enti del Terzo settore. Deve provvedersi all'accreditamento dei centri, al loro finanziamento stabile, attraverso un programma triennale con le risorse provenienti dalle Pag. 24fondazioni, così come previsto dall'articolo 15 della legge n. 266 del 1991. Si prevedono, poi, l'introduzione di forme di incompatibilità per i soggetti titolari di ruoli di direzione o di rappresentanza e il divieto, per i suddetti centri, di procedere ad erogazioni dirette di denaro o a cessioni a titolo gratuito di beni mobili o immobili a beneficio degli enti del Terzo settore.
  La lettera f), relativa al controllo delle attività e alla gestione dei centri di servizio, nel corso dell'esame al Senato è stata ampliata prevedendo, accanto al controllo delle attività e della gestione, la revisione delle attività di programmazione dei centri, svolta mediante organismi regionali o sovraregionali coordinati sul piano nazionale.
  Nel testo licenziato dal Senato è altresì prevista l'istituzione del Consiglio nazionale del Terzo settore, un organismo di consultazione a livello nazionale degli enti del Terzo settore, la cui composizione dovrà, fra l'altro, valorizzare le reti associative di secondo livello e al quale non sono però indirizzate risorse umane e finanziarie. Viene superato conseguentemente, rispetto al testo Camera, il riferimento agli osservatori nazionali e regionali.
  Rilevanti anche le modifiche introdotte all'articolo 6. Nel testo in esame sono state modificate la definizione di impresa sociale e la lettera d) sul riparto degli utili. Le due modifiche vanno viste insieme. L'impresa sociale diventa l'organizzazione privata che svolge attività di impresa per le finalità di cui all'articolo 1, comma 1, e destina i propri utili prioritariamente al conseguimento dell'oggetto sociale nei limiti di cui alla lettera d). Quindi, di conseguenza, rientra nel complesso degli enti di Terzo settore. Rispetto alla definizione precedente, sparisce il riferimento all'impatto sociale e viene con più nettezza affermato l'inserimento di diritto nel Terzo settore.
  Al comma 1, lettera d), l'analogia con le cooperative a mutualità prevalente viene sostituita da «comunque nei limiti massimi previsti per le cooperative a mutualità prevalente». La previsione del divieto di riparto degli utili è invece una miglior specificazione della precedente edizione, differenziata in base alla forma giuridica adottata dall'impresa. In sostanza, l'inserimento ope legis dell'impresa sociale nel Terzo settore è compensata da una definizione più stringente e da maggiori vincoli di utilizzo delle risorse.
  Per quanto concerne l'articolo 8, avente ad oggetto la delega per il riordino e la revisione del servizio civile universale, faccio presente che, nel corso dell'esame al Senato, è stato reintrodotto il concetto di difesa non armata della patria, contenuto nel testo originario e soppresso dalla Camera, ed è, invece, scomparso il richiamo esplicito alla realizzazione di esperienze di solidarietà sociale di inclusione, attraverso la realizzazione di esperienze di cittadinanza attiva. Nel corso dell'esame, inoltre, il servizio civile universale è stato aperto anche agli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia e sono state precisate le funzioni dei diversi livelli di governo.
  Rilevo, poi, che all'articolo 9 viene istituito un fondo destinato alle attività di interesse generale promosse da organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale e fondazioni, presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, con una dotazione 17,3 milioni di euro nel 2016 e di 20 milioni di euro a decorrere dal 2017. Viene stabilito, inoltre, che le misure agevolative per l'economia sociale tengono conto delle risorse del Fondo rotativo per il sostegno all'impresa, agli investimenti e alla ricerca.
  La novità di maggior rilievo è l'inserimento dell'articolo 10, che istituisce la Fondazione Italia Sociale, fondazione di diritto privato con finalità pubbliche, che, mediante l'apporto di risorse finanziarie e competenze gestionali, avrà il compito di sostenere, attrarre e organizzare iniziative filantropiche e strumenti innovativi di finanza sociale. Non si tratta di un primo caso; il modello può essere rintracciato nell'Istituto italiano di tecnologia di Genova.
  Per il 2016, per lo svolgimento delle attività istituzionali, alla Fondazione è assegnata Pag. 25una dotazione iniziale di un milione di euro, al cui finanziamento si è provveduto con corrispondente riduzione delle risorse che la legge di stabilità ha destinato alla riforma. Per quanto riguarda l'impiego di risorse provenienti da soggetti privati, la Fondazione dovrà rispettare il principio di prevalenza, svolgendo una funzione sussidiaria e non sostitutiva dell'intervento pubblico.
  La Fondazione è soggetta alle disposizioni del codice civile e delle leggi speciali e dello statuto, non ha obblighi di conservazione del patrimonio o di remunerazione degli investitori. Tutti gli atti connessi alle operazioni di costituzione e di conferimento e di devoluzione alla stessa sono esclusi da ogni tributo e diritto e vengono effettuati in regime di neutralità fiscale.
  Gli interventi innovativi che la Fondazione è chiamata a sostenere sono definiti dal comma 1 come interventi caratterizzati dalla produzione di beni e servizi con elevato impatto sociale e occupazionale, rivolti ai territori e ai soggetti più svantaggiati. Per il raggiungimento dei propri scopi, potrà instaurare rapporti con omologhi enti e organismi in Italia e all'estero.
  Lo statuto della Fondazione dovrà essere approvato con decreto del Presidente Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, sentiti il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e il Ministro dell'economia e delle finanze. Lo schema di decreto dovrà essere trasmesso alle Camere, poiché su di esso siano espressi, entro trenta giorni dalla data di trasmissione, i pareri delle Commissioni competenti.
  Sono previste, inoltre, disposizioni relative all'organizzazione, al funzionamento e alla gestione della Fondazione, la quale ha l'obbligo di trasmissione alle Camere di una relazione annuale sulle attività svolte per il perseguimento degli scopi istituzionali, sui risultati conseguiti, sull'entità e sull'articolazione del patrimonio, nonché sull'utilizzo della dotazione iniziale di un milione di euro.
  Rinviando a una lettura completa delle ulteriori, molte modifiche, che nella mia relazione sarebbero altre pagine, apportate dai colleghi del Senato, concludo ricordando che la riforma si pone il grande obiettivo di riordinare un settore in espansione, regolato attualmente da moltissime norme di favore sparse nei più disparati provvedimenti in modo disorganico, che non ne hanno certo impedito la crescita, ma favorito diseguaglianze non giustificate nei trattamenti.
  Il riordino comporta l'introduzione di una maggiore selettività, in modo che attività rispettabili, ma sostanzialmente egoistiche, siano pienamente legittime, ma fuori dal campo della solidarietà e dell'impegno civico delineato dalla presente legge. Nella lotta ai fenomeni dispersivi, lo strumento principe che la riforma individua è quello della trasparenza delle informazioni. Perché questo sia efficace sarà necessario che i dati resi pubblici siano oggetto di lettura e di verifica da parte della cittadinanza. Sarà, quindi, responsabilità di ciascuno di noi, oltre che delle associazioni stesse, verificarne l'attuazione.
  Il lato più positivo è il riconoscimento e la valorizzazione di uno straordinario patrimonio di energie, di generosità, di idee, di risorse personali e di milioni di ore donate agli altri, che merita il nostro rispetto, il nostro impegno e il nostro grazie.

  PRESIDENTE. Prendo atto che il rappresentante del Governo si riserva di intervenire nel prosieguo. È iscritto a parlare il deputato Paolo Beni. Ne ha facoltà.

  PAOLO BENI. Grazie, Presidente. Siamo al secondo passaggio, in questa Camera, di un disegno di legge a lungo atteso dalle migliaia di organizzazioni di volontariato, associazioni, cooperative e imprese sociali che costituiscono il variegato mondo del terzo settore italiano. Si tratta di un insieme di soggetti che tutti riconoscono ormai come risorsa vitale della società italiana, straordinario serbatoio di energie di volontariato, di civismo, costruttore di coesione sociale, di buona economia protesa al bene comune. Si Pag. 26tratta dell'unico settore, fra l'altro, che ha continuato a crescere e creare nuova occupazione, pure negli anni della crisi.
  Per questo è più che giustificata l'enfasi con cui fu accolto l'annuncio della riforma: un passaggio storico, si disse, una riforma di valenza costituente, il terzo settore che in realtà dovrebbe chiamarsi il primo, come ama dire il Premier. Ma, proprio per questo, dopo venti mesi dall'avvio dell'esame in Parlamento, non possiamo tardare oltre nel rispondere alle molte aspettative suscitate da questa riforma. Si tratta di aspettative che derivano dalla necessità di colmare lacune e incongruenze, che non mancano nella ricca, ma frammentata legislazione di riferimento, per dar vita a una disciplina più organica, più efficace e armonica, rafforzare tutto il sistema delle agevolazioni e degli strumenti di sostegno, revisionare i sistemi di accreditamento e di controllo.
  Io ritengo che il testo che oggi abbiamo in discussione risponda con efficacia a queste esigenze. Il Senato vi ha apportato numerose modifiche, che, tuttavia, non cambiano l'impianto generale e i contenuti essenziali della legge che approvammo in quest'Aula un anno fa. Semmai, in più punti, precisano meglio i principi e i criteri direttivi a cui il Governo dovrà attenersi nell'esercizio delle deleghe e questo è positivo. Mi limito, pertanto, ad aggiungere poche considerazioni a quanto già discusso, anche in occasione della prima lettura della Camera.
  Io penso che il primo merito di questa legge sia che finalmente inserisce nel nostro ordinamento una definizione giuridica del terzo settore, colmando una lacuna che finora ha causato non poca confusione e molte ambiguità. L'articolo 1 identifica, infatti, correttamente gli enti del terzo settore, ne definisce natura, finalità, attività, principi che devono ispirarne l'azione. Si traccia, così, un perimetro chiaro, che delimita il campo del terzo settore nell'ambito del più ampio universo sia dei soggetti senza fine di lucro, di cui al libro primo del codice civile, sia di quelli di impresa, di cui al libro quinto del codice civile. Solo chi sta dentro quel perimetro potrà definirsi di terzo settore e accedere ai benefici e alle norme di favore. Questo è un punto.
  Il secondo merito, a mio parere, è il superamento della cronica frammentazione del terzo settore. Pur senza cancellare le differenze che caratterizzano le diverse forme organizzative, si è scelto di riunire e armonizzare le specifiche norme esistenti in un unico codice del terzo settore.
  Lo stesso vale per il sistema di registrazione degli enti, che saranno iscritti in un registro nazionale unico, pur sempre organizzato in sezioni ed elenchi di settore e sempre in quest'ottica la scelta di un'unica sede istituzionale di rappresentanza del mondo del terzo settore, il Consiglio nazionale, che la collega Lenzi citava poc'anzi.
   Terzo punto: la legge risolve, a mio parere in modo chiaro, un quesito annoso, cioè se noi dobbiamo disciplinare gli enti del terzo settore in base alle finalità che enunciano nei rispettivi statuti, oppure in base alle attività che effettivamente svolgono. La risposta che questa legge ci dà è molto semplice: ambedue le cose, cioè un ente di terzo settore deve, sì, possedere precisi requisiti nella forma costitutiva e nelle finalità iscritte nello Statuto, ma deve anche dimostrare l'effettiva utilità sociale delle attività che realmente svolge.
   Sul nodo dell'impresa sociale è stato già detto, si è discusso molto nei mesi scorsi: l'attuale formulazione rappresenta un buon punto di equilibrio. Viene introdotta la possibilità di una parziale remunerazione del capitale, ma con precisi limiti e condizioni che salvaguardano il carattere non speculativo di queste imprese. Io penso che una virtuosa contaminazione, fra no profit e mercato, e la capacità di attrarre nuovi investimenti nell'impresa sociale non potranno che favorire lo sviluppo del terzo settore senza per questo tradirne l'identità, che risiede – ricordiamolo – innanzitutto nel tratto unificante delle finalità non lucrative e della preminente vocazione all'utilità sociale.
   È importante che la delega preveda la revisione delle misure di agevolazione fiscale, Pag. 27oggi decisamente troppe e spesso poco chiare e la ridefinizione della nozione di ente non commerciale. Questo è un punto delicato, in relazione al quale andrà prestata particolare attenzione alla salvaguardia di quelle attività economiche che sono accessorie, ma finalizzate agli scopi istituzionali e che costituiscono la principale fonte di sostegno per tante associazioni totalmente autofinanziate senza accedere a risorse pubbliche.
   Bisognerà che i decreti attuativi tengano poi nel debito conto anche l'esigenza di graduare vincoli e oneri burocratici in base alle dimensioni degli enti, sul piano economico, organizzativo, del numero dei soci e dell'attività svolta. Se il principio deve valere per tutti e deve essere uguale per tutti, l'onere non può essere uguale per grandi e per piccoli; soprattutto, vanno semplificati gli obblighi formali: meno regole, più chiare e sostenibili da tutti.
   Da questo punto di vista saranno decisive le funzioni di vigilanza e di controllo affidate al Ministero del lavoro e delle politiche sociali, che io mi auguro possa disporre di una struttura adeguata per svolgerle. Buona la scelta di puntare anche su forme di autocontrollo, valorizzando il ruolo delle reti associative di secondo livello e dei centri di servizio per il volontariato. Sono convinto infatti che questa riforma sarà tanto più efficace, quanto più coinvolgerà gli stessi enti in un rapporto leale con le istituzioni.
   Del resto, un virtuoso rapporto fra terzo settore e istituzioni sarà anche la chiave del possibile successo – come lo è stato – del servizio civile nazionale, del servizio civile universale, che viene istituito con l'articolo 8. Grande scommessa sulla formazione civica e la mobilitazione delle energie delle nuove generazioni al servizio del Paese.
   Lo stesso discorso potrebbe valere anche per la Fondazione Italia sociale, introdotta dal nuovo articolo 10. Ben venga uno strumento destinato ad attrarre nuove risorse private da investire in progetti innovativi, ma purché non si sostituisca ai soggetti del terzo settore e svolga semplicemente una funzione di volano al servizio dello sviluppo del terzo settore; si tratta di due cose molto diverse, come è facile intuire.
   Concludendo, siamo di fronte a una riforma – io penso – che contribuirà non poco a semplificare, a fare chiarezza, a sostenere e a incentivare le molte forme con cui si esprime l'iniziativa dei cittadini, che si associano per perseguire il bene comune. Una riforma che sprigionerà appieno tutte le sue potenzialità però solo se saprà valorizzare, non soltanto le capacità economiche e occupazionali del terzo settore, ma soprattutto la sua dimensione solidaristica, partecipativa, popolare e democratica.
  È bene ricordare che infine – e concludo davvero – saranno i decreti attuativi la vera prova del nove dell'efficacia di questa riforma, che ci potranno dire se questa legge non avrà tradito le tante aspettative del mondo del terzo settore. E sarà decisivo il metodo con cui si lavorerà alla stesura dei decreti attuativi, che entreranno nel merito e nel dettaglio delle tante norme di cui stiamo parlando.
   Per questo, io mi sento, in conclusione del mio intervento, di dover chiedere al Governo, al sottosegretario Bobba, di affrontare questo lavoro, che sarà il lavoro dei prossimi mesi, continuando a tenere aperto, anche nella prossima fase, quel confronto costante e costruttivo con gli enti del terzo settore e con le varie organizzazioni di rappresentanza del mondo del terzo settore, che in tutta questa fase che abbiamo alle spalle ha dimostrato di dare ottimi frutti.

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare il collega Antonio Palmieri. Ne ha facoltà.

  ANTONIO PALMIERI. Grazie, Presidente. Innanzitutto, volevo darle una buona notizia: non userò tutti i 30 minuti che mi spetterebbero, riservandomi di fare di meglio e di più quando discuteremo del provvedimento, in una cornice più adeguata, cioè con l'Aula piena, ma soprattutto con l'attenzione dei media puntata su questo settore, che – lo ha ricordato il collega Beni – il Premier ama definire non Pag. 28il terzo, ma il primo. Ama definirlo così, tanto spesso, che più volte aveva annunciato delle date di scadenza e di chiusura di questo provvedimento, invece io sono stato facile profeta quando nell'aprile dello scorso anno, chiudendo il mio intervento qui alla Camera, avevo preannunciato tempi molto più lunghi, come in effetti è stato, per un provvedimento che sia la relatrice Lenzi, che il collega Beni hanno ricordato, appunto ci ha tenuto impegnati per molto, molto, molto tempo.
  Questo è un testo blindato perché ci torna dal Senato profondamente modificato e io esprimo la mia totale solidarietà politica e umana ai colleghi che mi hanno preceduto perché avrete letto tra le righe dei loro interventi una certa dose di delusione e di rammarico perché, rispetto al lavoro che era stato fatto in questa Camera, loro hanno dovuto subire pesanti interventi nell'altra parte del Parlamento, frutto essenzialmente di quello che è il tema di questa legislatura, che è la capacità del Partito Democratico di reggere di fronte agli stress.
   Quindi – e questo mi sembrava doveroso dirlo nei loro confronti e anche nei confronti del sottosegretario Bobba, ovviamente, che non dimentico nel mio intervento – il lavoro che ci è tornato dal Senato ha ridotto purtroppo un po’ di quei punti positivi che avevamo consegnato ai senatori con il nostro lavoro qui alla Camera e ha confermato appieno i difetti di questa norma. I difetti fondamentali sono l'eccesso di delega – io invito a rileggere l'ultima parte dell'intervento dell'onorevole Beni – cioè l'eccesso di delega non circoscritta di questo provvedimento, per cui lui dice – la mia interpretazione è questa, non di lui, ma della realtà – sostanzialmente che come sarà in realtà la riforma del terzo settore lo scopriremo solo vivendo, nel senso di attendere questi decreti attuativi che l'onorevole Lenzi ha definito molti e complessi, ai quali il Governo è appunto atteso nei prossimi dodici mesi. L'auspicio è che non facciano la stessa fine dei decreti attuativi della riforma della pubblica amministrazione e che quindi realmente si stia nei dodici mesi che sono previsti da questa norma, che approveremo all'indomani credo del primo turno delle elezioni amministrative, perché realmente, lì sì, avremo appunto la cartina di tornasole, la prova dei fatti, la prova del nove di quelle che sono le reali intenzioni del Governo, perché di fatto non le conosciamo. Abbiamo dato una serie di paletti, certamente ripeto alcune cose positive ci sono, però la sostanza ci è ignota.
  Aggiungo il tema, tra i limiti confermati anche in questo passaggio al Senato, pure ricco di tante modifiche, della scarsità dei finanziamenti come, per esempio, quelli che riguardano il servizio civile universale. Poi c’è questa novità dell’«Iri del sociale»: la Fondazione Italia sociale, che è stata anch'essa annunciata più di un anno ed è stata annunciata da colui che la guiderà dando, appunto, questo nome a questa nuova realtà, cioè «Iri del sociale». Credo che, nel 2016, rievocare L'Iri sia insomma quanto meno un po’ anacronistico. Vi è la speranza che non faccia, come lo stesso onorevole Beni ha detto nel suo intervento, come la vecchia IRI, cioè non si sostituisca al protagonismo delle tante realtà del terzo settore, immaginando per lo Stato un ruolo di giocatore in campo. Questo contraddirebbe quel principio di sussidiarietà, che è la cosa che a noi di Forza Italia sta molto a cuore e che ci consente di stare in questo dibattito a pieno titolo, per quanto fatto dai nostri Governi dentro, appunto, un alveo di sussidiarietà vera.
  Io cito rapidamente provvedimenti come la «legge del buon samaritano», che abbiamo recentemente novellato con la normativa che abbiamo approvato in questa Camera sul buon uso degli scarti del cibo; cito, ovviamente, il 5 per mille, che per tutti ormai è un dato acquisito e in questi giorni noi vediamo le campagne di promozione e di pubblicità degli enti, grandi e piccoli, per accaparrarsi questa forma di finanziamento, questa forma di democrazia fiscale, ma il 5 per mille l'ha inventato il Governo Berlusconi; cito la «Più dai meno versi» del 2005, che è tra le cose che dovrebbero essere riviste, se ho ben capito la delega all'interno di questo Pag. 29provvedimento, ma che era una forma, anche quella, di straordinaria democrazia fiscale, perché defiscalizzava gli investimenti fatti dai privati e dalle imprese a favore del terzo settore (io spero che questa fiscalità non venga toccata); cito il provvedimento di origine dell'impresa sociale che aveva semmai il difetto opposto a questo provvedimento, perché è anch'esso una legge delega del 2005 ma era una delega talmente circostanziata che, di fatto, la delega ha ripreso quasi del tutto il testo della norma delega; e, infine, la normativa per le start up a vocazione sociale, che abbiamo approvato durante il Governo Monti con il nostro concorso.
  Per cui noi stiamo, come Forza Italia, a pieno titolo in questo dibattito perché, appunto, abbiamo dimostrato con i fatti che il terzo settore è il primo, ma non dando allo Stato, appunto, un ruolo di giocatore in campo bensì riconoscendo ai cittadini il compito di scegliere e selezionare le realtà che volevano incrementare e che volevano sostenere nella loro iniziativa e al tempo stesso dando la possibilità alle realtà di poter giocare il loro ruolo da protagonisti nella società nel modo migliore possibile.
  Mi avvio a concludere con un suggerimento di lettura. Io vi segnalo un libro, di Paolo Venturi e Flaviano Zandonai, che è uscito all'inizio di questo mese di maggio che si intitola: Imprese ibride. Modelli d'innovazione sociale per rigenerare valori e faccio una piccola citazione di questo testo, che non è solamente un invito ma è un consiglio di lettura. Io non ho ovviamente nessun tipo di conflitto d'interesse. Conosco Flaviano Zandonai e, quindi, è un consiglio totalmente disinteressato ai colleghi del Partito Democratico ma mi permetta, Presidente, soprattutto ai colleghi del MoVimento 5 Stelle e ai colleghi di Sinistra Italiana. Questo perché ? Il perché lo dirò dopo. Faccio questa piccola citazione. Il libro, appunto, tratta di questo progetto di mutamento che sfida le categorie politico-culturali più consolidate della modernità, cioè pubblico e privato, individuale e collettivo, produttivo e sociale. Questo libro dimostra come questo dualismo, queste dualità sono, in realtà, in via di trasformazione; si stanno modificando, si stanno contaminando tra di loro. L'impresa sociale, diciamo così, del 2016 e del terzo millennio è l'impresa che va in quella direzione lì: è la capacità di allargare, da un lato, il concetto di sussidiarietà e, dall'altro lato, anche di allargare il concetto di profitto; è la capacità di riconoscere che davvero è pienamente pubblico il servizio e non soltanto chi lo eroga.
  È quella capacità per la quale noi abbiamo... anzi, voi nella legge di stabilità avete accolto la norma che mette capo in Italia per la prima volta alle cosiddette Benefit Corporation. È il tema, il grande tema, della finanza a impatto sociale, con tutte le valenze positive che questo comporta, appunto in un'ibridazione di pubblico e privato, di profitto per chi investe in un'iniziativa che ha una ricaduta sociale. Tutto questo porta con sé il grande tema della misurabilità degli interventi a impatto sociale e su questo nuovamente il testo della norma che stiamo discutendo non ci dà delle risposte chiare e, anzi, al Senato da questo punto di vista, a mio giudizio, si è fatto un piccolo passo indietro proprio per i motivi che ho detto. Per questo, dicevo, consiglio a tutti la lettura di questo libro, cioè l'approfondimento di questo concetto. Lo consigliamo – dicevo – in particolare ai colleghi e alle colleghe del MoVimento 5 Stelle e ai colleghi e alle colleghe di Sinistra Italiana, perché questo consentirebbe loro di uscire da quella visione statalista che, tra l'altro, obbliga pezzi del PD a vergognarsi delle buone norme che esso approva. È quindi veramente un peccato.
  Ma, al di là delle battute, in realtà occorre superare una concezione che è – lasciatemela definire così – arcaica di ciò che è pubblico, di quello che è il ruolo dei privati nella società, quei privati che voi spesso chiamate, appunto, privati con una forma di disprezzo nel nome, mentre, per noi, sono cittadini che, insieme o in forma associata, decidono di farsi carico di un pezzo di bene comune.
  Allora, Presidente – e concludo davvero –, noi, nel primo passaggio alla Camera, Pag. 30abbiamo dato un voto di benevola astensione rispetto a questo provvedimento, per incoraggiare appunto la maggioranza in una strada, soprattutto culturale, di mutamento di prospettiva che sembrava avere intrapreso. Studieremo ancora di più nel dettaglio il provvedimento, ascolteremo soprattutto come il provvedimento viene interpretato dalla stessa maggioranza, per poi definire l'atteggiamento da tenere in sede di voto finale, però, appunto, consapevoli del fatto che anche in questo campo non possiamo più pensare che le cose stiano come sono sempre state. Questo tempo che stiamo vivendo non è, appunto, un tempo in senso generale di crisi, ma è un tempo di travaglio (non nel senso del Marco ma nel senso del parto). Per cui, non è possibile pensare di tornare a come eravamo prima, non è possibile ragionare in termini di terzo settore e di utilità sociale o di interventi che abbiano impatto sociale con le vecchie categorie dell'Ottocento e del Novecento.
  Per questo io spero che, dal dibattito che avremo in quest'Aula, si possa avere almeno un passo avanti in questa direzione, che sia uno strumento di pungolo soprattutto da parte della maggioranza rispetto al lavoro di composizione dei decreti attuativi che il Governo è chiamato a varare nei prossimi dodici mesi, decreti sui quali anche noi vogliamo essere attivi e vigilanti in rapporto con le realtà del terzo settore, singole e associate, che in questi anni di discussione del provvedimento non hanno fatto mancare di sentire la loro voce. Per questo motivo io concludo: auguro a tutti un buon pomeriggio di lavoro e l'arrivederci a quando avremo il dibattito in Aula.

  PRESIDENTE. Grazie e buon lavoro anche a lei.
  È iscritta a parlare la collega Binetti. Ne ha facoltà.

