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Resoconto dell'Assemblea

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XVII LEGISLATURA


Resoconto stenografico dell'Assemblea

Seduta n. 206 di lunedì 7 aprile 2014

Pag. 1

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE SIMONE BALDELLI

  La seduta comincia alle 14,05.

  RICCARDO FRACCARO, Segretario, legge il processo verbale della seduta del 31 marzo 2014.
  (È approvato).

Missioni.

  PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del Regolamento, i deputati Angelino Alfano, Gioacchino Alfano, Alfreider, Amici, Bellanova, Bergamini, Dorina Bianchi, Bindi, Biondelli, Bobba, Bocci, Michele Bordo, Borletti Dell'Acqua, Boschi, Brambilla, Brescia, Bressa, Brunetta, Bruno Bossio, Caparini, Casero, Castiglione, Centemero, Chaouki, Cicchitto, Costa, Costantino, Dambruoso, De Girolamo, Del Basso De Caro, Dellai, Di Gioia, Di Lello, Luigi Di Maio, Manlio Di Stefano, Ferranti, Fico, Gregorio Fontana, Fontanelli, Formisano, Franceschini, Galati, Giachetti, Giacomelli, Giancarlo Giorgetti, Gozi, La Russa, Legnini, Lorenzin, Lupi, Magorno, Giorgia Meloni, Merlo, Migliore, Nicoletti, Nuti, Orlando, Pes, Gianluca Pini, Pisicchio, Pistelli, Ravetto, Realacci, Rigoni, Rossi, Rughetti, Sani, Santerini, Scalfarotto, Scopelliti, Spadoni, Speranza, Tabacci, Velo e Zanetti sono in missione a decorrere dalla seduta odierna.
  I deputati in missione sono complessivamente ottanta, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell’allegato A al resoconto della seduta odierna.

  Ulteriori comunicazioni all'Assemblea saranno pubblicate nell’allegato A al resoconto della seduta odierna.

Discussione della proposta di legge: S. 1224-1256-1304-1305 – D'iniziativa dei senatori: Fedeli ed altri; Alberti Casellati ed altri; Amoruso; Calderoli: Modifiche alla legge 24 gennaio 1979, n. 18, recante norme per l'elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all'Italia, in materia di garanzie per la rappresentanza di genere, e relative disposizioni transitorie inerenti alle elezioni da svolgere nell'anno 2014 (Approvata, in un testo unificato, dal Senato) (A.C. 2213); e delle abbinate proposte di legge: Cicu; Mosca ed altri; Capelli ed altri; Marguerettaz ed altri; Vargiu; Bruno Bossio ed altri; Francesco Sanna ed altri; Balduzzi ed altri; Pisicchio; Migliore ed altri (A.C. 144-792-958-1216-1357-1473-1545-1878-1916-1933) (ore 14,08).

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della proposta di legge, già approvata, in un testo unificato, dal Senato, d'iniziativa dei senatori: Fedeli ed altri; Alberti Casellati ed altri; Amoruso; Calderoli: Modifiche alla legge 24 gennaio 1979, n. 18, recante norme per l'elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all'Italia, in materia di garanzie per la rappresentanza di genere, e relative disposizioni transitorie inerenti alle elezioni Pag. 2da svolgere nell'anno 2014; e delle abbinate proposte di legge d'iniziativa dei deputati: Cicu; Mosca ed altri; Capelli ed altri; Marguerettaz ed altri; Vargiu; Bruno Bossio ed altri; Francesco Sanna ed altri; Balduzzi ed altri; Pisicchio; Migliore ed altri.
  Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi è pubblicato in calce al resoconto stenografico della seduta del 3 aprile 2014.

(Discussione sulle linee generali – A.C. 2213)

  PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
  Avverto che il presidente del gruppo parlamentare MoVimento 5 Stelle ne ha chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del Regolamento.
  Avverto, altresì, che la I Commissione (Affari costituzionali) si intende autorizzata a riferire oralmente.
  Ha facoltà di intervenire, in sostituzione del relatore, la vicepresidente della Commissione affari costituzionali, onorevole Roberta Agostini.

  ROBERTA AGOSTINI, Vicepresidente della I Commissione. Signor Presidente, ricordo che in Italia la disciplina del sistema elettorale delle elezioni europee è contenuta nella legge 24 gennaio 1979, n. 18, modificata e integrata da provvedimenti successivi, tra cui la legge 20 febbraio 2009, n. 10, che ha introdotto una soglia di sbarramento. In sintesi, si tratta di un sistema elettorale proporzionale con soglia di sbarramento del 4 per cento e possibilità di voto di preferenza; i seggi sono assegnati nel collegio unico nazionale, a liste concorrenti presentate nell'ambito di cinque circoscrizioni molto ampie.
  Il diritto di voto è esercitato dai cittadini con almeno 18 anni di età, mentre per candidarsi l'età minima è di 25 anni. Le candidature si presentano nell'ambito di cinque circoscrizioni di dimensione sovraregionale e un candidato può presentarsi in più circoscrizioni. Le liste dei candidati devono essere sottoscritte da non meno di 30 mila e non più di 35 mila elettori. Ogni regione che compone la circoscrizione deve essere rappresentata da almeno 3 mila sottoscrittori. Sono esonerati dall'obbligo di sottoscrizione i partiti politici che hanno almeno un rappresentante al Parlamento europeo o al Parlamento nazionale, eletti con proprio contrassegno, e i partiti costituiti in gruppo parlamentare in una delle due Camere al momento della convocazione dei comizi elettorali.
  Segnalo che la scheda elettorale è unica, si vota per una delle liste e si possono esprimere da una a tre preferenze. Sono ammesse all'assegnazione dei seggi le liste che hanno conseguito sul piano nazionale almeno il 4 per cento dei voti validi espressi. I seggi sono attribuiti proporzionalmente ai voti conseguiti in ambito nazionale con il sistema dei quozienti interi e dei maggiori resti. I seggi conseguiti da ciascuna lista sono quindi riassegnati alle circoscrizioni in proporzione ai voti ottenuti in ciascuna di esse. Determinato il numero dei seggi spettanti alla lista in ciascuna circoscrizione, sono proclamati eletti i candidati con il maggior numero di voti di preferenza.
  Faccio presente che le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo hanno luogo ogni cinque anni, nello stesso arco temporale, compreso tra il giovedì mattina e la domenica sera, in tutti gli Stati membri. Ciascuno Stato membro determina, nell'ambito di tale periodo, le date e le ore destinate alla consultazione elettorale (articolo 9 dell'Atto di Bruxelles). L'Atto di Bruxelles prevede che le elezioni abbiano luogo nell'ultimo anno della legislatura nello stesso periodo delle prime elezioni del 1979, ossia tra il 7 e il 10 giugno. Quando questo non è possibile, il periodo in cui svolgere le elezioni è determinato dal Consiglio dell'Unione, che delibera all'unanimità, previo parere dell'Assemblea (articolo 10 dell'Atto di Bruxelles).
  Ricordo che la legge italiana stabilisce che le elezioni europee si svolgano in una Pag. 3sola giornata, la domenica (articoli 45 e 46 del decreto del Presidente della Repubblica n. 361 del 1957), dalle ore 6 alle ore 22 (articoli 16 e 51 della legge n. 18 del 1979).
  Il Consiglio dell'Unione europea del 14 giugno 2013 ha fissato l'arco temporale di svolgimento delle prossime elezioni europee, che si svolgeranno nel periodo dal 22 al 25 maggio 2014 (Decisione n. 2013/299/UE, Euratom, del 14 giugno 2013). I comizi per l'elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all'Italia sono convocati con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri. Il decreto deve essere pubblicato nella Gazzetta Ufficiale non oltre il 50o giorno antecedente quello della votazione (articolo 7, commi primo e secondo, della legge n. 18 del 1979). I comizi per le prossime elezioni europee da svolgersi in Italia sono stati convocati per il giorno di domenica 25 maggio 2014 (decreto del Presidente della Repubblica 17 marzo 2014).
  Quanto al contenuto della proposta di legge n. 2213, approvata dal Senato, sottolineo che è volta ad introdurre nella legge elettorale europea disposizioni finalizzate a rafforzare la rappresentanza di genere, sulla falsariga della normativa introdotta nel 2012 per le elezioni dei consigli comunali (legge n. 215 del 23 novembre 2012). Ricordo, al riguardo, che l'articolo 56 del codice delle pari opportunità (decreto legislativo n. 198 del 2006) ha introdotto una disposizione per favorire la rappresentanza di genere nelle elezioni del Parlamento europeo. Tale disposizione, tuttavia, ha natura transitoria, essendo valida solo per le elezioni del 2004 e del 2009, e non può pertanto trovare applicazione nelle elezioni successive.
  In considerazione del ravvicinato svolgimento delle elezioni europee, già indette per il 25 maggio prossimo, la proposta di legge in esame reca una disciplina transitoria destinata ad applicarsi solo nelle elezioni del 2014 ed una più incisiva disciplina a regime che troverà applicazione dalle successive elezioni del 2019.
  In particolare, l'articolo 1, comma 1, introduce, limitatamente alle elezioni europee del 2014, la cosiddetta tripla preferenza di genere, prevedendo che, nel caso in cui l'elettore decida di esprimere tre preferenze, queste devono riguardare candidati di sesso diverso, pena l'annullamento della terza preferenza. Ricordo, infatti, che, in base alla normativa vigente, nelle elezioni europee è consentito all'elettore esprimere fino a tre preferenze. La norma di garanzia della rappresentanza di genere prevista dalla disposizione in esame riguarda solo il caso in cui l'elettore manifesti tre preferenze, lasciando impregiudicata la possibilità per l'elettore che decide di esprimere due preferenze di attribuirle a candidati dello stesso sesso.
  Segnalo che nel corso dell'esame al Senato sono state espunte le disposizioni che prevedevano norme per il riequilibrio di genere nella formazione delle liste di candidati già a decorrere dalle prossime elezioni, in considerazione del fatto che i termini per la raccolta delle sottoscrizioni sono già aperti. Ricordo in proposito che una norma sul riequilibrio di genere nelle liste elettorali, applicabile anche alle elezioni del Parlamento europeo, è stata introdotta dal recente decreto-legge sul finanziamento pubblico dei partiti, che prevede una riduzione delle risorse spettanti ai partiti sulla base della disciplina del cosiddetto «2 per mille» quando nel numero complessivo dei candidati uno dei due sessi sia rappresentato in misura inferiore al 40 per cento.
  In particolare, l'articolo 9 del decreto-legge n. 149 del 28 dicembre 2013 (convertito dalla legge n. 13 del 21 febbraio 2014) prevede che, qualora nel numero complessivo dei candidati di un partito politico in ciascuna elezione della Camera, del Senato o del Parlamento europeo, uno dei due sessi sia rappresentato in misura inferiore al 40 per cento, le risorse spettanti al partito a titolo di «2 per mille» sono ridotte in misura percentuale pari allo 0,50 per ogni punto percentuale di differenza tra 40 e la percentuale dei Pag. 4candidati del sesso meno rappresentato, nel limite massimo complessivo del 10 per cento.
  A titolo esemplificativo, se un partito presenta nel complesso delle liste una percentuale di candidate donne del 30 per cento, le risorse del «2 per mille» sono ridotte del 5 per cento. Le risorse decurtate confluiscono in un fondo annualmente ripartito tra i partiti iscritti nella seconda sezione del registro istituito dal decreto-legge, ossia tra i partiti che accedono al riparto del «2 per mille», per i quali la percentuale di eletti del sesso meno rappresentato in ciascuna elezione sia pari o superiore al 40 per cento.
  Ricordo che il comma 2 reca modifiche alla legge elettorale europea (n. 18 del 1979) che troveranno applicazione, in forza del comma 3, a partire dalle seconde elezioni successive alla data di entrata in vigore della legge, ossia dalle elezioni del 2019. Al fine di assicurare l'equilibrio di genere nella composizione delle liste elettorali, la lettera a) prevede che: all'atto della presentazione, in ciascuna lista, i candidati dello stesso sesso non possono essere superiori alla metà, con arrotondamento all'unità; i primi due candidati della lista devono essere di sesso diverso. La presenza paritaria di candidati dei due sessi è, peraltro, richiesta all'atto della presentazione; essa potrebbe dunque venire successivamente meno nel caso in cui uno o più candidati siano cancellati dalla lista per mancanza di uno dei requisiti sostanziali o formali richiesti per la presentazione della candidatura.
  La lettera b) disciplina le verifiche dell'ufficio elettorale al fine di garantire il rispetto delle disposizioni sull'equilibrio di genere nelle liste, assicurando al tempo stesso, ove possibile, la conservazione della lista.
  Nel caso in cui risulti violata la disposizione sulla presenza paritaria dei candidati nelle liste, l'ufficio elettorale procede dunque alla cancellazione dei candidati del sesso sovrarappresentato, partendo dall'ultimo, fino ad assicurare l'equilibrio richiesto. Se, all'esito della cancellazione, nella lista rimane un numero di candidati inferiore al minimo prescritto dalla legge, la lista è ricusata e non può conseguentemente partecipare alle elezioni. Nel caso in cui sia violata la disposizione sull'alternanza di genere tra i primi due candidati, l'ufficio elettorale modifica la lista, collocando dopo il primo candidato quello successivo di genere diverso.
  Segnalo che viene inoltre introdotta (comma 2, lettera c)), la «tripla preferenza di genere», con una disciplina più incisiva rispetto a quella prevista in via transitoria per le elezioni del 2014. Le preferenze devono riguardare, infatti, candidati di sesso diverso non solo nel caso di tre preferenze, ma anche nel caso di due preferenze. In caso di espressione di due preferenze per candidati dello stesso sesso, la seconda preferenza viene annullata; in caso di espressione di tre preferenze, sono annullate sia la seconda sia la terza preferenza (come si desume dall'espressione «pena l'annullamento della seconda e della terza preferenza»), e non solamente la terza preferenza, come nella disciplina transitoria per il 2014.
  Faccio presente che l'articolo 2 disciplina, infine, l'entrata in vigore della legge, fissandola al giorno successivo a quello della pubblicazione ed escludendo dunque l'ordinaria vacatio legis di quindici giorni.
  Quanto al rispetto delle competenze legislative costituzionalmente definite nonché degli altri principi costituzionali ricordo che, secondo un orientamento della Corte costituzionale risalente alla metà degli anni Novanta, espresso nella sentenza n. 422 del 1995, la previsione di quote di genere in campo elettorale si pone in contrasto con il principio di uguaglianza, sancito dagli articoli 3 e 51 della Costituzione. Con tale sentenza, la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale delle disposizioni normative che avevano introdotto le quote per le elezioni nazionali, regionali e locali, sulla base dell'assunto che, in campo elettorale, il principio d'eguaglianza deve essere inteso in senso rigorosamente formale. In base a tale interpretazione, i diritti di elettorato passivo sono rigorosamente garantiti in eguale misura a tutti i cittadini in quanto Pag. 5tali ed è esclusa qualsiasi differenziazione in base al sesso, sia che essa riguardi l'eleggibilità (quote di risultato, quali erano previste dalla legge elettorale nazionale) sia che riguardi la candidabilità (quote di lista, quali quelle previste dalla legge sulle elezioni amministrative). Successivamente, il quadro costituzionale è mutato, anche in conseguenza della posizione espressa dalla Corte.
  Ricordo che, innanzitutto, le riforme costituzionali del 2001 hanno riaffermato il principio della parità di accesso alle cariche elettive in ambito regionale. L'articolo 117, ultimo comma (introdotto dalla legge costituzionale n. 3 del 2001), prevede che le leggi regionali rimuovano ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita culturale, sociale ed economica e promuovano la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive.
  Analogo principio è stato introdotto negli statuti delle regioni ad autonomia differenziata dalla legge costituzionale n. 2 del 2001. Successivamente, è stato modificato l'articolo 51, primo comma, della Costituzione, secondo cui tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge.
  Con la legge costituzionale n. 1 del 2003 è stato inserito un secondo periodo, secondo cui la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra uomini e donne. A livello sovranazionale, la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea – che dopo il Trattato di Lisbona ha assunto valore vincolante per il nostro ordinamento – prevede che la parità tra uomini e donne deve essere assicurata in tutti i campi e che il principio della parità non osta al mantenimento o all'adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato (articolo 23 inserito nel Capo III relativo all'uguaglianza). Tale principio è ribadito, nel nostro ordinamento dal codice delle pari opportunità (articolo 1 del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198). Osservo che nella sentenza n. 49 del 2003, dopo le riforme costituzionali del 2001 relative agli ordinamenti regionali, ma prima della modifica dell'articolo 51, la Corte costituzionale ha dichiarato infondata una questione di legittimità costituzionale relativa ad una disposizione della legge elettorale della Valle d'Aosta, che impone l'obbligo di inserire nelle liste elettorali candidati di entrambi i sessi.
  È stata dunque superata la sentenza del 1995, che aveva affermato che il sesso non poteva essere rilevante ai fini della candidabilità. Nell'ordinanza n. 39 del 2005, la Corte costituzionale ha affrontato una questione sollevata dal Consiglio di Stato riguardante l'obbligo legislativamente previsto di inserire almeno un terzo di donne nelle commissioni di concorso, quindi una vera «quota di risultato» sia pure prevista per un organo amministrativo. Il Consiglio di Stato ha richiamato proprio la sentenza del 1995 a sostegno delle proprie argomentazioni nel senso della incostituzionalità della disposizione che prevedeva l'obbligo della presenza femminile. La Corte costituzionale ha ritenuto, peraltro, che il richiamo alla sentenza del 1995 non è sufficiente, alla luce della modifica dell'articolo 51 intervenuta nel 2003, e ha dichiarato pertanto la questione manifestamente inammissibile per carenza di motivazione.
  La pronuncia più rilevante sul tema è la sentenza n. 4 del 2010, con cui la Corte, richiamando il principio di uguaglianza inteso in senso sostanziale, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Governo relativa all'introduzione della doppia preferenza di genere da parte della legge elettorale della Campania, in considerazione del carattere promozionale e della finalità di riequilibrio di genere della misura.
  Secondo la Corte «Il quadro normativo, costituzionale e statutario, è complessivamente ispirato al principio fondamentale dell'effettiva parità tra i sessi nella rappresentanza politica, nazionale e regionale, nello spirito dell'articolo 3, secondo comma, della Costituzione, che impone alla Repubblica la rimozione di tutti gli Pag. 6ostacoli che di fatto impediscono una piena partecipazione di tutti i cittadini all'organizzazione politica del Paese. Preso atto della storica sottorappresentazione delle donne nelle Assemblee elettive, non dovuta a preclusioni formali incidenti sui requisiti di eleggibilità, ma a fattori culturali, economici e sociali, i legislatori costituzionale e statutario indicano la via delle misure specifiche volte a dare effettività ad un principio di eguaglianza astrattamente sancito, ma non compiutamente realizzato nella prassi politica ed elettorale».
  Per quanto riguarda l'iter del provvedimento, ricordo che la I Commissione ha esaminato, in sede referente, il progetto di legge n. 2213, approvato dal Senato, nelle sedute del 1o e del 3 aprile scorso, e che la Commissione XIV ha espresso parere favorevole sul provvedimento in esame.

  PRESIDENTE. Prendo atto che il rappresentante del Governo si riserva di intervenire nel prosieguo del dibattito.
  È iscritto a parlare l'onorevole Campana. È assente.
  È iscritto a parlare l'onorevole Kronbichler. Ne ha facoltà.

  FLORIAN KRONBICHLER. Signor Presidente, questa legge viene fuori tempo e mente già nel titolo: elezioni europee, garanzia per la rappresentanza di genere, mettendo in risalto una sola verità positiva, che pure, a veder più attentamente, si rivela una mezza verità, quindi una menzogna; perché la rappresentanza femminile – chiamiamo i problemi con il loro nome –, questa rappresentanza è garantita insufficientemente, più all'apparenza che in sostanza.
  La proposta di legge approvata dal Senato la settimana scorsa in Commissione affari costituzionali, respingendo ognuno dei nostri emendamenti, rivendica a sé di introdurre nella legge elettorale europea delle disposizioni volte a rafforzare la rappresentanza di genere. A noi queste disposizioni non bastano: proponiamo, nel caso di espressione di più preferenze, che se queste non riguardino candidati di sesso diverso, vengano annullate tutte le preferenze espresse, e non soltanto quest'ultima.
  Chiediamo poi l'abbassamento della soglia di sbarramento dal 4 al 3 per cento. Chiediamo infine – pur avendo già svolto, noi di SEL, tra i sostenitori della lista, per un'altra Europa con Tsipras, tutto il lavoro «erculeo» con ammirevole impegno di migliaia di compagni in giro per l'Italia, per tutta l'Italia – la modifica sui sottoscrittori delle liste elettorali e la riduzione delle firme richieste per la presentazione delle liste nelle piccole regioni, come il Molise e la Valle d'Aosta.
  Per pudore e in segno di buona volontà non chiediamo lo «sconto» neanche per la mia piccola regione del Trentino Alto Adige. Abbassare la soglia di sbarramento dal 4 al 3 per cento, Presidente, siamo persino troppo timidi, forse perché impauriti dai continui e sistematici njet che la maggioranza di questo Parlamento sta opponendo alle nostre proposte costruttive, crediamo. Abbiamo proposto l'abbassamento della soglia dal 4 al 3 per cento, siamo in Comunità europea ! Comunità vuol dire, se non star insieme, almeno prendere atto delle intenzioni dei vicini, i partner. Prendiamo la Germania che tanto viene chiamata a testimone di virtuosità, a proposito e più ancora a sproposito. Ma in questo caso, la Germania è il Paese della clausola di sbarramento, della clausola più dura, finora, seconda solo alla Turchia, se non sarà superata fra poco dall'Italia.
  Non c’è Paese in Europa che tenga più a cuore il principio della governabilità, è per la Germania un valore in sé, gli subordina ogni altro valore costituzionale. Sarà per la sua grande paura dell'insicurezza che per essa è uguale a caos. È il Paese dell'ordine per antonomasia. Ecco in questo Paese dell'ordine, della governabilità e appunto della clausola, il Bundesverfassungsgerichtshof che è la Corte costituzonale federale, due mesi fa e neanche – e appunto ancora in tempo ragionevole per dar modo ai partiti e ai movimento di regolarsi in tempo, prima dell'apertura della campagna elettorale – ha abolito la soglia di sbarramento per le elezioni al Pag. 7Parlamento europeo. Qualcuno potrebbe dire che sia illogico, inconseguente mantenere la soglia del 5 per cento nelle elezioni interne – cioè per il Bundestag – e non solo abbassarla, come l'ha già fatto in un periodo passato, immediatamente dopo le ultime elezioni, dal 5 al 3 per cento, ma per toglierla del tutto.
  Mi è venuto sotto mano proprio in questo fine settimana su Süddeutsche Zeitung, che è uno dei più autorevoli quotidiani tedeschi, un'intervista con il giudice costituzionale Huber. Anche i giudici costituzionali in Germania danno delle interviste, sebbene l'intervistatore in quel caso era un giudice-giornalista. Sostiene il giudice costituzionale in quell’ intervista: soglie elettorali, per principio, sono ammissibili solo se non sussiste, come minimo, il rischio di un condizionamento, una riduzione delle funzioni del Parlamento. In special modo è stato decisiva, per la Corte costituzionale tedesca, la questione se e in quale misura il Governo dipenda dal sostegno duraturo di una maggioranza parlamentare. In altre parole, se è vero che la Cancelliera deve essere supportata giorno per giorno dalla propria maggioranza, chiamata per questo proprio la maggioranza della Cancelliera, per la Commissione, ovvero il governo dell'Unione europea questo non vale. La Commissione può essere messa in croce solo da una maggioranza dei due terzi al Parlamento europeo. Inoltre la Commissione europea non è neanche Governo in senso classico del termine. Ciò perché un considerevole numero di funzioni esecutive non sono del Governo, ma del Consiglio. E infine, se davvero fossero compromesse le funzioni governative, nel Parlamento interno, cioè nel caso del Bundestag, lì non ci sarebbe più alcuna istanza che potrebbe aiutare, mentre, nel caso del Parlamento europeo, ci sarebbero ancora sempre gli Stati membri a rimediare. I giudici di Karlsruhe hanno pure delle risposte convincenti su un'altra preoccupazione che pure è una preoccupazione molto italiana ed è quella dei partiti dispregiativamente chiamati «cespugli».
  Sappiamo che il Parlamento europeo, come quello italiano, teme molto il fuoco di disturbo dei piccoli partiti. La Corte di Karlsruhe però ha fatto il conteggio. Secondo esso attualmente sono 163 partiti presenti al Parlamento europeo, 163 partiti contati. Ora ci si può chiedere se qualche partitino in più davvero possa aver effetti tali da compromettere la funzionalità o addirittura la governabilità esistente. La Corte tedesca non si azzarda a giudicare. Umilmente ammette che non lo si può dire. È interessante, inoltre, che la Corte costituzionale si ponga una domanda che stranamente nella discussione politica in Germania appare poco, mentre invece noi qui riteniamo di dover sollevare con forza: Alle passate elezioni europee, quelle del 2009, nella sola Germania con la sua soglia del 5 per cento, 4 milioni di voti sono caduti sotto il tavolo, cioè non hanno contato. Con la soglia del 3 per cento, soglia introdotta successivamente, non sarebbe stata molto diversamente. Questo fatto è una notevole limitazione al diritto fondamentale della parità del voto. Per giustificare una tale falsificazione del voto – perché di questo bisogna parlare – ci vogliono motivi forti, motivi di rango costituzionale. C’è un’ altra critica di fondo alla gran voglia di soglie e clausole esclusive che pervade la maggioranza di questo Parlamento. L'abbiamo lamentata, lamentata inutilmente, perché senza trovare ascolto, nell'ambito della discussione sulla legge elettorale del Parlamento nazionale, cioè sull’«Italicum», poi di nuovo, la settimana scorsa, nella discussione sulla cosiddetta abolizione delle province, e ora, fortemente, in sede di approvazione della legge elettorale al Parlamento europeo. La maggioranza in questo Parlamento investe tanta energia e tanta fantasia, per non dire furbizia, in come dividere e in come usare il voto dei cittadini. Non si preoccupa altrettanto, o si preoccupa per niente di come conquistarsi il voto dei cittadini. Di come invogliare i cittadini ad andare a votare, a credere nel voto, a fidarsi della rappresentanza. È questo il problema politico del momento. Le elezioni europee rischiano di andare disertate in massa. Al Pag. 8punto di non essere rappresentative davvero. E noi, noi legislatori, di che cosa ci occupiamo ? Ci occupiamo di togliere a più gente possibile il diritto di scelta, cioè di voto. Le soglie escludono. Fanno rinunciare, almeno ad una fetta dell'elettorato – noi diciamo ad una fetta importante – ad andare al voto. Invece, perché non venire incontro a questa minoranza scettica, offrendole la maggior scelta possibile, se questo è il problema ? Per tornare ancora alla sentenza della Corte di Karlsruhe, questa considerazione non è stata fra le motivazioni per l'abolizione della soglia, cioè la ragione della forza di attrazione del voto più liberale, ma unanimemente viene riconosciuto che potrebbe esserne un positivo effetto collaterale. Potrebbe aiutare ad aumentare la voglia di andare a votare. Sicuramente non abbasserebbe questa voglia. Chi in Germania sostiene il contrario, cioè chi voleva che la clausola del 5 o del 3 per cento restasse, apportava come suoi argomenti: è illogico abbassare i criteri di accesso al Parlamento, in un momento in cui questo Parlamento è dotato di sempre più competenze.
  Quindi rendere più difficile l'acceso perché il Parlamento diventerebbe più importante.
  A tale logica si può ribattere con l'esperienza. L'ampliamento delle competenze non ha portato in nessun momento, e fin ora almeno, ad un più ampio rischio di incapacità funzionale del Parlamento stesso.
  Avrei una grande ambizione: vorrei provocare l'orgoglio del Parlamento italiano a non voler, in quanto a libertà e diritti civili, essere di meno dei giudici tedeschi. «Osare più democrazia»: questo era un grido di battaglia di Willy Brandt di quarant'anni fa. Osare più democrazia spetta in primo luogo a noi parlamentari, e non ai giudici. Veramente vogliamo osare di meno della Corte costituzionale tedesca ? E se dovessimo aver osato troppo ? Se il Parlamento europeo, per la presenza di troppi gruppetti e partitini davvero dovesse essere ostacolato nelle sue capacità funzionali ? Ma allora provvediamo ! Rimedieremo, reintroducendo qualche soglia di sbarramento.
  La verità è che non «osiamo», con questa legge, alcunché di democrazia. Sono convinto che in Europa, anche all'interno del Parlamento europeo, stia crescendo il bisogno di più libertà e di più autodeterminazione personale. Noi qui, con questa legge, contribuiamo a soffocare tale bisogno (Applausi dei deputati del gruppo Sinistra Ecologia Libertà).

  PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Elvira Savino. Ne ha facoltà.

  ELVIRA SAVINO. Signor Presidente, la proposta di legge all'esame dell'Aula introduce disposizioni volte a rafforzare la rappresentanza di genere per le elezioni del Parlamento europeo, sulla falsa riga della normativa introdotta nel 2012 per l'elezione dei consigli comunali. Già in precedenza questo Parlamento aveva approvato norme per favorire la rappresentanza di genere per le elezioni europee, introducendo, però, disposizioni di natura transitoria, valide solo per le elezioni del 2004 e del 2009. In particolare, si era disposto che, nell'insieme delle liste di candidati presentate da ciascun partito, nessuno dei due sessi poteva essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati.
  A normativa vigente, l'unica disposizione relativa alla tutela e alla promozione della parità di genere, è quella introdotta da ultimo dall'articolo 9 del decreto-legge 28 dicembre 2013, n. 149, convertito dalla legge 21 febbraio scorso, la n. 13, che stabilisce che, nel caso in cui, nel numero complessivo dei candidati di un partito politico per l'elezione, tra l'altro, dei membri del Parlamento europeo spettanti all'Italia, uno dei due sessi sia rappresentato in misura inferiore al 40 per cento, «le risorse spettanti al partito politico provenienti dalla destinazione volontaria del due per mille sono ridotte in misura percentuale pari allo 0,50 per ogni punto percentuale di differenza tra 40 e la percentuale dei candidati del sesso meno Pag. 9rappresentato, nel limite massimo complessivo del 10 per cento».
  Una simile sanzione, quindi, non impedisce evidentemente ad un gruppo politico di escludere un genere dalle liste. Per questo, essendo già scattato il termine dei 180 giorni precedenti la presentazione delle candidature (che nel caso delle elezioni del Parlamento europeo verranno depositate tra il 15 e il 16 aprile prossimo) che i gruppi politici hanno a disposizione per raccogliere la sottoscrizione delle liste, il Senato ha correttamente scelto di posticipare alle prossime elezioni europee l'entrata in vigore delle disposizioni relative alla composizione delle liste. Alcuni gruppi, infatti, sono già nella fase di sottoscrizione delle liste e non possono in alcun modo essere costretti, in forza di una norma entrata in vigore successivamente al termine prescritto, a ridefinire nuovamente la lista, annullando le sottoscrizioni raccolte fino ad ora.
  Ad ogni modo, il Parlamento può decidere comunque di dare fin da ora un segnale forte e una spinta al percorso, in grado di garantire una piena tutela della parità di genere nella rappresentanza politica ed istituzionale. Per questo oggi, sulla base di quanto già approvato dal Senato, si vuole introdurre, a partire dalle prossime elezioni europee previste per il 25 maggio, la cosiddetta tripla preferenza di genere, prevedendo che, nel caso in cui l'elettore decida di esprimere tre preferenze, queste devono riguardare candidati di sesso diverso, pena l'annullamento della terza preferenza.
  Lo scopo del rafforzamento di questi strumenti, delle quote o della promozione della presenza sia nelle liste sia nei meccanismi di voto a favore delle donne, è quello di rendere la partecipazione delle donne numericamente più consistente e più proficua, cercando di aumentare la presenza femminile nelle istituzioni, mediante l'uso di strumenti previsti per legge nella selezione dei candidati all'interno dei partiti.
  Vorrei solo ricordare brevemente che, guardando fuori dal nostro recinto nazionale, l'Italia rispetta abbastanza la media della quota di presenza femminile già oggi accertata e consolidata nelle nostre Assemblee. Nelle Assemblee parlamentari di tutto il mondo, infatti, la rappresentanza trova spesso la sua massima espressione. La percentuale media, però, di donne presenti nelle Assemblee parlamentari in tutto il mondo è del 20 per cento. In Italia, la quota è del 31 per cento attualmente, dalle scorse politiche. Quindi, facciamo meglio della Francia, evidentemente, in questo. In realtà, in questo lo siamo anche per altre leggi e mi riferisco a quella sulla presenza delle donne nei CdA delle società quotate, che è una legge di assoluta avanguardia. E siamo anche davanti alla Gran Bretagna, che è al 22 per cento, e al Portogallo, che è al 27 per cento. Meglio di noi fanno la Spagna e la Germania, con il 36 per cento. Sicuramente meglio di tutti fanno i Paesi del nord, come l'Islanda, la Norvegia e la Svezia, che da tempo hanno intrapreso questo percorso importante di riequilibrio e devo dire che questo percorso ormai si è esaurito in questi Paesi, nel senso che la rappresentanza lì è quasi paritaria in quanto ci aggiriamo sul 40-45 per cento. Questo è, dunque, il panorama europeo dentro il quale ci muoviamo.
  Ricordiamo, però, che mentre il Parlamento italiano discuteva, nelle scorse settimane, relativamente alla nuova legge elettorale, sulle quote rosa o cosiddette quote rosa, per le elezioni politiche e per le europee, lo scorso 11 marzo il Parlamento europeo, al quale oggi dedichiamo questa proposta di legge, ha respinto una proposta di risoluzione, ancorché non vincolante, sulla parità di genere nell'Unione europea, che chiedeva agli Stati membri, in cui la rappresentanza delle donne nelle Assemblee è bassa – e tra questi Paesi si includeva anche l'Italia –, di prendere in considerazione l'introduzione di strumenti di rafforzamento, quelli che in alcuni casi appunto chiamiamo, forse non correttamente, quote rosa. Era una proposta della Sinistra Unitaria ed è stata respinta per soli dieci voti, il che vuol dire che si tratta di un tema che attraversa ancora le coscienze e le posizioni politiche di tutti, ma che tuttora è controverso per le perplessità Pag. 10appunto che suscita il fatto di dover vincolare le regole fondamentali della democrazie e della rappresentanza democratica con delle norme di legge. Bisogna, inoltre, ricordare che la parità di accesso e, quindi, l'opportunità di esercitare cariche elettive, non si traduce sempre in un'effettiva maggiore rappresentanza dopo le elezioni, soprattutto perché l'eliminazione delle barriere all'entrata, con la previsione di quote di rappresentanza nelle liste di un partito ad esempio, non prevede, poi, delle politiche che eliminino completamente le discriminazioni e i limiti culturali, cioè che consentano alle donne, nonostante la possibilità di accedere all'ingresso, poi di fare politica e di avere strumenti di sostegno per poter conciliare – il problema è sempre la conciliazione per le donne – la vita familiare con appunto l'attività politica. Il punto centrale deve essere, dunque, di tipo culturale. Il processo di evoluzione culturale non deve essere «legato» in virtù di una legge pedagogica, ma di un processo evidentemente più ampio e robusto di migliore qualità della nostra politica, delle nostre politiche di welfare e anche della nostra rappresentanza.
  Questa legge, e, in generale, la questione delle quote, non deve essere vista, quindi, come una discriminazione contro qualcuno o in favore di qualcuno, ma deve essere inquadrata nell'ambito di una compensazione per barriere strutturali che ostacolano ancora oggi le donne nei processi elettorali. Noi sappiamo che quelle quote servono per abbattere queste barriere e per migliorare, anche profondamente, la qualità della nostra offerta politica. E vorrei precisare che non si tratta di imporre coattivamente o contro il merito il genere femminile e non si tratta neanche di garantire con certezza quote o seggi, ma solo pari opportunità, evidentemente ai blocchi di partenza. Interventi che garantiscano in tempi più rapidi un riequilibrio della rappresentanza si ritengono ormai quanto mai necessari al fine di evitare che troppo tempo passi prima che questa situazione di grave sottorappresentanza possa trovare un rimedio efficace. L'obiettivo è, infatti, quello di curare una patologia che altrimenti potrebbe essere guarita solo nel lungo periodo o probabilmente non essere guarita affatto. Infatti, alcuni dati mostrano infatti come, in seguito all'introduzione di quote di genere, anche per un periodo limitato nel tempo, ossia quote di natura temporanea, il riequilibrio ottenuto tende poi a permanere nel tempo, poiché si elimina questa paralisi e, quindi, un blocco che successivamente dovrebbe tendere fisiologicamente a non riformarsi più.
  Solo rafforzando le politiche di promozione della parità di genere si può realizzare una presenza equilibrata tra uomini e donne nei luoghi della decisione, che è il presupposto fondamentale e la garanzia per l'efficacia di tutti i sistemi democratici.
  Questo provvedimento quindi risponde a questo impegno profuso per promuovere l'uguaglianza di genere e l’empowerment femminile sia sulla scena nazionale che su quella internazionale.
  Il progresso politico, civile, sociale ed economico di ogni Paese non può prescindere da una piena partecipazione ed un completo coinvolgimento delle donne su basi di uguaglianza nei processi decisionali, nelle scelte di Governo e nei processi formativi ed educativi. Né si può trascurare la posizione dell'Unione europea su questo punto. È considerata come una priorità universale per il quadro post 2015 garantire la partecipazione delle donne alla vita politica ed economica, promuovere l'uguaglianza dei diritti di tutto il genere femminile.
  Purtroppo in questo momento, nonostante questo impegno, non si poteva fare di più. Le esigenze legate al rispetto della piena legittimità della raccolta già in atto delle firme per le liste che si presentano alle prossime elezioni europee non ci consentono di rimandare l'approvazione di questo provvedimento, ma non ci permettono neanche di cambiare le regole del gioco quando il gioco evidentemente è già iniziato.
  È un piccolo passo in avanti ma bisogna fare di più. Vorrei dire che la questione non è solo tecnica ma anche politica, Pag. 11culturale e, se mi permettete, anche di natura economica e non è da trascurare. Se tutti i Paesi raggiungessero il traguardo fissato dal Trattato di Lisbona, ad esempio per quanto attiene i livelli di occupazione femminile, se raggiungessimo il 60 per cento, si produrrebbe un incremento delle ricchezze nazionali assolutamente significativo. Basandosi su uno studio che ha coinvolto Francia, Regno Unito, Germania, Giappone, Australia e USA, l'OCSE prospetta per i Paesi che realizzino una reale parità di genere aumenti di PIL fino al 12 per cento entro il 2030.
  Una maggiore rappresentanza femminile, quindi, in posizioni dirigenziali, e dunque la possibilità di esercitare politiche per le donne, favorendo l'occupazione femminile con provvedimenti che la incentivino, sarebbe cruciale per la stabilità e anche per la crescita economica del nostro Paese.
  Oggi il nostro gruppo, il gruppo di Forza Italia, sosterrà questa proposta di legge, in base alla considerazione che si tratta dell'inizio di un processo che, se anche verrà pienamente applicato solo dalle successive elezioni, non è assolutamente giusto interrompere.

  PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Dieni. Ne ha facoltà.

  FEDERICA DIENI. Signor Presidente, colleghi, comincerò il mio intervento con una citazione. «Ciò che vorrei provare a fare è spiegare le ragioni della nostra contrarietà. Sussistono, in primo luogo, ragioni di metodo. Il principio secondo il quale la legge elettorale si cambia soltanto con un'intesa tra maggioranza e opposizione è stampato nelle regole di una democrazia parlamentare». Si tratta di una posizione per voi non condivisibile ? Ebbene, è assai strano perché queste parole non sono mie, ma del Ministro dei beni e attività culturali e del turismo Franceschini, che penso si vorrà dimettere ora, dato che il suo Governo fa con il MoVimento 5 Stelle la stessa cosa di ciò che il suo partito, la Margherita, lamentava nel 2005 quando votò per la legge Calderoli senza trovare un comune consenso con l'opposizione. Ma sappiamo bene che il Ministro Franceschini non lo farà.
  D'altra parte, il tempo passa. Qualche volta capita di passare dall'opposizione al Governo e si scopre che, pur di rimanerci, si è anche disponibili a cambiare idea su qualcosa, talvolta anche su tutto. E rileggendo i vecchi resoconti parlamentari ho scoperto che non avrei avuto bisogno neppure di cinque minuti per scrivere questo intervento. Sarebbe bastato pescare dalle parole dell'attuale maggioranza. Facciamo un altro esempio. «Cambiare le regole elettorali con la sola maggioranza vuol dire rendere permanentemente instabile il sistema politico: ogni vincitore sarebbe tentato di usare a proprio vantaggio la posizione di cui gode ed il sistema non troverebbe mai un proprio equilibrio.» Questa di chi è ? Beh, è di Violante, ex Presidente della Camera e grande promotore di riforme elettorali del PD.
  Ebbene, cari colleghi di maggioranza, dopo l'Italicum ci riprovate. Ovviamente, il provvedimento oggi all'ordine del giorno è meno lesivo del sistema istituzionale rispetto alla «super-porcata» che avete concepito col patteggiamento.... pardon, col patto col pregiudicato, a Largo del Nazareno. Ma anche questo è un esempio del vizietto a cui, come sembra, state prendendo gusto: quello di cambiare le regole unilateralmente. Ora cominciate a cambiarle poco prima delle elezioni. E anche su questo argomento di dichiarazioni di biasimo ne potrei trovare, ma non intendo tediarvi con le vostre ipocrisie. Parliamo piuttosto di questa proposta.
  Ebbene, anzitutto qualche ragionamento sulle quote rosa.
  Si è discusso molto in questi anni dell'opportunità di promuovere affirmative action, le discriminazioni cosiddette positive. La scienza politica americana ha sviscerato l'argomento, ma tuttora il valore di questo tipo di politica non è assoluto. In Italia, invece, si spaccia ormai come una battaglia di civiltà, in una lotta macchiettistica tra maschi contro femmine, in una lotta, quindi, molto simile a qualche film Pag. 12di qualche anno fa. Nessun approfondimento serio è stato compiuto su questa tematica e il dibattito culturale è affidato alle grida stridule delle arene televisive. Grazie al cielo, credo di non poter essere tacciata di maschilismo e, quindi, mi è consentito formulare con un minimo di serenità delle osservazioni sull'argomento, sperando di riportare il dibattito sul merito e attendendomi anche dalle altre parti politiche dei contenuti un po’ più alti di una camicetta bianca griffata.
  Io sono contraria alle quote rosa per due ordini di ragioni. Il primo riguarda esattamente l'obiettivo che le quote rosa si propongono: quello di favorire una piena parità di genere. In realtà, le quote rosa fanno l'esatto opposto: fanno pensare che sia il numero di donne presenti in Parlamento e non la modalità della loro selezione ad essere fondamentale. Una politica di genere seria non si spinge a definire delle nicchie protette nei posti apicali. Questo tipo di azione serve soltanto a poche donne che hanno paura di competere e che, in questo modo, possono far fuori facilmente la concorrenza. Una politica di genere seria parte dalla società, in ogni tipo di contesto sociale ed economico. Non bastano i posti nei cda o in Parlamento per dire che la donna è rappresentata. Serve una battaglia diversa che è molto più complessa da combattere.
  E se vogliamo trattare dell'ambito politico, questo tipo di battaglia va compiuta nei partiti. Il MoVimento 5 Stelle l'ha dimostrato: noi non abbiamo bisogno di quote per portare le donne in Parlamento. Le quote rosa sono la testimonianza del fallimento totale della lotta per la parità di genere. Se noi, oggi, affermiamo che l'importante è che il numero di donne in Parlamento sia vicino a quello degli uomini, indipendentemente da chi esse sono, dalle loro storie, dal modo in cui esse sono state scelte, ebbene, buttiamo alle ortiche ogni straccio di dignità ed eleviamo a legge del puro sessismo. Se questo è l'obiettivo, accomodatevi pure, care colleghe: meno posti per i maschi in lista, nel vuoto di partecipazione femminile attuale, significa elezione assicurata. Avete vinto !
  Ma c’è anche un'altra ragione di tipo, se vogliamo, politologico, che andrebbe considerata per esprimere contrarietà rispetto a questo tipo di approccio. Nella scelta di un rappresentante esistono una pluralità di fattori che ciascuno di noi ritiene più o meno importanti. E sono fattori che dovrebbero essere più importanti del sesso, se ci guidasse una prospettiva non inquinata dal sessismo. Io posso ritenere che il fatto che un candidato proponga una tassazione agevolata per le giovani coppie sia più importante rispetto a che sia maschio o femmina. O posso pensare che il fatto che difenda alcuni tipi di valori o che sia più o meno onesto, sia infinitamente più rilevante del suo genere. Perché dovrei, dunque, decidere che il sesso è un criterio più importante di questi per una selezione ?
  Alcuni diranno che noi vogliamo la conservazione dell'esistente. Tutt'altro ! Noi vogliamo la possibilità di avere una rappresentanza italiana nel Parlamento europeo formata dalla stragrande maggioranza di donne, se i cittadini italiani lo riterranno opportuno. Né crediamo che l'essere donna richieda protezioni particolari. In caso contrario, dovremmo prevedere una rappresentanza minima anche per i cittadini di razza diversa da quella caucasica, di un credo religioso diverso da quello maggioritario. Il rischio è che, inserendo delle quote, occorrerebbero forme di discriminazione positiva per tutte le categorie svantaggiate, limitando al minimo la scelta dell'elettore.
  Lo ripeto, quindi: la scelta di chi è più adatto a rappresentarci deve essere libera, come lo è ogni tipo di procura. Sarebbe incredibile che mi si costringesse a scegliere un avvocato donna se ripongo la mia fiducia in un avvocato uomo. Figuriamoci se questo stesso ragionamento non dovrebbe valere per chi decide sul futuro nostro e dei nostri figli. Ovviamente, questo ragionamento vale soltanto per la questione relativa al genere.
  La realtà è che questa dovrebbe essere un'occasione per rivedere ben altre storture che sono presenti nella legge europea. E sono tutte segnalate e corrette negli Pag. 13emendamenti che abbiamo presentato. Sulla raccolta firme, ad esempio, il nostro parere è che tutti dobbiamo giocare alla pari. O sulle soglie di sbarramento, che non hanno senso nella scelta di un Parlamento la cui ragion d'essere è legata alla rappresentanza e che non ha il problema di garantire alcuna governabilità. La realtà, tuttavia, è che, in questo modo, con il cambio continuo delle regole, con le eccezioni e con le complicanze, rendete sempre più approssimativo l'esercizio del voto, privilegiando le sacche di potere organizzato, la compravendita di voti, compromettendo la natura della scelta democratica: personale, eguale, libera e segreta.
  E non posso che ricordare la frase che James Freeman Clarke scrisse sulla Daily Gazette nel lontano 1870: «Un politico pensa alle prossime elezioni, un uomo di Stato alle prossime generazioni. Un politico cerca il successo del suo partito, uno statista quello del Paese». Voi siete politici. L'Italia ha bisogno di altro. Ha bisogno di rialzare lo sguardo e di guardare le stelle.

  PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Galgano. Ne ha facoltà.

