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Resoconto dell'Assemblea

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XVII LEGISLATURA


Resoconto stenografico dell'Assemblea

Seduta n. 505 di lunedì 19 ottobre 2015

Pag. 1

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE SIMONE BALDELLI

  La seduta comincia alle 14.

  PRESIDENTE. La seduta è aperta.
  Invito il deputato segretario a dare lettura del processo verbale della seduta precedente.

  RAFFAELLO VIGNALI, Segretario, legge il processo verbale della seduta del 15 ottobre 2015.

  PRESIDENTE. Se non vi sono osservazioni, il processo verbale si intende approvato.
  (È approvato).

Missioni.

  PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del Regolamento, i deputati Angelino Alfano, Gioacchino Alfano, Amici, Barbanti, Bellanova, Bernardo, Bindi, Biondelli, Bobba, Bocci, Bonifazi, Michele Bordo, Borletti Dell'acqua, Boschi, Brambilla, Bratti, Bressa, Brunetta, Caparini, Capelli, Carella, Casero, Castiglione, Causin, Cimbro, Cirielli, Costa, D'Alia, Dambruoso, De Micheli, Del Basso De Caro, Dellai, Di Gioia, Di Lello, Luigi Di Maio, Duranti, Gianni Farina, Ferranti, Fico, Fioroni, Gregorio Fontana, Fontanelli, Formisano, Franceschini, Garofani, Giachetti, Giacomelli, Giancarlo Giorgetti, Gozi, La Russa, Locatelli, Lodolini, Lorenzin, Losacco, Lotti, Lupi, Madia, Marazziti, Antonio Martino, Merlo, Migliore, Orlando, Palmizio, Pelillo, Petrini, Pisicchio, Portas, Ravetto, Realacci, Rosato, Domenico Rossi, Rughetti, Sani, Scalfarotto, Scotto, Sorial, Spadoni, Tabacci, Valeria Valente, Velo, Zanetti, Zanin e Zoggia sono in missione a decorrere dalla seduta odierna.
  I deputati in missione sono complessivamente ottantaquattro, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell’allegato A al resoconto della seduta odierna (Ulteriori comunicazioni all'Assemblea saranno pubblicate nell’allegato A al resoconto della seduta odierna).

Discussione del disegno di legge: S. 1880 – Riforma della RAI e del servizio pubblico radiotelevisivo (Approvato dal Senato) (A.C. 3272-A); e delle abbinate proposte di legge: Caparini ed altri; Anzaldi; Fico ed altri; Marazziti; Fratoianni ed altri; Caparini ed altri (A.C. 420-2846-2922-2924-2931-2942) (ore 14,05).

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge, già approvato dal Senato, n. 3272-A: Riforma della RAI e del servizio pubblico radiotelevisivo; e delle abbinate proposte di legge Caparini ed altri; Anzaldi; Fico ed altri; Marazziti; Fratoianni ed altri; Caparini ed altri nn. 420-2846-2922-2924-2931-2942.
  Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi è pubblicato in calce al resoconto stenografico della seduta del 15 ottobre 2015.

(Discussione sulle linee generali – A.C. 3272-A)

  PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.Pag. 2
  Avverto che il presidente del gruppo parlamentare MoVimento 5 Stelle ne ha chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del Regolamento.
  Avverto, altresì, che la VII Commissione (Cultura) e la IX Commissione (Trasporti) si intendono autorizzate a riferire oralmente.
  Ha facoltà di intervenire la relatrice per la maggioranza per la VII Commissione, onorevole Bonaccorsi.

  LORENZA BONACCORSI, Relatrice per la maggioranza per la VII Commissione. Signor Presidente, onorevoli colleghi, riferisco anche a nome del collega Peluffo sull'ampio e denso dibattito che si è svolto presso le Commissioni cultura e trasporti sulla riforma dei modi di direzione e gestione della RAI, la cosiddetta governance. Non ripercorrerò in questa sede i dettagli dell'esposizione che ho svolto nelle Commissioni riunite lo scorso 16 settembre. Rammento soltanto che è stata ben presente alla discussione l'importanza del servizio pubblico radiotelevisivo, come garanzia – in una società democratica – del pluralismo dell'informazione e dell'effettivo esercizio del diritto a essere informati.
  Il tema del servizio pubblico, infatti, si inquadra entro l'ambito dell'articolo 21 della Costituzione, che come ben sappiamo prevede il diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero. Sebbene questa legge sia solo un primo segmento di riforma dell'intero sistema radiotelevisivo, non solo noi relatori e il Governo, ma per quanto ho potuto constatare dal dibattito presso le Commissioni riunite, tutti i gruppi parlamentari annettono alla governance della RAI una grande importanza. In questo senso, credo quindi che si possa smentire l'argomento per cui si tratterebbe di una «leggina» o, comunque, di un'occasione mancata.
  Costruire il servizio pubblico del futuro, perché è questo che abbiamo l'ambizione di fare, significa porre le condizioni per una governance che accompagni la trasformazione della RAI da broadcaster a media company, capace di essere presente e produrre contenuti per tutte le piattaforme, che sappia tenere conto delle enormi trasformazioni che hanno attraversato il sistema dei media audiovisivi e radiofonici di questi anni, un servizio pubblico con una particolare attenzione all'innovazione tecnologica quindi.
  Maggioranza e Governo hanno inteso affrontare un problema vero, denso di implicazioni, ciò che peraltro è testimoniato dalla notevole mole di emendamenti che sono stati presentati e sui quali, con schiettezza, i vari gruppi parlamentari si sono confrontati. Ricordo anche che il 29 settembre 2015 si è svolto un supplemento di audizioni informali che si è, quindi, aggiunto all'indagine conoscitiva condotta dalla Commissione trasporti della Camera durata quasi un anno, e a quelle svolte dalla Commissione referente al Senato.
  Il provvedimento si compone formalmente di 5 articoli, il primo dei quali modifica l'articolo 45 del decreto legislativo n. 177 del 2005, la cosiddetta «legge Gasparri». La più importante modifica in tale contesto concerne la durata del contratto di servizio, che da triennale diviene quinquennale. Gli articoli 2 e 3 della legge, invece, contribuiscono a tratteggiare il nuovo volto degli organi di direzione della RAI. Il Consiglio di amministrazione passa da nove a sette membri e si prescrive che la sua composizione debba favorire l'uguaglianza di genere e un adeguato equilibrio tra componenti di elevata professionalità e comprovata esperienza nell'ambito giuridico, finanziario, industriale e culturale. Devono essere evitati i conflitti di interesse ed è vietato, come ovvio, il cumulo di cariche nella RAI e in società concorrenti.
  Il nuovo articolo 49 del decreto legislativo n. 177 prevede una serie di cause di ineleggibilità, legate ad attuali o recenti cariche politiche (sia nel Governo, sia nelle Assemblee elettive), e una serie di stringenti requisiti di onorabilità, tra cui mi piace segnalare anche quello che riguarda l'assenza di provvedimenti di prevenzione antimafia di cui al decreto legislativo n. 159 del 2011.
  I componenti del CdA sono eletti due dalla Camera e due dal Senato, con un Pag. 3voto limitato a un solo candidato; uno è designato dall'assemblea dei dipendenti RAI; due sono indicati dall'azionista, su proposta del MEF.
  Queste nuove modalità di nomina dei membri del CdA assicurano la preponderanza dei membri di nomina parlamentare, coerentemente con i principi evidenziati nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Durante l'esame in Commissione è stato chiarito che i membri di elezione parlamentare presentano le loro candidature entro venti giorni dalla nomina, dopo che un apposito bando sia stato pubblicato sui siti Internet delle Camere e della RAI, almeno trenta giorni prima della nomina. La revoca dei componenti del CdA può avvenire ad opera dell'assemblea dei soci, ma diviene efficace solo se successivamente oggetto di una valutazione favorevole della Commissione parlamentare di vigilanza, che quindi si esprime con un voto.
  Il presidente del consiglio di amministrazione è nominato tra i suoi membri, sempre che abbia poi riportato il parere favorevole della Commissione di vigilanza, con la maggioranza qualificata di due terzi. A sua volta, il consiglio di amministrazione nomina l'amministratore delegato, su proposta dell'assemblea dei soci. Tale carica è triennale.
  Il nuovo articolo 49, comma 10, della «legge Gasparri» elenca in dettaglio le funzioni dell'amministratore delegato. Riteniamo, infatti, che la prima condizione per valorizzare il «ruolo industriale» della RAI è quella di dotarla di una guida chiara, riconosciuta, trasparente, efficiente, responsabilizzata: un capo azienda che sia in grado di prendere le decisioni e di essere chiamato a risponderne. Serve una guida manageriale vera, come quella di ogni altro player internazionale. Un emendamento approvato in sede referente dalle Commissioni ha portato ad attribuire all'amministratore delegato il potere di nomina dei dirigenti di primo livello, con la precisazione che per i direttori di rete, di canale e di testata, il parere del CdA è obbligatorio. Per i direttori di testata, inoltre, il parere è anche vincolante se è espresso a maggioranza dei due terzi. L'amministratore delegato propone, altresì, al consiglio di amministrazione il piano per la trasparenza e la comunicazione aziendale, con il quale la RAI deve conformarsi alle più ampie forme di pubblicità e trasparenza sia sulle proprie scelte di investimento e di produzione, sia sulle professionalità – sia interne, che esterne – di cui si avvale.
  In conclusione, voglio dar conto di alcune questioni su cui si è esercitata la dialettica presso le Commissioni, legata essenzialmente alla prossima scadenza della concessione del servizio alla RAI. È noto, infatti, che la concessione del servizio radiotelevisivo alla RAI scade il 6 maggio 2016 e, quindi, sarà necessario provvedere non solo al rinnovo, ma anche alla stipula di un nuovo contratto di servizio. Da questo punto di vista, il gruppo SEL – e penso, in particolare, alla collega Pannarale – ha presentato un emendamento volto a contemplare una procedura di consultazione pubblica che preceda il rinnovo della concessione.
  L'onorevole Peluffo ed io, in qualità di relatori, abbiamo chiesto alla collega di ritirare l'emendamento perché stiamo riflettendo sulla formulazione di un atto di indirizzo, che possa venire incontro a questa sollecitazione.
  È stato anche avanzato il tema di un congruo periodo che deve intercorrere tra il rinnovo e la scadenza effettiva, così da non costringere le parti a lavorare con il fiato sul collo, o addirittura a rendere necessaria la proroga della concessione. Si tratta di un emendamento del collega Vacca. Anche in questo caso, avevamo chiesto il ritiro dell'emendamento, che viceversa è andato ai voti ed è stato respinto.
  I colleghi della Lega Nord hanno posto con intelligenza e sensibilità invece il tema dell'emittenza locale: anche qui – d'intesa con il Governo – come relatori abbiamo chiesto il ritiro dell'emendamento, perché a tale materia verrà dedicata un'attenzione specifica in altra sede.
  Un'altra serie di emendamenti ha interessato i contenuti della programmazione Pag. 4della RAI. Penso, per esempio, agli emendamenti relativi all'educazione sentimentale e a quelli volti a prevedere il divieto di pubblicità del gioco d'azzardo. Da questo punto di vista, come relatori, pur condividendone in pieno il merito, abbiamo ritenuto che si trattasse di materia riservata al contratto di servizio e non alla legge. Abbiamo, quindi, invitato i colleghi a ritirare gli emendamenti e a presentare ordini del giorno di istruzione al Governo.
  Da ultimo, ma non per importanza, affronto il tema dell'applicazione alla contrattualistica della RAI delle regole del codice degli appalti. Desidero chiarire come né il collega Peluffo, né io, né il Governo abbiamo in mente una RAI che operi in uno spazio vuoto di diritto e in modo arbitrario.
  Certo è, però, che la RAI si confronta su un mercato molto difficile e con una concorrenza agguerrita. Sicché la sfida da affrontare è quella di coniugare rapidità, tutela della specificità culturale e sensibilità aziendale, da un lato, con trasparenza, piena legalità e contendibilità del mercato, dall'altro. Mi sto riferendo, evidentemente, all'articolo 3 del provvedimento, che introduce nel testo della «legge Gasparri» un articolo 49-ter, che ha incontrato sia i rilievi dei colleghi, che hanno presentato diversi emendamenti, sia anche delle Commissioni in sede consultiva.
  In particolare, la Commissione ambiente e la Commissione per le politiche dell'Unione europea hanno legittimamente rimarcato come le deroghe consentite alla RAI al codice degli appalti devono essere le più circoscritte e motivate possibile. In sede referente, non c’è stato tempo per farci carico in modo conclusivo di queste preoccupazioni, ma preannunzio che, anche d'intesa con il Governo, stiamo ragionando su un emendamento che possa fungere da sintesi su tali questioni.
  Abbiamo di fronte, quindi, un percorso articolato, che comincia oggi con il rinnovo della governance e che proseguirà con la riforma del canone, con il rinnovo della concessione e del contratto di servizio. Un compito importante, per mettere la RAI nelle migliori condizioni per «informare, educare e divertire», come diceva uno dei padri della BBC. Voglio dare atto, e concludo, a tutti i colleghi delle due Commissioni di avere partecipato con attenzione e intelligenza ai lavori e auspico che il clima complessivamente collaborativo possa perdurare anche nel corso dell'esame in Assemblea (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

  PRESIDENTE. Ha facoltà di intervenire il relatore di minoranza, onorevole Roberto Fico.

  ROBERTO FICO, Relatore di minoranza. Grazie, Presidente. Il testo all'esame delle Commissioni di merito della Camera avrebbe richiesto profondi e radicali interventi di riequilibrio; del resto, all'indomani dell'approvazione della riforma in prima lettura, gli esponenti dei gruppi parlamentari di opposizione, nonché alcuni esponenti della maggioranza, si erano dichiarati pronti a intervenire sul testo, rivendicando la propria autonomia.
  A dispetto delle intenzioni, il lavoro svolto in sede referente è stato, senza mezzi termini, frustrante ed avvilente: gruppi di opposizione che, nonostante i numerosi emendamenti presentati, non hanno partecipato ai lavori delle Commissioni riunite; Governo e relatori saldi nel proprio atteggiamento di chiusura e indisponibilità al confronto, nonostante la delicatezza della materia e i nodi cruciali da affrontare, sollevati anche da autorevoli costituzionalisti; infine, una maggioranza, evidentemente più ampia di quella ufficiale, che ha respinto qualsiasi emendamento.
  Sullo sfondo, si è avvertita nitidamente l'esigenza di procedere con quella estrema e sprezzante speditezza la cui giustificazione è tutta contenuta nelle disposizioni transitorie del testo in esame, ovvero l'articolo 5, che attribuiscono «in corsa» al direttore generale della concessionaria del servizio pubblico anche i poteri dell'amministratore delegato. Qui sta il senso di questa improvvisa accelerazione.
  Il testo proposto all'Aula non ha, dunque, subito alcun intervento di riequilibrio. Pag. 5Al contrario, attraverso due emendamenti dei relatori è stato ampliato il regime derogatorio per i contratti pubblici della RAI e rivisitato l'istituto della revoca dei consiglieri di amministrazione, sbilanciando ulteriormente il peso a favore dell'Esecutivo. Dell'originario disegno di legge governativo condivide interamente l'impianto e la ratio ispiratrice: fondamentalmente, è molto simile a quello che il Governo ha presentato.
  Restano, perciò, attuali quegli elementi di grave criticità concernenti, in primo luogo, la procedura di nomina del consiglio di amministrazione, che costituisce il nucleo della riforma in discussione. Le modalità di designazione parlamentare e governativa dei consiglieri di amministrazione appaiono tanto più perniciose dal punto di vista sistemico in quanto non collegate a precisi requisiti di professionalità e competenza dei consiglieri.
  Siamo rimasti sostanzialmente fermi ai requisiti previsti dall'articolo 49, comma 4, del Testo unico, che appaiono del tutto anacronistici e inefficaci, soprattutto nell'ottica di un'azienda costretta a raccogliere in così breve tempo la sfida dell'innovazione tecnologica e della convergenza dei media. Non è sufficiente affermare la necessità di elevate competenze: occorre, oggi, definirle compiutamente, pur nella consapevolezza del rischio di irrigidire la procedura.
  Il MoVimento 5 Stelle, nel presentare la propria proposta di legge in materia, ha tentato di individuare aree di competenza e profili manageriali coerenti con gli ambiti strategici all'interno dei quali dovrà estendersi l'azione della concessionaria del servizio pubblico nel breve e medio periodo. Analogamente, l'esperienza ci ha ampiamente dimostrato che non ha alcun senso affermare in un testo legislativo la «notoria indipendenza» di un determinato soggetto; non ha alcun senso definirla così.
  L'indipendenza non costituisce un parametro misurabile, ma essa è certamente connessa ad una serie di precondizioni che siamo in grado di individuare e codificare. Per assicurare al servizio pubblico l'indipendenza e prevenire le pratiche di lottizzazione crediamo sia necessario innalzare un muro fra Parlamento e consiglio di amministrazione della RAI.
  Con troppa disinvoltura in tutti questi anni i partiti politici hanno concepito l'organo di vertice della concessionaria come un proprio feudo, come un luogo nel quale fosse indispensabile avere un proprio riferimento. Chiediamo, dunque, di introdurre il divieto di ricoprire la carica di consigliere per i soggetti che nei cinque anni precedenti alla nomina abbiano ricoperto cariche elettive o di Governo. Sul punto, il testo attualmente reca un limite manifestamente illogico e inefficace, ovverosia l'ineleggibilità a consigliere dei soggetti che nei dodici mesi precedenti alla nomina abbiano ricoperto cariche governative a livello nazionale, oppure cariche elettive a livello regionale, provinciale e comunale. Una farsa !
  Ed è su questa sostanziale assenza di requisiti «positivi» e «negativi» dei consiglieri che s'innesta, destando ancor più grave preoccupazione, la nuova procedura di nomina dell'organo di governo della concessionaria. Nella maggioranza degli ordinamenti democratici ha trovato accoglimento un principio basilare: il potere esecutivo deve rimanere quanto più lontano possibile dal governo del servizio pubblico radiotelevisivo. Invero, tale principio è profondamente radicato anche nell'ordinamento italiano. In più occasioni, la Corte costituzionale ha ritenuto indispensabile che gli organi direttivi del servizio pubblico radiotelevisivo non siano «direttamente o indirettamente espressione, esclusiva o preponderante del potere esecutivo». Un'esigenza affermata recentemente anche a livello sovranazionale da organismi quali l'EBU, l'associazione dei servizi pubblici europei, e la commissione di Venezia, unanimi nel considerare il principio della maggioranza qualificata per l'elezione dei vertici del servizio pubblico una precondizione essenziale per l'inveramento del principio di indipendenza.
  Un principio basilare, dunque, che viene platealmente minato attraverso plurime Pag. 6disposizioni contenute nel testo in esame. Su tutte, la previsione che due consiglieri di amministrazione, fra cui l'amministratore delegato, siano designati direttamente dal Governo, due consiglieri siano eletti dalla Camera dei deputati e due dal Senato della Repubblica, con il metodo del voto limitato. Ne consegue che il peso dell'Esecutivo nel governo del servizio pubblico sia stato straordinariamente accresciuto, non soltanto perché i due consiglieri di nomina governativa, già previsti dalla normativa vigente, si inseriscono nell'ambito di un CdA ridotto a sette membri, ma soprattutto perché l'amministratore delegato di nomina governativa viene ad assumere poteri straordinariamente rilevanti, mentre l'organo rappresentativo, ovvero il CdA, esce fortemente ridimensionato anche nelle sue funzioni.
  Ad alterare ulteriormente gli equilibri della forma di governo aziendale è la previsione del voto limitato per la designazione parlamentare degli altri quattro consiglieri. Nel contesto italiano tale metodo di votazione non può garantire il perseguimento delle finalità per cui esso fu escogitato, molto tempo addietro, ovverosia la garanzia delle minoranze. Infatti, con legislazioni elettorali basate su meccanismi premiali, la maggioranza parlamentare è in grado, con un buon coordinamento strategico, di eleggere addirittura quattro consiglieri su quattro, oltre ai due di designazione governativa, una prospettiva esiziale per l'indipendenza del servizio pubblico radiotelevisivo. Prospettiva, del resto, niente affatto peregrina, considerato che vi sono diverse opposizioni parlamentari tendenzialmente indisponibili al coordinamento e alla mediazione. In ogni caso, a prescindere dal suo concreto funzionamento nel contesto italiano, il metodo del voto limitato, più in generale, non appare coerente con le votazioni concernenti organi di garanzia. L'elezione di autorità o istituzioni indipendenti, per definizione, non può rispondere a logiche spartitorie (uno per ciascuno), ma impone esclusivamente la ricerca delle competenze e delle qualità più elevate. È per questo che il MoVimento 5 Stelle chiede con forza la sostituzione del metodo del voto limitato con il principio della maggioranza qualificata, la più alta possibile, dei due terzi dei componenti.
  Del resto, proprio recentemente, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha censurato la legislazione sui media della Moldavia per violazione del principio della libertà di espressione, stigmatizzando il fatto che una maggioranza monopartitica fosse in grado di nominare i vertici della televisione pubblica. Analogamente, la legislazione ungherese è stata censurata, da un lato, per le modalità di nomina dei membri dell'Autorità garante nel settore dei media, che riflettendo gli orientamenti partitici comprometterebbero l'indipendenza dell'istituzione, dall'altro, a causa della fisionomia del vertice del servizio pubblico radiotelevisivo, titolare di poteri troppo ampi ed eccessivamente dipendente dal Primo Ministro.
  Un ulteriore vulnus all'indipendenza del servizio pubblico risulta dalla riconfigurazione dell'istituto della revoca dei consiglieri. Seguendo l'orientamento della Corte costituzionale, tanto più forte è il peso dell'Esecutivo nella governance del servizio pubblico, tanto più esso deve essere controbilanciato. Oggi la Commissione parlamentare di vigilanza si esprime sulla revoca dei consiglieri mentre il rappresentante del Governo, nell'assemblea degli azionisti allo scopo convocata, esprime il parere in conformità alla Commissione di vigilanza. Questo significa che la deliberazione della Commissione di vigilanza deve necessariamente anticipare l'assemblea degli azionisti, nel cui ambito il Governo si conforma alla decisione parlamentare.
  L'attuale configurazione della revoca risulta coerente con le argomentazioni svolte dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 69 del 2009, nella quale il giudice delle leggi ha affermato che non può esservi una perfetta corrispondenza tra il soggetto che nomina, ovvero l'assemblea degli azionisti – quindi il Governo – e il soggetto che revoca. La ratio – è evidente – è quella di garantire al consigliere Pag. 7di amministrazione lo svolgimento in piena indipendenza delle proprie funzioni.
  Ulteriori gravi criticità si rinvengono negli articoli 3 e 4 del testo proposto dalla Commissione, concernenti, rispettivamente, l'attività gestionale della concessionaria pubblica e il riassetto del testo unico mediante delega al Governo.
  Queste – ma ce ne sarebbero molte altre – sono le principali ragioni per cui il gruppo del MoVimento 5 Stelle si oppone fermamente al testo proposto dalla Commissione. Al di là dagli aspetti giuridico-costituzionali, che sono affrontati nella questione pregiudiziale, critichiamo con forza la concezione del servizio pubblico che presiede alla riforma in atto. Un servizio pubblico non inteso come bene della collettività, bensì come strumento esclusivo di un potere costituito, quello governativo, magari da utilizzare per la ricerca del consenso e la diffusione di good news.
  Un filo rosso collega le riforme costituzionali, la riforma della legge elettorale e quella del servizio pubblico radiotelevisivo: sono i pezzi di una nuova forma di Governo ipermaggioritaria e monocratica, sono i tasselli di una concezione del potere che tenta di comprimere oltre ogni limite il principio pluralistico, con tutto quello che ne consegue sulla tenuta stessa della forma di Stato democratica.
  Nulla accade per caso e tutto questo è un disegno precostituito dal Governo per fare sì che ci sia sempre e solo un uomo solo al comando (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

  PRESIDENTE. Prendo atto che il rappresentante del Governo si riserva di intervenire nel prosieguo del dibattito.
  È iscritta a parlare l'onorevole Mura. Ne ha facoltà.

  ROMINA MURA. Signor Presidente, Governo, colleghe e colleghi, questo pomeriggio svolgiamo una discussione importante e significativa, che dà concretezza e realizza, ancora una volta, come tante altre in questi due intensi anni di lavoro parlamentare, la valenza costituente della legislatura in corso. Si tratta del servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale, come non a caso è stato rinominato in luogo dell'espressione «servizio pubblico generale radiotelevisivo», vecchia ed evidentemente non più rappresentativa delle forme e degli strumenti comunicativi e informativi moderni.
  La riforma organica e complessiva del servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale, che in questa sede affrontiamo e di cui ci apprestiamo a definire la governance, rappresenta un altro passo in avanti nel percorso di modernizzazione del Paese, nella promozione di tutti quegli elementi di sistema che ci mettano nelle condizioni di aggiornare le forme, gli spazi e i tempi per acquisire maggiore consapevolezza rispetto ai diritti, ai doveri e alle prerogative che derivano dall'essere cittadine e cittadini italiani ed europei.
  Non ci sfugge, al riguardo, il primato che la TV continua a esercitare nel nostro Paese. Nel 2014 il tempo medio trascorso dagli italiani ogni giorno davanti alla TV ammonta a 4 ore e 20 minuti, in aumento di 4 minuti e 42 secondi al giorno pro capite rispetto al 2008. Siamo secondi solo agli Stati Uniti. Il 70 per cento dell'opinione pubblica si forma innanzi alla TV. La RAI risulta a tutt'oggi, e nonostante il web, il principale operatore televisivo, raggiungendo ancora il 40 per cento degli ascoltatori totali.
  Ma, in ambito alla nostra riflessione, rappresentano e devono rappresentare elementi significativi anche i dati che attengono al progressivo aumento dei fruitori di contenuti streaming e alla diminuzione di coloro che, rispetto al passato, continuano a vedere la TV. Secondo l'ultimo studio di Ericsson «TV & Media 2014», nel raffronto 2014-2013, sono rispettivamente 7 punti percentuali in più per i fruitori di contenuti streaming e 11 punti percentuali in meno per i fruitori di contenuti attraverso la TV tradizionale.
  La riforma di cui discutiamo rappresenta, nel contempo, un altro passo in avanti per costruire nuovi livelli e differenti opportunità di competitività del Pag. 8made in Italy nel mondo, investendo e scommettendo sulle potenzialità attrattive del brand Italia e sulle competenze dei nostri giovani talenti – che possiamo spendere nel campo, fra gli altri, della produzione di contenuti da proporre attraverso i tradizionali strumenti televisivi e radiofonici così come attraverso quelli multimediali –, con l'ambizione che un servizio pubblico riorganizzato possa imprimere una positiva accelerata a tutta l'industria audiovisiva italiana e superare in tal modo quella sorta di tabù per cui l'Italia riesce ad esportare tutto, eccetto la propria capacità di raccontare e di intrattenere.
  Non mi soffermerò sulla discussione «servizio pubblico sì o servizio pubblico no». Attraverso questo intervento legislativo e, ancor di più, considerate le linee guida sulla riforma RAI, approvate qualche mese fa dal Consiglio dei ministri, abbiamo già espresso e manifestato il nostro punto di vista: servizio pubblico sì; più servizio pubblico sì; un altro servizio pubblico sì, a condizione, quindi, che il servizio pubblico ripensi se stesso e che noi lavoriamo, come vorremmo fare e come stiamo facendo anche oggi, a questo ripensamento, considerato il cambiamento strutturale del mercato, del contesto normativo televisivo, i gusti e le aspettative degli italiani, l'innovazione tecnologica, che ha moltiplicato le piattaforme e i canali di trasmissione e di ricezione, garantendo quell'accesso universale che in passato giustificava il monopolio statale in materia di trasmissioni televisive, e da ultimo, ma non certo per importanza, un sistema sociale e culturale profondamente modificato rispetto a trent'anni fa quanto a soggettività protagoniste, organizzazione del lavoro e dei lavori, livelli formativi, culture, razze, tendenze sessuali. Giusto per citare alcune valenze del mosaico culturale che oggi è diventato il nostro Paese, rispetto a cui il servizio pubblico, sicuramente il servizio pubblico che noi abbiamo in mente, vuole assolvere a bisogni informativi, di intrattenimento ed educativi.
  Siamo consapevoli – e la direzione che stiamo provando a imboccare attraverso questo intervento legislativo lo dimostra – che il servizio pubblico debba darsi nuova legittimazione attraverso rinnovati obbiettivi, missione e valori. E, attraverso il disegno di legge di cui oggi discutiamo, tracciando un nuovo modello di governance, stiamo, di fatto, scrivendo la prima pagina del servizio pubblico che abbiamo in mente, rispetto al quale, attraverso un approfondito confronto parlamentare, come quello avvenuto – per quanto ci riguarda – qui alla Camera, e partendo dalle linee guida già approvate, definiremo, prima di procedere al rinnovo della concessione del servizio pubblico, il nuovo perimetro dello stesso, arricchendolo, come premesso e come risulterà dalla discussione in Parlamento e nel Paese, di contenuti all'altezza del Paese che siamo e che vorremo tornare a essere.
  Entrando nel merito del provvedimento, come ho già avuto modo di sottolineare e come ha bene rappresentato la relatrice, onorevole Bonaccorsi, intervenire sulla governance del servizio pubblico della RAI non attiene alla parte meno importante della riforma, ma è la risposta alla necessità di riorganizzare e rilanciare il servizio pubblico tenendo insieme una serie di elementi che il dibattito pubblico e politico di questi anni ha promosso come fondamentali: la qualità dei prodotti e dei contenuti; l'accesso a una informazione corretta, la libertà di espressione, la rappresentatività e il pluralismo, quali diritti di cittadinanza irrinunciabili; i costi del servizio in uno scenario con risorse pubbliche ridotte; gli ascolti e il mercato; l'autonomia economico-finanziaria e la garanzia di risorse certe; l'indipendenza e la trasparenza.
  In altri termini, si tratta di tutti quegli elementi che fanno del servizio pubblico italiano – ma, più in generale, di tutti i sistemi di servizio pubblico – asset fondamentali delle democrazie europee e insieme aziende che operano dentro il mercato e secondo le regole del mercato. Sono questioni cruciali, che vengono richiamate da diverse sentenze della Corte costituzionale e dalla relazione annuale 2014 dell'Agcom. Sono questioni alle quali noi Pag. 9cerchiamo di dare risposta impostando un nuovo sistema di governance e, in tal senso, interveniamo sugli articoli 49 del decreto legislativo n. 177 del 2005 e 4, primo comma, della legge n. 103 del 1975, con l'ambizione di esaltare le performance dell'azienda RAI, definendo un'organizzazione gestionale improntata all'efficienza e all'economicità (l'amministratore delegato e il CDA che gestiscono, decidono e concorrono alle decisioni in maniera efficace, veloce e assumendosi una responsabilità precisa, misurabile e perseguibile); la certezza delle risorse finanziarie attraverso una rivisitazione del sistema del canone, nell'ottica della semplificazione e riduzione dell'evasione nonché di una maggiore perequazione sociale, come ci chiede l'Agcom, con l'assoluta consapevolezza della rilevanza del servizio pubblico rispetto alla vita democratica del Paese e, quindi, della conseguente necessità che la governance dello stesso si profili rispettosa di quanto in diverse pronunce ci ha chiesto, come dicevo poc'anzi, la Corte costituzionale, in particolare in relazione alla garanzia di un forte collegamento fra il servizio pubblico e il Parlamento, quale maggiore espressione della collettività nazionale.
  Al raggiungimento di questa finalità, corrisponde la nuova previsione relativamente alla nomina dei componenti del consiglio d'amministrazione. Non più nomina effettuata a carico dei quaranta parlamentari della Commissione di vigilanza che, nel disegno di legge che esaminiamo, torna a esercitare i suoi compiti originari, ossia indirizzo generale e, appunto, vigilanza, ma su sette componenti, ben quattro componenti di nomina parlamentare.
  E, riguardo ai nuovi requisiti per la scelta dell'amministratore delegato e dei componenti del consiglio d'amministrazione e alle modalità di scelta degli stessi, ritengo che abbiamo imboccato la strada giusta: rappresentanza equilibrata dei generi e dei profili professionali, inserimento, accanto ai requisiti di prestigio, competenza professionale, indipendenza di comportamenti, del requisito dell'onorabilità, che poi si declina in una serie di previsioni sul conflitto di interessi, le incompatibilità e le impossibilità ad essere nominati. Inoltre, si prevedono procedure di selezione attraverso candidature pubbliche, chiari e definiti compiti di gestione del consiglio d'amministrazione e dell'amministratore delegato, un forte controllo sociale sull'operato del consiglio d'amministrazione attraverso gli strumenti di cui al piano per la trasparenza e la comunicazione aziendale.
  Mi pare chiaro che si profili, già sulla base della nuova governance di cui oggi discutiamo, l'altro servizio pubblico che abbiamo in mente, con l'auspicio che quel pluralismo culturale che ci caratterizza e che rappresenta una delle nostre potenzialità non completamente espresse possa diventare valore aggiunto e ricchezza. Penso, al riguardo, alla multiculturalità italiana, sia con riguardo alle peculiarità regionali, in particolare quelle dove sono presenti forti identità con marcate tendenze autonomistiche, che si esprimono, fra le altre cose, in preziosa varietà linguistica, sia relativamente all'opportunità di rappresentare al meglio la nuova geografia sociale e culturale del nostro Paese che ci interroga e ci sfida a rappresentare al meglio e riconoscere le diverse tradizioni culturali e religiose.
  Insomma, un servizio pubblico che supporti il radicamento della cultura europea ed euro-mediterranea, sfruttando il suo ruolo di principale industria culturale, non solo italiana, ma anche europea. Un servizio pubblico che in tal senso torni a fare e a farsi Paese (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Lainati. Ne ha facoltà.

