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Resoconto dell'Assemblea

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XVII LEGISLATURA


Resoconto stenografico dell'Assemblea

Seduta n. 129 di lunedì 2 dicembre 2013

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PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE SIMONE BALDELLI

  La seduta comincia alle 10,30.

  ANNA MARGHERITA MIOTTO, Segretario, legge il processo verbale della seduta del 29 novembre 2013.
  (È approvato).

Missioni.

  PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del Regolamento, i deputati Alfreider, Alli, Amici, Archi, Baretta, Berretta, Bindi, Bocci, Boccia, Michele Bordo, Brambilla, Bray, Brunetta, Caparini, Carrozza, Casero, Castiglione, Causin, Censore, Cicchitto, Costa, D'Alia, Dambruoso, De Girolamo, Dell'Aringa, Dellai, Di Battista, Di Gioia, Di Lello, Epifani, Fassina, Fico, Gregorio Fontana, Fontanelli, Formisano, Franceschini, Galan, Alberto Giorgetti, Giancarlo Giorgetti, Guidesi, Kyenge, La Russa, Legnini, Letta, Lorenzin, Lupi, Manciulli, Merlo, Migliore, Mogherini, Nicoletti, Orlando, Pes, Gianluca Pini, Pisicchio, Pistelli, Realacci, Sani, Speranza, Tabacci, Valentini e Vitelli sono in missione a decorrere dalla seduta odierna.
  Pertanto i deputati in missione sono complessivamente sessantotto, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell’allegato A al resoconto della seduta odierna.

  Ulteriori comunicazioni all'Assemblea saranno pubblicate nell’allegato A al resoconto della seduta odierna.

  Saluto gli insegnanti e gli studenti dell'Istituto comprensivo statale Mazzantini di Roma e dell'Istituto paritario della scuola pontificia Pio IX di Roma, che stanno assistendo ai nostri lavori dalle tribune.

Discussione del disegno di legge: Disposizioni sulle Città metropolitane, sulle Province, sulle unioni e fusioni di Comuni (A.C. 1542-A); e delle abbinate proposte di legge Melilli; Guerra ed altri (A.C. 1408-1737).

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge n. 1542-A: Disposizioni sulle Città metropolitane, sulle Province, sulle unioni e fusioni di Comuni; e delle abbinate proposte di legge d'iniziativa dei deputati Melilli; Guerra ed altri, nn. 1408 e 1737.
  Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).

(Discussione sulle linee generali – A.C. 1542-A)

  PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
  Avverto che i presidenti dei gruppi parlamentari Sinistra Ecologia Libertà e Partito Democratico ne hanno chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del Regolamento.
  Avverto, altresì, che la I Commissione (Affari costituzionali) si intende autorizzata a riferire oralmente.Pag. 2
  Ha facoltà di intervenire il relatore per la maggioranza, deputato Gianclaudio Bressa.

  GIANCLAUDIO BRESSA, Relatore per la maggioranza. Signor Presidente, proprio in relazione all'ultima cosa che lei ha detto – relatore per la maggioranza – devo fare una precisazione iniziale. Poiché durante la discussione in Commissione sono intervenuti dei fatti politici anche indipendenti dal dibattito relativo a questo provvedimento e vi è stata una variazione nella maggioranza che sostiene il Governo, le chiederei l'autorizzazione a depositare la relazione che illustra puntualmente l'articolato, poiché tra me e la mia collega relatrice, onorevole Centemero, vi sono dei punti di diversità e pertanto sarebbe inappropriato che svolgessimo una funzione illustrativa in qualche modo divergente.
  Per cui, consegno la parte relativa all'illustrazione dell'articolato e mi limito a fare delle osservazioni politiche di carattere generale. Se lei consente, mi comporterei in questo modo.

  PRESIDENTE. Lei può consegnare la relazione e intervenire o anche fare riferimento alla relazione svolta.

  GIANCLAUDIO BRESSA, Relatore per la maggioranza. Ho senz'altro intenzione di intervenire, però, per quanto riguarda l'illustrazione puntuale, consegnerei un testo più articolato, in modo tale da illustrare punto per punto i 23 articoli.

  PRESIDENTE. La Presidenza lo consente sulla base dei criteri costantemente seguiti.

  GIANCLAUDIO BRESSA, Relatore per la maggioranza. Così come concordato, affronterò alcune questioni fondamentali che hanno accompagnato il dibattito, la prima e la più importante delle quali è la costituzionalità del provvedimento; la seconda è il tema dell'elezione diretta degli organismi rappresentativi; la terza riguarda le funzioni fondamentali dell'area vasta e la quarta le unioni dei comuni.
  Inizio facendo riferimento alla sentenza n. 220 del 2013 della Corte costituzionale, che ha chiarito una serie di questioni relative alla riforma delle province. La prima: il nodo della dimensione provinciale non nasce con il problema del risanamento finanziario, né può integralmente esaurirsi in esso, ma costituisce una questione storica dell'articolazione territoriale amministrativa italiana.
  Secondo punto: proprio perché non ci si deve basare solo su finalità di risanamento finanziario, non si può intervenire solo dall’«alto», in modo poco rispettoso del principio di sussidiarietà.
  Terzo punto: per questo, la possibilità di operare riforme che sono destinate, in forza della loro complessità e della loro aspirazione, a durare nel tempo deve considerarsi necessariamente estranea alla necessità ed urgenza che caratterizzano e condizionano la fonte di cui all'articolo 77 della Costituzione, e quindi non si possono fare con decreto-legge.
  Quarto: questo significa restituire un ruolo centrale e decisivo al Parlamento e alla possibilità di dispiegarsi del dibattito parlamentare, cosa che è puntualmente avvenuta nei lavori in Commissione, tanto è vero che il testo presentato dal Governo è stato profondamente modificato.
  Quinto: la sentenza non chiude affatto, come è ovvio, il problema della riforma, ma anzi lo apre, sottolineando come sia compito degli attori istituzionali trovare linee di trasformazione dei livelli territoriali di amministrazione rispetto alle quali la Corte non sembra volerli vincolare in maniera rigida, ma che non per questo ovviamente potranno sottrarsi ai vincoli imposti dalla Costituzione.
  Come sesta e ultima considerazione, cito testualmente dalla sentenza: «La Corte afferma che i propri argomenti non portano alla conclusione che sull'ordinamento degli enti locali si possa intervenire solo con legge costituzionale, indispensabile solo se si intenda sopprimere uno degli enti previsti dall'articolo 114 della Costituzione o comunque si voglia togliere allo stesso la garanzia costituzionale».Pag. 3
  Così, credo sia stata fatta chiarezza sulla assoluta legittimità costituzionale dell'intervento che abbiamo in esame oggi, qui in Aula.
  La seconda questione riguarda l'elezione diretta degli organismi rappresentativi. Bisogna tenere distinte, quando si affronta questo tema, la città metropolitana dalle province. Una premessa: la provincia, anche quando nasce, è un ente ambivalente. Se noi andiamo a riprendere la relazione del Ministro Rattazzi al Nuovo ordinamento comunale e provinciale del 23 ottobre 1859, possiamo leggere: «Le province si affacciano simultaneamente come organi del Governo rispetto alle popolazioni e come organi di queste rispetto al Governo». Siamo, cioè, in una dimensione che fin dal nascere delle province è ambivalente, tanto è vero che, dal 1859 in avanti, comincia una sorta di balletto istituzionale. Nel 1865 la legge per l'unificazione amministrativa del Regno d'Italia mette a capo della provincia il prefetto. Nel 1889 il presidente viene eletto dal Consiglio provinciale. Arriviamo all'epoca del fascismo e nel 1934, con l'adozione del TUEL, il testo unico sugli enti locali, si prevede che sia un presidente di nomina governativa a reggere la provincia. Si badi bene che il TUEL è rimasto in vigore fino alla legge n. 142 della 1990, salvo l'innesto dell'elezione democratica del presidente della provincia nel 1951, con la legge n. 122.
  Ma tutto questo che cosa significa ? Significa che il carattere politico-rappresentativo degli organi provinciali non era presente ai Costituenti del 1947, perché solo nel 1951 il prefetto viene sostituito da un presidente elettivo.
  Non mi sembra, quindi, che la previsione costituzionale di per se stessa delle province costituisca un sicuro baluardo posto a garanzia della loro natura di enti politici rappresentativi e necessari. Si veda a questo proposito anche la sentenza della Corte costituzionale n. 96 del 1968, che non ha escluso la possibilità di forme elettorali di secondo grado, poiché – cito testualmente – «del resto, sono prevedute dalla Costituzione proprio per la più alta carica dello Stato (l'articolo 83 per l'elezione del Presidente della Repubblica)».
  Per quanto riguarda la città metropolitana, il discorso è diverso, ma altrettanto netto. In Europa esistono due modelli di riferimento: la città metropolitana francese (e qui vale aprire una parentesi: il Grand Paris è ancora in discussione in Parlamento, ma anche in questo caso si prevede sempre un'elezione di secondo livello da parte del Consiglio della futura Métropole), e l'altro esempio importante a livello europeo è il modello della grande Londra.
  Le città metropolitane francesi prevedono un'elezione di secondo livello; il sindaco è eletto dai consiglieri di Parigi tra i consiglieri medesimi, che sono 163 e che sono eletti contestualmente ai consiglieri dei municipi (gli arrondissement). I consiglieri di Parigi sono contemporaneamente consiglieri dei municipi.
  L'altro importante esempio è quello della grande Londra: l'elezione del sindaco avviene direttamente. Bisogna però ricordare che Londra è divisa, non è un'entità unica e unitaria: vi è la City of London e vi sono trentadue boroughs, cioè trentadue dimensioni amministrative, alcune delle quali riguardano la Inner London e altre la Londra esterna.
  La competenza per reggere questa capitale, questa metropoli, è dell'Autorità della Grande Londra, che è costituita dal sindaco e dal consiglio cittadino. La funzione della GLA, l'Authority che regge le sorti della Greater London, è quella di coordinare i trentadue boroughs, la pianificazione urbana e la gestione dei servizi strategici.
  La proposta che è all'esame dell'Aula segue in maniera originale, ma sostanziale, questi due percorsi e prevede l'elezione di secondo grado da parte di tutti consiglieri comunali dell'area metropolitana del consiglio metropolitano, che sarà presieduto dal sindaco del comune capoluogo, che è sindaco della città metropolitana; oppure prevede l'elezione diretta, definita dallo statuto e che una legge elettorale statale deve poi regolare, a condizione della divisione del comune capoluogo in più comuni. Pag. 4Si fa un'eccezione per le città sopra i 3 milioni di abitanti (Milano, Napoli e Roma), che, anziché dividersi in più comuni, possono articolare il territorio del comune capoluogo in zone dotate di autonomia amministrativa. E, quindi, avviene un processo al contrario: anziché divisione in comuni, divisione del comune capoluogo in entità amministrative omogenee.
  Quello che, però, è certo è che non è possibile, non è pensabile – non solo perché non è previsto in nessuna parte dell'Europa, ma perché è contro ogni tipo di logica – avere due elezioni dirette del sindaco del comune capoluogo e del sindaco della città metropolitana. Questo logicamente non si tiene e sarebbe fonte di grande confusione, mettendo in forse l'esistenza e la razionalità stessa della città metropolitana.
  Il sistema elettorale che è stato adottato sia per le province che per le città metropolitane è stato costruito dividendo il territorio in fasce demografiche omogenee e assegnando un voto ponderato, che fa sì che nessuna fascia possa rappresentare più del 35 per cento della popolazione complessiva e che un solo comune possa essere rappresentato oltre il 45 per cento della popolazione stessa. L'articolo 16 regola le funzioni di Roma Capitale come città metropolitana.
  La terza questione che voglio affrontare riguarda le funzioni fondamentali. Con questo disegno di legge si esce finalmente dall'equivoco dell'area vasta. Superato l'equivoco del decreto del Governo Monti, il decreto «salva Italia», che aveva spogliato le province di tutte le funzioni che esulassero dall'indirizzo e coordinamento di attribuzioni comunali, si sono definite le funzioni di area vasta, che sono le funzioni non attribuibili ai comuni e che vengono individuate, non tanto in applicazione di un criterio dimensionale, ma in rapporto alle loro caratteristiche intrinseche, al loro contenuto. Si sono così definite anche le province interamente montane, proprio in relazione alla specificità delle loro funzioni legate alla specificità del territorio montano.
  Arrivando a definire in maniera così precisa le funzioni di area vasta, si capisce anche che noi non stiamo parlando di un provvedimento transitorio, ma stiamo organizzando le funzioni di area vasta così come è avvenuto e avviene in tutti i Paesi europei, cioè quella dimensione intermedia tra i comuni e la regione, che è presente in tutte le democrazie europee.
  Si è chiarito che l'area vasta non è un consorzio di comuni, né tanto meno una grande unione di comuni, ma un ente di secondo livello, non direttamente legittimato dal voto popolare, ma espressione territoriale dei comuni, per impedire sovrapposizioni di competenze e conflitti politici. È intrinsecamente raccordato con le regioni, che possono riorganizzare le proprie funzioni amministrative come meglio ritengono.
  Si ottiene così il risultato che i comuni possono cedere la gestione di proprie competenze all'area vasta – posso fare un esempio per tutti: le scuole secondarie – e che la regione eviti di «amministrativizzare» se stessa, cedendo funzioni all'area vasta e privilegiando la propria vocazione costituzionale di ente di legislazione e di programmazione.
  Il fatto che le funzioni fondamentali siano definite con legge dello Stato garantisce anche da tentazioni neocentraliste da parte della regione.
  Sempre a proposito delle questioni fondamentali, due importanti norme sono state introdotte con il disegno di legge. La prima, all'articolo 15, quarto comma, dove si prevede che nel caso specifico in cui normative statali e regionali riguardanti servizi a rete di rilevanza economica prevedano l'attribuzione di funzioni di organizzazione dei predetti servizi di competenza comunale o provinciale ad enti o agenzie in ambito provinciale o sub-provinciale, le leggi statali o regionali prevedono la soppressione di tali enti o agenzie e l'attribuzione delle funzioni alle province nel nuovo assetto istituzionale. Questo significa incidere in modo diretto sulle centinaia, se non migliaia, di enti intermedi Pag. 5tra regioni e comuni, uniformando alla dimensione di area vasta la gestione di questi servizi a rete.
  La seconda importante norma è l'ottavo comma dell'articolo 23, che prevede l'abrogazione delle disposizioni vigenti che prevedono obbligatoriamente il livello provinciale dell'organizzazione periferica delle amministrazioni dello Stato.
  Il combinato disposto di queste norme può dar vita alla più importante riforma dell'amministrazione pubblica oggi pensabile, lasciando che siano finalmente le regioni a modellare l'area vasta secondo le specifiche caratteristiche del loro rispettivo territorio e lo Stato a riorganizzare sul territorio le proprie attuali funzioni amministrative decentrate. Se davvero riuscissimo a fare questo, avremmo garantito la più importante riforma dell'amministrazione pubblica da quando è stata approvata la Costituzione repubblicana.
  L'ultima questione che voglio affrontare riguarda l'unione e la fusione dei comuni, tema strategico se noi partiamo dal presupposto che i comuni con più di 100 mila abitanti sono solo 46, mentre sotto i 5 mila abitanti abbiamo circa 5.700 comuni. Ebbene, il disegno di legge ha semplificato la giungla normativa risultante da troppi interventi succedutisi nel tempo, ha agevolato i processi di unione e fusione, ha restituito democrazia a invarianza di spesa. Qui faccio un esempio, perché qualche giornale ha ripreso questo come l'unico elemento di novità del disegno di legge, dimostrando, ancora una volta, che la stampa non è attenta alle norme per quello che sono, ma alle norme per quello che si vorrebbe fossero. Un autorevole quotidiano ha detto che adesso con questa proposta si «restituiscono» gli assessori ai comuni sotto i mille abitanti. Ha omesso che questo avviene senza nessun aggravio di spesa, perché i bilanci dei comuni non verranno appesantiti da nessun maggiore onere.
  Io vorrei, però, fare un esempio, così magari anche la stampa, facendo degli esempi, è in grado di capire di più di quanto non sia accaduto leggendo la semplice norma. Introdurre di nuovo le giunte per i comuni sotto i mille abitanti, per un massimo di due assessori, che cosa significa ? Attualmente, un sindaco di un comune fino ai mille abitanti guadagna 1.200 euro lordi al mese, se è in aspettativa, cioè se fa solo quello. Nel caso contrario, c’è una riduzione del 50 per cento. Se noi dovessimo introdurre due assessori, questi due assessori prenderebbero 120 euro lordi al mese se in aspettativa – e dubito che uno possa vivere con 120 euro lordi al mese – e il 50 per cento se non si è in aspettativa. Stiamo parlando, quindi, di 60 euro lordi al mese che, ovviamente, verrebbero decurtati dai capitoli di bilancio che servono per pagare il sindaco perché non si prevede nessuna maggiore spesa.
  Ma questo, oltre che a essere un elemento di maggiore democraticità per un comune, ha anche un effetto molto importante, perché un assessore può assumere direttamente la responsabilità degli uffici (del personale, dell'edilizia, della ragioneria) e, nel momento in cui un assessore dovesse assumere la responsabilità di questo servizio, si potrebbe fare a meno di un dipendente assunto (ad esempio, un ragioniere o un geometra) che ha un costo di 12 mila euro all'anno. Stiamo parlando, quindi, di un risparmio netto e di nessun aggravio.
  Come ho cercato di spiegare, questo disegno di legge non ha alcuna casualità, non ha alcuna transitorietà, ma è un tentativo estremamente serio di definire per la prima volta quali sono le competenze dell'area vasta, di definire che cosa sia l'area vasta dal punto di vista amministrativo e di avviare, per le cose che ho appena ricordato, un importantissimo processo di razionalizzazione, sia istituzionale che amministrativa, per il Paese.
  La Commissione ha lavorato molto intensamente e, a mio modo di vedere, molto seriamente. Credo che l'Aula sarà chiamata a correggere quegli aspetti che non si sono potuti compiutamente affrontare durante i lavori di Commissione e che consegnerà al Senato un testo profondamente riformatore. Credo che questa sia la strada giusta per far sì che questo nostro Pag. 6Paese esca dalle chiacchiere, dalla propaganda e cominci davvero a fare riforme.