  ADRIANA GALGANO. Signor Presidente, pochi giorni fa Christine Lagarde, la direttrice del Fondo monetario internazionale, rilevava che l'Italia è uno dei Paesi nell'area euro che incoraggia di meno le donne a partecipare al mercato del lavoro. Se noi ci troviamo qui, oggi, è perché abbiamo mancato di incoraggiare la partecipazione femminile anche al Parlamento europeo che sta per uscire. La rappresentanza femminile al Parlamento europeo si compone, infatti, di 17 donne su 72 membri, il che significa il 25 per cento del totale della rappresentanza italiana, che è inferiore del 10 per cento al 35 per cento di presenza femminile nel Parlamento europeo.
  D'altra parte, la scarsa presenza delle donne in posizioni di vertice nella società è una triste costante della storia del nostro Paese e questo ci relega, nelle statistiche internazionali, in posizioni imbarazzanti. Se andiamo a vedere la relazione annuale sull'indice che misura la differenza di possibilità tra i generi, e quindi le disuguaglianze, che viene stilata dal Word Economic Forum, vediamo che nel 2013 l'Italia si colloca al settantunesimo posto, dopo Botswana, Ghana e, per quanto riguarda l'Europa, precede solo l'Ungheria, Malta e la Grecia. Tutto questo ci fa percepire l'urgenza dell'intervenire e mi permetto di rifarmi all'intervento che mi ha preceduto della collega del MoVimento 5 Stelle: queste posizioni, questa situazione deve essere risolta più velocemente di quanto un lento processo culturale farebbe, perché più donne nella società corrispondono a più sviluppo, e la storia dei Paesi che hanno più donne nella società lo dimostrano.
  Allora se ci troviamo qui, oggi, è anche perché, anzi, è perché c’è stata una risoluzione del Parlamento europeo che invita i Paesi membri ad attivare misure per garantire la parità nelle liste nelle prossime competizioni europee. Questa risoluzione è del 4 luglio 2013 e noi siamo qui, oggi, il 7 aprile 2014, in ritardo e a comizi aperti. Questo ritardo è la giustificazione che viene utilizzata da alcuni per dire che è stato necessario, appunto, per questo ritardo e a comizi aperti, prevedere una norma transitoria che fa sì solo che si introduca nella normativa la terza preferenza, ovvero nel caso in cui l'elettore esprima la terza preferenza questa deve essere di genere diverso, altrimenti viene annullata, e rimandare al 2019 delle misure molto più importanti come la parità nella composizione delle liste, quello che succede nel caso non venisse mantenuta, la doppia preferenza di genere e l'alternanza di genere nelle prime due posizioni.
  Allora, questo ritardo comunque si giustifica anche poco alla luce della pronuncia della Corte costituzionale del 2010, che dice che il quadro normativo costituzionale e statutario è complessivamente ispirato al principio fondamentale dell'effettiva parità tra i due sessi nella rappresentanza politica nazionale e regionale, nello spirito dell'articolo 3, secondo comma, Pag. 14della Costituzione, che impone alla Repubblica la rimozione di tutti gli ostacoli che di fatto impediscono una piena partecipazione di tutti i cittadini all'organizzazione politica del Paese.
  Preso atto della storica sottorappresentanza delle donne nelle assemblee elettive, non dovuta a preclusioni formali incidenti sui requisiti di eleggibilità, ma a fattori culturali, economici e sociali i legislatori costituzionale e statutario indicano la via delle misure specifiche volte a dare effettività a un principio di eguaglianza astrattamente sancito, ma non compiutamente realizzato nella prassi politica ed elettorale.
  Riteniamo quindi che questa mancanza di coraggio ci impedisca di cogliere da subito la spinta propulsiva che una maggiore partecipazione delle donne avrebbe dato al Parlamento europeo. Noi di Scelta civica però siamo consapevoli che questo è un piccolo passo avanti che vogliamo compiere, e in fretta, e quindi chiediamo la massima urgenza nell'approvazione di questo provvedimento; per questo motivo, pur questo provvedimento non soddisfacendoci proprio per nulla, non presenteremo emendamenti.
  Aggiungo che alla fine di febbraio la Corte costituzionale tedesca ha dichiarato illegittima la soglia di sbarramento per la partecipazione alle europee, e questo l'ha fatto perché ha stabilito, una volta di più, che la soglia di sbarramento serve a ridurre la frammentazione; questa è importante che ci sia dove la frammentazione rappresenta un problema, come nel Parlamento nazionale, mentre dove non rappresenta un problema, come nel Parlamento europeo, non ha senso che venga mantenuta.
  Quindi, questo cosa significa ? Che i tedeschi andranno alle elezioni e voteranno senza soglia di sbarramento e – consentitemi l'ironia – senza la norma transitoria che noi riteniamo debba essere inserita, visto che siamo a comizi aperti. Segnalo che anche i tedeschi sono a comizi aperti e comunque introducono questa innovazione significativa.
   È importante, cari colleghi, che ci rendiamo conto che il mondo sviluppato corre più di noi e quindi, per raggiungerlo e per assicurare le condizioni di benessere che i nostri cittadini ci richiedono, è importante che diventiamo più coraggiosi e più veloci.

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Pilozzi. Ne ha facoltà.

  NAZZARENO PILOZZI. Signor Presidente, colleghi, purtroppo una discussione così importante come quella sulla legge elettorale europea avviene in un'Aula praticamente deserta e questo forse dà anche la cifra di quanto sulle politiche europee il nostro Paese è indietro proprio nell'interesse generale e nell'interesse particolare della politica.
  Noi viviamo in un Paese in cui sembra smarrito il senso dell'importanza dell'Europa, in cui l'Europa viene disegnata in maniera negativa, in cui si cerca di dimenticare i propri errori fatti quando si governava – mi riferisco soprattutto al centro destra e alla Lega Nord in particolare – dando le colpe di quello che avviene nel nostro Paese esclusivamente all'Unione europea.
  Forse se questi partiti, se questi movimenti fossero qui oggi con noi a discutere compiutamente di legge elettorale e di rappresentanza in Europa, probabilmente darebbero una maggiore utilità anche ai propri elettori, piuttosto che sempre e comunque alzare degli spauracchi e non trovare mai soluzioni.
  Ma siccome noi – e credo su questo anche il Partito Democratico, almeno nelle parole del Presidente del Consiglio, di molti parlamentari – continuiamo a dire che ci vorrebbe un'Europa dei popoli, non un'Europa delle tecnocrazie, non un'Europa dei numeri, non un'Europa dei vincoli, ma un'Europa che tenga conto del welfare, delle grandi ricchezze e delle grandi capacità che la storia di questo nostro continente ha saputo costruire nel corso dei secoli, vorremmo ci si mettesse a disposizione di un grande progetto unico istituzionale. Forse la legge elettorale è Pag. 15quello strumento che ci aiuterebbe a costruire un'Europa dei popoli, un'Europa che stesse vicino ai popoli; ma per fare questo noi dovevamo prendere questa occasione e non farne un'ulteriore occasione sprecata. Qui avevamo l'occasione di migliorare una legge che presenta diversi aspetti di criticità e, in alcuni casi, anche aspetti di dubbia costituzionalità.
  Per noi, per Sinistra Ecologia Libertà, che in questi mesi si è battuta sia in Parlamento ma anche nel Paese per cambiare questa legge elettorale europea, sono almeno tre gli aspetti – ma ci tornerò dopo – sui quali bisogna discutere.
  Ovviamente noi – ma questo lo ripetiamo ormai dall'inizio della legislatura – avremmo preferito un intervento organico sulle riforme istituzionali, sulle riforme elettorali, ma si continuano a presentare pseudo-riforme parziali che, come ho già avuto modo di dire in occasione della discussione sulla legge Delrio sulle province, non riformano ma deformano le istituzioni democratiche. Per fare riforme organiche ci vuole coraggio e forse anche, come canta De Gregori, altruismo e fantasia, oltre al coraggio, qualità di cui questa maggioranza – che sulle riforme paga anche lo scellerato accordo con Verdini e Berlusconi – è assolutamente sprovvista.
  A nostro avviso, coraggio, altruismo, fantasia ci vorrebbero anche nell'opposizione, in tutte le opposizioni, e mi dispiace dirlo avendo ascoltato poc'anzi l'intervento della collega del MoVimento 5 Stelle. Nel suo intervento ho ascoltato solo sterili frasi un po’ anche vetero-reazionarie che non sono forse neanche rappresentative di un movimento così importante nel panorama politico italiano. Il mio consiglio è magari di guardare un po’ meno alle stelle e di guardare un po’ più a quello che avviene nel nostro Paese, nel Paese reale, in cui esistono tante disparità, è vero, è così, ma la disparità di genere è una delle cifre che costituisce la radice di tutte le altre disparità e probabilmente anche della crisi culturale, economica, sociale che noi viviamo in questi tristi periodi.
  Mi rivolgo anche alla relatrice del provvedimento, che è una collega molto attenta a questi temi, ai temi della rappresentanza di genere, ai temi della democrazia, ai temi della partecipazione: avevamo chiesto tre modifiche fondamentali, importanti per noi, anche perché dopo che abbiamo visto il «Forza-Italicum», non vorremmo che stessimo costituendo anche una specie di «Euro-Porcellum» da portare magari all'estero come segno della nostra incapacità di fare riforme elettorali che abbiano un segno culturale legato alla Costituzione del 1948. Quindi noi ci siamo battuti per la doppia preferenza di genere, che è quella doppia preferenza che ormai esiste in tutte le elezioni più prossime ai cittadini, ovvero quelle dei consigli comunali; e proprio in quegli ambiti, nell'ambito dei consigli comunali ha dimostrato come sia una legge semplice e funzionale.
  Una legge che consente in molti consigli comunali italiani di avere una giusta rappresentanza di genere e di far sì che la politica territoriale non sia appannaggio solo di pochi «notabili», spesso, ovviamente, di sesso maschile, e una riforma che va nel senso della doppia preferenza, che dà anche quella possibilità – possibilità, appunto – di competere alla pari. Questo è un altro punto. Mi rivolgo al Partito Democratico, che ogni giorno ci dice che almeno la linea di partenza deve essere uguale per tutti.
  No, non lo è, non lo è, perché, se noi veniamo da 40 anni, da 50 anni, in cui la democrazia ha comunque coltivato alcuni «notabili», se noi non diamo a tutti gli altri – e, in questo caso, soprattutto alle donne, perché fanno meno parte di quella categoria di notabili locali – la possibilità di partire alla pari e poi giocarsela lungo questa corsa che sono la campagna elettorale e le elezioni, per arrivare a governare i propri territori, per essere eletti in Parlamento, per essere eletti nel Parlamento europeo, se non diamo questa possibilità, è chiaro che non vi è una corsa alla pari.
  Vi è una corsa ad ostacoli, vi è una corsa ad handicap, e a me dispiace che il Partito Democratico dica: «va bene, fino al Pag. 162019 lasciamo l’handicap, lo lasciamo per cinque anni, l’handicap; poi, magari, nel 2019 lo togliamo». Ma adesso si vota, nel 2014 ! Nel 2014 vi è bisogno di avere un'Europa aperta anche al punto di vista delle donne, il 2014 ha bisogno di avere una legge elettorale moderna, non di rimandare tutto al 2019.
  Poi vi è la questione della soglia di sbarramento, che un altro esponente importante del Partito Democratico, Walter Veltroni, volle in una notte, in due giorni, perché doveva dimostrare che il Partito Democratico era sufficiente a se stesso. Infatti, come ha detto bene qualche tempo fa il mio collega Sannicandro, i «partiti moderati», come si definiscono spesso Forza Italia e il Partito Democratico, sono moderati in tutto, tranne che nel prendere i seggi degli altri: su quello sono bulimici, su quello non hanno il senso della moderazione, del rispetto del voto elettorale.
  Quindi, abbiamo detto che, trattandosi del Parlamento europeo, non vi è bisogno della governabilità. Vi è proprio bisogno della rappresentanza, di tenere aperta la rappresentanza a milioni di cittadini che con quelle soglie di sbarramento voi tirate fuori dall'Europa. Qui è anche stato detto da diversi colleghi, dal collega Kronbichler, che la sentenza della Corte costituzionale tedesca dice che è veramente assurdo che vi siano soglie di sbarramento in una competizione proporzionale, che non deve assolutamente esprimere una maggioranza di Governo. Oggi ci deve essere l'Europa dei popoli, anche delle minoranze, anche delle piccole minoranze, che devono andare lì a spiegare le proprie ragioni. Se noi facciamo un'Europa dei pochi, delle elite, di coloro che, per senso divino o di appartenenza, possono rappresentare i propri cittadini in Europa, noi facciamo un'Europa che aumenta la propria diffidenza verso le istituzioni dell'Unione europea, perché è chiaro che non diamo la possibilità ai cittadini di essere rappresentati, e quindi abbiamo pulsioni populiste e antieuropee e stiamo semplicemente contribuendo a costruire un circolo vizioso.
  Infine, vi è un'altra questione importante per noi, che è quella della raccolta delle firme. Noi lo diciamo perché anche in questi ultimi mesi ci siamo cimentati nella raccolta delle firme, le abbiamo, credo, raccolte, siamo lì per raggiungere il risultato, perché abbiamo avuto un grande impegno sul territorio. Ma vi sembra normale che, per presentarsi alle elezioni europee, bisogna raccogliere lo stesso numero di firme in Lombardia e in Valle d'Aosta ? Ma vi sembra normale che, per poter dare ai cittadini la possibilità di costruire un'opzione democratica attraverso una lista per competere alle elezioni europee, in Molise si raccolgono le stesse firme che si raccolgono nel Lazio ?
  Poi vi è un altro punto, che abbiamo anche tentato di portare avanti, oltre a questo delle firme, che è una distorsione democratica senza precedenti, che è quello anche della questione della Sardegna, di un popolo e di una regione anche a statuto speciale, che trova una difficoltà assurda ad eleggere propri rappresentanti al Parlamento europeo, sempre per colpa di questa legge elettorale.
  Infatti, per come è costruita, la circoscrizione isole non dà la possibilità, a chi abita in Sardegna, a chi vota in Sardegna e a chi si candida in Sardegna, di essere rappresentato al Parlamento europeo, a prescindere, perché è comunque talmente grande la disparità con la Sicilia che la storia ci insegna che chi abita in Sardegna non può essere rappresentato.
  Ma a voi sembra normale tutto questo ? Non sarà, forse, e non sarebbe stato, forse, il caso di intervenire ? Io mi auguro – abbiamo tempo fino alla votazione delle proposte emendative, alle dichiarazioni di voto, al voto finale e agli ordini del giorno – che almeno il Governo abbia il buonsenso di dire che questa legge elettorale va riformata in pieno e che c’è bisogno, in questo Paese, di iniziare un processo di riforme istituzionali ed elettorali.
  Io sono contento, chiamandomi tra l'altro anche Nazzareno, che avvengano delle riunioni segrete in Largo del Nazareno, ma è possibile che non riusciamo in Parlamento, con quello che costruiamo giorno per giorno nelle Commissioni, a rendere un servigio utile al nostro Paese attraverso Pag. 17riforme che siano condivise nel Paese e anche qui dentro ? Io tenterei di evitare questa contrapposizione, ovvero di dire che se sono condivise qui dentro vuol dire che non sono buone nel Paese e viceversa. Questo è un messaggio pericolosissimo che noi stiamo dando.
  Invito, quindi, veramente la maggioranza ed il Governo a ragionare su questo. Io penso che, se noi riusciamo a lavorare bene qui dentro, riusciamo a fare anche delle leggi utili e condivise nel Paese. Questo è quello che noi dobbiamo mettere in campo ed io spero vivamente che la maggioranza rifletta su questo e che, magari, nelle prossime occasioni potremo essere qui con ragionamenti più condivisi e meno critici da parte nostra.

  PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Campana. Ne ha facoltà.

  MICAELA CAMPANA. Signor Presidente, colleghi, anche se mi sembra eccessivo, vista la sparuta presenza.

  PRESIDENTE. Sempre colleghi sono, quindi, la prego...

  MICAELA CAMPANA. Sempre colleghi, ma pochi.
  Letteralmente, democrazia significa «governo del popolo». Regole e contenuti della democrazia devono coesistere, così come diritti di cittadinanza, eguali opportunità, inclusione sociale, diritti di libertà, differenze e partecipazione, devono qualificare in modo pregnante il governo del popolo.
  Fu merito di Tocqueville quello di avere dato una rappresentazione della democrazia, come promozione contemporaneamente di eguaglianza e libertà. Il dibattito attuale sulla rappresentanza politica delle donne si centra su due questioni principali: da una parte, la democrazia paritaria e, dall'altra, la rappresentanza di genere. La prima tende ad accrescere quantitativamente il numero di donne nelle istituzioni rappresentative e di governo, anche attraverso interventi legislativi, mentre la seconda assume la differenza come elemento di unificazione culturale, come chiave della migliore rappresentanza possibile per le donne.
  Io penso che l'aspetto quantitativo della presenza non basti da solo per fare la differenza: è in gioco la qualità della nostra democrazia. La presenza delle donne non esaurisce il problema della rappresentanza né la discussione può coincidere con l'auto-rappresentazione.
  Amartya Sen si chiede se il pieno sviluppo di una persona debba essere misurato dalla parità con l'altro sesso o non piuttosto, come io penso, dal diritto di avere eguale opportunità di essere messi in grado di agire all'interno delle istituzioni sociali e politiche.
  Il Parlamento europeo ha approvato il 4 luglio 2013 una risoluzione, relativa allo svolgimento delle elezioni europee del 22-25 maggio 2014, nella quale, tra le altre cose, si invitano gli Stati membri ed i partiti politici a insistere per una maggiore presenza di donne nelle liste dei candidati e, per quanto possibile, a incoraggiare l'elaborazione di liste che garantiscano una rappresentanza paritaria.
  Questa legge è l'opportunità che ci viene data di cambiare il corso alle cose, di confermare e dare continuità ad un lavoro che si è svolto nella scorsa legislatura, in sintonia e piena collaborazione tra maggioranza e opposizione.
  Non licenziare questo testo in tempi rapidi, impedendo che possa operare dalle prossime elezioni di maggio vorrebbe dire creare un allarmante vuoto, un limbo tra quanto è stato deliberato da quest'Aula e lo svolgersi delle cose. Così facendo, daremmo credito alle voci che vogliono la politica lontana dalle istanze della gente e il Parlamento un inutile orpello.
  Dal 1979, dalle prime elezioni per il Parlamento Europeo, sono cambiate molte cose, siamo cambiati noi, il nostro ruolo come Paese fondatore dell'Europa, ma non è cambiato quel sogno di sempre maggior integrazione fra Stati sovrani, verso un destino comune. Dobbiamo quindi operare, come già fatto al Senato, in tempi rapidi. E per capire quanto sia urgente questa legge basta guardare i numeri delle Pag. 18donne che siedono nella delegazione italiana di Strasburgo, dove solo il 21 per cento degli eletti è donna (pur rappresentando le donne la maggioranza della popolazione italiana). È a Bruxelles che si prendono molte delle decisioni che vanno a influenzare le nostre politiche e credo che non si possa più fare a meno di uno sguardo femminile sulle decisioni che vengono prese.
  Così come, lo ha più volte invocato il Premier Matteo Renzi, anche in questa Aula, dobbiamo ritrovare un «nuovo coraggio europeo», uscendo dalla logica degli ultimi della classe. Al Parlamento di Bruxelles, sono molte le sale dedicate ad Altiero Spinelli, un uomo che potremmo non a torto definire il padre fondatore del sogno europeo.
  Bisogna, dunque, mettere in campo quegli strumenti legislativi che possano dimostrare alla comunità di uomini e donne che ci guardano che l'Italia è ancora capace di quella grande lungimiranza del sogno europeo.
  Voglio ricordare a quest'Aula e a chi ci ascolta che questo Parlamento è stato tra i primi a ratificare la Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne, dimostrando una sensibilità certa verso il genere femminile. Io credo che la norma sulla preferenza di genere, seppur transitoria e a regime nel 2019, si collochi in quel percorso intrapreso dall'Italia e che non si deve arrestare in nessuna maniera.
  Ricordo quello che ha già detto la relatrice del PD al Senato, Doris Lo Moro, quando ha ricordato che la velocità dell'iter in Commissione è stata facilitata da una condivisione di intenti da parte di tutti i gruppi politici che hanno riconosciuto l'importanza di dare ai cittadini la possibilità di scegliere i propri rappresentanti, favorendo e incentivando le doppie preferenze.
  Il PD è un grande partito a vocazione popolare, accoglie questo testo con favore e crede sia urgente portare il risultato a casa senza indugi. L'invito che rivolgo a quest'Aula è di lasciare da parte i personalismi di ciascuno, di scendere dall'Aventino, un Aventino guidato solo da un pregiudizio cieco che si rivolge non contro gli altri partiti ma contro quegli stessi cittadini di cui si dice essere portavoce. Fate almeno per una volta un gesto per il Paese e non contro il Paese approvando questa legge in tempi brevi, per dare un primo segnale di allineamento legalitario.
  Quando il legislatore allarga la possibilità di scelta per il proprio cittadino elettore, compie un gesto semplice che porta al rafforzamento dei legami tra politica e territorio, tra eletto ed elettore. Il Parlamento europeo e i suoi eletti devono smetterla di essere percepiti come una questione quinquennale che si ripropone solo al tempo delle elezioni; i cittadini devono stringere un legame sempre più stretto con gli uomini che hanno scelto come rappresentanti a Bruxelles, perché lì rappresentano l'Italia tra i 28 Stati membri. Sono i successori dei padri fondatori dell'Unione europea che nel 1957 scelsero Roma per firmare un accordo che ha cambiato la vita di tutti negli anni a venire.
  Abbiamo bisogno che il prossimo Parlamento europeo abbia una consistente rappresentanza italiana, e chiudo, in grado di farsi sentire e di fare spalla al Governo che andrà a guidare il semestre europeo. Si gioca una partita troppo importante che vedrà rinnovati i commissari europei e dove i nostri politici devono occupare delle caselle chiave per poter dare la giusta impronta all'azione politica dell'Unione europea, che finora si è concentrata troppo nel fissare i vincoli di stabilità, strozzando le economie più deboli dell'eurozona. Come vedete, colleghi, quella che si gioca con questa legge è una partita a trecentosessanta gradi.
  La risposta è ancora una volta una questione di credibilità, quella che siamo chiamati a dover dimostrare ogni volta che ci affacciamo oltralpe. Siamo la generazione Erasmus, quella delle frontiere aperte, quella della libera circolazione di merci e servizi. Io vorrei essere la generazione che ritrova la cifra di una democrazia di qualità in cui la rappresentanza Pag. 19e la parità è un elemento imprescindibile oggi per l'Europa e presto, questo dipende da noi, per l'Italia.

  PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

(Repliche del relatore e del Governo – A.C. 2213)

  PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare, in sostituzione del relatore, il vicepresidente della Commissione affari costituzionali, deputata Roberta Agostini.

  ROBERTA AGOSTINI, Vicepresidente della I Commissione. Signor Presidente, non intendo replicare.

  PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare il rappresentante del Governo.

  SESA AMICI, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Il Governo si riserva di intervenire nel prosieguo della discussione.

  PRESIDENTE. Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Discussione del disegno di legge: Conversione in legge del decreto-legge 6 marzo 2014, n. 16, recante disposizioni urgenti in materia di finanza locale, nonché misure volte a garantire la funzionalità dei servizi svolti nelle istituzioni scolastiche (A.C. 2162-A) (ore 15,30).

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge n. 2162-A: Conversione in legge del decreto-legge 6 marzo 2014, n. 16, recante disposizioni urgenti in materia di finanza locale, nonché misure volte a garantire la funzionalità dei servizi svolti nelle istituzioni scolastiche.
  Ricordo che nella seduta del 18 marzo 2014 sono state respinte le questioni pregiudiziali Dadone ed altri n. 1, Borghesi ed altri n. 2 e Brunetta e Palese n. 3.

(Discussione sulle linee generali – A.C. 2162-A)

  PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
  Avverto che i presidenti dei gruppi parlamentari MoVimento 5 Stelle e Partito Democratico ne hanno chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del Regolamento.
  Avverto, altresì, che le Commissioni bilancio e finanze si intendono autorizzate a riferire oralmente.
  Ha facoltà di intervenire il relatore per la maggioranza per la V Commissione, onorevole Melilli.