  GIORGIO LAINATI. Grazie signor Presidente, signori rappresentanti del Governo, colleghe e colleghi, raccolgo volentieri l'invito della relatrice alla collaborazione fra maggioranza e opposizione. Sono sempre stato favorevole a scelte di questa natura.
  Debbo, altresì, significare a tutti voi che questo disegno di legge sulla televisione Pag. 10pubblica non è una riforma epocale. Forse, noi giornalisti abbiamo questa capacità di inquadrare le cose senza magari entrare nel merito. È una riforma limitata ai criteri di scelta della governance della televisione pubblica stessa. Dunque, non è una riforma di sistema e non sfiora minimamente quella che è la vera essenza della RAI, cioè il suo ruolo di servizio pubblico radio-televisivo.
  Il Presidente del Consiglio più volte nei mesi scorsi non aveva fatto mistero di voler procedere con una decretazione d'urgenza o vi era questa ipotesi, ma poi ha dovuto fare marcia indietro perché su una materia del genere non si poteva intervenire attraverso la decretazione d'urgenza. Si era anche ventilata l'ipotesi dell'abolizione della Commissione di vigilanza, della quale io sono vicepresidente – mi sarei molto dispiaciuto della cosa –, ma non se n’è fatto fortunatamente nulla perché, come dimostrano le numerose sentenze della Corte costituzionale, un organismo di vigilanza parlamentare, almeno fino a quando la RAI resterà pubblica, risulta indispensabile.
  Nonostante questi passi indietro preliminari compiuti dal Governo il provvedimento, a nostro avviso, presenta sempre delle criticità. Intendo ricordare a tutti voi e a tutti noi che la così tanto bistrattata legge n. 112 del 2004, la cosiddetta «legge Gasparri», viene toccata solo in minima parte e rimane, pertanto, pienamente valida nel suo impianto complessivo.
  La figura dell'amministratore delegato che si sostituisce al direttore generale rappresenta una sorta di longa manus del Governo, un'estensione dell'Esecutivo in RAI. Per di più, durante l'esame in Commissione, all'amministratore delegato sono stati conferiti ulteriori e pervasivi poteri rispetto alla scelta di dirigenti di ogni livello. Questa grande fretta del Governo per approvare in tempi brevi il provvedimento si spiega anche e soprattutto alla luce proprio della figura dell'amministratore delegato o, meglio, dell'attuale direttore generale che, in funzione della norma transitoria, svolgerà i compiti di amministratore delegato.
  Lo slogan «I partiti fuori dalla RAI», che il Premier ha richiamato più volte, mi chiedo se sia ancora valido. E chi non è d'accordo con un'affermazione del genere ? Ma allora qual è l'alternativa che si pone per il presente e il futuro della RAI ? La privatizzazione ? Forza Italia ha presentato emendamenti anche in tal senso, ma non possiamo non ricordare che proprio la legge n. 112 già prevede la possibilità parziale di quotare in Borsa la RAI e di costituire, come è stato fatto per altre importanti società del pubblico, una holding che possa progressivamente mettere delle quote della RAI stessa sul mercato. Addirittura, onorevoli colleghi, si possono cedere interi rami di azienda. Lo ribadisco, la legge n. 112 lo detta esplicitamente all'articolo 21, comma 5. La Gasparri prevedeva, infatti, che fosse avviata la collocazione in Borsa del 10 per cento della RAI, con un limite ben preciso di detenzione delle quote da parte dei soggetti: l'1 per cento per gli investitori privati e il 2 per cento per i patti di sindacato, nell'ottica del raggiungimento dell'obiettivo di trasformare la RAI in una sorta di public company.
  Per quanto riguarda la questione della trasparenza, colleghe e colleghi, in Commissione è stata introdotta una modifica per varare un piano per la trasparenza e la comunicazione aziendale che speriamo non finisca nel nulla che valutiamo positivamente soprattutto se verrà effettivamente attuato. Infatti non possiamo non segnalare che sul tema trasparenza la normativa già esistente è assai ampia e variegata: la legge n. 125 del 2013 per la quale la RAI è tenuta a comunicare alla Presidenza del Consiglio e al MEF il costo annuo del personale comunque utilizzato, con riferimento ai singoli rapporti di lavoro dipendente o autonomo. Inoltre la Commissione di vigilanza ha approvato più di un anno fa il parere di nostra competenza in relazione al contratto del servizio pubblico 2013-2015 tra la RAI ed il Ministero dello sviluppo economico proprio nel quale al comma 7 dell'articolo 18 si prevede che la RAI debba pubblicare, nel rispetto delle norme vigenti, le informazioni Pag. 11sui curricula ed i compensi lordi percepiti dai dirigenti, dai collaboratori e dai consulenti. Tutto questo per dire che le norme esistono già da tempo, signor Presidente, ma finora, non sono state rispettate dalla RAI e dal Governo. Speriamo di poter invertire questa tendenza.
  Personalmente ritengo che, prima o poi, in vista della scadenza della concessione, come ricordava la gentile relatrice, del servizio pubblico generale radiotelevisivo i responsabili, vertici aziendali e non solo, dovranno riflettere su quel rapidissimo cambiamento tecnologico che sta spostando milioni di telespettatori su nuove piattaforme, proprio a scapito della tv tradizionale cosiddetta generalista. Proprio per questo si dovrà pensare, per esempio, ad una razionalizzazione del numero dei canali RAI, come del resto è già avvenuto in molti altri Paesi europei. Altrimenti la leva dei costi è destinata inesorabilmente a lievitare. Ed il quadro appare già molto inquietante se non addirittura fuori controllo. Si pensi solo al fatto che in RAI il costo di lavoro medio nel 2014 è stato di 77.000 euro, superiore a quello della Bbc di 62.000 euro.
  Peraltro, la BBC ha un fatturato doppio rispetto a quello della RAI; infatti, la BBC, pur avendo il 50 per cento di dipendenti in più, ha il 20 per cento in meno di dirigenti della Rai. Cito sempre la BBC perché tutti citano sempre la BBC, dalla royal charter in poi, perché è come un termine di paragone, anche se in realtà, poi, non ci rendiamo conto che ci sono delle differenze abissali su vari piani. La Rai, al contrario della BBC, ha molti contratti ancora che superano delle cifre rilevantissime e la BBC ha una percentuale di stipendi sotto i 100 mila euro molto maggiore rispetto alla Rai dove, invece, c’è proprio un'abbondanza di rapporti contrattuali compresi tra i 100 e i 200 mila euro. E anche per quanto riguarda i colleghi giornalisti, l'organico della RAI conta 1.939 giornalisti, dei quali 342 hanno la qualifica di dirigente. È chiaro che questo è un quadro difficilmente sostenibile per il presente e il futuro della RAI, tenendo conto che aumentano sempre di più i competitori che sottraggono al servizio pubblico delle caratterizzazioni storiche soprattutto per quanto riguarda le iniziative sportive di carattere internazionale.
  Dunque, la RAI che vuole guardare al futuro deve necessariamente rinnovarsi per affrontare, signor Presidente, con slancio e vigore le sfide della competizione.

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Buttiglione. Ne ha facoltà.
  La cercavo nei banchi alti dove solitamente è seduto. Oggi è più vicino a noi. Prego, presidente Buttiglione.

  ROCCO BUTTIGLIONE. Non siamo tantissimi, quindi, possiamo parlare in un'atmosfera più familiare.

  PRESIDENTE. Decisamente.

  ROCCO BUTTIGLIONE. Signor Presidente, onorevoli colleghi, l'onorevole Lainati ha già fatto notare un punto fondamentale: non stiamo parlando della riforma della RAI, stiamo parlando di un intervento limitato che ha una funzione precisa, quella di rafforzare i poteri del direttore generale che è destinato a diventare amministratore delegato; perché vogliamo rafforzare i poteri del direttore generale ? Per assicurare l'unità della conduzione. Napoleone, che non ne capiva molto di RAI, però in generale ne capiva sia di strategia militare che di amministrazione pubblica, sosteneva che la prima condizione per il successo di un'impresa è l'unità del comando. La riforma che noi stiamo facendo mira a instaurare all'interno della RAI l'unità del comando.
  È opportuna una simile riforma, c’è bisogno di creare unità di comando all'interno della RAI ? A me sembra che l'innovazione sia straordinariamente opportuna, il vecchio sistema non funziona più, il vecchio sistema prevede una RAI che è divisa in tre parti, ognuna delle quali è assegnata a un referente politico esterno all'azienda e risponde fondamentalmente a lui e non alla direzione generale. Questo poteva avere un qualche senso nelle circostanze Pag. 12nelle quali questa struttura fu adottata: esistevano tre grandi aree culturali e politiche – forse più politiche che culturali – ognuna delle quali reclamava il diritto di poter parlare al Paese e voleva una propria voce per parlare al Paese. Ma col tempo questa modalità è drammaticamente venuta meno; beninteso, nel vecchio modello il consiglio di amministrazione aveva la funzione di assicurare che ciascuna di queste aree potesse esercitare il controllo sulla parte che le spettava. Nel tempo il sistema si è corrotto, le aree si sono moltiplicate, si sono frammentate, hanno perso il riferimento politico culturale e sono diventate, sempre più, punto di riferimento di aree di potere, ognuna delle quali ha i propri referenti esterni all'azienda e l'unità di conduzione dell'azienda è venuta meno. Molti dei fenomeni citati dal collega Lainati credo che abbiano la loro origine – forse sbaglio, non sono un esperto di televisione come lui – proprio in questa frammentazione; non solo tre grandi aree culturali ma ogni gruppo di potere, anche minore e minimo, si è creato all'interno della RAI la propria scuderia, il proprio punto di riferimento. Il risultato ? Credo che non sia stato un risultato molto positivo per la classe politica che ha finito col mettersi in ridicolo.
  Sicuramente è stato un risultato distruttivo per la RAI, che ha perso l'unità della conduzione e quindi la capacità di svolgere pienamente la propria missione. Quindi, quel vecchio sistema non funziona, è bene sostituirlo e io mi auguro che l'amministratore delegato, facendo uso dei suoi poteri, proceda pure ad una ristrutturazione che ci dia una RAI diversa. Ha senso avere tre telegiornali ? Ha senso avere tre reti, come sono le reti adesso ? Probabilmente no, allora ragioniamo sul modo di cambiare la RAI. Non sono sordo al grido di dolore del collega grillino che ha parlato poco fa – non lo vedo, ma spero che ci sia –; non sono sordo perché esiste un problema di controllo ed esiste un problema di partecipazione. Nel momento in cui rafforziamo i poteri dell'amministratore delegato certamente c’è un problema di controllo e di partecipazione. Esiste, ma in che modo intendiamo affrontarlo ? Perché ci sono molti modi di farlo. Vogliamo riproporre una lottizzazione fra diverse forze politiche e la formazione di un sistema feudale in cui ciascuno di coloro che hanno un qualche potere all'interno della struttura aziendale risponde a un dante causa esterno e vogliamo un consiglio di amministrazione che abbia la funzione di garantire questo rapporto ? Diciamolo apertamente. Io credo che sarebbe una pessima soluzione, anche perché se era dubbio che il Paese fosse diviso in tre aree, tre culture così diverse l'una dall'altra allora, certamente questo non è vero oggi. Quindi, l'elemento di prepotenza politica, che già allora era sensibile, oggi sarebbe ancora molto più sensibile. Non è meglio che ci poniamo il problema dal punto di vista di assicurare il concorso di tutti nel dare un indirizzo politico unitario, equilibrato e pluralista ? Indirizzo politico significa che le forze esterne non entrano nella gestione interna e che la funzione del consiglio di amministrazione va ripensata in modo tale che esso non sia il garante di equilibri politici esterni o di aree di potere esterne proiettate dentro la RAI ma invece partecipa all'elaborazione di un indirizzo politico unitario. Unitario non significa monolitico. Aristotele, criticando Platone, spiegava che l'unità è sempre una cosa buona (ottimo è ciò che è massimamente uno), ma in ogni tipo di cosa c’è l'unità che gli è propria, quella che rispetta le caratteristiche dell'ambito nel quale ci si muove e quindi non distrugge, in nome dell'unità, i margini legittimi di creatività e di autonomia dei singoli soggetti. Allora, certo, si può avere un indirizzo che sia unitario e insieme pluralista. Si può trovare un punto di equilibrio. Come ? Se mi dite che in questo provvedimento si è trovato il punto di equilibrio, sono un po’ dubbioso, un poco scettico, non vedo il punto di equilibrio. D'altro canto, credo che non fosse neanche questa la finalità del provvedimento. La finalità del provvedimento è quella intanto di affermare il principio dell'unità della conduzione; forse in modo ancora non del tutto sufficiente, perché Pag. 13rimangono diversi ambiti nei quali può darsi che il provvedimento preso sia inadeguato, ma certo l'altro problema rimane ed è un problema che deve essere affrontato e che noi dobbiamo porci: in che modo garantire, senza violare il principio dell'unità della conduzione aziendale – che poi è la premessa anche per il risanamento economico, perché uno può essere reso responsabile del risultato economico se ha i poteri adeguati per poter gestire –, la necessaria sorveglianza del carattere pluralistico che la RAI deve avere ? Di queste cose dobbiamo continuare a parlare, perché evidentemente la riforma non è compiuta. Ma avremo occasione di tornare a parlarne ? Sì, perché fra poco scade, se non vado errato, il contratto di servizio della RAI e poi la convenzione, la concessione. Sono due grandi occasioni nelle quali il disegno riformatore che adesso comincia a dispiegarsi deve concretizzarsi ulteriormente. In queste occasioni dobbiamo mettere alla prova la capacità di coniugare l'apertura non dogmatica (non la RAI al servizio del Governo, non la RAI al servizio di un blocco di potere nel Paese contro altri) e il pluralismo con l'inevitabile unità della conduzione, se vogliamo una RAI che sia competitiva, se vogliamo una RAI che funzioni, se vogliamo una RAI che sia in grado di rendere un valore pari, adeguato, al denaro che in essa viene investito. Dentro questo, rimane che l'amministratore delegato deve portare la piena responsabilità.
  Quando parleremo di queste cose, dovremo affrontare anche la questione del servizio pubblico: la RAI, che oggi monopolizza il servizio pubblico in Italia, è pagata per due terzi con risorse pubbliche (credo che il 67 per cento della RAI dipenda dal canone); è probabile che questa percentuale aumenti ancora, in connessione con le nuove modalità di riscossione del canone, che consentiranno sperabilmente di recuperare i livelli molto elevati di evasione che ci sono adesso. È quindi lecito chiedere alla RAI che faccia servizio pubblico, che il servizio pubblico sia dominante.
  Un grande filosofo, Lord Karl Raimund Popper, ha espresso la preoccupazione che la televisione divenga un sistema che ha come finalità preponderante e unica quella di riunire della gente davanti all'apparecchio televisivo, per poter trasmettere dei contenuti pubblicitari, e qualunque strumento è adeguato pur di ottenere questo risultato. Fermo restando che forse faremmo bene a rafforzare la normativa già esistente, la quale impone una diversa visione del fare televisione a tutte le televisioni operanti in Italia, anche a quelle private, certamente dal servizio pubblico è lecito attendersi qualcosa di più: è lecito attendersi uno sforzo di fare della televisione un elemento del sistema educativo nazionale, inteso in senso lato.
  Noi abbiamo avuto una televisione che ha svolto questa funzione: la televisione di Bernabei era una televisione che assumeva una responsabilità in un processo educativo. Senza tornare indietro nel tempo, credo che questa preoccupazione debba essere fatta valere di nuovo ancora nei tempi nostri. Cosa vuol dire essere nazional-popolari ? Tra l'altro, questo aggettivo fu usato come un insulto contro il povero Pippo Baudo, mentre invece a mio giudizio è un obiettivo al quale tendere. Essere nazional-popolari significa aiutare la consapevolezza della propria identità, aiutare la consapevolezza dei valori fondanti per l'esistenza del nostro Paese nella storia. Essere nazional-popolari significa diffondere conoscenze che sono necessarie al cittadino per esercitare pienamente le proprie responsabilità !
  Noi viviamo in un Paese nel quale per esempio (tocco un argomento a me caro) la politica non può svolgersi fuori di un continuo raffronto con l'Europa. Cosa sta facendo la televisione per portare i cittadini italiani a conoscenza di come funzionano effettivamente i meccanismi dell'Unione europea ? Esiste questa preoccupazione nel nostro servizio pubblico ? Dubito fortemente. Per la verità, ho qualche dubbio anche che ci sia uno sforzo di portare sistematicamente a conoscenza i meccanismi che regolano la politica interna italiana; ma lì, volendo, qualche cosa Pag. 14c’è, magari messa in orari non proprio..., però, qualcosa c’è. Per quello che riguarda il sistema europeo, vedo – tranne qualche eccezione, c’è sempre qualche eccezione – un panorama francamente desolante.
  Esercitare i diritti di cittadinanza significa essere informati; e dice Platone – scusate le citazioni filosofiche – che non può avere una buona politica una città che ha una cattiva musica. Musica, in greco, «tà mousicà», vuol dire tutte le forme della comunicazione di massa, non solo la musica. Se noi vogliamo migliorare la politica, non possiamo non porci il problema di creare un'informazione sulla politica, la quale permetta al cittadino di sapere tempestivamente e di giudicare, perché il cittadino giudica sulla base di quello che sa.
  Questi sono i temi della riforma che sta ancora davanti a noi, per cui sarebbe illusorio pensare di aver chiuso tutto con il primo passo. D'altro canto sarebbe anche eccessivo pretendere che il primo passo risponda a tutti questi problemi: dobbiamo essere consapevoli della enorme potenza della televisione. La televisione fa vedere, e il cittadino normalmente pensa che quello che lui vede è vero; nessun sistema di comunicazione invece è altrettanto manipolabile che quello televisivo, e nella singola immagine, e nella scelta delle cose da far vedere e correlativamente di quelle da non far vedere.
  Chi fa queste scelte si assume una responsabilità culturale e anche politica: chi fa valere questa responsabilità ? Come si realizza il controllo sociale su queste scelte ? Sono problemi sui quali dobbiamo interrogarci; non credo che la risposta buona sia quella di massimizzare il controllo della politica sulla RAI.
  Penso che dovremmo riflettere – l'onorevole Lainati ha impeccabilmente citato la BBC – sul fatto che, ad esempio, nello statuto della BBC, mi pare esistano istanze di controllo non direttamente politiche, ma espressione della società civile. Dovremmo cominciare a pensare ad istanze di controllo di questo tipo per essere sottratti all'alternativa: o una RAI monolitica, in cui il Governo può – non è detto che lo faccia, ma può – imporre la propria visione, oppure un insieme di feudi all'interno dei quali non c’è nessuna strategia aziendale e culturale, in questo modo vanificando il grande impegno di risorse; infatti, c’è un grande impegno di risorse che viene investito li dentro, la RAI costa non poco al cittadino. Solo rompendo questo cerchio è possibile avere una RAI che sia insieme pluralista e un'azienda che non sia un supporto per strategie politiche, e talvolta anche aziendali, che non hanno nella RAI il loro punto di riferimento.
  Ho sentito delle critiche alle modalità di elezione: è meglio la maggioranza dei due terzi o è meglio il voto limitato ? Io vorrei dire che sono preoccupato delle maggioranze che stiamo stabilendo per l'elezione del Presidente della Repubblica, si parva licet componere magnis – molto più in piccolo – sarei preoccupato di vedere lo stesso criterio adottato in questo caso. Perché ? Lo ha detto molto bene il collega grillino: se esiste una componente la quale non intende entrare nel processo di mediazione che costituisce la politica – «mediazione» nel senso alto e nobile della parola, potrei citare Aldo Moro, la mediazione come capacità di intendere le ragioni dell'altro e di trovare un punto di accordo che faccia salve le ragioni di tutti –, se qualcuno si sottrae a questo processo, come talvolta avviene e come sta avvenendo in questo Parlamento per l'elezione dei giudici costituzionali, noi corriamo il rischio di paralizzare l'istituzione, di creare una situazione di stallo all'interno della quale non si riesce a procedere alle nomine dovute, o peggio alla fine per procedere alle nomine si è costretti a subire ricatti inaccettabili.
  Allora, io capisco le ragioni che vengono addotte, ma credo che su questo il testo non sbagli, fermo restando che l'altro problema rimane aperto. Consentitemi di richiamare un'altra questione che pure dovrà essere oggetto della nostra attenzione; se la RAI è parte di un sistema educativo nazionale, non è possibile che non ci si interroghi sui rapporti che esistono tra l'industria italiana che produce contenuti e la RAI: infatti la RAI è il Pag. 15massimo committente dei contenuti per l'industria del cinema, per l'industria dell'audiovisivo e così via. Anche in questo caso, l'assenza di unità di conduzione ha prodotto risultati dubbi, ad esempio il moltiplicarsi di serial, di trasmissioni seriali, alcune di qualità hanno anche trovato spazio nel mercato internazionale, molte altre non di grande qualità non hanno trovato spazio nel mercato internazionale, comunque hanno dei formati che le rendono non vendibili sul mercato internazionale. I serial di due, tre, quattro puntate vanno sul mercato internazionale ? Non vanno. Il dubbio che talvolta essi vengano fatti più per compiacere delle aree che si ritiene comunque di dover alimentare, piuttosto che in funzione di un obiettivo da conseguire è un dubbio legittimo. Noi dobbiamo avere una politica la quale per un verso educhi, anche accettando di fare prodotti difficili; un prodotto che non ha immediatamente un grande risultato, se è dentro una strategia, crea con il tempo un pubblico. La prima volta gli ascolti saranno bassi, se il prodotto è buono la seconda saranno un po’ più alti, dopo un certo tempo i risultati saranno anche soddisfacenti dal punto di vista economico. Occorre però una strategia, una visione, una costanza, una permanenza di impegno, non si può trattare invece di fenomeni sparsi, casuali, episodici, i quali non educano il pubblico, tanto più quando poi i prodotti che vengono fatti non hanno un forte contenuto educativo. Qualcuno dei prodotti, dei serial brevi questo contenuto educativo lo hanno avuto, non voglio disconoscerlo, qualcun altro invece no: queste sono le cose da discutere, i criteri. La politica non deve entrare nella gestione, il difetto del vecchio consiglio di amministrazione è che la politica entrava nella gestione, trasformandola in un mercimonio, un mercanteggiamento continuo.
  La politica deve indicare dei criteri e poi deve vigilare con severità perché questi criteri vengano osservati.
  Lascio un altro capitolo, che è quello della privatizzazione della RAI. Oltre che della privatizzazione della RAI, cosa intendiamo per servizio pubblico ? Vogliamo che il servizio pubblico sia tutto RAI ? Riteniamo di poter riconoscere funzioni di servizio pubblico, per esempio, all'emittenza locale, magari nella forma di bandi sui quali l'emittenza locale possa candidarsi alla produzione di contenuti ? Come pensiamo di svolgere il tema del servizio pubblico ? È una questione su cui va fatta una meditazione approfondita, ogni scelta che facciamo ha i suoi pro e i suoi contro. Mi auguro che noi non arriviamo a fare queste scelte senza avere riflettuto a fondo, ascoltando chi ha parole da dire, cercando di evitare una competizione da parte di ciascuno per salvaguardare il proprio orticello, ma avendo un concetto, una visione globale, perché forse non tutto il servizio pubblico è RAI.
  Qualcuno dice che non tutta la RAI dovrebbe essere servizio pubblico, la proposta di fare una rete che sta sul mercato e due reti o una, riconsiderando il numero delle reti, anche questo è qualcosa su cui va fatto un approfondimento, perché il servizio pubblico sia servizio pubblico, perché noi rischiamo una situazione nella quale tutto è servizio pubblico e poi niente è servizio pubblico.
  Servizio pubblico significa assumere costi e rischi, non vuol dire non avere la preoccupazione del mercato. Il servizio pubblico deve avere la preoccupazione del mercato, del pubblico; se la parola «mercato» non piace, diciamo che deve avere la preoccupazione del pubblico. Ma deve assumere la preoccupazione del pubblico dentro un progetto educativo intenso, con un'intensità tale che non possiamo chiederlo ad altri soggetti.
  Ecco, su tutte queste cose io penso che il provvedimento di oggi debba aprire una riflessione, perché a tutte queste domande questo provvedimento non dà risposta. Noi lo voteremo perché non pensiamo che debba dare queste risposte, sarebbe assurdo che il Governo ritenga di risolvere il problema della RAI con questo provvedimento. È un tassello importante, credo che si sia cominciato con il piede giusto e siamo sicuri che, anche se il Governo volesse poi dilazionare il problema e non Pag. 16affrontarlo, le scadenze che stanno davanti a noi nel prossimo futuro costringeranno comunque ad affrontarlo.
  C’è la questione dei nuovi media, sulla quale però, attenti, noi sappiamo che almeno per venti, trent'anni la cosiddetta televisione generalista continuerà a tenere con forza il campo. Dopo, non sappiamo, oltre venti-trent'anni nessuno può sapere, ma per i prossimi venti, trent'anni la televisione generalista – lo sappiamo da quello che sta avvenendo anche in altri Paesi – continuerà ad avere una funzione fondamentale, che non vuol dire che ci si possa disinteressare delle nuove tecnologie, che non vuol dire che non si possa e non si debba chiedere alla RAI di entrare anche in altri settori, ma vuol dire che sarebbe un errore gravissimo trascurare e non tenere in debito conto quella che è la funzione nazional-popolare che la RAI può esercitare, oggi e nel prossimo futuro.
  Come ho detto, noi voteremo questo provvedimento e ci aspettiamo che il Governo sappia dare continuità all'azione riformatrice per quel che riguarda il settore radiotelevisivo in genere e la RAI in particolare.

  PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Liuzzi. Ne ha facoltà.

  MIRELLA LIUZZI. Signor Presidente, «Via i partiti dalla RAI, via da Finmeccanica, via dalle nomine nei CDA. L'ho detto a #serviziopubblico, ma lo diciamo fin dalla Leopolda», diceva Renzi il 19 Aprile 2012. «Costi quel che costi io ho intenzione di togliere la RAI ai partiti. Se siamo rottamatori vuol dire che lo siamo non per finta. Io non ho mai parlato con i vertici RAI e trovo folle che ora si pensi che la RAI sia nelle mani del PD», sempre Renzi il 16 maggio 2012.
  Lo scorso anno, durante l'assemblea PD del 14 aprile, l'attuale Presidente del Consiglio, nelle vesti di segretario del PD, disse che «i partiti in questi anni sulla RAI hanno ceduto spesso a un atteggiamento di pensare di poter avere un ruolo, poter giocare un piccolo potere. È un dato di fatto oggettivo», ma il PD deve proporsi «come strumento che tiene fuori l'interesse di un singolo partito politico e porta dentro la RAI la politica con la “P” maiuscola. Una sfida alta, senza interessi di bottega», fatta «superando il piccolo cabotaggio di quei politici che cercano di avere un servizio in più nel TG regionale delle 22».
  Per concludere con la più recente dichiarazione, risalente a quest'anno: «La RAI non è il posto dove i singoli partiti vanno e mettono i loro personaggi, ma è un pezzo dell'identità culturale ed educativa del nostro Paese» (dichiarazione del 22 febbraio del 2015).
  Questa cronologia di dichiarazioni porterebbe a farci pensare che finalmente questo Paese si sia sganciato dalla nomina dei vertici della nostra televisione pubblica, ma neanche per sogno.
  In Commissione, ogni emendamento del MoVimento 5 Stelle, che inseriva nei requisiti di incompatibilità quello di essere stato un parlamentare o di aver avuto un incarico nelle segreterie dei partiti o delle organizzazioni sindacali, è stato puntualmente bocciato.
  Non che non ce ne fossimo accorti già a partire da questa estate, alla prova dei fatti, quando è stato rinnovato il CDA della RAI con la vecchia «legge Gasparri», che tra l'altro Renzi aveva assicurato sarebbe stata superata proprio con la nomina del nuovo CDA.
  Nel CDA della RAI è stato sistemato il suo ghost writer e vecchio amico del padre, Guelfo Guelfi, l'ex segretaria di Orfini, Rita Borioni, e l'amico leopoldiano Antonio Campo Dall'Orto, lasciando che Fratelli d'Italia e NCD facessero altrettanto (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle), evitando accuratamente il benché minimo esperto di TV, neanche fosse un demerito per sedere nel consiglio di amministrazione di una delle più grandi aziende radiotelevisive d'Europa.
  In ogni caso, una volta votato il CDA RAI, pensavamo che su questo disegno di legge avremmo avuto più tempo per discutere e per affrontare alcuni passaggi che consideriamo molto discutibili.Pag. 17
  Innanzitutto si poteva sicuramente pensare ad una definizione di «servizio pubblico» e di «mission» della RAI, quindi partendo proprio da quello che noi vorremmo come servizio pubblico, per il quale i cittadini devono pagare un canone che, come sappiamo, non è così gradito alla maggior parte di loro, anche forse per il tipo di servizio pubblico che viene offerto di questi tempi.
  Solo dopo aver definito la mission, avremmo dovuto parlare della governance, cioè del modello di gestione necessario per realizzare questo tipo di servizio pubblico e, infine, successivamente, anche parlare di canone, cioè di quanti soldi servono per finanziare, di quanto sia importante il servizio pubblico della RAI Radiotelevisione italiana e in che modo farlo pagare ai cittadini.
  Ma c’è un pilastro dal quale non si può indietreggiare e dal quale noi non siamo disponibili ad indietreggiare: il servizio pubblico deve prima di tutto essere indipendente da ogni altro potere.
  Al contrario, in questo disegno di legge, all'amministratore delegato sono conferiti poteri molto ampi di gestione della società, e soprattutto viene nominato dal Governo e dal Presidente del Consiglio, pregiudicando in modo irrimediabile l'indipendenza del servizio pubblico.
  Nonostante le dichiarazioni di Renzi, nel testo sono previste cause di incompatibilità con la carica di membro del CDA molto blande, come ricoprire o aver ricoperto nei dodici mesi precedenti cariche governative di Stato, o essere consiglieri regionali o sindaci in comuni con popolazione superiore ai 20 mila abitanti.
  Infatti, come MoVimento 5 Stelle, riteniamo che il passo decisivo verso la piena indipendenza del servizio pubblico radiotelevisivo consista nell'impedire la nomina a consigliere a coloro che nell'arco della legislatura precedente abbiano ricoperto cariche elettive o di governo a qualunque livello, oppure incarichi o uffici di rappresentanza nei partiti o nei sindacati. Abbiamo presentato emendamenti secondo questa visione che sono stati bocciati, poiché secondo il Governo non è giusto escludere dalla possibilità di far parte del CDA chi, come parlamentare, ha già svolto un servizio per il Paese.
  La spiegazione non regge perché, a questo punto, non si comprende la motivazione secondo la quale ai consiglieri regionali sia impedito di poter essere nel CDA della RAI, anche alla luce delle riforme costituzionali che permettono proprio ad un consigliere regionale di diventare senatore. Quindi, il paradosso è veramente incredibile. Il Governo praticamente è inciampato nelle sue stesse riforme. Abbiamo chiesto inoltre, una reale e comprovata competenza in materie economico-giuridiche, in produzione audiovisiva e competenze tecnico-scientifiche.
  Al contrario, questo testo è troppo generico e non si rinviene alcuna disposizione che vada nella direzione di un CDA realmente innovativo e indipendente nella composizione, ma soprattutto competente.
  Mettendo un attimo da parte i requisiti, analizziamo il metodo di votazione degli stessi. Due consiglieri di amministrazione saranno di nomina governativa, due rispettivamente votati da Camera e Senato e uno sarà designato, attraverso elezione, dall'assemblea dei dipendenti RAI (non si sa ancora bene in che modo). In pareri recenti, organismi quali l'EBU e la Commissione di Venezia hanno evidenziato che l'elezione parlamentare dei vertici del servizio pubblico radiotelevisivo, per ragioni strettamente connesse all'indipendenza dello stesso, devono necessariamente avvenire con maggioranze molto qualificate.
  In Italia, a maggior ragione, questo dovrebbe essere tutelato, possedendo noi un sistema elettorale con premio di maggioranza assolutamente esagerato, che mette puntualmente a tacere le opposizioni (lo viviamo ogni giorno). Cosa accadrà una volta che questo testo sarà votato ? Avverrà, senza alcun intoppo, che la maggioranza parlamentare, con un buon coordinamento strategico, potrà arrivare ad eleggere qui, in Parlamento, quattro consiglieri su quattro, più i due governativi. Quindi, siamo passati dalla lottizzazione Pag. 18della RAI dei partiti della legge Gasparri alla lottizzazione della RAI del Governo.
  Per non parlare dei poteri del super amministratore delegato ! La fretta nelle votazioni nelle Commissioni e nella calendarizzazione in Aula è presto spiegata: a Renzi interessa dare subito e immediatamente pieni poteri all'amministratore e amico Campo Dall'Orto, in modo tale che indichi, appena approvato questo disegno di legge, i direttori dei telegiornali. E non è nemmeno un caso che, fra gli emendamenti presentati dal PD e poi approvati, ce ne sia uno che permette all'amministratore delegato di spostare a piacimento i giornalisti e i dirigenti RAI. Il nuovo testo, dunque, aggiunge ai poteri dell'amministratore delegato quello di assumere, nominare, promuovere e stabilire la collocazione aziendale dei dirigenti e dei giornalisti.
  E, infine, veniamo alla norma sugli appalti: la RAI non può godere di una normativa sugli appalti più morbida rispetto a qualunque altro soggetto pubblico o privato. Con l'attuale testo votato nelle Commissioni, la RAI è dispensata da ogni regola che, invece, devono seguire tutte le altre amministrazioni pubbliche. Per gli appalti RAI, niente obbligo di concorrenza, niente trasparenza, parità di trattamento, economicità: insomma, tana libera tutti ! Il fiume di denaro potrà finire in mille rivoli, nelle mani di fornitori esterni, senza controllo e amici di chissà chi.
  Questa parte deve assolutamente essere modificata, qui in Parlamento, qui in Aula, perché un testo del genere è incomprensibile e non va nella direzione della trasparenza e dell'indipendenza, oltre ad essere a probabile infrazione europea ed economica.
  Veniamo al canone, croce e delizia quando si parla di RAI. L'articolo che delegava il Governo alla riforma del canone in questo disegno di legge è stato soppresso al Senato in prima lettura. Questo, però, non ha impedito al Governo di inserire la stessa delega e la stessa proposta del canone in bolletta nella legge di stabilità. E, dunque, secondo le prime bozze di cui abbiamo avuto visione, entro 45 giorni dall'entrata in vigore della legge di stabilità saranno definiti criteri, termini e modalità di pagamento. Abbiamo assistito alla stessa assurdità l'anno scorso, proprio durante l'esame della legge di stabilità, e sicuramente ne parleremo a lungo durante le prossime settimane.
  In conclusione, questo disegno di legge non piace a nessuno: tutti gli esperti e tutti i professori che abbiamo audito e che abbiamo ascoltato nella Commissione di vigilanza RAI e nelle Commissioni riunite hanno in larga parte criticato alcuni aspetti di questo disegno di legge, aspetti che sono stati anche ripresentati dal MoVimento 5 Stelle. Non si capisce perché il Governo continui su questa linea assolutamente non innovativa e continui a non garantire il pluralismo, anche di tipo parlamentare, se non per legarlo a un progetto ben chiaro, che garantisce potere di nomina al Governo e ad un unico uomo: il Presidente del Consiglio (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Fauttilli. Ne ha facoltà.