  PRESIDENTE. Ha facoltà di intervenire la relatrice per la maggioranza, onorevole Elena Centemero.

  ELENA CENTEMERO, Relatore per la maggioranza. Signor Presidente, anche per quanto mi riguarda, il mio sarà un intervento che parte da una considerazione politica. Esattamente come l'onorevole Bressa, voglio sottolineare che, nella scorsa settimana, nell'ambito del lavoro parlamentare che riguarda il disegno di legge sul riordino – se così si può chiamare – delle province, città metropolitane e unioni di comuni, è intervenuto un fatto politico di grande importanza, che, oggi, proprio qui, con le dimissioni che mi appresto a dare dal mio mandato di relatore, segna proprio il passaggio della forza politica che rappresento, la quale, dalla maggioranza, in cui si trovava ad essere pochi giorni fa, si trova ad essere forza di minoranza e di opposizione. Quindi, innanzitutto, queste dimissioni da relatore hanno una valenza che segna un passaggio politico all'interno di questa legislatura, ma non sono solo collegate a un fatto politico e di grande rilevanza che è sotto gli occhi di tutta la nazione, bensì sono anche legate al merito del provvedimento.
  Certo, il lavoro che abbiamo compiuto in Commissione è stato un lavoro ampio, c’è stato un lungo dibattito e un lungo confronto, però – leggendo le carte delle Commissioni bicamerali di riforma che hanno riguardato l'architettura dello Stato, quindi anche la riforma degli enti territoriali, quali possono essere le province o l'introduzione delle città metropolitane – si evince sempre una cosa di grande importanza, che ci deve accompagnare sempre in un processo di riforma, cioè la necessità di trovare dei punti di incontro, dei punti di mediazione e, soprattutto, dei punti, nel processo riformatore, che tengano conto del confronto con la società civile e con i cittadini.
  Proprio all'interno del procedimento di discussione in Commissione di questo provvedimento, sono emersi dei giudizi contrastanti, che sono provenuti dalle regioni, le quali, in questo procedimento di riforma, in questo provvedimento che vuole essere di riforma degli enti locali, sono le «Cenerentole», sono dimenticate, non solo da parte delle regioni. Noi abbiamo, infatti, anche assistito alla presentazione di forti criticità da parte di illustri costituzionalisti, i quali hanno messo in evidenza quanto un processo di riordino così complesso degli enti locali, che riguarda i comuni, le province, le città metropolitane, ma specificamente la parte relativa alle province, avrebbe bisogno – anzi, usiamo il tempo verbale corretto – aveva bisogno di un collegamento non ideale, non astratto, non formale, ma concreto con la riforma costituzionale.
  Questo è un punto di grande importanza, perché come Forza Italia, come forza politica abbiamo chiesto in Commissione, abbiamo evidenziato, con quella chiarezza, quella trasparenza che ci contraddistingue nell'azione politica, abbiamo indicato, da subito, questa criticità e la necessità, soprattutto, di inserire il riordino delle province, la fusione dei comuni e, soprattutto, l'istituzione delle città metropolitane all'interno del processo complessivo di riforma costituzionale e, quindi, attraverso un disegno di legge costituzionale che, è vero, è stato depositato in quest'Assemblea alla Camera, ma che non è neanche entrato in discussione.
  Il disegno di legge in oggetto è stato – è vero – modificato, come si ricordava prima, abbandonando notevolmente il testo originario, il testo base, ma è stato poco riuscito il tentativo di migliorare e di riformare gli enti locali. Manca, infatti, una visione organica che colleghi la governance territoriale di città metropolitane, province e unione di comuni con un riordino anche delle regioni. Le regioni, lo ricordavo prima, sono la Cenerentola di questo provvedimento e io credo che questo provvedimento non abbia un senso se non porti con sé anche un intervento forte ed urgente, come i cittadini ci chiedono, relativo alle regioni. Ma, soprattutto, cosa manca ? Manca una visione di insieme, Pag. 7una riforma complessiva dell'architettura del governo territoriale: avrebbe necessariamente e inderogabilmente dovuto portare con sé, come ricordavo, e legarsi strettamente alla riforma costituzionale. Mi riferisco, in particolare, all'articolo 114 e al Titolo V della Costituzione, come molti costituzionalisti hanno indicato e sottolineato proprio nelle audizioni in Commissione.
  Si è, poi, molto parlato di due punti su cui vorrei soffermarmi e che sono la base della nostra scelta politica che, lo ripeto, è sempre stata chiara in un confronto leale con le forze della maggioranza di cui facevamo parte. Mi riferisco, innanzitutto, alle città metropolitane; le città metropolitane, che sono contenute e di cui si parla, appunto, al Capo II di questo disegno di legge, sono individuate in nove città, più la città di Roma capitale, e sono: Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria, che, ricordiamoci, è una città commissariata in questo momento.
  Ecco, noi crediamo fortemente che non tutte queste aree, così come succede nel modello francese prima ricordato dal collega Bressa, possano avere ed essere riconosciute, tutte quante, con un identico status. In Francia, noi ci troviamo di fronte a tre grandi città metropolitane, a tre grandi aree metropolitane che sono: Parigi, Marsiglia e Lione e, poi, altre aree metropolitane con uno status differente. Inoltre, il territorio della città metropolitana, in questo disegno di legge, non coincide, necessariamente, con quello della provincia omonima. Che cosa vuol dire ? Vuol dire che noi ci troveremmo di fronte, signor Ministro, ad una realtà in cui, oltre ad avere la città capoluogo, oltre ad avere la città metropolitana, ci troveremmo di fronte alla cosiddetta provincia «ciambella»: cioè, alcuni comuni possono decidere con un procedimento facilitato di uscita rispetto ad un procedimento, invece, costituzionale, con una disomogeneità di trattamento, ovviamente, tra comuni che vogliono entrare e comuni che vogliono uscire dall'area metropolitana.
  Ci troveremmo di fronte ad una realtà per cui può sussistere, sul territorio di quella che era una vecchia provincia e del comune capoluogo, la città metropolitana e – lo voglio ripetere perché questo concetto sia chiaro e rimanga agli atti di quest'Assemblea parlamentare – persino una provincia «ciambella». Questo, ovviamente, senza costi aggiuntivi, quando, nella relazione della Corte dei conti – e questo è un altro punto che noi riteniamo di grande importanza – si è rilevato che la presenza della cosiddetta provincia aggiuntiva o «ciambella», come la si voglia chiamare, ha invece dei costi, prevedrà dei costi.
  Accanto a questo c’è un altro aspetto che ci ha preoccupato profondamente, collegato alla città metropolitana; si tratta del fatto che di diritto il sindaco della città capoluogo sia il sindaco della città metropolitana.
  L'ascolto che abbiamo fatto come forza politica in questo lungo cammino che ci ha accompagnato in questi mesi in ordine al disegno di legge Delrio sulle città metropolitane, il confronto, quindi, con i nostri amministratori locali, con gli amministratori locali di varie parti politiche con molti cittadini chiedeva invece che il sindaco della città metropolitana potesse essere espresso – penso a realtà molto ampie come possono essere città metropolitane che sono al di sopra dei tre milioni di abitanti (in Italia sono: Milano, Napoli e Roma capitale) – tramite una scelta diretta da parte dei cittadini a suffragio universale.
  Certo, formalmente il disegno di legge in esame stabilisce che lo statuto possa prevedere che i cittadini che risiedano sul territorio della città metropolitana possano scegliere direttamente il sindaco salvo, però, un piccolo particolare, che noi sappiamo benissimo che non si realizzerà mai, che è quello di dividere il comune capoluogo in comuni, in aree omogenee autonome dal punto di vista amministrativo. Questo di diritto; questo automatismo ci ha preoccupato e ci preoccupa molto perché non risponde alle richieste dei nostri cittadini, così come ci preoccupa Pag. 8molto uno statuto che è panacea di tutti i mali: io ricordo sempre cosa successe quando alle università fu lasciata la facoltà di scrivere i propri statuti. Nonostante qui sia previsto un provvedimento di intervento da parte dello Stato, io credo sia stata sotto gli occhi di tutti la difficoltà enorme che le università trovarono; credo che anche questo statuto, panacea di tutti i mali, in cui viene messo tutto quanto sia un grande punto di debolezza di questo disegno di legge.
  Oltre a questo, la farraginosità e la complessità della fase istitutiva.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE MARINA SERENI (ore 11,05).