  FABIO MELILLI, Relatore per la maggioranza per la V Commissione. Signor Presidente, nel ricordare la genesi di questo decreto, farò riferimento naturalmente ai contenuti e agli articoli che riguardano la parte finanziaria e di competenza della Commissione bilancio.
  Mi soffermo in primo luogo sulle modifiche che vengono in rilievo per quanto concerne l'articolo 3, con l'eccezione del comma 1, che è rimasto invariato rispetto al testo iniziale; la restante parte dell'articolo 3 del decreto è stata oggetto di numerosi emendamenti che hanno ridefinito in maniera sostanziale i contenuti dell'articolo.
  In particolare, il comma 2 ha sostituito il comma 573 della legge di stabilità 2014 introducendo per l'esercizio in corso, in favore degli enti locali che hanno avuto il diniego di approvazione da parte del consiglio comunale del piano di riequilibrio finanziario e che non hanno ancora dichiarato il dissesto, la possibilità di riproporre la procedura di riequilibrio finanziario pluriennale entro il termine di 120 giorni. Con il comma 2 inoltre viene riproposto il comma 573-bis, che era volto Pag. 20a consentire l'accesso per il 2014, in caso di esito negativo del primo giudizio, ad un nuovo giudizio presso il giudice contabile. L'ente locale potrà riproporlo previa una deliberazione consiliare entro 120 giorni dall'entrata in vigore delle disposizioni in esame. Questa facoltà naturalmente è condizionata all'effettivo miglioramento della situazione finanziaria, cioè o un miglior avanzo di amministrazione ovvero un minore disavanzo. Nelle more del termine di 120 giorni per la presentazione del nuovo piano vengono sospese le procedure di dichiarazione dello stato di dissesto e le conseguenti procedure relative allo scioglimento del consiglio comunale. Così è stato aggiunto il comma 2-bis, il quale, novellando l'articolo 1 del decreto-legge n. 35 del 2013, ai fini dell'assegnazione delle anticipazioni di liquidità per il pagamento dei debiti delle pubbliche amministrazioni per il 2014, considera anche i pagamenti dei debiti fuori bilancio che sono contenuti nel piano di riequilibrio finanziario approvato dalla sezione regionale di controllo della Corte dei conti.
  Il comma 3 è stato sostituito ulteriormente nel corso dell'esame in sede referente e con il nuovo testo si stabilisce che l'ente locale non può attivare la procedura di riequilibrio finanziario pluriennale qualora per l'ente sia decorso il termine ad esso assegnato dal prefetto per la deliberazione del dissesto. Si consente inoltre, con la rimodulazione di questo articolo, ai comuni che hanno fatto ricorso alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale, di contrarre mutui anche oltre i limiti previsti dalla normativa vigente, ma comunque per importi che non dovranno in nessun caso essere superiori alle quote di capitale dei mutui già contratti e rimborsati nell'anno precedente, qualora i mutui siano necessari alla copertura di spese di investimento che garantiscano naturalmente l'ottenimento di risparmi funzionali al raggiungimento degli obiettivi del piano di riequilibrio.
  Con il comma 3-bis viene ampliato di trenta giorni il termine perentorio per la deliberazione del piano di riequilibrio finanziario pluriennale da parte degli enti locali che si trovano in difficoltà finanziarie suscettibili di provocarne il dissesto. Abbiamo ritenuto di dover intervenire in Commissione con il comma 3-ter, sulla disciplina del piano di riequilibrio finanziario degli enti locali che si trovano in difficoltà, consentendo la possibilità di una rimodulazione del piano di riequilibrio finanziario qualora durante la fase di attuazione dello stesso dovesse emergere un grado di raggiungimento degli obiettivi intermedi superiore a quello previsto dal piano medesimo. Il comma 3-quater stabilisce che le risorse provenienti dal Fondo di rotazione per assicurare la stabilità finanziaria degli enti locali devono essere destinate esclusivamente al pagamento dei debiti presenti nel piano di riequilibrio finanziario pluriennale. Un'ulteriore modifica concerne poi il comma 4, al fine di precisare che la misura di deroga ivi prevista per il raggiungimento del riequilibrio per i comuni con popolazione superiore a 20 mila abitanti si applica soltanto nel caso in cui la riduzione dei costi dei servizi è superiore ad almeno il 20 per cento.
  Con il nuovo comma 4-bis si prevede che le società controllate dagli enti locali interessati ai piani di riequilibrio siano tenute ad applicare i processi di mobilità di personale tra le società partecipate, previsti invece in via facoltativa dalle disposizioni della legge di stabilità 2014.
  Nel corso dell'esame in sede referente è stato altresì aggiunto l'articolo 3-bis, il quale, per l'anno 2014, prevede uguali criteri di determinazione del Fondo di svalutazione crediti degli enti locali, anche nell'ipotesi in cui essi siano beneficiari di anticipazioni di liquidità concesse ai sensi del decreto-legge n. 35 del 2012. L'articolo prevede che l'entità del Fondo svalutazione crediti non può essere inferiore al 20 per cento dei residui attivi di cui ai titoli primo e terzo dell'entrata, aventi anzianità superiore a cinque anni.
  Quanto all'articolo 4, esso prevede una specifica procedura di riassorbimento graduale delle somme attribuite al personale delle regioni e degli enti locali in violazione Pag. 21dei vincoli finanziari che erano stati imposti alla contrattazione collettiva integrativa. Questa norma è stata anch'essa oggetto di interventi di modifica. Le Commissioni hanno previsto che l'obbligo per gli enti locali di trasmettere la relazione illustrativa e la relazione tecnico-finanziaria debba essere assolto entro il 31 maggio di ciascun anno. Si dispone che la relazione illustrativa e la relazione tecnico-finanziaria diano conto anche delle misure di razionalizzazione organizzativa. In Commissione abbiamo sostituito il comma 3, prevedendo che la sanzione della nullità delle clausole contrattuali che sono state adottate in violazione dei vincoli finanziari imposti alla contrattazione collettiva integrativa non trovi applicazione con riferimento agli atti di costituzione e di utilizzo dei fondi, a condizione che le regioni e gli enti locali abbiano rispettato il patto di stabilità interno.
  La Commissione ha aggiunto il comma 3-bis che consente alle regioni e agli enti locali di provvedere al pagamento delle competenze retributive maturate senza l'applicazione delle sanzioni previste dalla legislazione vigente per chi è stato impegnato in progetti di lavori socialmente utili, nonché in quelli di mobilità.
  Non ha subito modifiche l'articolo 5, così come non sono stati oggetto di sostanziali modifiche neanche gli articoli dall'8 al 10. È stato invece modificato il successivo articolo 11, che interviene sulla disciplina della relazione di fine mandato provinciale e comunale. In particolare, è stata eliminata la fase di esame e verifica della stessa relazione da parte del tavolo tecnico interistituzionale, organismo che non viene più previsto a seguito della modifica dall'articolo in questione.
  È stato poi sostituito l'articolo 12, relativo alla decorrenza dell'erogazione del contributo straordinario per le fusioni dei comuni, facendo decorrere il contributo dall'esercizio in corso, dall'esercizio cioè nel quale la fusione viene deliberata e non dall'anno successivo, come ci è sembrato più corretto nei confronti dei comuni che deliberano la fusione.
  È stato aggiunto poi un comma 1-bis, che destina alla regione Emilia-Romagna le somme iscritte in conto residui per l'anno 2014 sul Fondo per l'erogazione di contributi alle persone fisiche per la riduzione del prezzo della benzina e del gasolio per autotrazione alla pompa, istituito in favore delle regioni confinanti con la Repubblica di San Marino. L'entità del fondo è di 2 milioni di euro.
  L'articolo 13 non è stato modificato. Ricordo che l'articolo 13 riguarda misure finanziarie a favore del comune di Lampedusa e Linosa. L'articolo 14 interviene invece sull'applicazione dei fabbisogni standard ai fini del riparto del Fondo di solidarietà comunale. Qui si è operata una modifica nel senso che la quota accantonata del 10 per cento del Fondo sia ridistribuita tra i comuni anche sulla base delle capacità fiscali, oltre che sui fabbisogni standard approvati dalla commissione tecnica paritetica per l'attuazione del federalismo fiscale.
  Quanto all'articolo 15, lo stesso reca una modifica del comma 23 della legge n. 183 del 2011, che definisce le regole per l'assoggettamento al patto di stabilità interno degli enti locali di nuova istituzione, al fine di considerare come tali anche le amministrazioni provinciali che si sono scorporate nel 2009, quindi riguarda la regione Sardegna per le province di nuova istituzione. Ed è stato aggiunto a tale articolo un comma 1-bis, che prevede che, qualora il comparto province consegua l'obiettivo di patto di stabilità ad esso assegnato, per le province che non abbiano rispettato il patto la sanzione della riduzione sia applicata in misura pari alla differenza tra il risultato registrato e l'obiettivo programmatico raggiunto e operi comunque entro il limite del 3 per cento delle entrate correnti dell'ultimo anno.
  Rispetto alle modifiche all'articolo 16, esse sono intervenute in gran parte sui commi da 1 a 4, portando da 90 a 120 giorni il termine entro il quale Roma capitale è tenuta a trasmettere ai Ministeri dell'interno e dell'economia, nonché alle Camere, il rapporto che evidenzi le cause Pag. 22della formazione del disavanzo di bilancio di parte corrente negli anni precedenti, nonché l'entità e la misura della massa debitoria da trasferire alla gestione commissariale ai sensi del successivo comma 5 dell'articolo.
  Si è intervenuti prevedendo che il rapporto che evidenzia le cause della formazione del disavanzo venga trasmesso anche alla Corte dei conti e che si precisino le cause della formazione del disavanzo di bilancio, le quali siano evidenziate anche con riferimento alle società controllate e partecipate del comune.
  La lettera a-bis) è stata aggiunta al testo del Governo, inserendo tra le finalità cui devono tendere le azioni amministrative indicate nel piano triennale per la riduzione del disavanzo anche la ricognizione di tutte le società controllate e partecipate del comune, evidenziando il numero dei consiglieri e degli amministratori, anche le somme erogate ad essi, e prevedendo che queste azioni siano volte ad avviare un piano rafforzato di lotta all'evasione tributaria e tariffaria.
  Si è inserita tra le finalità cui devono tendere le azioni amministrative del comune di Roma anche la responsabilizzazione dei dirigenti delle società partecipate, legando le indennità di risultato a specifici obiettivi di bilancio.
  Si è introdotta poi la mobilità interaziendale, anche attraverso lo strumento del distacco nell'ambito delle misure finalizzate al riequilibrio delle società partecipate. Si è disponendo che nell'ambito delle suddette azioni amministrative si potrà procedere alla fusione delle società partecipate che svolgono funzioni omogenee.
  Il comma 4 è stato sostituito dai commi da 4 a 4-quater, con i quali si prevede che, con decreti del Presidente del Consiglio, il piano triennale viene approvato entro 60 giorni dalla data di trasmissione del medesimo alle Camere ed ai Ministri dell'interno e dell'economia e delle finanze. Al solo fine di reperire le risorse per realizzare gli obiettivi del piano, Roma Capitale può utilizzare le entrate straordinarie e le eventuali sanzioni ad esse collegate per il riequilibrio di parte corrente.
  Roma Capitale provvede, inoltre, alle variazioni del bilancio di previsione in coerenza con il piano triennale approvato. Le Commissioni hanno ritenuto di dover legare le sorti del piano triennale al bilancio di previsione, rendendolo in questo modo molto più cogente rispetto al bilancio di previsione.
  Si è stabilito che, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri sono approvate, previo parere del tavolo di raccordo interistituzionale, anche modifiche al documento del piano di rientro dall'indebitamento pregresso, a condizione che siano prive di effetti sui saldi di finanza pubblica.
  Ai fini dell'assegnazione delle anticipazioni di liquidità per il pagamento dei debiti pregressi degli enti locali sono considerati, tra i pagamenti dei debiti fuori bilancio che presentavano i requisiti per il riconoscimento alla data del 31 dicembre 2012 anche quelli inclusi nel piano triennale di riequilibrio di Roma Capitale, previsto dal comma 2 dell'articolo 16 in commento.
  Le Commissioni sono intervenute sul comma 5, autorizzando il commissario straordinario ad inserire nella massa passiva del piano di rientro anche eventuali ulteriori partite debitorie rivenienti da obbligazioni ed oneri del comune di Roma anteriori al 28 aprile 2008, includendo cioè gli oneri per le procedure e gli indennizzi conseguenti ad alcune fattispecie che attengono ai procedimenti di espropriazione per pubblica utilità previsti dall'articolo 42-bis del testo unico che disciplina la materia.
  In sede referente è stato inserito un comma 5-bis con il quale, riprendendo sostanzialmente una disposizione già prevista nel decreto-legge n. 151, si dispone la finalizzazione di risorse iscritte nel bilancio dello Stato, pari a 22,5 milioni di euro, per contribuire al superamento della crisi nel ciclo di gestione integrata dei rifiuti nel territorio di Roma Capitale (norma già inserita nei precedenti decreti-legge).Pag. 23
  In ordine all'articolo 17, è stato aggiunto il comma 4-bis che autorizza il proseguimento della regolazione dei rapporti tra Stato e Gestore dell'infrastruttura ferroviaria sulla base del contratto di programma 2007-2011.
  All'articolo 18, che reca disposizioni volte a limitare l'applicazione di talune sanzioni previste dalla normativa vigente per il mancato rispetto del patto di stabilità interno nei confronti dei comuni di Venezia e Chioggia, è stato aggiunto il comma 1-bis, che reca una norma di interpretazione autentica del comma 76 dell'articolo 1 della legge n. 311 del 2004, che concerne le modalità di iscrizione in bilancio del debito e del ricavo derivante da mutui.
  All'articolo 19, che è relativo alla prosecuzione dei contratti stipulati dalle istituzioni scolastiche per l'acquisto di servizi di pulizia, è stato aggiunto il comma 2-bis, che prevede che le risorse destinate alla messa in sicurezza degli edifici scolastici siano anche finalizzate a garantire la prosecuzione delle attività di monitoraggio del rischio sismico.
  Non è stato modificato (salvo una precisazione formale) l'articolo 20, che introduce agevolazioni finanziarie in favore della provincia e del comune de L'Aquila, ed è stato aggiunto l'articolo 20-bis, che destina una quota delle risorse del Fondo per lo sviluppo e la coesione, pari a 50 milioni di euro, al finanziamento del Fondo per le emergenze nazionali che è stato istituito presso la Presidenza del Consiglio.

  PRESIDENTE. Constato l'assenza del relatore per la maggioranza per la VI Commissione (Finanze), onorevole Bernardo, e del relatore di minoranza, onorevole Busin. Prendo atto che il Governo si riserva di intervenire nel prosieguo della discussione.
  È iscritto a parlare l'onorevole Causi. Ne ha facoltà.

  MARCO CAUSI. Signor Presidente, io concentrerò il mio intervento sulla parte tributaria di questo decreto-legge, quindi, forse, questo potrà supplire all'assenza del relatore per la maggioranza della Commissione finanze. Il decreto-legge n. 16 del 2014 contiene una manutenzione del sistema dei tributi locali così come era stato definito dalla legge di stabilità del 2014. Presidente, capirà che il fatto stesso che bisogna intervenire per manutenzione a soli tre mesi di distanza ci dice chiaramente che l'impianto definito nella legge di stabilità non era ottimale. Io credo – e cercherò poi di dimostrarlo successivamente al mio intervento – che non lo diventi neppure dopo gli interventi manutentivi di questo decreto-legge. Credo che sarà necessario un intervento di vera riforma e di risistemazione nel comparto dei tributi locali e, in particolare, dei tributi comunali che ci faccia uscire dal caos normativo degli ultimi tre anni. Un caos che ha due origini. Dal primo punto di vista, ha origine dalla scelta del decreto salva Italia di puntare tutto sulla patrimoniale reale sugli immobili per ottenere, in quella difficile stagione, in quel difficile frangente storico per l'Italia, un riequilibrio di finanza pubblica. Ma questa scelta produceva, però, per la nuova IMU, un gettito di 23 miliardi di euro, ampiamente superiore a quello necessario ai comuni, obbligando così a una divisione (50 per cento/50 per cento) fra gettito da destinare allo Stato e gettito da destinare ai comuni, e inaugurando un regime di cogestione dell'imposta fra Stato e comuni che, dobbiamo dircelo con franchezza, non ha funzionato e ha determinato numerose incomprensioni ed è stato credo da questo punto di vista giustamente superato dalle scelte compiute lungo il 2013. Ma il caos sui tributi locali e, in particolare, comunali deriva anche, come secondo elemento, dalla perdurante campagna politica contro l'imposta patrimoniale sulla prima casa, senza alcuna distinzione in relazione al valore dell'immobile o allo stato di benessere o di ricchezza del proprietario, condotta da molte forze politiche, anche di diverso orientamento, e, quindi, anche dalla scelta del Governo Letta di abolire l'IMU sulla prima casa – ripeto, senza alcuna distinzione in relazione al valore Pag. 24dell'immobile o allo stato di benessere del proprietario – con compensazioni, però, lungo il 2013, tutte di carattere una tantum e non permanente nei confronti dei comuni.
  Arrivato il 2014 e non potendosi proseguire con ulteriori compensazioni una tantum e non permanenti, nella legge di stabilità si è introdotta la Tasi, imposta basata sul possesso e non sulla proprietà, con aliquota massima del 2,5 per mille sulla prima casa e aliquota standard dell'1 per mille sugli altri immobili. Si è anche stabilito che sugli immobili diversi dalla prima casa la somma della tassazione IMU più Tasi non deve superare il 10,6 per mille, dove, ricordiamoci, che il 10,6 per mille era già il valore massimo dell'IMU per l'unità abitativa diversa dalla prima casa. Quindi, i comuni che avessero già raggiunto quella soglia massima, non potrebbero comunque avvalersi di questa nuova aliquota standard dell'1 per mille della nuova Tasi.
  Nel presente decreto-legge n. 16 del 2014, che comincia oggi la discussione in Aula, si consente ai comuni di aggiungere alla Tasi lo 0,8 per cento, dividendo questa addizionale nel modo in cui i comuni vogliono fra prime case ed altri immobili, a condizione, però, che sia introdotto un regime di detrazione d'imposta che generi effetti sul carico di imposta Tasi equivalenti a quelli determinatesi nel 2012 con riferimento all'IMU in relazione al regime di detrazioni esistente nel 2012 per l'IMU prima casa. L'obiettivo politico è chiaro e condivisibile. Primo: è chiaro che la nuova Tasi sulle prime case produce effetti di gettito inferiori a quelli dell'IMU prima casa, dove l'aliquota standard era del 4 per mille. È pacifico, quindi, che la Tasi è sicuramente meno costosa per le famiglie.
  Ma, secondo obiettivo politico, si vuole evitare che, pur essendo la TASI meno costosa, perché al massimo è il 2,5 e non il 4 per mille, nuclei familiari che erano stati esentati, grazie alla vecchia detrazione IMU, dal pagamento dell'IMU si trovino, invece, a pagare adesso una pur piccola TASI. Il costo di questo secondo obiettivo si scarica naturalmente in aumenti di imposta per chi comunque dovrebbe pagare la TASI. I comuni possono scegliere come comporre l'incremento dello 0,8 per mille tra le prime case e le altre unità immobiliari, a condizione però che la somma degli aumenti non superi appunto lo 0,8 per mille. A questo fine viene derogato il tetto massimo del 10,6 per mille per gli immobili che non sono prima casa.
  Nelle simulazioni effettuate, se l'incremento fosse dello 0,4 sulle prime case e di un altro 0,4 sulle altre unità immobiliari, il gettito aggiuntivo per i comuni è stimato in 1,8 miliardi. Le stesse simulazioni condivise tra l'ANCI e il Governo hanno consentito, inoltre, di verificare che per alcune centinaia di comuni lo 0,8 per cento aggiuntivo non sarebbe comunque sufficiente ad esentare dalla TASI la platea di famiglie proprietarie di prima casa già esentate nel 2012 dall'IMU. E così il Governo ha messo a disposizione di questi comuni un saldo aggiuntivo che era di 500 milioni nella legge di stabilità e diventa di 625 milioni con questo decreto-legge. Alla fine, insomma, i comuni ottengono 2,4 miliardi di risorse aggiuntive nell'ipotesi che tutti i comuni – ipotesi non dimostrata – arrivino all'addizionale dello 0,8 per mille a fronte, ricordiamoci, di una riduzione connessa all'abolizione permanente dell'IMU prima casa che valeva, ad aliquota standard, 4 miliardi ma valeva di più se si considerano i tanti comuni che aveva apposto aliquote superiori a quella standard.
  Questi dati permettono con serietà di smontare qualsiasi polemica pretestuosa da parte di chi afferma che le norme non obbligano i comuni a devolvere il gettito dell'addizionale dell'8 per mille integralmente alle detrazioni. Le detrazioni della vecchia IMU esentavano il 25 per cento delle famiglie. La nuova detrazione, per esentare lo stesso numero di famiglie (e naturalmente la nuova detrazione va parametrata all'aliquota più bassa della TASI) sarà di circa 125 euro. Il costo dell'esenzione a 125 euro, per il 25 per cento del famiglie, è un costo pari a 1,6 miliardi. A fronte di 2,4 miliardi, il costo Pag. 25è 1,6 miliardi: è quindi chiaro che l'obiettivo di esentare da TASI i soggetti esenti da IMU nel 2012 è perfettamente coerente con le norme che vengono introdotte. E qualsiasi altra polemica in merito è pretestuosa e immotivata. È vero che a qualche comune resterà qualcosa in più rispetto alle detrazioni che dovrà adottare, ma è anche vero che ad altri comuni resterà qualcosa in meno in assenza dell'intervento del Fondo di riequilibrio. Ed è vero comunque che nel complesso il comparto comuni vede, con il passaggio alla TASI, ridurre la base imponibile e lo sforzo fiscale a cui poter attingere, e questo soprattutto per effetto del tetto del 10,6 per mille e soprattutto per il fatto che molti comuni avevano posto aliquote prima casa ben sopra il livello standard del 4 per mille.
  Dentro questi che sono i rimedi, c’è poi una nuvola di migliaia di comuni italiani con effetti divergenti: in alcuni casi il Fondo di riequilibrio dovrà intervenire, in altri resterà qualcosa ma le risorse e le regole poste da questo decreto-legge sono perfettamente coerenti con il vero obiettivo politico, che è quello di non far pagare la TASI a tutte le famiglie, a quel 25 per cento di famiglie che già nel 2012 non hanno pagato l'IMU. Affermare questo tuttavia, cioè affermare che c’è coerenza in questo decreto-legge tra gli obiettivi politici dichiarati e le misure messe in campo, non significa, Presidente, per il Partito Democratico dire che noi siamo soddisfatti. E infatti noi non siamo soddisfatti, soprattutto non siamo soddisfatti di come si sia evoluta la vicenda della tassazione immobiliare e, di converso, comunale lungo il 2013. Riteniamo necessario un intervento complessivo di semplificazione e di razionalità tributaria.
  E l'obiettivo ci sembra sempre quello, quello che ci diciamo da anni: ad ogni livello di Governo, una ed una sola imposta. Ai comuni, un'imposta basata sui valori immobiliari, come accade in tutto il mondo, con aliquote più basse e sistemi di detrazione per le prime case, che, però, non esentino tutti indistintamente e che possano essere regolati dagli stessi comuni in ampia autonomia dentro la cornice fornita dalla legge statale, com'era per l'ICI; alle regioni, le addizionali e le compartecipazioni IRPEF, e niente più addizionali IRPEF per i comuni.
  Intanto, il lavoro nelle Commissioni ha consentito di apportare ulteriori miglioramenti manutentivi. La prima rata TASI si potrà pagare in assenza di deliberazioni comunali: ci sono centinaia e centinaia di comuni coinvolti in un passaggio elettorale a maggio e, quindi, presumibilmente, in questi comuni saranno le nuove giunte e i nuovi sindaci eletti a fine maggio a dover deliberare. La prima rata TASI, quindi, si potrà pagare in assenza di queste deliberazioni sullo standard dell'1 per mille, salvo conguaglio nella seconda rata, ma solo per le abitazioni diverse dalla prima. Anche la prima rata della TARI potrà fare riferimento alle tariffe dell'anno scorso, con conguaglio nella seconda rata.
  È stata, poi, sanata nelle Commissioni una contraddizione esistente nel testo della legge di stabilità fra comma 649 e comma 661, in materia di abbattimenti della parte variabile della TARI per i rifiuti avviati al riciclo. Il termine per i bilanci dei comuni è stato portato al 31 luglio.
  Permangono, comunque, elementi di criticità, anche al di fuori di un impianto complessivo di riforma. In primo luogo, non è chiaro il ruolo dell'acronimo IUC, introdotto nella legge di stabilità: questo acronimo non ha alcun valore aggiunto e aggiunge solo confusione a confusione. Secondo: la compartecipazione degli inquilini alla TASI sulle unità immobiliari diverse dall'abitazione principale comporterà adempimenti costosi, pesanti e potenziali contenziosi per somme che saranno davvero piccole, per veri e propri micropagamenti. E dispiace che il Governo non abbia voluto accettare la soluzione, proposta in emendamenti nelle Commissioni, di far pagare l'imposta al proprietario, con facoltà di rivalsa sul conduttore.
  Terzo: il tema dei micropagamenti resta aperto, più in generale con riferimento ai circuiti di pagamento, volendo il Governo accettare per la TASI il solo circuito Pag. 26bancario e postale, non anche gli altri esistenti, per motivi di standard di rendicontazione, ma tornando così indietro sulla possibilità di offrire ai cittadini una multicanalità di pagamento. Infine, anche alla luce della legittima questione posta dalle imprese, le quali rischiano sempre di pagare due volte, una per il riciclo dedicato dei loro rifiuti e una per la tariffa generale dei rifiuti, è diventato davvero urgente non un singolo emendamento alla legge di stabilità, ma una complessiva rivisitazione dell'infrastruttura giuridica della TARI e, cioè, una rivisitazione del decreto del Presidente della Repubblica n. 158 del 1999.
  Molto lavoro resta da fare per apportare ulteriori manutenzioni sull'impianto della legge di stabilità, che noi auspichiamo essere provvisorio, soprattutto per quanto riguarda i micropagamenti, perché rischiamo di avere un effetto negativo a livello di opinione pubblica, di comunicazione, per la complicazione dei micropagamenti. Ma molto lavoro resta da fare per ricostruire – e io spero che il tempo di questa legislatura troverà un momento in cui questo potrà essere fatto – un sistema più razionale e più trasparente dei tributi di questo nostro governo multilivello e, soprattutto, dei tributi comunali.