  FEDERICO FAUTTILLI. Presidente, sottosegretari, colleghe e colleghi, anche il nostro gruppo Per l'Italia – Centro Democratico ha presentato una proposta di legge, a firma dell'onorevole Marazziti, in materia di organizzazione del servizio pubblico generale radiotelevisivo; proposta, peraltro, abbinata, come altre, al disegno di legge presentato dal Governo, approvato già in Senato, e, altresì, per le parti non recepite, abbiamo voluto presentare emendamenti sia in Commissione che in Aula.
  Però, siamo comunque consapevoli, come già rilevato negli interventi precedenti, compresa la relazione di maggioranza, che un semplice tentativo, come quello che stiamo oggi discutendo, di riorganizzazione dell'azienda, riducendo il numero dei membri del consiglio di amministrazione da 9 a 7 o allungando il periodo della concessione di servizio da tre Pag. 19a cinque anni oppure istituendo la funzione di amministratore delegato, scelte sicuramente estremamente importanti, non è sufficiente per dire che stiamo riformando la RAI; al massimo, riformiamo la governance.
  Però possiamo dire che questo disegno di legge sicuramente è il primo passo per avviarci verso una riforma complessiva ed organica. Si tratta, comunque, di una riforma che deve essere fatta e, riteniamo che, prima di farla, innanzitutto, vada, pensata, discussa e approfondita. Siamo alla vigilia del rinnovo della concessione del servizio, quindi è necessario che almeno tutte le forze politiche presenti in Parlamento provino, dentro e fuori questo palazzo, ad aprire un confronto il meno possibile strumentale, di parte, ma franco, chiaro, approfondito, su che cosa dovrà essere il sistema radiotelevisivo pubblico nel nostro Paese.
  I nostri concittadini europei, innanzitutto gli inglesi con la BBC, già ricordati spesso oggi, sono partiti da un concetto che è quello della mission ovvero dalla missione di servizio pubblico, dalla sua definizione che non può che essere di competenza del Parlamento per legge, assieme all'individuazione dei valori a cui la concessionaria deve fare riferimento. La missione non può essere un elenco di compiti, ma l'indicazione degli obiettivi fondanti oppure finali, come si dice in economia. In Gran Bretagna per il rinnovo della concessione hanno promosso una consultazione pubblica e la proposta è di creare valore per i cittadini con programmi e servizi che informano, educano, divertono, certo, ma anche interconnettono e includono, in breve, per formare una cittadinanza attiva e consapevole. E se il servizio pubblico è garantire sempre, con legge, l'indipendenza da possibili interferenze politiche ed economiche, anche la governance e le risorse finanziarie disponibili, come peraltro stiamo facendo, debbono essere definite per legge. E starebbe, poi, al management dell'azienda proporre gli strumenti idonei per raggiungere gli obiettivi indicati nella missione. Quindi, si tratterebbe di un'azienda moderna consapevole di giocare un ruolo fondamentale nella comunicazione televisiva del presente e del futuro, con capacità tecnologiche, intellettuali e artistiche di qualità, alta qualità, capace di affrontare le sfide della comunicazione digitale con una energia e competenza.
  Ma per realizzare un prodotto di eccellenza riteniamo che il sistema pubblico radiotelevisivo debba dimostrare, soprattutto nei risultati, di essere un editore; un editore di alta qualità culturale e sociale. La RAI dovrà, secondo noi, sempre più, realizzare un'offerta editoriale dai contenuti diversi e migliori da quelli degli altri media, a incominciare dalle tivù private, ma soprattutto da quelle commerciali, con strumenti tecnologici adeguati e capaci di innovarsi costantemente secondo l'evolversi veloce della tecnologia, tenendo conto della necessità di raggiungere sempre standard essenziali di economicità e trasparenza nella gestione, grazie anche a risorse certe ed adeguate. In questo senso, condividiamo la riforma del canone con il pagamento da parte degli utenti di un contributo che non potrà essere evaso, ma più basso sicuramente di quello attuale, sino ad arrivare, anche se gradualmente, agli 80 euro.
  Certo si può obiettare, come è stato fatto in queste settimane da più parti, sul ruolo del mercato, come il mercato, più che il pubblico, potrebbe rendere il prodotto migliore e più competitivo. Ma essere competitivi non sempre nella comunicazione televisiva vuol dire essere i migliori, di più alta qualità, perché è evidente che il pubblico e il mercato hanno, o possono avere, obiettivi diversi. Ed è per questo che noi siamo convinti che anche nell'era del digitale non sia venuta meno la funzione primaria del servizio pubblico, perché questo comunque rimane un investimento, soprattutto se costruito e gestito bene. Non è un costo, ma un investimento che crea non solo valore sociale, ma culturale e formativo, oltre che economico. Ci sono studi di altri Paesi occidentali che dimostrano tutto ciò. Certo il servizio pubblico deve evolvere, anche sotto l'aspetto normativo e gestionale e torniamo Pag. 20a ripetere: questo disegno di legge non è sufficiente, ma è sicuramente un passo importante verso questa direzione. Si tratta ora di definire con quale missione, quindi con quali obiettivi, mezzi e risorse, per essere un servizio pubblico rispondente ad un mondo cambiato, ad un mondo sicuramente nuovo.
  Noi abbiamo tentato anche con questo breve intervento di indicare una strada anche oggi, ma con il dibattito su questo provvedimento e con la sua approvazione – che noi come gruppo Per L'italia – Centro Democratico condividiamo – sicuramente sarà possibile, in vista del rinnovo della concessione RAI nel 2016, svolgere un approfondito confronto dentro e fuori le istituzioni con tutti i soggetti della società civile interessati per costruire la RAI del nuovo millennio, sicuramente più tecnologica, più digitale, ma soggetto vero per la crescita culturale, sociale e democratica del nostro Paese.

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Simone Valente. Ne ha facoltà.

  SIMONE VALENTE. Grazie Presidente, il disegno di legge, che voi avete impropriamente definito: riforma della RAI e del servizio pubblico radiotelevisivo, interviene nel campo del testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici, incidendo in particolare sul modello di governance e sull'attività gestionale della società concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo.
  Per affrontare un tema simile, a mio modo di vedere, bisogna avere chiari alcuni principi e alcuni parametri dettati dalla nostra Costituzione, fondamentali per garantire ai cittadini il pluralismo dell'informazione. Allora nel mio intervento in quest'Aula voglio ricordare a tutti i colleghi e a tutte le forze politiche questi principi, che peraltro saranno oggetto della nostra pregiudiziale di costituzionalità, perché appare evidente che nella stesura di questo disegno di legge e durante la discussione in Commissione non siano stati minimamente presi in considerazione.
  E allora ecco che il servizio pubblico, finanziato in larga parte dalla collettività e affidato per concessione ad una società per azioni, può considerarsi conforme ai principi costituzionali, soltanto se lo Stato è in grado di soddisfare quelle condizioni minime necessarie affinché la proprietà pubblica, nell'ambito della radiodiffusione sonora e televisiva, possa, appunto, giustificarsi.
  Tale condizione connaturata al servizio pubblico assume una connotazione ancora più forte in un sistema radiotelevisivo aperto agli operatori privati. Il parametro di valutazione è costituito dall'articolo 21 della Costituzione, che garantisce la libertà di manifestazione del pensiero, non soltanto nella sua accezione attiva intesa come diritto di informare, ma anche nella sua accezione passiva di diritto del cittadino di essere informato attraverso una pluralità di fonti, cosicché questi possa essere messo in condizione di compiere le sue valutazioni, avendo ben presente punti di vista differenti e orientamenti culturali contrastanti. Queste ultime frasi non le dico io, ma le dice la Corte costituzionale in una sentenza del 1993.
  Non vi è dubbio che tra le richiamate condizioni minime necessarie, che il servizio pubblico radiotelevisivo deve soddisfare al fine di giustificare la propria esistenza, si rilevi al di sopra delle altre l'indipendenza dai poteri economico e politico. La Corte costituzionale in un'altra sentenza del 1974 ha osservato che il servizio pubblico è chiamato a garantire il conseguimento di precisi obiettivi, tra i quali l'imparzialità, la completezza e l'apertura dell'informazione a tutte le correnti culturali, e ha stabilito che rispetto a tali ineludibili finalità la legge statale debba garantire che gli organi direttivi dell'ente gestore non siano costituiti in modo da rappresentare direttamente o indirettamente espressione esclusiva o preponderante del Governo e che la loro struttura sia tale da garantire l'obiettività.
  Citati e illustrati questi bellissimi principi, che tutti dovrebbero avere bene in mente, torniamo un attimo alla realtà. E torniamo alla realtà per denunciare con Pag. 21forza il modello che, invece, il Governo vuole portare avanti e sta portando avanti di servizio pubblico, con la solita complicità della maggioranza parlamentare. Perché dico questo ? Perché in una RAI attualmente lottizzata, in cui i partiti si spartiscono posti nel CDA piazzando le loro persone di fiducia, con questo progetto di legge il Governo pensa bene di affidare poteri ancora più ampi all'amministratore delegato, che ovviamente verrà nominato direttamente dalla Presidenza del Consiglio.
  Dico che, se le nomine del consiglio di amministrazione sono ridotte a una misera spartizione territoriale, dove ciascuno ha come obiettivo quello di assicurare in un posto uomini fidati, magari per garantirsi un trattamento televisivo devoto in fase elettorale, allora le speranze di avere una televisione pubblica indipendente sono pari a zero. Questo mi sembra ben chiaro. Il vostro obiettivo è questo: occupare la televisione pubblica, al di là dei proclami sbandierati. Noi, invece, andiamo in un'altra direzione: noi vogliamo – lo abbiamo dichiarato sempre e continueremo a dichiararlo – una RAI definitivamente libera dai partiti.
  Proprio per questo, fin dall'inizio dall'esame in Commissione, il MoVimento 5 Stelle ha avuto un atteggiamento costruttivo e collaborativo, al fine di migliorare questo testo, nonostante la nostra assoluta contrarietà a questo provvedimento. Abbiamo presentato 70 emendamenti, tutti nel merito, illustrandoli e cercando di confrontarci con le altre forze politiche. Un confronto che, come spesso accade in quest'Aula, ma anche nelle Commissioni, non c’è stato. Anzi, il Partito Democratico ha voluto accelerare il dibattito in maniera frenetica con diverse forzature, dando vita a un esame flash in Commissione. Voglio ricordare a quest'Aula che stiamo analizzando un disegno di legge, non un decreto-legge con una scadenza ben specifica. Quindi, avevamo e abbiamo ancora tutto il tempo per analizzarlo. Non c’è l'obbligo di chiudere l'analisi degli emendamenti a data certa. Ricordo che l'esame degli emendamenti è durato 8 ore e 20 minuti. Sì, 8 ore e 20 minuti per discutere di un tema fondamentale per uno Stato. Questo è il Parlamento italiano ad oggi.
  Posso dire che stiamo assistendo all'ennesima farsa: un finto dibattito parlamentare, in attesa che il vostro Presidente del Consiglio annunci qualche slogan dopo l'approvazione. Altro che indipendenza del servizio pubblico: i partiti sono tutti d'accordo per continuare ad occupare il servizio pubblico. Renzi vuole plasmare a suo piacimento la televisione pagata dai cittadini con il canone RAI.
  La vostra priorità resta continuare ad avere il controllo sull'informazione. La politica finanzia i giornali e i giornalisti – spesso sfruttati e sottopagati –, i quali scrivono e trasmettono in TV solo ciò che la politica ha deciso di far sapere ai cittadini. È un sistema distorto, che ha fatto sborsare allo Stato 51,5 milioni di euro per il 2015 in favore dell'editoria (ricordo che si tratta di 1,5 miliardi di euro negli ultimi dieci anni) e che colloca l'Italia al settantatreesimo posto per libertà d'informazione. Ormai lo ripetiamo come un mantra in quest'Aula.
  Allora, mettiamo insieme la mancanza di una seria legge sul conflitto d'interessi, il monopolio dei grandi gruppi editoriali sulla distribuzione e sulla raccolta pubblicitaria, la lottizzazione partitica della RAI ed ecco configurata una vera e propria dittatura mediatica. Associamo quest'ultima a una dittatura governativa, fatta di un solo uomo al comando, che ha esautorato il potere e il ruolo del Parlamento, e poniamoci una domanda: viviamo in uno Stato democratico ? La risposta ai cittadini.
  Noi andiamo avanti. Il nostro gruppo parlamentare va avanti. È nostro preciso compito avere fiducia nell'indipendenza della televisione pubblica, sforzandoci di immaginare un futuro in cui i membri del direttivo RAI siano selezionati per la competenza comprovata nel settore e per l'indiscutibile terzietà rispetto al potere politico. È questo che continueremo a portare avanti. La logica è semplice, basterebbe capirla: costruire una RAI indipendente dai partiti politici per favorire un reale Pag. 22pluralismo dell'informazione (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

  PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Pannarale. Ne ha facoltà.

  ANNALISA PANNARALE. Grazie, Presidente. Colleghe e colleghi, sottosegretario, l'avete chiamata riforma della RAI. È un titolo importante, ambizioso, persino necessario in un mondo comunicativo così profondamente modificato e con un servizio pubblico oggi svilito e inadeguato. È un titolo impegnativo, ma – devo dire – troppo sproporzionato al carattere triste e modesto della vostra proposta. Questo disegno di legge governativo è un tentativo mediocre e sbagliato di raccogliere quella che dovrebbe essere, innanzitutto, una sfida culturale ed educativa.
  Troppe sono le domande cruciali cui questa riforma non si è preoccupata di rispondere, domande da cui qualunque riforma all'altezza della contemporaneità avrebbe dovuto prendere le mosse.
  Una su tutte: c’è ancora bisogno oggi del servizio pubblico radiotelevisivo di fronte alla vastissima disponibilità e pluralità dei nuovi media ? Può essere ancora attuale il servizio pubblico in un contesto segnato da nuovi linguaggi, da nuove pratiche di produzione e di fruizione legate a Internet e alla digitalizzazione ? Qual è la sua missione, quale può essere un nuovo ruolo competitivo dentro la grande industria creativa e digitale ? Di qua sarebbe stato interessante partire, avviare una discussione, un confronto, anche sul piano emendativo. E, invece, quella nelle Commissioni è stata una discussione chiusa, neutra, incredibilmente noiosa perché adeguata al profilo tutto tecnico, burocratico e gestionale del provvedimento. La Conferenza dei presidenti di gruppo aveva fissato al 19 ottobre l'inizio della discussione in Aula. Eccoci qua, i compiti sono stati svolti con grande solerzia e con toni anche sufficientemente pacati da parte delle opposizioni. Siamo in Aula, ma il risultato è di grande pochezza. Devo riconoscerle, sottosegretario, di essere stato costantemente presente nei lavori delle Commissioni congiunte e di aver persino risposto a qualche interrogativo delle opposizioni. Ma i suoi, insieme a quelli dei due relatori di maggioranza, sono stati alla fine soltanto dei «no», solo pareri esclusivamente negativi, detti in maniera educata, certo, anche con una sufficiente cura dello stile, ma quella che abbiamo raccolto è stata soltanto indisponibilità assoluta all'accoglimento di emendamenti trasformativi. Persino di fronte ad emendamenti di principio c’è stata chiusura, disinteresse; quegli emendamenti che avrebbero certamente migliorato un testo scarno e poco coinvolgente; quegli emendamenti che parlavano di pluralismo, di indipendenza, di parità di accesso, di trasparenza, di promozione della crescita culturale collettiva. Tutto ciò di cui non troviamo traccia in questo disegno di legge. Persino nelle nostre proposte emendative al comma 2 dell'articolo 4, quelle, ad esempio, che si occupano di definire meglio i principi direttivi nella delega sulla programmazione dedicata ai minori, ci siamo sentiti rispondere «non c’è la possibilità di cambiare nulla, ma potrete sempre raccogliere le vostre indicazioni in una risoluzione». A pensarci bene, io la ringrazio per il suggerimento della risoluzione, ma devo dire che è stato piuttosto bizzarro aver dato questo suggerimento mentre si stavano votando emendamenti che avevano il compito, se accolti, di migliorare il testo. Non ha forse significato ammettere in maniera piuttosto esplicita il carattere blindato del provvedimento ? E non crede, sottosegretario, che sia mortificante, svilente di ogni mandato parlamentare, prendere parte, ormai quotidianamente in questa legislatura, a discussioni rituali e a votazioni dall'esito scontato ? Ancora di più quando ci si trova davanti all'ostinata e cieca difesa di cosiddette riforme che pensano di risolvere quelle che sono gigantesche questioni culturali e di sistema con meri interventi gestionali e di governance.
  La stessa scadenza a maggio 2016 della concessione RAI avrebbe dovuto imporre un ripensamento profondo del sistema pubblico radiotelevisivo e plurimediale Pag. 23come cuore della riforma. Occuparsi oggi del futuro del servizio pubblico significa occuparsi della qualità della democrazia, di diritti fondamentali delle persone e non di semplici prerogative di utenti e di consumatori. Significa occuparsi di un'informazione sempre più libera e plurale, di ricercare contenuti nuovi e originali, di personale qualificato, esperto, che sia inquadrato in contratti stabili e per questo impermeabili ad ogni forma di ricattabilità. Significa porsi l'obiettivo di superare quelle barriere e quelle fratture culturali e generazionali prodotte oggi proprio dalla moltiplicazione di piattaforme, linguaggi e contenuti. Riscoprire un ruolo nuovo e attuale del servizio pubblico chiede forse di immaginare la TV pubblica come agenzia educativa informale e intenzionale, che sappia passare da un'educazione attraverso i media ad un'educazione ai media. Quindi, non soltanto pluralità e qualità dei contenuti, imparzialità e completezza delle informazioni, parità di accesso al diritto di informazione, ma anche e in particolare strumenti di approccio consapevole e responsabile al medium stesso. Queste sono condizioni fondamentali per ridurre quel gap di accesso e conoscenza che aumenta inesorabilmente proprio nella vastità dello scenario mediatico e della moltiplicazione dei canali e delle reti. La media education in Gran Bretagna è una disciplina curricolare da oltre vent'anni e non è un caso se nella tradizione britannica il servizio pubblico prevede una sorta di rapporto biunivoco tra educazione ai media e vigilanza popolare.
  La vigilanza popolare, cioè, è possibile perché la cittadinanza è a sua volta educata ai media tanto da avere gli strumenti per controllare costantemente che gli stessi rispettino pluralismo e indipendenza dai poteri. E invece qui succede che persino l'unica domanda cui vi siete preoccupati di rispondere in questo provvedimento, in che modo cioè debba essere governata la RAI, ve la siete posta nella maniera parziale e dannosa, perché avete dimenticato la seconda parte della domanda, quella fondamentale. La domanda integrale non è in che modo deve essere governata la RAI ma in che modo deve essere governata per salvaguardare la sua autonomia e indipendenza. Per garantire pluralismo e appartenenza ai cittadini, senza più le manipolazioni e i condizionamenti derivanti dalla divisione in lotti di questi decenni. Nel confronto con gli altri Paesi europei il sistema pubblico italiano si è sempre distinto per il suo intreccio saldissimo con la politica. Sebbene sia stata fondamentale nel secolo scorso l'intuizione della necessità democratica di un servizio pubblico radiotelevisivo, dal dopoguerra ad oggi, attraverso le diverse modifiche, la composizione degli organi di governo e di controllo della RAI è stata sempre espressione di un opprimente e a tratti opaco equilibrio partitico. La stessa Commissione di vigilanza, che ha compiti di controllo e di indirizzo, vede nominati i propri componenti attraverso le designazioni dei gruppi parlamentari, riproducendo quindi anche in essa una certa proporzionalità tra le diverse forze politiche.
  Matteo Renzi più di un anno fa aveva promesso di sottrarre la RAI ai partiti e di restituirla ai cittadini. In effetti un po’ l'ha sottratta ai vari partiti e al Parlamento, ma per metterla nelle mani salde e avvolgenti del partito di maggioranza e del Governo. Dei cittadini, di come riattivare partecipazione e interesse collettivo per il servizio pubblico, neanche l'ombra.
  Poteva esserci con questa riforma l'occasione di affrontare finalmente il nodo di un'assenza sostanziale nel nostro sistema pubblico di soggettività ed espressioni delle parti sociali e della cittadinanza attiva, che avessero qualcosa di molto differente da un mero ruolo consultivo e per nulla incisivo sugli indirizzi e sulla programmazione. Doveva esserci l'urgenza di scardinare quel criterio omologante della audience per creare un'offerta editoriale intelligente ma si è andati in direzione opposta e pericolosa. Devo dire che si riaffaccia e si è riaffacciato stridente nell'analisi emendativa di questo provvedimento in questo testo il ricordo de «La buona scuola», un intervento regressivo e Pag. 24autoritario, che ha verticalizzato il sistema scolastico ed è andato a ledere collegialità e libertà d'insegnamento.
  Stesso verso autoritario e regressivo in questa cosiddetta riforma, con la concentrazione di un enorme potere nella figura dell'amministratore delegato, di nomina governativa e dotato anche di potere di gestione sul personale, e con un CdA non più parzialmente eletto dalla Commissione di vigilanza bensì emanazione del Governo e delle Camere, cioè della maggioranza di Governo grazie alla perniciosa combinazione con l'Italicum: è così, sottosegretario, il testo è sotto gli occhi di tutti. Il cuore di questa riforma è ahimè costituito da un'architettura inquietante e incostituzionale che fa del servizio pubblico un sistema al servizio del Governo.
  Del resto è dallo stesso dossier del Servizio Studi possiamo intuire che la vostra riforma si pone in netto contrasto con quanto più volte affermato dalla Consulta, sia sul fatto che la RAI sia delicata materia parlamentare sia sul punto che la gestione non possa essere espressione diretta o indiretta del potere esecutivo. Il servizio pubblico non è tale perché nelle mani dello Stato, o meglio del Governo, è pubblico perché è destinato, rivolto al pubblico, perché bene della collettività e per la collettività.
  Voi state costruendo le condizioni affinché chi è al Governo possa piegare il servizio pubblico ai propri bisogni e interessi, a quella propaganda che spesso occulta il vero ed esalta il poco che c’è. Oggi però ci siete voi, non è detto che questa situazione francamente in una democrazia rimanga cristallizzata. Non vi siete neanche fermati davanti all'insostenibilità etica di tutte le deroghe che prevedete agli obblighi del Codice degli appalti in contrasto con la stessa normativa comunitaria o di fronte, devo dire, all'enorme impudicizia dell'articolo 5 che prevede che all'attuale direttore generale, quello che è stato designato soltanto ad agosto, vengano attribuiti tutti i poteri e tutte le funzioni previste per l'amministratore delegato, il punto che peraltro sta maggiormente a cuore al Presidente del Consiglio e che giustifica l'urgenza di portare a casa rapidamente un testo così povero sul piano culturale e così invece invasivo sul piano gestionale, nonostante il CdA sia stato già eletto.
  Noi, però, non abbiamo soltanto contestato la vostra riforma, abbiamo proposto anche alternative, con una proposta di legge che è abbinata, con emendamenti che riguardano la definizione della missione di servizio pubblico ma anche il piano della governance, con organismi indipendenti come il Consiglio per le garanzie del servizio pubblico, con modalità di elezione differenti per il CdA, con organismi rappresentativi delle diverse articolazioni e istanze sociali e culturali del Paese nel grande settore dei media.
  Abbiamo provato a dire che servono eccellenza, qualità e capacità dei lavoratori, degli autori, dei dirigenti e dei giornalisti; una televisione coraggiosa, che non si limiti ad adattarsi agli istinti del pubblico, abbassando il livello di una programmazione che, francamente, per qualità è diventata un insulto per ogni cervello che sia mediamente intelligente; una televisione che sappia esplorare, sperimentare, proporre standard qualitativi più alti, che sappia sostenere le produzioni indipendenti, i giovani artisti, i nuovi progetti editoriali, investire in coproduzione europea.
  Neanche di finanziamento abbiamo potuto parlare, neanche di finanziamento dopo la soppressione della delega al Senato, neanche dell'opportunità di coniugare la certezza delle risorse con l'equità sociale, attraverso una progressività fiscale del canone. Eppure, il finanziamento dovrebbe essere fondamentale per garantire l'indipendenza editoriale del servizio pubblico. Insomma, abbiamo provato a dire molte cose, ma ci siamo scontrati con il muro di chi pensa che i progetti culturali possano essere affidati a uomini soli e a meccanismi di potere.
  Io lo voglio dire, e mi avvio a concludere, siete sempre in tempo per fare un lavoro di ripensamento in quest'Aula, per restituire senso, prestigio, competitività a quella che dovrebbe essere la più grande Pag. 25industria culturale italiana. L'alternativa sarebbe una morte lenta, ma certa del servizio pubblico. Sarete responsabili anche di questo, a meno che non capiate in tempo che lo smantellamento dei pilastri della democrazia prima o poi travolge chiunque, anche chi lo innesca, questo smantellamento, in un delirio di onnipotenza, perché il potere è finito, lo dico alla maggioranza e lo dico al Governo, il potere è finito e prima o poi anche il potere è chiamato a rispondere ai propri rappresentati.

  PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

(Repliche dei relatori e del Governo – A.C. 3272-A)

  PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare il relatore di minoranza, onorevole Fico. Le sono rimasti tre minuti.

  ROBERTO FICO, Relatore di minoranza. Grazie Presidente, tutta la discussione che ho ascoltato con molto interesse e che già avevo ascoltato nelle Commissioni competenti non mi convince. Non mi convince la relazione di maggioranza, non mi convince l'agire del Governo e sono abbastanza sconcertato e deluso dal come è stata portata avanti questa riforma, alla fine, della governance della RAI. Io sono convinto, e lo ripeto per l'ennesima volta, che tutta questa accelerazione deriva esclusivamente dal fatto che bisogna trasferire i poteri di amministratore delegato al direttore generale, ma che verranno sommati a quelli di direttore generale per escludere un po’ di più il consiglio di amministrazione e far avere più potere a una sola persona che è l'emanazione diretta del Governo e, quindi, del Presidente del Consiglio.
  Io vorrei, a volte, attribuire buona fede totale a quello che si fa, però, puntualmente, quando poi vado a leggere i testi di legge, non ci riesco fino in fondo, perché non capisco la ratio di ciò che c’è scritto, perché se non c’è un pensiero differente dietro, rispetto all'indipendenza del servizio pubblico, allora non capisco cosa possa muovere l'azione del Governo. Se io voglio rendere indipendente il servizio pubblico, perché è l'unica ragione per cui il servizio pubblico esiste – non ce ne è un'altra, perché se il servizio pubblico non fosse indipendente io non farei pagare il canone ai cittadini –, nel momento in cui io voglio un servizio pubblico indipendente, plurale e che produca cittadini di maggiore qualità, io non posso avere il testo di legge che oggi voi ci consegnate in quest'Aula; e già state prevedendo, nella discussione che avremo domani, di applicare l'articolo del Regolamento della Camera che prevede, praticamente, l'annullamento, la cancellazione della maggioranza degli emendamenti che l'opposizione presenterà, perché dovete andare veloci, perché probabilmente dovete fare le nomine alle nuove newsroom o alla newsroom unica, poi si vedrà.
  Allora, a me piacerebbe molto di più – dico questo al Parlamento e al Governo – di giocare a carte scoperte e dire: noi vogliamo questo; allora possiamo confrontarci in modo molto più serio, invece di dire «noi vogliamo questo» e poi si fa un'altra cosa. Puntualmente questo non fa bene al Paese, non fa bene agli italiani e mina la credibilità di tutti i componenti del Governo e della maggioranza. Noi ci opporremo con tutta la forza, non solo a questo provvedimento ma a tutte le azioni che ogni giorno vediamo essere scellerate.

  PRESIDENTE. Prendo atto che la relatrice per la maggioranza per la VII Commissione, onorevole Bonaccorsi, rinunzia alla replica.
  Ha facoltà di replicare il rappresentante del Governo.