  ELENA CENTEMERO, Relatore per la maggioranza. Veda signor Ministro, noi siamo sempre stati e siamo profondamente una forza riformatrice; ci siamo confrontati in Commissione, ci siamo confrontati nel corso delle passate legislature per dar vita ad un processo di riforma complessivo dell'architettura dello Stato. Ora qui ci troviamo di fronte, ed è un punto, una criticità che le abbiamo – con lealtà, con la chiarezza e la trasparenza della nostra azione politica – sempre sottoposto, ad una fase di inizio, di start up delle città metropolitane che rischia davvero di fare naufragare questo provvedimento. Le città metropolitane sono un'innovazione – è vero – all'interno di questo Paese, cioè ci portano verso l'Europa; ma in che modo ci portano verso l'Europa ? Con una pletora di città metropolitane decise da noi, decise dall'alto, decise dallo Stato senza coinvolgere le regioni. Ciò vale anche per le province: ci troveremo di fronte a città metropolitane che hanno un numero di abitanti inferiore a delle aree vaste che saranno enti, nuove province. Di fatto succederà questo. Una farraginosità che porterà addirittura la bozza di statuto ad essere redatta da sindaci che comporranno una sorta di conferenza costituente, sindaci il cui mandato andrà a scadere a breve, entro il 30 giugno 2014. Noi sappiamo che in molte amministrazioni ci sarà il cambio di quello che è il governo comunale, proprio in seguito alle elezioni. Per questo noi crediamo che sarebbe stato necessario un procedimento più disteso.
  Un procedimento, soprattutto, che tenesse conto maggiormente delle realtà territoriali, dei piccoli comuni che, per essere parte di una città metropolitana, si devono sentire coinvolti, si devono sentire parte, cuore di questa città metropolitana, ma credo che questo qui non ci sia proprio.
  Terzo punto: le province. Abbiamo discusso a lungo anche di questo; abbiamo letto titoli sui giornali e abbiamo assistito tutti quanti, in campagna elettorale, sia nel 2008 che nel 2013 che nella scorsa legislatura, a promesse nelle quali si diceva: «aboliamo le province».
  Dal 2010 in avanti i vari Governi sono stati decisamente impegnati in questa abolizione delle province, ma più che ad una abolizione delle province si è assistito a una serie di provvedimenti che ne prevedevano l'accorpamento, la fusione; e abbiamo visto che nessuno di questi provvedimenti ha avuto un esito positivo, così come credo anche questa riorganizzazione delle province, perché di fatto esse rimangono. Infatti, finché non si abolirà dall'articolo 114 della Costituzione la parola «Province», finché non si rivedrà quello che è il ruolo delle regioni e finché non si darà un vero corpo alle Unioni di comuni, alle fusioni di comuni, come in tal senso c’è un tentativo di fare in questo disegno di legge, io credo che qualsiasi progetto di abolizione delle province o di riordino delle province non avrà un esito positivo.
  Soprattutto – e lo ripeto –, questo provvedimento non abolisce le province, crea un altro ente. Questo deve essere chiaro ai nostri cittadini. Un ente di area vasta, un ente in cui il presidente della provincia sta in carica quattro anni ed è un sindaco, in cui, poi, il consiglio provinciale dura in carica due anni, ruotando, e le cui funzioni sono ridotte, ma a cui poi potranno essere trasferite altre funzioni a seconda di cosa decidono i comuni, di cosa decidono le regioni. Di fatto, dobbiamo dirlo con chiarezza, non si aboliscono le province: si fa un provvedimento in cui si Pag. 9organizzano enti di area vasta prima della riforma costituzionale, prima dell'abolizione della parola «Province», che noi abbiamo chiesto con forza per cui abbiamo anche presentato una proposta di legge.
  Ma, soprattutto, noi abbiamo dialogato con il Governo, abbiamo contribuito anche a porre dei cambiamenti, come, ad esempio, la necessità, che io credo fondamentale, che le diramazioni dello Stato sul territorio non coincidano con le circoscrizioni provinciali. Noi sappiamo benissimo che la riorganizzazione degli uffici governativi territoriali si era arenata all'interno della Commissione affari costituzionali, ma sappiamo che è altrettanto necessario che vengano accorpati, non solo su base provinciale e pluriprovinciale, ma anche su base regionale. Ecco – ed è il merito su cui mi sono soffermata, perché la scelta politica è stata evidente fin dall'inizio dal significato delle mie dimissioni come relatore –, nel merito, lo voglio indicare con quella chiarezza che appunto mi contraddistingue, in questo disegno di legge di cosiddetta riforma manca la funzionalità, l'economicità, l'efficacia ed economicità, che sono dei principi fondamentali dell'azione dello Stato sul territorio.
  Concludo dicendo che noi, come Forza Italia, crediamo e abbiamo sempre creduto nella necessità di riformare l'architettura dello Stato in un'ottica sussidiaria, che quindi desse valore alle realtà e alle autonomie locali. Abbiamo sempre voluto valorizzare le autonomie territoriali secondo i principi costituzionali di differenziazione e adeguatezza. Per far questo c’è bisogno – e l'ho già detto, lo voglio però ribadire con forza – di un dialogo. C'era bisogno di un dialogo aperto e costruttivo che superasse approcci e culture diverse, che cercasse punti di compatibilità, ma non che volesse impostare, mantenere e perpetrare il proprio modello come unico modello ed esclusivo.
  A questo dialogo e confronto noi non ci siamo mai sottratti perché ci guida la consapevolezza e la responsabilità civile di ammodernare il nostro Stato, gli enti territoriali, per realizzare un modello istituzionale più efficiente, garanzia di equilibrio tra i poteri, anche a livello locale: equilibrio tra comuni, unioni di comuni, enti di area vasta, ma soprattutto equilibrio tra città metropolitane e regioni. Noi non vogliamo trovarci di fronte ad un'altra realtà conflittuale esattamente come è stata quella della legislazione concorrente tra Stato e regioni nel Titolo V della Costituzione. Noi vogliamo realizzare un modello basato sulla funzionalità e sulla economicità. Questa riforma purtroppo manca, lo ripeto, di funzionalità, efficacia, efficienza ed economicità. Manca di un confronto critico e costruttivo con il Paese perché le province non si aboliscono. Manca dell'ascolto dell'opinione di molti, manca del rapporto con i nostri cittadini.
  Chiudo, riprendendo le parole di Massimo D'Alema, Presidente della Commissione bicamerale per le riforme, che diceva nella sua relazione: «L'esperienza dimostra che nessuno può guidare compiutamente processi così complessi e i processi complessi non si guidano da soli, si guidano insieme ai cittadini, si guidano con tutte le forze politiche e che si ascoltano».
  Per questo ribadisco le mie dimissioni e già dichiaro che Forza Italia voterà contro questo provvedimento.

  PRESIDENTE. Onorevole Centemero, la Presidenza prende atto delle sue dimissioni dal mandato di relatrice per la maggioranza.
  Ha facoltà di intervenire il relatore di minoranza, deputato Matteo Bragantini. Ne ha facoltà.