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Caso. Ne ha facoltà.

  VINCENZO CASO. Signor Presidente, il decreto-legge di cui discutiamo oggi è il frutto di una storia a dir poco tormentata. Cercherò brevemente di riassumere la vicenda per permettere a tutti coloro che ci ascoltano di avere il quadro generale del delirio politico e istituzionale con il quale tutti i giorni siamo chiamati a confrontarci.
  Una sola precisazione prima di entrare nel merito del provvedimento in esame. Vorrei sottolineare che siamo qui ad affrontare l'ennesimo decreto-legge: noi del MoVimento 5 Stelle non ci stancheremo mai di ripetere che in Italia il potere legislativo spetta al Parlamento, e non perché lo diciamo noi, ma perché è scritto nella Costituzione. Ed anche in questo il Governo Renzi non si differenzia dai precedenti, di destra, di sinistra e di sedicenti tecnici.
  Questo decreto-legge è figlio del tipico malgoverno italiano, è frutto dell'approssimazione, dell'inciucio politico ed è lontanissimo dai bisogni e dalle istanze dei cittadini, per non parlare dei numerosi profili di illegittimità rilevati. Nasce, infatti, prima come decreto omnibus per poi rassomigliare ad un milleproroghe e incarnare, infine, il difetto della reiterazione. Non a caso il decreto-legge in esame è anche detto salva Roma-ter; il motivo è evidente: il decreto-legge contiene norme già contenute in due decreti-legge presentati e poi ritirati dai Governi Letta e Renzi. In particolare si fa riferimento alle disposizioni concernenti Roma capitale. Il primo tentativo, infatti, è datato 31 ottobre 2013 quando viene pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto-legge n. 126 del 2013 che conteneva, per l'appunto, le norme per salvare il bilancio del Campidoglio. Un decreto-legge, il n. 126, che conteneva norme tra loro assolutamente eterogenee; la fortissima opposizione messa in atto dal MoVimento 5 Stelle alla vigilia delle feste natalizie ha poi costretto il Presidente Napolitano ad intervenire, nonostante il Governo avesse chiesto ed ottenuto la fiducia determinando il ritiro del decreto-legge.
  L'Esecutivo di Letta, ormai allo sbaraglio sotto i continui attacchi dell'attuale Premier Renzi, che però giurava, fino al giorno prima del cambio di Governo, di non voler spodestare il proprio compagno di partito, almeno non prima di aver ottenuto il legittimo consenso elettorale – abbiamo visto poi com’è andata a finire – dopo aver provato a inserire le norme su Roma nel decreto milleproroghe e poi a «spacchettare» quest'ultimo proprio nel tentativo di tener fede alle indicazioni del Colle per quanto riguarda l'omogeneità dei provvedimenti, è giunto alla formulazione del decreto-legge n. 151 del 2013, il cosiddetto decreto salva Roma-bis. Questo decreto-legge interveniva, all'articolo 1, sulla legge di stabilità 2014 come fa anche Pag. 27l'attuale decreto-legge, approvato solo due mesi prima, allora, in particolar modo su alcune scadenze da rispettare differendone significativamente i termini in essa stabiliti. Possibile che non si riescano a programmare nemmeno i due mesi successivi ? Possibile che si debba vivere di proroghe, rinvii, deroghe continue ? Ma quale certezza del diritto si dà in questo modo ? Poi ci sorprendiamo se in Italia si investe poco rispetto alle potenzialità e poi ci sorprendiamo se gran parte degli italiani non si fida delle istituzioni. Lo Stato dovrebbe dare l'esempio, non si può governare con tale approssimazione.
  Tuttavia, per la seconda volta, questa volta grazie al nuovo Esecutivo Renzi, il decreto-legge, dopo aver riscosso pesanti critiche su tutti i fronti, è stato ritirato. Evidentemente gli uomini di partito che ci governano sono troppo impegnati nei loro giochi di potere a combattere guerre mediatiche, velate da dichiarazioni di falso rispetto reciproco, per concentrarsi sul lavoro parlamentare, sull'elaborazione di provvedimenti utili al Paese che diano risposte chiare e, allo stesso tempo, eque ai cittadini. Ma il bilancio di Roma è a rischio e le minacce del sindaco Marino di bloccare la capitale, di dare le dimissioni, hanno fatto sì che Renzi decidesse di reiterare le norme su Roma per la terza volta, ripresentando con leggere modifiche i contenuti del famoso emendamento Lanzillotta, fortemente contestato dalla cittadinanza romana con l'accusa di voler svendere Roma. In particolare mi riferisco al comma 2 dell'articolo 16 che prevede tra le altre cose dismissioni, liquidazioni, liberalizzazioni e licenziamenti. Sull'ultimo punto vorrei citare i nostri emendamenti volti a subordinare la cosiddetta ricognizione dei fabbisogni di personale ad una preliminare riconsiderazione delle posizioni dei manager e dei dirigenti di nomina esterna, nonché di procedere alla riduzione dei bonus erogati agli stessi e a un drastico taglio delle consulenze esterne. Secondo noi, solo successivamente si potranno prendere in considerazione gli altri lavoratori. Naturalmente le nostre proposte sull'articolo 16 sono state bocciate e l'impianto sul decreto-legge è rimasto più o meno immutato.
  Nemmeno la nostra proposta di inserire il controllo della Corte dei conti sul piano triennale proposto dall'amministrazione romana è stato accettato. È stato accettato il fatto di poter inviare alla Corte dei conti questo piano, ma poi la Corte dei conti non si potrà esprimere su questo piano, che cosa bizzarra !
  Forse perché un controllo esterno manderebbe all'aria gli inciuci politici tra la capitale e il Governo. In definitiva, ancora una volta, le scelte sono state dettate solo apparentemente e strumentalmente dalla preoccupazione per il benessere dei cittadini.
  Di fatto, si è voluto solo evitare un colpo non indifferente alla credibilità politica dell'amministrazione Marino, quindi, più che un «salva Roma», dovremmo chiamarlo un «salva Marino». Esattamente come è avvenuto nel 2008, quando la gestione commissariale ha avuto inizio, con un iter dettato ad hoc per la capitale, grazie all'accordo tra Alemanno e il Governo Berlusconi; lo stesso Alemanno, che poi ha terminato il suo mandato lasciando in eredità altri debiti alla città.
  Tutto cambia per non cambiare, insomma, ma noi cittadini siamo veramente stanchi di questo andazzo. Noi il cambiamento lo vogliamo; noi il cambiamento lo rappresentiamo.
  Crediamo infatti di dover tener conto della sentenza della Corte costituzionale, la n. 360 del 1996 secondo cui il decreto-legge reiterato, per il fatto di riprodurre nel suo complesso e in singole disposizioni il contenuto di un decreto-legge non convertito, senza introdurre variazioni sostanziali, lede la previsione costituzionale sotto più profili, perché altera la natura provvisoria della decretazione d'urgenza, perché toglie valore al carattere straordinario dei requisiti di necessità ed urgenza. Su un piano più generale, la prassi della reiterazione viene di conseguenza ad incidere sugli equilibri istituzionali, alterando i caratteri Pag. 28della stessa forma di Governo e l'attribuzione della funzione legislativa ordinaria al Parlamento.
  Detto ciò, sta a voi, colleghi, valutare quale sia il segnale da dare: se continuare a ignorare la nostra Costituzione, o dare un segnale di inversione di rotta e ridare legittimità alle azioni di questo Parlamento, seguendo la direzione tracciata dalla nostra Carta costituzionale e mettendo al centro dell'attività politico-istituzionale di questo Paese il popolo e non gli interessi particolari e gli equilibri di potere.
  Le disposizioni in materia di finanza locale contenute nel decreto sono – mi dispiace davvero dirlo – in alcuni casi imbarazzanti perché, oltre ai vari provvedimenti ad hoc per Roma, per Napoli, per Venezia, c’è qualcosa anche per Firenze, che, come detto prima, sono volti a salvare determinati politici, determinate amministrazioni, determinati bacini clientelari, del resto rimane davvero ben poco.
  L'articolo 17, al comma 5, prevede il blocco fino al 30 giugno 2014 delle azioni esecutive, anche concorsuali, nei confronti delle società partecipate della regione Campania che gestiscono il servizio ferroviario. Sapete cosa significa questo ? Significa che i creditori non potranno nemmeno tentare di soddisfare le proprie ragioni. Questo potrebbe essere anche parzialmente accettabile se questo ritardo nei pagamenti fosse di pochi mesi. Peccato che queste proroghe vadano avanti già da più di due anni, nonostante siano stati finanziati i fondi statali proprio al fine di soddisfare i debiti delle società partecipate della regione Campania che gestiscono il servizio ferroviario.
  L'articolo 19 tratta la questione degli appalti di pulizia nelle scuole: 12 mila ex LSU rischiano di rimanere senza lavoro, altri rischiano sostanziali riduzioni di stipendio che attualmente sono attorno a 800-900 euro al mese; una questione che va avanti da anni. L'ultimo intervento risale all'ultima legge di stabilità che aveva già stanziato 34,6 milioni di euro e con questo decreto lo Stato stanzia altri 20 milioni e non per risolvere la faccenda una volta e per sempre – attenzione – ma solo per dare respiro per un solo mese. E ancora una volta continuiamo a mettere pezze su pezze, invece di affrontare le questioni andando alla radice del problema; problema che, in questo caso, sono le esternalizzazioni selvagge che hanno portato solo ad aumenti di costi e a maggiori rischi di corruzione con conseguente arricchimento di ditte private a scapito dei lavoratori e degli studenti.
  Inascoltati sono rimasti persino i moniti della Corte dei conti, che ha denunciato le anomalie che emergono dall'applicazione dell'articolo 3 del decreto in materia di procedure di riequilibrio pluriennale e dissesto degli enti locali. I rischi – dice la Corte – consisterebbero in una attenuazione dell'efficacia complessiva delle procedure, una dilatazione delle condizioni di fragilità degli equilibri strutturali di bilancio. Nel complesso, un'attenuazione dell'efficacia dei controlli sull'operato degli amministratori locali.
  Poco importano considerazioni di questo genere se l'obiettivo è agevolare questo o quel comune, questa o quella giunta. Peccato che, per occuparsi delle pezze da mettere qua e là per salvare i propri amici, ci si dimentichi che gli enti territoriali nel loro insieme hanno vissuto e stanno vivendo negli ultimi anni una condizione di crescente sofferenza. Agli effetti della crisi si è aggiunto, infatti, il peso degli obiettivi di finanza pubblica, ai quali gli enti locali sono stati chiamati a contribuire per importi sempre più rilevanti. Ai tagli naturalmente sono corrisposti cali significativi della quantità e della qualità dei servizi resi alla collettività, per non parlare del crollo degli investimenti pubblici. Tagli fatti in nome di cosa, poi ? Per svolgere i compiti che l'Europa ci ha assegnato e che Renzi, come tutti i Presidenti del Consiglio che l'hanno preceduto, ha accettato senza fiatare.
  A fronte di questi tagli ci aspetteremmo un corrispondente abbassamento della pressione fiscale, invece accade l'esatto opposto: meno servizi e più tasse. È paradossale, è inaccettabile ! E non è finita qui: la Tasi, che di fatto sostituisce la parte Pag. 29di IMU abolita sulla prima casa, con buona pace di chi si è bevuto la manovra puramente propagandistica dell'abolizione della tanta odiata IMU, è una tassa fortemente più iniqua della precedente. Con questo decreto-legge si dà la possibilità di aumentare le aliquote di un ulteriore 0,8 per mille; tutti i comunicati del Governo ci tengono però a precisare che la finalità del provvedimento è dare maggiore equità e non maggiori tasse.
  Per la precisione bisogna specificare che, mentre l'aumento dell'aliquota massima è stato definito, la possibilità di inserire le detrazioni verrà demandata ai comuni. Quindi, ancora una volta, non è chiaro per i cittadini se e in che termini avranno diritto alle detrazioni. L'unica certezza è che il differimento dei termini, per la deliberazione del bilancio di previsione per l'anno 2014 da parte degli enti locali, è stato ulteriormente prorogato e si rischia di giungere anche quest'anno all'incredibile data del 30 novembre, come già avvenuto per il 2013.
  Inutile dire che le nostre proposte sono rimaste inascoltate. Sulla tassazione immobiliare, ad esempio, noi abbiamo proposto, coerentemente con quanto sottoscritto nel nostro programma, l'abolizione della Tasi sulla prima casa, perché ciò che conta per noi è la sostanza. Cambiare nome alle tasse è cosa ben diversa rispetto ad abolirle.
  I cittadini sono stanchi di essere presi in giro. Questo provvedimento del Governo Renzi dimostra decisamente la totale continuità con i Governi precedenti. Forse, di nuovo c’è solo l'età del Premier, tutto il resto «puzza» di vecchio (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Latronico. Ne ha facoltà.

  COSIMO LATRONICO. Signor Presidente, rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, le disposizioni contenute nel decreto-legge in esame intervengono, come è stato già detto, su materie già affrontate dal Governo nell'ambito dei precedenti decreti-legge, il n. 126 e il n. 151 del 2013, che, come ricordiamo tutti, furono entrambi dichiarati decaduti per decorrenza dei termini di conversione, anche a seguito del «semaforo rosso» imposto dal Presidente della Repubblica, che non mancò di dichiarare la sua contrarietà per l'introduzione di numerosi emendamenti estranei al contenuto originario del provvedimento – che riguardava il riequilibrio del dissestato bilancio del comune di Roma – sia a seguito dell'epilogo avvenuto al Senato, che portò il Presidente Grasso a cassare un significativo numero di articoli.
  Si tratta, dunque, di un provvedimento in linea, per i profili di criticità, con i precedenti decreti, in quanto presenta evidenti contenuti non omogenei, desumibili fin dal titolo, che accostano la materia della finanza locale a quella della funzionalità dei servizi svolti nelle istituzioni scolastiche, per fare un solo esempio. Siamo pertanto di fronte, ancora una volta, all'esame di un disegno di legge di conversione che, come rilevato nel corso dell'illustrazione della mirata questione pregiudiziale presentata dal gruppo Forza Italia, non ha nessuna caratteristica né di necessità né d'urgenza e che, tra l'altro, non rispetta le diverse sentenze che la Corte costituzionale ha avuto modo di pronunciare ripetutamente.
  Una espansione della decretazione d'urgenza in formato omnibus, a cui raramente le Camere hanno assistito con la riproposizione di norme all'interno di decreti-legge dopo un breve lasso di tempo; un provvedimento, definito dallo stesso Comitato per la legislazione: una sorta di «ideal tipo» di ciò che il Governo non dovrebbe fare, al cui interno sono state accostate in maniera arbitraria: disposizioni in materia di fiscalità locale; per la definizione dei rapporti finanziari tra Roma Capitale e la gestione commissariale; per il trasporto ferroviario nelle regioni a statuto speciale; per i servizi di pulizia e di ausiliarato nelle scuole; per il superamento delle conseguenze del sisma verificatosi nella regione Abruzzo. Tutto ciò conferma la prosecuzione di un modo Pag. 30di legiferare schizofrenico, anche da parte di questo Governo, insediatosi da poco.
  La riproposizione della maggior parte delle norme previste nel presente provvedimento d'urgenza, che riprendono l'identico contenuto delle disposizioni dei precedenti decreti «salva-Roma», uno e bis, successivamente non convertiti, è talmente palese da confermare la censura di incostituzionalità di questo stesso decreto.
  Basta leggere il comma 2 dell'articolo 1 del disegno di legge di conversione, che fa salvi gli effetti di tutti gli atti, provvedimenti, effetti e rapporti giuridici. Non spetta certamente al Governo fare salvi gli effetti di un decreto non convertito, ma solo, eventualmente, alle Camere, come stabilisce chiaramente l'ultimo comma dell'articolo 77 della Costituzione.
  Questo decreto, nel complesso, si è rivelato tanto inutile per il Paese, in considerazione del fatto che non risolve strutturalmente i problemi della finanza locale di numerosi enti dissestati, quanto deludente, se si valutano nell'insieme le norme tampone e di mero rinvio, vedi, ad esempio, il differimento così ravvicinato dei termini per la prosecuzione dei contratti in materia di servizi di pulizia nelle scuole, che altro non fanno che posticipare il problema anziché porvi rimedio in via definitiva.
  Impostato principalmente per salvare Roma, nel corso dell'esame nelle Commissioni referenti, il provvedimento è diventato un decreto che estende un'ancora di salvezza anche per Milano e Torino e, data la circostanza, si è provato a renderla applicabile anche alla città del Premier Renzi, Firenze, per la quale vi è stato un tentativo, poi bloccato, di una «sanatoria» sui vecchi contratti integrativi.
  Un blitz in piena notte, subito smascherato, nonostante fosse stato scritto in burocratese, per assumere un po’ di persone a Firenze prima delle elezioni. Un tentativo che segnala un classico intervento di una manovra pre-elettorale e che troverà una nostra netta opposizione e ci auguriamo che altri gruppi parlamentari facciano lo stesso.
  Siamo di fronte ad un provvedimento che introduce, come è stato, dei correttivi alla legge di stabilità per il 2014, come, ad esempio, l'articolo 1, che modifica le disposizioni della Tasi e della Tari e l'articolo 2, che contiene la soppressione della Google tax, le proroghe al condono delle multe, la cessione delle partecipate da parte di enti.
  L'urgenza di queste norme non è nella natura e nel loro contenuto, ma esclusivamente nella necessità di correggere in corsa errori appena tradotti dal Governo nella legge fondamentale di bilancio approvata lo scorso dicembre.
  Quanto alle disposizioni che riguardano la Tasi, il nuovo tributo sui «servizi indivisibili», che rappresenta di fatto nient'altro che un espediente nominalistico per reintrodurre l'IMU sulla prima casa, secondo la legge di stabilità, doveva avere come tetto massimo per l'abitazione principale lo 0,25 per cento calcolato sulla medesima base imponibile dell'IMU, mentre per le altre tipologie immobiliari, per le quali la vecchia IMU rimane viva e vegeta anche di nome, era previsto che la somma tra IMU e Tasi, non potesse superare 1'1,06 per cento. La regola scritta nel decreto-legge «salva Roma-ter», consente invece ai comuni di applicare un'aliquota aggiuntiva dello 0,8 per mille sull'abitazione principale e sugli altri immobili con lo scopo di finanziare le detrazioni sulla prima casa, non imponendo tuttavia l'utilizzo dell'extragettito per le detrazioni. Questa è la problematica aperta.
  Si tratta, a nostro avviso, di una norma non chiara, che dà mano libera ai comuni perfino sullo 0,8 per mille, che doveva essere interamente destinato alle detrazioni. È un'ennesima imposizione per i contribuenti italiani, come giustamente ha affermato il presidente della Commissione finanze, l'onorevole Capezzone, che si era fatto promotore di una proposta emendativa finalizzata ad imporre a tutti i comuni che applicavano la maggiorazione TASI, l'obbligo di allegare al bilancio consuntivo uno specifico prospetto stabilito dal Ministero dell'economia e delle finanze, nel quale indicare analiticamente le maggiori Pag. 31entrate riscosse dall'ente locale a fronte dell'incremento dell'aliquota, nonché le modalità attraverso cui tali risorse sarebbero state destinate alle detrazioni, proposta, purtroppo, che non è stata approvata.
  Si tratta di un ennesimo raggiro nell'ambito del ginepraio di nuove norme sulla fiscalità locale, introdotte prima dal Governo Letta e che proseguono attraverso un'impostazione legislativa così tortuosa e complicata anche da parte di questo nuovo Esecutivo, che altro non determinerà se non un aumento ulteriore della pressione fiscale per il pagamento dei tributi locali, a cui si aggiungeranno gli effetti negativi sul mercato immobiliare già così provato.
  Pertanto, ritengo sia opportuno che i contribuenti sappiano che a giugno la TASI sarà più salata del previsto, in considerazione del fatto che la norma, formulata dal precedente Governo e riproposta dall'attuale, non prevede per la TASI detrazioni fisse – come avveniva per l'IMU, che toglieva 200 euro a tutte le prime abitazioni e 50 euro per ogni figlio a carico con meno di 26 anni – ma lascia mano libera ai comuni, i quali tuttavia con la semplice maggiorazione non riescono a finanziare detrazioni tali da rispettate il dettato della legge. Tuttavia la condivisibile proposta del collega Capezzone, il quale, come espresso in precedenza, ha insistito affinché fossero introdotti elementi di trasparenza e di certezza circa l'effettiva destinazione della maggiori entrate destinate al finanziamento delle detrazioni, è stata respinta, con buona pace del contribuente.
  Anche per le imprese non si annuncia nulla di buono, signor Presidente, in tema di tassazione locale. La legge di stabilità per il 2014, nella più totale confusione delle nuove norme introdotte sulla fiscalità locale, in tema di rifiuti forniva risposte contraddittorie, prevedendo la contemporaneità dell'esenzione e della possibilità di sconti da parte dei comuni. Data l’ impossibilità di prevedere l'introduzione di agevolazioni su un'esenzione, il decreto-legge cosiddetto salva Roma-ter aveva puntato tutto sulla seconda opzione, stabilendo che i produttori di rifiuti speciali ed assimilati non dovessero pagare la TARI. Tuttavia le Commissioni riunite, pescando dal canestro delle riformulazioni, consentono ai comuni di decidere nel proprio regolamento riduzioni della quota variabile del tributo proporzionale alle quantità di rifiuti speciali assimilati e smaltiti autonomamente dal produttore, stabilendo di fatto che degli sconti potrebbero esserci, ma giammai l'esenzione totale della quota variabile o almeno una riduzione minima, come previsto dai nostri emendamenti.
  È una soluzione inaccettabile ed inadeguata, che nella sostanza accrescerà ulteriormente i livelli di confusione e disordine nell'ordinamento della fiscalità locale, che si traduce in un aumento del prelievo ed in una moltiplicazione della complessità delle regole. La prova di tale farraginosità sarà confermata dal calendario per il pagamento delle imposte, che cambia ulteriormente i termini per il versamento sia della TASI che della TARI rispetto a quanto prevedeva la legge di stabilità per il 2014. Esistono, tra l'altro, ancora importanti nodi non sciolti, come quello dei bollettini TASI precompilati che i comuni dovrebbero inviare ai contribuenti.
  Ritengo interessante, in quest'ambito di discussione sulle linee generali del provvedimento, ricordare, a proposito delle tasse locali, i rilievi espressi da un organo costituzionale di garanzia, qual è la Corte dei conti, nel corso delle audizioni nelle Commissioni riunite. La Corte dei conti, soffermandosi su questa tassa, la TASI, ha espressamente dichiarato che si tratta di un'imposta di natura patrimoniale dettata dall'emergenza, che da quest'anno colpirà le abitazioni principali degli italiani, in alcuni casi persino in misura maggiore della vecchia IMU.
  Nel mirino dell'analisi svolta dai rappresentanti della Corte, è emersa una rassegna puntuale dei tanti problemi che si riscontrano nei bilanci comunali, le cui difficoltà rischiano di essere ulteriormente aggravate da norme come quelle contenute nel presente decreto-legge, che provano a dribblare i controlli, come quelle sulla sanatoria dei contratti decentrati, sulla Pag. 32seconda chance per i comuni di Napoli e Reggio Calabria, dopo le bocciature dei piani antidissesto da parte delle sezioni regionali della magistratura contabile, e sulla stessa Capitale, chiamata a un piano di rientro lungo e complesso e che inizialmente non prevedeva alcun intervento degli organi di controllo interni ed esterni.
  Proprio in tema di disposizioni per salvare Roma Capitale ed evitare un default più che certo, la terza versione del provvedimento prevede che il piano triennale per la riduzione del disavanzo e per il riequilibrio strutturale, come contropartita degli interventi anti default, conceda un ulteriore aiuto, allungando a 120 giorni anziché 90, i tempi di approvazione del piano allargato alle società partecipate.
  Ma gli interventi di salvacondotto che hanno portato a battezzare il provvedimento appunto come «salva – Roma ter» non si esauriscono qui. Nell'ampia categoria dei salvataggi dominati naturalmente dalle regole per Roma, si prevedono infatti una serie di norme all'apparenza agevolative per la Capitale, che intervengono in un campo minato, quale quello dello stock del debito accumulato nel corso degli anni dalle società municipalizzate, che sono la fonte principale del dissesto finanziario del comune, ma che a lungo andare non risolveranno neanche questa volta il nodo strutturale derivante dal disavanzo di bilancio. Temiamo che altro non determineranno, se non ancora una volta maggiorazioni fiscali per i cittadini romani.
  A tal proposito, ricordo anche come la relazione tecnica riferita al provvedimento abbia espresso una serie di rilievi critici sui rapporti tra Roma Capitale e la gestione commissariale indicati dal comma 5 dell'articolo 16, invitando il Governo a chiarimenti tanto dovuti quanto necessari. La suindicata norma, delimitando gli stanziamenti di bilancio effettivamente disponibili presso il predetto ente, non precisa infatti l'eventualità che tali stanziamenti possano risultare inferiori all'ammontare dei corrispettivi dovuti. Una circostanza di evidente anomalia, la cui mancata conciliazione tra poste debitorie e creditorie, determinata dalla presenza di una massa creditizia vantata dalle società in misura superiore ai debiti dell'ente locale, segnalata peraltro anche dalla Corte dei conti nel rapporto sul coordinamento della finanza pubblica, fa sì che addirittura tale disposizione risulti incostituzionale in quanto non rispetta il requisito previsto dall'articolo 81 della Costituzione.
  Desta stupore come nel solo caso di Roma Capitale il concetto di commissariamento assuma un significato del tutto diverso: non una gestione affidata ad un soggetto indipendente incaricato di rimettere in ordine i conti, imponendo ristrutturazioni e tagli delle municipalizzate ed in generale adottando misure di austerità a carico di coloro che hanno determinato o beneficiato di politiche di bilancio superficiali. Nel caso di Roma, gestione commissariale significa, invece, scorporare i passivi dell'amministrazione, cancellarli con un puro artificio contabile dal bilancio comunale, creare una bad company, inserirli in una contabilità diversa e in sostanza rovesciarli sul bilancio dello Stato, cioè su tutto il resto del Paese.
  Anche la reintroduzione del contributo statale che attribuisce 28 milioni di euro per sostenere la raccolta differenziata dei rifiuti nella Capitale, il cui stanziamento coperto dalle casse dello Stato era saltato nei decreti precedenti, risulta tanto immotivata, quanto discriminatoria nei confronti di tante altre amministrazioni comunali del resto del Paese, i cui sindaci quotidianamente combattono con i vincoli del Patto di stabilità e con le risorse molto esigue a loro disposizione.
  Concludo, Presidente e colleghi, per dire che, nonostante questo decreto rappresenti un'eredità del precedente Governo, non si può certamente non sostenere come esso costituisca, sia nella forma ma soprattutto nella sostanza, un impianto normativo che segue una direzione nettamente sbagliata. Al Governo spetta tracciare una strada che non sia quella di amministrazioni parallele a cui addossare debiti miliardari per alcune realtà mentre si negano uguali attenzioni e situazioni altrettanto gravi di altri enti e amministrazioni dello Stato; situazioni e deroghe Pag. 33che naturalmente ed opportunamente vengono negate alle società private secondo il dettato dei codici, valendo in questo caso, la responsabilità delle amministrazioni.