  ANTONELLO GIACOMELLI, Sottosegretario di Stato per lo sviluppo economico. Signor Presidente, ho seguito il confronto e mi pare di dover all'Aula alcune risposte, anche se non è la prima volta che ci troviamo a confrontarci su questi stessi temi. Diceva ora il presidente Fico: mi Pag. 26piacerebbe molto che giocassimo a carte scoperte. Noi abbiamo provato a farlo dal Senato e io ci riprovo ancora oggi; il punto è uno solo: se a una linea che viene esposta da Governo e maggioranza la risposta è la ricerca della dietrologia, il meccanismo non funziona. Io ribalto il tema: se comunque l'opposizione deve motivare una posizione contraria, è inutile proseguire nel dibattito, ciascuno farà la sua parte. Se, invece, davvero si ritiene che il confronto sia utile, allora proviamo a farlo come dice il presidente Fico: a carte scoperte. Il Governo l'ha fatto qualche mese fa e ha presentato la propria linea sulla RAI in modo chiaro, anche se ora si dice: dovremmo partire da un altro punto, perché si parte dalla governance ? Il Governo ha presentato un'idea di servizio pubblico e di RAI articolata su tre atti, su tre provvedimenti, e li abbiamo specificati: la trasformazione della governance, la riforma del canone, il rinnovo della concessione con ridefinizione della mission di servizio pubblico. E perché quest'ultimo punto non fosse vago, come pure si continua a dire, il Governo ha approvato un documento con le linee guida di proposta del Governo. Non sono i comandamenti scolpiti nella pietra, sono una proposta di cui si può discutere. Di quello ! Allora, abbiamo iniziato il percorso sul provvedimento della governance, l'abbiamo fatto al Senato e sfido chiunque a dire qui che il provvedimento che è uscito dal Senato è lo stesso che è entrato come proposta del Governo. Sfido chiunque ! È certo che istituzionalmente il Senato è una Camera diversa dalla Camera dei deputati, ma i gruppi politici non sono diversi, a meno che non abbiamo scoperto nella modernità anche l'incomunicabilità dei gruppi sulla base della Camera. Vi è stato un dibattito serio, una disponibilità, e sono stati compiuti quello che io giudico passi avanti. Sono esauriti i margini di miglioramento ? Io credo di no. Credo di no e, come in Commissione i relatori hanno mostrato attenzione e disponibilità su alcuni punti e, come già detto, prenderanno iniziative in Aula su alcune delle questioni oggetto del dibattito, sono a ribadire questo punto. Il canone appartiene a un altro testo, a un altro disegno di legge, la stabilità: ci sarà l'occasione di discuterne. Non credo si possa parlare di una straordinaria sorpresa, ne discutiamo da un anno ! Non è che il Governo ha tirato fuori il coniglio: è una scelta seria su cui non abbiamo forzato un anno fa perché non tutti i tasselli e gli approfondimenti erano stati fatti, ma quella è l'idea: togliere l'evasione e abbassare il canone per i cittadini; abbassare il costo del canone per chi l'ha sempre pagato e colpire gli evasori. Non so che cosa c’è di misterioso. Credo che questi possano essere punti almeno largamente condivisi. Poi, certo, ne parleremo – l'ha ricordato il presidente Buttiglione e Lainati più volte in Commissione e qui l'ha detto –, c’è un appuntamento: il rinnovo della concessione; discuteremo. Noi abbiamo già detto quali sono le linee, non sono misteriose. Quando sento parlare del servizio pubblico solo in relazione – ed è un punto certo importante – all'aspetto informativo, è certo che quella è una questione, penso però che sia una visione riduttiva della realtà di oggi.
  Il servizio pubblico ha un compito, oggi, molto più ampio: essere il perno di un sistema-Paese, in una dimensione nella quale noi rischiamo di essere semplicemente terreno di conquista culturale, o fornitori di benzina a titolo gratuito, macchine di altri, se, in termini di trasformazione del ruolo della RAI e del rapporto con il mondo della creatività italiana, non c’è una definizione più forte e più precisa.
  Ma io vorrei dedicare invece due minuti solo ai punti emersi su questo testo, sul testo di riforma della governance. I principi sono stati ricordati: pluralismo, imparzialità, completezza. Si dice che questo testo stravolga l'equilibrio dei poteri a vantaggio del Governo: questa è la sostanza dell'accusa. Quindi io desumo che, a giudizio delle opposizioni, il sistema attuale non è così ! Come se le cose accadute negli anni passati in questo Paese, con la modalità attuale di gestione del servizio pubblico, appartenessero all'Iperuranio ! Chi porta la responsabilità ultima delle scelte e della gestione, se non Pag. 27la maggioranza ? Finché la Corte costituzionale ancorerà al Parlamento il rapporto al servizio pubblico, è del tutto evidente; ma è stato così fino ad ora, è così ora, che c’è una maggioranza che ha la responsabilità, sia pure nella forma mediata che conosciamo, della scelta ultima dell'indirizzo. O no ? O non ricordiamo alcuni fatti accaduti ?
  Quello che noi diciamo, è che questo, il rapporto tra istituzioni e servizio pubblico, si è trasformato in una commistione tra la gestione e la politica. Questo aspetto va superato ! Per noi è un male, va eliminato; mentre va rafforzato il rapporto tra l'istituzione parlamentare, prima di tutto, e il servizio pubblico.
  Per questo il testo propone l'elezione in Aula dei rappresentanti parlamentari, e non nella Commissione. Non perché cambino le maggioranze: altrimenti, se questo è il senso e questa è l'attesa delle opposizioni, certo non c’è dialogo; non è che noi possiamo modificare le maggioranze per decreto-legge. È logico che ogni riferimento alle istituzioni ha prima di tutto un riferimento a chi ha maggior ruolo, per il voto dei cittadini, nelle istituzioni. Lo portiamo in Aula, e diminuiamo il numero, esattamente per accendere i riflettori sulla scelta delle persone, per favorire la ricerca delle personalità migliori, più forti.
  Dice il presidente Fico, e non è la prima volta, abbiamo già discusso di questo: perché non prevedete la maggioranza dei due terzi su ogni nome ? Essenzialmente per due motivi (lo dico con franchezza, io rispetto l'opinione diversa): perché questo rischia di determinare uno stallo, e perché questo rischia di esser letto dalla mattina dopo – non dico dal presidente che lo propone, immagino lo condivida –, da qualunque osservatore come il fatto che non ci sarà nessuna nomina se il Governo non l'approva, se la maggioranza non l'approva. Perché è del tutto evidente che ogni nome approvato dai due terzi dei voti significa consegnare le chiavi alla maggioranza di ogni nome; tanto più con maggioranze – lo ricorda il presidente Fico – non sempre disponibili al coordinamento. Mi piacerebbe dire qualche volta che questo tema del «non disponibile al coordinamento» appartiene anche alla maggioranza e ai suoi gruppi, ma lasciamo stare ora l'analisi della realtà: diciamo che il voto limitato tradizionalmente è il sistema che garantisce il fatto che non sia solo espressione di maggioranza. Quindi si può condividere o non condividere, ma non c’è una dietrologia: questo è il motivo !
  Nell'equilibrio dei poteri, questo testo riporta chiarezza di responsabilità. Il consiglio di amministrazione ha un potere enorme che non ha mai avuto: non solo approva i testi fondamentali, ma nomina l'amministratore proposto dal Governo, nomina e revoca, se crede, l'amministratore. Il consiglio di amministrazione è a maggioranza parlamentare: allora, se parliamo del rapporto tra istituzioni, Governo-Parlamento, questo testo rispetta pienamente la centralità del ruolo parlamentare; se parliamo del rapporto tra maggioranza e opposizioni, è un altro tema, ma questo tema non esiste per un testo di legge che può rovesciarlo !
  Allora, il consiglio di amministrazione ha il potere di nomina, di revoca e di approvazione del piano industriale, del piano editoriale, del preventivo di spesa annuale, anche con riferimento agli investimenti superiori ai dieci milioni, del piano per la trasparenza; approva cioè gli atti e le linee fondamentali, mentre l'amministratore delegato gestisce, realizza e, se il CdA ritiene che la gestione non sia coerente con le indicazioni fornite, viene revocato, solo sentito l'azionista. A me pare che l'equilibrio dei poteri ci stia tutto, tuttavia ciascuno ha le sue responsabilità; la commissione di vigilanza ha il potere di controllare che i principi siano attuati e rispettati, che la caratteristica di servizio pubblico sia integra, nonché quello di avere relazioni annuali ed un controllo efficace, ma non altri. Quella linea di commistione, che vi è sempre stata negli anni passati, deve interrompersi; la gestione appartiene all'amministratore che Pag. 28ne risponde pubblicamente (ne risponde), mentre il potere di indirizzo dell'azienda appartiene al CdA.
  Si è detto, infine, che vi sono state scarse modifiche, in particolare, nell'ultimo intervento, e più volte da parte di SEL è stato segnalato. Lo dico fin d'ora, su alcuni punti assumeremo nuove iniziative, anche sul tema della trasparenza; sulla questione del rapporto con il codice degli appalti, voglio esprimere con chiarezza l'opinione del Governo: non è in alcun modo quella di uscire da una certa disciplina; al contrario, quella stessa disciplina riconosce una specificità di RAI. Vogliamo soltanto prevedere delle tutele ossia che, nella sua attività propria, RAI sia in condizione di stare esattamente nella dimensione di azienda sul mercato; per tutto quello che non appartiene ad una specifica attività, su cui peraltro valgono le regole europee, quindi trasparenza, obbligo di economicità e buon amministrazione, su tutto il resto valgono le norme. Quindi, discutiamo nel merito, scriviamolo nel modo migliore ma non ci sono questioni strane.
  Sulla trasparenza facciamo un passo in avanti notevolissimo; abbiamo raccolto alcuni spunti del dibattito e vogliamo ulteriormente precisarlo (i relatori lo faranno).
  Infine, vi è l'invito ad una consultazione, a mettere alcuni punti fermi nel processo di rinnovo della convenzione; se questo è il tema, siamo disponibili al confronto e a raccogliere l'invito alle modifiche; ma personalmente, e lo dico con franchezza, anche per raccogliere l'invito alle carte chiare, non sono molto convinto di irrigidire il meccanismo della revoca con i due terzi. Intanto andrebbe oltre la disciplina attuale che prevede la revoca da parte della Commissione di vigilanza ma non prevede una maggioranza qualificata. Temo che finiremmo, in questo caso, per ingessare uno strumento, creando, in difformità con il meccanismo delle responsabilità che è stato creato in azienda, un ruolo speciale e quindi non mi convince fino in fondo. Tuttavia, nessuno sbarramento preventivo: se l'atteggiamento delle opposizioni anche in aula sarà, come è stato in Commissione e come è stato al Senato, quello di un confronto anche serrato nel merito, da parte del Governo, ma sono certo da parte dei relatori, ci sarà piena disponibilità ad approfondire tutti i punti. L'obiettivo del Governo è solo questo: avere un servizio pubblico, una RAI dove la dimensione aziendale prevalga su un certo rapporto malsano e, del resto, ho sentito usare molti termini in questa sede: lottizzazione, pacchetti di nomine, tutti sappiamo quali sono i mali dai quali vogliamo guarire la RAI perché la stessa sia l'azienda del sistema Paese. Questa è l'intenzione del Governo. Gli strumenti si possono condividere o meno ma su questa base, lo dico finora, siamo disponibili, se il clima rimane quello delle Commissioni e quello del Senato, a proseguire il lavoro svolto.

(Annunzio di questioni pregiudiziali – A.C. 3272-A)

  PRESIDENTE. Avverto che, a norma dell'articolo 40, comma 1, del Regolamento, prima dell'inizio della discussione sulle linee generali, sono state presentate le questioni pregiudiziali di costituzionalità Fico ed altri n. 1, Caparini ed altri n. 2 e Brunetta ed altri n. 3. Nel corso della discussione sulle linee generali è stata altresì presentata la questione pregiudiziale di costituzionalità Pannarale ed altri n. 4.
  Le questioni pregiudiziali di costituzionalità saranno esaminate e poste in votazione prima di passare all'esame degli articoli del provvedimento.
  Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.
  Sospendiamo a questo punto la seduta che riprenderà alle ore 16,10.

  La seduta, sospesa alle 16,05, è ripresa alle 16,10.

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Discussione del disegno di legge: Conversione in legge del decreto-legge 20 settembre 2015, n. 146, recante misure urgenti per la fruizione del patrimonio storico e artistico della Nazione (A.C. 3315-A) (ore 16,10).

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione sulle linee generali del disegno di legge n. 3315-A: Conversione in legge del decreto-legge 20 settembre 2015, n. 146, recante misure urgenti per la fruizione del patrimonio storico e artistico della Nazione.
  Ricordo che nella seduta del 29 settembre 2015 è stata respinta la questione pregiudiziale Chimienti ed altri n. 1.

(Discussione sulle linee generali – A.C. 3315-A)

  PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
  Avverto che i presidenti dei gruppi parlamentari MoVimento 5 Stelle e Partito Democratico ne hanno chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del Regolamento.
  Avverto, altresì, che la XI Commissione (Lavoro) si intende autorizzata a riferire oralmente.
  Ha facoltà di intervenire la relatrice per la maggioranza, onorevole Rotta.

  ALESSIA ROTTA, Relatrice per la maggioranza. Signor Presidente, colleghi, Governo, con questo decreto si stabilisce un importante principio, ovvero che la fruizione dei beni culturali diventa – ovvero la fruizione di uno scavo, di una mostra, di un museo – diventa un diritto pieno, così come lo sono la fruizione dei trasporti, la sanità e l'istruzione, cioè diventa un servizio pubblico essenziale. È un fatto rilevante a nostro avviso per un Paese che ospita il maggior numero di siti Unesco, che vanta un patrimonio di beni culturali a più riprese definito troppo poco valorizzato. Inutile ricordare qui che il turismo italiano cresce – proprio in questi giorni abbiamo visto i 20 milioni di visitatori dell'Expo – il nostro patrimonio è apprezzato e così vogliamo, con questo decreto, che sia garantita la possibilità di poterne fruire appieno. Recentemente si sono verificati episodi in cui questo diritto – diritto cioè di poter fruire del nostro patrimonio di beni culturali – non è stato reso possibile, causa il protrarsi di assemblee. Va detto subito, nulla contro i diritti sanciti dalla nostra Costituzione, in primis dall'articolo 40, ma non solo, diritti dei lavoratori che non solo rispettiamo, ma l'intento di questo decreto invece è quello di arrivare a un punto di equilibrio tra l'esercizio di due diritti che riteniamo vadano entrambi garantiti, il diritto appunto di manifestare da parte dei lavoratori per la tutela dei loro diritti ma anche il diritto alla fruizione del nostro patrimonio di beni culturali. Quindi ribadiamo, nulla di illecito nell'organizzare un'assemblea, uno sciopero, nel caso di utilizzo illecito è intervenuta in alcuni casi la magistratura – ricordiamo anche recentemente, la procura di Torre Annunziata – ma da oggi, la fruizione dei beni culturali, con questo decreto, dovrà sottostare alla legge n. 146 del 1990, che prevede come le forme di assemblea e di sciopero dei lavoratori saranno discusse dal cosiddetto Garante, dalla Commissione di garanzia dell'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, assieme alle parti sindacali.
  Chi ha parlato in più occasioni, a più riprese, nell'ambito della discussione di questo decreto, di una privazione dei diritti dei lavoratori ha sbagliato indirizzo, poiché qui non si limitano i diritti dei lavoratori ma invece si regolano quelli con i cittadini. E ha sbagliato indirizzo perché quella norma, la n. 146 del 1990, garantisce, tutela e regola il diritto dei lavoratori a manifestare, secondo le regole tipiche dei servizi essenziali.
  Non si confonda inoltre, come fatto ampiamente in un dibattito pubblico particolarmente acceso, il fine con i mezzi, le carenze possibili riscontrate di organico con un diritto a fruire del patrimonio. Che Pag. 30questo Governo intenda investire in cultura è ormai un fatto chiaro e inequivocabile, una volta di più lo è all'indomani della presentazione della legge di stabilità in cui, ricordiamo, dopo gli anni dei tagli dei fondi alla cultura, nuovi fondi per la tutela del patrimonio e dei grandi progetti culturali sono stati messi a disposizione. Ricordiamo solo qualche cifra doverosa in quest'Aula: 150 milioni di euro per il 2016, 170 milioni per il 2017, 165 per il 2018, con un bilancio del Mibact che aumenta dell'8 per cento nel 2016 e del 10 per cento nel 2017. Ma altri grandi interventi previsti nella legge di stabilità corre l'obbligo qui di ricordare, come il concorso straordinario per 500 professionisti del patrimonio culturale, l'Art-Bonus che sarà stabilizzato e reso permanente al 65 per cento, il potenziamento del Tax Credit cinema e audiovisivo (+25 milioni di euro), +10 milioni ogni anno per la promozione turistica del nostro Paese e +30 milioni ogni anno per archivi, biblioteche e istituti del Ministero. Bene, sarebbe un peccato, con queste risorse investite, poi non poter fruire ampiamente e completamente del patrimonio culturale.
  Voglio qui ricordare, poi, in sintesi, prima della conclusione del mio intervento, quali sono state le correzioni apportate di quello che è stato presentato come un decreto con un unico articolo. Ebbene, ne abbiamo aggiunto uno per chiarire, ancora una volta, il quadro e l'orizzonte nel quale noi ci muoviamo. Lo ribadisco ancora una volta: è l'investimento nella cultura, a tutto tondo, con le risorse con la possibilità e i diritti di poterne fruire ma anche con un principio essenziale, a nostro avviso. Lo avevamo perso purtroppo nelle scorse legislature e invece abbiamo stabilito che i beni culturali saranno inseriti nei livelli essenziali delle prestazioni, quindi come a ribadire, ancora una volta –, e questo diventa il primo articolo del decreto – il diritto delle persone e quindi un livello essenziale delle prestazioni al pari di tante altre prestazioni stabilite come essenziali.
  È stato poi precisato per quali beni culturali, per quali dei beni del nostro patrimonio si applica il decreto e quindi, se in un primo momento c'era un dubbio se solo il patrimonio pubblico o anche quello costituito dai numerosi beni privati fosse compreso, e non è così. E allora con un emendamento noi intendiamo dire e precisare quali siano i luoghi: sono quelli previsti nel codice dei beni culturali, in particolare, quelli dell'articolo 101, comma 3, ovvero gli istituti e i luoghi di cultura, ovvero ancora i musei, le biblioteche, gli archivi, le aree, i parchi archeologici e i complessi monumentali, anche quelli che appartengono a soggetti pubblici, siano destinati alla pubblica fruizione e che esplichino il servizio pubblico.
  Anche qui, una breve precisazione: è stato oggetto di ampia discussione se eventualmente e quali istituti del nostro patrimonio così ampio poter escludere e come meglio definirli per poterne garantire al massimo la stessa fruizione. Noi crediamo che nel nostro patrimonio non ci sia un pezzo di serie A e un pezzo di serie B – è questo l'intento stesso del decreto – e pertanto di tutti i luoghi, così come previsto nel codice, all'articolo sopra citato, sarà parimenti garantita la fruizione.
  Una terza modifica-correzione apportata è quella che chiarisce l'apertura. Nel decreto – così sta scritto – si prevede e si garantisce l'apertura dei beni del patrimonio culturale italiano e noi abbiamo voluto aggiungere, precisare e chiarire che sarà un'apertura regolamentata. Per alcuni, era pleonastico e chiaro che il rinvio sarebbe stato fatto poi alle parti e alla Commissione garante dello sciopero, ma per fugare ogni dubbio abbiamo precisato che sarà un'apertura evidentemente regolamentata nei tempi e nei modi che le parti sindacali vorranno trovare con la Commissione di garanzia dello sciopero (Applausi).

  PRESIDENTE. Ha facoltà di intervenire la relatrice di minoranza, l'onorevole Chimienti.

  SILVIA CHIMIENTI, Relatrice di minoranza. Grazie, Presidente. Il decreto in esame oggi...

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  PRESIDENTE. Le chiedo scusa, onorevole Chimienti. Mi sono dimenticato, ma devo farlo, altrimenti poi vanno via, di salutare gli insegnanti e gli studenti dell'Istituto comprensivo statale «Scopelliti-Green» di Rosarno, in provincia di Reggio Calabria, che assistono ai nostri lavori dalla tribune (Applausi).
   Prego, mi scusi onorevole Chimienti.

  SILVIA CHIMIENTI, Relatrice di minoranza. Grazie, Presidente, di nulla. Il decreto in esame oggi è l'emblema dello stravolgimento continuo della nostra Carta costituzionale. Dei lavoratori pubblici convocano legittimamente un'assemblea per discutere di mancati pagamenti e il Governo risponde con un decreto sul diritto di sciopero. Come capirebbe chiunque, nulla a che vedere tra i due temi: nessun requisito di congruità, né di omogeneità di materia tra i fatti e la soluzione normativa proposta. La necessità e urgenza di intervenire per impedire la convocazione di un'assemblea viene affrontata limitando un altro diritto, quello di sciopero. Il Governo se ne è accorto, o forse ha pensato di usare il pretesto mediatico dell'assemblea per portare a termine un altro piano ? Noi propendiamo per questa seconda opzione e, del resto, i pochi dubbi vengono fugati analizzando la tempistica degli ultimi avvenimenti. Il decreto è stato licenziato dal Consiglio dei ministri immediatamente a seguito dell'assemblea dei lavoratori svoltasi all'Anfiteatro Flavio di Roma il 18 settembre scorso, dalle 8 alle 11 di mattina, regolarmente convocata e preventivamente autorizzata dal dirigente responsabile, in applicazione del contratto collettivo nazionale. Tale assemblea era finalizzata a discutere di problemi urgenti e gravissimi, quali la mancata corresponsione degli emolumenti accessori ai lavoratori, il cui pagamento ha subito ritardi per oltre un anno, nonché il reiterato blocco contrattuale dell'intero comparto.
  La tempistica di emanazione, che, come detto, ha seguito di poche ore l'assemblea, unita alle dichiarazioni del Presidente del Consiglio Renzi e di alcuni esponenti del Governo – tra tutti, il sottosegretario Barracciu, che ha addirittura parlato di «reato» – rendono evidente l'intento punitivo di questo provvedimento.
  Venuto meno il collegamento con i fatti del 18 settembre, e dunque la palese mancanza del presupposto di necessità e urgenza, vi è un altro punto dirimente da affrontare: riguarda la costituzionalità della soluzione proposta. Il decreto interviene, infatti, sulla legge n. 146 del 1990, che, all'articolo 1, comma 2, contiene un elenco tassativo dei servizi pubblici per i quali il legislatore presume che il diritto di sciopero vada contemperato con altri diritti di pari rango costituzionale. Secondo la legge in questione, possono essere considerati servizi pubblici essenziali solo quelli finalizzati a «garantire i diritti della persona costituzionalmente tutelati»: quindi, il diritto alla vita, alla salute, alla libertà e alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all'assistenza e previdenza sociale, all'istruzione e alla libertà di comunicazione.
  Tale elencazione ha carattere tassativo, poiché, in caso contrario, risulterebbe consentita una deroga alla riserva di legge stabilita in materia di sciopero dall'articolo 40 della nostra Carta. La ratio della legge n. 146 del 1990 si fondava, infatti, sulla rilevanza costituzionale del diritto di sciopero, sancita in maniera inequivocabile dalla sentenza n. 290 del 1974, in cui la Consulta dichiara espressamente che «lo sciopero acquista rilievo costituzionale in una duplice direzione: come specifico strumento di tutela degli interessi che fanno capo ai lavoratori (...) e come manifestazione di una libertà che non può essere penalmente compromessa se non a tutela di interessi che abbiano rilievo costituzionale e siano inerenti alla difesa dell'assetto previsto dalla vigente Costituzione».
  Tra questi interessi di rilievo costituzionale, vi erano, secondo il legislatore, anche «i servizi di protezione ambientale e di vigilanza sui beni culturali», considerati, dunque, già inerenti alla difesa dell'assetto previsto dalla Costituzione (ex articolo 9 della Carta). Nonostante il contenuto della legge n. 146, le modalità di Pag. 32esercizio del diritto di sciopero nel comparto culturale e artistico sono state ridefinite anche da un accordo sindacale siglato l'8 marzo 2005.
  Tale accordo, realizzando una sorta di autolimitazione, norma lo sciopero nel settore artistico e culturale e aggiunge tra i servizi pubblici essenziali la «custodia del patrimonio artistico, archeologico e monumentale». Sancisce, inoltre, che in questo settore non vengano proclamati scioperi «nel mese di agosto, nei giorni dal 23 dicembre al 3 gennaio e nei giorni dal giovedì antecedente la Pasqua al martedì successivo».
  Ora, Presidente, qualora il decreto in oggetto venisse approvato, le limitazioni al diritto di sciopero nel settore artistico non sarebbero più solo finalizzate alla conservazione del patrimonio ambientale e culturale tutelato dalla Costituzione (articolo 9) e già prevista dall'accordo sindacale del 2005, ma si estenderebbero fino a includere l'interesse dei visitatori a godere di quel patrimonio, considerandolo come un diritto di pari rango costituzionale.
  E qui sta il punto: noi riteniamo che le prestazioni indispensabili imposte dalla legge n. 146 per il rispetto degli interessi di rango costituzionale contro i quali collide il diritto di sciopero non debbano assolutamente estendersi oltre i limiti della salvaguardia, della protezione e della tutela del nostro patrimonio artistico e culturale, fino a comprendere la fruizione al pubblico e la conseguente apertura perenne dei musei e di tutti i siti.
  Una differenza non di poco conto, su cui è opportuno riflettere: la fruizione di un sito museale a tutte le ore, in forma individuale o aggregata, costituirebbe, di fatto, un «diritto della persona» costituzionalmente tutelato, il che risulta difficile da sostenere. Il MoVimento 5 Stelle non può non concordare con l'intento di rendere il nostro straordinario patrimonio aperto a tutti, ma non accetta che l'unico provvedimento per raggiungere l'obiettivo sia una norma che va nella direzione di limitare il diritto di sciopero di lavoratori vessati da anni di malgoverno e di incapacità di gestire con efficacia il bene pubblico.
  Per tenere aperti i musei e i luoghi della cultura occorre, innanzitutto, chiedersi perché questi luoghi siano stati, anche se per poche ore, chiusi al pubblico e quali siano le rivendicazioni di lavoratori in evidente difficoltà, costretti a turni massacranti e a fare gli straordinari proprio per garantire un servizio adeguato. E, allora, la cultura e il patrimonio artistico del nostro Paese sono un settore strategico da valorizzare e rilanciare, prima di tutto, però, attraverso misure che vadano nella direzione di un incremento degli organici, dell'assunzione di personale dotato dello specifico profilo professionale indispensabile a fornire un servizio in linea con le esigenze del settore.
  Occorre indire regolari concorsi pubblici che consentano di non ricorrere all'istituto dello straordinario e che interrompano l'ormai consueto affidamento a società in house o a società private di parte delle attività connesse. L'esternalizzazione dei servizi non garantisce il reclutamento trasparente dei lavoratori e costringe lo Stato a pagare i propri dipendenti una volta e mezzo in più di quanto avverrebbe se fossero assunti direttamente dal Ministero. Solo nel 2014, il Governo ha finanziato società in house per un importo di 27 milioni di euro, a fronte di 39 milioni complessivi disponibili per spese di investimento nel medesimo anno 2014. Una cifra enorme che impone delle domande: perché questi soldi non possono essere dirottati nel pubblico e perché il Governo non si è mosso per ridefinire organici gravemente sottodimensionati ? Il patrimonio culturale italiano necessiterebbe, per essere rilanciato, della reinternalizzazione immediata di attività come il restauro, la manutenzione e la didattica e di una seria politica di investimenti che rompa, finalmente, il sistema opaco degli affidamenti esterni, poco convenienti e poco chiari (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

Pag. 33

  PRESIDENTE. Prendo atto che il rappresentante del Governo rinunzia ad intervenire.
  È iscritta a parlare l'onorevole Polverini. Ne ha facoltà.

  RENATA POLVERINI. Grazie, Presidente. Ringrazio la collega che mi ha consentito di parlare per prima e cercherò di ricambiare la cortesia non utilizzando tutto il tempo che ho a disposizione.
  Presidente, oggi stiamo discutendo di un decreto-legge con un titolo molto pomposo, ma che in realtà interviene, quasi esclusivamente, sulla limitazione del diritto di sciopero dei lavoratori. Nelle scorse settimane, e in giorni recenti, Forza Italia ha più volte denunciato, anche in incontri pubblici, le pulsioni autoritarie del Presidente del Consiglio. Io credo che quella che poteva sembrare una boutade, o comunque una forzatura, nella realtà, trova riscontro proprio nel decreto-legge che oggi ci apprestiamo a discutere e che nei prossimi giorni, quasi sicuramente, troverà l'approvazione di questo ramo del Parlamento. Io penso, e lo ha detto già la collega che mi ha preceduto, che per la prima volta, nel nostro Paese, possiamo dire che si interviene con la decretazione d'urgenza sul diritto di sciopero che è uno dei diritti garantiti dalla Costituzione, al pari del diritto alla salute, alla mobilità, all'istruzione, alla libertà e alla segretezza delle comunicazioni. È vero, qualcuno potrebbe dire, che già nel 2009 e nel 2012 il legislatore è intervenuto con decreto-legge, ma in quel caso, ci ricordiamo perfettamente, si trattò di introdurre delle piccole norme di adeguamento, nel caso specifico nell'ammontare delle sanzioni e sulla composizione della commissione di garanzia. Questa volta, no ! Questa volta, invece, si interviene pesantemente sul diritto di sciopero nel settore dei beni culturali, peraltro richiamando l'articolo 101 del decreto legislativo n. 42 del 2004, che è quanto di più ampio possa esserci, perché considera luoghi della cultura, sia i musei o le aree archeologiche con milioni di visitatori all'anno, come anche le piccole biblioteche cittadine o gli archivi dei comuni con poche centinaia di residenti. Grazie al lavoro – questo lo voglio riconoscere anche ai colleghi di maggioranza – della Commissione lavoro si è circoscritta l'applicazione nell'ambito dei soli siti appartenenti a soggetti pubblici, altrimenti il testo presentato dal Governo avrebbe avuto un impatto veramente violento e, a mi avviso, nemmeno gestibile. Basti pensare che solo i musei gestiti da soggetti pubblici sono ben oltre 2.500, mentre le biblioteche sono quasi 13 mila, almeno quelle che noi possiamo conoscere. Questo decreto-legge, quindi, presenta una risposta sbagliata ad un tema che pure si era manifestato e che forse andava rivisto con un comportamento assolutamente diverso. Io insisto in quest'Aula, tutte le volte che intervengo, nel ricordare a me stessa, che siamo in una Repubblica parlamentare, almeno questo è quanto ancora la Costituzione prevede, e non si capisce come sia possibile in un Paese a Repubblica parlamentare che si intervenga – insisto su questo perché è un fatto molto grave – su un diritto riconosciuto dalla Costituzione con decretazione d'urgenza.
  Peraltro, come ricordava la collega che è intervenuta prima di me, io faccio fatica a non pensare che il caso Colosseo sia stato quasi costruito a arte, perché faccio fatica ad immaginare – anche se il decreto è scritto male – che il testo si sia trovato pronto in poche ore. Infatti, quell'assemblea non era uno sciopero, come pure all'opinione pubblica invece si è dato di fare credere. Era una semplicissima assemblea, richiesta con sei giorni di anticipo a fronte dei tre che la legge prevede, ed era un'assemblea che, come tutte le assemblee, si tiene a inizio o a fine turno. Quindi, se c'era un colpevole da additare – cosa che comunque non va mai bene alla pubblica opinione – sicuramente era l'amministrazione dei beni culturali, che aveva dato male la notizia, peraltro sbagliando l'orario in ingresso a cosa ormai risaputa.
  Quindi io credo che si è invece creata ad arte una situazione per intervenire ancora una volta con urgenza e per fare vedere al Paese che c’è un Presidente del Pag. 34Consiglio pronto ed immediatamente a riparare agli errori, guarda caso, ultimamente sempre e solo dei lavoratori. Sono lavoratori del pubblico impiego per i quali in quest'Aula abbiamo anche votato una mozione, anzi più mozioni, non più tardi di due settimane fa, lavoratori che dopo tanti anni – è dal 2009 che sono fermi gli stipendi – vedono soltanto 200 milioni assegnati nella manovra finanziaria, che ci auguriamo arriverà nelle prossime ore in questa Camera, e che in quel caso, appunto, addirittura non vedevano riconosciuto il loro diritto al pagamento degli straordinari.
  Guardate bene che la Costituzione interviene anche su questo, dicendo con chiarezza che ai lavoratori deve essere assegnato un giusto reddito rispetto al lavoro che fanno, alla fatica e all'orario e, quindi, anche in questo caso, si era andati contro a quanto il dettato costituzionale appunto assegna.
  Quindi io mi chiedo se è possibile continuare in questo modo. Una parola la voglio anche spendere rispetto alla commissione di garanzia, che è uno degli elementi secondo cui, a nostro modesto parere, occorreva intervenire non con decreto d'urgenza, ma evidentemente andando a riguardare la legge, perché negli anni sicuramente ha mostrato alcune criticità e si poteva sicuramente fare un lavoro migliore. Infatti il garante, ultimamente – è noto ormai –, interviene quasi ed esclusivamente a condannare il comportamento dei lavoratori, quando voi sapete meglio di me che le competenze assegnate alla commissione di garanzia devono andare anche a individuare laddove c’è un problema, per cui appunto si interviene con uno sciopero.
  Siccome in quest'Aula ci sono tanti colleghi, che come me si sono occupati dello sciopero nella nostra precedente attività, sapete perfettamente che anche rispetto alle sanzioni si sa quando vanno pagate, si sa chi le deve pagare, si sa dove si devono pagare, ma se poi nei gradi di giudizio successivi l'organizzazione condannata al pagamento ottiene una vittoria, non sa da chi e come andare a farsi restituire la sanzione che già aveva pagato.
  Quindi di punti, secondo me, sia a favore dei lavoratori ma anche e soprattutto a favore dei cittadini, ce ne erano tanti sui quali bisognava riflettere. L'ultimo era quello che, invece, viene toccato con questo decreto d'urgenza. Poi mi domando: siamo così convinti che la fruizione della cultura tutta, nel suo insieme, andava con un decreto inserita nei livelli essenziali per i cittadini italiani ? Io penso che sicuramente dovrò avere il diritto di ammirare un Raffaello piuttosto che un Michelangelo, ma siamo così sicuri che tutta la cultura che è disponibile abbia la forza per essere inserita nei LEA ? E non basta – lo dico alle colleghe di maggioranza – anche avere citato i livelli essenziali delle prestazioni, che sicuramente andranno a sostenere – quello sicuramente – maggiore personale e maggiori risorse. Infatti io mi domando: se noi con un decreto inseriamo la cultura nei LEA, siamo sicuri che da domani non possiamo limitare il diritto di sciopero in tanti altri settori ?
  Stiamo aprendo un varco molto pericoloso, peraltro – aggiungo – con decreto-legge. Quindi, io penso che anche un partito liberale, come Forza Italia, non si possa schierare dalla parte di chi, a suon di decreti-legge, mette a rischio quotidianamente la Costituzione, una Costituzione alla quale tutti quanti noi quotidianamente ci richiamiamo nella nostra attività, ma poi basta un'assemblea, e non uno sciopero, per farla a brandelli e portare in Aula, attraverso un decreto-legge, la Costituzione e quello che in essa è contenuto.
  Quindi, noi riteniamo che, ancora una volta con fare autoritario, il Presidente del Consiglio sta intervenendo su una questione molto delicata. Crediamo che si apra un varco molto pericoloso per i diritti dei lavoratori. Non vogliamo assolutamente limitare la libertà dei cittadini. Ma, siccome viviamo in Europa e sappiamo anche leggere i giornali, ci chiediamo: ma è così antidemocratica la Francia, che soltanto qualche settimana fa ha visto la sua capitale bloccata dai lavoratori agricoli ? Pag. 35È così antidemocratica la Francia, che non più di un paio di mesi fa ha visto una rivolta molto forte dei tassisti contro Uber ? È così antidemocratica quell'Europa che ancora fa profittare i lavoratori della sua città per manifestare un giusto dissenso ? Io penso che in questo Paese si sta andando verso una restrizione di quelle che sono le libertà sindacali, non per agevolare la vita dei cittadini, ma semplicemente per consentire al Presidente del Consiglio di continuare a sfidare questo Paese, in particolare i luoghi della democrazia.
  Da questo punto di vista, quindi, non credo troverete il voto favorevole di Forza Italia (Applausi dei deputati del gruppo Forza Italia – Il Popolo della Libertà – Berlusconi Presidente).

  PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Malisani. Ne ha facoltà.