  MATTEO BRAGANTINI, Relatore di minoranza. Signor Presidente, signor Ministro, onorevoli colleghi, il testo approvato dalla maggioranza nelle Commissioni non può ritenersi in alcun modo soddisfacente. Il provvedimento, così come formulato è privo di una visione strategica e programmatica, incapace di fornire ai cittadini prospettive di medio-lungo periodo fondate sul rilancio del Paese attraverso una politica seria di razionalizzazione della spesa pubblica e di efficientamento della pubblica amministrazione.Pag. 10
  Nel quadro della straordinaria situazione di crisi economico-finanziaria, con il fine di contribuire al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica imposti dagli obblighi europei necessari per il raggiungimento del pareggio di bilancio, in una azione complessiva di riduzione degli apparati amministrativi quali fonte di spesa pubblica, i Governi che si sono succeduti dalla passata legislatura ad oggi hanno messo in atto, in modo estemporaneo, confuso irrazionale e soprattutto incostituzionale, interventi legislativi mirati alla soppressione delle province.
  Dopo la sentenza della Corte Costituzionale, che ha censurato gli interventi normativi sulle Province operati dal precedente Governo, ci saremmo aspettati che il nuovo Esecutivo avviasse una nuova fase di riflessione e di confronto, per segnare una netta discontinuità con i provvedimenti censurati, sia nella forma che nella sostanza, e per ripristinare la leale collaborazione istituzionale, seguendo la raccomandazione inviata all'Italia dal Consiglio d'Europa nel marzo 2013.
  Si insiste, invece, nella strada – dimostratasi errata – di emanare provvedimenti di dubbia costituzionalità, non per risolvere i problemi del Paese, ma per «dare segnali». Non a caso i testi e le relazioni che li accompagnano hanno contenuti formali e sostanziali che delegittimano le province, quali istituzioni della Repubblica e gli amministratori che le rappresentano.
  Quello che troppo spesso si trascura, invece, è che siamo da oltre un anno alle prese con un caos istituzionale che ha determinato gravi danni per i cittadini, che si sono visti tagliare le risorse destinate alla scuola, alle strade, alla formazione, alla difesa del suolo, all'occupazione e al lavoro, proprio a causa delle norme che tendono a svuotare le istituzioni provinciali.
  Prima di entrare nel merito del disegno di legge in esame è necessario avanzare alcune considerazioni sul tema. La Consulta il 3 luglio ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della riforma delle province. Secondo la Consulta, «il decreto-legge, atto destinato a fronteggiare casi straordinari di necessità e urgenza, è strumento normativo non utilizzabile per realizzare una riforma organica e di sistema quale quella prevista dalle norme censurate nel presente giudizio».
  Per questo motivo, la Corte costituzionale, in camera di consiglio «ha dichiarato l'illegittimità costituzionale: dell'articolo 23, commi 4, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21-bis del decreto-legge del 6 dicembre 2011, n. 201, convertito con modificazioni dall'articolo 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214; degli articoli 17 e 18 del decreto-legge 6 luglio 2012 n. 95, convertito con modificazioni, dall'articolo 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 135 per violazione dell'articolo 77 della Costituzione, in relazione agli articoli 117, comma 2, lettera p) e 133, comma 1, della Costituzione».
  Nella XVI legislatura una delle questioni su cui si è incentrato il dibattito politico è stata, proprio, la riforma del sistema provinciale. In Parlamento si è discusso prima la soppressione delle province, poi la riforma del sistema elettorale e poi il trasferimento della competenza a disciplinarle dallo Stato alle regioni.
  L'iter di riordino delle province nelle regioni a statuto ordinario prende l'avvio con l'articolo 23, commi n. 14-21, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, recante disposizioni urgenti per la crescita, l'equità e il consolidamento dei conti pubblici – il cosiddetto decreto-legge Salva Italia – convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214. Il provvedimento, tra le diverse misure volte al contenimento della spesa pubblica, dispone una profonda riforma del sistema delle province: ad esse sono affidate esclusivamente funzioni di indirizzo politico e di coordinamento.
  Si dispone inoltre la riduzione del numero dei consiglieri provinciali e la loro elezione indiretta da parte dei consigli comunali. Il provvedimento è stato fatto oggetto di ricorsi per illegittimità costituzionale da parte di diverse regioni, ma la Corte Costituzionale, con decreto del 5 novembre 2012, ha disposto il rinvio a Pag. 11nuovo ruolo dell'udienza sui ricorsi. Il Presidente della Consulta ha ritenuto di non entrare nel merito di una materia ancora in evoluzione.
  La riforma è proseguita con il decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, che, agli articoli 17 e 18, prevede il riordino delle province, sulla base di requisiti minimi demo-territoriali, e l'istituzione delle città metropolitane. Anche sugli articoli 17 e 18 del decreto-legge n. 95 del 2012, alcune Regioni (Calabria, Campania, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Lombardia, Molise, Piemonte, Sardegna e Veneto) hanno presentato ricorso alla Corte costituzionale.
  Con deliberazione del Consiglio dei Ministri 20 luglio 2012 «Determinazione dei criteri per il riordino delle province, a norma dell'articolo 17, comma 2, del decreto-legge 6 luglio del 2012, n. 95» sono stati determinati i requisiti minimi che le province devono possedere. Il decreto-legge 5 novembre 2012, n. 188 «Disposizioni urgenti in materia di province e città metropolitane» aveva disegnato il nuovo assetto delle province nelle regioni a statuto ordinario anche sulla base delle proposte avanzate dalle stesse Regioni.
  Il procedimento di riordino conteneva l'elenco delle province delle regioni a statuto ordinario come sarebbero dovute risultare a decorrere dal 1o gennaio 2014: anche a seguito delle dimissioni rassegnate dal Presidente del Consiglio, in data 10 dicembre 2012 la Commissione affari costituzionali del Senato decide di interrompere l'esame del disegno di legge di conversione del decreto legge 5 novembre 2012 n. 188. Con l'articolo 1, comma 115, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, recante disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2013), l'applicazione delle disposizioni previste dal decreto-legge cosiddetto Salva Italia, relative alla riforma delle province, è sospesa fino al 31 dicembre 2013, al fine di consentire la riforma organica della rappresentanza locale e di garantire il conseguimento dei risparmi previsti. Il processo di riordino delle province viene pertanto «congelato» e per tutto il 2013 si garantisce la continuità delle funzioni provinciali.
  Da ultimo, il Governo non ha affrontato il gravissimo vuoto aperto dai commissariamenti illegittimi delle province a seguito della pubblicazione della sentenza della Corte, ma ha riproposto anche nella legge di stabilità, la proroga delle gestioni commissariali esistenti, impedendo in questo modo la rielezione degli organi di governo delle province da parte dei cittadini.
  Tutto ciò, in violazione delle disposizioni dell'articolo 1 della Costituzione, che dispone in modo chiaro, la sovranità appartiene al popolo e il popolo esercita tale sovranità nelle forme e nei limiti previsti dalla stessa Costituzione. Il riconoscimento del diritto di voto e le sue caratteristiche, enunciate nel secondo comma dell'articolo 48, concorrono pertanto alla definizione dello Stato come Stato democratico. Attraverso di esso si realizza, infatti, principio di organizzazione che caratterizza ogni democrazia, in forza del quale ogni decisione deve essere direttamente o indirettamente ricondotta alle scelte compiute del popolo, detentore della sovranità.
  Il principio fondamentale della rappresentanza elettorale sancito nella nostra Costituzione è garantito anche dal diritto dell'Unione europea. Il Trattato di Lisbona riunisce in un apposito titolo (Titolo II del TUE «Disposizioni relative ai principi democratici») le disposizioni intese a conferire maggiore visibilità al principio democratico insito nel funzionamento dell'Unione.
  Tale principio viene affermato e specificato nelle sue diverse configurazioni: la democrazia come rappresentanza e la democrazia come partecipazione all'attività pubblica. Questo modo di agire ha creato una situazione paradossale: basti pensare che ad oggi in ben tre disegni di legge del Governo, di cui uno costituzionale, all'esame del Parlamento si affronta il tema delle province.Pag. 12
  La soppressione delle province, non accompagnata da una riforma costituzionale capace di riorganizzare in modo organico competenze e funzioni, potrebbe causare anche danni irreparabili per il bene comune del Paese. Si immagini ad esempio cosa potrebbe accadere in riferimento all'organizzazione dell'Expo 2015, che vede l'attuale provincia di Milano coinvolta a pieno titolo nella complessa organizzazione dell'evento.
  È stato dimostrato inoltre in modo inconfutabile come la soppressione delle province non comporti per la spesa pubblica risparmi degni di nota. Una soppressione delle province sic et simpliciter potrebbe paralizzare l'esercizio delle funzioni cosiddette di «area vasta», le quali rimarrebbero sospese fra il livello regionale e quello comunale. In questo modo si sta procedendo unicamente allo svuotamento delle funzioni delle province, che porterà ad un aumento a livello esponenziale dei disservizi e dei costi totali per l'esercizio delle funzioni pubbliche.
  Le funzioni storicamente attribuite alle province si riferiscono a servizi essenziali diretti al territorio e alle comunità, oltre che ai singoli cittadini, e sono state ad esse assegnate perché potessero essere gestite in maniera più razionale proprio per l'inerenza al territorio, elemento costitutivo essenziale di questo ente di area vasta, anche in connessione con i comuni di minore dimensione per popolazione e superficie territoriale. Una scelta oggi irrinunciabile, se si considera che in questi anni le province non solo sono riuscite a rendere più efficienti i servizi, ma hanno anche utilizzato virtuosamente le risorse pubbliche: come dimostra, da ultimo, la vicenda dei pagamenti alle imprese. Merita infatti ricordare che ad oggi le province sono l'unico comparto pubblico che può certificare il pagamento di oltre l'87 per cento dei debiti pregressi, come consentito dal decreto-legge n. 35 del 2013. Fin dai trenta giorni successivi all'emanazione del decreto-legge hanno smaltito il 70 per cento degli spazi finanziari fino ad allora concessi, in linea con gli obblighi comunitari sui tempi di pagamento.
  Le regioni non possono essere obbligate a trasferire alle unioni di comuni le funzioni amministrative che rientrano nella sfera di disciplina di loro competenza. Se si porterà a termine lo spostamento delle funzioni sui comuni e sulle unioni di comuni, che non hanno strutture tecniche per gestirle, le diseconomie saranno evidenti, e le difficoltà delle amministrazioni bloccheranno qualunque percorso di maggiore virtuosità nella gestione dei servizi.
  Come ha già evidenziato la ricerca dell'Università Bocconi del 6 dicembre 2011, il trasferimento di funzioni dalle province verso i comuni non migliora l'efficienza del sistema: «Il confronto con i livelli di efficienza dei comuni, mediamente inferiori a quelli delle province, mette in evidenza i rischi di un trasferimento di funzioni verso il basso. Proprio questo aspetto, invece, indica che la via dell'efficientamento può essere percorsa in senso inverso, valorizzando la funzione di assistenza che le province possono attuare nei confronti dei comuni e degli enti locali del territorio». Si passerà, infatti, dagli attuali 107 enti di area vasta ad una moltiplicazione di enti (già oggi ci sono oltre 370 unioni che non coprono tutto il territorio nazionale), con l'indebolimento della capacità amministrativa, come ci insegna la scienza dell'amministrazione.
  Questa scelta è compiuta in un quadro di totale assenza di certezza circa il numero e la dimensione demografica delle unioni di comuni, che dovranno subentrare nelle funzioni provinciali: allo stato attuale, infatti, le 370 unioni di comuni interessano 1.881 comuni su oltre 8.000, e solo 7,7 milioni di abitanti su circa 60 milioni. Si tratta dunque di una realtà assolutamente parziale e frammentata, che non appare idonea ad ereditare le funzioni di area vasta tipicamente provinciali.
  Questa scelta è errata soprattutto per quelle funzioni di area vasta che non possono essere gestite al meglio qualora frammentate. Ciò è evidente in particolare per la gestione degli edifici scolastici delle scuole superiori: spostare la gestione dei 5.000 edifici scolastici dalle province alle unioni di Comuni diminuirà la capacità di Pag. 13razionalizzare la rete scolastica e di conseguire economie di scala, moltiplicherà i centri di spesa e le centrali di committenza, aumenterà i costi di gestione corrente (utenze, riscaldamento) e i costi degli investimenti.
  Lo stesso ragionamento è facilmente replicabile per altre funzioni delle province, nelle quali in questi anni si è operato un investimento consistente sul piano delle risorse finanziarie e strumentali e del personale impiegato.
  Ma anche ove le funzioni provinciali fossero assunte dalle regioni le inefficienze sarebbero evidenti. Infatti, la regione non è un ente preposto all'erogazione di funzioni amministrative e servizi in connessione con il territorio, bensì un ente di legislazione e pianificazione. Per ricevere le funzioni provinciali, perciò, le regioni dovrebbero riorganizzarsi profondamente. Ma il passaggio alle regioni determinerebbe un aumento dei costi: in primo luogo di quelli relativi al personale, vista la differenza del trattamento stipendiale tra il personale provinciale e regionale; in secondo luogo attraverso un'ulteriore proliferazione di enti strumentali, agenzie e società regionali, che è stata oggetto di una valutazione critica della Corte dei conti nella sua Relazione sulla gestione finanziaria delle regioni.
  Relativamente all'impostazione delle norme sulle unioni di comuni, infine, occorre ricordare che da più parti – e dalla stessa Corte costituzionale – è stato osservato che la normativa sull'associazionismo comunale è di competenza del legislatore regionale e deve tenere conto delle specificità regionali, poiché l'articolazione dei comuni è molto differente da regione a regione.
  Le disposizioni del disegno di legge introducono ulteriori norme ordinamentali sulle unioni di comuni senza superare la confusa e contraddittoria legislazione nazionale in materia che sta creando molti problemi tra i piccoli comuni e senza incentivare seriamente i processi di associazionismo obbligatorio per l'esercizio delle funzioni fondamentali o, in alternativa, le fusioni tra comuni.
  È importante, inoltre, ricordare che nel corso delle audizioni che la Commissione affari costituzionali della Camera dei deputati ha svolto in ordine al presente disegno di legge, la Corte dei conti ha depositato un documento nel quale, dopo aver rappresentato il contesto di riferimento e gli obiettivi del disegno di legge stesso, ha individuato alcuni punti di criticità – sul versante istituzionale, ma soprattutto sul versante finanziario – che offrono importanti spunti di riflessione.
  Nell'inquadrare il contesto di riferimento la Corte ha affermato che «non si può ritenere che il progetto centri l'obiettivo del riordino dell'intervento pubblico sul territorio e della semplificazione dell'intermediazione pubblica in applicazione dei principi di sussidiarietà, efficacia ed efficienza». Le perplessità della Corte, che comunque sottolinea la necessità di ridisegno delle competenze e delle strutture di governo del territorio verso una razionalizzazione per garantire riduzioni di spesa, sono correlate alla «ricerca del modello più efficiente per allocare le funzioni del territorio, che dovrebbe tendere ad evitare duplicazioni di funzioni e che dovrebbe estendersi anche all'attività degli organismi partecipati ai quali sovente è affidata la gestione dei servizi pubblici e delle funzioni strumentali», «circa 5.500 enti che, dall'analisi della Corte nell'ultimo referto al Parlamento sulla finanza degli enti locali, si rivelano, in molti casi, come fonte di perdite per gli enti istituzionali».
  Entrando nel merito dei singoli aspetti disciplinati dal disegno di legge, la Corte poi si sofferma sull'attuazione delle città metropolitane, sottolineando anche in questo caso perplessità in ordine alla chiarezza di ruoli e compiti e alle potenziali maggiori spese connesse a questa scarsa chiarezza, «tuttavia, l'istituzione delle città metropolitane e la ridefinizione delle funzioni delle province determinano la coesistenza di due enti di area vasta con compiti che in una certa misura e per determinati aspetti, quali il coordinamento dell'azione degli enti locali, potrebbero non sfuggire al rischio di sovrapposizione».Pag. 14
  Ed ancora: «Incombe il rischio che la provvisorietà degli assetti istituzionali conseguenti alle innovazioni del disegno di legge in esame possa conoscere tempi di trascinamento non brevi; in tal caso la prolungata coesistenza di aree metropolitane e di province risulterebbe foriera di maggiori oneri».
  Venendo poi alla questione più strettamente connessa alla revisione delle province, la Corte dei conti osserva che «la finalità di fondo di tale innovazione dovrebbe essere incentrata sulla prevista riduzione di spesa. Al riguardo è da notare che negli ultimi anni la finanza provinciale ha subito un progressivo ridimensionamento in qualche modo legato ad un latente processo di revisione del loro ruolo. In tale contesto le restrizioni finanziarie hanno spinto le province ad avviare una attenta revisione della spesa».
  Nel merito dei risparmi potenziali ottenibili dalla riduzione tout court delle spese afferenti alla funzione 1 di amministrazione generale e controllo, come riportato in audizione dal Ministro Delrio secondo studi del Ministero per gli affari regionali e le autonomie, la Corte osserva che «allo stato attuale, tuttavia è difficile determinare quali possano essere gli effettivi risparmi oltre a quelli già rappresentati, sia perché le poste contabili afferenti alla funzione 1 costituiscono un coacervo di voci di spesa indifferenziate dalle quali è obiettivamente problematico enucleare quanto interessa ai fini di questa disamina (a parte la spesa per il personale che è ineliminabile) sia perché l'analisi sconta soluzioni operative di attuazione del disegno di legge attualmente non conosciute».
  Ed infine: «La relazione tecnica, infatti, afferma che la riforma non comporta oneri, ma è ragionevole ipotizzare, almeno nella fase di transizione, che il trasferimento di personale e funzioni ad altri enti territoriali, con il loro subentro in tutti i rapporti, abbia un costo sia in termini economici sia in termini organizzativi».
  Avviandomi alle conclusioni, al fine di adempiere ad una riforma capace, da un lato, di razionalizzare la spesa pubblica e, dall'altro lato, di non paralizzare il Paese è necessario attribuire alla responsabilità delle singole regioni il compito di disciplinare le modalità di esercizio delle funzioni di area vasta, tenendo conto dei connotati particolari del proprio territorio. Ad esempio, potranno essere considerati indici quali l'assetto istituzionale (il numero dei comuni), la densità di popolazione, gli aspetti morfologici e fattori socio-economici.
  Le riforme costituzionali in materia dovranno riguardare anche la semplificazione complessiva dell'amministrazione locale, regionale e statale, imponendo a tutti gli enti territoriali di sopprimere enti, agenzie ed organismi, comunque denominati e proibendo di istituirne di nuovi al fine di svolgere funzioni di governo di area vasta.
  Noi riteniamo poi gravissimo che anche questa volta si sia persa l'occasione di sopprimere le prefetture. Le competenze amministrative che le varie leggi hanno attribuito al prefetto sono state in buona parte assorbite dai decreti legislativi che hanno trasferito funzioni già dello Stato alle regioni.
  Ciò nondimeno, il prefetto non ha perso le funzioni di longa manus del potere politico e amministrativo centrale. Già Luigi Einaudi, nel 1944, affermò che la figura del prefetto si presentava come ostacolo a un ordinamento veramente democratico. Le competenze frammentate e generiche, peraltro accompagnate da una competenza generale sulla tutela dell'ordine pubblico attraverso la possibilità di un uso in via immediata della forza pubblica stessa, fanno del prefetto uno strumento di autorità coercitiva con una forte valenza politica.
  Benché il Ministro dell'interno non si avvalga più della facoltà di nominare i cosiddetti «prefetti politici» fino a un massimo dei due quinti dei prefetti, questa figura rappresenta di fatto il sistema politico commistivo le cui linee di forza passano attraverso Ministeri e Governo. È innegabile che, avendo il prefetto facoltà di fornire un servizio di ordine pubblico con ampi poteri di discrezionalità, la leva, Pag. 15anche psicologica, dell'autorità dell'ordine pubblico può dimostrarsi un fattore determinante per condizionare politicamente le autorità locali.
  Conseguentemente, il prefetto è in netta contrapposizione con le esigenze di decentramento dello Stato a favore delle autonomie locali, che sono portatrici di interessi di diversa natura. Per questa ragione, in un'ottica di riforma dello Stato in senso federale, ovvero di distinzione tra le attribuzioni in capo allo Stato, alle regioni e agli altri enti locali, il prefetto è una figura della pubblica amministrazione che deve necessariamente essere abolita.
  In conclusione, come non sottolineare che, sul tema della soppressione delle province, la posizione dei partiti che sostengono l'attuale Governo non è affatto chiara. In data 6 novembre il presidente dell'ANCI, Piero Fassino, nonché esponente di spicco del Partito Democratico, nel corso di un'audizione informale, presso la I Commissione (Affari costituzionali) della Camera dei Deputati, durante l'iter d'esame dell'Atto Camera 1542, l'attuale, quello che stiamo discutendo, ha dichiarato, senza del resto essere smentito dal Governo né dal suo stesso partito, che nessuno vuole sopprimere le province.
  È ovvio, quindi, che questo Esecutivo sta lavorando in modo equivoco, da un lato, propagandando una linea dura di abolizione dell'ente locale territoriale e, dall'altro lato, intervenendo solo con modifiche formali e non sostanziali. In data 18 novembre, in un convegno tenutosi a Roma, organizzato dal Financial Times, il Presidente del Consiglio ha annunciato che prima della prossima estate saranno approvate definitivamente le riforme costituzionali.
  Noi riteniamo, quindi, che il luogo dove affrontare in modo razionale la riorganizzazione degli enti locali territoriali deve essere quello delle già programmate riforme costituzionali, affidando direttamente alle competenze regionali la riorganizzazione di nuove forme associative per l'esercizio delle funzioni di governo di area vasta, nonché la relativa soppressione di tutti gli enti intermedi.
  Per le ragioni sopraesposte, rimaniamo critici ed insoddisfatti sull'impostazione del progetto di legge all'esame. Tuttavia, auspichiamo un miglioramento del provvedimento, anche con l'approvazione dei nostri emendamenti, ed è per questo motivo che non abbiamo ritenuto necessario presentare un testo alternativo, oltre al concetto importante che, a nostro avviso, questa riforma deve essere fatta solo con una riforma costituzionale e facendo veramente, come si è detto più di una volta in Commissione, un ragionamento più ampio e complessivo.

  PRESIDENTE. Ha facoltà di intervenire il rappresentante del Governo.