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Boccadutri. Ne ha facoltà.

  SERGIO BOCCADUTRI. Signor Presidente, gentile sottosegretaria, colleghe e colleghi, dopo due decreti che sono decaduti oggi riaffrontiamo il «salva Roma», lo hanno ricordato in molti, però come sempre i decreti contengono molte cose e non soltanto quelle che per le quali volgarmente vengono poi chiamati, tanto è vero che ci sono misure che interessano tutti i comuni e anche gli ausiliari della scuola. Penso che, se ancora una volta si deve intervenire in maniera eccezionale, appunto, con un decreto sugli enti locali, è perché in qualche modo i conti non tornano. Il Governo è costretto, come in tutti gli altri casi, ad intervenire con tale strumento perché il Patto di stabilità interno pone limiti troppo duri nonostante il tentativo di allentarlo nella scorsa manovra finanziaria; d'altro canto, non possiamo dimenticarci o far finta di dimenticare invece, su Roma, le gravissime responsabilità oggettive della gestione precedente dell'amministrazione comunale in cui si è proceduto ad una finanza a dir poco creativa, che tra l'altro è oggetto non soltanto di polemica politica, purtroppo, ma anche di inchieste.
  Venendo al merito del decreto, credo si tratti di un buon compromesso. In particolare, nonostante mantenga qualche riserva su alcune questioni, mi sento di dire che il lavoro delle Commissioni bilancio e finanze ha apportato delle correzioni molto importanti. Innanzitutto, sulla TASI viene recepito l'accordo con l'ANCI e viene introdotta la possibilità per i comuni di alzare l'aliquota massima di un ulteriore 0,8 per mille, a patto che la cifra incassata sia sostanzialmente utilizzata a finanziare detrazioni. Io penso che probabilmente non avremmo dovuto lasciare questa facoltà ai comuni ma avremmo dovuto prevedere l'aumento ex lege; in ogni caso l'idea di finanziare detrazioni è importante mentre – mi pare sia stato già detto anche qui da qualche altro collega – far pagare la TASI anche agli inquilini rischia di determinare dei conflitti e delle controversie fra inquilini e proprietari, che avremmo potuto evitare facendo pagare la TASI soltanto ai proprietari, con l'eventuale possibilità ovviamente di rivalersi sull'inquilino, anche perché non si spiega perché una tassa che colpisce l'immobile poi debba essere pagata da chi non lo possiede.
  È positiva anche la scelta di permettere ai comuni di ridurre per il 2014 dal 30 al 20 per cento l'accantonamento obbligatorio sui residui attivi. Sulla TARI, nella prima stesura era prevista la totale esenzione dal pagamento dei rifiuti speciali e assimilati direttamente e smaltiti dalle aziende. Ciò avrebbe dovuto comportare che l'eventuale gettito ricadesse sulle famiglie, invece, grazie al lavoro che abbiamo svolto nelle Commissioni, sarà possibile un riequilibrio del carico fiscale. A questo punto rimane la possibilità per i comuni di determinare uno sconto sulla parte variabile per i rifiuti delle imprese che dimostrino di aver avviato il riciclo. Quindi saranno i comuni stessi, che meglio conoscono la situazione locale, a stabilire come distribuire il carico fiscale sulle diverse tipologie di utenza. In parallelo, un altro emendamento approvato è intervenuto sui coefficienti permettendo ai comuni di evitare ad alcune categorie economiche, come i ristoranti, rincari abnormi della tassa. Condivido però anche che si tratta di aggiustamenti, che devono andare verso un riordino e una razionalizzazione e semplificazione tributaria, come appunto ha detto il collega Causi.
  Venendo alle scelte su Roma Capitale, mi sembra oggettivo che Roma debba sostenere degli oneri molto superiori a qualunque altra città d'Italia, proprio perché è la Capitale del nostro Paese. Questo non assolve – come ho già detto – la gestione precedente, fatta di sprechi e scelte sbagliate, tuttavia gli interventi ad hoc da parte del Governo e del legislatore mi sembrano più che giustificati.Pag. 34
  Voglio sottolineare due aspetti: l'interazione e il confronto con l'assemblea capitolina e con la giunta, a partire dal sindaco e dal vice sindaco, hanno consentito un intervento positivo. Ad esempio, è stata abbattuta la furia privatizzatrice di chi credeva che privatizzando Acea o svendendo qualche gioiello di famiglia si potesse risolvere il problema. Inoltre, si è dato vita ad un piano di risanamento che tiene conto dei cittadini e dei loro interessi. Su questo voglio dire con chiarezza che è stata fondamentale l'approvazione di un emendamento presentato dal mio gruppo, insieme ai colleghi del PD, che sposta da 90 a 120 giorni il termine entro il quale Roma Capitale è tenuta a trasmettere ai Ministeri e alle Camere un rapporto che evidenzi le cause della formazione del disavanzo di bilancio di parte corrente negli anni precedenti, nonché l'entità e la natura della massa debitoria da trasferire alla gestione commissariale. In questo modo si potrà fare piena luce sul passato e si eviterà un piano massiccio di privatizzazioni.
  Il decreto interviene anche sui servizi delle istituzioni scolastiche, spostando di un mese, fino al 31 marzo, il mantenimento dei livelli occupazionali e salariali di queste lavoratrici e lavoratori nella situazione vigente nell'anno 2013, con il ricorso alla copertura di 20 milioni di euro attingendo alle scarse risorse ancora disponibili della legge n. 440 del 1997. Ci risulta tra l'altro che il Ministero del lavoro abbia sottoscritto un accordo con i consorzi vincitori delle gare Consip e con le organizzazioni sindacali, che interviene nello stesso merito a partire dal 1o aprile e mette a disposizione ben 450 milioni di euro per interventi fino a marzo 2016. Comunque, sia l'articolo 19 che l'accordo del 28 marzo, quello che ho citato, risultano nei fatti essere ulteriori proroghe di una situazione ormai esplosiva e su cui invece la legge di stabilità 2014 aveva espressamente indicato al Governo l'attivazione di un tavolo istituzionale di confronto tra amministrazioni interessate, enti locali e organizzazioni sindacali, che entro il 31 gennaio 2014 avrebbe dovuto individuare soluzioni normative e amministrative ai problemi occupazionali connessi alla successiva utilizzazione delle suddette convenzioni. Non si può quindi che auspicare una soluzione definitiva che faccia uscire da questa sensazione di provvisorietà, che pesa molto sui lavoratori e sulle loro famiglie.
  Nonostante il sostegno al decreto – su cui voteremo a favore – voglio esprimere un rilievo critico: la cancellazione della cosiddetta web tax ha indotto in errore. Si tratta di una misura che combatte il profit shifting, la pratica per cui si pagano le tasse in un luogo diverso da quello in cui si erogano i servizi. Era questo il senso della proposta: si voleva affermare un principio molto semplice. Chi vende servizi, in particolare pubblicità via web nel nostro Paese, deve essere possessore di partita IVA italiana, cioè pagare le tasse al fisco italiano, anche perché si tratta big player che stanno cannibalizzando le reti informatiche costruite spesso con ingenti investimenti pubblici. Le reti vanno mantenute e non è pensabile che ci sia un'autostrada per la quale le piccole utilitarie pagano il pedaggio e migliaia di Tir ogni giorno passano senza pagare, producendo buche che nessuno si cura di manutenere. Il rischio è quello che un giorno, ma già stanno uscendo le notizie in tal senso, questi big player, dopo aver distrutto le nostre reti informatiche, costruiscano e propongano la loro rete. Non credo ci si possa permettere di lasciare in mano loro e fuori da ogni controllo europeo le infrastrutture informatiche. La formulazione che abbiamo proposto, peraltro, prevedeva di trovare intese proprio con il livello europeo, quindi non si trattava certo di una misura fuori o lontana dall'Europa, semmai della volontà di aprire questa discussione in sede europea, in particolare visto l'avvicinarsi del semestre di Presidenza italiana.
  Concludo con un secondo rilievo, visto che sono stati annunciati tagli alle spese per la difesa – segnatamente sul programma di acquisto degli F-35 – che però stentano ad essere confermati. Il nostro gruppo ha presentato un emendamento Pag. 35che sospende il programma dell'acquisto dei caccia bombardieri e destina quei fondi all'edilizia scolastica. Tagliare le spese militari e investire sulla conoscenza sarebbe veramente un bel messaggio all'Italia e al mondo che ci guarda.
  Tuttavia, nel complesso si tratta di un decreto che si pone l'obiettivo di sanare alcune situazioni difficili e proprio in quest'ottica non faremo mancare il nostro sostegno.

  PRESIDENTE. Saluto studenti e insegnanti del Terzo circolo didattico di Sarno, in provincia di Salerno, che stanno assistendo ai nostri lavori dalle tribune (Applausi).
  È iscritta a parlare l'onorevole Daga. Ne ha facoltà.

  FEDERICA DAGA. Signor Presidente, riguardo al decreto in discussione, intendo soffermarmi unicamente sull'articolo 16, che riguarda il dissesto di Roma Capitale.
  Siamo arrivati al terzo tentativo, dopo un decreto decaduto il 27 dicembre per mano del Presidente della Repubblica e un secondo decreto ritirato a fine febbraio dal nuovo Governo, che ha dimostrato chiaramente quanto è poco affine al sindaco di Roma Marino. L'ultima versione dell'articolo, che dovrebbe salvare le sorti di una città che ha già una gestione commissariale aperta nel 2008, è di fatto un commissariamento politico che affosserà ancora di più la città e la situazione nella quale vivono i suoi abitanti. Persistono le clausole ricattatorie inserite a prepotenza dal Senato nei precedenti decreti, che permettono un nuovo sacco di Roma.
  Durante l'esame in Commissione abbiamo presentato proposte volte al miglioramento della qualità dei servizi forniti alla collettività e abbiamo proposto: la ripubblicizzazione dell'acqua, che porterebbe ad un servizio migliore per garantire la partecipazione di cittadini e lavoratori alla sua gestione e garantire trasparenza nell'uso dei soldi pubblici, guardando al servizio al cittadino e non al mero profitto, rispettando così la volontà di un milione e 200 mila romani per il referendum del 2011; raccolta differenziata porta a porta, come già ordinato dal prefetto nell'ottobre 2013; l'uso del patrimonio immobiliare con il fine di risolvere l'emergenza abitativa; la rescissione dei contratti d'affitto dei locali privati usati dal comune; tagli alle consulenze esterne; tagli alle esternalizzazioni; razionalizzazione dei manager nelle partecipate.
  Abbiamo chiesto un modello di città più a misura di essere umano, anche con il potenziamento del servizio di trasporto pubblico locale nelle periferie, che Roma Capitale ha sistematicamente abbandonato a se stesse.
  Il decreto-legge, invece, continua a promuovere la vendita del patrimonio immobiliare, promuove licenziamenti e dismissioni nelle partecipate, con possibilità di creare mega holding, il tutto con una gestione fatta tramite società di diritto privato, che sono notoriamente le meno trasparenti in assoluto. Inoltre, promuove la liberalizzazione, quindi ulteriore privatizzazione e messa sul mercato, del trasporto pubblico e del servizio di raccolta dei rifiuti; mantiene l'acqua privata, per la gioia del maggior azionista privato, che pensiamo si stia organizzando per mettere le mani anche sui rifiuti.
  Ma come siamo arrivati a questa situazione ? C’è stata una continuità nella malagestione delle risorse di Roma a partire dal trio Rutelli, Veltroni e Alemanno, che hanno utilizzato politiche di precarizzazione dei lavoratori, peggioramento della qualità dei servizi alla cittadinanza, e sono state create società come «poltronifici» e bacini di voti. Sono stati privatizzati i servizi pubblici locali. Il primo esempio di privatizzazione fu quello della Centrale del latte di Roma. Infine, il patto di stabilità interno, che è stato il principale responsabile delle politiche restrittive cui sono andati incontro i comuni e gli enti locali in questi anni.
  È chiaro, comunque, che dietro ai problemi di bilancio è celato il sistematico attacco alla democrazia, quella democrazia scomoda che vorrebbe maggior trasparenza e partecipazione cittadina nelle decisioni che riguardano appunto i cittadini. Pag. 36Possibile poi che sia il Governo a dire ad una città come si deve comportare ? Chi ha gestito le casse di Roma da vent'anni a questa parte oggi è seduto in questi scranni, è stato promosso e detta legge per salvarne le sorti; cioè, dopo aver rovinato Roma, rovinano l'Italia ergendosi ad eroi, commissariando di fatto l'attuale amministrazione, che forse non piace ai compagni di partito, finendo con il vendere gli ultimi gioielli di famiglia. Hanno fatto mangiare amici e parenti e non hanno mai risolto nessun problema di questa città: rifiuti, depuratori, servizio idrico, trasporti, emergenza abitativa.
  Il Governo strozza i comuni con una normativa frutto di un sistema economico fallimentare, quello che ci ha portato alla crisi e all'attuale entità del debito pubblico – odioso e illegittimo ? –, portandoli così al dissesto e obbligandoli a vendere e privatizzare tutto, come fosse l'unica soluzione possibile: niente di più falso. Le soluzioni ve le abbiamo date, usatele. Intanto a rimetterci sono i cittadini, abbandonati nelle periferie, che non vivono le loro città, ma le sopravvivono, che ne sopportano il malfunzionamento, pagando caro quei servizi essenziali ai quali hanno pieno diritto, dove vige purtroppo la logica del profitto e della speculazione.
  Quanto succederà a Roma sdoganerà un sistema, fallimentare appunto, che sarà ripetuto in tutte le città portate al dissesto. Il provvedimento passerà al Senato, dove abbiamo visto agire i peggiori privatizzatori dei servizi al cittadino.
  Ma la partita non finirà con il Parlamento. I movimenti cittadini sono ancora una volta mobilitati, al grido di «Roma non si vende», per opporsi alle politiche speculative, di austerity e di precarizzazione della vita. Alle istituzioni locali vengono chiesti ascolto e partecipazione. Da che parte vogliamo stare ? Con i profitti o con gli interessi della collettività ? Mi auguro che il sindaco voglia finalmente dare ascolto agli abitanti di Roma, a quei movimenti cittadini che vogliono costruire e lavorano da tempo per un nuovo modello di città (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Marco Di Stefano. Ne ha facoltà.