  GIANNA MALISANI. Grazie, Presidente. Io tenterò di dire perché la mia criticità rispetto al decreto di cui stiamo discutendo si è un po’ attenuata, anzi si è attenuata in questi giorni. Si è attenuata perché, alla luce degli annunci e anche dei contenuti della legge di stabilità, ho notato – bisogna riconoscerlo – un'inversione di tendenza importantissima per il settore culturale. In particolare, voglio sottolineare – è già stato annunciato da chi mi ha preceduto, però credo che sia importantissimo sottolinearlo proprio in questo contesto – il fatto che ci sarà un concorso straordinario per l'assunzione a tempo indeterminato di 500 funzionari, selezionati tra architetti, archeologi, antropologi, archivisti, bibliotecari, demoantropologi, restauratori e storici dell'arte.
  Questo cosa significa ? Significa che finalmente c’è un'inversione rispetto al blocco del turn over nel Ministero dei beni culturali, che si cominciano a svecchiare quelli che sono i lavoratori del Ministero attualmente in organico, che superano in gran parte i 50 anni, che si inseriscono forze nuove dove, in effetti, ci sono persone che lavorano – lo voglio sottolineare – in questo Ministero per passione. Dico per passione perché anche gli stipendi non sono alti e le difficoltà, anche rispetto all'organico, sono molte. Ci sono, come sottolinea qualcuno, dei vuoti drammatici.
  Però, questa previsione delle assunzioni ci dà veramente una speranza. E voglio elencare anche le altre note che ci sono nella legge di stabilità perché, in effetti, contrastano con quello che andremo poi a discutere rispetto a questo decreto. C’è una conferma dell’art bonus, dello sgravio fiscale per i contributi dei privati. C’è un investimento di risorse vere, dopo anni, forse vent'anni, di tagli sulla cultura. Ci sono 150 milioni di euro in più per il Ministero per il 2016, 170 milioni di euro per il 2017 e 165 milioni di euro per il 2018, che andranno a incrementare i lavori di restauro e recupero del nostro patrimonio.
  C’è, com’è stato ricordato, un aumento del bilancio del Mibac dell'8 per cento quest'anno, cioè per il 2016, e poi anche del 10 per cento per il 2017. Ci sono 45 milioni di euro in più per gli archivi, le biblioteche e gli istituti culturali, cioè quelli che vengono considerati un po’ la Cenerentola in un senso, ma che sono poi il pilastro del nostro Ministero. Inoltre, ci sono 115 milioni di euro per il 2015 e 140 milioni di euro per il 2016 per le produzioni cinematografiche.
  Questo cosa significa ? Significa che il Governo comincia a riconoscere che il sistema produttivo culturale è un pilastro per l'economia di questo Paese. Voglio dire «comincia» perché, è chiaro, che, secondo me, possiamo fare anche di più, però vorrei ricordare che il sistema produttivo culturale restituisce un valore aggiunto di 80 miliardi di euro l'anno, pari al 5,7 per cento dell'economia nazionale, con un milione e 400 mila occupati. Ma c’è chi ricorda anche che questo sistema vanta un moltiplicatore pari all'1,67, cioè per ogni euro che questo sistema produce, viene attivato un euro e 67 centesimi. Diciamo, quindi, che dagli 80 miliardi di euro prodotti dal sistema culturale – questi sono i dati del 2013-2014 – si riescono ad attivare complessivamente 134 miliardi di euro, per arrivare a 214 miliardi di euro Pag. 36nell'intera filiera. Ecco, questi sono i dati che ci devono far riflettere rispetto all'importanza del settore culturale e del patrimonio culturale. Quindi, questo è il primo passo per valorizzare appunto il nostro patrimonio e cambiare tendenza rispetto ai Governi che ci hanno preceduto.
  Questo che relazione ha con il decreto-legge che stiamo per discutere ? In questo senso, io credo delle relazioni importanti. In altre parole, lo scopo di inserire tra i servizi pubblici essenziali, ai quali si applica la regolamentazione dello sciopero, lo so, della legge n. 146 del 1990, l'apertura al pubblico del patrimonio storico-artistico è praticamente un riconoscimento dell'importanza della fruizione di questo patrimonio. E dobbiamo ricordare anche che nella legge n. 146 del 1990 era già presente la vigilanza dei beni, che alcuni leggono come tutela. Voglio ricordare che nel decreto legislativo n. 42 del 2004 la tutela è finalizzata alla protezione e conservazione ai fini della pubblica fruizione. Quindi, c’è questo automatismo tra tutela e fruizione, anche se io credo che sia una lettura un po’ forzata, quella di leggere la vigilanza con la tutela. Voglio anche ricordare, però, che in effetti è un riconoscimento dell'importanza della fruizione del patrimonio. Quindi, per forza dovevamo inserire un altro concetto. È un concetto culturale, che va proprio nel senso che ho detto prima, cioè riconoscimento dell'importanza del settore culturale, non solo dal punto di vista economico, ma proprio come fine, come scopo, come riconoscimento proprio del valore della cultura in questo Paese. In questo senso, dobbiamo anche inserire il nostro lavoro svolto nelle Commissioni lavoro e cultura perché abbiamo ristretto in un certo senso quello che il decreto-legge non precisava con attenzione. Anzi, voglio sottolineare che c'era un'incongruenza rispetto alla relazione e anche alle parole che il Ministro aveva usato per presentare il decreto-legge tra fruizione dei beni pubblici e quelli privati. È già stato ricordato che con un emendamento noi abbiamo ristretto il famoso articolo 101 del Codice dei beni culturali al comma 3 e, quindi, abbiamo previsto che l'apertura, di cui appunto stiamo discutendo, si preveda soltanto per gli istituti e i luoghi di cultura pubblici, cioè quelli che sono destinati per legge alla pubblica fruizione ed espletano un servizio pubblico. Quindi, vengono esclusi quelli privati che hanno un altro tipo di regolamentazione.
  Credo che questo vada anche in un certo senso a favore della tutela dei lavoratori del nostro settore che, ricordo, non sono solo quelli del Ministero ma sono anche quelli degli enti pubblici. In questo caso il decreto-legge va ad interessare, come è stato ricordato, anche tutte le strutture di proprietà degli enti locali. Quindi una grande quantità di istituti e luoghi di cultura. Restringere al pubblico vuol dire fare anche una certa selezione. Io ero anche per una interpretazione forse un po’ diversa del decreto-legge perché ho capito ciò che è stato alla base del decreto-legge. Non c’è niente da nascondere se il Ministro dice che in effetti c'era già stato un dibattito su tale questione e non dico che il decreto-legge fosse pronto ma le linee guida erano già state ampiamente discusse. Vorrei dire che forse c'era un ragionamento da fare rispetto ai luoghi di maggior fruibilità oppure di quelli che sono maggiormente fruibili o fruiti. C’è un ragionamento da fare in questo senso però ne discende l'altro emendamento che, come è stato ricordato dalla mia collega, abbiamo inserito vale a dire abbiamo inserito dopo la parola «apertura» la parola «regolamentata». Quindi c’è un aggettivo che delimita il senso del decreto-legge. Credo che questa parola aiuti volutamente le parti sociali. Noi sappiamo che dopo il decreto-legge, ai sensi della legge n. 146, le parti sociali dovranno arrivare ad un accordo e quindi bene io la interpreto in questo modo. Il fatto che sia stata aggiunta la parola «regolamentata» alla parola «apertura» diciamo che aiuta in qualche modo le parti sociali a trovare un accordo. Non so se lo interpreto in modo giusto ma io l'ho visto così. Sappiamo poi che la commissione di garanzia valuterà questo tipo di accordo ma pensiamo a tutti gli accordi che dovranno essere fatti. C’è Pag. 37un accordo ma c’è anche da vedere le varie regolamentazioni per quanto riguarda lo Stato e gli enti locali e via discorrendo. Ritengo, dunque, che vi sia uno strumento in più per i lavoratori di entrare nel merito. Discutiamo cosa vuol dire a questo punto «apertura al pubblico regolamentata». Quindi nel nostro lavoro di Commissione, secondo me, abbiamo valutato questi due aspetti. Quello che ho annunciato, quello che ho detto rispetto al disegno di legge di stabilità, lo trovo strettamente legato con questo provvedimento. Da una parte l'inserimento di nuovi lavoratori nel settore e, quindi, si riconosce che il settore è in grave difficoltà e pertanto, anche per reagire a questo tipo di decreto-legge, dobbiamo dare gli strumenti ai lavoratori per poterlo attuare. A questo proposito è stato presentato il nostro emendamento. Dall'altro lato c’è il riconoscimento dell'importanza del valore culturale. Quindi credo che valgano i due aspetti, soprattutto delegando adesso le parti sociali per regolamentare esattamente cosa significa aprire in tutti questi siti, come è stato ricordato, numerosissimi però diversamente fruiti. Quindi ritengo che diamo la possibilità di articolare questo accordo che si andrà a fare. Credo che, rispetto al testo iniziale del decreto-legge, abbiamo fatto un buon lavoro nelle due Commissioni. Adesso, però, naturalmente si tratta anche di discutere il provvedimento in Aula, tenuto conto di questa nuova situazione venutasi a creare con il disegno di legge di stabilità (Applausi).

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Pizzolante. Ne ha facoltà.

  SERGIO PIZZOLANTE. Grazie, Presidente. Il Premier dice spesso – soprattutto in queste ultime settimane lo ha detto diverse volte – che l'Italia non è una potenza nucleare o militare ma è una potenza culturale. È la più grande potenza culturale del mondo e il Ministro Franceschini, quando fu nominato Ministro, la prima cosa che disse fu che si sentiva il Ministro del petrolio.
  Una bella affermazione che aveva un significato profondo e cioè dava alla cultura e al patrimonio artistico, culturale italiano il valore, l'impatto sul Paese, sull'Italia e sulla sua economia che ha il petrolio nei Paesi che producono petrolio. Io penso che abbiano ragione il Premier e il Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo: questo decreto-legge, questo provvedimento è un piccolo, piccolissimo provvedimento, ha un articolo soltanto, poche righe, ma ha un grande significato valoriale, strategico, politico, perché il Governo e poi il Parlamento, con questo decreto-legge, attribuiscono alla cultura italiana e al patrimonio storico, artistico e culturale italiano il valore che meritano, il posto che meritano e cioè gli attribuiscono lo spazio che in questo Paese hanno luoghi, beni pubblici e servizi pubblici come la sanità, come i trasporti.
  Quindi, con questo decreto-legge noi inseriamo i luoghi della cultura fra i servizi pubblici essenziali. È un fatto rilevante; lo ripeto, è un piccolo provvedimento, ma ha un valore storico e culturale rilevante, è un Paese che prende finalmente coscienza di sé, del proprio valore, del proprio patrimonio. Faccio un passo indietro, questa presa di coscienza vale molto di più, va molto al di là della questione di cui stiamo anche discutendo e cioè del diritto di assemblea, del diritto di sciopero o dell'incidente che c’è stato qualche settimana fa; è un'assunzione di valore, è una consapevolezza nuova che io credo sia molto importante. Poche settimane fa abbiamo assistito a un episodio che sta all'esatto opposto rispetto alle cose che prima ho detto, rispetto al significato di questo decreto-legge, rispetto alle cose che il Premier e il Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo dicono sul patrimonio storico e culturale italiano. Poche settimane fa, un'assemblea sindacale ha interrotto la fruizione, in pieno giorno, del monumento architettonico, storico più importante del Paese, del monumento simbolo, del luogo simbolo della storia del Paese che è il Colosseo. Ora, intervenire, oggi, dopo quella vicenda, ma non soltanto per quella vicenda, non significa limitare il diritto di sciopero o il diritto di assemblea. Perché il Paese sta Pag. 38facendo uno sforzo che molti colleghi, prima, hanno messo in evidenza; c’è questa nuova volontà di intervenire sulla cultura e dargli il valore che ha, alcuni lo hanno già ricordato: nell'ultimo anno, l’art bonus, i nuovi direttori dei musei e, quindi, un grande investimento sui musei, gli incentivi per la riqualificazione alberghiera, la riforma dell'ENIT, le nuove risorse inserite nella legge di stabilità per la riqualificazione del nostro patrimonio storico e culturale; noi facciamo grandi sforzi per dare significato alla consapevolezza che il Paese ha del patrimonio che abbiamo ereditato e per dare al mondo un messaggio forte di questa acquisizione di status e di consapevolezza e, poi, bruciamo tutto per un'assemblea sindacale in pieno giorno.
  Si dice: ma noi non possiamo limitare il diritto di sciopero; ma quello non era nemmeno uno sciopero; se fosse stato uno sciopero sarebbe stato più accettabile, uno sciopero, una protesta in un momento di difficoltà, in un momento particolare.
  Sarebbe stato più accettabile uno sciopero, in quelle ore, rispetto ad una assemblea sindacale, perché l'assemblea sindacale, in quel momento, in quelle ore, sotto 40 gradi, che tiene fuori dal Colosseo centinaia di turisti venuti da tutto il mondo e che forse avevano soltanto in quell'occasione, in quel momento, l'unica possibilità della loro vita di visitare il Colosseo, più che dello sciopero, ha il segno e il senso dell'incuria, della non consapevolezza del valore che loro gestiscono con il loro lavoro in un monumento pubblico così importante. Segna una distanza clamorosa – clamorosa ! – da quello che l'Italia è e vuole essere e vuole rappresentare attraverso la sua storia e la sua cultura nel mondo. Noi non stiamo limitando il diritto di sciopero e di assemblea: con questo provvedimento nessuno toglie a quei lavoratori e ai lavoratori di qualsiasi altro sito storico e culturale un'ora di diritto d'assemblea, un'ora di diritto di sciopero. Nessuno toglie questi diritti, né in termini di qualità né di quantità: si dice che vanno regolati diversamente, che bisogna far convivere il diritto di sciopero e il diritto di assemblea con il diritto dei cittadini italiani e del mondo di fruire dei beni storici e architettonici italiani. Significa questo, nessuna limitazione ! Io trovo grave – penso, per esempio, all'intervento dell'esponente di Forza Italia – non capire che stiamo parlando di questo: stiamo parlando di uno schiaffo fatto all'immagine, che spesso si fa, perché oggi stiamo parlando dell'episodio del Colosseo, ma poco tempo fa lo stesso ragionamento poteva valere per Pompei e per altri siti storici e architettonici. Come non capire lo schiaffo, l'affronto che si fa al Paese nel mondo, se si esercita in maniera non corretta il diritto di assemblea e il diritto di sciopero ? Non in maniera non corretta rispetto alle leggi, perché quell'assemblea si è svolta nell'ambito delle leggi, ma in maniera non corretta rispetto al senso e rispetto a ciò che è giusto, rispetto a ciò che un Paese deve fare per mantenere alta la sua credibilità nel mondo e per il rispetto che si deve al patrimonio storico e artistico, che ha più valore nel momento in cui è fruibile da un maggior numero di cittadini e di turisti nel mondo.
  Quindi, nessuna limitazione al diritto di sciopero, ma sarà regolato in maniera diversa. Io, per esempio, non sono nemmeno d'accordo – qui lo dico – né con l'intervento dell'esponente di Forza Italia né rispetto ad una parte, una piccola parte, dell'intervento che ho sentito dal collega del PD, ma anche rispetto ad una scelta che ha fatto la Commissione, quella di limitare i siti storici e archeologici come beni e servizi pubblici essenziali ai siti pubblici, ai luoghi pubblici. Perché ? Perché, i siti privati, i luoghi privati, dove c’è storia e si fa cultura e si propone la storia e la cultura italiana nel mondo hanno meno valore ? C’è una cultura di serie A perché pubblica e c’è una cultura di serie B perché privata ? Ma che senso ha ? E che senso ha che lo dica Forza Italia ? Che senso ha questo pregiudizio nei confronti del privato, proprio nel momento in cui, secondo me, anche i siti pubblici dovrebbero, per il futuro, per essere meglio gestiti e meglio proporsi nel mondo, magari Pag. 39trovare la possibilità di una gestione privata, dell'inserimento, nelle forme possibili, dei privati anche nella gestione dei siti pubblici ?
  Voglio dire che, anche in questo caso, la gestione privata non limita la dimensione pubblica e il valore del servizio pubblico di un sito storico e architettonico. Allora perché questa limitazione, se non per un pregiudizio ideologico sbagliato, che fa male all'Italia, fa male agli stessi siti pubblici e fa male al turismo italiano ?
  Quindi sono assolutamente a favore di questo provvedimento. Non ci avrei messo questa limitazione, perché è sbagliata, perché è ingiusta; ma insomma sono d'accordo con questo provvedimento, che fa fare un passo in avanti all'Italia e alla sua capacità politico-strategica di «viversi» e di essere consapevole della forza culturale che ha nel mondo, e dell'essere, come dice il Premier, potenza culturale. Il diritto di sciopero e il diritto di assemblea sarà regolato in maniera diversa, ma rimarrà uno dei capisaldi della nostra democrazia.

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Simone Valente. Ne ha facoltà.

  SIMONE VALENTE. Signor Presidente, in premessa mi permetta di dirle che, in quanto rappresentante della Commissione cultura, forse un esame congiunto Commissione cultura e lavoro sarebbe stato più opportuno per analizzare a trecentosessanta gradi questa problematica. Noi abbiamo analizzato in sede consultiva questo decreto-legge, però si capisce che il titolo dice una cosa; lo posso anche leggere: «Conversione in legge del decreto-legge 20 settembre 2015, n. 146, recante misure urgenti per la fruizione del patrimonio storico e artistico della Nazione»: ci si aspetterebbe una riforma, con molti articoli, una discussione molto prolungata; poi si apre il provvedimento e si nota solo un articolo riguardante l'inserimento, nei servizi essenziali delle prestazioni, della fruizione del nostro patrimonio artistico-culturale.
  È evidente come questo decreto-legge sia stato fatto in maniera strumentale dal Governo, in un momento ben preciso, che è stato quando il caso dei lavoratori del Colosseo anche mediaticamente è venuto fuori; ed è stato fatto (lo ha già detto la mia collega Chimienti) in maniera strumentale, per punire i lavoratori, perché nel merito di fatto cambia ben poco. E io aggiungo che si è persa una grande occasione: questo Parlamento ha perso una grande occasione per discutere di un tema importantissimo, quale la fruizione.
  C’è una stretta correlazione tra quello che è successo al Colosseo, quello che è successo a Pompei, quello che è successo agli Uffizi, in tantissimi luoghi della cultura, quindi ci si è concentrati sui lavoratori, e la fruizione dei beni culturali. Voglio citare un'ordinanza della Corte di cassazione del 27 maggio 2009, in cui si afferma che i servizi aggiuntivi costituiscono una modalità, un completamento della fruizione del bene culturale: quindi è chiaro che, quando parliamo di fruizione, dobbiamo parlare anche di servizi aggiuntivi, di come il servizio alla popolazione venga gestito, cosa che in questo decreto-legge non viene assolutamente fatta. E in quest'Aula, così come in Commissione, si tratta di un tema che non è stato minimamente affrontato, e nessun collega l'ha sollevato.
  Si perde un'occasione, perché sappiamo benissimo che i servizi aggiuntivi ormai sono quasi tutti in mano a soggetti privati. Conosciamo le grandi società che ci stanno dietro, che spesso fanno riferimento comunque a personaggi vicini alla politica, se non direttamente politici di lunga data: Civita e Electa Mondadori sono alcuni esempi, ma ne potrei citare molti altri. È evidente che la legge cosiddetta Ronchey, la n. 4 del 1993, che è quella che ha dato il via ad una serie di modifiche nel campo dei servizi aggiuntivi, ha evidenziato delle storture.
  Questo sistema, così com’è, di gestione dei beni culturali sulla fruizione non funziona. Non funziona e le storture sono state evidenziate anche dall'Agcom, l'Autorità garante della concorrenza e del mercato. Infatti, l'Agcom ha denunciato l'oligopolio generato da queste società – ne Pag. 40hanno sollevate cinque principali – che gestiscono tutta la fetta dei servizi aggiuntivi in Italia. La Corte dei conti è intervenuta puntando il dito sulla gestione e focalizzandosi, però, sul modello di gestione dei musei in rapporto al quadro normativo di riferimento.
  Infine, diverse volte l'Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici è intervenuta nel merito delle concessioni dichiarando, recentemente, che il regime di proroga sta comportando danni all'Erario perché questi servizi aggiuntivi sono gestiti da tantissimi anni da queste società private e sono gestiti in regime di proroga. Cioè, queste società continuano a fare profitto con beni dello Stato. Potrei fare l'elenco di tutti i siti culturali che sono in regime di proroga. La lista l'ha fornita il Ministero dei beni e delle attività culturali rispondendo ad una mia interrogazione di qualche mese fa. Faccio l'esempio del Museo archeologico nazionale di Reggio Calabria, in regime di proroga dal 2009. Sempre dal 2009, il Museo archeologico nazionale di Napoli, gli Scavi di Pompei, la Reggia di Caserta, gli Scavi di Ercolano, il Polo museale di Napoli, Palazzo Reale a Napoli. Dal 2010, il Polo museale di Roma, tra cui anche il Colosseo. Il Colosseo è in regime di proroga dal 2010 ! Andiamo avanti con il Polo museale di Firenze, la Galleria nazionale dell'Umbria, il Polo museale di Venezia, in regime di proroga dal 2006. Quindi, anni che lo Stato non interviene in questa drammatica situazione che riguarda la gestione del bene culturale, quindi parliamo di bigliettazione, di audioguide, di bookshop, di ristorazione.
  Io continuo a soffermarmi sull'importanza che avrebbe avuto discutere in quest'Aula di questo tema, trovare una soluzione in maniera collaborativa a questo problema. Possiamo guardarlo dal punto di vista economico. Vi do un dato: 44,9 milioni di euro che i servizi aggiuntivi hanno generato nel 2013. Da questi vanno tolte ovviamente le concessioni ai privati e, quindi, di questi 44,9 milioni di euro, allo Stato rientrano 6,11 milioni di euro.
  Guardiamola dal punto di vista economico, ma guardiamola anche dal punto di vista del servizio che diamo ai cittadini, guardiamola dal punto di vista delle sovrintendenze; o, meglio, chiediamoci se le sovrintendenze hanno gli strumenti per garantire un servizio di qualità ai cittadini, se i lavoratori veramente sono nelle condizioni di garantire una ottimale ed eccellente fruizione del patrimonio artistico culturale.
  Tutte queste riflessioni non sono state fatte perché è evidente che il sistema politico, il Parlamento e il Governo abbiano rapporti molto stretti con queste società che gestiscono i servizi aggiuntivi e, quindi, a tutti va bene, non si vuole toccare questo tema, non lo si vuole affrontare, non si vuole trovare una soluzione.
  So che il Governo ha preso la direzione di proporre delle gare Consip per l'affidamento di questi servizi, però io penso – o meglio, è una riflessione che andrebbe fatta – che questi servizi potrebbero essere tranquillamente gestiti dallo Stato. Non tutti: bisognerebbe fare una seria distinzione, perché ci sono alcuni servizi, come ad esempio la ristorazione, che forse potrebbero essere esternalizzati.
  Però, se non iniziamo a riflettere su questo tema, stiamo parlando del nulla, non stiamo parlando di fruizione, non stiamo parlando di beni culturali. Tutti gli slogan che sono stati fatti finora sulla legge di stabilità, sull’art bonus, sugli investimenti in cultura, quelli verranno certificati dalla legge di stabilità e vedremo se effettivamente sarà così. Lo vedremo e saremo ben contenti. Ma, in questo caso, abbiamo perso un'occasione come Commissione cultura e come Parlamento.
  Presidente, chiudo dicendo che se questo Parlamento non inizia a lavorare in maniera seria, andando nel merito della questione, affrontando i temi a trecentosessanta gradi, si continuerà a lasciare spazio al solito clientelismo, ai soliti interessi esterni al Parlamento e quelle parole che continuate a dire – con la cultura si può sopravvivere, si può incrementare il turismo, si può incentivare tutto il sistema nazionale – saranno parole vuote, saranno completamente parole vuote e noi oggi Pag. 41siamo qui a certificarlo (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Placido. Ne ha facoltà.

  ANTONIO PLACIDO. Signor Presidente, io comprendo che, per come in queste settimane, dopo l'intervento del Governo, si è sviluppato il dibattito e il confronto politico e parlamentare nel nostro Paese, ci sia la necessità, da parte di tanti dei colleghi della maggioranza che ho ascoltato anche qui questa sera, di sovrapporre due temi che sono in realtà fra loro assai diversi. Un conto è dire che auspichiamo – e tutti quanti lo auspichiamo – che con la legge di stabilità prossima ventura si possa tornare in maniera significativa a investire sulla cultura, un conto è dire che, coerentemente con le dichiarazioni rese nel momento dell'insediamento di questo Governo, per esempio da parte del Ministro Franceschini, questo Paese debba investire sui suoi beni culturali come risorsa strategica, centrale per poter reinnescare meccanismi di ripresa – anche questo, fatto che tutti quanti auspichiamo – altro è discutere del tema che costituisce invece l'oggetto del confronto sul decreto-legge n. 146, che è un decreto che interviene invece – qualcuno l'ha detto – aprendo un varco pericoloso sul diritto di assemblea e il diritto di sciopero, costituzionalmente sanciti, e che li regolamenta o punta a regolamentarli in maniera restrittiva. Le due cose sono fra loro molto diverse e non si vede quale sia il nesso che lega l'una all'altra cosa.
  Peraltro – nella discussione di queste settimane è emerso con grande chiarezza – nessun abuso del diritto di assemblea o del diritto di sciopero è stato commesso da parte dei lavoratori del Colosseo, visto che l'assemblea era stata con abbondante anticipo richiesta, con abbondante anticipo autorizzata e che, quindi, si è svolta secondo modalità concordate con la sovrintendenza che, evidentemente, essa sì, ha scontato un momento di distrazione, ha commesso, per così dire, una svista.
  La legge n. 146 del 1990, con le successive modifiche e integrazioni, individuava già, infatti, all'articolo 1, i servizi essenziali costituzionalmente tutelati, sui quali regolamentare il diritto di sciopero nei servizi pubblici e, tra essi, all'articolo 1, comma 2, lettera a), si prevedeva già la tutela del patrimonio storico e artistico.
  Con l'accordo sulle norme di garanzia dei servizi pubblici essenziali e sulle procedure di raffreddamento e conciliazione in caso di sciopero stipulate fra Aran e organizzazioni sindacali l'8 marzo del 2005 si è intervenuti sulla regolamentazione del diritto di sciopero in questo settore tramite essenzialmente due previsioni.
  La prima, quella che individua tra i servizi pubblici essenziali la protezione ambientale e la vigilanza sui beni culturali, e il successivo articolo 3, che demanda alla predisposizione di accordi decentrati l'identificazione dei contingenti minimi di personale da adibire alle prestazioni indifferibili connesse. La seconda, all'articolo 4, prevede – è stato ricordato dalla collega, relatrice di minoranza – periodi di franchigia, relativamente alla fruizione del patrimonio artistico, archeologico e monumentale che riguardano alcuni periodi determinati dell'anno.
  Dunque, in sede di regolamentazione tramite accordo collettivo le parti avevano già concordato e definito i periodi in cui è impossibile programmare uno sciopero e il comma 3 dell'articolo 3 del medesimo accordo prevedeva espressamente eventuali modifiche, integrazioni ed estensioni della garanzia dei servizi essenziali su richiesta delle amministrazioni all'ARAN. Dunque, la legge n. 146 del 1990 già oggi avrebbe consentito di aggiungere altri servizi essenziali al catalogo esemplificativo di cui al comma 2 dell'articolo 1.
  Il decreto n. 146 interviene su questa regolamentazione ed estende la previsione contenuta all'articolo 1 della legge n. 146 del 1990 anche all'apertura dei musei e luoghi di cultura. Esso interviene, o finisce per intervenire di fatto, al di là delle chiacchiere da cui è accompagnata e tante volte imbellettata questa discussione, sul diritto di sciopero e il testo, la relazione che accompagna il decreto dichiara esplicitamente Pag. 42che l'intervento legislativo si è reso necessario e urgente alla luce del ripetuto verificarsi di episodi che hanno impedito la continuità del servizio pubblico di fruizione del patrimonio storico-artistico della nazione. Si conclude affermando che si tratta di una iniziativa auspicata anche dalla Commissione di garanzia per l'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali. In sintesi, tutte le contraddizioni e gli elementi di illegittimità che caratterizzano il decreto sono contenuti in questa relazione, a partire dall'eccesso politico di un intervento con una norma sul diritto di sciopero per reagire ad un'assemblea indetta – come dicevo – nel rispetto del contratto collettivo e dell'articolo 20 dello Statuto dei lavoratori, a seguito del mancato pagamento del salario accessorio protrattosi per mesi.
  Il decreto non ha – lo abbiamo detto nelle scorse settimane – i requisiti di necessità e urgenza richiesti dall'articolo 77 della Costituzione. C’è un uso ricorrente, abbastanza spregiudicato, dello strumento del decreto-legge a cui siamo oramai tristemente abituati. Si dice che lo sciopero vada contemperato con altri diritti costituzionali della persona. Ora, per quanto si voglia ragionare in termini di espansione naturale dei diritti sociali di seconda o terza generazione, è abbastanza difficile immaginare che la fruizione di un sito museale, proprio in quel giorno e a quell'ora, in forma individuale o collettiva, possa costituire diritto della persona individuabile nella Costituzione, quand'anche si volessero collegare in sintesi entrambi i commi dell'articolo 9 della Costituzione, il primo dei quali precisa quale obbligo della Repubblica quello di promuovere lo sviluppo della cultura e il secondo le impone di tutelare il patrimonio storico-artistico della nazione.
   A voler essere rigorosi, è più illegittimo e sanzionabile il degrado in cui si trovano molti siti storici ed ambientali che l'eventuale chiusura di un sito per assemblea o sciopero, assistiti da preavviso e rispetto delle norme contrattuali esistenti.
  Ma è finanche infondato fare rientrare la legittimità del decreto nell'ambito del primo comma dell'articolo 9 della Costituzione, in quanto lo sviluppo della cultura ha di per sé un significato complesso che non può essere ridotto a singole fattispecie o a eventi in grado da soli di minarne la portata.
  In quest'ottica si viola l'impianto della legge n. 146 del 1990, conforme all'articolo 40 della Costituzione, il quale, nel definire lo sciopero come diritto esso stesso di rango costituzionale, implica la tassatività, proporzionalità e prevedibilità delle limitazioni ad esso opponibili, anche in relazione alle esigenze di tutela di altri diritti costituzionalmente garantiti della persona, che non possono e non devono confondersi con un potere discrezionale di interdizione dello sciopero da parte delle pubbliche amministrazioni.
  Inoltre, il decreto non ha una portata immediatamente autoapplicativa – da questo punto di vista, nemmeno se ne comprende l'urgenza, se non in chiave propagandistica – in quanto segna soltanto l'inizio di quella procedura che dovrà condurre alla definizione delle prestazioni indispensabili da garantire in occasione dello sciopero. Infatti, come dice l'articolo 2 della legge n. 146, «Nell'ambito dei servizi pubblici essenziali il diritto di sciopero è esercitato nel rispetto di misure dirette a consentire l'erogazione delle prestazioni indispensabili (...). Le amministrazioni e le imprese erogatrici dei servizi (...) concordano, nei contratti collettivi, le prestazioni indispensabili che sono tenute ad assicurare nell'ambito dei servizi di cui all'articolo 1, le modalità e le procedure di erogazione e le altre misure dirette a consentire gli adempimenti di cui al comma 1 del presente articolo».
  È dunque chiaro che ora si pone la necessità di avviare un confronto negoziale per capire quali siano le modalità e le prestazioni indispensabili a garantire l'apertura al pubblico, modificando o integrando contratti collettivi precedenti. Inoltre, i documenti di prevenzione e valutazione dei rischi previsti dal decreto legislativo n. 81 del 2008, predisposti a Pag. 43livello di singolo istituto, individuano il numero minimo delle professionalità necessarie a garantire la sicurezza dei siti aperti al pubblico.
  Questa previsione, nelle condizioni attuali di organico, con riferimento alle carenze accertate, che, allo stato, ammontano a circa 1.300 unità lavorative rispetto ad un organico previsionale complessivo di oltre 19 mila dipendenti, comporta che nella generalità dei luoghi della cultura aperti al pubblico l'apertura si garantisce ordinariamente con un numero minimo previsto da detti documenti di valutazione dei rischi.
  Ne consegue che l'emanazione del decreto-legge n. 146, quello di cui discutiamo, comporterà l'impossibilità pressoché totale per i lavoratori impiegati nei cicli lavorativi di vigilanza, custodia e fruizione del patrimonio culturale di esercitare concretamente il diritto di sciopero, costituzionalmente garantito dall'articolo 40. In sostanza, il Governo, che dovrebbe emanare decreti contro l'abuso di potere del datore di lavoro, emana norme urgenti per sopprimere le proteste legittime dei lavoratori. Credo che il Parlamento non possa accettare un atteggiamento di questo genere: il diritto di sciopero è una conquista democratica, ottenuta con il sangue in questo Paese, e non può essere cancellato con un decreto-legge.
  Se questo provvedimento sarà approvato, esso rappresenterà un avvertimento, un messaggio inviato ai lavoratori di tutto il pubblico impiego, perché capiscano che dovranno assoggettarsi alla volontà politica di un Governo. Nei Paesi dell'Unione europea, tante volte richiamati come modello – lo ricordava la collega Polverini pochi minuti fa –, siti di importanza internazionale sono rimasti chiusi ad oltranza, fino a dieci giorni, per manifestare il diritto di sciopero, e nessuna autorità, né locale né nazionale, si è mai sognata di assumere alcun provvedimento per sopprimere o regolamentare tale diritto.
  Non sono le assemblee dei lavoratori che danneggiano l'immagine del Paese, ma lo sono, assai più probabilmente, i mancati impegni che il Governo dovrebbe assumere per la ristrutturazione e per il rafforzamento degli impegni, anche finanziari, a sostegno di una valorizzazione piena del patrimonio artistico della nazione. Dunque, a nostro giudizio, il decreto-legge n. 146 è costituzionalmente illegittimo, non ne ricorrono i requisiti di necessità e urgenza richiesti dall'articolo 77 della Costituzione in rapporto all'esercizio della funzione legislativa da parte del Governo. È illegittimo per l'impossibilità di ricondurre l'apertura al pubblico di musei e siti archeologici a diritti della persona costituzionalmente garantiti. È superfluo normativamente in quanto la contrattazione collettiva già regolamenta l'assemblea in modo che siano comunque garantite le prestazioni indispensabili. E le soluzioni adottate dalla commissione di garanzia sono, a loro volta, illegittime in quanto impongono un termine alle parti per la stipulazione del contratto, esorbitando dai poteri riconosciutogli dalla legge, in quanto considera non necessario l'atto di indirizzo del comitato di settore per la revisione del contratto collettivo nazionale di comparto che contiene la normativa in materia. È illegittimo se presuppone che si possa regolamentare la materia con contratto collettivo nazionale che, invece, si limita a riguardare le sole procedure di conciliazione e raffreddamento.
  Io penso che anche la soluzione che pure denota un'attenzione, una preoccupazione, largamente diffusa all'interno della Commissione lavoro (che ha condotto i colleghi a individuare con l'aggettivazione «regolata», riferita all'apertura, una qualche forma di limitazione del potere arbitrario che sarà esercitato o esercitabile da parte delle amministrazioni da domani in poi, qualora questo provvedimento venisse approvato), è, nelle condizioni date, poco più che una foglia di fico. Per tutte le regione elencate, è abbastanza evidente che è stata utilizzata con determinazione una campagna mediatica, partita dalle assenze più o meno giustificate dei vigili urbani a Roma nel periodo natalizio, seguita attraverso il diritto di sciopero esercitato dai lavoratori presso il sito degli scavi archeologici di Pompei, che oggi Pag. 44giunge alla soluzione Colosseo, che ha prodotto l'esito a cui siamo pervenuti. Non c’è strategia di riduzione del danno che tenga, vorrei dire ai colleghi della Commissione lavoro, che pure hanno tentato di limitare il danno, così come non c’è strategia di riduzione del danno che tenga in relazione ai provvedimenti che connotano l'azione di questo Governo in tutta quanta la materia lavoristica, dal Jobs act in poi. Ciò che sta succedendo, ciò di cui siamo concretamente al cospetto oggi, è il tentativo di aprire un varco per potere determinare una pesante manomissione del diritto di sciopero. Di questo occorre essere consapevoli e a questo, i colleghi, anche quelli più sensibili della maggioranza, dovrebbero opporre una resistenza – io credo – strenua.

  PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Malpezzi. Ne ha facoltà.

  SIMONA FLAVIA MALPEZZI. Grazie, Presidente e Governo. C’è una parola che noi sentiamo ripetere spesso, fortunatamente dico io, in questa legislatura, ed è la parola «semplificazione». Una parola che è legata strettamente alla politica e lo abbiamo visto anche rispetto a tutti i provvedimenti che sono stati presi nei confronti della pubblica amministrazione. Semplificare fa bene perché significa andare anche incontro ai cittadini. Quando, però, si semplificano, invece, i messaggi, allora ecco che si incorre in un problema. Noi anche qui, oggi, abbiamo assistito un'altra volta alla semplificazione di un messaggio.
  Io faccio parte della Commissione cultura, non sono sicuramente qui a discutere di un decreto che va ad abrogare il diritto di sciopero, come qualcuno semplificando sta cercando di fare capire.
  Infatti stiamo parlando di ben altro. In quelle poche righe, in quell'unico articolo di cui è composto il decreto di cui noi stiamo portando avanti una discussione a carattere generale, si dice una cosa che con il diritto di sciopero non c'entra assolutamente niente, e non c'entra assolutamente niente con il ledere l'autonomia e il diritto, da parte dei lavoratori, di riunirsi in assemblea. In quelle poche righe c’è, invece, un messaggio che è straordinario, per la semplicità ma anche per l'efficacia. È quel messaggio che molti di noi, coloro che fanno parte di quella cultura di centrosinistra, cercavano di portare avanti anche negli anni scorsi, quando qualcuno diceva che con la cultura non si mangiava, mentre noi scendevamo in piazza dicendo invece che la cultura doveva essere un diritto e un bene fruibile per tutti. Ed era per noi un elemento di lotta connaturato proprio in quelli che erano i nostri valori.
  Ebbene, con questo decreto, la cultura e i beni culturali diventano servizi pubblici essenziali. Significa dire che diventano un diritto, che andiamo a garantirne il diritto alla fruizione, cioè aggiungiamo un diritto, non togliamo diritti. Ne stiamo aggiungendo uno a tutti i cittadini e non solo ai cittadini italiani. Lo stiamo aggiungendo a tutti coloro che ogni anno vengono in Italia a visitare il nostro bellissimo patrimonio, unico al mondo, oserei dire. E questo – ripeto – senza togliere il diritto a nessuno.
  Infatti io sono una dipendente di un cosiddetto servizio pubblico essenziale, sono una dipendente del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, sono un'insegnante in aspettativa, ma rimango comunque insegnante. E ho sempre avuto il diritto alle mie assemblee, ho sempre avuto il mio diritto allo sciopero e mi sembra che anche nei mesi scorsi vi siano stati esempi anche plateali di manifestazione in piazza, che hanno chiaramente portato avanti i lavoratori del comparto scuola, dimostrando il loro dissenso da alcuni provvedimenti che stavamo portando avanti. Non mi sembra che il diritto sia stato negato a nessuno. Quindi significa che tutti i lavoratori di questi comparti, che sono appunto regolamentati anche dalla legge n. 146 del 1990, sono lavoratori tutelati da tutti i punti di vista. Infatti voglio ricordare che non c’è una parola, in alcuna delle dichiarazioni che sono state Pag. 45fatte per spiegare anche questo provvedimento, che vada nella direzione del punire.
  C’è una direzione, però, ben chiara, che è quella di migliorare un sistema che sta dimostrando di non funzionare ed è un sistema che viene affrontato da due punti di vista. Infatti quando noi ascoltiamo anche in quest'Aula e anche poco fa dalla relatrice di minoranza la cronistoria di quello che sarebbe successo – e quindi di lavoratori legittimamente radunati in un'assemblea, con un'assemblea che era stata annunciata giorni prima, per la quale era stato dato il permesso e sulla quale nessuno va a sindacare, tantomeno il Ministro che interpellato in Aula ha garantito assolutamente il suo pieno rispetto nei confronti di quei fatti – sta di fatto, però, che nessuno racconta che, mentre quei lavoratori si ritrovavano in assemblea per manifestare giustamente e discutere rispetto a pagamenti che non erano avvenuti, il Governo stava facendo la sua parte: si trovava al MEF a chiedere come mai quei pagamenti non erano stati effettuati. Infatti proprio quel sistema, anche quel sistema degli straordinari, non stava funzionando.
  Da questo punto di vista – e lo hanno ripetuto qui snocciolando dei numeri che io non vado a ribadire – mi sembra che in legge di stabilità i numeri ci siano. Ci possiamo credere o meno – lo dico al collega Simone Valente – però fatto sta che i numeri della legge di stabilità sono presenti – poi si andranno a discutere – e mi sembra che il Ministro e questo Governo stiano intervenendo. Pertanto, mentre si interviene a favore dei lavoratori, riconoscendo quelli che sono i loro diritti e andando a cercare di integrare un comparto che dopo tantissimi anni finalmente riceve una boccata di ossigeno, con i numeri che – ripeto – sono quelli che sono stati ribaditi più volte in quest'Aula, dall'altra parte, però, si va anche a dire che, proprio perché ribadiamo che quel comparto è importante, vogliamo che quel comparto diventi davvero un diritto. Ed è il diritto di cui tutti possono e devono godere, che è il diritto alla fruizione.
  Infatti, non c’è scritto «fruizione» o «tutela» nella legge n. 146, ma c’è scritto «vigilanza» e la vigilanza è un'altra cosa. Significa che si può chiudere il museo e vigilare che non vengano tolti i reperti, stare attenti e controllare che tutto proceda in sicurezza. Ma non significa garantirne la fruizione, che, invece, diventa un elemento importante, perché è l'elemento su cui noi basiamo anche una parte della nostra economia, se la vogliamo vedere dal punto di vista monetario, ma è anche l'elemento su cui noi basiamo la nostra tradizione, il nostro essere cittadini. È una peculiarità del nostro essere italiani.
  Le due cose non sono assolutamente in contrapposizione. Allora, diventa anche poco credibile il fatto che tre quarti di questa discussione verta su un diritto di sciopero che non viene assolutamente toccato all'interno di questo decreto. Infatti, allora, andiamo a impoverire quella che è una grande vittoria. La si vuole impoverire ? Allora, tutti coloro che non sono d'accordo rispetto a quello che viene espresso all'interno di questo decreto sono coloro che, evidentemente, pensano che la cultura possa essere di serie B e che non possa essere considerata un vero patrimonio da tutelare e da proteggere e soprattutto un diritto di cui tutti debbano assolutamente godere. È un elemento di civiltà quello che noi cercheremo di votare, portandolo a casa come un successo nel quale noi crediamo.
  Aggiungo, però, una serie di cose. Ho sentito qui dire che questa è una Repubblica parlamentare e io ne sono pienamente convinta. Non penso che siano stati tolti i poteri al Parlamento. Ne è la riprova che questo decreto arriva, viene destinato alla Commissione lavoro, che lavora anche con la Commissione cultura, e viene poi migliorato. I parlamentari hanno svolto il loro lavoro, presentando degli emendamenti che hanno cercato anche di rendere più chiaro l'intento. Infatti, arrivare a dire che si parlerà di apertura regolamentata, aggiungere questa sorta di aggettivazione, arricchisce quello che per noi era già chiaro, ma che poteva non essere chiaro per altri. È chiaro che si tratterà di Pag. 46un'apertura regolamentata e questa regolamentazione spetterà a coloro che sono deputati a mettersi d'accordo e a stabilire quali saranno i paletti e i limiti entro i quali si svolgerà questa regolamentazione.
  Mi dispiace che in tutta questa discussione non si veda, invece, il rovescio positivo della medaglia. Infatti, nel momento in cui la cultura diventa un diritto così essenziale tanto da diventare servizio pubblico essenziale, pertanto legato strettamente alla vita di ciascuno, non si vede l'elemento per cui, se la cultura diventa tale, questo Governo sarà spinto a fare sempre di più per quel comparto. Sarà spinto a dover incrementare la propria attenzione a un comparto rispetto al quale – mi sembra che in Parlamento, qui alla Camera sia stato ribadito più volte – troppo spesso e troppo a lungo non è stato fatto niente.
  Allora, ci sono sicuramente delle attenzioni e delle migliorie da portare a tutto il settore dei beni culturali. Io ripeto: abbiamo parlato di art bonus, abbiamo parlato di una serie di misure che sono presenti nella legge di stabilità. In quest'Aula, poco fa, sono stati sollevati dei problemi, come una serie di gestioni private che forse costano troppo allo Stato. Nulla ci vieta di riprendere in mano tutto l'assetto per poterlo migliorare. Ma quanto più questo decreto prenderà vita e troverà una risposta che possa essere una risposta così positiva e di largo respiro da parte di tutti coloro che fanno parte di questo Parlamento, tanto più forte sarà la pressione per spingere in quella direzione, per prendere in mano tutto il comparto e poterlo migliorare.
  Ricordo che l'Italia – lo citava prima la relatrice – ha questa peculiarità nella sua ricchezza: un patrimonio culturale che non ha pari al mondo. E noi siamo chiamati ad avere una legislazione che sia diversa da quella degli altri Paesi, proprio perché è il comparto che è diverso da tutti quelli degli altri Paesi. Mi sembra che questo possa essere un grandissimo esempio di civiltà.
  Mi stupisco – lo dico anche con qualche perplessità – che da alcuni movimenti e da alcuni partiti politici che sono anche firmatari di proposte molto forti, che dicono addirittura di porre il diritto al bello all'interno della Costituzione, nel momento in cui noi trasformiamo questo diritto in qualcosa di concreto all'interno di un decreto, ecco che immediatamente scatta l'opposizione. Allora forse è un diritto al bello solo se viene proposto da un ramo del Parlamento e non se viene proposto dal Governo ? Diventa un diritto al bello solo ed esclusivamente se questa cosa non la fa chi sta governando, ma, invece, diventa un elemento che l'opposizione porta avanti ?
  Io ho i miei dubbi rispetto a questo e penso che, se questo decreto-legge va nella direzione di rafforzare invece la possibilità di godere di quel bello che è anche estremamente educativo, ecco allora noi abbiamo fatto un passo avanti. Concludo con un piccolissimo aneddoto che mi è capitato questa mattina perché, mentre frequentavo uno dei tanti social, il mio sguardo si è soffermato sull'immagine di una lavagna ed era la lavagna della classe di una mia amica che fa l'insegnante nella scuola primaria in una quinta elementare che oggi, guarda caso, ha aperto una sorta di discussione sul valore della cultura perché poi produrrà una serie di materiali con i suoi alunni. E su questa lavagna lei aveva scritto quelli che sono i concetti che questi bambini di dieci anni hanno espresso rispetto al valore della cultura e tra le diverse affermazioni – c'era lo stupore per l'arte, la formazione, cultura come esperienza che arricchisce, arricchimento dell'anima – c’è un altro elemento: cultura come conoscenza reciproca e rispetto dei valori. Se noi siamo disposti a dire che la cultura è conoscenza reciproca ed è rispetto dei valori e quindi è prioritaria, non possiamo assolutamente pensare che la cultura possa chiudere le proprie porte in un qualche momento dell'anno (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

  PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

Pag. 47

(Repliche delle relatrici e del Governo – A.C. 3315-A)

  PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare la relatrice per la maggioranza, onorevole Rotta.

  ALESSIA ROTTA, Relatrice per la maggioranza. Presidente, davvero rapidamente, anche perché avremo poi modo di discutere. Dispiace che per qualcuno la fruizione, non solo la vigilanza, perché qui non vogliamo giocare con le parole, non possa ritenersi un bene primario. Va bene, ne prendiamo atto. Dispiace che la collega Chimienti, relatrice di minoranza, si voglia sostituire alla Corte costituzionale. In questo luogo, più volte, sentiamo dichiarare dai colleghi del MoVimento 5 Stelle che, appunto, dobbiamo ricordarci il nostro ruolo parlamentare e, allora, sostituirsi alla Corte e dichiarare l'incostituzionalità di una norma o di un decreto ci sembra un po’ oltre. Come hanno ribadito varie volte le colleghe, soprattutto della Commissione cultura, si faceva riferimento ai concorsi pubblici in alcune dichiarazioni sempre dei colleghi del MoVimento 5 Stelle. Ribadiamo i 500 posti del concorso pubblico, cioè le nuove persone che verranno immesse nel Mibac lo saranno attraverso concorsi pubblici, così com’è doveroso. Inoltre, davvero rapidamente ci permetterà una breve rassegna stampa sui fatti per alcune precisazioni. Notiamo che il MoVimento 5 Stelle cambia opinione all'indomani degli stessi fatti di cui stiamo discutendo oggi. In particolare, sul Colosseo gli esponenti del MoVimento 5 Stelle dichiaravano «dopo Pompei succede di nuovo e questa volta a Roma». Ancora, con riferimento invece ai fatti e alle date, giustamente e doverosamente il Ministro Franceschini, quando appunto accadde dell'assemblea, dichiarò e ricordò perbene la cronologia. Le comunicazioni ufficiali risalgono allo stesso 11 settembre quando fu inviata una lettera alle organizzazioni sindacali che riassumeva lo stato dei pagamenti e rendeva noto di aver sbloccato lo straordinario 2015 e via dicendo. Quindi, anche la tempistica del caso specifico merita una correzione. Non prendiamo lezioni da Forza Italia che al Governo è stata autrice dei numerosi tagli a cui stiamo cercando di supplire, naturalmente nelle difficoltà economiche della situazione. Al collega Pizzolante, che chiedeva perché solo per il pubblico e non per il privato, rispondiamo che ovviamente attiene solo ai pubblici la garanzia del servizio pubblico, anche se, naturalmente, i pubblici possono essere dati in gestione ai privati, da cui la norma di cui sopra. Si è fatto più volte riferimento all'Europa e ai trattamenti di altri Stati europei. Come ha fatto qualcuno sulla stampa, in particolare Francesco Delzio su Avvenire, ricordo che in molti Paesi avanzati, meno ricchi del nostro di patrimonio culturale, valgono già le regole per i servizi pubblici essenziali anche per il patrimonio dei beni culturali (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

  PRESIDENTE. Prendo atto che il rappresentante del Governo rinuncia alla replica.
  Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta. Adesso sospendiamo la seduta, che riprenderà alle ore 17,50.

  La seduta, sospesa alle 17,45, è ripresa alle 17,50.

Discussione delle mozioni Benedetti ed altri n. 1-00720 e Zaccagnini ed altri n. 1-01019 in materia di autorizzazione alla commercializzazione e all'utilizzo dei prodotti fitosanitari.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione delle mozioni Benedetti ed altri n. 1-00720 e Zaccagnini ed altri n. 1-01019 in materia di autorizzazione alla commercializzazione e all'utilizzo dei prodotti fitosanitari (Vedi l'allegato A – Mozioni).
  Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi riservati alla discussione delle mozioni è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).Pag. 48
  Avverto che sono state presentate le mozioni Dorina Bianchi e Bosco n. 1-01022, Oliverio ed altri n. 1-01023 e Palese n. 1-01024 (Vedi l'allegato A – Mozioni) che, vertendo su materia analoga a quella trattata dalle mozioni all'ordine del giorno, verranno svolte congiuntamente. I relativi testi sono in distribuzione.
  Avverto altresì che è stata presentata una nuova formulazione della mozione Benedetti ed altri n. 1-00720. Il relativo testo è in distribuzione.

(Discussione sulle linee generali)

  PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali delle mozioni.
  È iscritta a parlare l'onorevole Benedetti, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00720 (Nuova formulazione). Ne ha facoltà.

  SILVIA BENEDETTI. Grazie Presidente, la mozione che presentiamo riguarda l'utilizzo dei prodotti fitosanitari in agricoltura e impegna il Governo a intervenire, finalmente, in modo tempestivo e adeguato, perché, come prima cosa, tenga conto delle normative europee in modo rigoroso, perché l'utilizzo di alcuni fitosanitari e di pesticidi venga messo al bando e perché l'utilizzo di altri fitosanitari stia dentro le regole.
  Parliamo del fatto che il Governo abbia disatteso questi obiettivi sino ad oggi su una questione che è di fondamentale importanza. Infatti, nonostante le tante sollecitazioni da parte di un vasto mondo scientifico, della società civile sempre più sensibile a queste tematiche, ma anche, in ambito parlamentare, del MoVimento 5 Stelle, non c’è stata da parte del Governo una degna risposta. C’è stata molta disattenzione, una disattenzione di cui è prova l'assenza, appunto, di risposta alle innumerevoli interrogazioni che abbiamo presentato nel corso di questi due anni e mezzo di legislatura, proprio su questo tema. Una disattenzione che non richiede uno sforzo della vista per essere messa a fuoco e che anche il meno avvertito dei cittadini può constatare, perché è macroscopica.
  La vicenda delle deroghe, ad esempio, è veramente una vicenda paradossale e macroscopica; parlo del ricorso alle autorizzazioni eccezionali rilasciate in virtù dell'articolo 53 del regolamento (CE) 1107/2009 che, come sappiamo, in situazioni di emergenza fitosanitaria, consente, in deroga alle normali procedure di autorizzazione, l'immissione sul mercato di prodotti fitosanitari.
  Il nostro, in questo caso, è un Paese veramente curioso: ciò che la legge consente solo come eccezione alla regola, dentro un contesto di emergenza, diventa una prassi, si trasforma in regola, capovolgendo esattamente l'ordine in cui dovrebbero funzionare le cose. Nel nostro curioso Paese avviene che l'aggettivo «speciale» diventi una parolina magica con cui si autorizza quello che non è autorizzabile. Voi leggete: autorizzazione speciale, licenza speciale; ebbene, sappiate che, invece, è una formula con cui stanno consentendo qualche cosa che non è affatto consentito dalla legge se non come eccezione e, in tal senso, le regole sono la punta di diamante di questo meccanismo, sono in realtà il grande escamotage utilizzato per autorizzare, protraendolo nel tempo, ciò che, invece, dovrebbe essere consentito in modo provvisorio e per un periodo limitato. Infatti, questo è il meccanismo diabolico con cui il Ministero della salute, fino ad oggi, appellandosi esattamente all'articolo 53 del regolamento (CE) 1107/2009, in sostanza ha autorizzato qualcosa come 176 fitosanitari in deroga, per l'appunto, anche con principi attivi che non sono più ammessi dall'Unione europea. Comunque, sul regolamento europeo del 2009 tornerò fra qualche momento.
  Ciò che mi preme, invece, dire ora è che qui si procede a gamba tesa contro la salute dei cittadini, dei nostri mari, della nostra terra, in barba a una letteratura scientifica consistente che è a disposizione di tutti e che varrebbe la pena che anche Pag. 49i rappresentanti del Governo leggessero, ogni tanto, e prendessero in mano, perché in questa letteratura scientifica sono certificati i rischi che comporta l'utilizzo di alcune sostanze chimiche sia per l'ambiente che per la salute.
  Quindi, enti nazionali, internazionali, istituzioni, scienziati concordano sui rischi enormi ad utilizzare alcuni fitosanitari che, invece, in Italia continuano a contaminare terreni e falde acquifere e, in molti casi, vengono utilizzati negli stessi centri abitati. C’è questa grossa problematica, in realtà, dove l'agricoltura è fortemente compenetrata nel territorio abitativo e, queste due entità, si trovano ad andare l'una contro l'altra, nel senso che i prodotti che vengono utilizzati per l'agricoltura e, quindi, per la produzione vanno a danneggiare, poi, quelli che sono i cittadini che abitano in questi territori.
  Se non volete dare credito a noi del MoVimento 5 Stelle, che magari possiamo sembrare troppo sognatori per i gusti di questo Governo, potete leggere i rapporti annuali dell'ISPRA, perché c’è una cosa molto importante anche qui da sottolineare, cioè il fatto che i prodotti fitosanitari hanno una forte resistenza nel tempo, ovvero sono composti chimici che permangono nel tempo e, quindi, si accumulano nell'acqua, nel suolo e nei prodotti che mangiamo.
  Questo si è ben visto appunto nei rapporti annuali dell'ISPRA, laddove hanno trovato, nelle acque di falda e nelle acque di superficie, diversi composti chimici di origine appunto fitosanitaria.
  Potete andare a leggere la monografia dell'IARC, quindi dell'Associazione internazionale per la ricerca sul cancro, dove al volume 112 si classifica il glifosato come probabile cancerogeno per l'uomo, ed è un prodotto inserito nel gruppo 2. Sempre se non volete dare retta a noi potrete informarvi da altre fonti e scoprire che l'Organizzazione mondiale della sanità scrive a chiare lettere che il glifosato può provocare il cancro ai polmoni e il linfoma non-Hodgkin.
  Quindi, esiste una normativa europea chiara, esiste la direttiva del 2009, che ho nominato poco fa, e in Italia il Governo ha recepito questa direttiva, ma l'ha recepita male, ovviamente. Quali sono le ragioni delle tante carenze riscontrate nella normativa, se questa può consentire di utilizzare pesticidi che quella stessa direttiva a livello europeo vieta ?
  Non si può accettare che su una materia di estrema delicatezza come questa si inseriscano regole e si escogiti continuamente il trucco per bypassarle, oppure che tali regole vengano stravolte e recepite in maniera completamente contraria. Non si può nemmeno accettare che, laddove non esistono ancora delle regole, non si faccia nulla per stabilirne alcune.
  Quindi, quello che chiediamo con questa mozione è che si proceda diversamente, che ci sia un'inversione a 360 gradi su quello che si può fare in quest'ambito. Ad esempio, che venga verificata la sussistenza delle condizioni che hanno giustificato le continue autorizzazioni in deroga, interrompendo immediatamente quella dei prodotti riconosciuti come altamente nocivi, come ad esempio l'Aviozolfo e l'Aviocaffaro, tuttora utilizzati per l'irrorazione aerea in alcune regioni come il Piemonte, ad esempio. Ai decreti dirigenziali che autorizzano le deroghe, invece, devono essere allegate le schede di sicurezza dei prodotti e riviste le etichette, aggiungendo alle informazioni, per esempio, le parti mancanti relative alla composizione e al rischio.
  Vi è poi anche il discorso dei coformulanti, che non vengono specificati nelle etichette dei fitosanitari: spesso il coformulante ha anch'esso un'azione chimica sull'ambiente e sull'uomo. Vogliamo che sia introdotto appunto l'obbligo di dichiarazione in etichetta dell'identità e della concentrazione della sostanza utilizzata.
  Insomma, noi, in quanto cittadini, pretendiamo trasparenza, informazione massima, come previsto dalla legge. Esiste un decreto legislativo del 2012, il decreto n. 150, che lo prevede, e non a caso impone, tra l'altro, l'obbligo di informazione della popolazione sulle sostanze che vengono utilizzate in ambiente acquatico e dell'acqua potabile.Pag. 50
  Ma sia questo decreto sia i tanti interventi previsti dal PAN non sono stati attuati o sono stati attuati in modo sbagliato. Il problema è che non saremo mai in grado di dire se il PAN sia efficace finché non verrà messo a regime e attuato in ogni sua parte. Mi domando cosa stia aspettando il Governo, che su questo non si è mai espresso.
  E non ci stupisce che ciò non sia avvenuto, perché dare attuazione a quanto previsto dal Piano d'azione nazionale per l'uso sostenibile dei fitosanitari significherebbe assumere come pilastro dell'azione politica alcuni principi che sono evidentemente estranei a chi ci governa, primo fra tutti il principio di precauzione, ovvero quel principio generale del diritto comunitario che fa obbligo alle autorità competenti di adottare provvedimenti appropriati al fine di prevenire taluni rischi potenziali per la sanità pubblica, per la sicurezza e per l'ambiente, facendo prevalere le esigenze connesse alla protezione di tali interessi sugli interessi economici.
  Questo è un principio adottato anche dal Consiglio di Stato, ad esempio nella sentenza n. 1281 del 2013, dove si afferma: l'applicazione del principio di precauzione postula l'esistenza di un rischio potenziale per la salute e per l'ambiente, ma non richiede l'esistenza di evidenze scientifiche consolidate sulla correlazione tra la causa oggetto di divieto o limitazione e gli effetti negativi che ci si prefigge di eliminare o ridurre.

  PRESIDENTE. Concluda.

  SILVIA BENEDETTI. Concludo, Presidente. Noi chiediamo che il Governo adotti proprio questo principio, che va di pari passo a quello di responsabilità, come bussola per orientarsi su questa materia, a partire da oggi, perché gli esseri viventi e l'ambiente costituiscono un valore degno di essere salvaguardato e perché alle future generazioni abbiamo l'obbligo di lasciare un mondo sano.

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Zaccagnini, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-01019. Ne ha facoltà.

  ADRIANO ZACCAGNINI. Signor Presidente, le mozioni trattano del PAN, della possibilità della regolamentazione dell'immissione dei prodotti fitosanitari e del loro utilizzo sostenibile; che sembrerebbe quasi un ossimoro, però è comunque un percorso, che si sta avviando nell'Unione europea e in vari Paesi, di riduzione del danno, quantomeno, al fine di elaborare una strategia che sia realmente più ecocompatibile, un'agricoltura più sostenibile.
  La questione è abbastanza nota. Come piccola premessa, dalla «rivoluzione verde» di alcuni decenni fa in agricoltura sono aumentate le produzioni, ma è stata introdotta la modalità, sostanzialmente, di sterilizzare tutto ciò che è vivente e che, però, non è finalizzato alla produzione agricola. Invece che lavorare quindi con la natura, si è avviato il processo di produrre contro natura, cercando di indebolire tutto ciò che è infestante; e che può essere controllato, come testimoniano l'agricoltura biologica e l'agroecologia, in un altro modo, attraverso la lotta biologica o attraverso l'innovazione, la tecnologia e l'inserimento di altri esseri viventi, o delle tecniche o delle sostanze che vanno a indebolire i parassiti e a combattere le fitopatie.
  Da qui, in questi decenni, c’è stato un largo utilizzo di queste sostanze; poi una revisione di tutte le sostanze da parte dell'Unione europea nel 2009, e l'estromissione dal commercio di oltre 750 prodotti su 1000 che erano stati autorizzati. Ciò perché è stato rilevato come i prodotti fossero altamente nocivi e rischiosi per la salute umana, l'ambiente e altri esseri viventi non-bersaglio, altri animali e altre piante che hanno una funzione ecologica e che venivano danneggiati in modo spesso irreparabile; per quanto riguarda, quindi, la biodiversità c'era un danno molto elevato.
  Questa revisione è soltanto uno degli elementi che testimoniano come siano insostenibili e altamente nocivi i fitofarmaci e vadano quindi non solo revisionati, ma Pag. 51utilizzati con estrema cautela lì dove sono veramente necessari.
  Per questo è stato introdotto il PAN, che recepisce la direttiva comunitaria; ovvero il Piano di azione nazionale che, per quanto riguarda l'immissione in commercio, è fatto anche abbastanza bene: delinea, dai principi e a cascata fino all'applicazione, i vari passaggi, e come i prodotti debbano essere autorizzati. Per quanto riguarda, invece, la parte dell'utilizzo dei fitofarmaci è molto carente.
  Rimanendo però comunque sulla prima parte, è chiaro che la parte che desta maggiore preoccupazione è quella delle deroghe, e di come l'emergenza sia diventata la norma: caso non eccezionale in Italia, quello in cui l'emergenza diviene la norma sulla quale poi si legifera.
  Sostanzialmente ciò è avvenuto perché non si sa, a livello comunitario, cosa si intenda per emergenza fitoiatrica; di conseguenza, anche in Italia noi al momento brancoliamo nel buio e aspettiamo una definizione chiara da parte della Commissione europea.
  E gli articoli 30 e 53 del Regolamento (CE) 1107/2009, sono appunto quelli che prevedono le autorizzazioni in deroga per ragioni di emergenza fitoiatrica. Ma il carattere di eccezionalità che caratterizza appunto questa autorizzazione speciale, è spesso stato scavalcato però nei fatti perché sono stati autorizzati prodotti probabilmente non per emergenze fitosanitarie, che hanno avuto largo utilizzo anche oltre le date dei tempi di autorizzazione speciale. Quindi questa è sicuramente una parte che va sottolineato come debba essere ricondotta al senso originario che aveva la norma e non si possa continuare a procedere in deroga a tutto quanto, soprattutto nel momento in cui questi prodotti sono altamente rischiosi per la salute.
  L'altra parte invece su cui ci concentriamo nella mozione, è quella dell'utilizzo dei pesticidi, dei fitofarmaci e dei prodotti fitosanitari. In particolare abbiamo ravvisato una mancanza nel PAN che è quella delle distanze certe dai luoghi sensibili; quindi all'interno del PAN se ne fa menzione esclusivamente per i pozzi, ma noi crediamo che debbano essere regolamentate anche le distanze dai centri abitati, dalle scuole, dagli ospedali, sostanzialmente dalle aree urbane dove insiste la presenza antropica, proprio perché non possa essere semplicemente demandata come finora alle normative che vengono emanate dai comuni, dai consigli comunali e quindi dei sindaci, che hanno il dovere di tutelare la salute dei propri cittadini. Sappiamo come in alcuni comuni italiani sono state adottate delle delibere, delle ordinanze che vanno a regolamentare le distanze certe, quindi a volte sono 50 metri, a volte sono 150 metri, a volte 200 metri dai luoghi sensibili e i tempi certi di irrorazione, perché sappiamo bene che dare il tempo alle persone di prepararsi alla irrorazione dei campi vicino casa è fondamentale soprattutto se si hanno dei minori, se si hanno dei bambini, se si vanno a stendere i panni fuori o per quella che semplicemente è la quotidianità, la possibilità di vivere la propria quotidianità in sicurezza.
  Ci sembra quindi molto importante che il Governo accolga questo impegno ad introdurre distanze e tempi certi, come anche ad escludere le aree vulnerabili, i parchi pubblici ed altri luoghi dove c’è una forte insistenza delle persone, escludendo tali luoghi dalla possibilità di utilizzo dei fitofarmaci. Sappiamo come i fitofarmaci abbiamo abbattuto i costi di gestione del verde degli enti locali, ma è un fatto che si siano sostituiti i meccanismi convenzionali, ma anche quelli innovativi, quindi non si è andati avanti ad esempio nella gestione del verde con nuovi strumenti come ad esempio con la possibilità di abbattere le erbe con acqua calda, con degli strumenti, dei macchinari nuovi che permetterebbero un utilizzo, una gestione del verde sostenibile e in sintonia con il fatto che questi luoghi sono attraversati da centinaia di persone ogni giorno. Queste due sono secondo noi questioni che il Governo non può non affrontare più, la Regione Toscana ha deliberato in questo senso e ha fatto una moratoria riguardo all'utilizzo di queste sostanze nei luoghi Pag. 52pubblici, nelle aree vulnerabili, nelle aree sensibili e crediamo inoltre che il Governo debba andare avanti anche sull'approfondimento che riguarda le sostanze che sono probabilmente cancerogene come il Glifosate ed altre.
  In particolare il glisofate è un prodotto contenuto in più di 750 prodotti destinati all'agricoltura e se i rilievi scientifici confermeranno la cancerogenicità del glisofate ci troviamo di fronte a un vero e proprio avvelenamento della popolazione perpetrato per decenni e crediamo che non ci si possa voltare dall'altra parte ma semplicemente trovare soluzioni innovative attraverso la ricerca agrologica e la tecnologia in agricoltura che possa permettere di superare l'utilizzo di questo prodotto e avviarci verso un percorso di vera tutela dei nostri prodotti agroalimentari, di un'agricoltura e di un modello agricolo eco-compatibile e in ultimo ovviamente la tutela del diritto alla salute costituzionalmente sancito.

  PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Terrosi, che illustrerà anche la mozione Oliverio ed altri n. 1-01023, di cui è cofirmataria. Ne ha facoltà.

  ALESSANDRA TERROSI. Signor Presidente, il sesto programma quadro comunitario per l'ambiente, adottato dal Parlamento europeo e dal Consiglio con decisione n. 1600 del 2002 della CE, è lo strumento normativo attraverso il quale fu avviata la cosiddetta strategia tematica per l'uso sostenibile dei pesticidi, la cui attuazione è iniziata con l'emanazione di quattro provvedimenti a livello europeo: la direttiva 2009/128/CE, che istituisce un quadro per l'azione comunitaria ai fini dell'utilizzo sostenibile dei pesticidi; la direttiva 2009/127/CE, relativa alle macchine per l'applicazione dei prodotti fitosanitari; il Regolamento 1107 del 2009, relativo all'immissione sul mercato dei prodotti fitosanitari; il Regolamento 1185, relativo alle statistiche sui prodotti fitosanitari. Il primo dei quattro provvedimenti, la direttiva n. 128, è stata recepita in Italia dal decreto legislativo n. 150 del 2012, che, fra le altre cose, prevede che ogni Stato membro adotti il proprio Piano agricolo, per dare seguito a livello nazionale a quanto previsto in sede europea, armonizzando tempistiche e metodologie. Assegna cioè ad ogni singolo Stato il compito di sviluppare e sostenere politiche e azioni volte alla riduzione dei rischi nell'uso dei pesticidi e dell'impatto degli stessi sulla salute umana, sull'ambiente e sulla biodiversità. Come riportato nelle premesse al Piano agricolo nazionale, tali politiche devono assicurare lo sviluppo e la promozione di metodi di produzione agricola a basso apporto di prodotti fitosanitari, realizzare un uso sostenibile dei prodotti fitosanitari riducendone i rischi e l'impatto sulla salute umana e sull'ambiente, promuovendo specifiche azioni e metodologie ispirate ai principi dell’Integrated Pest Management, IPM, all'agricoltura biologica e più in generale all'uso di alternative non chimiche ai prodotti fitosanitari. Il decreto n. 150 del 2012 rappresenta lo strumento di recepimento nazionale della direttiva n. 128. Gli obiettivi che dovranno essere perseguiti attraverso le azioni contenute nel PAN sono enunciate all'articolo 6 del citato decreto e riguardano la protezione degli utilizzatori dei prodotti fitosanitari e della popolazione interessata, la tutela dei consumatori, la salvaguardia dell'ambiente acquatico e delle acque potabili e la conservazione della biodiversità e degli ecosistemi. A questi si aggiungono ulteriori due obiettivi generali individuati direttamente dallo stesso PAN: ridurre i rischi e gli impatti dei prodotti fitosanitari sulla salute umana, sull'ambiente e sulla biodiversità; promuovere l'applicazione della difesa integrata dell'agricoltura biologica e di altri approcci normativi alternativi. Nel decreto n. 150 sono inoltre contenute indicazioni specifiche di cui il PAN tiene conto e che riguardano i prodotti fitosanitari che non soddisfano più i criteri che avevano reso possibile la precedente autorizzazione; l'applicazione del principio di precauzione; le restrizioni nell'uso dei prodotti fitosanitari in particolari aree, quali quelle protette, o altri ambienti frequentati, quali parchi, giardini, campi Pag. 53sportivi e aree ricreative, cortili, aree verdi nei plessi scolastici, aree gioco per bambini e aree adiacenti alle strutture sanitarie; l'individuazione di indicatori per il monitoraggio e la valutazione delle misure previste nello stesso PAN per il raggiungimento degli obiettivi generali sopra citati.
  Il PAN, adottato con decreto ministeriale del 22 gennaio 2014, prevede la declinazione di una serie di azioni dettagliate e puntuali, finalizzate al raggiungimento degli obiettivi generali. Una delle azioni fondamentali, previste nel PAN, è la formazione, intesa sia come formazione di base, sia come formazione di aggiornamento. La formazione regolamentata nel PAN è destinata agli utilizzatori professionali, ai distributori di presidi fitosanitari e ai consulenti. La formazione nel settore agricolo, in questo campo, è stata attivata ben 47 anni fa, con l'adozione del decreto del Presidente della Repubblica n. 1255 del 1968, aggiornato e modificato dal successivo decreto del Presidente della Repubblica n. 290 del 2001. È bene sottolineare che, nel nostro Paese, gli utilizzatori in possesso delle abilitazioni all'acquisto e all'impiego sono circa 250 mila, mentre le abilitazioni alla vendita raggiungono la cifra di 7 mila unità. Il PAN dettaglia la durata minima dei corsi, le modalità di partecipazione e l'obbligo di frequenza, la modalità di valutazione e quella di svolgimento, la definizione di criteri per individuare i soggetti competenti alla realizzazione delle attività di formazione, la definizione di criteri per individuare i casi in cui sospendere o revocare le abilitazioni.
  Con questa nuova normativa vengono assoggettati all'acquisizione dell'abilitazione anche i consulenti fino ad oggi esclusi, seppure con la previsione di eccezioni. La formazione rappresenta evidentemente lo strumento più appropriato affinché vi sia piena consapevolezza rispetto all'utilizzo dei presidi fitosanitari in tutti i soggetti coinvolti, siano essi utilizzatori professionali, venditori e consulenti. I soggetti individuati quali attuatori della formazione si apprestano ad ultimare i corsi, posto che la scadenza per l'acquisizione della certificazione dell'abilitazione è fissata al 26 novembre 2015. È necessario procedere al monitoraggio relativo alle informazioni trasmesse a chi usufruisce della formazione e ai metodi utilizzati a tal fine. Oltre alle necessarie informazioni circa la pericolosità nell'uso dei presidi fitosanitari e alla descrizione puntuale dei danni che possono derivare da un loro non corretto impiego all'ambiente nella sua concezione più ampia, ai consumatori e, in prima istanza, agli stessi utilizzatori, occorre verificare che vi sia stato trasferimento di informazioni sui metodi alternativi che, per molte culture e in molti ambienti è possibile adottare.
  Occorre, in ultima analisi, verificare che non si tratti di corsi di formazione proforma, ma che vi sia una reale acquisizione di consapevolezza da parte dei discenti per la propria incolumità e per quella degli altri, anche attraverso la possibilità di scambi di esperienze dirette tra agricoltori e visite guidate ad aziende, che mettono in atto metodi di ICM o di agricoltura biologica.
  Tra l'altro, queste due ultime metodologie, l'ICM e l'agricoltura biologica, costituiscono argomento specifico dell'azione A7.
  Secondo i dati ISTAT riferiti al 2013, in quell'anno sono stati distribuiti 41,1 milioni di quintali di fertilizzanti, il 13,4 per cento in meno rispetto all'anno precedente. Alla diminuzione dei concimi in generale, del meno 23,9 per cento rispetto al 2012, si registra un aumento del consumo di ammendanti e di correttivi. Sempre secondo l'ISTAT, tutti i prodotti fitosanitari registrano un calo rispetto al 2012: fungicidi meno 14,6, insetticidi e acaricidi meno 15 per cento, erbicidi meno 3 per cento. Oggi sappiamo che molti di questi composti sono molecole biopersistenti, cioè resistono ai meccanismi naturali di degradazione che avvengono in natura e mantengono inalterate nel tempo le loro proprietà tossicologiche. Possono inoltre dare luogo ad un pericoloso, quanto imprevedibile, effetto deriva che ne permette la dispersione, attraverso acque e Pag. 54aria, anche a distanze considerevoli. Inoltre, talune molecole chimiche impiegate in agricoltura possono dare luogo al fenomeno della biomagnificenza, passando da un livello all'altro della catena alimentare aumentano cioè la loro concentrazione. L'OMS stima che la mortalità globale riferibile a intossicazione acuta da pesticidi superi le trecentomila unità all'anno. Tra coloro che risultano maggiormente colpiti ovviamente la categoria degli agricoltori. Le conoscenze attuali relativamente alle malattie neurodegenerative portano a pensare che esista un rapporto molto stretto tra l'utilizzazione professionale di pesticidi, in particolare insetticidi ed erbicidi, e il morbo di Parkinson, che in Francia è stato riconosciuto quale malattia professionale dei lavoratori agricoli.
  Altre ricerche mettono in luce una correlazione tra esposizione professionale ai pesticidi e la sclerosi laterale amiotrofica. Le elaborazioni effettuate dal SINAB, che è la struttura del MIPAAF dedicata all'agricoltura biologica, elaborazioni dei dati forniti al Ministero per le politiche agricole alimentari e forestali dagli organismi di controllo operanti in Italia nel settore dell'agricoltura biologica e dalle regioni, indicano un aumento complessivo degli operatori del 5,8 per cento.
  Al 31 dicembre 2014, in Italia si contano 42.546 produttori esclusivi, 6.104 preparatori esclusivi, 6.524 che effettuano sia attività di produzione che di preparazione, 259 che effettuano attività di importazione. Secondo la stessa fonte, si registra un aumento del 5,4 per cento della superficie coltivata con metodo biologico, che è pari a un milione 387 mila ettari circa, e quindi pari al 10,8 per cento della SAU nazionale: circa un punto percentuale in più rispetto all'anno precedente.
  Relativamente alle produzioni animali realizzate con metodo biologico, si registra, anche qui, un aumento consistente soprattutto nella produzione di suini e pollame bio. Il trend positivo dei consumi relativi ai prodotti biologici, in atto ormai dal 2005, si conferma. Secondo i dati Panel famiglie Ismea-Nielsen, gli acquisti di prodotti bio confezionati sono cresciuti in valore dell'11 per cento nel 2014, anche grazie a un incremento, più 14 per cento, del numero di referenze presenti a scaffale.
  L'evoluzione delle vendite bio per l'anno 2014 è legata principalmente ad un consistente aumento per i derivati dei cereali e degli ortaggi. È evidente l'orientamento dei consumatori sempre più verso la qualità delle produzioni, laddove la qualità viene intesa anche come salubrità dei prodotti alimentari stessi, garantita da una più bassa o nulla presenza di residui di prodotti fitosanitari. Tale obiettivo è evidentemente raggiungibile indifferentemente con l'adozione di metodi di ICM e di agricoltura biologica, ma, per ottenere benefici completi e di lunga durata, che si estrinsecano sia nel miglioramento delle condizioni del terreno sia delle acque superficiali e profonde sia sulla biodiversità, l'adozione di un metodo completo è certamente più efficace.
  Un metodo, quello dell'agricoltura biologica, che garantisce l'uso di pratiche agronomiche, lavorazioni, nutrizione del terreno, di difesa fitosanitaria e di gestione delle erbe infestanti tra loro interagenti, e non disgiunte, in una visione olistica dell'agroecosistema, e non particolaristica dell'una o dell'altra componente. Appaiono, pertanto, importanti le sotto azioni previste nel PAN, in modo particolare quelle relative all'elaborazione e messa a disposizione degli agricoltori di linee guida e manuali specifici per l'adozione delle suddette pratiche, anche se, come già riportato, appare ulteriormente importante il monitoraggio dei contenuti trasmessi durante la formazione; così come appare importante l'azione A.2.5, che prevede l'attivazione di insegnamenti specifici sulle materie trattate dal PAN, nonché la loro divulgazione e conoscenza nell'ambito degli istituti tecnici agrari e delle università.
  Uno degli obiettivi fondamentale del PAN è la riduzione dell'inquinamento delle acque superficiali e sotterranee. Il rapporto dell'ISPRA inerente tale tipologia di inquinamento, riferito ai dati 2011 e 2012, riporta che sono state registrate in Pag. 55totale 175 sostanze e, in alcune stazioni, fino a 36 sostanze contemporaneamente. Sono stati monitorati 3.500 punti e prelevati 14.250 campioni. Nei 1.355 punti di monitoraggio delle acque superficiali sono stati ritrovati pesticidi nel 56,9 per cento dei casi. Nei 2.415 punti di monitoraggio delle acque sotterranee sono stati ritrovati pesticidi nel 31 per cento dei casi.
  Spesso le concentrazioni rinvenute erano basse, ma la contaminazione molto diffusa; duecento sostanze tra quelle attualmente in uso non sono incluse nei programmi di monitoraggio. E, infine, non è dato, fino ad oggi, conoscere l’«effetto cumulo» dovuto alla presenza contemporanea di più principi attivi. Particolarmente significativi risultano gli ultimi due punti, per cui è necessario provvedere all'ampliamento del ventaglio di sostanze indagate dai protocolli di monitoraggio, se si tiene conto del fatto che 38 di queste sostanze non monitorate sono descritte come pericolose per gli ambienti acquatici e per l'ambiente nel suo complesso.
  Si reputa necessario sostenere ricerche specifiche che mettano in luce gli effetti cumulati dovuti alla presenza di più principi attivi. Le conclusioni sulla tossicità delle miscele elaborate da tre comitati scientifici della Commissione europea, pubblicate nel 2012, mettono in evidenza che l'esposizione contemporanea a diverse sostanze chimiche può dar luogo ad effetto sinergico, oltre che ad effetto additivo, con effetti tossici maggiori di quelli causati dall'azione dei singoli principi attivi.
  Particolare attenzione merita il sistema delle autorizzazioni alla messa in commercio dei prodotti fitosanitari, disciplinato dal regolamento CE n. 1107/2009, il quale prevede, tra l'altro, la procedura delle autorizzazioni eccezionali, che il singolo Stato può autorizzare qualora si verifichino emergenze fitoiatriche, cioè problematiche non prevedibili e non curabili con metodi alternativi o con sostanze diverse dagli agrofarmaci di sintesi, per le quali viene autorizzata in deroga l'estensione dell'uso per uno specifico presidio.
  In particolare, le autorizzazione eccezionali di prodotti fitosanitari rilasciate per ragioni di emergenza fitoiatrica sono disposte dall'articolo 53 del regolamento CE n. 1107/2009.
  Come riportato sul sito del Ministero della salute, la Commissione europea sta predisponendo una nuova linea guida ad uso degli Stati membri al fine di chiarire in quali circostanze una situazione può essere definita di emergenza fitoiatrica e allo scopo di uniformare le procedure di rilascio di dette autorizzazioni da parte degli Stati stessi.
  Saranno, inoltre, fornite indicazioni procedurali su come effettuare la richiesta di autorizzazioni eccezionali. Il chiarimento dei citati aspetti appare di importanza notevole, se si considera che negli ultimi anni sempre maggiore è stato il ricorso ad utilizzazioni in deroga, laddove invece è auspicabile che queste avvengano in relazione ad effettiva necessità.
  Infine, merita un approfondimento la vicenda del noto erbicida glifosate, individuato dalla Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro di Lione come probabile cancerogeno per gli esseri umani, insieme ad altre quattro molecole. Questo principio attivo, il glifosate, è contenuto – è stato già detto – in circa 750 prodotti utilizzati per l'agricoltura, il giardinaggio e il trattamento degli spazi urbani. Pertanto, sono molto numerosi sia gli utilizzatori, sia i fruitori dei luoghi in cui vengono eseguiti i trattamenti che ne possono venire a contatto.
  Le ricerche condotte dallo IARC meritano senz'altro la giusta valutazione da parte delle autorità nazionali ed europee, in relazione all'opportunità di continuare ad utilizzare il principio attivo denominato glifosate sulla scorta delle informazioni emerse circa l'attività tossicologica dello stesso in base al ben noto, e richiamato anche nel decreto legislativo n. 150 del 2012, principio di precauzione.

  PRESIDENTE. Concluda.

  ALESSANDRA TERROSI. La normativa europea e nazionale – e mi avvio a concludere – nonché gli orientamenti dei consumatori in materia di alimentazione, Pag. 56così come quelli di un'intera società tendenzialmente più attenta alle tematiche della qualità del cibo e, più in generale, della qualità della vita (la quale viene sempre più identificata con la possibilità di vivere in un ambiente salubre in cui le attività produttive, agricoltura in primis, siano rispettose delle dinamiche e delle diverse componenti ecosistemiche), indicano che è necessario compiere tempestivamente tutti gli atti normativi per attuare pienamente la politica di salvaguardia dell'ambiente, della salute, della biodiversità, contenuta nel decreto legislativo n. 150 e nel PAN, privilegiando tutte le azioni che contemplano l'adozione di metodi agronomici, fisici e meccanici e che permettono il non utilizzo, o il ridotto impiego, di presidi fitosanitari di sintesi chimica.

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Palese, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-01024. Ne ha facoltà.

  ROCCO PALESE. Grazie, Presidente. Anche Forza Italia presenta una mozione in riferimento all'argomento che è stato trattato qui precedentemente dai colleghi, con la presentazione di altrettante autorevoli e opportune mozioni, che riguarda il sistema di autorizzazione dei prodotti fitosanitari.
  In particolare, ci è stato illustrato che il vero problema, nel contesto dell'ordinamento che riguarda il sistema autorizzativo di questi prodotti, sono le deroghe che continuamente vengono effettuate.
  Siccome c’è grande preoccupazione, bisogna dire che, secondo quanto risulta da recenti analisi effettuate dalle principali organizzazioni agricole nazionali, in Italia non possiamo parlare di uso massiccio di prodotti fitofarmaci, in quanto gli ultimi dati ISTAT pubblicati nell'ultimo rapporto del 20 gennaio 2015 evidenziano come, nel periodo 2002-2013, la quantità dei prodotti distribuiti per uso agricolo sia diminuita complessivamente di 76 tonnellate.
  Al riguardo, il perpetuarsi del ricorso alle autorizzazioni date in deroga, che dovrebbero essere eccezionali (41 nell'anno 2012, 60 nell'anno 2013 e 75 nell'anno 2014) e le cui procedure consentono di non effettuare l'iter previsto dal sistema autorizzativo (che indica, fra l'altro, la verifica dell'impatto ambientale e sulla salute), rischia di causare gravi difficoltà sui controlli nei confronti dei delicati equilibri degli ecosistemi e dell'ambiente.
  Le suindicate autorizzazioni in deroga di prodotti fitosanitari rilasciate per ragioni di emergenza fitoiatrica sono utilizzate, in particolare, per sostanze le cui schede di sicurezza indicano, peraltro, principi attivi con classi di rischio nocive e tossiche per l'individuo e l'ambiente. I permessi per la produzione, il confezionamento dei prodotti fitosanitari e quanto disposto dall'articolo 30 del regolamento (CE) n. 1107/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, per alcuni fitosanitari, consentono agli Stati membri l'immissione sul mercato di prodotti fitosanitari contenenti una sostanza attiva non ancora approvata, per un periodo provvisorio non superiore a tre anni, a condizione che la decisione di approvazione sia adottata entro un termine di trenta mesi dalla data di ammissibilità della domanda.
  A giudizio del sottoscrittore, la suindicata disposizione comunitaria è stata effettivamente disattesa, considerando che le autorizzazioni eccezionali si sono perpetuate oltre i tre anni previsti ed inoltre risulta, altresì, irregolare il reiterarsi dell'emergenza oramai in via di prassi, così come altrettanto rischia di diventare un abuso il ricorso annuale all'articolo 53 del regolamento (CE) relativo alle autorizzazioni provvisorie di prodotti fitosanitari rilasciate per ragioni di emergenza fitoiatrica.
  È questo l'aspetto principale per cui si chiede l'impegno da parte del Governo rispetto alle autorizzazione date in deroga, che hanno superato poi il periodo di tre anni con tutto quello che si è determinato. Infatti i vari colleghi che mi hanno preceduto, con ricchezza di motivazioni e di dati dimostrati dal punto di vista scientifico, hanno illustrato quanto possa essere pericoloso e nocivo lo stato di queste autorizzazioni rispetto a questi prodotti e Pag. 57quanto danno possano determinare sia nei confronti dell'ambiente sia nei confronti della salute.
  Per questo motivo, al di là di tutte le considerazioni che dal punto di vista scientifico ribadisco senza riprendere, ritengo essenziale che il Governo si impegni ad intervenire al fine di rivedere il sistema delle autorizzazioni dei prodotti fitosanitari in deroga rilasciate per ragioni di emergenza fitoiatrica, disposte ai sensi dell'articolo 53 del regolamento (CE) n. 1107/2009, con assoluta urgenza, valutando l'opportunità di interrompere le autorizzazioni eccezionali protratte oltre i tre anni indicati dall'articolo 30 della medesima disciplina comunitaria.
  Occorre che il Governo si impegni a prevedere conseguentemente una linea guida più rigorosa, attraverso una riduzione del ricorso alle deroghe al fine di non stravolgere la reale finalità di emergenza fitoiatrica che, a causa del continuo ricorso allo strumento della deroga, rischia effettivamente di perdere completamente il suo significato e il suo scopo reale.
  È necessario che il Governo si impegni ad adottare, entro dodici mesi, gli atti e le misure previste dal decreto legislativo n. 150 del 2012 e dal piano di azione nazionale, non ancora emanati, per i quali risultano già scaduti i termini, nonché ad assumere ogni iniziativa di competenza affinché le regioni e le province autonome che non abbiano ancora provveduto trasmettano le informazioni indicate all'interno del decreto legislativo n. 150 del 2012, per le quali i termini risultano già trascorsi.
  Occorre che il Governo si impegni ad intervenire al fine di incrementare il sistema dei controlli in maniera più stringente sull'uso corretto dei pesticidi in agricoltura, con particolare riferimento al fenomeno del multiresiduo e delle sue possibili ripercussioni sulla salute dei consumatori e dell'ambiente, la cui normativa continua a considerare sempre un solo principio attivo, nonostante se ne riscontrino più di dieci, con potenziali effetti sinergici negativi.
  È necessario, infine, che il Governo si impegni a intervenire presso le Commissioni parlamentari competenti al fine di rendere noto lo stato dei lavori sulla predisposizione degli atti, delle misure e delle linee guida previsti dal decreto legislativo n. 150 del 2012 e dal piano di azione nazionale.

  PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Gagnarli. Ne ha facoltà.

  CHIARA GAGNARLI. Grazie Presidente. Secondo l'ultimo aggiornamento ISTAT relativo ai consumi di fitosanitari in Italia, dal 2002 al 2013 la quantità di pesticidi distribuiti per uso agricolo si è ridotto del 29 per cento. Si tratta di un calo significativo, certo, a cui però dobbiamo collegare il graduale e progressivo aumento di aziende agricole che hanno deciso di produrre secondo i criteri del biologico. Basti considerare, infatti, che dal 2010 al 2013, su scala nazionale, la superficie agricola coltivata a biologico è cresciuta del 23 per cento.
  Già dal 2002 si sono mossi i primi passi verso una riduzione e un uso più razionale dei prodotti fitosanitari. Nell'ambito del Sesto programma di azione per l'ambiente, adottato dal Parlamento e dal Consiglio europeo, era stata prevista la necessità di elaborare una strategia tematica per l'uso sostenibile dei pesticidi. In linea con questa volontà, la direttiva europea 2009/128/CE ha descritto un quadro di azione comunitario e ha rimandato agli Stati membri l'adozione dei piani di azione nazionale per l'uso sostenibile dei pesticidi.
  L'Italia ha recepito la direttiva nel 2014, adottando un piano con obiettivi importanti, come la riduzione dell'impiego di pesticidi in agricoltura e in ambiente urbano, un piano che dovrebbe investire su formazione, sensibilizzazione, tutela dei consumatori, salvaguardia dell'ambiente e della biodiversità.
  Ad oggi, tuttavia, si può affermare che la situazione è ben lontana dagli obiettivi prefissati. La normativa vigente ha portato sicuramente ad un maggiore esame delle Pag. 58sostanze attive impiegate nelle formulazioni e a controlli più stringenti sull'uso corretto dei pesticidi in agricoltura.
  Tuttavia, i piani di controllo di residui di fitosanitari negli alimenti predisposti a livello europeo e nazionale non dedicano, ad esempio, la giusta attenzione al fenomeno del multiresiduo e delle sue possibili ripercussioni sulla salute dei consumatori. Poca attenzione finora è stata posta alla valutazione degli effetti sinergici che potrebbero derivare dalla presenza concomitante di più residui chimici in uno stesso alimento, seppure a basse concentrazioni e seppure entro i termini di legge.
  Una maggiore attenzione deve essere rivolta alle ricadute negative che il massiccio impiego di pesticidi ha determinato e continua a determinare sull'ambiente. Sarà sicuramente necessario approfondire quali sono stati e quali sono i meccanismi di accumulo nel suolo, le dinamiche di trasferimento e il destino di questi a lungo termine nell'ambiente.
  Fortemente minacciata è anche la salute delle acque, come l'ISPRA ha sottolineato nell'ultimo rapporto sullo stato delle acque italiane, che ha rilevato la presenza nelle acque superficiali e sotterranee di 175 diverse sostanze chimiche, glifosate in testa, seguito da fungicidi e insetticidi.
  L'agricoltura italiana sta compiendo diversi sforzi nella direzione di un uso sostenibile dei pesticidi. Ma sulla normativa che recepisce la direttiva europea abbiamo riscontrato diverse lacune, più volte rimarcate anche con numerosi atti di sindacato ispettivo.
  Tanto per cominciare il PAN, il piano per l'uso sostenibile dei prodotti fitosanitari, non ha individuato degli obiettivi quantitativi di riduzione dei pesticidi in agricoltura. Nelle premesse c’è scritto che verranno individuati, ma la direttiva n. 128 del 2009 sancisce che sono necessari per valutare i progressi. Quindi, vanno individuati al più presto; anzi, sarebbero dovuti già essere stati individuati.
  Soffermiamoci, quindi, sulle scelte fatte dal nostro Paese per il recepimento della direttiva. Con il decreto interministeriale 22 gennaio 2014, che ha seguito il decreto legislativo n. 150 del 2012, si dovevano centrare gli obiettivi fissati dalla stessa direttiva. Invece, si è approvato un contenitore vuoto, che per funzionare ha bisogno di tanti decreti attuativi, la maggior parte dei quali non ha ancora visto la luce. Ad oggi sono stati emanati pochissimi decreti: le linee guida per la scelta delle misure da inserire nei piani di gestione e le misure di conservazione dei siti Natura 2000 per le aree protette; il decreto sui criteri ambientali minimi per i trattamenti su strade, autostrade e ferrovie; il manuale di difesa integrata. Ma a che punto sono gli altri decreti ?
  L'articolo 24 del decreto legislativo n. 150 del 2012 stabilisce le sanzioni per la mancata applicazione delle prescrizioni stabilite dal decreto stesso. Tuttavia, risulta evidente che la maggior parte delle sanzioni interessa la parte della distribuzione e della formazione professionale, trascurando, ad esempio, quelle relative all'articolo 11, riguardante informazione e sensibilizzazione, all'articolo 14, riguardante la tutela dell'ambiente acquatico e delle acque potabili, all'articolo 15, riguardante la tutela delle aree specifiche, all'articolo 17, riguardante la manipolazione e lo stoccaggio dei prodotti fitosanitari per il trattamento dei relativi imballaggi e delle rimanenze, e all'articolo 19, in merito all'applicazione dei principi generali della difesa integrata obbligatoria. Senza sanzioni sulla non applicazione di tali misure, ribadisco, obbligatorie, l'efficacia del piano viene a cadere.
  Inoltre, l'articolo 25, comma 3, del decreto legislativo n. 150 prevede un decreto del Mipaaf, da emanarsi entro il 12 agosto 2014, con cui determinare le tariffe e il relativo versamento per i controlli delle attrezzature di applicazione dei prodotti fitosanitari. Ci chiediamo che fine ha fatto. Sempre sulla manutenzione e la taratura delle macchine irroratrici, l'accreditamento dei centri di prova è parecchio indietro. Ci sono 194 centri in Italia e 517 tecnici abilitati. Ma le regioni, ad esempio come la Puglia, non hanno neanche un centro prova. Se consideriamo che Pag. 59le apparecchiature per l'irrorazione da revisionare in Italia sono circa 600 mila e devono essere sottoposte a controllo funzionale entro il 26 novembre 2016, con i dati attuali, ogni centro ha in carico oltre 3 mila irroratrici. Visto il numero ridotto di macchine ad oggi controllate, ci sembra impossibile riuscire a rispettare la scadenza data dal PAN e dalla direttiva.
  L'articolo 10, comma 4, prevedeva un altro decreto ministeriale, da emanarsi entro il 26 novembre 2013, per adottare specifiche disposizioni per l'individuazione dei prodotti fitosanitari destinati agli utilizzatori non professionali. Il paragrafo A.3.10 del PAN prevedeva un decreto del Mipaaf, da emanarsi entro sei mesi dall'approvazione del piano d'azione nazionale, per la costituzione di una banca dati nazionale relativa ai controlli effettuati sulle macchine di distribuzione dei fitofarmaci e sul ruolo di ENAMA, organismo di supporto al Mipaaf.
  L'articolo 14 del decreto legislativo n. 150 specifica che il piano di azione nazionale definisce le misure appropriate per la tutela dell'ambiente acquatico e delle fonti di approvvigionamento di acqua potabile dall'impatto dei prodotti fitosanitari e che le regioni assicurano l'attuazione delle misure previste dal piano, informando ogni anno il Ministero dell'ambiente e quello della salute riguardo le misure adottate. Anche questo manca. Oltre a quanto citato, altre misure e decreti attuativi dovranno far seguito al piano di azione nazionale, per il quale non è stato definito un termine temporale, ad esempio, le misure per disciplinare la vendita di prodotti sanitari on line.
  Per questo, abbiamo impegnato il Governo ad adottare al più presto i decreti mancanti, per i quali risultino già scaduti i termini, nonché ad assumere ogni iniziativa affinché le regioni e le province autonome che non vi abbiano ancora provveduto trasmettano le informazioni necessarie ai ministeri competenti, inoltre a valutare anche la possibilità di implementare l'articolo 24, quello sulle sanzioni, di cui ho parlato prima, con un impianto sanzionatorio più esaustivo di quello che c’è adesso (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Busto. Ne ha facoltà.