  PAOLA BINETTI. Presidente, illustri membri del Governo, colleghi presenti in quest'Aula in cui è già cominciato il dibattito vero, per dare risposta all'amico e collega Palmieri. Giunge oggi in Aula il disegno di legge di delega al Governo per la riforma del terzo settore, dell'impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale. Era stato approvato alla Camera nell'aprile 2015, quindi giustappunto poco più di un anno fa, mentre il Senato ha già concluso l'iter il 30 marzo 2016. Non c’è dubbio: evidentemente alla Camera lavoriamo più velocemente e più concretamente di quanto non siano i tempi che si prendono al Senato. Vedremo, quindi, la prossima legislatura che cosa ci riserverà a questo proposito. Però, il testo che è arrivato oggi è un testo blindato e noi siamo sollecitati a non modificarlo proprio per accelerarne l'iter di approvazione. Questo è, dal punto di vista della metodologia democratica, qualcosa che si sta ripetendo troppo spesso per lasciarci soddisfatti su questo punto. Lo sottolineiamo semplicemente come modello di prassi parlamentare, che però ci sembra non risponda fino in fondo a quei criteri di democraticità che sarebbero auspicabili perché ognuno possa esprimere con tutta la libertà e la proprietà possibile il proprio punto di vista sull'articolato stesso della legge, non solo come è partita, ma anche come è arrivata, perché non c’è dubbio che la legge che noi abbiamo inviato al Senato aveva una fisionomia, che è cambiata nel suo ritorno alla Camera, e il doverla accettare a scatola chiusa non è stato sicuramente piacevole.
  Qualcuno ha considerato questa legge delega una sorta di svolta epocale che potrebbe liberare un enorme potenziale sociale che finora non si è potuto esprimere in modo adeguato proprio per un quadro normativo arcaico e disordinato, io direi sostanzialmente frammentato. La norma sul terzo settore può diventare una delle molle di sviluppo del Paese, non solo e non tanto sul piano economico, dove peraltro ha un'enorme capacità di mobilizzazione, ma soprattutto sul piano etico, per la qualità e la quantità delle risorse morali che riesce ad attivare a livello di questione sociale, di solidarietà e di integrazione. È davvero un obiettivo altissimo, anche a livello politico, un obiettivo che fa risuonare le parole di Paolo VI quando Pag. 31diceva che la politica è la più alta forma di amore verso i cittadini. Il bello sostanziale del terzo settore – lo dico per la dialettica che si era sviluppata poco fa tra il pubblico e il privato – è proprio che se c’è un ambito in cui non c’è statalizzazione – poi vedremo perché all'altezza dell'articolo 10 noi manteniamo alcune perplessità – è proprio il fatto che non ci sarebbe il terzo settore senza il privato; non ci sarebbe il terzo settore senza l'enorme capitale di creatività, di flessibilità, di generosità, di solidarietà che i cittadini a titolo personale mettono in gioco. È fondamentale non banalizzare la portata innovativa dei diversi articoli e non rinchiudere lo spazio del terzo settore in confini angusti e soffocanti. Fino ad ora l'intero settore ha vissuto in un perimetro ibrido, spesso ai margini di un'applicazione rigida di norme che non ne rappresentavano affatto quella ricchezza di creatività e di flessibilità di chi ha bisogno di tagliare le sue iniziative a misura del contesto in cui si muove e dei bisogni che evidenzia di volta in volta. La rigidezza non si addice al terzo settore, che ha bisogno di intercettare bisogni emergenti per giungere laddove lo Stato non può ancora giungere e può invece marcare una strada nuova, sfidando pregiudizi e ribaltando consuetudini improduttive. Laddove qualcuno ripete come un mantra «non si può fare», il terzo settore risponde «no problem», oppure «già fatto». Se l'ostruzionismo burocratico ne decreta la morte, le sfide difficili invece ne accendono la fantasia e ne mobilitano energie insospettate. È questo forse l'obiettivo principale della legge: aprire spazi nuovi e nuove prospettive, individuare nuove strategie in nuovi modelli di intervento, dando loro un minimo di regolamentazione e un massimo di trasparenza nella gestione economica. Oggi abbiamo bisogno di sperimentare nuove forme di welfare che, senza sostituirsi allo Stato, ne anticipino i cambiamenti positivi che le persone attendono. Penso alle nuove forme di housing sociale, alle molteplici esperienze nel campo dell'inserimento professionale, alle forme rivoluzionarie di commercio solidale e di acquisti sociali, al riciclo di beni e servizi, a questa nostra società di anziani che ha bisogno di valorizzarne il capitale di esperienza e di generosità, alle più svariate forme di attrazione di capitali a lungo termine e a basso rendimento, alla riduzione della pressione fiscale per iniziative che potranno apparire anche a tanti investitori degne di essere sostenute e incoraggiate. La legge non ignora né la complessità sociale di questo mondo, né le devianze a cui abbiamo assistito più recentemente, per cui interviene a disciplinare in modo chiaro ma leggero, stando ben attenta a non appiattire un settore che ha bisogno di ali per esprimere le sue potenzialità di servizio e di accoglienza, ma non vuole che si trasformino in privilegi quelli che sono obblighi di servizio. L'articolo 1 definisce cosa si debba intendere quando si parla di terzo settore (alle finalità civiche e solidaristiche sono state aggiunte in Senato quelle di utilità sociale), divenuto una sorta di filo conduttore che corre lungo tutto il testo.
  Le attività di interesse generale proprie del terzo settore possono, quindi, essere realizzate in tre modi diversi: mediante un'azione volontaria e gratuita, mediante le modalità proprie dell'associazionismo che si orienta alle politiche di mutualità, mediante la produzione e lo scambio di beni e di servizi, penso per esempio alle cooperative, alle imprese sociali, eccetera. Non fanno parte del terzo settore le formazioni e le associazioni politiche, i sindacati, le associazioni professionali di categoria economiche e neppure le fondazioni bancarie.
  In altri termini, appare chiaro che nel terzo settore confluiscono quelle che possiamo chiamare le migliori energie del Paese, sotto il profilo etico ed umano, ma anche sotto il profilo tecnico e professionale, e vi confluiscono liberamente e gratuitamente. Nessuno può essere obbligato a partecipare o a porre in essere iniziative da terzo settore, ma per organizzare tutte queste energie e per canalizzarle opportunamente al fine che si propongono è necessario che ci siano persone che vi si dedichino anche professionalmente e a cui Pag. 32spetta una giusta remunerazione. È il delicato equilibrio di tutte le iniziative in questo ambito: tenere insieme la gratuità di chi collabora liberamente e la professionalità di chi organizza questa libera adesione a programmi e progetti.
  Queste persone però – la legge lo dice anche abbastanza esplicitamente in un passaggio – non debbono avere un contratto dissimile da quello degli altri professionisti in analoghi settori. In altri termini, non ci si impegna nel terzo settore per fare carriera, né ci si impegna nel terzo settore per guadagnare di più che in altri settori; chiunque si accinge a lavorare nel terzo settore, anche in compiti organizzativi complessi, lo deve fare portando in sé quella carica di idealità e di generosità che rende anche quella remunerazione all'altezza degli obiettivi stessi dell'organizzazione. Per questo i tre modi elencati – azione volontaria e gratuita tipica del volontariato, logiche proprie della mutualità, tipiche di ogni forma di associazionismo e produzione e scambio di beni e servizi, come accade con le cooperative e le imprese sociali – possono convivere in uno stesso contesto ad alta densità valoriale sotto il profilo sociale.
  I principi e i criteri direttivi generali cui devono uniformarsi i decreti legislativi sono contenuti all'articolo 2. Nel corso dell'esame al Senato è stato modificato il criterio riferito al riconoscimento e alla promozione dell'iniziativa economica privata, precedentemente connotata come attività economica privata svolta senza fini di lucro e diretta a realizzare la produzione e lo scambio di beni e servizi di utilità sociale o di interesse generale. Nel testo licenziato dal Senato l'attività economica privata da riconoscere e favorire è quella il cui svolgimento, secondo le finalità e nei limiti di cui al provvedimento in esame, può concorrere ad elevare i livelli di tutela dei diritti civili e sociali.
  Al centro dell'attenzione, in altri termini, non c’è l'attività economica – questo lo dico perché parliamo di iniziativa economica privata – ma il ruolo che svolge a tutela dei diritti sociali e civili è il vero centro di questa norma e quindi di questo articolo.
  Il tema dei diritti nel terzo settore, coerentemente con la cultura del nostro tempo, definito il secolo dei diritti, è quindi centrale nel disegno di legge di delega. L'accento non è tanto messo sui bisogni di classi fragili quanto sui loro diritti, non è nella benevolenza di chi dà, ma nel diritto di chi riceve.
  L'articolo 3 detta principi e criteri relativi alla personalità giuridica degli enti del terzo settore, impegnandoli soprattutto nella trasparenza della gestione economica. La storia di questi ultimi anni ha rivelato troppe volte il volto buio del terzo settore, le sue ombre, spesso collusive con ambienti di devianza, che offendono la buona volontà di chi ha dato con generosità, ma si pongono anche in conflitto diretto con la legge e la legalità ed è per questo, quindi, che la legge ribadisce la necessità di pubblicare i bilanci, utilizzando anche le risorse più semplici, più moderne, come sono quelle del sito Internet dell'ente stesso. Questo è un aspetto importante, su cui forse non si dirà mai abbastanza: meno vincoli all'inizio, più libertà, più autonomia, più flessibilità, più creatività e più funzioni di controllo successivamente.
  L'articolo 4 disciplina i principi e i criteri direttivi ai quali dovranno uniformarsi i decreti. Questo è un aspetto molto importante perché parliamo di una legge delega, quindi noi possiamo affermare principi generali ma poi la sostanza, tutta la sostanza sarà nei decreti attuativi, ed è lì che noi dobbiamo portare la nostra azione, detto sinceramente, di controllo, di vigilanza e, laddove possibile, fin quanto possibile, di collaborazione. E questo prevede dei passaggi che sono particolarmente interessanti come l'aggiornamento periodico delle attività di interesse generale, il fatto che le attività di interesse generale debbano essere tutte collegate alla definizione iniziale di terzo settore, quindi sì creatività, sì, originalità, sì, possibilità di sperimentare forme nuove, ma Pag. 33sempre e solo nel solco che definisce il primo articolo in cui si declinano i fini stessi della legge.
  Per garantire l'assenza di scopi lucrativi, deve essere promosso un principio di proporzionalità tra i diversi trattamenti economici dei dipendenti; è quello che dicevo prima, è chiaro che, per organizzare il volontariato, ci vogliono professionisti che in qualche modo dedichino a questo non un tempo residuale della propria giornata, ma un tempo sostanziale, quello che dedicherebbero a un lavoro professionale, ma è fondamentale che siano i primi e i più esemplari a mostrare che stiamo parlando di iniziative, per l'appunto, di terzo settore.
  L'articolo 5 contiene i principi e i criteri direttivi cui devono attenersi i decreti legislativi con i quali si provvede al riordino e alla revisione organica della disciplina vigente in materia di attività di volontariato, di promozione sociale e di mutuo soccorso. In questo caso, si accentua il riconoscimento della specificità delle organizzazioni di volontariato e di quelle di Protezione civile, tralasciando le associazioni di promozione sociale e le associazioni operanti nel campo dell'emergenza-urgenza sanitaria, anche perché queste rappresentano una tipicità con una complessità, con una richiesta di competenza specifica per la quale non basta la buona volontà del volontariato, occorre veramente un alto profilo di professionalità. Si prevedono diverse cose interessanti, in questo campo, ma, soprattutto, voglio leggerne una che ho segnato perché mi ha colpito particolarmente: se, da un lato, centri di servizio per il volontariato possono essere promossi e gestiti da tutte le realtà del terzo settore, d'altro lato, devono essere accreditati attraverso un programma triennale e debbono funzionare democraticamente, per esempio, deve essere consentito il libero ingresso nella base sociale e va garantito il ruolo dell'assemblea con la maggioranza assoluta dei voti alle organizzazioni di volontariato e, poi, successivamente, vanno verificati i risultati raggiunti.
  Ciò può sembrare una cosa di secondaria importanza, ma chiunque di noi abbia lavorato nelle imprese di volontariato sa che, in genere, chi crea una struttura di questo tipo, dopo un po’, in qualche modo, ne diventa un po’ il padre padrone e la gestisce con criteri molto, potremmo dire, da cerchio magico, nel senso che «i miei amici», «i miei colleghi», «coloro che sostengono di più questa attività», diventano anche coloro che, in qualche modo, hanno diritto a partecipare ai processi decisionali, lasciando un po’ sullo sfondo quelli che sono tutti gli altri soci che si sono uniti successivamente, tutti coloro che collaborano con quelle forme di micro collaborazione che, però, corrispondono, anche, alla creazione del capitale sociale dell'iniziativa dell'associazione di cui si sta parlando.
  Nell'articolo 6 del testo attuale sono state modificate sia la definizione di impresa sociale che le norme sul riparto degli utili. Questo ha creato un grosso dibattito, quando ne abbiamo parlato alla Camera, proprio rispetto alle norme del riparto degli utili, perché sembrava strettamente coerente col discorso di terzo settore che, se utile c'era, questo utile andasse reinvestito immediatamente nelle iniziative di cui stavamo parlando e a noi piacerebbe molto, in realtà, che il volontariato mantenesse questa pulcritudine di intenzioni, questa sua trasparenza di motivazioni; forse sarà un po’ romantico e sentimentale, però, in realtà, risponde a un criterio etico molto forte che ci piacerebbe, davvero, che mantenesse tutta la sua forza e la sua coerenza.
  L'articolo 7, ovviamente, fa riferimento al fatto che la vigilanza e il monitoraggio del terzo settore sono di competenza del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, come, di fatto, è anche adesso.
  L'articolo 8 interviene sul concetto di servizio civile universale e, in qualche modo, lo apre anche, poi, a cittadini stranieri presenti in Italia con un permesso regolare di soggiorno e l'articolo 9 si riferisce a quelle che potremmo chiamare le discipline tributarie e le diverse forme di fiscalità di vantaggio.Pag. 34
  Credo che una delle frustrazioni più grosse per chi si occupa di queste iniziative sia scoprire che, a un certo punto, tutti quegli sforzi che sono stati fatti per creare un capitale, per ottenere donativi e così via, vengono, in qualche modo, assottigliati e risucchiati, poi, dallo Stato che non dà, a volte, l'aiuto corrispondente che queste iniziative potrebbero meritare e che sotto certi aspetti fanno bene a non avere, per potersi garantire obiettivi di libertà; però, nello stesso tempo, poi, interviene quella che noi chiamiamo mano rampante in campo altrui.
  L'articolo 10, sì, è stato citato da più di un collega. L'articolo 10 istituisce la Fondazione Italia Sociale, una fondazione di diritto privato con finalità pubbliche che, mediante l'apporto di risorse finanziarie e di competenze gestionali, avrà il compito di sostenere, attrarre e organizzare iniziative filantropiche e strumenti innovativi di finanza sociale. Direi che questo è lo scopo di tutto il terzo settore, tutto il terzo settore vuole porsi come una forma di innovazione rispetto al contesto sociale, capace di attrarre risorse, capace di svolgere una funzione molto alta. Staremo a vedere che cosa ne sarà di questa fondazione, nei confronti della quale, se, da un lato, si possono aprire spazi di speranza, si aprono, anche, però, spazi di perplessità.
  In conclusione, punto di forza di questa legge è il quadro normativo chiaro in cui colloca il terzo settore, sottraendolo a quella forma di limbo confuso, in cui le buone intenzioni giustificavano anche alcune ambiguità e si correva il rischio che qualcuno ne approfittasse, riducendo la qualità dei servizi, creando condizioni stipendiali sproporzionate, giustificando una serie di evasioni fiscali inaccettabili.
  In questo disegno di delega c’è una visione precisa dei soggetti a cui la legge si riferisce; si chiedono loro statuti precisi, un'amministrazione rigorosa, una puntuale descrizione delle attività svolte in coerenza con la propria mission, che può essere anche molto ampia, ma che deve garantire competenza ed efficacia.
  La buona volontà o la volontà di far cose buone costituiscono condizioni necessarie, ma non sufficienti; occorre far bene il bene, soprattutto quando il suo impatto sociale è molto alto.
  Le dieci parole chiave di questa legge delega a noi sembrano: chiarezza nelle finalità, competenza nelle iniziative, trasparenza nell'organizzazione, rigore nella rendicontazione, flessibilità nella gestione, reattività nella progettazione, valorizzazione della generosità, aderenza ai bisogni, integrazione dei modelli e rispetto delle diversità tipiche del terzo settore. Resta, tuttavia, complesso definire il ruolo del terzo settore rispetto al welfare pubblico, perché il welfare pubblico, in qualche modo, rappresenta un'obbligatorietà dello Stato, mentre invece il terzo settore ha una sua dimensione, come dire, di gratuità, di liberalità e di sguardo che precede lo Stato e, in qualche modo, lo anticipa proprio nelle sue scelte. La dimostrazione tipica è più persone, meno Stato, cioè più capacità per ognuno di noi di sentirsi parte integrante del proprio sistema sociale e non aspettare necessariamente che qualcuno dica: devi fare così, devi muoverti in questo modo; ti puoi anticipare perché c’è qualcosa che va oltre la norma scritta, perché fa parte, a mio avviso, di quella legge naturale che ognuno di noi si porta nel proprio cuore.
  Resta di grande rilievo il rimando costante, in questo disegno di legge, a una autocertificazione previa, che presuppone autocontrollo, un vero e proprio atteggiamento di autovigilanza, ma anche un sistema proprio di un riconoscimento esplicito di un'etica pubblica che è possibile; il criterio di sorveglianza rispetto ai rischi che l'etica può avere, trasformandosi in complicità, in omertà e in devianza, non deve farci dubitare della qualità umana e morale delle tantissime persone che si impegnano in questo settore ed è quello che chiameremo senso di responsabilità in una gestione fortemente ancorata a una solida etica pubblica.
  Quanto alle critiche sorte in Commissione sulla Fondazione Italia Sociale, saranno i risultati a dare ragione agli uni o Pag. 35agli altri; occorrerà vigilanza, ma non si può negare che potrebbe diventare uno strumento di grande interesse, sotto il profilo innovativo, di una nuova concezione di welfare più vicino alle iniziative mancate dello Stato oppure a quella ragione di prossimità di ciò che lo Stato può fare; è come se potesse diventare una sorta di laboratorio sperimentale, in cui si fa prima lì, per poter fare dopo, generalizzando i processi.
  Questa legge pone le basi di un terzo settore positivamente competitivo per la qualità dei servizi offerti e per le condizioni economiche a cui vengono offerti, una sfida all'intero sistema che vale la pena raccogliere. Ora tocca ai decreti attuativi tradurre tutto ciò in possibilità concrete che mantengano lo spirito della legge, favoriscano il coinvolgimento dei cittadini, consentendo loro di andare al di là dello strettamente dovuto, per anticipare quello che lo Stato non è ancora in condizione di fare, per realizzare e venire incontro ai bisogni emergenti delle classi e delle situazioni a più alta densità di problematicità.
  È una legge che si muove un po’ nel solco preciso, perfetto di quello che Papa Francesco non manca, di giorno in giorno, di ricordare a tutti noi. È un invito, una sollecitudine che viene a tutti, a tutti i cittadini, a tutto il Paese; è un qualcosa che attinge davvero a quello che potremmo chiamare la coscienza profonda e propria di ognuno che voglia considerarsi, a pieno titolo, come un soggetto libero e non come un soggetto schiavo presente nel Paese.

  PRESIDENTE. È iscritta a parlare la collega Di Vita. Ne ha facoltà.

  GIULIA DI VITA. Presidente, cos’è il terzo settore ? Viene chiamato terzo, per distinguerlo dai due cosiddetti settori principali, ovvero, da un lato, lo Stato e, dall'altro, il libero mercato. Ognuno di questi settori è dedito alla produzione di beni e servizi per la comunità o per i clienti consumatori, ma con caratteristiche e modalità molto differenti tra loro: lo Stato è quello che stabilisce e fornisce i servizi essenziali ai propri cittadini a fronte del pagamento dei tributi, ed è determinante nell'erogazione di quei servizi pubblici che il mercato non offrirebbe mai, perché strategicamente sconveniente sotto il profilo del guadagno, generando quindi un fallimento di mercato (tipico esempio di questo è il settore della difesa nazionale o l'illuminazione pubblica: nessuna azienda privata infatti si sognerebbe mai di occuparsene); il libero mercato, invece, è l'insieme di produttori di beni e servizi (soggetti privati) che operano alla ricerca del proprio profitto, offrendo i propri prodotti ai clienti, che ottengono il bene o il servizio a fronte del pagamento dello stesso. Tra i due si pone il terzo settore, che è invece rappresentato da una folta tipologia di enti privati, come quelli del libero mercato, ma che operano senza scopo di lucro e in settori principalmente pubblici, come quelli dello Stato. Si tratta quindi, se vogliamo, di un ibrido fra Stato e mercato, in cui gli enti sono privati (parliamo infatti di ONLUS, cooperative, fondazioni, associazioni, eccetera), ma i servizi o i beni sono prodotti non al fine di produrre guadagno, ma esclusivamente di soddisfare i bisogni dei cittadini.
  È chiaro che mantenere queste distinzioni ferme e ben delineate è assolutamente essenziale e prioritario. Lo Stato non può e non deve soccombere né al mercato, che, come abbiamo visto, non potrebbe comunque soddisfare tutti i bisogni della comunità, né al terzo settore, che nasce e si sviluppa sotto la spinta di privati cittadini, che si mettono insieme per sostenere la propria comunità e quindi affiancano le istituzioni, ma non potrebbero mai sostituirle, sia perché non ne posseggono le caratteristiche, sia perché verrebbe meno il concetto stesso di Stato così come concepito dai nostri padri costituenti.
  Tuttavia, la Costituzione, come anche da recente modifica, sancisce il principio della sussidiarietà (all'articolo 118) suddiviso in due aspetti: in senso orizzontale, significa che il cittadino, sia come singolo che attraverso i corpi intermedi, deve Pag. 36avere la possibilità di cooperare con le istituzioni nel definire gli interventi che incidono sulla realtà sociale a lui più prossima; il secondo aspetto è il senso verticale: la ripartizione gerarchica delle competenze deve essere spostata verso gli enti più prossimi al cittadino e, pertanto, più vicini ai bisogni del territorio; principio ribadito anche a livello comunitario, quando viene affermato che la comunità agisce nei limiti e nelle competenze che le sono conferite e degli obiettivi che le sono stati assegnati dal trattato; nei settori che non sono di sua esclusiva competenza, la comunità interviene secondo il principio della sussidiarietà soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell'azione prevista non possano essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni o degli affetti dell'azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario.
  È del tutto evidente, quindi, quanto sia fondamentale e spesso non adeguatamente riconosciuta l'attività degli enti del terzo settore. Il primo studio e censimento, infatti, condotto in Italia sulla cosiddetta economia sociale, appunto quella sviluppata dagli enti no profit, è solo del 2008 e i risultati anche più recenti sono sorprendenti. Contiamo infatti 5 milioni di volontari, 700 mila lavoratori, 3,4 per cento del PIL, 64 miliardi di euro di entrate. Quasi il 90 per cento degli enti no profit è costituito sotto forma di associazione, seguite poi dalle cooperative, con il 3,7 per cento, e via via le restanti forme giuridiche; più diffuse al nord che al sud, in cui prevalgono le piccole realtà piuttosto che le grandi cooperative.
  Nonostante la prolungata crisi economica, quindi, il terzo settore resiste, ma non solo, cresce e si sviluppa. È forse proprio la crisi economica e anche quella socioculturale la molla principale che spinge i cittadini a ritrovare e alimentare il senso di comunità e il sentimento di solidarietà, privi di ogni interesse economico o tornaconto personale, per mettersi insieme al fine di aiutarsi gli uni e gli altri, sia su piccola che su grande scala.
  I settori più produttivi risultano essere ad oggi soprattutto l'assistenza sociale, lo sport e la cultura. Spesso, infatti, in settori come, ad esempio, quello socioassistenziale, sono le associazioni e le cooperative che riescono a offrire ai pazienti cittadini i migliori servizi, o addirittura sono gli unici ad erogare tali servizi, sostituendosi di fatto interamente alle istituzioni pubbliche.
  Come accennavo poc'anzi, questo è un preoccupante fenomeno, purtroppo in costante crescita, che mina alla base il concetto stesso di istituzione pubblica e al contempo di no profit. Infatti, gli enti no profit, essendo privati, non sono tenuti a erogare costantemente servizi pubblici necessari e a livelli adeguati; possono modificare, interrompere e cambiare le proprie attività liberamente. Tra l'altro, non devono nemmeno sottostare alla normativa, in merito soprattutto a controlli e trasparenza, che invece si applica alla pubblica amministrazione. Il fatto che siano spesso anche più efficienti del pubblico non può e non deve portare alla conclusione che sia meglio affidare interi servizi pubblici agli enti privati, seppure affidabili e blasonati, perché i cittadini pagano già le tasse e hanno il diritto di ricevere i servizi dovuti e non mettersi insieme per erogarsi da soli ciò che lo Stato, invece, dovrebbe già garantire loro.
  D'altro canto, lo Stato non può abdicare al suo ruolo per nessuna ragione, deve assicurare i servizi essenziali in tutto il territorio e, allo stesso tempo, sostenere la libera iniziativa privata, che svolge un fondamentale ruolo di integrazione, miglioramento e arricchimento dell'offerta pubblica. Una giusta ed equilibrata cooperazione, mantenendo ognuno i propri ruoli questo è ciò che dovremmo realizzare tra Stato e no profit, invece l'andazzo appare non essere affatto questo. Anzi, per chiara ammissione dei rappresentanti della maggioranza, perfino dentro quest'Aula, la linea è quella di continuare a trascurare il pubblico e farsi supplire dal privato, e in certi casi sappiamo come questa sia proprio una tattica studiata a tavolino. Ma in generale, un ragionamento Pag. 37del genere si potrebbe accettare solo da un cittadino esasperato dalla mancanza o dall'inadeguatezza dei servizi che gli spettano e che ottiene, tramite altre vie, non certo da legislatori chiamati in queste Aule a cambiare proprio ciò che non funziona. Non ho problemi a definire questo approccio criminale e colpevole.
  Quindi, con tali premesse, non stupisce affatto che quella che stiamo discutendo oggi sia una riforma che, come al solito, deforma ciò che dovrebbe migliorare. È la solita delega d'iniziativa governativa – tanto per cambiare – imposta sul Parlamento, che nel frattempo, però, stava lavorando a una proposta condivisa in maniera trasversale da diversi partiti. Tutto lavoro buttato al vento, complice anche la maggioranza, che chiaramente non ha battuto ciglio dinanzi a questo ennesimo sopruso a danno del loro stesso lavoro.
  E in questa ennesima «deforma», che nasce dalla sacrosanta esigenza di uniformare e razionalizzare una normativa troppo frastagliata e diversificata per ogni tipologia di ente del terzo settore, si fondano invece interessi diversi e lontani dalla mission sbandierata. Il testo si presenta molto generico in certe parti; ad esempio, l'istituzione della fondazione di diritto privato, ma con finalità pubbliche e 1 milione di euro di finanziamento sottratto al Fondo per il terzo settore, è già un ossimoro nella sua stessa definizione. Si chiamerà «Fondazione Italia Sociale», nasce da una vecchia idea dell'amico di Renzi, oggi anche suo consulente, il capitalista Vincenzo Manes, ed è stata approvata all'improvviso al Senato con i voti di Verdini, perché parte del PD stesso si è miracolosamente rifiutato.
  Ma cosa farà questa Fondazione ? Non è molto chiaro, o meglio, ascoltando Manes e non il Governo, invece sì: la Fondazione è privata, quindi agirà come meglio crede, e andrà a sostenere determinate imprese, di qualsiasi tipo, secondo la governance stabilita dal consiglio di fondazione, rigorosamente presieduto in prevalenza da privati; non ci saranno bandi, graduatorie, controlli, solo una relazione alle Camere sul suo operato. Come verrà speso quel milione di euro ? Chi lo sa !
  Sentendo, invece, il sottosegretario Luigi Bobba – o Gigi, per chiamarlo come fa l'amico Manes – o semplicemente leggendo il testo della legge, potrebbe trattarsi di qualsiasi altra cosa, dal momento che è così generico e che tutto è demandato ai decreti a sorpresa del Governo. Chi vivrà vedrà, e magari vedremo Manes promosso a presidente di questa fondazione. Lui la pensa, lui la propone, lui se la fa approvare dal Governo, poi dalle due Camere del Parlamento, e lui magari la dirigerà.
  Ovviamente nessun conflitto di interessi, ma sono sempre io che sto sempre a pensare male ! Ma fosse solo questo il problema ! La cosa grave, infatti, è tutto l'assetto generale della delega.
  Infatti, si crea una grigia commistione tra pubblico e privato e profit e no profit, proprio le distinzioni che invece avremmo dovuto delineare e tutelare. Basti pensare all'articolo dedicato all'impresa sociale, che, grazie a questa riforma, potrà distribuire utili – e tanti saluti all'assenza di scopo di lucro –, usufruendo però di tutti gli incentivi fiscali e le agevolazioni previste per gli enti no profit. Questo, come confermato dall'Antitrust, quindi non lo dice il MoVimento 5 Stelle, potrebbe costituire un rischio di concorrenza sleale a svantaggio delle piccole e medie imprese, che negli stessi settori di attività si ritroverebbero a competere con imprese che godono di vantaggi particolari. Questo non è superare la visione statalista, come suggeriva il collega di Forza Italia, questo è caos ! Volevo specificare, inoltre, che le benefit company non sono le imprese sociali. In Italia le benefit company non esistono, ma, se vogliamo, possiamo anche normarle, io sono abbastanza d'accordo.
  Poi, è prevista un'incomprensibile proliferazione di nuovi organismi, alcuni di consultazione, altri di raccordo, altri di programmazione, ma l'unico organismo che tutto il mondo del terzo settore ci ha chiesto in coro non c’è, ovvero il ripristino dell'agenzia per il terzo settore, che noi proponevamo anche con alcune migliorie, Pag. 38come ad esempio renderla indipendente e autonoma, affidarle funzioni di monitoraggio e controllo, di whistleblowing (la possibilità di denuncia interna di illeciti), la gestione del registro unico nazionale del terzo settore, la rappresentanza anche a livello internazionale, il coordinamento e spazi di confronto che possano coinvolgere anche le piccole realtà, e molto altro; ma né noi, né i rappresentanti del terzo settore, siamo stati ascoltati.
  Poi ci vorrebbe un capitolo a parte per parlare della poca, quasi assente, attenzione alla vigilanza e alla prevenzione della corruzione, al fine di salvaguardare soprattutto l'immagine del mondo del no profit. Tutto resta nelle mani del Ministero del lavoro, che ha già ampiamente dimostrato di non essere in grado di controllare un bel niente: Poletti andava a cena con Buzzi, ma di che stiamo parlando ? Però sono previste forme di autocontrollo degli stessi enti; stendiamo un velo pietoso.
  Potrei andare avanti ancora per molto, ma ogni aspetto verrà trattato per bene nell'esame di ogni singolo emendamento, che comunque boccerete, perché avete paura che, tornando in Senato, vi dovrete appoggiare nuovamente a Verdini – sai che novità – oppure la scelta sarebbe quella di fare le cose per bene e quindi essere certi dei voti del MoVimento 5 Stelle, ma già sappiamo tutti che cosa preferite.