  GRAZIANO DELRIO, Ministro per gli affari regionali e le autonomie. Signor Presidente, intanto devo ringraziare molto il lavoro della Commissione affari costituzionali della Camera, il presidente e tutti i membri, per il dibattito proficuo che abbiamo avviato durante i lavori della Commissione, che credo abbia contribuito in maniera seria a migliorare un testo di legge che noi riteniamo di importanza strategica per il Paese.
  Non mi pare molto credibile l'osservazione secondo la quale manca un quadro di insieme. Un quadro di insieme che comprende unione di comuni, province e città metropolitane per il riordino istituzionale comprende davvero il 99,9 per cento degli organi previsti dal nostro quadro istituzionale. È chiaro che inserire qui una riforma delle regioni avrebbe significato, ovviamente, andare entro confini e campi non di competenza di un disegno di legge, ma più che altro riservati alla revisione del Titolo V, alle competenze rispettive di Stato e regioni, e quindi avrebbe significato, sostanzialmente, porsi un obiettivo non credibile.
  In questo Paese, troppo spesso le riforme sono fallite esattamente per questo motivo, perché non si è ritenuto, come dire, di fare passi avanti, ma si è ritenuto di aspirare a un ottimo, che poi non si è mai concretizzato. C’è una malattia che si potrebbe definire del «benaltrismo»: c’è Pag. 16sempre ben altro da fare quando si tratta di cambiare le cose. E quanto siano profondi i cambiamenti determinati da questo disegno di legge lo dimostrano diverse questioni: in primo luogo, il fatto che si sia sviluppato un vero dibattito approfondito a vari livelli, a livello dei territori, a livello delle regioni, a livello degli enti locali, a livello delle forze politiche. Credo che questo abbia un enorme significato. Ma se tutto questo si concretizzasse ancora una volta in un blocco di queste riforme, in una loro non attuazione, credo che aumenteremmo ulteriormente il distacco dei nostri cittadini dalla politica e dalla capacità del Parlamento di decidere in maniera efficace nuove forme di organizzazione dei corpi della Repubblica.
  Noi siamo profondamente convinti che il progetto di legge sia improntato a principi di autonomia, di rispetto delle autonomie. Abbiamo una visione molto chiara che è stata qui espressa dal Presidente del Consiglio, e cioè che il sistema istituzionale italiano deve basarsi su due pilastri: il primo è quello delle regioni, l'altro è quello dei comuni. L'articolo 118, comma 1, della Costituzione recita che le funzioni amministrative sono attribuite ai comuni salvo che – salvo che –, per esigenze di sussidiarietà, vengono attribuite a province, città metropolitane e regioni. Quindi, le funzioni amministrative in capo ai comuni – questo disegno di legge è stato criticato per essere eccessivamente centrato sui comuni – secondo noi rappresentano invece un elemento di forza e un elemento di coerenza con lo spirito costituzionale e anche un elemento di efficacia, perché troppo spesso in questo Paese abbiamo assistito a duplicazioni sulle funzioni amministrative. Vi sono troppi enti che si occupano delle stesse cose e questo è uno dei motivi per cui il federalismo in cui noi crediamo e che noi crediamo sia una straordinaria risorsa per questo Paese, perché riteniamo che il principio di autonomia sia una straordinaria risorsa per questo Paese, non è decollato. Uno dei motivi per cui il federalismo italiano non è decollato, oltre che per la mancata determinazione da parte dei decreti attuativi della legge n. 42, è anche proprio esattamente per il fatto che non vi sia stata chiarezza nell'attribuzione delle funzioni e che la carta delle autonomie sia stata per troppo tempo rimandata e poi mai declinata definitivamente. Noi pensiamo, quindi, che questo disegno di legge, siamo sicuri che questo disegno di legge, contribuirà in maniera molto forte a definire un quadro di insieme di funzioni precise, attribuite a ogni livello di Governo e con compiti, credo, rilevanti per l'efficacia e l'efficienza del nostro sistema. La gran parte delle funzioni presentate dal Governo per province e città metropolitane sono state mantenute.
  È evidente che, oltre ai due pilastri, regioni e comuni, nelle funzioni amministrative e nelle funzioni legislative rispettivamente, vi è il tema, in questo disegno di legge, ovviamente, dell'organizzazione della cosiddetta «area vasta». Il disegno di legge non è ambiguo, fa una scelta molto chiara. Da un lato vi sono le aree vaste di tipo metropolitano, più vocate alla competitività del Paese, al coordinamento dei servizi di rete su area vasta, più dedicati alla promozione dello sviluppo economico. Questo modello non è un modello inventato: è il modello presente in tutta Europa. Nella discussione in Commissione, si è arricchito molto il dibattito, e credo anche la conoscenza dei diversi argomenti, delle esperienze varie europee, e di questo ringrazio anche gli onorevoli che sono intervenuti in tutto il dibattito, ma credo che sia chiaro a tutti che in tutte le aree metropolitane europee non vi è elezione diretta immediata, vi è un'elezione di secondo grado, proprio perché sono enti di coordinamento, di rafforzamento, di promozione dello sviluppo economico. La grande autonomia statutaria concessa in questo disegno di legge, la grande facoltà allo statuto di disciplinare persino l'elezione diretta del sindaco metropolitano è un segno, proprio, di una strada europea, perché in tutta Europa le diverse aree metropolitane hanno modelli gestionali e organizzativi differenti, che si danno autonomamente. Quindi, ancora una volta siamo dentro un'ottica di tipo europeo. Pag. 17Vorrei ricordare che nelle città metropolitane europee e mondiali si sviluppa il 70 per cento della ricerca e dell'innovazione, si sviluppa più del 30 per cento del PIL, si sviluppano i più grandi investimenti che danno futuro, quelli relativi alla cosiddetta economia innovativa.
  Sono presenti solo nel nostro Paese quasi 20 milioni di abitanti nelle potenziali aree metropolitane, che – va detto per inciso ed è stato anche sottolineato in Commissione – sono state individuate precedentemente a questo disegno di legge. Io credo che il dibattito in Aula possa anche consentire e debba consentire nuove articolazioni metropolitane anche in altre aree che sono specificamente votate, per quantità di abitanti e per densità urbana, a questo destino.
  Ma, dicevo, il nostro Paese manca di competitività su queste aree urbane. Sono trent'anni che se ne discute e non siamo ancora riusciti ad avere altro che un elenco. In questo senso mi appello al Parlamento di decidere, di fare, di prendere una decisione definitiva. I sistemi economici italiani hanno necessità di avere reti di trasporto integrato sulle aree urbane vaste, hanno necessità di avere reti di servizi integrati sulle aree urbane vaste, hanno necessità di avere pianificazione urbanistica integrata sulle grandi aree urbane, hanno necessità cioè di essere messe in grado di competere con le grandi aree urbane europee. Milano non deve competere con Bologna e con Venezia, deve competere con Francoforte e con Zurigo, cioè con aree metropolitane che hanno capacità organizzativa, governance leggera, poteri cooperativi e non competitivi, com’è nella tradizione purtroppo del sistema italiano, in cui i poteri comunali, provinciali e regionali stanno in competizione, invece che in cooperazione, a dimostrazione che devono essere ribaltate le ottiche, le prospettive. Deve essere ribaltata in primo luogo la visione: una visione in cui al centro ci deve essere l'efficacia e l'efficienza dei servizi e la semplificazione della vita per le imprese, le famiglie e i cittadini. Quindi, le aree metropolitane con funzioni ben definite e con funzioni distinte da quelle provinciali.
  Sulle province è stato fatto un dibattito molto lungo, il Governo non è ambiguo, ha presentato due disegni di legge: uno di riforma costituzionale e di abrogazione delle province e uno di riordino dell'area vasta, in attesa che questo compito venga poi affidato, a riforma costituzionale approvata, alle regioni, come è giusto che sia. Io vorrei qui dire che non è vero che abbiamo umiliato le regioni, è stato detto da alcuni che abbiamo ridotto il ruolo delle regioni. Le regioni esprimono parere sulle proposte dei comuni di adesione alle città metropolitane, esprimo intesa per la costituzione di zone omogenee dentro la città metropolitana, fanno parte del comitato istitutivo della città metropolitana, in base all'articolo 11 prevedono delle forme di autonomia provinciale, in base all'articolo 15, comma 3, riordinano le funzioni, insieme allo Stato, e cooperano nella Conferenza unificata a disciplinare tutto, dal trasferimento di funzioni al trasferimento di personale, al trasferimento di patrimonio. Non si può certamente dire che le regioni sono escluse da questo processo di riforma.
  Credo che questo sia anche il merito della discussione che è stata fatta in maniera molto trasparente ed evidente da parte della Commissione e credo che questo anche farà definitivamente dare un giudizio di tipo differente alle regioni rispetto al loro ruolo in questo processo, perché abbiamo risposto – credo – a molte delle sollecitazioni che loro avevano espresso, condividendo l'impianto generale ma chiedendo di avere migliore chiarezza sul ruolo regionale. È chiaro poi che il ruolo regionale, non solo nelle province, non solo nelle città metropolitane, ma anche nei comuni e nelle unioni comunali è un ruolo salvaguardato dalla legge, non ridotto. Qui c’è una notevole difficoltà interpretativa tra Stato e regioni sulle competenze reciproche. Però, diciamo che i principi generali delle unioni di comuni Pag. 18rimangono di competenza statale e per questo credo che ancora una volta il testo sia stato arricchito e rafforzato.
  È stato arricchito e rafforzato non solo nella chiarezza delle funzioni attribuite alle province: quindi, poche funzioni tipiche di area vasta. Non si può dire che la manutenzione di una scuola sia una funzione di area vasta: la manutenzione di una scuola non è una funzione di area vasta. Poi può succedere che i comuni la deleghino all'area vasta per ottenere più efficacia, più efficienza nei risparmi, per aver un appalto unico di servizi. Io non nego questo, ma noi qui stiamo legiferando sulle funzioni tipiche di area vasta. E io credo che le funzioni tipiche di area vasta siano quelle di programmazione, di pianificazione. Quindi, nelle province abbiamo semplificato molto le funzioni.
  Questa riduzione di funzioni – anche se la Corte dei conti non si è arrischiata a fare in questo caso una previsione, mentre lo ha fatto quando ha il fatto rapporto di coordinamento sulla finanza pubblica nel 2013 – e questa chiarezza di funzioni sono premessa indispensabile per ottenere buoni risparmi, ottimi risparmi, che noi valutiamo sulle funzioni generali di amministrazione e di controllo, in particolare.
  Infatti, se si attua effettivamente la riforma, se vi sarà l'impegno come noi crediamo da parte di tutti, degli amministratori locali, di tutte le amministrazioni dello Stato, se vi sarà un percorso di accompagnamento come noi ci impegniamo a fare, un percorso di accompagnamento in cui il Governo è al fianco degli enti locali in questa riforma, certamente sulle funzioni generali di amministrazione e controllo che oggi valgono due miliardi e qualche decina di milioni di euro e che solo per 900 milioni di euro sono a carico del personale, ebbene, su quel miliardo e 100 milioni di euro io credo che noi potremo fare grandi risparmi. Così come li potremo fare grazie alla previsione dell'articolo 23, comma 8, dove noi non prevediamo più la coincidenza dell'organizzazione periferica dello Stato con il tessuto provinciale. E credo che questo sia un rafforzamento ulteriore di questa volontà che abbiamo.
  Così come un grande segnale di semplificazione va nell'ottica di abrogare tutti gli enti e le agenzie previsti all'articolo 15, comma 4, lettera a). E questo è un impegno di regioni e Governo. Io, peraltro, sono in contatto già da tempo con diversi presidenti di regione che, con grande spirito collaborativo e con grande forza, stanno cercando di razionalizzare enti e agenzie. Le regioni non sono solo scontrini – io lo voglio dire qui, nella solennità di quest'Aula –, ma sono anche capacità di riforma, organizzazione buona del servizio sanitario e del sistema produttivo. Quando le regioni svolgono appieno il loro compito, io credo che il sistema complessivo ne trova un grande beneficio. Noi abbiamo avuto una grande disponibilità da parte di alcuni presidenti di regione ad andare fino in fondo in questa riorganizzazione di questa pletora di enti, organismi e agenzie intermedi.
  Ma la previsione all'articolo 15, comma 4, appunto, consentirà in maniera più rafforzata questa riorganizzazione, così come lo consentirà, se il Parlamento vorrà approvarlo, l'articolo 15 della legge di stabilità dove noi prevediamo, appunto, una nuova formula di responsabilizzazione e di intervento, non in tutte le aziende, ma solo in quelle aziende partecipate che generano problemi di squilibrio di bilancio. E, quindi, credo che con questa riorganizzazione abbiamo messo in campo e mettiamo in campo ancora una volta una nuova formula di semplificazione delle nostre istituzioni.
  E io sono particolarmente soddisfatto, a nome anche del Governo, dell'approfondimento e della semplificazione fatti sulle unioni comunali. Le unioni comunali in Italia sono purtroppo ancora un desiderata, sono una realtà non compiuta. Mentre l'80 per cento della popolazione francese e il 90 per cento della popolazione tedesca e di quella spagnola stanno sotto a unioni di comuni, cioè sono dentro a comuni che lavorano in maniera associata, Pag. 19in Italia purtroppo è solo il 10-11 per cento che ha questo tipo di privilegio.
  Noi sappiamo, tra l'altro, dall'analisi dei costi standard, che vi sono grandissimi margini di miglioramento sulle funzioni generali di amministrazione e controllo, indagine sui costi standard che sta proseguendo anche in queste settimane e che presto avremo a disposizione completa, in maniera da poter anche comprendere meglio come questo federalismo italiano possa decollare; dicevo che noi sappiamo, dall'analisi dei fabbisogni dei costi standard, che, appunto, nelle dimensioni troppo piccole e nelle dimensioni troppo alte, l'efficienza della spesa si riduce moltissimo. Così come sappiamo dai fabbisogni SOSE, dall'analisi dei dati SOSE, che più del 50 per cento della spesa per funzioni generali di amministrazione e di controllo è riformabile, è possibile che venga ridotta con una buona azione amministrativa. Non sono certamente le leggi in sé che determinano risparmi assoluti, ma è il lavoro quotidiano di amministratori, di riorganizzazione, di dirigenti che determina il valore assoluto in termini di risparmi di una riforma e questo va considerato. Noi intendiamo, anche grazie alla semplificazione sulle unioni di comuni, far decollare finalmente le unioni di comuni come risorsa importantissima per l'efficacia amministrativa proprio perché la piccolissima dimensione non permette di rispondere a quell'obiettivo che ho detto essere l'obiettivo prioritario del Governo, ossia ottenere efficacia, efficienza e qualità nei servizi a famiglie ed imprese. Allora, lavorare insieme non è una condanna, ma è un'opportunità.
  Io sto girando tutta Italia per incontrare tutti i sindaci italiani, che peraltro un po’ conosco, sto facendo la vera battaglia con loro, perché molti resistono – molti resistono ! – e noi vogliamo che le regioni aiutino questo processo sempre di più: laddove viene fatto, questo porta a grandi efficienze di spesa. Vogliamo che, appunto, le regioni accompagnino questi processi, perché loro hanno, sì, davvero, la facoltà di disciplinare la varietà delle unioni comunali anche a seconda della popolazione e così via. Quindi noi crediamo che se tutti questi processi saranno avviati e approvati, saranno uno straordinario stimolo per il nostro Paese a diversi livelli per evitare, tra l'altro, la duplicazione delle funzioni che ci condanna ad una spesa inefficace.
  Questa riforma può valere molto più di qualsiasi spending review governata dall'alto, perché se i territori si autorganizzano su nuove forme più semplificate, con poco personale politico... anche se noi non siamo tra coloro che sostengono che sia sbagliato introdurre un assessore in un piccolo comune o che sia sbagliato avere dei consiglieri comunali dentro un piccolo comune, non crediamo che questo sia un intralcio al risanamento della finanza pubblica, specialmente se, come è, non ci saranno oneri per lo Stato, crediamo invece che i piccoli comuni e le piccole comunità rappresentino comunque straordinarie palestre di democrazia.
  Quindi, è chiaro che noi, qui, non ci sottraiamo alla provocazione che viene fatta quando si dice: avete rimesso gli assessori: li rimettiamo senza oneri per lo Stato, come ha detto efficacemente il relatore Bressa, ma li rimettiamo perché siamo convinti che la gestione collegiale e la gestione dei consigli comunali sia un elemento, ripeto, importante di mantenimento della democrazia e del raccordo indispensabile e necessario da parte dei comuni e delle istituzioni con i loro cittadini. Noi non dobbiamo dimenticare che questa riorganizzazione della Repubblica – che, come dice l'articolo 114, è costituita da Stato, regioni, province, comuni e città metropolitane – ecco, questa riorganizzazione, questo riordino della Repubblica può anche avvicinare e aiutare la fiducia dei cittadini verso le istituzioni.
  Io ho citato spesso il Presidente Einaudi in alcuni suoi discorsi, ma ve ne è uno che io ritengo particolarmente importante, quando egli afferma: «che cos’è la democrazia, se non il governo di se stessi e della propria comunità». Quindi io credo che proprio attraverso il governo di se stessi e l'autorganizzazione, noi avremo una grande risorsa democratica, potremo Pag. 20ripristinare un dialogo democratico più efficace e potremo avere finalmente sistemi urbani competitivi.
  Facciamole partire queste città metropolitane ! È vero, la fase di start-up è ancora un po’ complicata e mi aspetto che la discussione in Aula la semplifichi ulteriormente, non lo nascondo, ma facciamole partire, non abbiamo paura di quei tre, quattro o cinque mesi di start-up come se fossero l'ostacolo alla nascita delle città metropolitane. Sono tre, quattro o cinque mesi, non è un dramma. Sono trent'anni che aspettiamo la riforma, aiutiamoci a farla partire, poi penso che l'intelligenza degli amministratori e l'autonomia dei vari territori aiuterà, insomma, a trovare le formule giuste.
  Non dimentichiamo che molti territori già sono impegnati nella discussione per far partire le città metropolitane con una spinta che viene dal basso, soprattutto dai sistemi industriali, dai sistemi produttivi, dalle categorie di commercio, dalle categorie produttive, che chiedono un miglior coordinamento.
  Ecco, quindi, sono fiducioso che la discussione in Aula produrrà ancora miglioramenti senz'altro al testo proposto dal Governo, come già è avvenuto con la collaborazione di tutti, questo continuo a riconoscerlo e con grande onestà intellettuale da parte di tutti, sono convinto che questo dialogo continuerà per dare finalmente un segnale importante ai nostri cittadini, e cioè che siamo in grado di fare cambiamenti e non solamente di annunciarli. Il Presidente americano Obama dice spesso: non dobbiamo fare promesse che non siamo in grado di mantenere, ma dobbiamo mantenere le promesse che abbiamo fatto. Siccome in questo Parlamento è stata fatta la promessa di una riforma istituzionale profonda, dell'abolizione delle province e del riordino complessivo, io credo che questo Parlamento sarà orgogliosamente in grado di mantenere quello che ha promesso.

  PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Daniela Gasparini. Ne ha facoltà.

  DANIELA MATILDE MARIA GASPARINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, credo che siamo di fronte a un momento storico per il Paese, un momento atteso dalle comunità locali, perché, di fatto, da molto tempo, siamo in una sorta di stallo, in attesa di riforme che possano rendere più efficace ed efficiente l'azione amministrativa. Devo dire che una delle frasi più sentite in tutti questi anni è: capire chi fa che cosa; da questo punto di vista, abbiamo, di fatto, spesso complicato il percorso della vita dei cittadini e delle imprese, creando loro confusione fra quelle che sono le competenze.
  Questo disegno di legge inizia un'importante riforma che riguarda gli enti locali e io ho trovato il titolo di un saggio che mi piace molto, il saggio di un gruppo di Rivara che dice: il comune cuore del nuovo Stato; infatti, penso che questo disegno di legge, nella sostanza, chiami i comuni a svolgere un ruolo strategico per quanto riguarda le riforme del Paese, certo, anche perché i comuni, con i loro amministratori, sono i soggetti più vicini ai cittadini, quelli che conoscono i problemi reali, quelli che sanno mettere in rete cittadini e imprese e riescono, di fatto, o dovrebbero riuscire meglio, di fatto, a gestire quelli che sono i bisogni, ma anche a guardare al futuro prevedendo nuovi servizi.
  Il disegno di legge, applica, sostanzialmente, la grande novità delle città metropolitane, ma riorganizza tutto il sistema degli enti locali, mettendo al centro i comuni, come soggetto che, singolo o associato nel governo di area vasta, in province, città metropolitane e unioni di comuni, garantirà e garantisce i servizi indispensabili ai cittadini, sia su scala locale che su scala sovracomunale. Così io la leggo questa legge, cioè, in realtà, di fatto, è sempre il comune il soggetto che cerca di essere il punto di riferimento dei cittadini, per semplificare, da questo punto di vista, quelle che sono le risposte, ma anche per chiarire con certezza quali sono le responsabilità.
  Mi auguro che questo possa essere il provvedimento che permetta alle autonomie Pag. 21locali di riprendere il ruolo politico che negli ultimi anni hanno smarrito o, comunque, quella cultura autonomista che sicuramente si è affievolita.
  È un dibattito, quello sul ruolo delle autonomie locali, che viene da lontano; si è aperto in Europa sin dall'inizio dell'Ottocento e, allora come oggi, si è mosso tra l'esigenza economica di avere uno Stato unitario e quella di tutelare le autonomie locali. Da un lato si percepiva chiaramente la necessità di uno Stato nazionale forte per reggere il confronto con le potenze straniere, dall'altro si sentiva l'esigenza di conservare l'inestimabile patrimonio culturale e sociale delle autonomie e della civiltà comunale derivanti dal Rinascimento italiano. L'Italia, all'epoca inesistente come realtà statuale, ma presente da secoli come elemento culturale e identitario, riuscì ad essere di nuovo un laboratorio di civiltà e grazie alla profondità del pensiero di Gioberti e Cattaneo ritornò ad essere un punto di riferimento tra i più citati, ancora oggi, quando si affronta uno studio connesso al federalismo. È una storia importante, che ha visto i comuni protagonisti capaci di dare risposte ai cambiamenti sociali e di organizzare i servizi, ben prima che si potesse parlare di Stato nazionale e che le leggi del Regno e poi della Repubblica arrivassero a normarli.
  Non è cambiato molto da allora, il confronto è sempre lo stesso tra centralisti e autonomisti-federalisti. Questo disegno di legge secondo me cerca di coniugare questi due bisogni, quello di avere uno Stato forte, capace di determinare riforme e dettare regole per tutti e, nel contempo, capace di riconoscere e valorizzare le differenze. Con questo provvedimento i comuni vengono chiamati ad essere di nuovo laboratori di politiche e di servizi per le comunità e, devo dire, non solo i comuni in questo caso; io credo che questa legge chiamerà in causa tutte le realtà associative, culturali e imprenditoriale del territorio.
  C’è grande attesa di poter, di fatto, in una cultura sussidiaria, partecipare a una sfida, a un nuovo patto che permetta, di fatto, attraverso anche gli statuti, di riscrivere quelle che sono le regole, certo, di una comunità, di una comunità che sa guardare a se stessa, ma dentro a un sistema più complicato, diverso, secondo quelle che sono le storie dei territori e le diversità, ma sicuramente dentro a un sistema fuori da quelli che sono i confini di un singolo comune. Questa è una sfida molto importante che impegna gli amministratori e tutta la classe politica locale a rielaborare e a pensare al perché, in questi anni, non si è stati in grado di affrontare le sfide del cambiamento. Io credo che spesso le dimensioni dei comuni non hanno permesso questo, e devo dire che, anche, le spinte localistiche, questa cultura del «campanile», del particolare, negli ultimi anni, ha fatto sì che i comuni si chiudessero e fossero meno anticipatori di riforme.
  Ma voglio anche dire che a questo va aggiunta la campagna di mistificazione nei confronti degli amministratori locali, migliaia di persone che rinunciano al proprio tempo libero per contribuire al bene comune, che hanno rimborsi mensili di poche decine di euro e che, per vicinanza con i cittadini, sono controllati e controllabili.
  Certo, io penso che bisogna mettere in galera – e buttare via la chiave – chi disonora con i suoi comportamenti un incarico pubblico. Ma è anche vero che bisogna dire «basta» alla campagna di demolizione di chi è impegnato onestamente, per passione e amore, verso la propria città e il proprio Paese. Soltanto riconoscendo questo agli amministratori locali, possiamo oggi, in una situazione così complicata, dove mancano risorse, dove è difficile districarsi nei problemi di ogni giorno, chiedere loro di diventare la nuova classe dirigente del Paese. Soltanto riconoscendo loro la dignità del loro ruolo noi possiamo chiedere loro di giocare con forza questa grande sfida.
  Questo disegno di legge istituisce le città metropolitane, attese da moltissimi anni. Mamma mia ! Un dibattito lungo, che oggi è di fatto sostenuto da un grande consenso. Io credo che nelle città metropolitane Pag. 22– da Milano, che è la mia città, alle altre otto città metropolitane che avranno l'avvio – di fatto questo tema è fortemente sentito, perché c’è bisogno di una dimensione metropolitana, capace di rispondere ai bisogni che già i cittadini vivono in questo momento. Infatti, oggi noi normiamo con questo disegno di legge le città metropolitane, ma queste esistono già. Sono territori fortemente abitati, con problemi legati alla mobilità, al tema dei trasporti pubblici. Ci sono problemi comuni tra tutte le nove città metropolitane e c’è un bisogno vero per queste realtà di giocare una partita anche in termini di capacità di miglioramento dei servizi per i cittadini, che vivono spesso «complessità», perché sono anche aree di caos. Se penso a Milano, ci sono 900 mila persone che entrano ogni giorno in città. Si tratta di tessuti urbani che vivono anche fortemente delle contraddizioni legate allo sviluppo.
  Ma, detto questo, io credo che, oltre a rispondere al bisogno dei cittadini in maniera innovativa e più semplificata, queste nove città metropolitane debbano giocare una partita importante per l'intero Paese, perché questo Paese ha bisogno di nuove relazioni e nuove capacità di investimenti e deve essere capace di attrarli attraverso politiche territoriali forti.
  Nelle audizioni fatte dalla Commissione mi è sembrato importante – questo l'ho considerato positivo, per quanto mi riguarda, sono stati anche posti molti problemi da parte delle persone e dei relatori che sono intervenuti prima di me –, ad esempio, e ho avuto un'idea positiva dell'incontro fatto in audizione tra Fassino, Errani e Maroni. Tutti hanno concordato sull'esigenza di un nuovo modello di cooperazione e sull'esigenza di lavorare insieme per definire velocemente le materie e le funzioni che le città metropolitana dovranno gestire. Mi è sembrato molto importante anche che condividessero l'importanza di un sostegno delle regioni alle nuove realtà metropolitane, per provare ad aiutare il sistema imprenditoriale economico e il mondo del lavoro.
  Quindi, da questo punto di vista, non sono così preoccupata rispetto a questo percorso, che è uno start up certamente complesso, perché complessa è la situazione, ma credo che sia uno start up che mi auguro che tutti possano vivere in maniera positiva e non conflittuale.
  Con questo disegno di legge si disciplinano le nuove province.

  PRESIDENTE. Onorevole Gasparini...

  DANIELA MATILDE MARIA GASPARINI. Concludo velocemente. La cosa che chiedo rispetto a questo tema è di evitare che, con l'abolizione delle province, si accentrino sulle regioni ulteriori funzioni. Le regioni oggi stanno giocando, qualche volta, ruoli amministrativi che non gli sono propri.
  In conclusione, la cosa che vorrei dire sintetizzando è che non esiste nessuna riforma senza che siano chiare le risorse corrispondenti. Occorre, da questo punto di vista, capire come accompagnare questa richiesta ai territori di cambiamento con un processo vero di revisione della spesa pubblica, che è il tema sul quale si sta lavorando in questo Parlamento, ma anche, sicuramente, andando ad attuare la legge delega sul federalismo fiscale.
  Abbiamo approvato il 28 del mese scorso una mozione che invita il Governo ad adottare i decreti attuativi della legge n. 142. Credo che in maniera particolare per le Città metropolitane, che sono una nuova istituzione, sia necessario in tempi brevissimi individuare le risorse rispetto alle funzioni aggiuntive, cosa oggettivamente che, se non fosse fatta, renderebbe difficile comunque far «volare» seriamente questa cosa.

  PRESIDENTE. Concluda.

  DANIELA MATILDE MARIA GASPARINI. Ultimissima cosa: mi auguro che a gennaio si cominci a discutere di tutto il tema delle riforme costituzionali.
  Volevo ringraziare il Ministro, perché è stato sempre presente. Questa cosa mi è sembrata importante e, con questa grande Pag. 23disponibilità, il disegno di legge licenziato dal Consiglio dei Ministri è stato radicalmente modificato in alcune parti. Questo è il frutto di un ascolto e di una voglia di compartecipazione che credo siano un tratto distintivo importante, se si vogliono raggiungere le cose. Io credo che già oggi questo provvedimento sia il frutto di molte opinioni, anche di chi oggi, come alcuni relatori, hanno detto di essere contrari. Ma io...

  PRESIDENTE. Deve concludere, deputata Gasparini.

  DANIELA MATILDE MARIA GASPARINI. Concludo ringraziando (Applausi).

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Kronbichler. Ne ha facoltà.