  MARCO DI STEFANO. Signor Presidente, oggi affrontiamo due temi, un tema molto importante che voglio ricordare, come ricordavano anche i colleghi. Si tratta di temi che già sono stati affrontati nei precedenti decreti, che sono stati poi ritirati dal Governo.
  Credo che questa volta il Governo abbia messo un nuovo passo, abbia agito in una maniera rapida ed efficiente e, questa volta, trattando anche in maniera strutturale una materia che fino a questo momento era stata oggetto di interventi che non avevano il pregio di disciplinare in maniera organica un argomento così essenziale per la vita degli enti locali.
  Io credo che innanzitutto – ho ascoltato anche gli interventi di chi mi ha preceduto – è bene ricordare che il decreto in esame va a disciplinare gli aspetti più sensibili di tutti gli enti locali e non soltanto quelli della nostra Capitale. Ricordiamo anche che, sebbene il decreto sia stato ribattezzato come decreto «salva Roma», la sua funzione non è quella di salvare qualcuno. La sua funzione, anche se poi gruppi parlamentari e parlamentari si ostinano a voler ribadire il contrario, è quella fornire in maniera più opportuna strumenti adeguati per consentire agli enti locali di risolvere, in maniera organica e non soltanto con degli spot, molte situazioni che oggi rendono difficile, se non addirittura impossibile, esercitare al meglio la funzione primaria dei comuni.
  Quella funzione primaria che, lo voglio ricordare, è quella di assicurare servizi essenziali ed efficienti ai nostri concittadini che pagano le tasse e, pagando le tasse, hanno diritto anche ad avere in cambio risposte commisurate alle loro necessità e alle loro aspettative. E mi permetto di dire anche alle aspettative rispetto a quelli che ormai sono diventati gli standard europei. È evidente anche che le enormi difficoltà finanziarie che caratterizzano oggi molte realtà comunali, senza distinzione di sorta, e che trovano sovente Pag. 37la loro origine nei vincoli stringenti del Patto di stabilità, risultano amplificate anche dagli effetti della crisi economica che, non va dimenticato, ha provocato pure una diminuzione delle capacità di autofinanziamento delle amministrazioni e delle entrate complessive derivante dalla profonda recessione delle principali attività economiche.
  Ciò non significa che non ci siano stati – e non dobbiamo nasconderlo – casi di cattiva politica. Credo che tutti giorni la cronaca quotidiana fotografi e porti all'attenzione molte notizie di questo genere. Tutto ciò ha influito sicuramente in modo determinante anche sull'aggravamento della situazione complessiva. Mi riferisco, in particolar modo negli ultimi anni, anche per quanto riguarda la nostra Capitale, a quella politica che è stata miope e debole e che è stata condizionata solamente da una ricerca esasperata di un consenso fine a se stesso, nel breve periodo, e si è ben guardata in questi anni dal prendere decisioni difficili, ma risolutive per il futuro dei rispettivi territori. Una politica che allontana i cittadini dalle amministrazioni e dall'interesse per la gestione della cosa pubblica, inducendoli a perdere ogni fiducia rispetto alle scelte del Governo e rispetto alle scelte degli enti locali, a prescindere di che partito siano, e alimentando quell'antipolitica che oggi è il grande cavallo di battaglia di movimenti e partiti estremisti.
  Ed è per questo che il Partito Democratico e il Governo, attraverso questo importante decreto-legge, intendono, non solo individuare e porre in essere degli efficaci provvedimenti per gli enti locali in generale ed in particolare per quelli in difficoltà finanziaria, fornendo degli strumenti legislativi per riequilibrare la struttura finanziaria degli enti, ma anche e soprattutto concorrere in termini significativi ad una complessiva azione di ricostruzione della fiducia dell'opinione pubblica nelle istituzioni, così come previsto anche dalle linee programmatiche a suo tempo illustrate in Aula dal Presidente del Consiglio.
  Gli strumenti legislativi adottati con questo decreto-legge sono principalmente tre: le disposizioni finanziarie e le misure di razionalizzazione economica e contabile, di cui ha parlato il mio collega Causi, le misure di razionalizzazione organizzativa e gli interventi sociali. In questo senso, per venire incontro alle amministrazioni locali, dando loro i tempi tecnici per stimare la previsione delle entrate, soprattutto in virtù delle nuove note sulla TARI, TASI e IMU, il Partito Democratico ha proposto un emendamento, approvato dalle Commissioni, finalizzato a consentire l'approvazione dei bilanci preventivi fino al mese di luglio di quest'anno.
  Abbiamo previsto anche che, ai fini dell'assegnazione dell'anticipazione di liquidità per il pagamento dei debiti delle pubbliche amministrazioni, possono essere considerati anche i debiti fuori bilancio contenuti nel Piano di riequilibrio pluriennale. In poche parole, si amplia la possibilità di pagare i debiti delle pubbliche amministrazioni attraverso nuova liquidità.
  Per venire incontro agli enti locali che si trovano in difficoltà finanziarie, tutti gli enti locali, è stato ampliato di trenta giorni il termine perentorio per la deliberazione del Piano di riequilibrio finanziario pluriennale, prevedendo, fra l'altro, la possibilità di una rimodulazione del Piano qualora si realizzasse un miglioramento degli obiettivi intermedi superiore a quello previsto. Questa è una norma che riguarda tutti i comuni, e riguarda in particolar modo comuni che oggi sono in maggiore difficoltà finanziaria come, ad esempio, Napoli, Catania, Messina, e non soltanto Roma.
  Inoltre, attraverso la riduzione dell'accantonamento al Fondo svalutazione crediti, che passa dal 30 per cento al 20 per cento, si ritiene possibile dare maggiore aggio all'ente locale per attuare politiche verso i cittadini incentivando nel contempo l'economia. Beneficiano di questo emendamento in particolar modo alcune città del nord che sono città virtuose, come, a titolo di esempio, Milano, Torino e Bologna. Ciò ancora volta a dimostrazione Pag. 38che non si tratta di un «salva Roma», ma di uno strumento legislativo finalizzato ad aiutare tutti i comuni del nostro Paese.
  Il secondo caposaldo sul quale il Partito Democratico ha voluto incidere è quello delle misure di razionalizzazione organizzativa per cambiare veramente il verso della gestione degli enti locali. La legislazione degli ultimi vent'anni ha dato vita ad una serie provvedimenti legislativi che hanno permesso agli enti locali di espletare le proprie competenze in maniera più snella e veloce, sempre con le finalità di rendere i servizi più efficaci ed efficienti. Ma la politica deve riconoscere, tutta la politica, che questo sistema non sempre ha dato i frutti che si sperava. Il panorama oggi vede un proliferare di società nate non per assolvere finalità che la normativa inizialmente si prefiggeva, ma, dobbiamo dire la verità, molto spesso questo è stato fatto per fare a volte da ammortizzatore sociale e tante volte anche per creare qualche posto e qualche poltrona in più di comodo.
  La distruzione del sistema ha prodotto, inoltre, secondo me, un grave danno. Un danno che ha causato la perdita del senso di appartenenza alle istituzioni da parte dei dipendenti e ha causato una sorta di guerra tra poveri, tra chi lavora e chi inevitabilmente, come cittadino, si rapporta ai dipendenti pubblici e parapubblici.
  Oggi io credo che si è giunti al punto di non ritorno ed è impensabile, impossibile che tutto rimanga allo stato attuale; e credo che di questo ci dobbiamo fare tutti quanti carico. Il nostro sistema non è più in grado di reggere il peso ormai insostenibile di queste realtà aziendali. In questo momento la politica deve intervenire e cambiare il verso delle cose, impossessandosi nuovamente del ruolo di guida del Paese, assumendo decisioni a volte anche impopolari, assumendo indirizzi non finalizzati a cercare il consenso immediato ma pensando al futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti. Oggi la vera scommessa della politica è quella di andare avanti e di avere il coraggio di spiegare i propri interventi forti nel convincimento di stare perseguendo la giusta rotta.
  In questo senso va questo decreto-legge, che reca interventi per la razionalizzazione delle società controllate direttamente o indirettamente, arrivando persino a prevedere lo scioglimento delle stesse società, salvaguardando l'occupazione non soltanto mediante la mobilità tra le varie società controllate dalla pubblica amministrazione ma garantendo anche ai lavoratori il posto di lavoro e lo stesso livello retributivo, facendo svolgere loro mansioni diverse e potenziando in tal modo i servizi alla cittadinanza. In molte società, dall'analisi dell'organigramma, emerge la carenza di figure operative e l'abbondanza, ad esempio, di impiegati amministrativi. Noi stiamo fornendo con questo decreto-legge lo strumento legislativo per modificare questa situazione, garantendo il lavoro e migliorando i servizi, il tutto chiaramente con il coinvolgimento delle organizzazioni sindacali.
  Nelle scelte, quindi, si pone non soltanto il problema di cambiare le aziende, ponendo fine alla degenerazione che spesso le ha trasformate in comodi rifugi per derive clientelari e organismi pletorici e fuori dal mercato, ma anche quello di come cambiarle senza distruggerne la potenzialità, la professionalità, le tecnologie, le esperienze che pure esistono e che, liberate dalle sovrastrutture a volte della cattiva politica e messe in condizione di riprendere un percorso imprenditoriale, potranno diventare strumento di sviluppo e di riqualificazione dei servizi municipali al servizio del cittadino.
  In questo senso, il Partito Democratico non si è iscritto, e mai lo farà, al club – mi viene di pensare a quanto accaduto in Senato – invero sempre più numeroso nel nostro Paese di coloro che, dopo aver concorso anche con responsabilità amministrative e gestionali, grandi o piccole, di lunga o poco durata, allo sviluppo del sistema delle cosiddette municipalizzate, nei termini e con i guasti che ben conosciamo, si sono improvvisamente e, aggiungo io, improvvidamente trasformati in Pag. 39inesorabili assertori delle svendite e dello scioglimento generalizzato delle società comunali, in una sorta di pentimento inconsapevole, peraltro mai esplicato nella conseguente assunzione di responsabilità che, però, vorrebbero far ricadere su tutti e soltanto su tutti i dipendenti, da mettere in strada, anche se nella grande maggioranza fanno quotidianamente il loro lavoro, e sui cittadini, che resterebbero senza servizi primari.
   Il Partito Democratico ha, inoltre, in questo decreto voluto dare un forte segnale circa la sua visione prospettica, potenziando gli investimenti nella ristrutturazione degli edifici scolastici. I giovani, la cultura devono essere rimessi al centro dell'azione politica: investendo su di loro potremo dare una speranza al Paese e cercare di lasciare una nazione migliore di come è attualmente.
  Il Partito Democratico sostiene fortemente quella che è la convinzione del Governo, e cioè che la stabilità degli edifici scolastici, nelle aule dove ogni giorno studiano e crescono i nostri figli, i nostri nipoti, è importante per lo meno quanto la solidità e l'equilibrio dei nostri conti pubblici, come il Presidente del Consiglio e il segretario del partito, Matteo Renzi, ha avuto modo di dire più volte da quando ha iniziato il suo mandato a Palazzo Chigi.
  E ora vorrei parlare ovviamente di quegli interventi che in maniera strumentale sono stati cavalcati dall'opposizione per attaccare quella che è la Capitale d'Italia.
  Roma, per sua natura storica, religiosa, culturale, politica e sportiva è tradizionalmente accogliente con tutti, anche con quelli che sono i suoi detrattori più accaniti. Vorrei in questo senso tranquillizzare tutti dicendo che, contrariamente a quelli che lo avversano bollandolo come l'ennesimo e inutile salvataggio di una città sprecona e clientelare che vive sul lavoro altrui, il lavoro sull'equilibrio finanziario di Roma è una straordinaria opportunità di riforma strutturale dell'enorme e onerosa macchina comunale nonché di rilancio della funzione nazionale e internazionale della Capitale del nostro Paese. Roma deve elaborare un serio e rigoroso piano di riequilibrio finanziario e strutturale dell'ente, provvedere a riorganizzare e valorizzare le numerose società e istituzioni pubbliche e soprattutto un ingente patrimonio pubblico.
  Per questo motivo, dobbiamo portare a 122 giorni il termine entro il quale Roma capitale è tenuta a trasmettere al Ministero dell'economia e delle finanze, alle Camere e alla Corte dei conti un rapporto che evidenzi le cause del disavanzo anche con riferimento alle società partecipate e controllate da Roma capitale. È previsto, inoltre, che venga approvato un piano triennale per la riduzione del disavanzo e per il riequilibrio strutturale e di bilancio. Occorre però evidenziare in maniera chiara e forte, al fine di evitare fraintendimenti e strumentalizzazioni, che non ci sarà soltanto un euro chiesto alla finanza pubblica.
  Il piano di rientro verrà realizzato usando risorse già disponibili al commissario straordinario per il debito prima del 2008, a loro volta finanziate al 60 per cento dalle tasse pagate dai romani, e poi contando sulle forze soltanto del Campidoglio, il quale dovrà risanare, con rigore e innovazione, soprattutto nel comparto dei contratti di servizio, e generare nuove entrate straordinarie, le quali potranno concorrere a riequilibri di parte corrente (che è un emendamento presentato dal Partito Democratico). Il ripristino del contributo del Ministero dell'ambiente per la raccolta differenziata è un atto dovuto, visto che fa parte di un accordo, di un patto già sottoscritto in passato con il Governo.
  La vera novità, anche al confronto con le norme introdotte nei decreti di ottobre e di gennaio, è l'attivazione di un tavolo interistituzionale su Roma capitale, a cui partecipano Stato, regione e comune. Il tavolo, già previsto dalla vigente legislazione, ma mai attivato, deve diventare la sede propria non solo per l'approvazione e il monitoraggio del piano di rientro, ma anche per la soluzione strutturale e permanente dei problemi di assetto finanziario Pag. 40della capitale che il comune da solo non potrà mai perseguire. E sono necessarie, secondo me, alcune questioni.
  La prima è il riconoscimento dei costi a carico delle finanze comunali che derivano dalle funzioni statali esercitate da Roma. Io voglio soltanto fare un esempio: la Capitale, piaccia o no a qualcuno, è la Capitale d'Italia e paga in maniera molto salata questo prezzo. A Roma ci sono circa due o tre manifestazioni, sit-in, cortei al giorno, mille cortei l'anno; e questi mille cortei l'anno, con le conseguenti pulizie straordinarie, con il ripristino del decoro, con i soldi spesi per la sicurezza, in particolar modo per gli straordinari dei vigili urbani, costano decine e decine di milioni alla Capitale d'Italia, di cui non si può far carico soltanto il cittadino romano.
  Dobbiamo lavorare per l'attivazione del circuito d'investimenti nelle opere di interesse nazionale localizzate a Roma tramite il CIPE: una previsione dei decreti su Roma capitale che ancora non è stata mai attuata. Credo che dobbiamo lavorare per un comportamento più forte, attivo della regione nella soluzione del principale problema storico, finanziario del comune di Roma, che è quello del trasporto pubblico in questa città.
  L'auspicio è che, con questo decreto, Roma possa diventare un esempio in termini di stabilità finanziaria, un modello virtuoso che deve passare necessariamente per una maggiore trasparenza delle sue strutture. Gli impegni a cui l'amministrazione capitolina sarà chiamata nei prossimi anni sono molto duri, ma, allo stesso tempo, necessari per riconsegnare ai cittadini l'immagine di una città che punti ad offrire servizi migliori ai suoi cittadini e ai milioni di persone che, ogni anno, si recano in visita nella Capitale, ad iniziare dalle società partecipate e controllate, sulle quali, per troppo tempo, e in molti casi, lo ripeto, con la giusta fondatezza, sono passate le ombre di favoritismi e logiche clientelari.
  Mi preme qui sottolineare un'importante norma prevista nel provvedimento che stiamo esaminando e, cioè, quella della mobilità interaziendale, un meccanismo che permetterà di rispondere ad esigenze di ottimizzazione delle strutture delle nostre società, con la conseguenza che i servizi offerti ai cittadini miglioreranno in termini quantitativi, ma, soprattutto, qualitativi. Non possiamo permetterci più strutture camaleontiche, sproporzionate, a fronte di organici ridotti all'osso: occorre un riequilibrio che passi innanzitutto per un censimento effettivo delle risorse umane.
  Io credo che questo decreto sia l'occasione buona, stavolta per davvero, per riconsegnare ai cittadini di Roma, ma anche ai cittadini del mondo, l'immagine di un'amministrazione pubblica sana, trasparente ed efficiente, quale può essere quella della Capitale d'Italia.

  PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Lombardi. Ne ha facoltà.

  ROBERTA LOMBARDI. Signor Presidente, prima di entrare nel merito del mio intervento, che è relativo al comma 5 dell'articolo 16 del provvedimento cosiddetto «salva Roma» – l'articolo che, poi, dà il nome all'intero provvedimento, in realtà –, volevo fare una piccola premessa, parlando un po’ di quella che è la filosofia che, a nostro avviso, è sottesa a questo comma: ovvero, quella filosofia che abbiamo visto applicare spesso in società pubbliche o private o partecipate, che, trovandosi in una situazione debitoria insostenibile, decidono di scindere le attività e le passività della società stessa, andando a creare quelle che adesso, con un termine che va molto di moda, sono le good company e le bad company.
  La good company incamera quelle che sono, di solito, le attività profittevoli delle aziende e i profitti di queste attività, poi, vanno nelle tasche di pochi. Le bad company, invece, incorporano al loro interno quelle che sono le passività e i settori non profittevoli, e i costi, i debiti di queste società, di solito, vengono scaricati nelle tasche della collettività. Penso al caso Alitalia che, forse, è quello di più facile comprensione.Pag. 41
  Ora, quello che a noi sembra è che, nell'affrontare questo comma 5 di questo articolo 16 del «salva Roma» si sia un po’ adottata questa filosofia nella relazione che sussiste tra il bilancio del comune di Roma Capitale e il bilancio della gestione commissariale dello stesso comune, dove la good company, in questo caso, è il comune, che vede «imbellettata» un pochettino la situazione che tutti sanno essere disastrosa del proprio bilancio e che, praticamente, è in carico poi ai cittadini romani, mentre la bad company, in questo caso, è il bilancio della gestione commissariale, i cui debiti, invece, vengono ripianati dalle tasche di tutti i cittadini italiani. Ora io, da romana, ovviamente ho a cuore le sorti della mia città, ma vorrei anche che, una volta tanto, i responsabili di questa gestione disastrosa, che ha portato al commissariamento del bilancio e che siedono in quest'Aula (perché quando uno lavora così bene giustamente nella politica dei partiti viene premiato con incarichi come questo, da parlamentare) e gli stessi colleghi che hanno parlato prima, penso al collega Causi che è stato assessore del bilancio del comune di Roma fino al 2008, o al collega Di Stefano che era consigliere sempre negli anni in cui la voragine del buco si allargava, avessero il buongusto di assumersi una responsabilità, così per dare una novità nel panorama politico di questo Paese.
  Entrando, invece, nel merito tecnico di questo intervento, andiamo a vedere l'articolo 16 del decreto-legge in esame che interviene sulla situazione finanziaria di Roma Capitale, affidando all'ente il compito di redigere un rapporto sul disavanzo di bilancio che si è finora formato e predisponendo, nel contempo, un piano triennale per il riequilibrio strutturale del bilancio che dovrà poi essere approvato con apposito decreto del Presidente del Consiglio dei ministri.
  Si ricorda che, nell'ordinamento contabile del comune di Roma, poi Roma Capitale, sono state distinte due gestioni, appunto, come dicevo prima, tra di loro separate: la gestione commissariale del comune, che ha preso in carico tutte le entrate di competenza e tutte le obbligazioni assunte alla data del 28 aprile 2008 (il 28 aprile 2008, lo ricordo, è la data delle penultime elezioni politiche, quelle in cui si era formato il PD, il segretario era Walter Veltroni che si era dimesso in corso di mandato dall'incarico di sindaco di Roma), quindi, lo ripeto, la gestione commissariale del comune con tutte le obbligazioni assunte alla data del 28 aprile 2008, e la gestione ordinaria, competente per il periodo successivo alla suddetta data e affidata agli organi istituzionali dell'ente comunale. Ciò significa che è in capo alla gestione commissariale l'obbligo del pagamento dei debiti riferiti a prestazioni rese entro questo 28 aprile 2008 e, di converso, compete alla gestione ordinaria il pagamento di quei debiti derivanti da prestazioni rese dopo tale data.
  L'articolo 16 di questo decreto-legge, al comma 5, interviene in ordine alla gestione commissariale di Roma Capitale, inserendo 5 ulteriori periodi al comma 196-bis dell'articolo 2 della legge n. 191 del 2009, che è la legge finanziaria 2010, con i quali, punto primo, si consente l'ampliamento della massa passiva, lo ripeto, l'ampliamento della massa passiva, del piano di rientro in corso di esercizio da parte del commissario medesimo, inserendo nella stessa – massa passiva – ulteriori partite debitorie anteriori all'inizio della gestione, nonché, punto secondo, l'inserimento di alcune somme derivanti dal contratto di servizi previsto dal suddetto piano di rientro. Sempre con questo comma 5, si prevede, in riferimento alla gestione dei crediti di Roma Capitale verso le società partecipate, che l'ente possa riacquistare la titolarità di tali crediti inseriti nella massa attiva della gestione. Quindi, c’è uno spostamento dalla massa passiva del bilancio del comune di Roma alla massa passiva del bilancio della gestione commissariale e uno spostamento dalla massa attiva della gestione commissariale alla massa attiva del bilancio del comune di Roma, una sorta di maquillage contabile.
  Va premesso che il comma in questione riproduce parzialmente, al primo e al Pag. 42secondo periodo, i contenuti dell'articolo 1, comma 5, del decreto-legge n. 126 del 2013, già riprodotti dall'articolo 4, comma 1, del decreto-legge n. 151 dello stesso anno ovvero i decreti salva Roma 1 e 2, mai convertiti in legge, ma i cui effetti sono fatti salvi, ricordatevi questa espressione, fatti salvi. Le disposizioni dei due precedenti decreti facevano riferimento a una massa passiva di 115 milioni di euro.
  La relazione tecnica del decreto in discussione invece afferma che qui si prevede che siano inseriti nella massa passiva della gestione commissariale di Roma capitale i seguenti importi: primo importo, 30 milioni di euro quali ulteriori eventuali partite debitorie rinvenienti da obbligazioni od oneri del comune di Roma anteriori al 28 aprile 2008, data dell'entrata in vigore del commissariamento del bilancio di Roma. Che significa ? Che ci sono eventuali altri debiti che potrebbero, da un momento all'altro, uscire e, quindi, ci chiediamo che tipo di ricognizione sia stata fatta al momento dell'entrata in vigore della gestione commissariale, visto che potrebbero, da un momento all'altro, uscire eventuali altre ulteriori partite debitorie.
  L'altro importo che viene sempre inserito nella massa passiva della gestione commissariale di Roma capitale riguarda le somme introitate dalla gestione commissariale in forza del contratto di servizio ai fini del loro reintegro a favore del comune di Roma capitale, al netto delle somme a qualsiasi titolo già inserite dal 31 ottobre 2013 fino alla data di entrata in vigore del presente decreto, nella medesima massa passiva, per un ammontare pari a 85 milioni di euro stando alla relazione tecnica; peraltro, a spanna, facendo due conti, il totale sarebbe pari a 115 milioni, quindi a 85 più i 30 di cui sopra.
  Con riferimento a questi 30 milioni da inserire nella massa passiva a titolo di ulteriori partite debitorie antecedenti alla data del 28 aprile 2008, vorremmo sapere di quali ulteriori partite debitorie si tratta e perché le stesse, benché anteriori alla predetta data, non risultino già iscritte nel debito preso in carico dalla gestione commissariale, posto che l'accertamento definitivo del debito del comune di Roma è avvenuto il 26 luglio 2010.
  Abbiamo presentato questa domanda all'ufficio studi della Camera e non hanno saputo risponderci perché non avevano dal commissario e dal servizio bilancio del comune di Roma le risposte, né tantomeno dal Ministero dell'economia e delle finanze. Abbiamo posto le stesse domande anche ai due presidenti delle Commissioni bilancio e finanze in modo che si facessero interpreti di questa nostra esigenza di chiarezza nei confronti del Ministero, ma anche qui non abbiamo avuto risposte.
  Altra domanda che abbiamo posto: il corrispondente ammontare è già computato nel debito della pubblica amministrazione ? Visto che ci sono debiti che escono, che ogni tanto «cicciano» come funghi, direi dopo la pioggia di novembre, volevamo capire se eventualmente potesse esserci qualche altra cosa da aspettarci. E, se si tratta di debiti fuori bilancio non ancora riconosciuti, ne andrebbero quanto meno verificati l'origine e l'impatto complessivo sul debito della pubblica amministrazione.
  In merito al relativo importo bisogna ricordare che i decreti cosiddetti «salva Roma» uno e due, i cui effetti sono fatti salvi – ricordo ancora: fatti salvi, e poi spiegheremo cosa significa – indicavano l'importo di 115 milioni in luogo dei 30 attualmente previsti dalla disposizione.
  La domanda sorge spontanea: la predetta differenza è contabilizzata ora nelle somme da reintegrare a Roma ai sensi dei periodi successivi del comma in esame o è stata già erogata in attuazione dei provvedimenti decaduti ? Cioè, i 30 milioni di cui si parla nel «salva Roma ter» si aggiungono ai 115 ?
  Altro punto su cui ci siamo concentrati è l'autorizzazione al commissario straordinario di iscrivere nella massa passiva della gestione commissariale le somme introitate dalla gestione medesima in forza del contratto di servizio di cui all'articolo 5 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 5 dicembre 2008, stipulato Pag. 43dal commissario per ottenere i finanziamenti necessari per la copertura degli oneri del piano di rientro.
  Tale articolo 5 stabilisce, in particolare, che il commissario straordinario può richiedere finanziamenti alla Cassa depositi e prestiti o a primari istituti di credito. Per effetto dei finanziamenti contratti, il Ministero dell'economia e delle finanze corrisponde trasferimenti pluriennali direttamente alla Cassa, a titolo di progressiva estinzione dei finanziamenti stessi.
  La Cassa provvede all'erogazione del finanziamento al commissario in una o più soluzioni e il rapporto tra l'istituto e il commissario è disciplinato da apposito contratto di servizio.
  Le somme suddette, in tal modo introitate dal commissario e ammontanti a 570 milioni di euro, sono inserite nella massa passiva della gestione ai fini del loro reintegro a favore di Roma capitale, dedotte le somme già introitate, anche esse ai fini del reintegro all'ente locale, a qualsiasi titolo inserite dal 31 ottobre 2013 fino alla data dell'entrata in vigore del decreto-legge in esame, pari a 485 milioni di euro, somme che pertanto restano nella disponibilità della massa medesima.
  Va precisato come, a differenza dei precedenti tre periodi dell'articolo 16, comma 5, il cui contenuto è sostanzialmente analogo a quello dei due precedenti decreti-legge, che la mia collega ha precedentemente descritto, il periodo in esame risulti parzialmente difforme rispetto alla corrispondente disposizione contenuta nei «salva Roma 1 e 2» decaduti. Questi, in particolare, autorizzavano il commissario straordinario a iscrivere nella massa passiva, ai fini del loro reintegro, le somme erogate al comune di Roma a titolo di anticipazione per l'anno 2009 e trasferite alla gestione commissariale. La norma, ora arrecata dal periodo in esame, invece, non fa più riferimento a tali somme, ma a quelle introitate dalla gestione commissariale in attuazione del contratto di servizio menzionato nel citato articolo 5 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 5 dicembre 2008. A tal proposito, ci siamo domandati quali siano le ragioni in base alle quali, benché i finanziamenti erogati dalla Cassa depositi e prestiti alla gestione commissariale decorrano da quando è operante il contratto di servizio, si consenta solo ora l'inserimento degli stessi nella massa passiva della gestione medesima: altro mistero. Ancora, per quali motivi tale inserimento avviene ai fini del reintegro delle somme in questione a favore di Roma capitale ? Inoltre, atteso che la data del 31 ottobre 2013 è quella di entrata in vigore del decreto-legge n. 126 del 2013, ovvero il «salva Roma 1», che ha dettato norme in tema di ampliamento della massa passiva del piano di rientro, recando peraltro una disposizione di contenuto differente da quello ora illustrato e che secondo quanto espone la relazione tecnica le somme finora introitate nella massa medesima da tale data ammontano a 485 milioni di euro, desidereremmo sapere perché, atteso il riferimento alla data sopraddetta, non si faccia espresso riferimento al fatto che le somme da dedurre siano state introitate a seguito di quanto disposto dal decreto-legge n. 126 del 2013, ovvero «salva Roma 1», e poi, è da presumere, anche dal successivo «salva Roma 2», utilizzandosi invece la generica locuzione «a qualsiasi titolo inserite nella massa passiva».
  Cioè, noi abbiamo chiesto: alla fine, tra «salva Roma 1, 2 o 3», fatti salvi gli effetti finanziari dei decreti decaduti, quanti soldi hanno transitato dalla massa passiva della gestione commissariale alla massa passiva del bilancio del comune di Roma ? Quanti soldi dalle tasche dei cittadini italiani stanno andando a coprire i buchi di bilancio della gestione del comune di Roma ? L'attuale formulazione della norma non consente di individuare con precisione l'entità delle risorse in questione nell'ambito di quelle introitate in attuazione del contratto di servizio inerente la regolazione dei rapporti finanziari tra la gestione commissariale e gli istituti finanziatori, ovvero si fa un generico richiamo ad ulteriori somme ma non si quantificano queste somme. Pertanto, ci siamo anche chiesti come si giunga alla quantificazione operata dalla relazione Pag. 44tecnica pari a 570 milioni di euro a partire da questa norma in esame. Non è chiaro, infatti, se tale importo esaurisca l'ammontare delle somme introitate in forza del contratto di servizio, di cui al citato decreto del Presidente del Consiglio dei ministri.
  Inoltre, sarebbe il caso di fornire precisazioni con riguardo ai contenuti e alle finalità specifiche del predetto contratto di servizio. Ultimo punto di questo comma: con riferimento alla riacquisizione da parte del comune di Roma della titolarità dei crediti verso le società partecipate, ci chiediamo quali siano le partite creditorie nette sottratte alla gestione commissariale e trasferite al bilancio del comune, nonché quali sarebbero gli eventuali riflessi sulla sostenibilità della gestione medesima. Anche qui c’è uno spostamento dalle attività del bilancio della gestione commissariale alle attività del bilancio del comune di Roma; di nuovo il giochetto bad company, good company. Oltretutto, ci siamo chiesti per quale ragione Roma capitale dovrebbe riacquistare la titolarità di crediti che dovrebbero già essere dall'origine nella titolarità di Roma capitale, in quanto crediti dell'ente verso le proprie partecipate. In proposito, potrebbe essere utile sapere che, nel piano di rientro del comune di Roma redatto nel 2008, è data indicazione di importi pari a 718 milioni di euro anticipati dal comune alle società partecipate e mai restituiti, relativi a somme dovute per servizi di trasporto pubblico locale. Risulta, inoltre, che nella massa passiva della gestione commissariale sono iscritte le perdite determinate dagli oneri di ricapitalizzazione delle società partecipate. Non è chiaro, tuttavia, se tali poste siano incluse nelle compensazioni previste dalla norma in esame o se si tratti di altre partite debitorie e creditorie rispetto alle quali risulterebbe altresì opportuno acquisire indicazioni in merito al relativo grado di effettiva esigibilità. Peraltro, in caso di compensazione parziale, la norma va a migliorare la situazione patrimoniale di Roma capitale e a peggiorare quella della gestione commissariale.
  In conclusione, come avrete capito da questo intervento, nonostante questo sia il terzo decreto su questo stesso tema – citando Mao: «Grande è la confusione sotto il cielo» –, la situazione è eccellente, perfetta – diremmo noi – per scaricare su tutti i cittadini italiani i costi di una gestione allegra, e mi limito a dire allegra, dei soldi pubblici, senza peraltro che ne siano state appurate ancora una volta le relative responsabilità.