  PRESIDENTE. Constato l'assenza della collega Nicchi, che era iscritta a parlare.
  È iscritto a parlare il collega Capone. Ne ha facoltà.

  SALVATORE CAPONE. Signor Presidente, signor sottosegretario, onorevoli colleghe e colleghi, la legge che discutiamo oggi e che il Paese attende da anni segna uno spartiacque fondamentale per il mondo delle imprese sociali, del terzo settore, delle economie solidali e dal basso, tra un prima e un dopo. Il prima è stato connotato nella dinamica vitalissima con cui il terzo settore e l'economia sociale si sono attestati e sviluppati, conquistando uno spazio importante di autonomia e di progettualità sul tema del benessere della comunità. Tra gli anni Ottanta e il 2010 questa dinamica si è imposta all'attenzione del legislatore e ha prodotto provvedimenti soprattutto per normare le singole tipologie di organizzazione, i singoli aspetti specifici, sia che si trattasse di organizzazioni di volontariato, di ONLUS, di cooperative sociali, di impresa sociale e di servizio civile. Un elenco, questo, sufficiente a dimostrare, in assenza di un disegno e di una cornice generale e complessiva, il crescente disordine negli anni della normativa per regolare singoli, parziali, rilevanti aspetti di un organismo ogni giorno più importante e determinante nella qualità delle nostre città e del sistema Paese, al passo con le trasformazioni sociali e con una discussione pubblica sempre più puntuale.
  Il dopo lo inauguriamo definitivamente oggi, con un'azione legislativa che ricompone, riordina e definisce questa materia così vasta e viva. È un passaggio non di poco conto, che riconosce piena legittimità e rilevanza a questo settore specifico e contestualmente ne afferma e ne rileva l'interesse pubblico.
  Il testo di legge che approveremo in via definitiva nei prossimi giorni non è però solo un riconoscimento dovuto, è un atto che parla al futuro, perché fa suo lo straordinario patrimonio di esperienze maturate negli anni e lo rilancia con una strategia che guarda soprattutto agli elementi che possono e devono essere sviluppati ulteriormente. È un atto di rafforzamento e incubazione della nuova economia sociale e, come tale, di enorme responsabilità politica.
  La nuova economia sociale è, e non potrebbe essere diversamente, innovativa, solidale, collaborativa, trasparente. Grazie a questa norma, e con i successivi decreti attuativi, il terzo settore diviene soggetto giuridico. Le associazioni di volontariato, le cooperative sociali, le fondazioni, quelle di promozione sociale, di mutuo soccorso, diventano un'unica famiglia con caratteristiche comuni, pur rimanendo soggetti con Pag. 39una loro specificità e con diversi modelli organizzativi, anche essi considerati una ricchezza e un'occasione.
  La distanza di metodo e di merito dagli anni che abbiamo alle spalle è enorme. Il volontariato, le imprese sociali, l'associazionismo, si attestano quale segmenti strategici, nevralgici, non residuali. Il principio che la legge fissa in premessa: «terzo settore si intende il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che (...) promuovono e realizzano attività di interesse generale, mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi», viene così rafforzato e puntualizzato nel passaggio tra le due Camere. La definizione segna la presa d'atto di quel che è avvenuto nel nostro Paese in circa tre decenni, quando a tutti è stato chiaro come quei volontari, quegli enti, quelle imprese, non potessero essere considerate figlie di un Dio minore, perché la loro azione era frutto non solo di un grande afflato civico, ma di saperi e competenze maturati sul campo, non ultima la grande capacità di fare ed essere rete.
  Quel lavoro è stato fondamentale per le nostre comunità, per la coesione sociale, per l'infanzia, gli adolescenti spesso ai margini, per anziani, altrimenti soli, per strappare alla desolazione periferie dormitorio, progettando, insieme agli abitanti, una quotidiana vivibilità, per restituire bellezza e per salvare il paesaggio. Un lavoro capillare, paziente e profondo, capace di trasformare luoghi e relazioni, portatore di qualità, di conoscenze e di consapevolezza. C’è una parte importante di questo Paese che, senza il terzo settore, in questi anni non ce l'avrebbe fatta, una parte importante che deve all'azione del terzo settore il riconoscimento della propria rilevanza e bellezza, di salvaguardia e tutela ambientale, di promozione sociale e culturale, di welfare dal basso. Di questo parliamo, di qualcosa di indispensabile, se veramente abbiamo a cuore la dignità delle persone, il diritto alla salute, la promozione culturale, la tenuta sociale delle nostre comunità, il loro sviluppo.
  I numeri sono importanti e, nel corso di questi due anni, li abbiamo sviscerati adeguatamente. Qui voglio solo ricordare come persino la Corte costituzionale abbia avvertito l'esigenza di definire il ventaglio di attività che si riconoscono nel terzo settore quale paradigma dell'azione sociale. È una definizione da tenere in mente; ci dice di un settore che crea impiego, reddito, ricchezza, possibilità di crescita sociale ed economica, ma che genera soprattutto impatto sociale. Di tutte queste enormi ricchezze e potenzialità, il terzo settore, l'impresa sociale, sono il laboratorio per l'eccellenza, il luogo in cui sperimentare e innovare modelli e progetti, un luogo per sua natura costantemente in movimento, in allerta, permeabile alle domande dei sistemi sociali. Un laboratorio che in questi anni ha elaborato categorie di sguardo e di valutazione da cui oggi è difficile prescindere e che ha imposto il tema della qualità delle relazioni come centrale nella conoscenza e valutazione della vita delle comunità.
  Non comprendiamo questa dinamica se ci ostiniamo a valutarla solo in termini di profitto e di PIL. In realtà, il valore di un territorio è ben altro e, se il benessere della comunità si determina oggi anche e soprattutto attraverso lo sviluppo di beni, fattori e materiali, acquistano il giusto ruolo le realtà che negli anni hanno perseguito questi obiettivi nel sociale e nella cura dei beni comuni, nella tutela dell'ambiente e della fruizione dei beni culturali, nella sostenibilità solidale, nelle ecocompatibilità, nell'assistenza, nel contrasto alle piccole e grandi forme di esclusione sociale e di marginalità, che significa contrasto anche alle molteplici e subdole forme di accaparramento di manovalanza della criminalità.
  Già nel corso dell'approvazione in prima lettura alla Camera, avevamo affermato come questa fosse una delle più grandi riforme del nostro Paese. Da quel momento il testo si è arricchito, ampliato e puntualizzato, rispondendo pienamente alle esigenze del legislatore e a quelle Pag. 40proprie del settore, alla sua capacità di produrre incessantemente innovazione per rispondere pienamente ai segmenti di utenza a cui si rivolge.
  Le modifiche introdotte al Senato sono numerose e sostanziali; ricordo quelle relative alla pubblicità dei bilanci, agli atti fondamentali dell'ente, alla valorizzazione delle reti associative di secondo livello, alla revisione dei centri servizi di volontariato, all'istituzione del Consiglio nazionale del terzo settore, alle modifiche relative alla definizione di impresa sociale, fino all'istituzione della Fondazione Italia Sociale con il compito delicato di sostenere, attrarre e organizzare iniziative filantropiche e strumenti innovativi di finanza sociale.
  Un accenno particolare, infine, alla riforma del servizio civile nazionale, che, assumendo la denominazione di servizio civile universale, merita anche una riflessione autonoma. Chiunque di noi abbia amministrato anche realtà territoriali è perfettamente consapevole del ruolo svolto dalle ragazze e dai ragazzi del servizio civile in ambiti strategici come la tutela ambientale, la promozione culturale e i servizi alla persona. Chi di noi ha potuto vivere in prima persona l'esperienza del servizio civile, in tempi diversi rispetto a quelli attuali, è testimone di un'esperienza di crescita e di relazioni fondamentali di enorme valore, anche per le scelte di vita poi assunte.
  Per questo, è un segnale importante ciò che è stato fatto, l'impegno a rilanciare il servizio civile, aumentandone, come abbiamo visto, la dotazione finanziaria, per raggiungere obiettivi importanti, come quello dei 100 mila giovani. Insomma, nella norma un obiettivo ambizioso che attesta l'enorme rilevanza del servizio civile, il suo essere uno straordinario laboratorio per la formazione di una coscienza sociale e democratica, per un'educazione alla cittadinanza, che è, a me pare, una scuola ineludibile di formazione democratica. E, dunque, non può che essere salutata come un segnale di grande rilevanza l'apertura al servizio civile universale anche agli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia.
  Concludo: questa legge parla ai milioni di cittadini e cittadine impegnati ogni giorno, alle migliaia di realtà del volontariato e dell'associazionismo laico e cattolico, che in questi anni sono cresciute, sono diventate impresa sociale, hanno tessuto reti esemplari al loro interno e nelle comunità di riferimento, diventando un modello per tutti, per la pubblica amministrazione e per il privato.

  PRESIDENTE. Concluda.

  SALVATORE CAPONE. Ma questa legge parla soprattutto del Paese e al Paese, racconta un pezzo importante della storia di questi anni, ci dice come autonomamente la società civile abbia saputo organizzare la propria presenza in modo solidale – concludo veramente – e come si siano determinate soggettività fondamentali, coprendo spazi altrimenti ignorati e aprendone di nuovi, affermando come categoria fondamentale ed essenziale dell'agire economico quella dell'economia solidale. Senza questa realtà così feconda e capillare, civile, noi saremmo tutti più poveri. Ecco perché questa riforma apre al futuro.

  PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

(Repliche della relatrice e del Governo – A.C. 2617-B)

  PRESIDENTE. Prendo atto che la relatrice Lenzi rinunzia alla replica.
  Ha facoltà di replicare il rappresentante del Governo. Prego.

  LUIGI BOBBA, Sottosegretario di Stato per il lavoro e le politiche sociali. Siamo giunti ormai alla fase, diciamo così, conclusiva dell'iter di questo provvedimento, che, come è stato ricordato, ha avuto un passaggio già importante, qui, alla Camera, Pag. 41nel mese dell'aprile scorso. L'importanza e la qualificazione del provvedimento sono già state sottolineate in modo chiaro dalla relatrice, l'onorevole Lenzi, che ha peraltro anche richiamato in modo puntuale le innovazioni, non di scarso rilievo, anche se non hanno modificato l'architettura stessa del provvedimento; innovazioni che il Senato ha ritenuto di dover approvare e che fanno parte di quella dinamica tipica del bicameralismo perfetto e che richiede adesso, oggi, alla Camera, di valutare se accogliere o se mantenere il testo che il Senato ha approvato di recente.
  Credo che il provvedimento abbia un significato e una portata di carattere generale, che la relatrice ha ben identificato, come anche gli altri interventi, e credo che anche le modifiche che sono state apportate dai senatori corrispondano ad una migliore qualificazione dello stesso provvedimento, ad una sua articolazione più puntuale e anche alla chiarificazione di alcuni punti che potevano sembrare contenere qualche ambiguità nel testo uscito dalla Camera.
  In particolare, vorrei riprendere alcune sottolineature, che sono già state bene evidenziate negli interventi. La relatrice ha giustamente osservato che le modifiche all'articolo 1, che è, in qualche modo, la carta di identità del terzo settore, danno una qualificazione nelle finalità che si estende dal campo civico e solidaristico anche al campo dell'utilità sociale.
  È, credo, il modo attraverso il quale, poi, l'insieme del provvedimento, e anche altre modifiche, incorpora pienamente le organizzazioni, non solo quelle associative, regolate dal Libro Primo del codice civile, ma anche l'impresa sociale, come soggetti tipici degli enti di terzo settore. Significa che avremo una categoria normativa non più derivata o surrogata con dizioni di natura fiscale: normalmente si diceva: «quella è una ONLUS, è un ente non commerciale», quasi che la qualificazione fiscale diventasse la stessa qualificazione civilistica del soggetto di cui si parlava. Domani avremo degli enti di terzo settore che avranno anche una loro regolazione fiscale, ma hanno una loro carta di identità ben precisa e ben individuata al comma 1 dell'articolo 1.
  Così come la relatrice ha fatto bene a sottolineare che il tema dell'accessibilità, della trasparenza e della chiarezza, che sono il presupposto, o meglio, il risultato che si vuole ottenere attraverso il registro unico del terzo settore, sia, forse, l'impresa più ambiziosa che il provvedimento contiene. Ambiziosa in che senso ? Nel senso che, se si vuole realizzare effettivamente quanto indicato all'articolo 118, quarto comma, della Carta costituzionale, ovvero che le istituzioni tutte, a cominciare dal Parlamento e dal Governo, favoriscano quell'autonoma iniziativa dei cittadini che è stata ben richiamata dall'onorevole Binetti, evidentemente le istituzioni e i cittadini stessi devono ben sapere qual è la qualificazione di questi soggetti.
  E, oggi, il sistema di registrazione di questi soggetti è alquanto contraddittorio, con molte sovrapposizioni, lasciando diverse zone di opacità, che certo non consentono di rendere efficace anche quell'azione programmatica che le istituzioni hanno il compito costituzionale di realizzare. In questo senso, anche in merito alle osservazioni che ha fatto l'onorevole Paolo Beni, per il successo di questa delega e dei provvedimenti conseguenti attraverso i decreti legislativi che il Governo dovrà emanare molto dipenderà anche dalla capacità di una cooperazione virtuosa tra i soggetti del terzo settore e le istituzioni, ma, vorrei aggiungere, anche tra terzo settore e organizzazioni di carattere privato. Infatti, diversamente da quanto ha sostenuto l'onorevole Di Vita, noi non ci lasciamo attrarre da una concezione per cui mercato, Stato e terzo settore siano delle realtà non comunicanti e incapaci di cooperare.
  Certo, ciascuno ha un proprio compito e una propria identità, ma forse siamo proprio in un tempo in cui nascono modelli – lo ha richiamato l'onorevole Palmieri – ibridi. Ricordava il testo di Flaviano Zandonai, «Imprese ibride». Credo che questa capacità di cooperazione virtuosa tra realtà del mondo privato, realtà Pag. 42delle istituzioni e realtà del terzo settore sia, in qualche modo, la sfida che la legge si dà, ovvero una migliore qualificazione, un delineare un perimetro non incerto di questo mondo renderà più semplici, più chiare e più efficaci anche le collaborazioni con altre realtà, come sono quelle presenti o che esplicano una funzione di carattere istituzionale o quelle che hanno a che fare con il mercato.
  In questo senso, non accolgo la critica che ha fatto l'onorevole Palmieri, dicendo che si tratta di una delega vaga e che bisognava aspettare le «sorprese» dei decreti legislativi. Certamente, si tratta di un provvedimento di delega, ma, se devo confrontarlo con altri provvedimenti di delega che questa stessa Aula ha approvato, certamente questo provvedimento contiene elementi così puntuali, chiari e indicazioni difficilmente aggirabili o superabili da parte di chi avrà la responsabilità di scrivere i decreti legislativi; e in questo senso voglio ringraziare in particolare l'onorevole Lenzi, che si è delicata con grande cura, attenzione, competenza a far sì che la delega fosse il più possibile precisa, e l'azione del Governo si indirizzasse in modo non equivoco e non generico.
  Per quanto riguarda invece il tema delle imprese sociali, esso è stato alquanto controverso e soggetto a valutazioni difformi: nello stesso Senato da un lato, sul lato destro dell'Aula si diceva che con questo provvedimento avremmo creato una competizione sleale nei confronti delle imprese profit, e sul lato sinistro si diceva che avremmo sottratto risorse al settore pubblico. Io credo invece che il testo dell'articolo 6, così come uscito dal Senato e dal lavoro che già era stato fatto qui alla Camera, delinea un'opportunità e una possibilità importante, e cioè di far sì che quel perseguimento dell'utilità sociale possa essere realizzato, sicuramente con le forme associative volontarie, ma anche con forme tipiche del mondo dell'impresa: che ha come finalità un oggetto sociale ben definito, che non è prioritariamente il profitto, come accade ordinariamente nelle imprese, bensì la produzione di un valore sociale. E d'altra parte, è singolare, una coincidenza singolare che proprio su questo tema ieri sera la trasmissione Report, notoriamente dedicata ad un giornalismo di denuncia, abbia, direi opportunamente, richiamato la novità che queste imprese sociali, non solo in Italia, perché non è un fenomeno italiano, possono rappresentare per il futuro. Consiglio all'onorevole Di Vita, agli esponenti dei 5 Stelle, se l'hanno persa, la visione di questa trasmissione, per capire che cosa sta cambiando non solo nel nostro Paese, ma anche in molti altri Paesi, e come esse possono rappresentare una opportunità di innovazione sociale e di risposta ai molti bisogni di carattere sociale oggi largamente insoddisfatti.
  Aggiungerei ancora tre punti, sul tema dell'impatto sociale. Qualcuno ha detto: il Senato ha fatto un passo indietro. Direi che nel lavoro di chiarificazione, di pulizia, per evitare anche ripetizioni nel testo, la valutazione di impatto sociale è stata, opportunamente a mio avviso, lasciata, come già la Camera aveva fatto (anzi, aveva introdotto, perché non era così ben identificata nel testo iniziale del Governo), all'articolo 7, che è esattamente quell'articolo che ha a che fare con monitoraggio, vigilanza e controllo. Questo tema si presenta anch'esso come un elemento di grande novità, e contiene degli elementi ancora indefiniti; ma il fatto che nel passaggio alla Camera la valutazione d'impatto sociale fosse collegata a quei risultati, che hanno a che fare con la comunità di riferimento, dà al Governo un indirizzo preciso, ovvero che l'impatto sociale non riguarderà solo le imprese sociali, ma riguarderà il complesso degli enti di Terzo settore, siano essi imprese sociali, associazioni di varia natura, fondazioni. E insomma, si tratta dell'azione di rendere conto alla comunità del valore sociale che la tua azione produce in relazione al fatto che tu, essendo associazione o impresa sociale, essendo iscritto ad un registro del Terzo settore, godi di quel favore programmatico che le istituzioni sono tenute a manifestare, in relazione proprio all'articolo 118, comma 4, della Costituzione.Pag. 43
  In questo senso, credo che questa innovazione – peraltro richiamata anche all'articolo 4, in un altro punto, la lettera m) –, che va sempre a ben individuare il rapporto con la comunità di riferimento, sarà certamente un capitolo sul quale sarà necessario un confronto, per la necessità di trovare degli strumenti di misurazione che siano al tempo stesso semplici e univoci. Esso dovrà avvenire nelle sedi istituzionali, perché i decreti dovranno passare necessariamente per le Commissioni di competenza di Camera e Senato, ma anche in quelle sedi più larghe che sono state richiamate dagli interventi di Beni e di Capone.
  Per quanto riguarda tutto il tema dei controlli e della vigilanza, intanto vorrei invitare l'onorevole Di Vita, se ritiene che questo provvedimento contiene azioni di carattere criminale, di individuare i colpevoli e di denunciarli alla magistratura: perché le parole hanno un significato, e quando le parole vanno oltre quello che magari si vuole dire, credo che ciascuno debba prendersi la propria responsabilità. Io trovo apprezzabile la soluzione individuata, che «mixa» in primo luogo una diversificazione nel sistema dei controlli a seconda della dimensione delle organizzazioni; in secondo luogo la messa in capo in modo chiaro al Ministero del lavoro e delle politiche sociali di tale sistema di controlli (non era così chiaro; poi l'onorevole Di Vita può avere tutte le sue opinioni circa l'incapacità del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, che invece nei campi dove già svolge questa attività, nel campo specifico del lavoro la svolge in modo più che egregio); e in terzo luogo, come ha detto l'onorevole Binetti, anche l'evocazione, non solo l'evocazione, ma anche le modalità concrete, che il testo contiene, di generare forme di autocontrollo, in particolare valorizzando il ruolo delle reti associative di secondo livello, dei centri servizio: in particolare guardando a quella fotografia che l'ISTAT ci ha consegnato nel 2012, che vede che la grandissima maggioranza di queste organizzazioni, più di 300 mila, per il 70 per cento trattarsi di piccole organizzazioni con piccoli bilanci, con un numero di volontari non di grande ampiezza, con, quando hanno dei dipendenti, poche attività di lavoro in senso stretto. E tenendo conto di quella che è la realtà, e non delle fantasie o di alcuni casi, credo che il sistema che è stato delineato e che dovrà essere opportunamente implementato nei decreti legislativi con le opportune risorse, possa essere adeguato, un vestito appropriato a che cos’è questo mondo oggi in Italia, alle sue diverse caratterizzazioni; sapendo che anche monitoraggio, vigilanza e controllo devono essere indirizzati a far sì che queste organizzazioni effettuino gli adempimenti formali, quelli di bilancio compresi, nel modo più chiaro, trasparente, ma anche nel modo più semplice: molte di queste organizzazioni ci hanno evidenziato nei confronti, nelle audizioni quanto e come il sovrapporsi e l'ampliarsi del numero delle norme, anziché facilitare la realizzazione della missione per cui ci si costituisce, diventa esso stesso un ostacolo.
  In ultimo il tema della Fondazione Italia Sociale: voglio chiamarla così, non voglio assecondare una deriva giornalistica che non credo corrisponda né al contenuto né all'intento col quale il Governo ha presentato questo emendamento, che istituisce la Fondazione Italia sociale. In qualche modo questo articolo aggiuntivo, che il Senato ha approvato, contiene un ampliamento del perimetro del mondo del Terzo settore attraverso uno strumento che non è né sostitutivo né concorrenziale con i tanti strumenti che ci sono, e che costituiscono essi stessi l'ossatura, il «chi è» del Terzo settore oggi in Italia. Così come il Parlamento, sempre il Senato, nella legge di stabilità, aveva approvato le cosiddette big corporation, benefit corporation, così anche questo strumento va in qualche modo a completare un quadro che ha a che fare con lo sviluppo e l'organizzazione della filantropia. Tale sviluppo e organizzazione della filantropia in Italia non è particolarmente consolidato e ha visto nascere tante piccole istituzioni e fondazioni proprio negli ultimi anni e forse ha bisogno di uno strumento, come già avvenuto – non abbiamo peraltro inventato Pag. 44nulla – in altri Paesi. In particolare mi riferisco alla Fondation de France che sappia catalizzare energie, risorse donative prevalentemente di carattere privato da finalizzare a progetti ad alto impatto sociale e occupazionale realizzati con gli enti di Terzo settore, avendo una particolare attenzione per i soggetti e i territori più svantaggiati. Mi sembra che il compito della Fondazione sia sufficientemente chiaro e che i confini dell'azione e le modalità con cui si deve realizzare lo scopo statutario non siano né vaghi né generici né equivoci. Aggiungerei peraltro a chi ha detto che Enzo Manes ha scritto, ha fatto, ha diretto, ha influenzato, ha deciso per conto del Governo e del Parlamento che il Parlamento è sovrano nel decidere evidentemente questo testo ma soprattutto che la Fondazione dovrà nascere con un atto istituzionale e normativo di grande rilevanza com’è un decreto del Presidente della Repubblica. Credo che questo dia piena garanzia che questo strumento, pur avendo una natura particolare anche se non è un precedente come ha già ricordato la relatrice Lenzi, oltre che la procedura ordinaria cioè la previsione che lo statuto sarà discusso e valutato nelle Commissioni di competenza, ha anche una procedura particolarmente rafforzata in quanto nasce con un atto non del Governo ma con un atto del Presidente della Repubblica. In questo senso credo che semmai la nascita di questa Fondazione rappresenta una sfida se si sarà capaci non di creare guerre di religione ma di allargare il campo di azione dei soggetti di Terzo Settore e di mettere in campo risorse che oggi non ci sono per perseguire finalità che sono pienamente coerenti con quanto contenuto nel testo del disegno di legge.
  Voglio anche augurarmi che l'onorevole Palmieri, che non vedo più presente, mantenga l'indirizzo per il suo gruppo che ha tenuto nel primo passaggio qui alla Camera. Conoscendone la sensibilità e l'impegno, oltre che la competenza, in questo mondo, credo che possano valutare con attenzione i contenuti effettivi e, per così dire, non le rappresentazioni giornalistiche forse un poco distorte e valutare la possibilità di aprire una strada nuova anche per il nostro Paese. D'altra parte concludo dicendo che il Governo ha tutta l'intenzione di esercitare appieno la delega, di esercitarla nei tempi che il disegno di legge fissa e credo che vogliamo procedere non solo mantenendo aperto un canale di confronto, come è stato richiesto, ma soprattutto procedere con la necessaria rapidità, considerando, come è stato rilevato, che l'iter del provvedimento non è stato brevissimo ma adesso spetta al Governo di procedere con una marcia piuttosto decisa per poi confrontarci, come è previsto dal testo, nelle Commissioni competenti e arrivare alle norme definitive che riguardano questo mondo. Credo che sia appropriata l'espressione che è stata ricordata da Paolo Beni, cioè che questa riforma abbia a che fare non tanto con la Costituzione, anche se i richiami costituzionali nel testo sono espliciti e chiari, ma abbia a che fare con la Costituzione materiale del Paese su quello che è nel DNA, nelle corde delle nostre comunità.
  Se sapremo interpretare bene questo e dare una norma che sia capace di creare nuove potenzialità e nuovo sviluppo e incoraggiare, sostenere, promuovere i tanti cittadini che continuano a operare in queste realtà, credo che avremmo fatto un buon servizio al Paese.