  FLORIAN KRONBICHLER. Signor Presidente, colleghi, caro Ministro, rappresentanti del Governo, il provvedimento al nostro esame porta il titolo: «Disposizioni sulle Città metropolitane, sulle Province, sulle unioni e le fusioni di Comuni». È un titolo sospettosamente vergine; è un tema affrontato con i titoli eufemistici con cui si camuffano le leggi di questi tempi: «del fare», «contro l'omofobia», «contro il femminicidio», «della stabilità». È un «non titolo». Si parla di «Disposizioni», come se non tutte le norme fossero o almeno contenessero delle disposizioni.
  Chi ha una pur minima dimestichezza con il linguaggio legislativo qui si deve chiedere: che cosa si vuole nascondere dietro un titolo tanto ambiguo ? Che cosa può nascondere o, peggio, vuol farci credere ?
  Non facciamoci delle illusioni: succederà come uno o due mesi fa – non ricordo esattamente – con la legge sul finanziamento ai partiti politici. Fuori l'opinione pubblica, e non solo l'opinione «pubblicata», si aspettava l'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, perché era questo che verso l'esterno si era pubblicizzato; nel frattempo qui dentro si è fatta tutt'altra cosa: abbiamo fatto una legge che al massimo cambiava il sistema del finanziamento ai partiti, da pubblico in misto. Io qui non voglio sindacare sulla bontà o meno di quanto è avvenuto fuori, ma di sicuro è stato un piccolo inganno nei confronti delle attese e più ancora delle promesse ai cittadini.
  L'opinione diffusa sulla questione rimane quella che il finanziamento pubblico ai partiti è rimasto tale e quale a prima e che i politici non sono disposti ad abolirlo con legge, così come prima l'hanno messo in salvo addirittura dal rispettivo referendum popolare che ne chiedeva l'abolizione a maggioranza pressoché plebiscitaria.
  Ecco, esattamente tale sarà la percezione che i cittadini avranno di fronte alle disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni, che andiamo ad approvare. Ciò che era promesso è la soppressione delle province, anzi la risoppressione delle province, perché un Governo non lontano, del quale non si vuole più ricordare nessuno, le province le aveva già soppresse una volta, soltanto che l'aveva fatto in modo scorretto e la Corte costituzionale non gliel'ha fatta passare.
  Ora, questo Governo vuol far credere ai cittadini che questa volta l'ha fatto in modo più serio e professionale, invece eccoci qui: il provvedimento al nostro esame, nonostante il Governo e, in particolare, Ministro Graziano Delrio avessero solennemente annunciato la ferma intenzione di sopprimere le province, non interviene affatto in tal senso.
  Lungi dal partire da una legge costituzionale di riforma, man mano che si procedeva nella discussione, il disegno di legge alla nostra attenzione si è mostrato come un'opera di mero riordino. Nella versione iniziale, addirittura, le disposizioni facevano riferimento alla successiva possibile riforma della Costituzione.
  È azzardato veramente, insomma, fondare norme su possibili riforme successive, in più costituzionali.
  Erano tante quante su nessun altro provvedimento di questa legislatura le audizioni: professori, costituzionalisti, politici, amministratori, e non c'era nessuno – dico nessuno, perché ho partecipato a Pag. 24tutte – che non abbia espresso forti riserve sul testo del disegno di legge sottopostoci dal Governo.
  Pure il Ministro – prendo anch'io atto che è stato sempre presente, come ha detto la collega – deve essere rimasto parecchio impressionato da tanto scetticismo unanime oltre che autorevole. Non si sarà aspettato tanto vento contrario e nessuno a favore. Man mano che ci si occupava del provvedimento, ascoltando gli auditi, ma anche lavorando in Commissione stessa (Commissione affari costituzionali), Delrio si dovette convincere che le province così obsolete forse non fossero. Nell'apparente impossibilità politica di fare marcia indietro, il Ministro ha cercato di salvarsi con un «piccolo cabotaggio»: di soppressione ha fatto riordino, un riordino che più correttamente si dovrebbe chiamare «svuotamento».
  Senza giri di parole, le province, con questo disegno legge, non vengono abolite, ma vengono svuotate, cioè svuotate di democrazia. La sdemocratizzazione corre sotto il titolo di «provincia-ente di secondo livello». Di fatto, le province, svuotate di gran parte delle attuali funzioni, vengono declassate ad enti di secondo livello: niente più elezione a suffragio universale popolare, ma occupazione delle cariche direttive per nomina e, appunto, elezioni di secondo grado.
  Le province mantengono tendenzialmente la stessa organizzazione e mediamente anche gli stessi costi; per il Governo il risparmio ottenuto si aggirerebbe intorno al miliardo di euro. Per l’ UPI il confronto, che si vorrebbe intendere, sarebbe di soli 30 milioni di euro, con un aggravio invece di 2 miliardi di euro, sempre dall'altra parte.
  Le province subiranno una grave sottrazione di competenze e, appunto, una vergognosa «amputazione di democrazia», poiché non saranno più elette direttamente dai cittadini. Il contenitore vuoto che sopravvivrà a questo scardinamento sarà gestito e governato da un'assemblea di sindaci, senza tenere conto della volontà dei cittadini, a dispetto di tutti i principi di democrazia partecipata.
  Inoltre, noi critichiamo fortemente l'arbitrio con cui si sono individuate le città metropolitane, novità clou di questo provvedimento legislativo. Sono troppe e inoltre sbagliate. È assurdo prevedere che sulle aree metropolitane possano esistere in parallelo, oltre alle città metropolitane, anche le attuali province, sia pure con territorio ridimensionato a seguito dell'iniziativa di un certo numero di comuni di non appartenere alla città metropolitana. Parimenti assurdo è prevedere che nella fase transitoria coesistano la città metropolitana e la provincia e, quindi, che il presidente di provincia conviva a fianco del sindaco metropolitano: vuol dire prevedere intenzionalmente il conflitto di interessi.
  Di sicuro per questa via non si otterrà nessuna vera semplificazione della governance dei territori e, men che meno, si garantisce la certezza del quadro normativo e delle scelte politiche sul territorio.
  In Commissione abbiamo presentato diversi emendamenti al testo originale e agli insolitamente tanti emendamenti e subemendamenti del Governo stesso. Alcune modifiche proposte dal mio gruppo, Sinistra Ecologia Libertà, sono state pure recepite nel testo durante l'esame in Commissione affari costituzionali e di questo do atto al Ministro Delrio nonché al relatore di maggioranza, il collega Bressa.
  Il nostro, il mio collega di Commissione Nazzareno Pilozzi è stato tanto bravo ed efficace nello spiegare le proprie ragioni che la maggioranza non ha potuto diversamente che far proprie certune argomentazioni, e ciò in tale misura che in Commissione ci si iniziava a divertire e a ironizzare su un disegno di legge Bressa-Pilozzi.
  Continuiamo a chiedere, nonostante tutto ciò, rispetto ai temi oggetto del disegno di legge al nostro esame – il quale, ripetiamo, meglio sarebbe stato se avesse completato la cancellazione delle province quali enti intermedi – di riportare al centro la questione democratica, la previsione del voto diretto, il rispetto della Costituzione, in questo caso sulla rappresentanza di genere, la soppressione degli Pag. 25enti intermedi che gestiscono i servizi pubblici. Tutti temi con riferimento ai quali continueremo a dare battaglia in Parlamento e fuori (Applausi dei deputati del gruppo Sinistra Ecologia Libertà).

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Russo. Ne ha facoltà.

  PAOLO RUSSO. Grazie Presidente. Signor Ministro, fermatevi. Fermatevi finché siete in tempo, evitate di accompagnare i comuni: ho sentito questa straordinaria disponibilità del Governo ad accompagnare per mano i comuni al suicidio. Una norma questa illogica, priva di alcuna ragione, una norma che – è stato già detto, per la verità, autorevolmente – manca di un quadro di insieme. E guardi, Ministro, non deve far confusione tra ciò che manca – il quadro di insieme – e il guazzabuglio; il guazzabuglio generato da una norma incoerente, perché ha una finalità, immagino, cioè abolire le province, e ha un risultato: sovrapporre – lo dice la Corte dei conti – più organi gli uni agli altri, generando confusione e aumento di spesa. Non è benaltrismo. Il benaltrismo è quella speranza o quella sollecitazione a far meglio e, per far meglio, a non far nulla.
  Questa vostra è miopia o, se volete, lo spiego meglio, è strabismo. Voi vi indirizzate da una parte e fate l'esatto opposto, con il risultato di generare una confusione, che è prima istituzionale e, poi, evidentemente, politica. Mi spiegate cosa volete fare di queste province ? Io – e la mia parte politica – le abolirei e subito, senza se e senza ma. Voi, invece, vi siete cimentati in un inutile gioco dell'oca che vi riporta puntualmente al punto di partenza. Ogni qualvolta avete provato davvero a fare qualcosa, a cambiare qualcosa o ci avete ripensato o taluni vi hanno fatto ripensare. Noi ci avevamo creduto, vi avevamo seguiti nella speranza che, prima o poi, un elemento di ragionevolezza prevalesse, ed invece niente: di giorno in giorno, di settimana in settimana, sempre peggio.
  Voi dite di abolire le province e, invece, le ritroviamo come enti di secondo livello, lasciando che i consiglieri comunali e i sindaci, eletti per fare i consiglieri comunali e i sindaci, si troveranno a cumulare cariche nella migliore tradizione di quei notabilati clientelari fatti di indicazioni di partito e incarichi di sotto Governo. Volevate semplificare i livelli istituzionali e, invece, complicate e moltiplicate poltrone e compiti; volevate cancellare ed attribuite altre responsabilità, a partire dal dissesto idrogeologico, alle province. Abbastanza singolare per un ente che si vuole sciogliere, attribuire al medesimo ente competenze straordinariamente importanti come quelle del dissesto idrogeologico.
  Vi suggeriamo di riflettere su due questioni. La prima: il cittadino di un comune di un'area metropolitana, se risiede in provincia vota per il suo sindaco; se risiede in città, vota non solo per il suo sindaco, ma si trova a votare per il suo sindaco che diventa anche sindaco metropolitano, in una sorta di «voto uno ed eleggo per due».
  Insomma, se sono cittadino della città valgo di più. Questo è quello che accadrà: a San Donato Milanese, cittadino di serie «B», a Milano cittadino di serie «A»; ad Acerra cittadino di serie «B», a Napoli cittadino di serie «A».
  La seconda riflessione che vi affido: il sindaco della città capoluogo di provincia di un'area metropolitana, pur se non eletto nei comuni della provincia, conterà ovviamente più del sindaco veramente eletto e rappresentativo del suo comune.
  Il disegno Delrio, la cifra di questo disegno, potremmo riassumerla in «volevo cambiare, ho provato a cambiare, mi sono accorto che non era possibile in questa direzione, e allora comunque faccio in modo che si lasci un segno per non cambiar nulla». Una finta abolizione di province, un «risiko» con una suggestiva ricollocazione di funzioni e poteri che – guarda non po’ – privilegiano con lucida operazione chirurgica sempre le amministrazioni amiche e di centrosinistra.
  Dieci città metropolitane prive di quelle caratteristiche proprio delle città metropolitane. In realtà, voi sapete meglio di me che le aree metropolitane non sarebbero oltre tre – Roma, Napoli e Milano – e non Pag. 26volete incidere su questo tema in una malintesa logica del «lasciamo stare ciò che c’è»: e perdonatemi, se lasciamo stare ciò che c’è a che serve questa riforma ? E in via provvisoria, per governare le città metropolitane un legislatore buontempone ha pensato ad un quadriumvirato: il sindaco del comune capoluogo diventa il capo dei capi; non primus inter pares, il capo ! E i sindaci dei comuni della provincia, il presidente della provincia, il presidente della regione, tutti rimangono, diventano sottoposti a questa nuova figura di dominus, il sindaco del comune capoluogo. Guardate, non state rendendo un buon servigio ai comuni d'Italia: state soltanto operando un meccanismo di trasferimento di poteri e competenze ad un soggetto non votato dai cittadini ! Manco a farlo apposta, quello stesso sindaco (magari facciamo sempre l'esempio di Milano o di Napoli) che conta per numero di abitanti meno di un terzo dell'intera provincia.
  E, poi, ne avete combinate di tutti i colori: un elettorato attivo che non sempre coincide con quello passivo, una sorta di dissimmetria elettorale; la provincia relegata ad un ente double face: pesante nelle spese, non per la legittimazione elettorale; elezioni finte e mascherate di secondo livello, che promuoveranno per livelli gestionali diversi proprio quella casta che viceversa si vuole cancellare; e i piccoli comuni abbandonati e resi marginali nei processi decisionali. E, guardate, avendo reso marginali quei piccoli comuni nei processi decisionali, vi troverete della condizione, peraltro indicata dalla Corte dei conti, per la quale vi troverete, in costanza di provincia – la provincia cosiddetta residuale o ciambella –, vi troverete insieme provincia residuale e città metropolitana. Non solo non riducete le province: aumentate il numero di enti intermedi ! E poi moltiplicate per 50 – dico per 50 – i centri di spesa: evidentemente riducendo le economie di scala per numerosi servizi, a partire dalla manutenzione delle strade per finire a quella delle scuole. Questa norma maschera le province dietro un paravento di ente elettivo ma di secondo livello, senza ridurre le spese per gli organi istituzionali, viceversa aumentando le inefficienze gestionali.
  Si dovrebbe percorrere la ricerca del modello: non lo dico io, solito disfattista di Forza Italia, oserei dire semplicemente «realista». Vediamo chi lo dice. «Si dovrebbe porre la ricerca del modello più efficiente per allocare le funzioni nel territorio, che dovrebbe tendere ad evitare duplicazioni di funzioni e dovrebbe estendersi anche all'attività degli organismi partecipati, ai quali sovente è affidata la gestione dei servizi pubblici e delle funzioni strumentali.
  Dal testo si evince con evidenza il carattere di provvisorietà della disciplina posta per le province, in attesa della loro prossima «– chissà –» abolizione ad opera della riforma costituzionale. È da considerare al riguardo che, in relazione ai tempi richiesti per il procedimento aggravato per la suddetta modifica, tale assetto provvisorio potrebbe essere destinato a perdurare per un periodo non breve, per cui sarebbe stata probabilmente necessaria una sua maggiore organicità.
  L'istituzione delle città metropolitane e la ridefinizione delle funzioni delle province determinano la coesistenza di due enti di area vasta, con compiti che, in una certa misura e per determinati aspetti, quali il coordinamento dell'azione degli enti locali, potrebbero non sfuggire al rischio di sovrapposizione.
  Deve considerarsi inoltre che l'attuazione dell'assetto degli organi di governo locale, quale emerge dall'impalcatura disegnata dal disegno di legge in esame, si fonda su una sequenza di interventi normativi – dall'approvazione del disegno di legge costituzionale ai provvedimenti attuativi – che presuppongono una prospettiva di particolare stabilità degli assetti politici, tale da far immaginare un tempo di transizione contenuto nel realizzare il passaggio da un assetto all'altro.
  Le conseguenze del prefigurato scenario appaiono ancor più rilevanti se si esaminano le disposizioni tutte. Comuni teoricamente ricompresi nell'area metropolitana possono scegliere di non farvi Pag. 27parte, adottando tale decisione attraverso procedure rinforzate. In tal caso, la città metropolitana subentrerebbe alla provincia, con esclusione del territorio dei comuni che hanno scelto di non appartenervi. Per tali comuni la provincia omonima resterebbe in funzione. Siffatta situazione sarebbe certamente produttiva di confusione ordinamentale e di una moltiplicazione di oneri, muovendosi nella direzione opposta a quella della dichiarata volontà di razionalizzazione, di semplificazione e di efficientamento dei livelli di governo locale.
  Peraltro, un'evenienza del genere frustrerebbe la principale finalità dell'istituzione della città metropolitana, che non è semplicemente quella di allargare i confini del comune, bensì di trovare strumenti per mettere insieme le molte e diverse realtà socioeconomiche rappresentate dalle cinture cresciute intorno alle città. Anche se l'intervento proposto trova motivazione nella necessità di dare attuazione alle città metropolitane, la convivenza della provincia e della città metropolitana mette in dubbio l'effettiva realizzazione di risparmi ed anzi, venendo attivato un processo complesso di riorganizzazione, si profilano oneri per la finanza pubblica che la scheda tecnica non prende in considerazione.
  Si osserva, infatti, che il trasferimento alle città metropolitane del patrimonio e delle risorse umane, finanziarie e strumentali delle province, che dovrebbero seguire all'istituzione delle prime, si risolve in un meccanismo troppo complesso ed articolato, suscettibile di produrre costi e di alimentare il contenzioso, tanto più nell'ipotesi di ripartizione delle funzioni e delle risorse tra provincia e città metropolitana. Si tratta, in buona sostanza, di procedure che mal si conciliano, per durata e complessità, con la provvisorietà del disegno organizzativo perseguito con il disegno di legge in esame».
  Conclude: «Dal punto di vista finanziario, il disegno di legge si basa sull'assunto dell'invarianza degli oneri, in quanto si tratterebbe di un passaggio di risorse e funzioni dalla provincia ad altri enti territoriali, una costruzione questa il cui presupposto però appare tutto da dimostrare nella sua piena sostenibilità. Infatti, non appaiono convincenti anzitutto la contemporaneità tra la progressiva soppressione della provincia (risparmi) e l'istituzione della città metropolitana (oneri) e, in secondo luogo, il relativo parallelismo quantitativo. Lo stesso testo del provvedimento, da un lato, prevede una certa sovrapposizione di funzioni tra i due organismi, dall'altro, consente, al verificarsi di ipotesi di cui peraltro si potrà avere conto solo ex post, la sopravvivenza della singola provincia con ipotizzabili interferenze e necessari interventi degli enti territorialmente contigui. Va inoltre considerato che per la definitiva soppressione delle province occorre che vengano definiti alcuni passaggi decisionali, tra cui determinante risulta la modifica della Costituzione in vigore, con i tempi occorrenti ai fini dell'individuazione delle risorse di cassa tali da compensare gli oneri legati alla progressiva costituzione del città metropolitana». Tutto questo lo dice la Corte dei conti.
  Ed è tanto più vera la confusione della transitorietà che deriverà dalla posizione che tutti i comuni e le province delle aree metropolitane, ovviamente, in questa fattispecie, riterranno evidentemente di non aderire, determinando una reviviscenza e sovrapposizione di provincia e città metropolitana. Confusione, contraddizione, incertezza, disagio per cittadini e amministratori. E le regioni ? Cosa avete fatto delle regioni ? Non sono escluse, è vero, Ministro; sono semplicemente emarginate.
  Che fine hanno fatto ? In che modo si articolano in questo disegno ? Pare superfluo considerare che siamo al cospetto di una norma illogica quanto incostituzionale, che verrà puntualmente sanzionata, come già accaduto di recente. Fermatevi ! In un ultimo atto di resipiscenza, vi avevamo chiesto, in via provvisoria, che il sindaco della città metropolitana fosse il presidente della provincia, l'unico eletto su vasta scala; che, a regime, il sindaco della città metropolitana potesse essere eletto direttamente dai cittadini o dai sindaci e Pag. 28consiglieri comunali dei comuni dell'intera area metropolitana; di rafforzare la presenza dei piccoli comuni nell'ambito della costituzione delle nuove province; infine, di affidare alle regioni la guida nel processo di costituzione delle città metropolitane o aree con compiti e responsabilità definite.
  Nulla di tutto questo ! Vi siete ostinati a una logica di parte e parziale, chiusi in voi stessi. Costituzionalisti e buonsenso, tutti, vi hanno indicato di fermarvi, per evitare un annunciato deragliamento. Se non fosse che trascinate il Paese in questo pasticcio, ci sarebbe da augurarvi di fare e fare così, male e presto. Toccherà poi ad altri, a noi, rimediare agli errori macroscopici frutto di quella doppiezza tipica di una sinistra mai redenta, che ritiene prevalente l'interesse della propria parte, qualche sindaco di grande città, a dispetto dei più (Applausi dei deputati del gruppo Forza Italia-Il Popolo della Libertà-Berlusconi Presidente).