  MIRKO BUSTO. Grazie, Presidente. Io inizierò con un inquadramento un po’ più largo, parlando del cambiamento climatico. Il mondo sta cambiando. Ci ritroviamo in una nuova fase, in una nuova era geologica, che è stata chiamata antropocene.
  Lasciamo dietro un periodo di stabilità climatica piuttosto lungo che si chiama olocene, in cui si sono sviluppate le civiltà umane grazie, appunto, alla stabilità climatica e al fatto di avere la possibilità di sviluppare un'agricoltura attorno alla quale si sono sviluppate le società umane. Noi oggi ci troviamo in una nuova era in cui la stabilità climatica non sarà probabilmente più garantita. Gli studi della IPCC e gli studi del report internazionale ci dicono che affronteremo un periodo di aumento del numero e dell'intensità dei fenomeni climatici estremi; avremo aumento di temperatura, siccità, scioglimento dei ghiacci perenni e anche dei ghiacciai e, quindi, minore disponibilità di risorse idriche. Questo ci porterà a mettere in difficoltà un sistema fondamentale per la sopravvivenza della specie umana sul pianeta, che è quello agricolo.
  Allora, in quest'ottica credo sia necessario che cominciamo seriamente a mettere in discussione un sistema agricolo industriale che è diventato parte del problema delle emissioni di gas serra. Attualmente, la produzione di cibo globalmente incide per circa il 30 per cento nelle emissioni di gas serra, però la cosa molto interessante è che il settore agricolo può diventare, al contrario, un assorbitore di gas serra qualora modificasse la propria modalità. Attualmente, la gran parte del cibo prodotto sul pianeta Terra è dovuto ad un'agricoltura che non è industrializzata; nonostante non sia quella che occupa il maggior quantitativo di suolo, l'agricoltura che produce maggiormente è ancora Pag. 60quella contadina, quella più vicina alle tradizioni. Noi oggi abbiamo forse la necessità di mettere in discussione un sistema agricolo che attualmente partecipa alla creazione di un problema fondamentale come quello del cambiamento climatico e che può diventare, appunto, come dicevo, parte della soluzione. Circa la questione dei pesticidi e dell'uso sostenibile dei pesticidi, io mi focalizzerò principalmente sul glifosate, che è parte di questa mozione. Si inscrive esattamente in questo ripensamento dell'agricoltura. E, allora, andiamo direttamente a parlare del glifosate. Il glifosate è il più famoso e diffuso erbicida non selettivo al mondo. È largamente usato come diserbante nelle colture legnose, nei vigneti, negli oliveti, nei frutteti, negli agrumeti, nelle colture orticole, cerealicole, come il riso, la soia, i vivai, i legumi, le patate, semi oleosi e girasoli. Ma è anche usato negli ambienti urbani, per esempio per diserbare le strade, i marciapiedi e le ferrovie. È utilizzato anche per altre funzioni e questa sostanza chimica ha una storia piuttosto lunga, una storia industriale piuttosto lunga. È stata inventata all'inizio degli anni Settanta da John Franz, un chimico che lavorava per la multinazionale Monsanto. Nel 1974 viene commercializzato con il nome di Roundup e diventa immediatamente diffusissimo in agricoltura per le sue proprietà, come la capacità appunto di essere un erbicida non specifico. In particolare, diventa anche interessante per la possibilità, che subito viene introdotta, di modificare geneticamente alcune specie di piante come il cotone e il mais per renderle non attaccabili da questo pesticida aspecifico. Quindi, la soia, il cotone e il mais erano Roundup ready. Nel 2001 il brevetto Monsanto è scaduto e questo, però, ha peggiorato solo la situazione perché il principio attivo del glifosate oggi è usato nella preparazione, come abbiamo detto tutti quanti, di almeno 750 erbicidi destinati all'agricoltura. Il glifosate rimane uno dei prodotti di punta ancora oggi della Monsanto, grazie principalmente alla produzione di soia, mais e cotone Roundup ready, resistente all'erbicida. In particolare, la soia Roundup ready è il prodotto OGM più coltivato al mondo. Quindi, prima che il Governo prenda la sua posizione sul glifosate e, in particolare, su questo punto di questa mozione, vorrei ricordare una cosa che probabilmente è stata ricordata negli interventi precedenti: nel 2015, uno studio dell'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) ha classificato il glifosate come probabile cancerogeno per l'uomo. La stessa Agenzia ha dichiarato che esistono prove convincenti in grado di dimostrare la cancerogenicità negli animali di laboratorio. Il glifosate, inoltre, causa danno al DNA e ai cromosomi delle cellule umane.
  In un altro studio pubblicato su The Lancet Oncology dopo tre anni di ricerche coordinate da 17 esperti in 11 Paesi, si è rivelata una forte correlazione epidemiologica tra l'esposizione al glifosate e il linfoma non-Hodgkin. Allo stesso modo, la pubblicazione scientifica Review Shows Potential Toxic Effects of Glyphosate del dottor Mesnage ed altri, una pubblicazione del 2014, ha rilevato che le formulazioni commerciali contenenti glifosate sono 1.000 volte più tossiche del solo principio attivo, rivelando gli effetti sinergici tra i componenti dell'erbicida, componenti che attualmente non sono neanche esattamente dichiarati in etichetta, come ad esempio i cooformulanti. Altri studi già pubblicati dagli anni Ottanta classificano il glifosate come un interferente endocrino, e lo associano ad aumenti di leucemie infantili e malattie neurodegenerative, Parkinson in testa. Nonostante queste evidenze scientifiche, il nostro Governo ha addirittura incluso il glifosate nel programma per l'uso sostenibile dei pesticidi del Piano agricolo nazionale; per tale ragione noi chiediamo su quali basi scientifiche e scelte razionali sia basata questa decisione. Gli effetti collaterali del glifosate, non si esauriscono nell'ambito sanitario ma hanno un forte impatto sull'inquinamento delle falde acquifere, sulla riduzione della biodiversità e sull'emissione di gas a effetto serra, soprattutto nelle zone vinicole e cerealicole. È importante sottolineare che il glifosate è causa Pag. 61di una maggiore vulnerabilità nei confronti delle malattie delle piante, questo è un discorso che avevamo affrontato anche precedentemente quando si parlava di xylella. Al contrario di quanto dice il nostro Presidente del Consiglio, noi crediamo che in Italia non ci sia un eccesso di complottismo, ma ci sia semplicemente una maggiore attenzione da parte della cittadinanza alla propria salute e che quindi, in particolare, prodotti come il glifosate, che hanno una storia di pubblicazioni scientifiche quantomeno allarmanti e che alcuni Paesi, tra cui diversi anche dell'Unione europea, hanno deciso di bandire il suo utilizzo in agricoltura, vadano vietati. Noi crediamo che bandire nel nostro territorio l'utilizzo a tutti i livelli del glifosate è il primo passo fondamentale che l'Italia e gli altri Paesi europei devono affrontare senza indugi per la preservazione del nostro ambiente, della biodiversità, e per la salute degli esseri umani.
  Voglio solo finire portando a conoscenza di quest'Aula uno studio sulle api condotto dai ricercatori della Boston University e Abraxis LLC dello scorso febbraio. I ricercatori hanno trovato tracce significative di glifosate nel miele, 62 per cento nel miele convenzionale e nel 45 per cento di quello biologico, ciò a dimostrazione di quanto sia pervasivo nella catena alimentare questo prodotto. Un altro studio finanziato dal Dipartimento Agricoltura degli Stati Uniti e pubblicato sul Journal of Experimental Biology ha dimostrato che la crescente moria di api è dovuta anche all'effetto del glifosate su questi insetti, che perdono la capacità di orientamento.
  Sulla base di questi fattori noi crediamo che sia importante prendere una decisione chiara, visto che alla fine dell'anno verrebbe anche a scadere l'autorizzazione comunitaria. Con la nostra mozione chiediamo pertanto che questo prodotto venga escluso dall'utilizzo (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

  PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali delle mozioni. Prendo atto inoltre che il Governo si riserva di intervenire nel prosieguo del dibattito.
  Avverto che è stata testé presentata un'ulteriore nuova formulazione della mozione Benedetti ed altri n. 1-00720 (Vedi l'allegato A – Mozioni). Il relativo testo è in distribuzione. Il seguito del dibattito è pertanto rinviato ad altra seduta.

Discussione delle mozioni Alli ed altri n. 1-00956, Spadoni ed altri n. 1-01018 concernenti iniziative per rafforzare la cooperazione allo sviluppo a favore dei Paesi africani, anche nella prospettiva della riduzione dei flussi migratori (ore 18,40).

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione delle mozioni Alli ed altri n. 1-00956, Spadoni ed altri n. 1-01018 concernenti iniziative per rafforzare la cooperazione allo sviluppo a favore dei Paesi africani, anche nella prospettiva della riduzione dei flussi migratori (Vedi l'allegato A – Mozioni).
  Avverto che è stata presentata una nuova formulazione della mozione Alli ed altri n. 1-00956, che è stata sottoscritta, tra gli altri, anche dalla deputata Quartapelle Procopio che, con il consenso degli altri sottoscrittori, ne diventa la seconda firmataria. Il relativo testo è in distribuzione (Vedi l'allegato A – Mozioni).
  Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi riservati alla discussione delle mozioni è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).

(Discussione sulle linee generali)

  PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali delle mozioni.
  È iscritto a parlare l'onorevole Palese. Ne ha facoltà.

  ROCCO PALESE. Grazie Presidente. L'aggravarsi dei conflitti nell'area mediterranea Pag. 62e mediorientale, il gonfiarsi delle ondate di migranti in cerca di protezione e asilo e il crescente numero di morti per migrazione stanno spingendo finalmente l'Unione europea, insieme agli Stati membri, ad adottare una serie di misure volte a rispondere alle sfide sollevate dai flussi migratori, cercando di affrontare la questione con maggiore realismo e determinazione. È ora più che mai necessario intensificare gli sforzi per garantire una risposta sufficiente e adeguata all'attuale crisi in materia di migrazione e rifugiati e definire una politica migratoria europea credibile. Siamo, infatti, di fronte a una svolta epocale, in cui assistiamo a vere e proprie migrazioni di popoli.
  La risposta alle pressioni migratorie che caratterizzano in particolare il Mediterraneo passa, innanzitutto, attraverso la protezione di coloro che ne hanno bisogno, anche per evitare ulteriori perdite di vite umane in mare. Ma è fondamentale, allo stesso tempo, affrontare con sistematicità le cause profonde della migrazione, chiave di volta per offrire soluzioni a una questione che oramai, da troppo tempo, non si muove più sulla linea dell'emergenza, ma che ha carattere strutturale. Da questo punto di vista, le azioni definite dall'Europa, non sono state affatto sufficienti: l'attenzione si è concentrata piuttosto sul rafforzamento della presenza in mare, sulla lotta ai trafficanti, e, solo in parte, sul rafforzamento della solidarietà e delle responsabilità interne dei singoli Stati, mentre praticamente nulla è stato fatto per la creazione di canali di migrazione legale.
  Nonostante nel recente dibattito sulla questione si parli sempre più spesso della necessità di una politica finalizzata al miglioramento delle condizioni di vita nei Paesi di provenienza, ovvero quelli da cui hanno origine i flussi, cambiando totalmente l'approccio al tema migratorio, anche su questo fronte gli sforzi risultano inadeguati. Anche Papa Francesco, nel suo messaggio per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato che la Chiesa celebrerà il prossimo 17 gennaio, ha parlato di «diritto a non emigrare per contribuire allo sviluppo del Paese d'origine», evidenziando l'opportunità di un processo che dovrebbe includere, nel suo primo livello, la necessità di aiutare i Paesi da cui partono migranti e profughi, confermando che «la solidarietà, la cooperazione, l'interdipendenza internazionale e l'equa distribuzione dei beni della terra sono elementi fondamentali per operare in profondità e con incisività soprattutto nelle aree di partenza dei flussi migratori, affinché cessino quegli scompensi che inducono le persone, in forma individuale o collettiva, ad abbandonare il proprio ambiente naturale e culturale».
  La cooperazione allo sviluppo dei Paesi in via di sviluppo potrebbe, quindi, rappresentare, a nostro avviso, uno degli strumenti più efficaci per contrastare l'esodo di milioni di persone che vogliono sottrarsi alla fame, alle guerre, allo sfruttamento e alle malattie. Se da una parte, però, «aiutarli a casa loro» sembrerebbe essere la soluzione, dall'altra i dati dimostrano che gli aiuti internazionali ai Paesi in via di sviluppo – salvo poche eccezioni – sono da anni fermi sotto allo «zero virgola» del PIL; così i trasferimenti delle collettività all'estero verso i luoghi d'origine continuano a rappresentare il sostegno più cospicuo alle economie dei Paesi che maggiormente alimentano i flussi migratori.
  Pertanto, si chiede un impegno da parte del Governo a cooperare con gli altri Paesi dell'Unione europea per un governo complessivo del fenomeno migratorio, avviando un rafforzamento delle relazioni con i Paesi di origine e di transito, dirette al contenimento dei flussi migratori, nonché al potenziamento di ogni forma di collaborazione legata a procedure di identificazione e rimpatrio dei clandestini; a sollecitare con forza un fattivo impegno degli Stati dell'Unione europea volto a rafforzare il sostegno allo sviluppo dei Paesi di origine e di transito nella prospettiva di una necessaria partnership che favorisca sicurezza, cooperazione e sviluppo, facilitando aiuti economici legati a un'efficace lotta alla migrazione clandestina e alle organizzazioni criminali che la sostengono; a rafforzare i partenariati istituzionali Pag. 63e commerciali strategici con i Paesi individuati come prioritari per interrompere i flussi di immigrazione clandestina e creare canali di migrazione legale; a incrementare gli interventi di cooperazione allo sviluppo per i Paesi africani, soprattutto nei settori agricolo e sanitario, coinvolgendo il più possibile le associazioni della società civile; a favorire, anche con sostegni economici e giuridico-tecnici, la ricostruzione istituzionale dei Paesi africani, favorendo le condizioni di stabilità politico-istituzionale indispensabili anche per garantire le necessarie condizioni di sicurezza per gli investitori; ad adoperarsi per la realizzazione di progetti di educazione scolastica e infantile nei Paesi africani, per fornire un'impronta consapevole dei diritti umani, con ogni forma di garanzia e tutela dei minori; ad adottare nelle sedi internazionali opportune iniziative volte alla promozione della democrazia e del pieno rispetto dei diritti umani, e dei diritti fondamentali di libertà e di uguaglianza e, infine, ad agire, con particolare riferimento all'area mediterranea, per promuovere condizioni di sviluppo equilibrate, anche mediante la diffusione dell'informazione e delle conoscenze tecnologiche, nel rispetto dell'ambiente e dei diritti universali.

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Paolo Alli, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00956 (Nuova formulazione). Ne ha facoltà.

  PAOLO ALLI. Grazie Presidente. Il tentativo di questa mozione è quello di guardare avanti su un tema ormai divenuto epocale come quello dei fenomeni migratori di dimensioni colossali ai quali stiamo assistendo, migrazioni tra Paesi, migrazioni all'interno di uno stesso Paese, temi gravi, temi dei quali molti parlano, sciorinando, ogni giorno, ricette magiche.
  Qualche leader importante italiano annuncia ogni tanto qualche viaggio in Africa: ci auguriamo di vedere prima o poi questo biglietto aereo e le conclusioni che potranno avere queste iniziative sporadiche e velleitarie. Noi crediamo che il Parlamento possa invece stimolare il Governo ad una serie di azioni importanti, perché molto si può fare, a partire da quello che già possiamo da subito mettere in campo.
  È chiaro che i flussi migratori per il nostro Paese provengono in larga misura dall'Africa, e l'altra cosa chiara è che questi flussi non sono più un fatto emergenziale, ma sono ormai divenuti un fenomeno strutturale, legato evidentemente a condizioni locali nei Paesi di origine di queste migrazioni, che vedono indici di espansione demografica molto elevati, che vedono spesso l'esistenza di situazioni di conflitto, di guerre civili, realtà conflittuali nelle quali poi prospera anche il terrorismo; vedono situazioni di povertà e di arretratezza strutturali e importanti. Queste sono tutte condizioni che riconosciamo – credo che tutti siano d'accordo – essere terreno fertile per migrazioni e anche per l'alimentazione di fenomeni di terrorismo di fondamentalismo islamico. Finora è stato fatto un ottimo lavoro, come risposta alle emergenze.
  Ricordo, un anno e mezzo fa, l'intervento in quest'Aula del Ministro Alfano, subito dopo la tragedia di Lampedusa, nel quale il Ministro si prese la responsabilità di andare avanti in un'operazione, quella di Mare Nostrum, che poi nel tempo ci è stata riconosciuta come gesto di grande umanità dall'intera comunità internazionale, non ultimo dal Segretario generale dell'ONU, Ban Ki-Moon, pochi giorni fa in questa stessa Aula. Da allora, il Ministro Alfano, per quanto di sua responsabilità, e l'intero Governo hanno lavorato sull'Unione europea fino ad arrivare a far capire che il confine sud dell'Italia, della Grecia e della Spagna è il confine sud dell'Europa e siamo arrivati finalmente a un ragionamento sulle quote, sulla distribuzione dei migranti, che se non risolve il problema è però l'inizio di un riorientamento importante delle politiche europee in questo settore. Ci auguriamo ovviamente che questa strategia comune faccia progressi ulteriori, perché non basta distribuire sotto forma di quote un numero Pag. 64per quanto importante di migranti ma evidentemente occorre avere anche una visione politica più unitaria.
  Ma adesso noi dobbiamo occuparci anche del futuro, del futuro prossimo ma anche del futuro più lontano, perché la responsabilità di chi guida un Paese o l'Unione europea o comunque di chi è ai vertici delle responsabilità nella comunità internazionale deve essere quella di avere una strategia anche di lungo periodo. Quindi, serve una strategia di aiuto reale per lo sviluppo nei Paesi dai quali questi fenomeni migratori hanno origine – l'hanno detto in tanti, ultimamente, in modo autorevole, anche il Presidente Mattarella e lo stesso Presidente Renzi – e per una strategia di aiuto reale allo sviluppo occorre lavorare sulla stabilità politico-istituzionale, sulla creazione di condizioni di vita più umane e di opportunità di lavoro per i giovani; e qui mi riferisco a una grande verità detta non molti giorni fa da Papa Francesco, insieme alle tante verità che quest'uomo sta dicendo. Il Papa ha detto: tutti parlano della libertà di queste persone di poter migrare, nessuno parla della libertà di queste persone di poter restare nella propria terra. Infatti, credo che nessuno si prenda la briga di andarsene dalla propria terra se non con la morte nel cuore, perché ciascuno di noi, ciascun uomo è legato alle proprie origini. Quindi, le persone che sono costrette a migrare a causa di conflitti e a causa anche di condizioni economiche insostenibili hanno bisogno di essere aiutate a creare le condizioni perché questo non debba necessariamente avvenire. Questo è anche un elemento importante nel campo della lotta al terrorismo, che, come dicevo già prima, ovviamente si giova molto di queste condizioni di arretratezza.
  Sono molti allora gli ambiti di azione che la mozione vuole mettere in evidenza. Anzitutto il tema della cooperazione internazionale: il nostro Paese, il nostro Parlamento, ha approvato la legge n. 125 del 2014, un'ottima legge che ci mette in linea con le migliori pratiche europee, valorizzando anche il contributo dei privati nel settore della cooperazione.
  Un altro punto importante è il rapporto con l'Unione europea. L'Unione europea è, come somma dei bilanci diretti dell'Unione e dei bilanci dei Paesi membri, il primo donatore mondiale nel campo della cooperazione internazionale: nel 2014 le somme investite per progetti di cooperazione hanno superato i 57 miliardi di euro, che sono cifre straordinariamente elevate; anche perché una buona parte di queste sono concentrate proprio sull'Africa. Alle volte ci viene da chiedere dove siano finiti questi soldi, perché non se ne vedono risultati in modo chiaro e visibile: sono cifre che possono veramente cambiare il destino di un Paese o di alcuni Paesi nel continente africano.
  E qui veniamo al punto dell'efficacia e dell'utilizzo di queste risorse, efficacia che è legata alla capacità di creare sinergie, di individuare priorità chiare. A volte viene anche in mente che qualche organizzazione abbia più la preoccupazione di mantenere se stessa che non di fare interventi molto efficaci, ma questo è un discorso che andrebbe visto da una situazione all'altra; ci sono certamente fenomeni di corruzione nei Paesi destinatari di questi aiuti, che compromettono in modo importante l'efficacia degli interventi. Tutto questo non è più possibile, questo livello di inefficacia non è più sostenibile !
  L'Africa, infatti, è un continente dalle risorse estremamente importanti per il futuro dell'intero pianeta: di questo cresce la consapevolezza da parte di alcuni Paesi, che si rendono conto delle proprie potenzialità e cominciano ad aprirsi, anche in un rapporto con la comunità internazionale, per un migliore sfruttamento. Ma questa consapevolezza c’è anche da parte di altri soggetti (non di Paesi africani: facciamo l'esempio della Cina) che mettono in atto forme di neocolonialismo di tipo economico, che non hanno certamente un esito virtuoso. Noi siamo quindi in una situazione in cui le potenzialità sono chiare, bisogna sfruttare i processi positivi e cercare di limitare quelli che possono essere solo negativi per lo sviluppo di questo continente.Pag. 65
  Cosa serve all'Africa ? Serve una capacità di governare le proprie istituzioni, i propri processi, che è la condizione per una stabilità politica, sociale; servono interventi strutturati e strutturali, e non solo occasionali, e qui il ruolo dell'Unione africana può essere solo positivo.
  Quali sono gli impegni, sulla base di queste considerazioni, che la mozione chiede al Governo ? Si tratta di impegni molto precisi: l'Italia può fare molto per l'Africa, per la sua storia, la sua posizione, l'autorevolezza di rapporti storici, e anche la presenza di importanti realtà imprenditoriali del nostro Paese. Occorre anzitutto una strategia di medio-lungo periodo. La mozione invita quindi il Governo a voler mettere in atto, a voler predisporre una visione strategica (noi suggeriamo auspicabilmente nella forma di un Libro bianco, che venga inserito nel Documento programmatico triennale previsto dalla nuova legge sulla cooperazione), che tenga conto dei tanti settori che devono essere tenuti in considerazione: il tema dello sviluppo economico; le relazioni commerciali, che sono una potente modalità di sviluppo; la finanza; le riforme istituzionali; i conflitti; le immigrazioni; l'utilizzo, come dicevo già nella premessa, dei fondi per la cooperazione; la rete di relazioni istituzionali, che anche grazie alla bontà della nostra diplomazia è, per quanto riguarda l'Italia, un asset importante; le condizioni geopolitiche regionali nelle varie situazioni.
  Un altro ambito ovviamente su cui noi chiediamo al Governo un'azione decisa è il rapporto con l'Unione europea, nel senso che questa strategia che chiediamo venga predisposta sia poi condivisa con l'Unione europea con una forte azione da parte del nostro Paese. Così pure chiediamo che si lavori tutti insieme per migliori sinergie tra i soggetti (le Agenzie per lo sviluppo che prestano la propria opera, l'ONU e le sue articolazioni, la Banca mondiale e le varie banche di sviluppo regionale) poiché alle volte si ha proprio l'impressione che la mano destra non sappia cosa stia facendo la sinistra. Io ho avuto recentemente un'esperienza visitando un Paese del nord Africa dove sembrava che gli interventi previsti dall'Unione europea fossero sconosciuti alla Banca mondiale e viceversa, il che sinceramente non mi ha dato una grossa impressione di capacità di coordinamento; potrebbe essere stato un caso, ma – ahimè – temo che ci siano diverse situazioni di questo tipo.
  Un altro punto su cui si chiede l'impegno del Governo è lo sviluppo dei partenariati con i Paesi del continente africano, partenariati che devono contemplare l'utilizzo ottimale dei fondi per la cooperazione: finalmente stiamo cominciando a capire che non sono spese inutili, ma investimenti per il futuro di quei Paesi e del nostro. Bisogna poi guardare al tema delle relazioni commerciali che non sono meno importanti per lo sviluppo di quei Paesi. Ovviamente la mozione sottolinea l'importanza che vi sia una concentrazione di questi progetti destinata a quello che viene chiamato l’Istitutional capacity building, cioè la costruzione di una capacità di gestire le proprie istituzioni e la governance dei propri territori, le condizioni cioè per favorire processi virtuosi di pace e di sviluppo locali. Al tempo stesso si chiede di aumentare i controlli sull'utilizzo dei fondi per la cooperazione per esempio contro la corruzione e anche per misurare l'efficacia reale degli interventi. Infatti, come si diceva, non basta la somma di mille piccoli interventi a pioggia, occorre una visione veramente integrata.
  La mozione parla anche del tema degli investimenti privati poiché favorire gli investimenti privati in questi Paesi è un elemento potentissimo di sviluppo. La Tunisia è un Paese che ha vinto il Premio Nobel per la pace attraverso il quartetto che ha negoziato le importanti riforme che il Paese sta attuando. Ebbene, in questo periodo la Tunisia, dopo i gravi incidenti che sono accaduti negli scorsi mesi, sta assistendo ad un blocco degli investimenti stranieri che crea problemi enormi dal punto di vista dell'occupazione giovanile e favorisce un fertile terreno per il terrorismo nelle giovani generazioni. Quindi, bisogna lavorare affinché si creino nelle varie situazioni regionali e locali condizioni Pag. 66di stabilità e di sicurezza e per favorire anche il ritorno o l'incremento degli investimenti privati. In questo caso, la mozione fa anche un richiamo alla responsabilità sociale d'impresa per le aziende del nostro Paese che già stanno investendo o che intendono andare ad investire in quei Paesi. Io ho chiaramente davanti agli occhi la realtà di aziende piccole, medie e grandi che sulla base di questa responsabilità sociale d'impresa si sentono in dovere di restituire al territorio dove loro lavorano e di cui sfruttano le potenzialità non soltanto risorse economiche, ma anche un'attenzione particolare per le condizioni di sviluppo. Io credo che oggi le aziende piccole, medie e grandi abbiano sempre più questa sensibilità, quindi è giusto che il Governo le richiami con gli strumenti che intenderà mettere in campo. Infine, la mozione sottolinea l'importanza dell'interlocuzione con l'Unione africana come momento di responsabilizzazione della realtà associativa dei Paesi africani e, infine, chiede che il Governo riferisca entro sei mesi in Parlamento circa la predisposizione di questa strategia di cui abbiamo parlato e di tutti gli altri elementi di intervento.
  Noi riteniamo, nel proporre questa mozione, che un'Africa più forte comporti anche un'Italia e un'Europa più forti nel rapporto con questo continente, più forti perché più sicuri; non soltanto più solidali ma anche più sicuri perché meno minati da fenomeni terroristici, meno minati da fatti migratori gravi che il nostro stesso continente fa fatica a sopportare. Tutto questo richiede una grande capacità di guardare avanti, ci auguriamo che il Governo accolga questi inviti e lavori in modo intenso e produttivo su questo fronte.

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Chaouki. Ne ha facoltà.

  KHALID CHAOUKI. Signor Presidente, noi rispetto a questa mozione presentata e sottoscritta anche dal Partito Democratico vogliamo ribadire innanzitutto che siamo nel solco di un percorso che ci vede oggi qui di fatto a parlare di cooperazione allo sviluppo e di sostegno a una maggiore cooperazione con i Paesi dell'Africa, avendo dalla nostra parte una legge sicuramente innovativa, la nuova legge sulla cooperazione internazionale, che di fatto – come è stato anche detto da chi mi ha preceduto – offre all'Italia strumenti innovativi, strumenti alla pari con gli altri Paesi europei e con i Paesi che più sono stati impegnati in questi anni sul fronte della cooperazione internazionale come quelli appunto di una maggiore trasparenza e di un coinvolgimento più diretto anche della società civile, del mondo del privato e per quello che riguarda l'Italia anche attraverso un tavolo che tiene al suo interno anche il ruolo dei privati, delle associazioni, delle ONG ma anche delle comunità straniere e che riconosce un principale ruolo e una funzione importante alla capacità di programmazione che fino ad ora forse mancava. Noi ovviamente abbiamo parlato spesso in questi anni, in questi ultimi mesi del dramma dell'immigrazione, in particolare dall'Africa, e non possiamo più considerare questo fenomeno come un fenomeno transitorio ma che ormai è un fenomeno che costituisce di fatto una realtà strutturale che riguarda non solo il nostro Paese ma tutta l'Europa. Allora proprio per questo serve un ragionamento come quello proposto da queste mozioni, che deve essere di carattere strategico, di medio e lungo termine e che abbia a cuore la soluzione delle radici dei problemi che poi spesse volte affrontiamo a lungo termine, quindi attraverso che quello che è lo scenario drammatico dei barconi e delle tragedie in mare e di chi riesce a salvarsi venendo accolto dal nostro Paese e dall'Europa. Allora è molto importante in quest'ottica prevenire e cercare di proporre delle soluzioni ai problemi che sono alla base di questi flussi e questo deve avvenire innanzitutto con un approccio totalmente diverso, cercando di costruire un rapporto di piena fiducia, di piena cooperazione e di pieno dialogo e lavorando insieme con i Paesi innanzitutto africani, coinvolgendo l'Unione africana, come di fatto il Governo italiano ha già iniziato a fare, e cercando di ragionare in Pag. 67un'ottica di promozione di uno sviluppo, uno sviluppo locale economico e sociale che aiuti quei Paesi a riuscire sempre più a camminare con le loro gambe; ma soprattutto che possa in questo impegno sul tema della crescita dei Paesi di partenza dei migranti offrire occasioni di reale cooperazione, di reale dialogo e – perché no – anche occasione di sviluppo e di promozione della nostra economia nazionale e di progetti di scambio anche sul tema della cooperazione scientifica, dello scambio fra i più giovani: ciò al fine di offrire ovviamente occasione di crescita economica, ma soprattutto di maggiore conoscenza culturale e di rottura anche di tanti pregiudizi e stereotipi reciproci. Allora, grazie al lavoro di questi ultimi due anni e anche all'impegno del Governo italiano in sede europea sicuramente noi possiamo e oggi chiedo al Governo un impegno maggiore in questa direzione.
  In particolare, penso all'esigenza di trovare davvero dei canali più immediati e più diretti e dei tavoli anche più concreti di progettazione comune e di impegni comuni, coinvolgendo anche le imprese italiane – perché no ? – che sono già impegnate in molti casi in quei Paesi ad avere una maggiore attenzione rispetto al tema dello sviluppo locale, al tema della sostenibilità ambientale, al tema del coinvolgimento e della formazione delle nuove generazioni di quei Paesi, cambiando anche approccio rispetto ad altre potenze mondiali, come veniva citato prima, come succede purtroppo in alcuni Paesi africani con quella che è ormai la grande «invasione» della Cina, ma non solo della Cina.
  Il nostro Paese ha in qualche modo nel suo DNA una capacità di dialogo che ha già dimostrato nella storia, più o meno lontana, dei rapporti con il Mediterraneo, con il Nord Africa, ma anche con i Paesi subsahariani e con il Corno d'Africa e quindi noi abbiamo anche forse oggi una capacità di mettere la nostra storia e la capacità tutta italiana di mediare con questi Paesi e di dialogare senza pregiudizi e di farci anche in qualche modo ben accettare da questi Paesi e – perché no ? – di diventare anche in qualche modo la punta di un modello diverso e alternativo di cooperazione anche per gli altri Paesi europei.
  L'Africa – come è noto – possiede enormi risorse naturali e umane che ne fanno di fatto il bacino di sviluppo potenzialmente più grande dell'intero pianeta. Dobbiamo uscire da una visione che accosta l'Africa solo con i drammi della miseria, della fame e delle malattie incurabili. C’è oggi un'altra Africa che invece diventerà e sarà sempre più un elemento di sviluppo, di sperimentazione e di ricerca, che noi abbiamo il dovere di accompagnare e di sostenere, ma anche di vedere come nostro futuro partner.
  È allo sviluppo di questo incredibile bacino che noi dobbiamo lavorare, se vogliamo evitare altre future crisi nel continente africano, che inevitabilmente poi si ripercuoteranno sull'Italia e sull'Europa. Non possiamo più, come in passato, avere la visione corta e non renderci conto che poi gli effetti dei drammi che apparentemente sembrano lontani da noi, in realtà – come dimostra la crisi siriana e la crisi del Corno d'Africa e quello che purtroppo continua ad avvenire in Somalia, in Sudan e in altri Paesi – di fatto alla lunga arrivano anche da noi, nell'era della globalizzazione, nella quale si muovono con rapidità le merci, i soldi, ma anche i flussi umani in fuga ovviamente da quelle tragedie.
  Allora, è molto importante – e mi avvio alla conclusione – che in quest'ottica il nostro Governo rafforzi ancora di più quello che già di fatto è un percorso avviato. L'impegno del Governo, ricordato dal Presidente Renzi, è quello di riuscire a recuperare il grave ritardo che abbiamo avuto sul tema della cooperazione ed è previsto nella legge di stabilità l'aumento dei fondi per la cooperazione internazionale, soprattutto per quello che riguarda l'Africa e l'impegno che il Presidente Renzi ha assunto nella conferenza di Addis Abeba e nell'Assemblea Generale dell'ONU, a New York, ossia lo stanziamento di 121 milioni in più nel 2016, passando così da 297 milioni a 418 e il fatto che questo contributo salirà a 260 milioni in Pag. 68più nel 2017 permetterà finalmente all'Italia di proseguire nel cammino per raggiungere l'obiettivo dello 0,7 per cento del nostro prodotto interno lordo nella cooperazione.
  Allora, in questo contesto di impegno del nostro Governo e del nostro sistema Paese, crediamo che questa mozione non possa che rafforzare questa prospettiva e ridare finalmente al nostro Paese nelle sedi internazionali l'orgoglio di un Paese che non solo ha una storia di amicizia e di vicinanza a questi Paesi, ma che – oltre ad aver anticipato tutti i Paesi europei nel salvare vite umane, con la coraggiosa operazione di Mare nostrum e con l'obiettivo finalmente raggiunto di portare le navi europee nel Mediterraneo per salvare quelle vite – non si accontenta solo di salvare quelle vite e di accoglierle in modo dignitoso in Europa. Il nostro obiettivo ora deve diventare quello di cercare di far sì che quelle persone non siano costrette a scappare dai loro Paesi d'origine e quindi di portare in quei Paesi le condizioni di sviluppo e di crescita che saranno importanti per quei cittadini, per quei futuri cittadini del mondo, ma soprattutto per un modello di rapporto tra Nord e Sud del mondo. Non devono più vederci semplicemente come Paesi che cercano di sfruttare le risorse, soprattutto in Africa, ma con cui possano costruire finalmente un dialogo alla pari, che porti allo sviluppo quei Paesi, ma anche tutto il nostro globo.

  PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali delle mozioni.
  Prendo atto che il rappresentante del Governo rinunzia ad intervenire.
  Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Sull'ordine dei lavori (ore 19,19).

  PRESIDENTE. Avverto che, entro il termine della discussione sulle linee generali del disegno di legge n. 3272-A, recante la riforma della RAI, è stata presentata anche la pregiudiziale di costituzionalità Rampelli ed altri n. 5, che sarà esaminata e posta in votazione unitamente alle altre della cui presentazione è stata già precedentemente data comunicazione all'Assemblea.

Ordine del giorno della seduta di domani.

  PRESIDENTE. Comunico l'ordine del giorno della seduta di domani.

  Martedì 20 ottobre 2015, alle 10:

  1. – Svolgimento di una interpellanza e di interrogazioni.

  (ore 12)

  2. – Seguito della discussione del disegno di legge (previo esame e votazione delle questioni pregiudiziali di costituzionalità presentate):
   S. 1880 – Riforma della RAI e del servizio pubblico radiotelevisivo (Approvato dal Senato) (C. 3272-A).
   e delle abbinate proposte di legge: CAPARINI ed altri; ANZALDI; FICO ed altri; MARAZZITI; FRATOIANNI ed altri; CAPARINI ed altri (C. 420-2846-2922-2924-2931-2942).
  – Relatori: Bonaccorsi (per la VII Commissione) e Peluffo (per la IX Commissione), per la maggioranza; Fico, di minoranza.

  3. – Seguito della discussione del disegno di legge:
   Conversione in legge del decreto-legge 20 settembre 2015, n. 146, recante misure urgenti per la fruizione del patrimonio storico e artistico della Nazione (C. 3315-A).
  – Relatrici: Rotta, per la maggioranza; Chimienti, di minoranza.

Pag. 69

  4. – Seguito della discussione delle mozioni Benedetti ed altri n. 1-00720, Zaccagnini ed altri n. 1-01019, Dorina Bianchi e Bosco n. 1-01022, Oliverio ed altri n. 1-01023 e Palese n. 1-01024 in materia di autorizzazione alla commercializzazione e all'utilizzo dei prodotti fitosanitari.

  5. – Seguito della discussione del disegno di legge:
   S. 1678 – Deleghe al Governo per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture (Approvato dal Senato) (C. 3194-A).
  – Relatori: Mariani e Cera.

  6. – Seguito della discussione delle mozioni Alli, Quartapelle Procopio ed altri n. 1-00956 e Spadoni ed altri n. 1-01018 concernenti iniziative per rafforzare la cooperazione allo sviluppo a favore dei Paesi africani, anche nella prospettiva della riduzione dei flussi migratori.

  La seduta termina alle 19,20.