  PRESIDENTE. Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.
  Sospendo la seduta per cinque minuti che riprenderà alle ore 16.

  La seduta, sospesa alle 15,55, è ripresa alle 16.05.

Discussione della proposta di legge: S. 54-B – D'iniziativa dei senatori: Amati ed altri: Modifica all'articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, in materia di contrasto e repressione dei crimini di genocidio, crimini contro l'umanità e crimini di guerra, come Pag. 45definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale (Approvata dal Senato, modificata dalla Camera e nuovamente modificata dal Senato) (A.C. 2874-B).

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della proposta di legge, già approvata dal Senato, modificata dalla Camera e nuovamente modificata dal Senato, n. 2874-B: D'iniziativa dei senatori: Amati ed altri: Modifica all'articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, in materia di contrasto e repressione dei crimini di genocidio, crimini contro l'umanità e crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale.
  Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi per la discussione sulle linee generali è pubblicato in calce al resoconto stenografico della seduta del 20 maggio 2016.

(Discussione sulle linee generali – A.C. 2874-B)

  PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
  Avverto che il presidente del gruppo parlamentare MoVimento 5 Stelle ne ha chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del Regolamento.
  Avverto, altresì, che la II Commissione (Giustizia) si intende autorizzata a riferire oralmente.
  Ha facoltà di intervenire il relatore, deputato Walter Verini.

  WALTER VERINI, Relatore. Grazie, Presidente. Oggi, si avvia, in Aula, in seconda lettura, l'esame della proposta recante la modifica all'articolo 3 della legge del 13 ottobre 1975 in materia di contrasto e repressione dei crimini di genocidio, crimini contro l'umanità e crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale. È una proposta di legge che è già stata all'attenzione della Camera, dopo il primo passaggio al Senato; in seguito alle nostre modifiche, il Senato ha nuovamente esaminato il testo, apportando alcune modifiche al contenuto. Ecco, io mi limito, in questa parte della relazione che condivido con il deputato Sarro, ad auspicare quanto già la Commissione giustizia ha, in qualche modo, deliberato, cioè vorremmo che queste norme fossero al più presto pubblicate in Gazzetta Ufficiale, senza modifiche sul testo del Senato, così da evitare un'ulteriore staffetta, e vorremmo, con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, che l'Italia, al pari di tanti altri Paesi, dalla Francia alla Germania, dall'Austria al Belgio, alla Svizzera, alla Polonia, abbia il reato di negazionismo nel proprio ordinamento. Anche noi riteniamo importante la lotta ai risorgenti fenomeni di neonazismo, di razzismo xenofobo; riteniamo che le diffuse campagne e posizioni di antisemitismo che proliferano in Europa e Oltreoceano e che si diffondono nella rete debbano essere innanzitutto contrastate, facendo funzionare al meglio le democrazie, coniugando democrazia e decisione, ridando credibilità piena alle istituzioni e alla politica nel loro rapporto con i cittadini, ma riteniamo, anche, che la memoria e il suo valore fondamentale debbano essere tutelati, salvaguardati, fatti vivere ogni giorno con l'educazione civica, con lo studio nelle scuole, con l'educazione alle regole, ai limiti e alle grandi opportunità di una società aperta. Colpire il negazionismo, in particolare quando in nome di questo si istiga all'odio e alla discriminazione, quando si usa violenza verbale, morale e anche fisica, significa prevenire e contrastare meglio fenomeni di oggi, non di settant'anni fa. Le letture precedenti di Senato e Camera hanno risolto bene anche altri temi, altre preoccupazioni serie, su cui si è aperto un confronto pubblico, come la preoccupazione di punire, colpire e, in qualche modo, quindi, limitare la ricerca, la mera espressione negazionista, la sola negazione di genocidio e crimini, la libertà di espressione; niente di tutto questo, nessuno vuole colpire opinioni, ma semplicemente coloro che, in nome anche Pag. 46di teorie negazioniste, istigano alla violenza o commettono e conducono degli atti di violenza. Insomma, si sanzionano delle condotte, dei comportamenti e non intenzioni, giudizi o pareri, per quanto ignobili o menzogneri possano essere. Questa è un po’ la cornice che io volevo inserire all'illustrazione del provvedimento e mi limito, quindi, a queste considerazioni.

  PRESIDENTE. Ha facoltà di intervenire il relatore, collega Carlo Sarro.

  CARLO SARRO, Relatore. Grazie, Presidente. Come ricordava il correlatore, il collega Verini, l'Assemblea torna, dopo circa sette mesi, ad occuparsi nuovamente di questo provvedimento in ragione delle modifiche che sono state apportate al testo dal Senato, modifiche significative che hanno determinato anche una sostanziale nuova configurazione della fattispecie rispetto a quella che era stata delineata nel testo licenziato, appunto, sette mesi fa dalla Camera. In particolare, segnaliamo che la Camera alta ha modificato, nello specifico, la configurazione da aggravante di varie ipotesi di reato, così come era delineata la condotta negazionista precedentemente, in una figura di reato autonoma, contemplando una pena da 2 a 6 anni e, soprattutto, rimarcando, in particolare, che l'istigazione e l'incitamento commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione si fondano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra, così come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale. Dunque, la prima modifica attiene alla determinazione della pena che viene prevista tra un limite minimo e uno massimo: la reclusione, come dicevo prima, da due a sei anni, anziché in relazione alla pena prevista dai reati base e l'aumento fino ad un terzo, come accadeva nell'ipotesi, appunto, dell'aggravante, scelta nella precedente lettura dalla Camera. Ora, da tale modifica non discende necessariamente una diversa qualificazione giuridica del fatto, in quanto vi sono anche altri dati da valutare, dovendosi procedere ad un'analisi strutturale della descrizione del precetto penale per stabilire se vi sia la pertinenza ad un'unica ipotesi di reato, secondo un rapporto di specialità unilaterale, per specificazione o per aggiunta. La modifica più significativa consiste nella eliminazione della parola «pubblica» che si riferiva sia alla condotta di istigazione che a quella di incitamento. In sostituzione dell'elemento della pubblicità, il Senato ha previsto che l'istigazione e l'incitamento debbano essere commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione. Il reato sussiste solo nel caso in cui vi sia il concreto pericolo di diffusione dell'istigazione e dell'incitamento; pericolo che, quindi, va accertato in concreto dal giudice, non essendo sufficiente la pubblicità della condotta. Nel caso concreto può accadere che si parli in pubblico, in un contesto nel quale il pericolo di diffusione sia sostanzialmente escluso. Dunque, la nuova formulazione consente di estendere la punibilità a casi ulteriori rispetto a quelli che avrebbe consentito l'utilizzazione della nozione di mera pubblicità, ad esempio l'incitamento alla violenza o alla discriminazione e all'odio razziale attraverso gli strumenti telematici, si pensi anche al terrorismo internazionale, non viene fatto necessariamente pubblicamente, ma può essere commesso anche nel caso in cui non avvenga attraverso l'azione pubblica, ma in modo che derivi comunque il concreto pericolo di diffusione. L'altra modifica apportata dal Senato è consistita nell'eliminare una clausola che aveva introdotto la Camera rispetto alla precedente formulazione del Senato per meglio individuare i crimini di genocidio, contro l'umanità e di guerra, sulla cui negazione si incentrano le condotte di propaganda. La Camera aveva previsto che tali crimini si sarebbero dovuti individuare, tenendo conto dei fatti accertati con sentenza passata in giudicato, pronunciata da un organo di giustizia internazionale, ovvero da atti di organismi internazionali e sovranazionali dei quali l'Italia è membro, e questo proprio per consentire di delineare un perimetro minimo entro il Pag. 47quale ritenere il genocidio oggetto della negazione come un dato storicamente acclarato e, soprattutto, come un fenomeno che correttamente è qualificabile in termini di genocidio. Il Senato ha ritenuto che tale clausola avrebbe potuto comportare delle complicazioni interpretative e, dunque, alla fine, questa formulazione poteva risolversi in una limitazione dell'applicabilità della norma stessa e, dunque, ha preferito modificare ed eliminare questo passaggio dal testo, e, attraverso questa modifica, noi poi ci colleghiamo anche all'altro problema che si pone rispetto al testo così come giunto al nostro esame, cioè il coordinamento con la ratifica e l'esecuzione del Protocollo addizionale alla Convenzione del Consiglio d'Europa sulla criminalità informatica riguardante la criminalizzazione degli atti di razzismo e xenofobia commessi a mezzo di sistemi informatici, fatto a Strasburgo il 28 gennaio 2003. Ciò in considerazione del fatto che il 27 aprile di quest'anno le Commissioni I e III, in seduta congiunta, hanno approvato il disegno di legge, il cui articolo 3, comma 2, è di identica formulazione rispetto all'aggravante sul negazionismo approvata dalla Camera in prima lettura del provvedimento in esame. Quindi, per evitare sovrapposizioni normative, ma soprattutto possibili conflitti ed antinomie, sarà necessario procedere alla soppressione del predetto secondo comma della ratifica del Protocollo, una volta che sarà definitivamente approvato il testo del disegno di legge in esame, rispetto al quale, così come emerso anche dai lavori in Commissione, è stata pressoché unanimemente auspicata la sollecita approvazione senza che ulteriori modifiche o variazioni comportino ancora il non completamento del percorso di approvazione, quindi la definizione del testo nella formulazione che oggi giunge al nostro esame.

  PRESIDENTE. Prendo atto che il rappresentante del Governo si riserva di intervenire nel prosieguo del dibattito.
  È iscritta a parlare la deputata Giuditta Pini. Ne ha facoltà.

  GIUDITTA PINI. Presidente, il negazionismo e il fare una legge sul negazionismo è un tema molto delicato, specie per chi ha avuto l'opportunità e l'onore di studiare storia. La prima cosa che mi è venuta in mente è stata quella di andare a rivedere l'intervento che ci fu nel 1979 e il dibattito in cui Noam Chomsky si schierò pubblicamente per difendere uno studioso, Robert Faurisson – scusate il mio francese pessimo –, che sostanzialmente aveva scritto un libro in cui negava l'Olocausto e l'esistenza delle camere a gas. Noam Chomsky, nonostante non fosse e non sia mai stato negazionista né tantomeno avesse mai avuto simpatie per questo studioso, lo difese dicendo che sarebbe stata sbagliata una legge che proibisse la pubblicazione di questo libro, perché sarebbe stata proibita la libertà di espressione. Noam Chomsky, essendo americano, si rifà molto alla libertà di espressione, che è presente nel loro primo emendamento.
  Tuttavia, con il passare degli anni, in Europa molti Paesi hanno adottato questo tipo di legislazione, perché evidentemente si è reso necessario, per vari motivi; pensiamo appunto – come prima ricordava l'onorevole Verini – all'Austria, al Belgio, alla Germania, alla Svezia, al Portogallo, alla Spagna, alla Svizzera e alla Polonia, solo per citarne alcuni. Quindi è con un duplice animo che oggi sono qui a parlare di questa legge, perché ho riflettuto molto e a lungo sull'opportunità o meno, sulla necessità o meno, sull'utilità che una legge di questo tipo può avere nel nostro Paese. Sicuramente abbiamo una situazione molto complicata, da un punto di vista storico, in Italia, un po’ perché la storia, di per sé, è una disciplina relativamente recente (è stata fondata alla fine dell'Ottocento), un po’ perché stiamo parlano di storia contemporanea, quindi di qualcosa che è successo pochissimo tempo fa rispetto a noi, mentre il mestiere dello storico, di solito, è quello di guardare i fatti, cioè con degli occhiali che guardano un pochino più lontano. Perché ? Perché abbiamo ancora presenti tra noi i testimoni di quell'epoca, e li abbiamo avuti presenti con molta forza fino a poco Pag. 48tempo fa (ora ci sono molti meno superstiti); comunque abbiamo avuto tutta una serie di pubblicazioni di memorie, quindi anche un metodo storico nuovo, che è stato quello della testimonianza, quindi quello di studiare i testimoni.
  Avere un testimone è una cosa importantissima, ma è anche molto rischiosa, perché ovviamente soggettivizza tutto e rischia anche di dare, in realtà, una visione non chiarissima di tutto quello che è successo, tanto più in Italia, dove, come ben sappiamo, la Seconda guerra mondiale ha portato a una divisione in due della penisola, con una parte occupata dall'Esercito nazista e la Repubblica sociale italiana, e un'altra, invece, che nel frattempo era stata, dopo alcune insurrezioni (Napoli, Matera), liberata dagli Alleati e in cui quindi c'era il re e non questa occupazione.
  Noi ci inseriamo all'interno di questo contesto e non è un caso – credo – che il nostro Paese arrivi dopo tanti anni a discutere di questi temi, proprio perché la Liberazione e l'unificazione d'Italia ha fatto sì che un pezzo di tutto quello che era successo anche da noi venisse omesso. E quando dico «omesso» intendo questo: non ci sono, come in altri Paesi, molti casi di negazionisti puri, tuttavia esiste, anche nella politica, nel dibattito politico, l'abitudine di omettere tutto un pezzo della nostra storia. Cioè, ci chiediamo spesso – basta vedere il processo ad Eichmann o Kappler – come sia stato possibile che sia successo tutto questo. È stato possibile anche perché una buona parte degli italiani, in quel momento, decise di voltare la testa dall'altra parte e di accettare quello che stava succedendo (per motivi personali, per interesse personale, per interesse politico, anche per convinzioni politiche), al contrario ovviamente di altri Paesi, come la Germania, che ha perso la guerra e quindi è stata «costretta» a fare un'opera di critica e di autocritica rispetto alle posizioni, anche delle persone normali, della cosiddetta società civile in quel periodo. Noi non abbiamo avuto questo processo di elaborazione.
  Uno dei casi più eclatanti è quello del 16 ottobre, quando venne rastrellato il ghetto di Roma. Siamo abituati nella retorica – ormai pericolosa, pericolosissima retorica – che accompagna le celebrazioni a pensare che ci sia stato un Esercito invasore straniero che, da solo, con la cittadinanza che si opponeva a tutto questo, ha deportato tutte queste persone.
  È uscito recentemente un articolo di Osti Guerrazzi in cui, semplicemente andando a vedere nell'Archivio di Stato, si vede come dei 730 ebrei deportati dal ghetto ben 439 fossero stati denunciati o arrestati da italiani; ed erano stati denunciati per motivi molto banali: perché semplicemente si voleva avere accesso all'appartamento del vicino, perché si voleva avere il negozio o l'attività commerciale di quella persona, perché si era invidiosi, perché si riteneva di aver subìto un torto, perché c'era la guerra, perché si aveva paura. Per mille motivi, nessuno di questi valido, ma per mille motivi. Si ha quindi quasi oltre la metà dei deportati che è frutto della deportazione italiana.
  La Repubblica sociale italiana, di cui non c’è stata mai forse una vera elaborazione seria, né politica né storica, in questo Paese, aveva messo una taglia di 5 mila lire per ogni ebreo denunciato; il regime fascista, sotto la guida del Ministero dell'interno, aveva aperto ben 46 campi di concentramento e di internamento, in cui sono passati anche moltissimi ebrei, che poi sono andati a morire nei campi di concentramento e sterminio fuori da noi; la Repubblica sociale italiana aveva anche decretato che gli ebrei erano stranieri e nemici, quindi come tali potevano essere fucilati sul posto, oltre che arrestati. Perché dico tutto questo ? Perché, per andare alla nostra storia recente, nel 1960, su 64 prefetti nominati 62 erano stati funzionari di alto livello del Ministero dell'interno fascista.
  Quindi, questo dato ci dà di per sé il fatto che la ricostruzione, la fase costituente e poi tutto il dopoguerra è stato frutto di un grande compromesso, un'enorme compromesso, che ha fatto sì che l'Italia potesse avere una democrazia solida Pag. 49per molto tempo, intendiamoci, ma che ha fatto anche sì che non ci fosse una discussione anche seria e motivata delle forze politiche su quello che era successo. Quando si dice ancora adesso, senza timore di vergogna di essere smentiti, che si sceglie un alleato per le elezioni perché è un fascista di cuore, forse non si conosce a sufficienza la storia del nostro Paese per poter dire pubblicamente una roba del genere, così come quando si fanno saluti romani in piazza o cose di questo tipo, perché noi stiamo parlando di tutto questo.
  Non è quindi qualcosa verso chi è fuori da noi, ma è qualcosa che è dentro di noi, è qualcosa che è successo, perché gli italiani l'hanno consentito, è successo anche per colpa nostra. Ed è per questo che, concludendo, ricordo uno studio del 2010 fatto dall'università La Sapienza dove si interrogano 793 studenti matricole di quell'anno (quindi stiamo parlando di persone di ragazzi e ragazze intorno ai 18 ai 19 anni che erano con un livello culturale alto, perché erano con la maturità e in più al primo anno di università), dai quali ci si aspetterebbe un certo livello di risposta; ebbene le risposte sulla Seconda guerra mondiale, sulla prima parte del Novecento, per il 41 per cento erano errate o non venivano date. Cosa vuol dire ? Che semplicemente c’è un altro rischio, questa volta non di omissione colpevole, ma di non conoscenza della storia. Quindi il pericolo del negazionismo diventa non più una questione riservata agli storici, ma diventa una questione di tutti, perché il poter negare la Shoah, poter negare un genocidio, o poter negare le camere a gas, è di per sé una cosa deplorevole e che si può condannare, ma la sua pericolosità sta nel fatto di avere un ambiente favorevole e quando noi abbiamo moltissimi ragazzi, il 70 per cento la popolazione italiana, con un potenziale analfabetismo funzionale, moltissimi ragazzi che non sono in grado di rispondere alle domande sulla prima metà del Novecento, quando abbiamo un substrato di xenofobia e razzismo che in tutta Europa vediamo crescere, e anche nel nostro Paese vediamo aumentare, tutto questo fa sì che il reato di negazionismo e la punizione severa della negazione di questi crimini non sia più – ripeto – una questione solo riservata a qualche professionista, o ad uno specifico settore, ma diventi una questione di tutta la società e anche una questione politica.
  Per tutti questi motivi, dopo aver studiato la legge e riflettuto, credo che sia importante approvare questa legge e sia importante approvarla in fretta affinché, anche se in ritardo, anche se dopo settanta anni, anzi forse proprio perché dopo settanta anni, questo Paese inizi finalmente a punire chi nega ciò che è stato e a costruire però contestualmente, anche e finalmente, una memoria che non sia solo una memoria di comodo, ma che sia una vera e propria ricostruzione dei fatti, perché, se vogliamo che non succeda più, dobbiamo, noi per primi, sapere quello che è successo (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare il collega Daniele Farina. Ne ha facoltà.

  DANIELE FARINA. Grazie, Presidente; questo provvedimento è meglio noto, ed è stato anche così esplicitato negli interventi precedenti, come un provvedimento volto a punire il negazionismo della Shoah nello specifico. Tuttavia, il titolo reale parla di contrasto e repressione dei crimini di genocidio contro l'umanità e di guerra, è molto più dilatato in realtà, ha un'efficacia diciamo assai più ampia.
   Il testo, seppur breve, è stato modificato dal Senato e, difformemente dai relatori, credo che siano modifiche sostanziali, tant’è vero che uno dei relatori auspicava la repentina pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e l'altro invocava il pressoché unanime parere della Commissione giustizia. Io sono contento di essere in quel «pressoché», cioè sono tra coloro che pensa che il testo debba tornare in una forma molto simile a quella validata, approvata, dalla Camera dei deputati nella sua prima lettura, perché espungere dal testo il riferimento a fatti accertati da un organo di giustizia internazionale con sentenza Pag. 50passata in giudicato ha delle conseguenze.
  Il campo di applicazione della nuova fattispecie di reato diventa fluido, poiché, dedotta la negazione della Shoah, che per fortuna è punto fermo, lo si àncora agli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale ovvero al crimine di genocidio, ai crimini contro l'umanità e ai crimini di guerra, come si ricordava. Però questi sono tre titoli che sono poi dettagliati da una sessantina di voci, a loro volta specificate. Tra queste voci, giusto per dare un'idea, ve ne sono alcune, come ad esempio la tortura, che non sono – ahinoi – neppure comprese nel nostro ordinamento come reato.
  Nello specifico, noi sappiamo che la tortura, oggi arenata al Senato, continua a sfuggire alla nostra legiferazione, alla Gazzetta Ufficiale, stabilendo un vero e proprio record di latitanza normativa. Così congegnata, questa fattispecie – dicevo – diventa fluida, ovvero largamente interpretabile, e, cosa più grave, con un utilizzo disponibile alla maggioranza politica del momento. I dubbi di un processo all'opinione e alla storia che la versione licenziata dalla Camera, in prima lettura, aveva limitato e messo in sicurezza, riappaiono amplificati. Tornano i moniti di Ginzburg, Luzzatto, De Luna, Rodotà, e di tanti altri storici e intellettuali in difesa della ricerca storica e della libertà di pensiero e di parola, aggravati dall'essere, la norma così modificata dal Senato, un vero e proprio strumento variabile nelle mani del «principe».
  È diventato un problema, un provvedimento vago, vaghissimo, finanche pericoloso, quasi una legge delega alle relazioni future tra magistratura e maggioranza politica. In nulla ci consola il fatto che il veicolo scelto sia uno dei meno frequentati della storia della Repubblica, la vecchia legge di Oronzo Reale, del 1975, che, dopo aver molto lavorato in quegli anni, ha vissuto inserti legislativi rimasti quasi completamente sulla carta.
  Qualcuno ha notizia dell'applicazione delle norme introdotte dalla cosiddetta «legge Mancino» all'inizio degli anni Novanta e che dovrebbero presidiare, già oggi, l'odio razziale, etnico, nazionale o religioso ? Domanda retorica, perché è molta poca questa memoria, molto poco lungo può essere l'elenco e non perché nel Paese difettino i comportamenti che potrebbero essere lì sanzionati, visto il quotidiano stillicidio di atti e fatti.
  Sinistra Italiana ha votato in prima lettura a favore del provvedimento, ma quello tornato a noi è un'altra cosa. Lavoreremo per riportarlo ad una qualche logica, anche se l'intendimento della maggioranza, come abbiamo ascoltato in Commissione e anche qui in Aula, pare essere quello di approvarlo così come è in via definitiva. Ciò di cui parliamo vive nei lati più oscuri della storia umana, tragedie che meriterebbero una tassativa attenzione: sinceramente in questo testo questa attenzione e questa tassatività noi non le vediamo.

  PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

(Repliche dei relatori e del Governo – A.C. 2874-B).

  PRESIDENTE. Prendo atto che i relatori e il rappresentante del Governo non intendono replicare.
  Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Discussione della relazione sulla contraffazione nel settore della mozzarella di bufala campana, approvata dalla Commissione parlamentare di inchiesta sui fenomeni della contraffazione, della pirateria in campo commerciale e del commercio abusivo (Doc. XXII-bis, n. 5) (ore 16,35).

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della relazione sulla contraffazione nel settore della mozzarella di bufala campana, approvata dalla Commissione parlamentare di inchiesta sui fenomeni Pag. 51della contraffazione, della pirateria in campo commerciale e del commercio abusivo (Doc. XXII-bis, n. 5).
  Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).
  Avverto, inoltre, che le eventuali risoluzioni devono essere presentate entro il termine della discussione.

(Discussione – Doc. XXII-bis, n. 5).

  PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione.
  Avverto che, con lettera in data 19 maggio 2016, il presidente della Commissione parlamentare d'inchiesta sui fenomeni della contraffazione, della pirateria in campo commerciale e del commercio abusivo, deputato Mario Catania, ha comunicato di avere designato quale relatore per l'Assemblea il deputato Paolo Russo, già relatore in Commissione, che ha facoltà di intervenire.

  PAOLO RUSSO, Relatore. Grazie, Presidente. Perché una risoluzione su questo tema ? Intanto perché la mozzarella di bufala campana DOP rappresenta uno dei prodotti di eccellenza del nostro Paese, rappresenta uno dei biglietti da visita del made in Italy nel mondo, rappresenta una filiera importante, che produce reddito, che genera lavoro e occupazione, che interpreta al meglio un sentimento e un modello di agricoltura che ci piace. A quale agricoltura facciamo riferimento ? Questa è la ragione per cui la Commissione parlamentare di inchiesta sui fenomeni della contraffazione ha voluto porre un accento e un'attenzione, e di questo ringrazio il presidente Catania e tutti i colleghi e i gruppi parlamentari presenti in Commissione che hanno contribuito alla stesura della relazione sulla mozzarella di bufala campana DOP.
  Qual è l'agricoltura che ci piace ? È un'agricoltura che esprime un prodotto ? Senza dubbio, sì. È un'agricoltura capace di mettere sul mercato un prodotto che viene accolto, che viene apprezzato, che viene accettato, che viene misurato dal mercato nazionale ed internazionale, anche con picchi di grande successo. Ma, guardate, non basterebbe questo; non è questo l'elemento distintivo. L'elemento distintivo, a nostro avviso, è quello che interpreta, attraverso un prodotto, il sentimento e la storia di un luogo; che interpreta, cioè, un modello di agricoltura intimamente legato ad un territorio, strettamente connesso alla storia di un luogo e, insieme, capace di indicare una prospettiva di sviluppo che esula dalla valutazione più strettamente agronomica, se volete; che, invece, rappresenta e interpreta un'occasione emulativa anche per altri prodotti. La capacità, cioè, di produrre un bene capace di essere apprezzato, ma anche la capacità di rappresentare, attraverso quel prodotto, una filiera agricola di agricoltori che ogni giorno si confrontano con le realtà produttive, che si alzano di buon mane e che, attraverso l'esercizio positivo della loro azienda, misurano quell'utile di impresa capace di esprimere al meglio una produzione.
  Per questa ragione abbiamo voluto affrontare questo tema: lo abbiamo affrontato nei vari aspetti, nell'aspetto più squisitamente qualitativo, ma anche negli aspetti che si confrontano con la criminalità, con tutte le forme varie di contraffazione, con tutte le forme varie che incidono e che hanno inciso, danneggiando una delle principali DOP del nostro Paese, la prima DOP del Mezzogiorno d'Italia.
  C’è una prima condizione distonica che si rileva in questa filiera, in questa produzione, ed è data dalla produzione di latte, che cresce soprattutto nel periodo invernale, e dalla produzione o, se volete, dalla domanda di prodotto finale, che cresce prevalentemente nel periodo estivo.
  È evidente che rispetto a questa condizione distonica, se volete strabica, vi è da lavorare sul fronte delle politiche di destagionalizzazione, di politiche, insomma, che provino a mettere insieme queste due condizioni, che sembrano opposte e, invece, possono insieme continuare a contribuire a rendere questo prodotto fruibile Pag. 52nell'artigianalità – mi riferisco al latte –, in quel processo artigianale che è rappresentato e che rappresenta la produzione di mozzarella di bufala campana DOP. Vi è un altro aspetto sul quale abbiamo provato a soffermarci e che non può essere estraneo alla riflessione di quest'oggi, ed è il disciplinare. Che cos’è il disciplinare di un prodotto a marchio ? È non solo la regola del come, del perché, del quando, del come si produce questa eccellenza, ma è anche, il disciplinare, un pezzo della storia.
  Il disciplinare interpreta anche un elemento sentimentale, se volete anche romantico, se volete anche la tutela di quell'artigianalità che rende i prodotti a marchio del nostro Paese capaci di misurarsi sui mercati internazionali e, soprattutto, capaci di misurare lì successi strepitosi e straordinari. Non è questa la sede, ma non v’è dubbio che la partita importante che si gioca sul TTIP non può escludere i nostri straordinari prodotti a marchio, non li può rendere soggiacenti e non li può rendere marginali in quella partita importante. Nel disciplinare, tra le altre vicende, vi è una vicenda anche abbastanza discussa, ma sulla quale la stella polare dell'artigianalità e della localizzazione territoriale, e quindi della voglia di far sì che quel prodotto sia sempre più eccellente, ma sempre più radicato su quei territori, è il vincolo delle 60 ore.
  Non possono trascorre più di 60 ore dalla mungitura perché quel prodotto diventi mozzarella di bufala campana DOP; e su questo, guardate, anche il legislatore, nel corso degli anni, ha avuto spesso tentennamenti, diciamo così. Nella scorsa legislatura fu approvata una norma che tentava, provava ad avere questa chiave di lettura: proviamo a far sì che ci siano filiere completamente separate, che ci siano produzioni completamente separate tra chi produce mozzarella di bufala campana DOP e chi non produce mozzarella di bufala campana DOP e può utilizzare anche altri latti, non di filiera DOP, successivamente. La finalità era questa: rendere più facili i controlli. La finalità non era punitiva, la finalità non era la voglia di marginalizzare chi non produceva mozzarella di bufala campana DOP né appesantire il sistema produttivo.
  La finalità era semplicemente rendere facili i controlli, in modo tale che tutti ci si adeguasse al fatto – registrato, peraltro, anche da attività di indagini – che troppo spesso cagliate straniere o, addirittura, latti stranieri giungessero nel nostro Paese e venissero trasformati in mozzarella: naturalmente non in mozzarella di bufala campana DOP, ma, talvolta, anche le etichette inducevano in errore. Poi, successivamente, il legislatore ha ritenuto di modulare questa articolazione normativa, per consentire non spazi, non opifici separati, ma linee di produzione sostanzialmente separate, chiaramente separate, per consentire, da una parte, il controllo, ma per consentire anche le produzioni. Devo dire, questa soluzione rischiosa è stata mitigata, però, dal fatto che in quegli impianti può entrare soltanto, di fatto, latte di bufala campana DOP. Come nascono i prodotti a marchio ? I prodotti a marchio nascono con la finalità di preservare con un marchio l'artigianalità del prodotto.
  Questo non significa porsi in una condizione di contrasto rispetto alla prospettiva industriale. Guai a pensare che vi sia una condizione dicotomica per cui ciò che è artigianale non può essere implementato e non può essere prodotto anche in chiave industriale; viceversa, però, l'artigianalità rappresenta un elemento di certezza dal punto di vista di quella qualità che noi continuiamo a ricercare, continuiamo a garantire. E poi, abbiamo misurato come e quanto siano false talune etichette, addirittura con indicazioni fallaci, e come questo sia un pezzo rilevante e importante di quel fenomeno che vale qualche decina di miliardi nel mondo, e un pezzo di questa vicenda riguarda proprio la mozzarella di bufala campana DOP: mi riferisco all’Italian sounding, a quella sensazione, a quella percezione nel mondo che si ha di un prodotto, che si vuole che si abbia di un prodotto che italiano non è, ma che scimmiotta l'italianità, magari con indicazioni improprie, con foto particolarmente Pag. 53seducenti, con indicazioni che nulla hanno a che vedere con l'originalità, con la qualità del prodotto, e che semmai inducono in errore. E quando inducono in errore non sono fallaci o bugiardi e falsi nei confronti del produttore o dei produttori competitor: quando inducono in errore sono fallaci e commettono un crimine nei confronti di un'area, di un territorio, di una distintività territoriale che vuole riconoscere la propria storia, anche agricola, attraverso una misura di qualità.
  Noi abbiamo voluto, approfondendo in Commissione anticontraffazione, provare a fare anche uno sforzo in più: provare anche ad indicare come è possibile, attraverso la valorizzazione e la tutela di queste filiere... Tutela che dev'essere necessariamente per un aspetto normativa, e peraltro per un aspetto, come dire, di moral suasion, capace cioè di mettere attorno al tavolo l'intera filiera, talvolta anche le regioni, talvolta anche gli enti territoriali, senza dubbio il Consorzio, senza dubbio i produttori, senza dubbio le organizzazioni; mettere insomma tutti insieme, avendo come stella la garanzia, come stella polare la qualità, la tracciabilità assoluta, la riconoscibilità di un prodotto. Per fare cosa ? Abbiamo provato in Commissione a mettere in campo anche un'idea di sviluppo, un modello di sviluppo: un modello di sviluppo, abbiamo detto, radicato nei territori, quindi non replicabile altrove. Si può fare un buon prodotto altrove in Italia, e anche fuori dall'Italia, ma non si può fare un prodotto che ha la storia, che ha la capacità di essere così intriso nella storia di un luogo: per questa ragione noi vogliamo che quel modello di sviluppo sia tagliato sulla mozzarella di bufala campana DOP, ma sia un modello di sviluppo agricolo, capace cioè di essere prodotto in un territorio, riconoscibile in quel territorio, consumato in quel territorio, ma anche consumato a centinaia di chilometri in condizioni di qualità, di salubrità e di assoluta tracciabilità.
  Il primo tema che abbiamo posto è l'assoluta tracciabilità: significa provare a costruire dei modelli (in parte già ci sono) che garantiscano non attraverso un'azione volontaria – è quella che c’è oggi –, ma attraverso un'azione obbligatoria e attraverso sanzioni (queste arrivano ancora tardi) di sapere esattamente di quale latte si tratta, di quale lattazione, addirittura di quale mungitura, e sapere esattamente quella mungitura qual è il prodotto che ha determinato. Se indicassimo questo processo, potremmo anche essere certi di aver fatto un grande passo in avanti, aiutando i due corni della vicenda: aiutando l'agricoltore, aiutando l'allevatore, quello che si sveglia ogni mattino alle 4, ma aiutando anche il consumatore, che finalmente diventa un consumatore maturo e responsabile e assolutamente consapevole, che acquista esattamente ciò che vuole acquistare, ciò che desidera acquistare. Certo, bisogna aiutare il processo sul fronte dei controlli, che talvolta non sono efficaci, perché sono anche commissionati da chi poi dev'essere controllato; certo, c’è da più potenziare la piattaforma dell'Istituto Zooprofilattico, c’è da migliorare e implementare la comunicazione e l'informazione, si potrebbe indicare e costruire senza costi aggiuntivi un osservatorio sulla mozzarella di bufala campana DOP.
  E soprattutto, guardate, noi non vogliamo essere impermeabili, tetragoni e fermi rispetto alle sollecitazioni che il mercato offre: se quel mondo ci indica una strada, che non riduca di un millimetro la tracciabilità, la qualità del prodotto, l'artigianalità del prodotto, non ci sottrarremo insieme al Consorzio a riflessioni che possano essere comuni. Certo, serve un'etichetta che sia vera, che sia trasparente, che sia facilmente intellegibile, e soprattutto che ci sia un giusto mix tra quella qualità che si va ricercando sempre di più, e quella esportazione che cresce, e che cresce a dismisura. In questo senso, la nostra valutazione su di un'iniziativa che per la prima volta il Parlamento nazionale prova a discutere, è che essa andrà a tutto vantaggio sembra della qualità, ma soprattutto di quel modello di sviluppo che noi proviamo a difendere e a tutelare.

Pag. 54

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Filippo Gallinella. Ne ha facoltà.

  FILIPPO GALLINELLA. Presidente, il tema di oggi è la mozzarella di bufala campana DOP, da non confondere con l'altra mozzarella semplicemente fatta con latte di bufala: vogliamo ricordarlo in quest'Aula, è quella con il marchio dove c’è un bufalo centrale circondato nella parte superiore da un sole rosso e sotto una zona verde con scritto «mozzarella di bufala» in bianco, e sotto «Campania» in verde. Già la descrizione del simbolo ci fa capire quanto è passionale questo prodotto e come è riconosciuto all'estero: infatti è la terza DOP, dopo il parmigiano reggiano e il grana padano, è la prima DOP del Mezzogiorno. Sono numeri importanti, perché nel 2015 dal lato del produttore sono stati oltre 300 milioni di euro, e dal lato del mercato oltre 500. 41 milioni di chili di mozzarella di bufala, quindi parliamo di una quantità sicuramente importante: un prodotto che è consumato prevalentemente in Italia, ma ha oltre il 30 per cento all'estero, Germania, Stati Uniti, Francia, Svizzera, Spagna; e per questo rappresenta, insieme a tanti altri prodotti del nostro territorio, il made in Italy nel mondo, e per questo lo dobbiamo sicuramente, insieme agli altri, tutelare e proteggere.
  La relazione che la Commissione anticontraffazione ha approfondito, e tutti i gruppi hanno votato all'unanimità, descrive la filiera, come è fatta, la sua storia e anche le problematiche che girano intorno ad un prodotto così importante, perché ovviamente ci sono anche gli interessi della criminalità, e anche di chi vuole fare il furbo, che intorno ad un prodotto ci vuole lucrare. Noi dobbiamo essere precisi, puntuali per sconfiggere questi fenomeni di illecito, perché non solo danneggiano il mercato, ma infangano anche il nome dell'Italia, non solo nel nostro territorio ma anche nel mondo.
  Io mi soffermerò su alcuni aspetti che la relazione ha portato all'attenzione, che sono quelli, come è stato già accennato dal relatore, relativi alla separazione della linea produttiva, alla tracciabilità, l'etichettatura; e poi mi piacerebbe soffermarmi un attimo anche su quanto è già stato accennato, sulla questione della produzione, della forma di produzione e di come si potrebbe migliorare la distribuzione del prodotto, e quindi anche del reddito da parte dei produttori. Sicuramente avere una sola tipologia di latte all'interno di una linea facilita i controlli; chiaro è che poi questa applicazione (e questo magari meriterà una riflessione nel futuro) ha portato... Noi ricordiamo, nell'area ci sono 102 produttori legati all'area DOP, però 12 di questi, quindi oltre il 10 per cento, non ci sono più perché non si possono permettere per motivi economici di avere una sola linea di produzione, perché se uno decide solo di fare il latte di bufala, magari avendo numeri piccoli non riesce ad arrivare alla fine del mese; e quindi magari su questa tipologia toccherà ragionare in futuro, per vedere se questi piccoli caseifici possono in qualche modo bypassare questo problema: fermo restando che avere un unico latte sicuramente facilita i controlli.
  Un altro punto sul quale mi vorrei soffermare è quello della tracciabilità. Sicuramente il sistema SIAN, avere accentrato insieme all'Istituto Zooprofilattico tutta la fornitura dei dati ci permette giornalmente di avere tutto: la quantità di latte, da dove viene, zona DOP e non DOP; e questo sicuramente è un sistema funzionale, che va preso, ad esempio, anche magari per allargarlo ad altre filiere, come tutta la zootecnia e la tracciabilità della carne, e questo potrebbe essere sicuramente di esempio per aiutare anche le filiere italiane che non hanno grandi numeri ma hanno alta qualità, e tale problematica si collega al fatto, già accennato dal relatore, della questione dell'etichettatura. Sicuramente l'Italia deve pretendere, secondo me con battaglie molto feroci, che ci sia la tracciabilità e l'indicazione dell'origine delle materie prime: sicuramente nei monoprodotti, nei prodotti freschi con un solo ingrediente, perché non siamo in grado di competere con i numeri Pag. 55ma solo con il nome made in Italy e ciò è fondamentale. Quindi è chiaro che sull'etichettatura chiediamo al Governo un impegno fondamentale: al di là dei preparati e dei composti per i quali sicuramente è complicato, almeno sui monoprodotti, sui monoingredienti e sui prodotti freschi è una battaglia da perseguire per tutti i prodotti italiani. La questione, invece, che mi preme sottolineare e quindi la descrivo brevemente, è come la destagionalizzazione, a cui ha accennato il relatore, sia fondamentale. Infatti chiaramente con l'intervento dell'uomo regolando i parti, nel tempo, negli anni si è avuta una produzione di latte costante che comunque ha dei picchi: al 2015 si contano 20.000 tonnellate di latte al mese e poi ci sono i picchi nei mesi invernali. Questo è il latte prodotto dalle bufale, una parte di questo va alla mozzarella di bufala campana DOP, diventa latte DOP e vediamo che comunque c’è un picco di produzione. Ricordiamo che la resa è del 25 per cento nei mesi di luglio, che poi cala a piramide nei mesi invernali. Chiaramente abbiamo un latte nei mesi invernali, almeno dalle nostre parti, che comunque non viene trasferito alla mozzarella di bufala campana DOP, quindi latte che ahimè deve essere congelato per essere conservato e inviato a filiere differenti e questo è un costo aggiuntivo per i produttori. Quindi se, come è stato accennato, lavorando con la logistica, con il marketing, con la distribuzione si riesce anche a equiparare il commercio di una mozzarella di bufala campana DOP in tutti i mesi dell'anno ove possibile, è chiaro che c’è sicuramente una maggiore remunerazione anche soprattutto da parte del produttore e dei caseifici perché non devono sicuramente congelare il latte. È chiaro ed è già stato detto che i controlli sono fondamentali. Quindi è necessario sicuramente potenziare i controlli, dare la possibilità agli stessi consorzi di fare i controlli: quindi chiediamo anche l'intervento del Governo perché ci sono risorse su questi che possono aiutare i consorzi anche ad autogestirsi.
  Un'altra questione – concludo, Presidente – è che l'Italia ha denominazioni importanti. Come è stato detto, i numeri sono pochi ma la qualità è alta e in questi periodi durante i quali si parla anche di accordi internazionali e di libero scambio punto fermo del Governo è non abbassare la testa perché, se abbassiamo gli standard per rincorrere l'idea di un mercato globale dove contano solo i numeri, l'Italia, la sua eccellenza e le sue storie rischiano di scomparire. Ringrazio il relatore e tutta la Commissione per aver portato in Aula, insieme all'olio, un altro prodotto importantissimo per l'Italia, queste discussioni su questi prodotti perché sono questi che ci differenziano nel mondo e che noi dobbiamo tutelare.

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare il collega Catania. Ne ha facoltà.

  MARIO CATANIA. Grazie, Presidente. Il collega relatore Paolo Russo ha già fornito un'esaustiva visione delle tematiche che ruotano intorno alla mozzarella di bufala, dei problemi, delle criticità esistenti ma anche delle positività e delle potenzialità di questo prodotto. Si tratta di un prodotto che è il fiore all'occhiello dell'agroalimentare italiano, in particolare del Mezzogiorno. Si tratta di un prodotto che ha dimostrato in epoca recente tassi di crescita che indicano capacità di penetrazione sul mercato fuori dal comune. Perché la Commissione di inchiesta ha ritenuto di approfondire le tematiche relative alla contraffazione della mozzarella di bufala campana ? Il motivo è molto semplice: questo prodotto nella sua ormai lunga storia ha incontrato in varie fasi problemi relativi alla contraffazione del prodotto stesso, o comunque che hanno toccato l'immagine del prodotto sul mercato. In una fase meno recente c'era una problematica di utilizzo in modo illecito di latte vaccino a fianco a quello di bufala nella produzione del prodotto: questo tipo di frode è andato via via riducendosi fino quasi a scemare.
  In epoca più recente sono altre le forme di contraffazione con cui dobbiamo misurarci, ma in ogni caso era, credo, utile per la nostra Commissione scegliere prodotti Pag. 56che avessero un significato importante in termini sia di fatturato ma anche di problematica relativa alla contraffazione. Credo che il lavoro svolto dalla Commissione, da un lato, abbia messo a nudo tutte le questioni esistenti. Il collega relatore le ha già ricordate ma ci ha anche dato la certezza che stiamo andando nella direzione giusta, che qualcosa si muove in positivo. Negli ultimi sei o sette anni sono state adottate nuove norme più stringenti in un percorso forse non sempre lineare, ma che indica qual è la strada da percorrere. La strada, come è stato ricordato anche dal collega Gallinella, è quella della tracciabilità, è quella della trasparenza, è quella dell'etichettatura: tutto questo in un'ottica che deve vedere i controlli evolvere in senso sempre più penetrante, sempre più efficace, tuttavia trovando il giusto punto di equilibrio con la necessità per le imprese di non essere aggravate da fardelli eccessivi. Su tale considerazione chiudo il mio intervento: la ricerca di questo punto di equilibrio tra la valenza positiva dei controlli e quella che può invece essere la necessità delle imprese di non essere aggravate da oneri burocratici eccessivi, da vincoli e da paletti eccessivi, in questo equilibrio si misurerà la capacità che abbiamo di accompagnare il successo di questo prodotto sul mercato italiano e su tutti i mercati del mondo.

  PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione.

(Annunzio di risoluzioni – Doc. XXII-bis, n. 5)

  PRESIDENTE. Avverto che sono state presentate le risoluzione Russo e Catania n. 6-00246 e Cirací e Palese n. 6-00247 che sono in distribuzione (Vedi l'allegato ADoc. XXII-bis, n. 5).
   Prendo atto che il rappresentante del Governo si riserva di intervenire in altra seduta.
   Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Discussione delle mozioni Pisicchio e Palese n. 1-01192 e Vacca ed altri n. 1-01268 concernenti iniziative volte a favorire l'accesso agli studi universitari, con particolare riferimento ad un'equa ripartizione delle risorse sul territorio nazionale (ore 17,05).

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione delle mozioni Pisicchio e Palese n.  1-01192 e Vacca ed altri n. 1-01268 concernenti iniziative volte a favorire l'accesso agli studi universitari, con particolare riferimento ad un'equa ripartizione delle risorse sul territorio nazionale (Vedi l'allegato A – Mozioni).
  Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi riservati alla discussione delle mozioni è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).
Avverto che sono state presentate una nuova formulazione della mozione Pisicchio e Palese n. 1-01192 e la mozione Centemero e Occhiuto n. 1-01283 (Vedi l'allegato A – Mozioni) che, vertendo su materia analoga a quella trattata dalle mozioni all'ordine del giorno, verrà svolta congiuntamente. I relativi testi sono in distribuzione.

(Discussione sulle linee generali)

  PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali delle mozioni.
  È iscritto a parlare il deputato Pino Pisicchio, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-01192 (Nuova formulazione). Ne ha facoltà.

  PINO PISICCHIO. La ringrazio, onorevole Presidente, onorevoli colleghi, onorevole rappresentante del Governo. Abbiamo da poco presentato qui a Montecitorio un volume curato dal professor Viesti che riporta i risultati di una vasta e documentata ricerca sui ritardi dell'università italiana. Siamo stati messi di fronte ad un caleidoscopio di fragilità e di gravissimi ritardi. Del resto, quando parliamo di Pag. 57declino dell'università italiana, tristemente raccontato anche dalle statistiche relative ai confronti internazionali sulla ricerca, sul numero degli iscritti, sui laureati, sulla docenza, facciamo riferimento ad un sistema complessivamente declinante in tutte le aree del Paese. Tuttavia, in questa generale difficoltà, il sud viene penalizzato in modo più forte: su 100 nuovi immatricolati negli atenei italiani, 46 sono destinati alle università del nord, 24 a quelle del centro e 30 a quelle del sud, che registra, invece, una numerosità pari al 38 per cento di studenti nati nel Mezzogiorno. Su dieci studenti meridionali quattro si iscrivono nelle università del nord e quattro studenti su dieci vanno nelle università del centro. Il che fa registrare un progressivo impoverimento di risorse umane per le regioni meridionali. Si tratta molto spesso delle risorse migliori, quelli che cercano livelli di formazione più alti guardando all'offerta nazionale ed internazionale di cultura universitaria, famiglie che investono in futuro a costo di sacrifici, territori che si impoveriscono per un drammatico e irreversibile furto di futuro. Negli ultimi sette-otto anni, mentre in Francia gli investimenti per l'università sono aumentati del 3,5 per cento e in Germania addirittura del 23 per cento in base al logico assunto per cui lo sviluppo, il progresso, il futuro anche economico di una nazione dipende dal suo sviluppo culturale, in Italia questi investimenti complessivi sono scesi del 21 per cento.
  In questo arco di tempo anche il numero degli immatricolati è diminuito del 20 per cento e quello dei docenti del 17 per cento; parliamo di una classifica in cui il nostro Paese è al ventesimo posto su ventotto nel numero dei laureati. Quanto alla distribuzione di queste già magre risorse è significativo che dall'indagine risulti che, se si guarda anche soltanto ai finanziamenti dati direttamente dallo Stato alle singole università, dal 2008 al 2015, la diminuzione di queste somme è stata del 4,3 per cento per quelle del Nord, dell'11,6 per cento per quelle del Centro, dell'11,6 per cento per quelle del Sud e del 20,8 per cento per quelle delle isole. Conseguentemente, dal 2005 al 2015, il maggiore aumento delle tasse universitarie si è registrato nelle università meridionali, costrette a chiedere maggiori sacrifici ai loro iscritti per compensare la diminuzione di aiuti statali, tanto più che nel Sud, a differenza che al Nord, è molto più complesso reperire altre forme di sostegno economico da parte di privati. Da questa situazione deriva l'ineluttabile conseguenza che vede gli studenti meridionali sostenere costi maggiori dei loro colleghi settentrionali per avere un servizio decisamente inferiore. Tuttavia, abbiamo ricordato che tutto il sistema dell'università italiana è in condizioni difficili; per la prima volta nei 150 anni della sua storia l'Italia vede diminuire il numero degli studenti immatricolati all'università, la spesa totale per borse di studio è ferma da dieci anni a 160 milioni annui, e dunque cala in termini reali; non c’è un solo settore, non un centro solo di spesa pubblica che abbia fatto segnare una riduzione di personale e di spesa pari a quello dell'università. Che aggiungere ? Forse i mea culpa della politica, forse una riflessione sulle riforme frettolose e incompiute negli anni passati, forse anche la considerazione che esiste una qualche inconsapevolezza delle classi dirigenti contemporanee, ma torniamo al divario nel divario.