  PRESIDENTE. Grazie, onorevole Lombardi. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

(Repliche dei relatori e del Governo – A.C. 2162-A)

  PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare il relatore di minoranza, onorevole Filippo Busin.

  FILIPPO BUSIN, Relatore di minoranza. Onorevoli colleghi, sottosegretari, una breve replica a quanto è stato esposto dal collega Causi in relazione al sistema di tassazione degli immobili a livello comunale, che mi trova in parte d'accordo in quanto ha bisogno di una riscrittura generale, come è noto, e che vede una tassa – la TASI – che si fa nominare tassa ma, in sostanza, si configura come un'addizionale ad un'imposta, l'IMU. Quindi, una specie di ibrido che avrà, ovviamente, vita breve ma, nel frattempo, crea una grande confusione sia in capo ai cittadini sia in capo ai comuni, ai quali, in modo provvidenziale in questo decreto, viene data la possibilità di posticipare al 16 luglio la presentazione del bilancio di previsione. Senza contare poi gli effetti assolutamente depressivi che questo ha nel mercato edilizio, che, come tutti i mercati, ha bisogno di regole certe per poter operare con un certo profitto e con una certa tranquillità. Quello che non è stato detto, invece, dall'onorevole Causi è che la TASI si aggiunge all'IMU e la facoltà di aumentarla dello 0,8 per cento in capo ai comuni Pag. 45ha un effetto ancora di incremento – come se ce ne fosse bisogno – per le imprese e per le seconde case, che, sommato agli aumenti dei moltiplicatori previsti nel 2011 dal Governo Monti, gli aumenti delle rendite catastali e delle aliquote previsti per i comuni, più o meno porta a triplicare o anche più che triplicare in tre anni le imposte sugli immobili e sui fabbricati produttivi – e, quindi, sulle aziende –, che non solo devono sopportare un tax rate unico fra i Paesi dell'OCSE pari al 68,5 per cento sui redditi, ma che, invece di avere agevolazioni, hanno un ulteriore carico tributario.
  Invece contesto radicalmente l'impostazione data dal collega Marco Di Stefano per quanto riguarda Roma capitale. Qui confutiamo la tesi secondo la quale questi stanziamenti avvengono in modo neutro per quanto riguarda le casse dello Stato e, quindi, per la collettività. Così non è, perché si usano degli artifici contabili e di bilancio semplicemente per spostare dal comune di Roma 570 milioni, più altri 30 di debiti che non si sa perché saltano fuori solo adesso ma si dice precedenti al 2008, alla parte commissariale. Questi 570 milioni erano stati posti come compensazione per la gestione della parte commissariale, erano dovuti e, quindi, erano un debito scritto nei bilanci della capitale, erogato poi effettivamente non da Roma capitale ma dalla Cassa, depositi e prestiti, che sappiamo bene che tipo di risorse gestisce, cioè quelle dei risparmiatori, di tutti gli italiani; questa somma viene praticamente sgravata dalla contabilità di Roma e viene posta sulla parte commissariale e, quindi, a carico di tutti noi, visto che lo Stato poi paga presumibilmente per circa 50 anni a colpi di 500 milioni all'anno la massa debitoria messa in corpo della parte commissariale. Ma questo non basta, ovviamente, perché la somma viene non solo ridata nella disponibilità di Roma ma anche esclusa dal conteggio del patto di stabilità – che, come sappiamo, mette in gravi difficoltà tutti gli altri 8 mila comuni italiani, mentre Roma invece viene sgravata – e lo stesso sindaco Marino, nell'audizione che abbiamo avuto recentemente nelle Commissioni riunite V e VI, ha preteso per la gestione di Roma capitale, perché la capitale d'Italia ha bisogno di una serie di leggi straordinarie.
  Per carità, noi non contestiamo questo, ma queste non sono leggi straordinarie, queste sono delle soluzioni provvisorie ed estemporanee che, a fronte di una consistente erogazione di somme per Roma capitale, non la impegna se non in modo abbastanza indeterminato e senza scadenze ben precise, ad un fumoso piano di riequilibrio triennale del deficit strutturale e dei debiti, senza per questo darle strumenti straordinari per ridurre effettivamente né la massa debitoria né il deficit strutturale; senza, quindi, risolvere in modo radicale il problema, ma solo spostandolo nel tempo.
  Per cui è facile prevedere che fra breve saremo di nuovo qui a parlare dei problemi di Roma capitale, il che servirà poi da apripista per agganciare a Roma capitale – come già avviene in questo decreto – i problemi di Napoli, di Venezia, di Chioggia e di tutti gli altri comuni che sono in dissesto e che saranno trattati come delle eccezioni, perché ovviamente Roma capitale dà anche l'esempio, in questo caso cattivo, a tutte le altre amministrazioni.
  Si allontana per questo l'obiettivo, che da noi è sempre auspicato e che è riportato anche nella legge n. 42 per l'attuazione del federalismo fiscale, secondo il quale si vogliono rendere responsabili gli amministratori locali rispetto al loro operato e, quindi, giudicabili in presa diretta dai loro cittadini che poi devono scegliere chi li dovrà amministrare.
  Signor Presidente, visto che ho saltato la relazione di minoranza per un imprevisto, chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna del testo integrale del mio intervento.

  PRESIDENTE. La Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti, ma lo consideriamo come testo completo della replica.Pag. 46
  Ha facoltà di replicare il relatore per la maggioranza, onorevole Melilli.

  FABIO MELILLI, Relatore per la maggioranza per la V Commissione. Signor Presidente, mi riservo di intervenire nel prosieguo della discussione.

  PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare il rappresentante del Governo.

  GIOVANNI LEGNINI, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Signor Presidente, il Governo si riserva di replicare alle osservazioni puntuali che sono state formulate, da ultimo dall'onorevole Lombardi, durante il corso della discussione degli emendamenti, poiché gli emendamenti stessi, almeno quelli che sono stati introdotti nella fase della discussione in Commissione, vertono, per larga parte, sui temi medesimi, condividendo peraltro molte delle considerazioni di carattere generale che sono state svolte durante il dibattito.

  PRESIDENTE. Fermo restando che il Governo può intervenire quando vuole, però questa è la sede della replica; poi il Governo, se vorrà intervenire durante il seguito dell'esame del provvedimento, avrà facoltà di farlo.
  Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Annunzio della convocazione della Commissione parlamentare di inchiesta sui fenomeni della contraffazione, della pirateria in campo commerciale e del commercio abusivo per la sua costituzione.

  PRESIDENTE. Comunico che la Commissione parlamentare di inchiesta sui fenomeni della contraffazione, della pirateria in campo commerciale e del commercio abusivo è convocata per giovedì 10 aprile 2014, alle ore 13,30, presso la sede di Palazzo San Macuto, per procedere alla propria costituzione.

Ordine del giorno della seduta di domani.

  PRESIDENTE. Comunico l'ordine del giorno della seduta di domani.

  Martedì 8 aprile 2014, alle 9,30:

  1. – Svolgimento di una interpellanza e di interrogazioni.

  (ore 11 e al termine del punto 7)

  2. – Seguito della discussione della proposta di legge:
   S. 1224-1256-1304-1305 - D'INIZIATIVA DEI SENATORI: FEDELI ed altri; ALBERTI CASELLATI ed altri; AMORUSO; CALDEROLI: Modifiche alla legge 24 gennaio 1979, n. 18, recante norme per l'elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all'Italia, in materia di garanzie per la rappresentanza di genere, e relative disposizioni transitorie inerenti alle elezioni da svolgere nell'anno 2014 (Approvata, in un testo unificato, dal Senato) (C. 2213).
   e delle abbinate proposte di legge: CICU; MOSCA ed altri; CAPELLI ed altri; MARGUERETTAZ ed altri; VARGIU; BRUNO BOSSIO ed altri; FRANCESCO SANNA ed altri; BALDUZZI ed altri; PISICCHIO; MIGLIORE ed altri (C. 144-792-958-1216-1357-1473-1545-1878-1916-1933).
  — Relatore: Sisto.

  3. – Seguito della discussione del disegno di legge:
   Conversione in legge del decreto-legge 6 marzo 2014, n. 16, recante disposizioni urgenti in materia di finanza locale, nonché misure volte a garantire la funzionalità dei servizi svolti nelle istituzioni scolastiche (C. 2162-A).
  — Relatori: Melilli (per la V Commissione) e Bernardo (per la VI Commissione), per la maggioranza; Busin, di minoranza.

Pag. 47

  4. – Seguito della discussione del disegno di legge:
   Ratifica ed esecuzione del Protocollo concernente le preoccupazioni del popolo irlandese relative al Trattato di Lisbona, fatto a Bruxelles il 13 giugno 2012 (C. 1619).
  — Relatore: Picchi.

  5. – Seguito della discussione delle mozioni Molea ed altri n. 1-00327, Lacquaniti ed altri n. 1-00388, Abrignani e Palese n. 1-00394, Schirò ed altri n. 1-00395, Allasia ed altri n. 1-00396, Prodani ed altri n. 1-00397, Benamati ed altri n. 1-00401 e Pagano ed altri n. 1-00402 concernenti iniziative a sostegno del settore del turismo.

  6. – Seguito della discussione delle mozioni Giancarlo Giorgetti ed altri n. 1-00339, Palese ed altri n. 1-00414, Piccone e Dorina Bianchi n. 1-00415, Braga ed altri n. 1-00416, Zan ed altri n. 1-00417, Gigli ed altri n. 1-00418, Segoni ed altri n. 1-00419 e Matarrese ed altri n. 1-00421 concernenti iniziative per l'esclusione dai vincoli previsti dal Patto di stabilità interno delle spese volte a finanziare interventi di contrasto al dissesto idrogeologico.

  (ore 13,30)

  7. – Votazione per l'elezione di un Segretario di Presidenza, ai sensi dell'articolo 5, commi 5 e 6, del Regolamento.

  La seduta termina alle 17,20.

TESTO INTEGRALE DELL'INTERVENTO DEL RELATORE DI MINORANZA FILIPPO BUSIN IN SEDE DI REPLICA SUL DISEGNO DI LEGGE DI CONVERSIONE N. 2162-A

  FILIPPO BUSIN, Relatore di minoranza. Presidente, Sottosegretario, onorevoli colleghi ! Abbiamo predisposto questa relazione di minoranza con l'intento di lasciare agli atti in modo inequivocabile il dissenso del nostro gruppo su questo decreto, per una serie di ragioni di buonsenso e senza alcun preconcetto.
  In primo luogo il decreto-legge n. 16 del 2014 in esame opera una «sanatoria» degli effetti determinati da due decreti mai convertiti: il 126/2013 del 31 ottobre scorso (cosiddetto Salvaroma 1) ed il 151/2013 discusso nei primi mesi di quest'anno (Salvaroma 2).
  Questo elemento è stato considerato solo marginalmente dalle Commissioni referenti, ma comporta effetti sostanziali e, ahimè, incostituzionali: nel tentativo di eludere il principio costituzionale che preclude di reiterare decreti non convertiti, il Governo ha scelto di fare salvi gli effetti di entrambe i precedenti «Salvaroma» (comma 2 del disegno di legge di conversione).
  In questo modo ha esercitato un potere che non gli compete: l'ultimo comma dell'articolo 77 della Costituzione stabilisce infatti che sono «le Camere» l'unica istituzione che può «regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti».
  Oltre allo strumento (il decreto legge) e al metodo (reiterazione di decreti) contestiamo nettamente anche i contenuti di questo provvedimento.
  L'articolo 1 interviene in materia di TARI e TASI, imposte introdotte solo 3 mesi fa con la legge di stabilità 2014, ma già bisognose di «manutenzione». L'intervento operato dal decreto è una limatura (in aumento ! !) di un sistema di imposizione immobiliare del tutto schizofrenico, ingestibile sia per i cittadini che per i comuni, che al momento crea caos, incertezza di gettito, incertezza di pagamento senza contare gli effetti depressivi che hanno sul mercato immobiliare che, come tutti i mercati, ha bisogno di regole certe per funzionare al meglio.
  Si creano nuove tasse senza che ad esse corrisponda direttamente, come dovrebbe, un miglioramento dei servizi.
  E non può che essere così, a nostro avviso, fino a che non verrà attuato un federalismo fiscale vero, che tramuti le Pag. 48imposte locali in assunzione di responsabilità da parte degli enti, fuori dalle maglie di una legislazione accentrata che scarica sui comuni (soprattutto su quelli virtuosi) i buchi di bilancio dello Stato e degli enti irresponsabili.
  Non è stata accolta finora nessuna delle nostre proposte volta a fissare il principio che, nella ripartizione delle risorse assegnate ai comuni anche da questo decreto, debbano essere premiati i comuni virtuosi.
  E per «comuni virtuosi» ci siamo limitati a pretendere che non abbiano richiesto interventi esterni per ripianare i loro disavanzi, che non si trovino in gestione commissariale o che siano in grado di riscuotere adeguatamente i tributi dai propri cittadini.
  Nessun criterio di virtuosità è stato premiato fino ad ora mentre, come vedremo in seguito, numerosi sono stati i premi per chi ha male amministrato.
  L'articolo 2 non è altro che un insieme di ritocchi a vari «errori», alcuni clamorosi, contenuti nella legge di stabilità appena approvata e che ha rivelato subito tutte le sue falle. Una confessione di incapacità, insomma, e nulla più, senza alcuna omogeneità né all'interno dell'articolo né con il resto del provvedimento.
  Non condividiamo il contenuto dell'articolo 3, scritto su misura per risolvere i problemi di un comune particolare, quello di Napoli, ed estendibile solo ad altri comuni amministrati in maniera irresponsabile e pertanto sull'orlo del dissesto.
  Riteniamo sbagliato sostenere questi comuni senza mettere gli amministratori di fronte alle responsabilità del dissesto che hanno provocato: sappiamo infatti che questi bilanci in rosso non sono dovuti a qualche fato avverso o a calamità funeste, ma a gestioni superficiali o peggio clientelari.
  La Corte dei Conti della Campania ha adottato la deliberazione del 20 gennaio 2014 n. 12 con la quale rileva una situazione finanziaria di dissesto. Il bilancio di Napoli per la Corte «continuava a presentare una rilevante massa di residui attivi» sui quali però i magistrati contabili rilevano «l'insussistenza potenziale».
  Ciò significa che i crediti relativi a imposte, trasferimenti o multe che il Comune dichiara di avere a bilancio probabilmente non saranno mai davvero riscossi, per incapacità o convenienza politica.
  I giudici contabili hanno constatato che una delle fonti principali del dissesto è costituita dalla incapacità dell'amministrazione di procedere alla riscossione fiscale di sua competenza, determinando un tasso di evasione da parte dei cittadini partenopei assolutamente patologica: tra il 2009 e il 2011 i tributi propri, così come le multe per infrazioni al codice della strada, sarebbero stati evasi per più del 50 per cento.
  IMU, ICI, Tarsu, non vengono pagati affatto da più della metà dei napoletani, che non pagano nemmeno le multe stradali. Scrive infatti la Corte dei Conti che più del 30 per cento delle contravvenzioni non vengono pagate, percentuale peraltro in crescita.
  La deliberazione della Corte stigmatizza inoltre il costo del personale del Comune, che sarebbe stato riportato con valori sottostimati nel bilancio presentato. Come sottolineano ancora i giudici mancano nella voce del personale dai 52 milioni del 2014 ai quasi 100 del 2022.
  Il Comune di Napoli ha proposto un piano di riequilibrio che dovrebbe essere lo strumento per farlo uscire dal dissesto, ma il Piano è stato rigettato dalla Corte che doveva validarlo. Per la Corte, il Comune di Napoli «esprime l'assenza, da parte dell'Ente, di un effettivo controllo delle operazioni poste in essere e di quelle da intraprendere».
  La risposta del Governo non è stata quella di imporre un immediato commissariamento per porre fine a questo scempio ma di allungare i tempi e dare alla stessa amministrazione la possibilità di proporre un nuovo piano, senza che nulla faccia pensare che esso sarà migliore o più efficace del precedente. Nel frattempo sono però sospese tutte le misure esecutive nei confronti dell'ente, e, in deroga alle Pag. 49norme vigenti, Napoli avrà un termine triennale, anziché biennale, per il raggiungimento dell'equilibrio di bilancio !
  L'unica reazione del sindaco di Napoli alla deliberazione della Corte dei Conti, che attesta la palese incapacità dell'amministrazione comunale di assolvere i propri doveri, è stata quella di invocare un «Salvanapoli» da parte del Governo, ad imitazione del decreto «Salvaroma».
  Eccolo accontentato. E come dargli torto. Il «Salvaroma» ha aperto una strada, indicato una via.
  Con l'articolo 9, mentre si fanno regalie ai comuni dissestati, si mettono a regime i tagli lineari ed indiscriminati a tutti gli altri enti locali. Le riduzioni sono definite nella misura di 7 milioni di euro per le province e di 118 milioni di euro per i comuni da applicarsi a tutti gli enti in proporzione alla popolazione residente.
  L'articolo 13 riguarda un finanziamento attribuito nel 2008 al Comune di Lampedusa e Linosa, pari a 1.421.021,13 euro, che il Comune non è stato capace di impiegare per le opere in conto capitale che erano a suo tempo state pianificate per lo sviluppo urbano.
  Il decreto stabilisce che quei soldi vengano comunque dati al Comune inadempiente senza più alcun vincolo di utilizzo per investimenti ma per generiche spese legate «all'accoglienza dei profughi e ai bisogni primari della comunità isolana».
  Nettissima la nostra contrarietà all'articolo 16, erede dei precedenti Salvaroma. Fughiamo innanzitutto ogni dubbio e denunciamo la disonestà intellettuale di chi ancora sostiene in quest'Aula, sapendo di mentire, che il decreto non eroga fondi al Comune Capitolino.
  L'aiuto economico a Roma è costruito, attraverso un esercizio legislativo-contabile, in modo tale che i buchi di bilancio di oggi vengano nascosti in un contenitore che verrà pagato da tutti i contribuenti fino alla notte dei tempi.
  Nel 2008, di fronte al debito plurimiliardario della Capitale fu adottata una norma di commissariamento molto speciale: non una gestione affidata ad un soggetto indipendente incaricato di rimettere in ordine i conti; nel caso di Roma gestione commissariale significa scorporare i passivi del comune, cancellarli con puro artificio contabile dal bilancio, inserirli in una contabilità diversa, una sorta di bad company, e rovesciarli sul bilancio dello Stato, cioè su tutto il resto del Paese.
  Nel 2008 (con l'articolo 78 del decreto-legge n. 112 del 2008), quasi 17 miliardi di debiti di Roma furono trasferiti in gestione commissariale. Da allora, e fino all'esaurimento del debito (non prevedibile ma finora stimata almeno fino al 2048), lo Stato deve sborsare ogni anno milioni di euro; ma da allora Roma è riuscita già ad accumulare quasi un altro miliardo di debiti.
  Fin troppo facile, con questo decreto, spostare altri debiti sulla bad company: si cancellano dal bilancio di Roma, ma non spariscono, vanno nel buco nero del bilancio del commissario che tutti noi dobbiamo ripianare.
  Pagheremo i debiti di Roma, al ritmo di 500 milioni all'anno, per i prossimi 50 anni !
  Come se ciò non bastasse, con un vero schiaffo a tutti i Comuni virtuosi del resto del Paese, tutti gli importi corrispondenti ai debiti di Roma spostati sulla bad company verranno usati da Roma per la spesa corrente ed esclusi dal Patto di stabilità !
  Il decreto usa tante formule diverse per ottenere lo stesso risultato: salvare il bilancio del sindaco PD della Capitale dalla bancarotta certa: prima di tutto si trasferiscono altri 115 miliardi (non solo i 30 scritti nel testo ma gli 85 già trasferiti dai due decreti ritirati e poi sanati) alla bad company.
  Si autorizza poi Roma a rientrare nella titolarità di crediti non quantificati e non precisati verso proprie partecipate, iscrivendo come poste attive nel bilancio del comune le stesse poste che erano già state dichiarate inesigibili e consentendole di compensarli con i crediti delle partecipate.
  Il decreto inoltre trasforma i fondi del Commissario, stanziati per coprire i conti di gestione della bad company, in debiti della parte commissariale, fondi trasferiti poi alla gestione corrente della Capitale. Pag. 50La cifra totale, sommata a quanto già ottenuto da Roma con i due decreti Salvaroma precedenti e non convertiti, è pari a 570 milioni di euro.
  La presa in giro raggiunge il culmine con l'arroganza del sindaco Marino, che chiamato dalle Commissioni referenti a rendere conto di un debito così vergognoso e delle drastiche misure che avrebbe dovuto intraprendere per farvi fronte, ha preteso invece altri soldi perché a suo dire «gli oneri della capitale devono essere coperti dalla fiscalità generale», e i soldi di Roma «devono essere fuori dalla gabbia del patto di stabilità perché Roma deve poterli spendere».
  Tutti gli altri 8.000 comuni d'Italia, invece, si arrangino. Nonostante i nostri emendamenti, nessun aggravio di addizionale IRPEF potrà essere chiesto ai cittadini, diversamente da quanto aveva stabilito il Salvaroma 1.
  Non ci si nasconda dietro alla pressione fiscale: i cittadini devono rendersi conto della cattiva gestione dei propri amministratori e poter, con il proprio voto, giudicarli per la propria condotta.
  Nessuna misura veramente efficace di ristrutturazione dell'universo delle partecipate e degli sprechi del Campidoglio è imposta con questo decreto, al di là di un piano di ricognizione delle misure da attuare.
  Si scriverà forse quel che dovrebbe essere fatto, ma non c’è nessuna garanzia che poi effettivamente le misure siano applicate.
  Una bella vetrina per ingannare i cittadini e non cambiare nulla.
  Su questo decreto la Lega Nord ed Autonomie ha presentato numerosi emendamenti con intento costruttivo, tesi a migliorare il testo e ad offrire spunti per evitare in futuro di dovere ricorrere ad ulteriori interventi «salvifici» nei confronti degli stessi enti che a questo punto sono molto probabili anzi, quasi certi.
  Confidiamo che l'Aula vorrà ascoltare le nostre proposte e approvare un decreto più efficace e lungimirante di quello presentato dal Governo, e per questo non abbiamo ritenuto di presentare un testo alternativo.