  PRESIDENTE. Concluda.

  PINO PISICCHIO. L'iscrizione di questa nostra mozione all'ordine del giorno dell'Aula – e vado subito a concludere, Presidente – intende rimettere in campo il tema del diritto allo studio delle università meridionali per ridare cittadinanza in Parlamento a un tema rimosso, come direbbero gli psicanalisti, scotomizzato. Ricordavo qualche giorno fa, nel corso della presentazione, appunto, di quel rapporto sull'università italiana, una cosa personale: ho una nipote che sta per prendere a Bari la maturità classica e ha già scelto di iscriversi a Roma; nella sua classe di liceo ci sono ventotto ragazzi, solo otto resteranno all'università di Bari, mentre gli altri andranno tutti fuori, alcuni, sette, Pag. 58all'estero. Ecco, la mia speranza di legislatore è di concorrere a creare le condizioni per cui se domani nel liceo di mia nipote un certo numero di ragazzi dovesse scegliere di andare in altre università questo avvenga per libera scelta e non per inevitabile necessità.

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare il collega Luigi Gallo, che illustrerà la mozione Vacca ed altri n. 1-01268, di cui è cofirmatario.

  LUIGI GALLO. Grazie, Presidente. Sottosegretario, oggi parliamo di studenti, parliamo di università, parliamo di diritto allo studio e non solo. Per questi giovani italiani c’è un'enorme barriera da superare per accedere alla conoscenza, una barriera da superare per accedere al mondo del lavoro, e alcune di queste barriere si chiamano tasse universitarie e numero chiuso. Si tratta di una barriera che rende inutile qualsiasi impegno, qualsiasi merito, perché, se nasci in una famiglia svantaggiata economicamente, per te sarà molto più difficile avere le stesse opportunità di chi nasce in un ceto medio-alto. Sempre di più incontro donne e mamme che mi raccontano di essere in grossa difficoltà, perché hanno perso reddito, hanno perso il lavoro o l'ha perso il marito e non riescono a pagare le rate del mutuo. La vera tristezza arriva al culmine nei loro occhi quando confessano o confidano di non avere più i soldi per mandare i figli all'università.
  Ho incontrato anche tanti studenti che fuggono dall'Italia, non solo per cercare lavoro, fuggono dall'Italia per frequentare università europee, perché in altri Stati c’è un sistema di sostegno al reddito e agli studi che rende il percorso universitario semplicissimo e gratificante; persone che poi non tornano più a sostenere il nostro sistema economico e il nostro Paese. Guardate, non ho utilizzato a caso il termine fuggire, perché, finché una persona sceglie cosa vuole per la sua vita e la sua formazione, siamo in un sistema perfetto; quando, invece, le condizioni del Paese in cui vivi ti obbligano a emigrare, allora la responsabilità è tutta dei Governi di questo Paese. Presidente, sottosegretario, io voglio poter mantenere lo sguardo dritto negli occhi luccicanti delle mamme che incontro, lo sguardo delle mamme che hanno visto i figli abbandonare i loro sogni e le loro ambizioni per dare una mano in famiglia, voglio poter dire a queste persone che, per una volta, il Parlamento ha risposto alle esigenze dei cittadini, si è occupato di loro e ha scelto di rispettare la Costituzione, per iniziativa di noi cittadini nelle istituzioni, di noi rappresentanti del popolo italiano. La scuola è aperta a tutti ed è riconosciuto il diritto ai capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, di raggiungere i gradi più alti degli studi, è quello che recita lo splendido articolo 34 della Costituzione, come lo stesso articolo 33, che resta di una bellezza straordinaria quando recita: l'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento. Noi dobbiamo riconquistare questa libertà in questo Paese che ogni anno perde l'iscrizione di 27 mila studenti universitari, tutti studenti delle università del Sud che, a conferma di quanto stiamo affermando, sono quelle che vivono una condizione economica tra le più svantaggiate del Paese. Le università del Sud sono in costante difficoltà e perdono studenti, docenti, ricercatori e risorse. Poco tempo fa, Presidente, sottosegretario, ho incontrato un mio amico dell'università, un collega dei tempi dell'università di ingegneria informatica, entrambi avevamo vinto la borsa di studio per frequentare gli studi e lui è diventato ricercatore in un'università del Sud, è uno degli ultimi che ha avuto il contratto a tempo indeterminato come ricercatore nell'università, uno degli ultimi perché la Gelmini e il centrodestra hanno eliminato il contratto di ricercatore a tempo indeterminato nell'università italiana e questo Governo, finora, nulla ha fatto per reintrodurlo. Ciò che mi ha lasciato senza parole, Presidente, è che un uomo di 35 anni, laureato con 110 e lode, con una brillante carriera, era senza speranza sul sistema universitario del Sud; mi sono interrogato a lungo di questa assenza di speranza, soprattutto in un giovane Pag. 59ricercatore, e la risposta è che l'istruzione ha effetti positivi nel lungo termine, mentre la politica italiana pare concentrata ad ottenere risultati nel breve termine, spot elettorali, bonus e la stessa politica di questo Governo, che si è contraddistinto per eliminare diritti, regalando in cambio buoni da spendere, un esempio su tutti è il Jobs Act. Noi, con questa mozione, pensiamo di poter dare un primo segnale, insieme all'Aula parlamentare che si appresterà a votarla e a decidere cosa votare, perché quelle due barriere, secondo il MoVimento 5 Stelle, possono essere abbattute, creando una no tax area per l'università per i redditi delle famiglie sotto i 20 mila euro ISEE, questo significherebbe un risparmio medio all'anno per le famiglie di 700 o 800 euro, con una cifra di investimento dello Stato di circa centocinquanta milioni, non una cifra enorme, cosa che in questo momento si avrebbe tutta la possibilità di poter realizzare. Proponiamo anche la revisione del sistema del numero chiuso, perché la revisione del sistema del numero chiuso non è solo una richiesta del MoVimento 5 Stelle, che ha anche depositato una proposta di legge; così come sulle tasse universitarie, dove abbiamo depositato una proposta di legge nel 2013, che è in discussione in Commissione cultura dal 2013 e che prevede proprio in un articolo una no tax area calibrata sul reddito ISEE. Ebbene, queste due normative potrebbero migliorare ed agevolare l'accesso e togliere quell'ostacolo economico, perché sappiamo tutti che, quando ci si prepara all'ingresso nel numero chiuso, molto dipende dalla preparazione che si riesce a fare prima di fare i test universitari per il numero chiuso, e questa preparazione, il più delle volte, costa. È una preparazione privata, quella che gli studenti devono fare per potere arrivare preparati ai test per le facoltà a numero chiuso. In questo modo, nella proposta di legge che abbiamo depositato, e quindi con un impegno di questa mozione, chiediamo una rivisitazione del numero chiuso e che si preveda un sistema simil francese, dove la selezione degli studenti che potranno proseguire il corso di studi per quelle facoltà dove vige il numero chiuso non avvenga a prescindere, con una barriera posta prima che inizino i corsi universitari, ma al primo o al secondo anno, dopo che tutti gli studenti hanno avuto la possibilità di formarsi attraverso un'istituzione pubblica e potuto concorrere con le stesse opportunità, con la possibilità di giocarsi sul merito – veramente, questa volta – e non sulle condizione economiche la possibilità di inserirsi all'interno di un sistema universitario a numero chiuso.
  Ciò con la volontà di ridurre anche il gap che oggi c’è nel diritto allo studio, perché siamo uno di quei Paesi che investe meno sul diritto allo studio. Siamo ultimi nelle università, siamo ultimi in termini di laureati e anche di finanziamento al diritto allo studio (in termini di laureati veniamo dopo la Turchia, ultimi nell'area OCSE), ma in termini di diritto allo studio, naturalmente, abbiamo creato una particolarità tutta italiana, che è quella dell'idoneo senza borsa. Cioè, il cittadino, lo studente, la famiglia che avrebbe diritto alle risorse per frequentare l'università, un sostegno al reddito per un'indipendenza dello stesso studente, pur avendo tutti i parametri giusti per avere borse di studio, queste persone, siccome non ci sono i fondi per tutti, non ricevono le risorse che sarebbero dovute. Per questo invitiamo il Governo e il Parlamento a prendere in seria considerazione una svolta in campo universitario, del diritto allo studio, per poter, con quest'occasione, cambiare corso alla politica degli incentivi, al diritto allo studio e all'ingresso degli studenti nel mondo universitario.

  PRESIDENTE. È iscritta a parlare la collega Manuela Ghizzoni. Ne ha facoltà.

  MANUELA GHIZZONI. Signor Presidente, sottosegretario, onorevoli colleghi, su impulso della mozione presentata dall'onorevole Pisicchio, oggi discutiamo di temi ai quali mi sono dedicata molto negli ultimi anni (le politiche universitarie, segnatamente quelle del diritto allo studio, l'accesso all'università), quindi ho affidato Pag. 60molte riflessioni a un testo scritto, Presidente, che le chiedo di poter depositare, affinché venga pubblicato integralmente negli atti della seduta. Credo e spero che mi dia l'autorizzazione.

  PRESIDENTE. Sì, è autorizzata.

  MANUELA GHIZZONI. Grazie, Presidente. Annuncio anche che il Partito Democratico presenterà una propria mozione, di cui anticipo le premesse e gli impegni in seno a questo intervento. Per quanto attiene ai contenuti delle premesse, integrerò alcuni dei dati – importanti e condivisi, ovviamente, perché sono oggettivi – citati dal collega Pisicchio, che ha citato a sua volta un testo importante a cui noi tutti in questi giorni abbiamo fatto riferimento, cioè la ricerca condotta e coordinata da Viesti e pubblicata da Donzelli: Università in declino. Citerò, però, anche altri dati, per esempio quelli pubblicati recentemente da ISTAT e da AlmaLaurea, perché credo che sia giusto avere un quadro completo del contesto in cui noi interveniamo e affinché non cada nel vuoto la predica del Presidente Einaudi, appunto di conoscere per deliberare, almeno in questo ambito.
  Dalle cose che diceva il collega Pisicchio ma anche il collega Gallo, è acclarato che in Italia – nel Mezzogiorno in particolar modo, ma soprattutto in Italia – soffriamo di un increscioso ritardo nella diffusione della formazione universitaria nella popolazione, in generale e soprattutto in quella giovanile, nonostante ci sia questa vulgata disinformata che siamo tutti dottori, in questo Paese. Non è così, affatto. Anzi, la percentuale di italiani che inizia gli studi post-secondari è solo del 42 per cento (siamo ultimi in Europa), ma siamo ultimi in Europa anche per numero di laureati nella fascia più importante, tra i 24 e 34 anni. Nel testo scritto integro questi dati, ora li accenno solo, a vantaggio di chi ci ascolta da casa.
  Se poi facciamo riferimento alla popolazione attiva, cioè quella dai 25 ai 64 anni, il dato cala ancora di più (arriviamo al 17 per cento) e siamo di nuovo gli ultimi tra i Paesi OCSE, con quel divario territoriale cui faceva riferimento il collega Pisicchio, cioè che in alcune realtà, come il Lazio, la percentuale arriva al 20 per cento, ma ci sono realtà, soprattutto nelle regioni meridionali, come la Puglia e la Sicilia, con valori inferiori al 14 per cento, cioè inferiori a quelli nazionali di Paesi come l'Indonesia o il Sudafrica. In questa situazione è drammatico anche l'andamento delle immatricolazioni; c’è stata una lievissima ripresa nell'ultimo anno, ma del 2 per cento, sostanzialmente insignificante. Il problema vero e serio è che, in generale, dal 2003 al 2015, abbiamo perso circa 70 mila immatricolazioni; di nuovo, se guardiamo il dettaglio secondo le macro-aree geografiche, questo calo di immatricolazioni si concentra soprattutto al sud, dove la contrazione è del 30 per cento, poi segue il centro, con il 22 per cento, e poi il nord, con il 3 per cento. In termini assoluti, sono circa 40 mila matricole in meno registrate, tra il 2009 e il 2013, nel Mezzogiorno.
  Lo si diceva – lo ha detto chi mi ha anticipato –, a pagare il prezzo più elevato di questo calo di immatricolazioni – anche se poi naturalmente ci sono atenei del sud che non hanno sofferto di questo fenomeno, che è un pochino più a macchia di leopardo, ma è certamente sotto gli occhi di tutti – è il Mezzogiorno, segnatamente le zone insulari, dove ovviamente si registra, tra l'altro, oltre la mancata immatricolazione, proprio un flusso verso altre realtà. Di fatto, è il 53 per cento di ragazzi del sud che studierà o lavorerà non nella propria regione di residenza. È chiaro che la mobilità territoriale è un valore in sé, ma lo è se diventa circolare, cioè, se i miei talenti possono essere espressi al meglio nel territorio di approdo perché ci sono delle opportunità in più, e poi, però, se questa espressione dei miei talenti la faccio ricadere nel mio Paese d'origine. Ma noi non siamo di fronte a una circolarità del fenomeno, siamo di fronte a un fenomeno unidirezionale: dal sud al nord e dal nord verso l'Europa. Non è questa la sede e non ho nemmeno il tempo per poter analizzare le ragioni di questi fenomeni, Pag. 61che però sono drammatici – naturalmente c’è anche un dato ovviamente demografico –, però alcune cose le vorrei accennare e le voglio richiamare, peraltro facendo riferimento al rapporto annuale ISTAT che è stato annunciato e presentato venerdì scorso.
  Abbiamo riagganciato finalmente la ripresa, è cresciuto il PIL, sono cresciuti i posti di lavoro, le scelte del Governo in ordine al Jobs Act, ma anche altre scelte di natura economica e sociale per far riprendere la domanda interna, stanno dando risultati positivi, ma è altrettanto vero che in dieci anni si è incrementato il differenziale delle disuguaglianze nel nostro Paese. Per frenare questo differenziale, che cosa bisogna fare ? Bisogna intraprendere degli interventi redistributivi, che vanno ad incidere sui meccanismi che concorrono alla formazione dei redditi primari, come ad esempio tutte le politiche sull'istruzione. Quindi, bene gli interventi che abbiamo votato un anno fa nella legge n. 107, gli interventi di ingenti investimenti sulla scuola, ora dobbiamo fare analoghi interventi per l'università, perché conseguire un titolo superiore, universitario o analogo, è un'operazione che fa bene a se stessi e fa bene soprattutto al Paese, perché naturalmente consente di realizzare una società che sarà forte di competenze e di cittadinanza, che sarà competitiva, più dinamica. E poi ci sono i vantaggi ai singoli cittadini, uno fra tutti: si vive di più. Un titolo di laurea presenta un vantaggio di ben 3,8 anni in più su chi ha un titolo di studio inferiore.
  Poi ci sono altri dati che l'ISTAT ci ha recentemente mostrato e che bisogna incrociare soprattutto per non dar credito a quelle fantasiose e un po’ retoriche tesi proposte da coloro i quali dicono che la laurea non serve a fronte di inventiva e talenti. In realtà, le cose sono ben diverse nel nostro Paese, soprattutto in alcune realtà, perché le condizioni di nascita pesano ancora tanto in Europa e in Italia. Cito un dato: il livello di istruzione dei genitori ha un fortissimo effetto sul reddito dei figli, gli individui che a 14 anni hanno un genitore con istruzione universitaria, o secondaria superiore, dispongono poi di un reddito rispettivamente del 29 e del 26 per cento più elevato di chi aveva genitori con un livello di istruzione più basso. Ora, è ovvio che la crisi, la crisi che abbiamo attraversato e da cui stiamo uscendo, ha avuto un impatto negativo sul vantaggio occupazionale determinato dal titolo di studio, tuttavia, studiare e conseguire un titolo superiore è invece ancora un buon investimento. Ce lo dice l'ultimo rapporto di AlmaLaurea, tant’è che per esempio i ragazzi, i laureati triennali che ad un anno dalla laurea lavorano sono il 67 per cento, con un incremento di un punto in percentuale in più. Certo, rispetto ai livelli pre-crisi siamo lontanissimi ancora, ci sono ancora 15 punti percentuali di differenza, però ai ragazzi che non si sono diplomati è andata molto peggio in termini occupazionali e in termini anche di reddito: nel periodo 2007-2014 per esempio, la disoccupazione tra i ragazzi diplomati è più che doppia rispetto a quelli laureati. E ancora, l'ultimissimo rapporto che è uscito qualche settimana fa sulle retribuzioni dimostra che un laureato al primo impiego ottiene una retribuzione pari a quella di un collega con anzianità dai tre ai cinque anni che ha un titolo inferiore. Quindi, la laurea per il sistema Paese e per le persone è certamente un buon investimento. Naturalmente, che cosa si frappone tra i ragazzi e le ragazze e questo obiettivo ? Tante cose nel nostro Paese, alcune questioni sociali le ho richiamate, anche se brevemente, ma per esempio un ostacolo è il nostro gracilissimo sistema di diritto allo studio che non consente a realtà, alle fasce sociali più deboli, di affrontare con serenità un percorso di studi come quello universitario. È stato richiamato, cito solo due dati: in Italia soltanto l'8,2 per cento dei ragazzi ottiene una borsa di studio e solo il 10,3 per cento è destinatario poi, in realtà, di una provvidenza, di una borsa di studio o altro, perché in Italia abbiamo questo primato, di cui certamente non dobbiamo andare fieri, dei cosiddetti idonei senza borsa, che non ricevono beneficio perché non abbiamo adeguate risorse.
  Se poi guardiamo anche il dato che è stato richiamato dall'onorevole Gallo delle Pag. 62contribuzioni universitarie, qui siamo, invece, primi nelle classifiche, perché in realtà, anche qui smentendo una vulgata, noi siamo il terzo Paese per pesantezza delle tasse universitarie, dopo la Gran Bretagna e dopo l'Olanda. Quindi, allora, ho elencato alcuni dati quantitativi che naturalmente credo rappresentino quanto sia grave la nostra situazione in ordine al numero dei laureati come Paese, soprattutto per alcune aree, segnatamente il Mezzogiorno. Ringrazio il collega, l'onorevole Pisicchio, che ha presentato una mozione affinché si possa discutere in quest'Aula di alcuni provvedimenti per affrontare le questioni a cui ho accennato.
  Ora, io credo che si possano affrontare quattro direttrici. La prima, e qui mi permetto di correggere, se me lo consente, l'onorevole Pisicchio: in realtà il Governo ha fatto un'iniziativa importante in ordine al Fondo integrativo per le borse di studio. Nell'ultima legge di stabilità il Fondo è stato incrementato di 55 milioni, superando per la seconda volta nell'ultimo decennio il tetto dei 200 milioni, il che è un'iniziativa importante. Però, e qui convengo con lei, per superare questo tetto di cristallo dei 200 milioni bisogna che anche dalle prossime leggi di stabilità questo incremento venga stabilizzato e costantemente incrementato, al fine proprio di rendere il nostro sistema di diritto allo studio più solido e soprattutto di cancellare appunto la vergogna degli idonei senza borsa.
  Poi bisogna fare, secondo me, un'altra cosa, intervenire in un altro ambito, e cioè dare finalmente, dopo tre anni, attuazione a un decreto attuativo che intervenga segnatamente nei criteri del riparto di questo Fondo integrativo. Il meccanismo attuale in vigore è un meccanismo che, lo abbiamo visto, non ha portato oggettivamente equità nella ripartizione delle risorse, perché non tiene conto dei fabbisogni regionali, ma in realtà premia le regioni che investono di più. Questo è un meccanismo, se volete virtuoso, premiare chi fa molto, ma in questo modo però si penalizzano, ovviamente, i ragazzi che vivono nelle regioni che invece in questo ambito non investono. Penso quindi che il Parlamento sia legittimato ad intervenire su questo settore, anche se naturalmente di competenza attualmente delle regioni, e penso che questo potrebbe essere un'altra delle linee di intervento della nostra mozione.
  Poi, oltre ai temi del diritto allo studio, ritengo anch'io che si possa intervenire sulle contribuzioni universitarie. Guardate ad oggi le tasse degli studenti che si iscrivono alla triennale, alla magistrale o ai corsi a ciclo unico, raggiungono una ragguardevole cifra, poco meno di un miliardo e mezzo. È ragguardevole la cifra soprattutto se rapportata al finanziamento che lo Stato trasferisce agli atenei statali che non raggiunge, se non di poco, i 7 miliardi. Se da un lato però è ovvio che gli atenei non possono fare a meno dei contributi versati dagli studenti, e nemmeno possiamo intervenire a ridurre gli spazi di autonomia che gli sono concessi dalla Costituzione come è stato richiamato, forse però dovremmo rivedere i sistemi di calcolo per garantire una reale, come dice peraltro la legge, progressività alla tassazione. Dunque, penso che la direttrice di lavoro potrebbe essere quella di valutare l'opportunità di prefigurare un sistema che prevede una no tax area per i redditi per gli studenti con redditi bassi, un meccanismo progressivo per la tassazione degli studenti con redditi bassi e medio-bassi, e poi ovviamente una compensazione per gli atenei che dovrebbero rinunciare a una quota del proprio introito. La VII Commissione (cultura, scienza e istruzione) della Camera sta lavorando da tempo su questo tema, io penso che forse potremmo – credo – riuscire ad arrivare a un punto di mediazione.
  Per descrivere l'ultima linea d'intervento però ha bisogno di una premessa perché essa si riferisce al Fondo di finanziamento ordinario cioè quello che lo Stato trasferisce agli atenei per l'ordinario funzionamento della vita universitaria. A legislazione vigente, la quota più ampia di questo Fondo, si chiama quota base, dovrebbe essere ripartita secondo dei meccanismi di calcolo, il cosiddetto costo standard, meccanismi che sono stati introdotti alla fine Pag. 63del 2014. In realtà, questo meccanismo è stato applicato per la prima volta nel 2015 e segnatamente per una quota significativa del 25 per cento della quota base. Questa prima e unica applicazione ha consentito di mettere in luce certamente i pregi di questo strumento che è innovativo, e soprattutto credo che si debba apprezzare la trasparenza dei meccanismi di calcolo, però ha evidenziato anche, a mio avviso, alcuni elementi di criticità, uno fra tutti è il cosiddetto «addendo perequativo del costo standard» che per legge dovrebbe essere commisurato ai differenti contesti economici, territoriali e infrastrutturali in cui operano gli universitari e abbiamo visto che sono molto diversi gli ambiti in cui operano le università. Però, in realtà, questo differenziale, questo addendo perequativo, pesa pochissimo nella determinazione del costo standard per studente. Un esempio ? Rispetto alla Lombardia che è stata assunta come valore di riferimento, in Sicilia pesa solo per un 6 per cento in più e in Sardegna solo per un 3 per cento in più, quando è del tutto evidente che la differenza tra queste regioni è molto più pronunciata.
  Ancora, anche la numerosità ottimale delle classi di studenti regolari e per ogni corso è stata determinata in modo uguale per tutti gli atenei, senza, per esempio, tener conto di specifiche diversità, come la popolazione residente, quindi il dato demografico, le questioni relative, per esempio, alle carenze infrastrutturali o, per esempio, le attitudini ad immatricolarsi in loco o ad andare, invece, in altre la realtà. E quindi, in questo modo, si finisce per penalizzare quegli atenei che stanno in zone marginali o interne, come per esempio quelle insulari, della nostra penisola. Un ultimo accenno – me lo consenta, Presidente – è sugli studenti regolari. Il costo standard che ho qui richiamato, anche se frettolosamente, fa riferimento agli studenti regolari. Ora, però, c’è un dato: nel nostro Paese sono molti gli studenti che provano e sperimentano, per esempio, attività lavorative, magari non perfettamente regolari, durante il proprio corso di studi.
  Perché lo fanno ? Lo fanno per mantenersi agli studi, visto che abbiamo un diritto allo studio molto gracile, e anche per misurarsi con esperienze diverse, anche perché sempre l'Istat e sempre AlmaLaurea ci dicono che gli studenti che sperimentano attività lavorative hanno il doppio di opportunità di trovare, poi, lavoro. Eppure, il costo standard attualmente viene calcolato in modo che gli studenti cosiddetti part-time non siano considerati. Allora, penso che un'altra direttrice di lavoro possa essere appunto quella di poter superare, migliorare, ecco migliorare, l'attuale sistema per cui on-off, uno studente attivo è uno, lo studente, per esempio, fuori corso, ma anche il part-time, diventa zero, e questo penso che sia tra le cose che potremmo fare.
  Tutto ciò premesso, quindi, ritengo che si possa chiedere e valutare tra di noi un approfondimento dei meccanismi del calcolo del costo standard, in modo da verificare attentamente e, se è il caso, da ridurne gli eventuali effetti distorsivi sulla ripartizione del fondo ordinario di finanziamento, con particolare attenzione alle università che hanno sede nelle aree interne e marginali del Paese. Lo voglio dire, però, in modo molto chiaro: questa non è una proposta per affossare il costo standard; al contrario, ritengo che ci sia bisogno di una riflessione puntuale sugli indici di calcolo, per poter migliorare questo strumento, che, ho detto, è uno strumento interessante, trasparente, soprattutto per rafforzarne gli effetti di perequazione, affinché sia uno strumento equo per finanziare il nostro sistema universitario.
  Ho concluso, signor Presidente, ricordando però solo una questione. Lo dicevo all'inizio del mio intervento: abbiamo pochi laureati, dovremmo averne di più. Ma perché ? Sembra una domanda sciocca, ma, in realtà, è una domanda di senso, sulla quale, peraltro, l'Europa ci invita a riflettere ormai da quasi un ventennio. In realtà, noi non possiamo più procrastinare il tempo e le azioni, se vogliamo realmente realizzare una società basata sulla conoscenza. La società basata sulla conoscenza significa una società più solidale, significa una società più sostenibile, una società più smart, cioè Pag. 64più intelligente, e queste sono le società che sono in grado di affrontare le sfide che abbiamo davanti, che sono realmente epocali: la sfida della globalizzazione, della ristrutturazione delle gerarchie economiche di natura planetaria, non nazionali e nemmeno europee, ma planetarie, e, soprattutto, del mutamento demografico, che è dovuto ai movimenti migratori e alle trasformazioni della struttura delle popolazioni delle società mature, come è esattamente la nostra, e ritengo che questo sia il tempo di farlo.

  PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali delle mozioni. Ha facoltà di parlare la sottosegretaria di Stato per l'istruzione, l'università e la ricerca, Angela D'Onghia.

  ANGELA D'ONGHIA, Sottosegretaria di Stato per l'istruzione, l'università e la ricerca. Grazie, signor Presidente. Nulla, volevo ringraziare gli onorevoli, perché la questione sollevata dalle mozioni è di fondamentale importanza, però chiediamo ulteriore tempo per approfondimenti del caso. Quindi, ringrazio e ci vediamo in altra seduta.

  PRESIDENTE. Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Ordine del giorno della seduta di domani.

  PRESIDENTE. Comunico l'ordine del giorno della seduta di domani.

  Martedì 24 maggio 2016, alle 11:

  1. – Seguito della discussione del disegno di legge (previo esame e votazione della questione pregiudiziale presentata):
   S. 2299 – Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 29 marzo 2016, n. 42, recante disposizioni urgenti in materia di funzionalità del sistema scolastico e della ricerca (Approvato dal Senato) (C. 3822).
  — Relatori: Ascani, per la maggioranza; Luigi Gallo, di minoranza.

  2. – Seguito della discussione del disegno di legge:
  Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell'impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale (Approvato dalla Camera e modificato dal Senato) (C. 2617-B).
  — Relatrice: Lenzi.

  3. – Seguito della discussione della proposta di legge:
   S. 54-B – D'INIZIATIVA DEI SENATORI: AMATI ed altri: Modifica all'articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, in materia di contrasto e repressione dei crimini di genocidio, crimini contro l'umanità e crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale (Approvata dal Senato, modificata dalla Camera e nuovamente modificata dal Senato) (C. 2874-B).
  — Relatori: Verini e Sarro.

  4. – Seguito della discussione della relazione sulla contraffazione nel settore della mozzarella di bufala campana, approvata dalla Commissione parlamentare di inchiesta sui fenomeni della contraffazione, della pirateria in campo commerciale e del commercio abusivo (Doc. XXII-bis, n. 5).

  5. – Seguito della discussione delle mozioni Pisicchio e Palese n. 1-01192, Vacca ed altri n. 1-01268 e Centemero e Occhiuto n. 1-01283 concernenti iniziative volte a favorire l'accesso agli studi universitari, con particolare riferimento ad un'equa ripartizione delle risorse sul territorio nazionale.

  La seduta termina alle 17,40.

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TESTO INTEGRALE DELLA RELAZIONE DELLA DEPUTATA DONATA LENZI IN SEDE DI DISCUSSIONE GENERALE DEL DISEGNO DI LEGGE (A.C. 2617-B)

  DONATA LENZI, Relatrice. Arriva oggi all'attenzione dell'Aula, in seconda lettura, il disegno di legge recante «delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell'impresa sociale e per la disciplina del Servizio civile universale (C. 2617-B)», approvato in prima lettura dalla Camera dei deputati il 9 aprile 2015. Il Senato ne ha concluso l’iter il 30 marzo scorso. Nel corso dell'esame presso la Commissione Affari costituzionali del Senato e, successivamente, in Assemblea, sono state introdotte diverse modifiche al testo. Mi concentrerò sulle principali lasciando alla lettura integrale della relazione agli atti un più completo esame delle modifiche apportate dal Senato. In sostanza il parlamento ha discusso due anni sulla legge delega proposta del governo ampliando e approfondendo. Ritengo sia ora necessario una rapida approvazione per dare tempo all'esecutivo di emanare nei dodici mesi previsti i molti e complessi decreti legislativi previsti per semplicità e per contenere i tempi indicherò i punti principali modificati lasciano alla lettura integrale della relazione un esame puntuale.
  Partendo, quindi, dall'articolo 1, recante la definizione di Terzo settore, rilevo che tale definizione è stata ampliata. La riporto «si intende il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e realizzano attività di interesse generale, mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi». Alle finalità civiche e solidaristiche, già previste, sono state aggiunte quelle di utilità sociale. Si accentua così una visione più utilitaristica di terzo settore e si restringe ulteriormente il campo rispetto al complesso degli enti rientranti nel titolo II del libro I del codice civile. In pratica a fronte di più di 300.000 soggetti censiti dall'Istat in grande maggioranza associazioni o associazioni riconosciute e quindi regolate dal libro I del codice civile solo una parte di essa, quella che risponde non solo al requisito dell'essere no profit ma a tutti quelli indicati dalla definizione, potrà essere considerata terzo settore ed è quindi oggetto degli articoli dal 4 in avanti della presente legge. Sento la necessità di chiarire che con il termine di utilità sociale non può intendersi la sola produzione di beni o di servizi ma che in senso più vasto ciò che fa bene alla comunità, crea solidarietà, costruisce comunità.
  Si aggiunge poi «mediante forme di azione volontaria e gratuita» rispondendo alle preoccupazioni del mondo volontariato timoroso di rimanere schiacciato in un mondo troppo attento all'impresa e già in cerca di un «quarto settore». La dizione citata invece chiarisce definitivamente la piena appartenenza del volontariato al mondo del terzo settore. D'altronde chi da tempo lo frequenta sa che in realtà il volontariato è la radice, la madre di quasi tutte le associazioni o le imprese solidali.
  Alla precisazione, già presente nel testo approvato dalla Camera, per cui non fanno parte del Terzo settore le formazioni e le associazioni politiche, i sindacati e le associazioni professionali di categorie economiche, è stata aggiunto dal Senato che le fondazioni bancarie, pur perseguendo le finalità degli altri enti del Terzo settore, sono escluse dall'applicazione delle disposizioni in esame e da quelle contenute nei decreti attuativi da queste discendenti (articolo 1, comma 1). Se ne conferma così implicitamente la natura «ibrida» a cavallo tra beneficenza e impresa che le caratterizza dall'origine. Spiace però che la scelta fatta le sottragga alle norme generali contenute nella presente legge dirette a immettere trasparenza e chiarezza nel sistema.
  Sottolineo l'importanza dell'articolo 3 che prevede la revisione delle procedure per acquisire la personalità giuridica regole valide per tutti i soggetti appartenenti Pag. 66al libro 1 e non solo per il terzo settore. L'articolo riconosce l'evoluzione giurisprudenziale che ha già concretamente applicato ai soggetti esercenti una attività d'impresa ma aventi forma giuridica di fondazione o associazione riconosciuta parte delle normativa del libro V in quanto compatibili (si pensi ad esempio alle fondazioni che gestiscono ospedali) mentre il Senato ha chiarito che si debba tener conto di parametri oggettivi, di grandezza. È stata inoltre introdotta la lettera e), che prevede la disciplina del procedimento delle trasformazioni omogenee, ossia della possibilità per gli enti non lucrativi di modificare la loro struttura giuridico-organizzativa pur rimanendo nell'ambito delle figure giuridiche contemplate dal libro I del codice civile. In particolare, la procedura per ottenere la trasformazione diretta e la fusione tra associazioni e fondazioni dovrà avvenire nel rispetto del principio generale della trasformabilità tra enti collettivi diversi introdotto dalla riforma del diritto societario di cui al decreto legislativo n. 6 del 2003.
  La terza novità di rilievo riguarda all'articolo 5 la revisione dei centri di servizio per il volontariato (lettere e) ed f)). Nella nuova formulazione della lettera e), in particolare: i centri di servizio per il volontariato possono essere promossi e gestiti da tutte le realtà del Terzo settore, con esclusione degli enti gestiti in forma societaria ma deve comunque essere garantita la maggioranza alle associazioni di volontariato e garantito il libero ingresso nella compagine associativa di nuove associazioni (principio della porta aperta) a garanzia di un necessario continuo ricambio; la costituzione dei centri di servizio per il volontariato è finalizzata a fornire supporto tecnico, formativo e informativo per promuovere e rafforzare la presenza e il ruolo dei volontari nei diversi enti del Terzo settore; deve provvedersi all'accreditamento dei predetti centri e al loro finanziamento stabile attraverso un programma triennale, con le risorse provenienti dalle fondazioni, come previsto dall'articolo 15 della legge n. 266 del 1991; si prevedono, poi, l'introduzione di forme di incompatibilità per i soggetti titolari di ruoli di direzione o di rappresentanza esterna e il divieto per i suddetti centri di procedere ad erogazioni dirette in denaro o a cessioni a titolo gratuito di beni mobili o immobili a beneficio degli enti del Terzo settore.
  La lettera f), relativa al controllo delle attività e della gestione dei centri di servizio per il volontariato, nel corso dell'esame al Senato è stata ampliata prevedendo, accanto al controllo delle attività e della gestione, la revisione dell'attività di programmazione dei centri, svolta mediante organismi regionali o sovraregionali, coordinati tra loro sul piano nazionale.
  Nel testo licenziato dal Senato è altresì prevista l'istituzione del Consiglio nazionale del Terzo settore, un organismo di consultazione a livello nazionale degli enti del Terzo settore, la cui composizione dovrà fra l'altro valorizzare le reti associative di secondo livello e al quale non sono indirizzate risorse umane e finanziarie dedicate (articolo 5, comma 1, lettera g)). Viene superato conseguentemente, rispetto al testo approvato dalla Camera, il riferimento agli Osservatori nazionali e regionali.
  Rilevanti anche le modifiche introdotte all'articolo 6, nel testo in esame sono state modificate la definizione di impresa sociale e la lettera d), sul riparto degli utili: le due modifiche vanno viste insieme.
  Impresa sociale diventa quindi: «organizzazione privata che svolge attività di impresa per le finalità di cui all'articolo 1, comma 1, destina i propri utili prioritariamente al conseguimento dell'oggetto sociale nei limiti di cui alla lettera d)» (...) « e quindi rientra nel complesso degli enti del Terzo settore».
  Rispetto alla definizione precedente, sparisce il riferimento all'impatto sociale e viene con più nettezza affermato l'inserimento nel Terzo settore. Al comma 1, lettera d), l'analogia con «le cooperative a mutualità prevalente viene sostituita da «comunque nei limiti massimi previsti per le cooperative a mutualità prevalente». La previsione del divieto di riparto degli utili per gli enti del libro I del codice civile è Pag. 67invece una miglior specificazione della precedente dizione «differenziabili anche in base alla forma giuridica adottata dall'impresa».
  In sostanza, l'inserimento ope legis dell'impresa sociale nel Terzo settore è compensata da una definizione più stringente e da maggiori vincoli nell'utilizzo degli utili.
  Per quanto concerne l'articolo 8, avente per oggetto la delega al Governo per il riordino e la revisione della disciplina del Servizio civile universale, faccio presente che nel corso dell'esame al Senato è stato reintrodotto il concetto di difesa non armata della patria, contenuto nel testo originario nel disegno di legge delega e poi soppresso alla Camera ed è invece scomparso il richiamo esplicito alla realizzazione di esperienze di solidarietà sociale ed inclusione, attraverso la realizzazione di esperienze di cittadinanza attiva (articolo 8, comma 1, lettera a)). Nel corso dell'esame al Senato, inoltre, il Servizio civile universale è stato aperto anche agli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia (articolo 8, comma 1, lettera b)) e sono state precisate le funzioni dei diversi livelli di governo (articolo 8, comma 1, lettera d)).
  Rilevo, poi, all'articolo 9 viene istituito un Fondo destinato alle attività di interesse generale promosse dalle organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale e fondazioni (Fondo progetti a favore delle associazioni) presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, con una dotazione di 17,3 milioni di euro nel 2016 e di 20 milioni a decorrere dal 2017 (articolo 9, comma 1, lettera g)). Viene stabilito, inoltre, che le misure agevolative per l'economia sociale tengano conto delle risorse del Fondo rotativo per il sostegno alle imprese e agli investimenti in ricerca (articolo 9, comma 2).
  La novità di maggior rilievo è l'inserimento di un articolo 10, inserito al Senato, che istituisce la Fondazione Italia Sociale, una fondazione di diritto privato con finalità pubbliche che, mediante l'apporto di risorse finanziarie e competenze gestionali, avrà il compito di sostenere, attrarre e organizzare iniziative filantropiche e gli strumenti innovativi di finanza sociale. Non si tratta di un primo caso, il modello può essere rintracciato nell'IIT istituto italiano di tecnologia di Genova.
  Per il 2016, per lo svolgimento delle attività istituzionali, alla Fondazione è stata assegnata una dotazione iniziale di un milione di euro, al cui finanziamento si è provveduto con corrispondente riduzione delle risorse che la legge di stabilità per il 2015 ha destinato alla riforma del Terzo settore (comma 7). Per quanto riguarda l'impiego di risorse provenienti da soggetti privati, la Fondazione dovrà rispettare il principio di prevalenza, svolgendo una funzione sussidiaria e non sostitutiva dell'intervento pubblico (comma 1). La Fondazione, soggetta alle disposizioni del codice civile, delle leggi speciali e dello statuto, non ha obbligo di conservazione del patrimonio o di remunerazione degli investitori. Tutti gli atti connessi alle operazioni di costituzione della Fondazione e di conferimento e devoluzione alla stessa sono esclusi da ogni tributo e diritto e vengono effettuati in regime di neutralità fiscale (comma 6).
  Gli interventi innovativi, che la Fondazione è chiamata a sostenere, sono definiti dal comma 1, come interventi caratterizzati dalla produzione di beni e servizi con un elevato impatto sociale e occupazionale e rivolti, in particolare, ai territori e ai soggetti più svantaggiati.
  La Fondazione, per il raggiungimento dei propri scopi, potrà instaurare rapporti con omologhi enti o organismi in Italia e all'estero (comma 2). Lo statuto della Fondazione, disciplinato dai commi 3 e 4, dovrà essere approvato con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, sentiti il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e il Ministro dell'economia e delle finanze. Lo schema di decreto dovrà essere trasmesso alle Camere perché su di esso siano espressi, entro trenta giorni dalla data di trasmissione, i pareri delle Commissioni competenti per materia (comma 4).Pag. 68
  Sono previste, inoltre, disposizioni relative all'organizzazione, al funzionamento e alla gestione della Fondazione (comma 5) e all'obbligo di trasmissione alle Camere di una relazione annuale sulle attività svolte per il perseguimento degli scopi istituzionali, sui risultati conseguiti, sull'entità e articolazione del patrimonio, nonché sull'utilizzo della dotazione iniziale di un milione di euro (comma 8).
  Novità a mio parere significative ma di minor rilievo sono per quanto attiene all'articolo 1 nell'ambito della procedura di emanazione dei decreti legislativi attuativi, poi, è venuta meno la previsione della decadenza dall'esercizio della delega nel caso di mancato rispetto del termine per la trasmissione alle Camere da parte del Governo degli schemi dei decreti legislativi delegati per l'espressione del parere parlamentare (articolo 1, comma 5).
  Inoltre, la correttezza della copertura del disegno di legge di riforma in esame e dei decreti da questa discendenti è stata garantita attraverso il meccanismo della compensazione interna (articolo 1, comma 6).
  Per quanto riguarda l'articolo 2, recante i principi e i criteri direttivi generali cui devono uniformarsi i decreti legislativi, non si registrano novità sostanziali.
  Nel corso dell'esame al Senato, l'articolo 4, che disciplina i principi e i criteri direttivi ai quali dovranno uniformarsi i decreti cui sarà affidato il riordino e la revisione della disciplina del Terzo settore mediante la redazione di un codice, è stato modificato in più parti.
  L'individuazione delle attività di interesse generale è effettuata con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri da adottare su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, acquisito il parere delle Commissioni parlamentari competenti (articolo 4, comma 1, lettera b)); le attività di interesse generale sono inoltre collegate alla definizione di Terzo settore contenuta nell'articolo 1 e fanno riferimento comunque alle attività già ora elencate nel decreto legislativo n. 460 del 1997 e nella legge n. 155 del 2006; importante e condivisibile risulta anche la nuova lettera c), che permette di differenziare i settori nei quali potranno agire le diverse tipologie di enti del Terzo settore: in pratica, non tutti possono fare di tutto; è prevista l'introduzione di criteri che consentano di distinguere, nella tenuta della contabilità e dei rendiconti degli enti del Terzo settore, la diversa natura delle poste contabili in relazione al perseguimento dell'oggetto sociale (articolo 4, comma 1, lettera f)), punto questo che merita un approfondimento in sede di discussione, in quanto il riferimento sembrerebbe propedeutico a modifiche del regime fiscale che, come è noto, diversifica ad oggi le attività istituzionali da quelle accessorie e non prevalenti (decreto legislativo n. 460 del 1997); è operato il rafforzamento della lotta al dumping contrattuale a danno del settore attraverso l'introduzione del principio per cui occorre garantire, negli appalti pubblici, condizioni economiche non inferiori a quelle previste dai contratti collettivi nazionali di lavoro adottati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative (articolo 4, comma 1, lettera h)); al fine di garantire l'assenza degli scopi lucrativi, deve essere promosso un principio di proporzionalità tra i diversi trattamenti economici dei dipendenti e devono essere disciplinati, nel pieno rispetto dei principi di trasparenza, i limiti e gli obblighi di pubblicità relativi agli emolumenti, ai compensi o ai corrispettivi a qualsiasi titolo attribuiti ai componenti degli organi di amministrazione e controllo, ai dirigenti nonché agli associati (articolo 4, comma 1, lettera l)); viene richiamata la normativa europea per quanto attiene all'affidamento dei servizi di interesse generale e alla verifica dei risultati in termini di qualità ed efficacia delle prestazioni (articolo 4, comma 1, lettera o)); viene rafforzato il riconoscimento delle aggregazioni di Terzo settore attraverso la valorizzazione delle reti associative di secondo livello, intese quali organizzazioni che associano enti del Terzo settore, anche allo scopo di accrescere la loro rappresentatività presso i soggetti istituzionali (articolo 4, comma 1, lettera p)).Pag. 69
  L'articolo 5, poi, contiene i principi e i criteri direttivi cui devono attenersi i decreti legislativi con i quali si provvede al riordino e alla revisione organica della disciplina vigente in materia di attività di volontariato, di promozione sociale e di mutuo soccorso. Tra le maggiori novità segnalo: al comma 1, lettera a), una accentuazione del riconoscimento della specificità delle organizzazioni di volontariato di cui alla legge n. 266 del 1991 e di quelle della protezione civile.
  Questa specificazione crea a mio parere qualche problema: non si comprende infatti perché analoga attenzione non venga rivolta alle associazioni di promozione sociale né perché il solo settore della protezione civile, che pure certo presenta aspetti peculiari, meriti una particolare salvaguardia mentre nulla si dice ad esempio delle associazioni operanti nel campo dell'emergenza-urgenza sanitaria o, sempre per fare degli esempi, delle «banche del tempo»; l'introduzione di criteri e limiti relativi al rimborso spese per le attività dei volontari, preservandone il carattere di gratuità ed estraneità alla prestazione lavorativa (articolo 5, comma 1, lettera b)).
  Si dispone altresì l'allargamento dei settori di attività per le imprese sociali (articolo 6, comma 1, lettera b)) anche se in realtà la disposizione va coordinata con quella di cui all'articolo 4, comma 1, lettera b)).
  La lettera e), inserita al Senato, stabilisce l'obbligo per l'organizzazione che esercita l'impresa sociale di redigere il bilancio ai sensi degli articoli 2423 e seguenti del codice civile, in quanto compatibili (si tratta delle disposizioni sul bilancio delle società per azioni). La lettera g) prevede la ridefinizione delle categorie di lavoratori svantaggiati sulla base delle nuove forme di esclusione sociale, anche con riferimento ai principi di pari opportunità e non discriminazione; il Senato ha aggiunto la previsione relativa alla graduazione dei benefici finalizzata a favorire le categorie maggiormente svantaggiate: ne traggono vantaggio soprattutto le persone con disabilità.
  L'articolo 7 imputa le funzioni di vigilanza, monitoraggio e controllo sul Terzo settore (incluse le imprese sociali) al Ministero del lavoro e delle politiche sociali, salvo il coordinamento del Presidente del Consiglio, e con il coinvolgimento del suddetto Consiglio nazionale del Terzo settore (nel testo approvato dalla Camera era previsto il coinvolgimento dell'Osservatorio nazionale per il volontariato e dell'Osservatorio nazionale per l'associazionismo di promozione sociale) nonché, come previsto al Senato, per quanto concerne gli aspetti inerenti alla disciplina delle organizzazioni di volontariato di protezione civile, con il Dipartimento della protezione civile della Presidenza del Consiglio dei ministri. Il comma 4, introdotto nel corso dell'esame al Senato, prevede l'emanazione di un decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore dell'ultimo dei decreti legislativi delegati, per definire i termini e le modalità per il concreto esercizio della vigilanza, del monitoraggio e controllo sugli enti del Terzo settore.
  Per quanto concerne le principali novità relative all'articolo 9, recante i principi e i criteri direttivi cui deve uniformarsi il legislatore delegato al fine di introdurre misure agevolative e di sostegno economico in favore degli enti del Terzo settore e di riordino e armonizzazione della relativa disciplina tributaria e delle diverse forme di fiscalità di vantaggio, segnalo innanzitutto che al comma 1, lettera a), viene prevista la revisione complessiva della definizione di ente non commerciale. Ricordo che gli enti del terzo settore rientrano in gran parte nella categoria fiscale dell'ente non commerciale. Gli enti non commerciali sono quelli (pubblici o privati) diversi dalle società, che non hanno per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attività commerciali. La qualifica dell'ente va verificata in relazione all'attività essenziale che viene svolta per il raggiungimento degli scopi dell'ente, facendo riferimento sia all'oggetto determinato in base alla legge, all'atto costitutivo o alla statuto, sia, in mancanza di questi, Pag. 70all'attività effettivamente esercitata. La delega alla revisione è quindi assai ampia e di non facile applicazione, e va collegata all'articolo 4, lettera f), del disegno di legge in oggetto.
  L'articolo 11, dopo aver posto la clausola di invarianza finanziaria, autorizza, al comma 2, l'impiego delle risorse necessarie per l'attuazione di quanto previsto dall'articolo 9, comma 1, lettera g), del provvedimento in esame, concernente, come evidenziato, l'istituzione Fondo destinato alle attività di interesse generale promosse dalle organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale e fondazioni.
  Segnalo, infine, che l'articolo 12, concernente l'obbligo per il Ministero del lavoro e della politiche sociali di trasmettere annualmente alle Camere una relazione sull'attività di vigilanza, monitoraggio e controllo sugli enti del Terzo settore, è l'unico non modificato.
  La riforma si pone il grande obiettivo di riordinare un settore in grande espansione, regolate da moltissime norme di favore sparse nei più disparati provvedimenti in modo disorganico che non ha certo impedito la crescita ma ha anche favorito disuguaglianze non giustificate nei trattamenti. Il riordino comporta anche l'introduzione di una maggior selettività in modo che attività rispettabili m sostanzialmente egoistiche siano pienamente legittime ma fuori del campo della solidarietà e dell'impegno civico delineate dalla presente legge. Nella lotta ai fenomeni distorsivi lo strumento principe che la riforma individua è quello della trasparenza delle informazioni, perché sia efficace sarà necessario che i dati resi pubblici siano oggetto di lettura e di verifica della cittadinanza, sarà quindi responsabilità di ciascuno di noi oltre che delle associazioni stesse. Ma il lato più positivo è il riconoscimento e la valorizzazione di uno straordinario patrimonio di energie, di generosità e di idee, di risorse personali e di milioni di ore donate agli altri che meritano tutto il nostro rispetto il nostro impegno e il nostro grazie.

TESTO INTEGRALE DELL'INTERVENTO DELLA DEPUTATA MANUELA GHIZZONI IN SEDE DI DISCUSSIONE SULLE LINEE GENERALI DELLE MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE VOLTE A FAVORIRE L'ACCESSO AGLI STUDI UNIVERSITARI.

  MANUELA GHIZZONI. Signora Presidente, Onorevoli Colleghi, su impulso della mozione presentata dal collega Pisicchio, oggi discutiamo temi ai quali ho dedicato buona parte della mia attività di parlamentare negli ultimi anni, cioè le politiche universitarie e il diritto allo studio universitario, pertanto molte sono le riflessioni che affido a questo lungo intervento, che chiedo di poter consegnare affinché sia pubblicato integralmente negli atti di seduta.
  Preliminarmente anticipo che anche il Partito democratico presenterà una propria mozione, di cui anticipo premesse e impegni nel corso dell'intervento.
  Per quanto attiene ai contenuti delle premesse ricorrerò a molti dati di contesto: mi scuso per l'aridità dei numeri e delle percentuali che citerò ma non si possono individuare delle linee di intervento se prima non si osserva la realtà da governare. Non vorrei quindi lasciare cadere nel vuoto la predica del presidente Einaudi del «conoscere per deliberare», poiché in questo campo, quello dell'accesso agli studi universitari e dell'equa ripartizione delle risorse sul territorio nazionali, c’è già un «groviglio inestricabile», creato da deliberazioni velleitarie o frettolose. Pertanto, non è più il tempo «di non far niente e frattanto tenere adunanze e scrivere rapporti...» a meno di non voler assistere al progressivo impoverimento culturale, sociale ed economico dei nostri giovani e quindi del Paese.
  È ormai acclarato che l'Italia – e il Meridione in particolare – soffrano di un increscioso ritardo nella diffusione della formazione universitaria nella popolazione, sia in generale, sia nella fascia più giovane. Nonostante la disinformata vulgata contraria, non siamo un Paese di Pag. 71dottori, anzi ! Tutte le analisi internazionali lo confermano. Il rapporto «Education at a Glance» che l'OCSE pubblica ogni anno lo certifica chiaramente; anzi, peggio, certifica che anno dopo anno stiamo arretrando rispetto agli altri paesi.
  La percentuale di italiani che inizia gli studi post-secondari è del 42 per cento (EAG 2015, Tabella C3.1), cioè la più bassa in Europa (a parte il Lussemburgo, che però non ha università) e la penultima nell'OCSE, davanti solo al Messico. La media europea è più alta di 21 punti percentuali (63 per cento), quella OCSE (67 per cento) di ben 25 punti. Detto in altro modo, gli studenti universitari italiani dovrebbero aumentare almeno di metà per raggiungere la media europea, dovrebbero più che raddoppiare per raggiungere la Danimarca o il Cile. Se passiamo dagli studenti ai laureati, nella fascia 25-34 anni l'Italia, dopo essere stata a lungo penultima per percentuale di laureati prima della Turchia, occupa adesso l'ultimo posto assoluto con il 24 per cento (EAG 2015, Tabella A1.3a) a fronte di una media europea del 39 per cento e una media OCSE del 41 per cento. L'obiettivo del 40 per cento fissato da Europa 2020 è lontano e irraggiungibile. Per dirla in altro modo, il numero dei laureati italiani dovrebbe aumentare di oltre il 60 per cento anche solo per raggiungere i valori medi internazionali.
  Il quadro diventa ancora più difficile se esaminiamo la percentuale di laureati sulla popolazione attiva (25-64 anni) nei paesi dell'OCSE. Non solo l'Italia con il 17 per cento è l'ultima tra tutti i paesi OCSE (EAG 2015, Tab. A1.3a) ma, se analizziamo il dato a livello regionale come ha fatto il gruppo di ricerca coordinato da Giancarlo Viesti nel recente rapporto «Università in declino», vediamo che questa media è ottenuta con regioni come il Lazio che superano, sia pure di poco, il 20 per cento e regioni come la Puglia e la Sicilia inferiori al 14 per cento, con valori regionali che, tra i paesi partner dell'OCSE, sono superiori solo a quelli nazionali di Cina, Indonesia e Sudafrica.
  In tale situazione nemmeno l'andamento delle immatricolazioni, cioè delle nuove iscrizioni, induce a ben sperare. Pubblicato un mese fa, il XVIII Rapporto AlmaLaurea sulla Condizione occupazionale dei laureati conferma che l'andamento delle immatricolazioni dopo l'aumento registrato dal 2000 al 2003 (+19 per cento), legato soprattutto al rientro nel sistema universitario di ampie fasce di popolazione di età adulta, e nonostante la leggera ripresa registrata nell'ultimo anno – ma si tratta di un aumento inferiore al 2 per cento –, dal 2003 al 2015 le Università hanno perso nel complesso quasi 70 mila matricole (-20 per cento). Come ebbe ad affermare il Consiglio Universitario Nazionale nel documento «Le emergenze del sistema» del 2013, è come se in un decennio fosse sparito un ateneo grande quanto l'Università statale di Milano. Se entriamo nel dettaglio delle macro-aree geografiche, il Sud registra una contrazione del 30 per cento, il Centro del 22 per cento, il Nord del 3 per cento. In coerenza con questi dati sono quelli a livello regionale restituiti dal rapporto di Viesti prima citato: delle 40.000 matricole in meno registrate tra il 2009 e il 2013, ben 27.000 sono ragazzi del Mezzogiorno (Sud e isole): 6.500 matricole in meno sia nelle università campane che nelle siciliane, 5.000 in meno nelle pugliesi.
  Questi dati denunciano il profondo divario sociale ed economico che caratterizza le regioni italiane: il calo delle immatricolazioni negli ultimi anni ha interessato l'intero sistema universitario italiano, ma ha colpito in modo differenziato i diversi territori. A pagare il prezzo più elevato di questo depauperamento di capitale umano sono le regioni del Mezzogiorno, continentali e insulari, dove si registra la diminuzione più marcata di immatricolati e i flussi più significativi di mobilità giovanile verso le altre regioni del Paese. Siamo tutti convinti che la mobilità territoriale sia, di per sé, un fenomeno positivo, perché consente ai giovani di talento e con capacità – grazie alle opportunità presenti nei territori di approdo – di potersi esprimersi al meglio, a vantaggio Pag. 72della promozione personale e del progresso sociale: ma quanto accade sotto i nostri occhi non un fenomeno «circolare», che porta ricadute positive anche sui territori d'origine, è invece un fenomeno unidirezionale, dal sud al nord.
  Ancora, il Rapporto AlmaLaurea, relativamente ai laureati magistrali a 5 anni dal conseguimento del titolo, evidenzia che tra i residenti al Nord Italia, l'88 per cento ha svolto gli studi universitari e attualmente lavora nella propria area di residenza; l'unico flusso di una certa consistenza vede il trasferimento per lavoro all'estero (7 per cento) Sono i laureati residenti nell'Italia meridionale a spostarsi di più per studio e lavoro: complessivamente costituiscono il 53 per cento. Il 20,5 per cento di loro si sono trasferiti per motivi di studio e non sono rientrati, il 16 per cento dopo aver studiato nella propria area di residenza hanno trovato lavoro al Nord o al Centro (solo il 2 per cento si trasferisce all'estero dopo aver studiato al Sud) e solo l'11 per cento dei laureati del Sud rientra nella propria terra dopo aver studiato fuori.
  Non e questo il luogo e il momento per analizzare le cause – in parte anche demografiche, come mostrato da un'analisi condotta da un ricercatore della Banca d'Italia, Pasqualino Montanaro – di un fenomeno così clamoroso e dalle conseguenze di lungo termine così gravi. Esso certamente risente degli effetti generati dalla lunga crisi economica globale e da quella specifica italiana, come dimostrano i dati del rapporto annuale Istat presentati venerdì scorso e sui quali mi soffermo. La ripresa è stata finalmente agganciata, grazie alle politiche del Governo sul mercato del lavoro e ad altre specifiche scelte di natura sociale ed economica per incrementare la domanda interna, ma la disuguaglianza nella distribuzione del reddito è aumentata in dieci anni (1990-2010). Per frenare questa deriva occorrono interventi pre-distributivi, che incidono, in particolare, sui meccanismi che conducono alla formazione dei redditi primari e quindi aiutano gli individui a dotarsi di capacità meglio remunerate sul mercato del lavoro, come ad esempio tutte le politiche di istruzione. Per contrastare la crisi, quindi, molto positivi sono gli ingenti investimenti a favore della scuola messi in campo con la legge 107, che discutemmo un anno fa in questa Aula. Ora, occorre un analogo passo avanti per sostenere i percorsi universitari, perché conseguire un titolo di studio superiore non solo permette di realizzare l'apprezzabile obiettivo di una società forte di competenze di cittadinanza, competitiva e dinamica, ma porta evidenti vantaggi ai singoli cittadini.
  Ad esempio quello di vivere di più, poiché il titolo di studio incide sulla speranza di vita, soprattutto per gli uomini. A 25 anni di età, le persone con basso titolo di studio (al massimo la licenza media) hanno uno svantaggio nella speranza di vita di 3,8 anni rispetto ai laureati. Ancora più netta la distanza tra laureati e persone che hanno conseguito al massimo la licenza elementare: 5,2 anni per gli uomini e 2,7 per le donne.
  Il rapporto annuale ISTAT fornisce ulteriori informazioni, da approfondire ed incrociare con altri dati per non ’avvalorare superficialmente le retoriche tesi di coloro i quali ritengano la laurea un inutile pezzo di carta di cui fare a meno se si hanno inventiva e talento. Le cose in realtà sono ben diverse, poiché la condizione di nascita pesano ancora tanto, in Europa e in Italia. Ad esempio, il livello professionale dei genitori e il titolo di godimento dell'abitazione, indicativi delle condizioni materiali nelle quali gli individui si sono trovati nella loro adolescenza, sono correlati significativamente con il reddito dei figli: il vantaggio reddituale è del 17 per cento in Spagna, del 15 per cento in Danimarca, del 14 per cento in Italia, dell'8 per cento in Francia. Nel nostro Paese, poi, il livello di istruzione dei genitori ha un effetto ancora maggiore sul reddito dei figli: gli individui che a 14 anni avevano almeno un genitore con istruzione universitaria o secondaria superiore dispongono di un reddito rispettivamente del 29 Pag. 73e del 26 per cento più elevato di chi aveva i genitori con un livello di istruzione basso.
  L'ISTAT certifica poi che la crisi ha certamente eroso il vantaggio occupazionale ottenuto con l'investimento in formazione: il tasso di occupazione di un laureato di 30-34 anni dal 79,5 per cento nel 2005 (dato pre-crisi) è sceso al 73,7 per cento dieci anni dopo. Ma se è vero che l'incremento dell'occupazione nell'ultimo anno è esteso a tutti i raggruppamenti professionali, la dinamica positiva riguarda soprattutto le professioni qualificate. Se poi si associano questi dati a quelli dell'ultimo rapporto AlmaLaurea emerge che la laurea resta comunque un buon investimento, anche se i confronti con il periodo pre-crisi fanno emergere quanto ancora ci sia da recuperare: a un anno dalla laurea il tasso di occupazione è del 67 per cento, vale a dire un punto in più rispetto all'indagine dell'anno scorso ma il 15 per cento in meno rispetto al 2008. Però è altrettanto vero che ai ragazzi in possesso del solo diploma le cose sono andate peggio, con tassi di disoccupazione più elevata e redditi inferiori. Nel periodo della crisi, cioè tra il 2007 e il 2014 la disoccupazione per il laureati tra i 25 e i 34 anni è cresciuta di 8,2 punti percentuali, passando dal 9,5 al 17,7 mentre tra i diplomati, tra i 18-29 anni, è più che raddoppiata – cioè del 16,9 per cento – andando dal 13,1 al 30 per cento.
  La 21esima edizione del Rapporto retribuzione di Od&M consulting, poi, rileva che il neolaureato in ingresso guadagna di più di un lavoratore senza laurea con alle spalle già 3-5 anni di anzianità. Inoltre, il titolo di laurea oltre a garantire migliori guadagni, mitiga anche il differenziale retributivo di genere, poiché tra laureati le differenze retributive tra uomini e donne sono più contenute di quelle tra i non laureati.
  Insomma, laurearsi fa bene a se stessi e al Paese, ma molti sono gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento di quell'obiettivo. Tra questi, non possiamo non citare un sistema di diritto allo studio debole, di supporto marginale alle famiglie di studenti universitari per affrontare i costi degli studi. La gracilità del sistema determina una perdita netta di talenti e di opportunità, individuali e per l'intero Paese, anche perché specializzati socialmente: al pari di quanto avviene in molti paesi europei, i giovani che appartengono ai ceti più deboli – in assenza di specifiche politiche di sostegno, come vedremo fra poco – intraprendono sempre meno la strada della formazione universitaria, perpetuando l'immobilità sociale ed economica, la rigidità delle rendite di posizione e la sclerosi delle corporazioni di cui soffre l'Italia.
  Degli studenti italiani solo l'8,2 per cento ottiene una borsa di studio e solo il 10,3 è destinatario di un qualche intervento di diritto allo studio, a fronte di valori superiori al 30 per cento in Francia, Inghilterra e Svezia, superiori addirittura all'80 per cento in Olanda, Danimarca, Finlandia. Per giunta, degli studenti valutati come idonei a ricevere la borsa di studio, solo il 75 per cento la riceve effettivamente; gli altri devono contentarsi di ricoprire la non esaltante figura, unicum in Europa, di «idoneo non beneficiario». A livello regionale, la percentuale di idonei non beneficiari è inferiore al 10 per cento in tutte le regioni del Nord e del Centro salvo Piemonte e Lazio mentre è superiore al 40 per cento in Campania, Calabria, Sardegna e appunto Piemonte, con un picco negativo in Sicilia in cui supera il 65 per cento. Eppure la borsa di studio si dimostra strumento abbastanza efficace: come mostra una ricerca condotta dall'Osservatorio regionale del Piemonte sotto la guida di Federica Laudisa, i borsisti abbandonano gli studi universitari il 13 per cento di volte in meno dei non borsisti e conseguono in media 13 crediti formativi in più ogni anno rispetto ai non borsisti.
  Il quadro non migliora se osserviamo il dato delle contribuzioni universitarie: per entità delle tasse pagate dagli studenti, l'Italia è al terzo posto in Europa dopo la Gran Bretagna e l'Olanda, con poco meno di 2000 euro di media tra tutti gli studenti (tab. B5.2), quando in molti paesi europei Pag. 74tra cui la Germania e tutte le nazioni scandinave, l'istruzione universitaria è gratuita o quasi.
  La lunga elencazione di dati quantitativi credo sia sufficiente per misurare sia la gravità del fenomeno di profonda carenza nel nostro Paese di studenti universitari e di laureati, sia di bassa equità sociale nei meccanismi di sostegno al diritto allo studio universitario. Ritengo anche che non possa essere ulteriormente trascurata la sperequazione che esiste, sotto questo aspetto come sotto molti altri, tra i diversi territori e che probabilmente è una delle cause delle gravi difficoltà economiche e sociali e della maggiore difficoltà di ripresa delle regioni del Mezzogiorno.
  È dunque opportuno che l'Aula rifletta su questi problemi per individuare insieme alcuni provvedimenti, che ne possano gradualmente garantire la soluzione.
  A mio giudizio, sono almeno quattro le direttrici di intervento da intraprendere con particolare urgenza. Tre sono relativi al diritto allo studio, il quarto attiene alle modalità di riparto del Fondo di finanziamento ordinario delle università.
  Nell'ultima legge di stabilità il Governo da assunto una scelta giusta ed importante per consentire al sistema del diritto allo studio di essere più efficace: rispetto al 2015, i finanziamenti statali per l'anno in corso e che dallo Stato vengono trasferiti alle regioni – poiché a legislazione vigente è loro la competenza in materia di diritto allo studio sono infatti aumentati di 55 milioni, così che il Fondo è passato da 162 a 217 milioni. Non si sottovaluti l'importanza di questo incremento: per farlo basta ricordare che è solo la seconda volta nell'ultimo decennio (era accaduto nel 2009) che si supera la soglia dei 200 milioni, una soglia che per gli esperti del settore è una sorta di «tetto di cristallo». Ma se vogliamo però infrangere definitivamente quel tetto di cristallo occorre che dalla prossima legge di stabilità l'incremento di quest'anno sia definitivamente stabilizzato e negli anni futuri progressivamente aumentato, per dare certezza al sistema e per eliminare gradualmente la figura dello studente idoneo alla borsa di studio ma non beneficiario per mancanza di finanziamento.
  Ma bisogna intervenire anche su un altro aspetto, richiamato di recente in una risoluzione approvata all'unanimità in Commissione Istruzione: bisogna cioè emanare quanto prima il decreto, già in ritardo di tre anni (si tratta del decreto applicativo previsto dall'articolo 7, comma 7 del decreto legislativo 68/2012 che detta la normativa di principio sul diritto allo studio universitario), destinato ad intervenire su due punti essenziali della normativa del diritto allo studio universitario. Da un lato dovrebbe determinare, a norma della Costituzione, i livelli essenziali delle prestazioni (LEP) del diritto allo studio e i requisiti di merito dello studente e di reddito della famiglia per accedere a queste prestazioni, per cui la sua assenza pone su basi fragili tutto il sistema, ancora oggi affidato ad un decreto del Presidente del Consiglio del lontano aprile 2001, emanato in tutt'altra situazione economica, sociale e persino costituzionale. Da un altro lato il decreto dovrebbe determinare i nuovi criteri di ripartizione tra le regioni del fondo integrativo, per la quale ancora oggi si usa un modello vecchio di 15 anni che, alla luce dei dati che ho richiamato poco fa, ha dimostrato nel tempo di non garantire né efficienza né efficacia, poiché non tiene conto del reale fabbisogno regionale bensì dì quante risorse proprie le singole regioni investono nel settore. Questa impostazione, se da una parte premia le scelte politiche, virtuose di alcune regioni, dall'altra finisce per penalizzare i diritti dei ragazzi che vivono nelle regioni disinteressate al tema e che, come ricordato, sono concentrate prevalentemente al Sud. È anche in questo meccanismo sta – almeno in parte – la ragione che spinge gli immatricolati meridionali a migrare in altre regioni, specie del Nord: cioè la ricerca di un beneficio – una borsa di studio, un posto letto o l'esenzione dalle tasse universitarie – che gli consenta di affrontare il percorso di studio e che nella propria regione non viene erogato. È del tutto evidente che, nel rispetto delle prerogative Pag. 75delle regioni in materia, criteri di riparto basati sul fabbisogno impongono anche una omogeneità, tra le regioni, dei parametri con i quali si definisce la platea degli idonei beneficiari. Le decisioni su questi aspetti non sono più procrastinabili e ritengo che il Parlamento possa dare un contributo affinché si individui un corretto punto di mediazione tra le esigenze dei diversi attori del sistema – Ministero, regioni, università e studenti.
  Oltre al diritto allo studio, altro fronte sul quale ragionare insieme è certamente quello della contribuzione universitaria: quelle che gli studenti chiamano abitualmente «tasse» non appaiono, infatti, essere ben allineate col dettato costituzionale della progressività dell'imposizione e del diritto di tutti gli studenti capaci, meritevoli e privi di mezzi di raggiungere i gradi più alti degli studi. Stiamo parlando di poco meno di un miliardo e mezzo – per l'esattezza 1.496.837.119, dato dal bilancio di previsione assestato al 31.12.2014 – di gettito proveniente dagli studenti per l'iscrizione ai corsi di laurea, ai corsi di laurea magistrale e ai corsi del vecchio ordinamento: una cifra ragguardevole, che giustifica quel nostro terzo posto per tassazione in Europa richiamato poco fa, e che diventa ancora più significativa se ricordiamo che il trasferimento statale agli atenei per il loro ordinario funzionamento non raggiunge i sette miliardi.
  Se da un lato quindi le università non potrebbero fare a meno dei contributi versati dagli studenti, che coprono una parte ormai notevole dei loro bilanci, né sembra opportuno ridurre gli spazi di autonomia finanziaria che la legge attribuisce agli atenei stessi, occorre però individuare sistemi di calcolo della contribuzione in grado di garantire la progressività dell'imposizione e la salvaguardia dei redditi bassi e del ceto medio impoverito. Gli strumenti efficaci, come il nuovo ISEE introdotto nel 2015, esistono.
  Quindi, un'altra direttrice di lavoro potrebbe essere quella di valutare l'opportunità di prefigurare un sistema che prevede – ad esempio – una no-tax area per gli studenti attivi e di famiglia a reddito e patrimonio molto bassi, una progressività delle tasse per gli studenti di famiglie con ISEE superiore alla soglia della no-tax area ma a reddito basso e medio-basso e una adeguata compensazione agli atenei per il calo di gettito provocato dall'introduzione della no-tax area. La VII Commissione ha avviato da tempo l'esame di due proposte di legge (una a mia prima firma, l'altra a firma del collega Vacca), corredato anche audizioni e specifici approfondimenti: si tratta ora di trovare un corretto punto di mediazione tra le ipotesi in campo.
  Mi soffermo ancora sul tema della contribuzione universitaria per auspicare la soluzione di un problema serio lasciato da sempre in ombra. Tutti gli studenti idonei, beneficiari o meno di borsa di studio, costituiscono già per legge una sorta di no-tax area poiché sono esentati dal versamento delle tasse, ma gli atenei interessati non hanno mai avuto alcun ristoro della mancata contribuzione, coll'effetto veramente poco costituzionale di una qualche disincentivazione per un ateneo ad arruolare studenti capaci e meritevoli ma privi di mezzi !
  Per descrivere l'ultima linea di intervento – fermo restando che valuteremo nel merito le altre proposte che dovessero scaturire dalla discussione – devo premettere qualche considerazione sulla ripartizione tra le università statali del fondo di finanziamento ordinario, quello destinato a coprire tutte le spese di funzionamento, compresi gli stipendi del personale. A legislazione vigente questa ripartizione è effettuata sulla base di una serie di norme e impegni vari. In particolare la quota più ampia del fondo da ripartire (nel 2015, 4,8 miliardi su 6,9) è quella chiamata «quota base». La parte della quota base spettante a ciascuna università si calcola – o meglio dovrebbe essere calcolata – sulla base del costo standard per studente in corso, a sua volta calcolato mediante una complessa formula introdotta da un decreto ministeriale a fine 2014.
  Il costo standard è stato finora utilizzato una sola volta nel 2015 e per ripartire Pag. 76solo il 25 per cento della quota base. Questa prima e unica applicazione ha consentito di mettere in luce i pregi di questo strumento che è certamente innovativo, soprattutto per la trasparenza dei meccanismi di calcolo, ma ne ha evidenziato anche alcuni aspetti che meriterebbero un'analisi approfondita.
  Ad esempio, per quanto riguarda il cosiddetto addendo perequativo del costo standard che dovrebbe per legge essere commisurato ai «differenti contesti economici, territoriali e infrastrutturali in cui opera l'università», si può verificare che esso pesa per una percentuale minima sul costo standard totale per alcune regioni (meno del 6 per cento per la Sicilia, circa del 3 per cento per la Sardegna) sebbene i divari territoriali con la Lombardia (che è assunta come valore di riferimento) siano ovviamente assai più pronunciati. Senza dilungarmi su aspetti strettamente tecnici, anche la numerosità ottimale delle classi di studenti regolari per corso – parametro utilizzato per calcolare il costo standard del personale – determinata in misura eguale per tutti gli atenei italiani, non tiene conto delle diverse densità di popolazione residente, della loro attitudine ad immatricolarsi in loco, della mobilità territoriale e delle carenze infrastrutturali delle aree interne e marginali del Sud, continentale e insulare, come del Nord, finendo col penalizzare gli atenei che vi hanno sede.
  Ai più attenti osservatori, non sarà sfuggito che il costo standard fa riferimento solo agli studenti regolari, cioè in corso. Ora, non entro nella più delicata questione di come e se conteggiare gli studenti fuori corso, ma approfitto dell'occasione per porre all'attenzione dell'Aula una questione, datata e mai evasa: quella riguardante gli studenti universitari cosiddetti part-time. La nozione esiste già ma, nei fatti, il sistema universitario non l'ha mai declinata come l'evoluzione della società e dell'organizzazione universitaria richiederebbero, sebbene il problema fosse stato già perfettamente individuato nel 1998 dal Rapporto Martinotti. La possibilità per lo studente di definire la durata del percorso di studi in base, ad esempio, alle proprie competenze e alle esigenze di esperienze extra-universitarie è, purtroppo, estranea all'agenda universitaria; ma nel sistema è marginale la stessa figura dello studente part-time. Accade anche nei calcoli del costo standard, sebbene il numero di studenti che svolgono qualche forma di attività lavorativa (anche in forme non «regolari») è di certo notevole: per i laureati nel 2015 circa il 65 per cento. I motivi ? Mantenersi agli studi – stante la debolezza del diritto allo studio, su cui ci siamo soffermati – e alternare lo studio ad esperienze di lavoro, a vantaggio di entrambi, in un sistema segmentato di studi universitari (laurea triennale, laurea magistrale, master, dottorato di ricerca) e in un mondo del lavoro che tende ad apprezzare questo atteggiamento degli studenti, in fondo anticipatore del lifelong learning a cui la società attuale aspira. Il rapporto annuale ISTAT e il Rapporto AlmaLaurea confermano che nella ricerca di occupazione è un concreto fattore di vantaggio aver svolto lavori già durante il percorso di studi: la probabilità di essere occupato aumenta infatti di circa due volte, a conferma che le competenze trasversali che associano saperi, abilità e attitudini sperimentate in esperienze parallele al percorso universitario sono carte vincenti per l'ingresso nel mondo del lavoro. Anche l'eventuale partecipazione a programmi di promozione della mobilità studentesca all'estero (quali ad esempio il programma Erasmus), si associa a maggiori opportunità di trovare un lavoro ottimale, anche se solo il 13,6 per cento dei laureati nel 2015 ha potuto partecipare a questa mobilità poiché le spese di trasferimento e di soggiorno all'estero sono, di fatto, a carico degli studenti stessi.
  Sarebbe quindi utile valutare un intervento per portare allo scoperto lo studente part-time per quantificare meglio il costo standard degli studenti, senza dover ricorrere all'attuale sistema on-off (1 gli studenti in corso, O gli studenti fuori corso) che è incito nell'attuale formula di calcolo. Andare incontro alle esigenze dell'utenza e non viceversa, dovrebbe essere un obiettivo Pag. 77da perseguire, specie per un sistema che ha bisogno di guadagnare studenti e non di perderli.
  Tutto ciò premesso, parrebbe allora opportuno valutare un approfondimento dei meccanismi di calcolo del costo standard per il 2017 in modo da verificare attentamente e, se è il caso, da ridurne gli eventuali effetti distorsivi sulla ripartizione del fondo ordinario di finanziamento, con particolare attenzione alle università che hanno sede nelle aree interne e marginali del Paese.
  Non si tratta, voglio dirlo chiaramente, di una proposta per affossare il costo standard, al contrario si invoca una riflessione puntuale su specifici indici di calcolo per poterlo migliorare, in particolare per rafforzarne gli affetti di perequazione, affinché sia sempre più uno strumento equo di finanziamento del sistema.
  Ho descritto quattro direttrici di lavoro, di un lavoro impegnativo ma non più procrastinabile se vogliamo realizzare una società basata sulla conoscenza, quindi una società solidale, sostenibile e smart (intelligente), in grado di affrontare le sfide della globalizzazione, della ristrutturazione delle gerarchie economiche di natura planetaria e del mutamento demografico dovuto ai movimenti migratori e alle trasformazioni della struttura delle popolazioni delle società mature, come la nostra. Il tempo per farlo è ora.

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