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Cristian Invernizzi. Ne ha facoltà.

  CRISTIAN INVERNIZZI. Signora Presidente, signor Ministro, onorevoli colleghi, per quanto riguarda la Lega Nord, questo disegno di legge è sostanzialmente schizofrenico, per due ordini di motivi. Innanzitutto, per l'iter che esso ha avuto in Commissione: è partito con due relatori di maggioranza e si è concluso, proprio oggi, sembra, con due relatori di minoranza. Certo, vi sono state delle motivazioni politiche alla base, prima espresse proprio dall'ex relatrice, ma riteniamo anche che, se si fosse trattato, sostanzialmente, di un disegno di legge organico e sostenibile, probabilmente, anche l'ex relatrice per la maggioranza avrebbe fatto altre scelte.
  In secondo luogo, secondo noi, è schizofrenico perché è un provvedimento che ha in sé una data di scadenza, che viene indicata proprio nell'articolo 1 del disegno di legge; almeno in potenza, ha questa data di scadenza. Nell'articolo 1 del disegno di legge, in cui si parla proprio dell'oggetto, si dice che oggetto del presente disegno di legge è il riordino di città metropolitane, province, unioni e fusioni di comuni, anche in attesa della riforma costituzionale ad essi relativa.
  Per usare la trita e ritrita, ma sempre attuale, metafora della casa in costruzione, questo disegno di legge afferma che, sostanzialmente, intanto si mette il tetto e poi, più avanti, si spera che si potranno gettare le fondamenta, costruire i muri e concludere la casa. Obiettivamente, solitamente, succede così: prima si approva, se si vuole fare, una riforma costituzionale, alla quale poi si fanno seguire gli atti ordinari di attuazione, e non, come in questo caso, approvando prima una legge ordinaria in attesa di una riforma costituzionale che, tra l'altro, proprio a detta dello stesso Governo e della maggioranza che lo propone, non dovrebbe arrivare da qui a chissà quanto tempo.
  L'iter della riforma costituzionale dovrebbe essere un qualcosa che dovrebbe concludersi al massimo entro il prossimo anno, così come da espressa affermazione del Presidente del Consiglio. Quindi, ci troviamo di fronte a qualcosa che, più che una legge, sembra uno yogurt, con la data di scadenza. Il problema è che qui non siamo in una cantina sociale: qui siamo alla Camera dei deputati, siamo al Parlamento. Dovremmo approvare leggi che dovrebbero essere funzionali, che dovrebbero avere uno sviluppo nel tempo e che, pertanto, non dovrebbero nascere già con una data di morte quasi impressa.
  Il problema è che, come quasi sempre accade in questo Stato, non c’è nulla di più definitivo di ciò che nasce come provvisorio.
  Pertanto, sinceramente, la paura a noi viene, stando anche alle fibrillazioni, alle quali assistiamo quotidianamente, di questa maggioranza. La riforma costituzionale, nella quale noi crediamo molto, una riforma costituzionale alla quale abbiamo dato il nostro appoggio manifestandolo anche con la deroga prevista per l'articolo 138: a noi è stato detto che era necessario derogare all'articolo 138 della Costituzione per velocizzare i tempi. Solo per questo Pag. 29motivo abbiamo dato la nostra adesione. Adesso ci troviamo invece con un'anticipazione di una riforma e quindi ci viene quasi il dubbio, signor Ministro, – questo sarebbe ciò che ci terrorizza – che questo non sia l'assetto provvisorio delle province e delle città metropolitane, ma sia destinato ad essere l'assetto definitivo, fino a quando poi gli effetti, secondo noi negativi, ci faranno invece capire che probabilmente la strada intrapresa è sbagliata.
  Se parliamo delle città metropolitane, ad esempio, già lì, secondo me, si vede come alla base proprio metodologica dell'intero impianto vi sia una certa nebulosità. Non si capisce, cioè, quali siano i criteri, i canoni, che stanno alla base della scelta di queste dieci realtà anziché di svariate altre. Se, per esempio, noi ci rimettiamo alla mera dimensione demografica, solo Roma, Milano, Napoli e Torino presentano grandezze tali da distinguersi nel panorama dello Stato italiano. Per il resto, basti solo pensare che la provincia di Brescia ha una popolazione residente superiore a quella di Bari e che le province di Palermo, Bergamo, Salerno e Catania sono più popolate di quelle di Bologna e Firenze. Quindi, non si riesce a capire come mai queste province non abbiano la dignità di realtà metropolitane, mentre altre province molto più piccole invece assurgano a questo ruolo, a questo riconoscimento. Se pensiamo alla densità di popolazione, dopo Napoli, al secondo posto vi è la provincia di Monza e Brianza, tra l'altro una realtà vicinissima a quella di Milano; pertanto, non si capisce come mai la realtà metropolitana si concluda, si chiuda all'interno dell'attuale provincia milanese, lasciando fuori quella monzese e brianzola che comunque, direi, fa parte a pieno diritto, se vogliamo considerare una realtà metropolitana, proprio della realtà metropolitana di Milano.
  Se pensiamo addirittura alla densità dei soggetti amministrativi a livello provinciale, e quindi ai comuni, solo tre delle future città metropolitane hanno più di cento comuni all'interno del loro perimetro. Per contro, sono ventidue le altre province per le quali, pur con più di cento comuni presenti, non si prevede alcun tipo di governance territoriale unitaria.
  Sostanzialmente, cioè, da una prima analisi, province come Brescia, Palermo, Bergamo e Catania e altre, pur avendo una densità abitativa e una quantità di popolazione sicuramente più alte rispetto ad alcune delle dieci individuate, sono invece escluse dal comparto delle città metropolitane. Tra l'altro, in alcuni casi, parliamo di realtà – stando a quello che si diceva, e cioè che la realtà metropolitana è fondamentale per rilanciare il nostro Stato all'interno della competitività internazionale – parliamo di province, che dal punto di vista delle realtà produttive sicuramente stanno ai primi posti all'interno dello Stato italiano.
  Pertanto, se la finalità è quella di rilanciare il sistema Italia all'interno del comparto europeo e mondiale dal punto di vista, ritengo, sostanzialmente economico, probabilmente sarebbe stato meglio concentrare e dare l'opportunità di fare da traino a quelle province che questa capacità di sviluppo, dal punto di vista economico e imprenditoriale, l'hanno sempre dimostrata e che invece in questo provvedimento sono sostanzialmente escluse.
  Se parliamo delle province, di quelle che restano – è già stato detto, ma è giusto sottolinearlo – queste non sono abolite, permangono enti di secondo livello, ma le province ci sono.
  Sono, invece, abolite le indennità degli organi istituzionalmente eletti a suffragio universale. Ultimamente noi tutti, leggendo i giornali, ascoltando i talk show – insomma, lo facciamo anche, oltre che per passione sicuramente politica, perché dobbiamo farlo – abbiamo sentito e sentiamo quotidianamente come pare che il messaggio che voglia essere sostanzialmente veicolato è che, una volta modificata la legge elettorale e abolite le province – perché adesso tutti parlano di abolizione delle province, ripeto, non soltanto i partiti, ma anche all'interno del dibattito politico –, allora a quel punto lo Stato italiano è pronto a ritornare una tigre economica, capace di aggredire la crisi Pag. 30mondiale che si è verificata – sembra e ripeto – solo perché c’è una legge elettorale denominata «Porcellum» e perché ci sono le province, in cui si annida, invece, sostanzialmente il totale della corruzione e della incapacità della classe politica che il sistema Italia ha prodotto.
  Quindi, stabilito che le province non si aboliscono, ma si abolisce l'indennità, questo sembra effettivamente – e da questo punto di vista lo riconosciamo – una risposta ad una delle esigenze attualmente più sentite all'interno dell'opinione pubblica, cioè quella di un taglio dei costi della politica, dell'eliminazione dei privilegi della casta e quanto di conseguenza.
  Il problema è, uno, che ciò è troppo limitato e, due, che si scarica per l'ennesima volta qualunque tipo di attività di questo tipo sugli enti locali. In sostanza io non sono d'accordo con quanto ho sentito prima che i comuni o gli amministratori comunali in questo modo per l'ennesima volta abbiano la possibilità di diventare protagonisti di fenomeni di baronato o di occupazione del potere locale. Il problema è che, ancora una volta, ai sindaci o ai consiglieri si chiede di prestare opera pubblica gratuitamente.
  Ancora una volta ai sindaci – che sono diventati già esattori a nome e per conto dello Stato, che, soprattutto quelli virtuosi, hanno dovuto con i loro risparmi, con la loro capacità virtuosa e, quindi, con il Patto di stabilità rimediare agli errori fatti dallo Stato –, agli stessi amministratori locali – e concludo –, che ormai sono veramente con l'acqua alla gola, viene chiesto di fare un sacrificio a nome di altri, ancora una volta a nome di chi ? A nome dello Stato centrale, di Roma, che è sempre capace di indicare la via agli altri, a quelli che in questo momento stanno loro sotto -ripeto – ai sindaci, ma che non è capace effettivamente di dare risposte serie.
  Se avessimo voluto farlo – e concludo veramente, Presidente – avremmo dovuto occuparci degli uffici territoriali del Governo, delle prefetture, che, non essendo organi costituzionalmente garantiti, avrebbero consentito a noi di fare qualsiasi disegno di legge, qualsiasi decreto senza rischio di incostituzionalità e per una volta, magari, con provvedimenti veramente capaci di incidere sulla spesa pubblica (Applausi dei deputati del gruppo Lega Nord e Autonomie).

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Pierpaolo Vargiu. Ne ha facoltà.

  PIERPAOLO VARGIU. Signor Presidente, colleghi deputati, vorrei raccontare brevemente una vicenda che riguarda la mia regione e anche il mio collegio elettorale, la Sardegna, che ha stretta attinenza con il provvedimento che l'Aula esamina nella giornata odierna. Nel maggio 2012 la Sardegna ha votato tre referendum popolari che riguardavano l'abolizione, tra l'altro, degli enti intermedi, delle province. Un referendum che si svolse nel silenzio, per quanto riguarda l'interesse e l'attenzione dei partiti – che pure anche in Sardegna si erano detti tutti quanti favorevoli all'abolizione delle province – e che venne fatto votare in un'unica giornata, mentre normalmente in Sardegna si vota in una giornata e mezzo, per favorire l'afflusso degli elettori ai seggi, per consentire la maggior possibilità di esprimere il proprio parere sui quesiti in argomento o sui temi elettorali. Ciò nonostante in Sardegna, contro ogni aspettativa, questi referendum ottennero il quorum per la validità.
  Pertanto la Sardegna, approfittando del proprio statuto speciale, aveva dilatato il numero dei propri enti intermedi di rappresentanza arrivando a otto province, alcune delle quali difficili da sostenere dal punto di vista economico, con popolazione inferiore ai 60 mila abitanti, come la provincia dell'Ogliastra, che aveva sicuramente elementi di difficoltà di accesso territoriale ed elementi di omogeneità culturale tra gli abitanti che potevano giustificare un'attenzione specifica al territorio, ma non certo l'attuazione di un ente provinciale.
  In quella circostanza in Sardegna il 98 per cento degli elettori si espresse per l'abolizione delle cosiddette nuove province Pag. 31sarde, le quattro istituite con una legge regionale a cavallo tra la fine degli anni Novanta e il 2000, ma il 70 per cento si espresse anche per l'abolizione delle province storiche. Perché ? Il perché è chiaro. Perché, che si voglia o non si voglia, che si abbia condivisione della percezione da parte dell'opinione pubblica o la si pensi diversamente, oggi le province vengono avvertite come inutili, costose e centri di sottopotere della politica. Che siano inutili è difficile poterlo controvertire. È difficile che ci sia qualche cittadino che abbia avuto bisogno direttamente dell'ente provincia nel corso della sua attività quotidiana e, quando ne ha avuto bisogno, spesso ha trovato un livello burocratico aggiuntivo che ha creato problemi ulteriori rispetto alle esigenze che quel cittadino aveva. Che siano costose, forse è controvertibile. L'Unione delle province italiane ci racconta e sottolinea che non sono le province il problema dell'Italia, appunto con quella logica che il Ministro ha definito di benaltrismo, che porta sempre a dire: sì, si devono fare le riforme, ma non iniziamole da casa mia – not in my back yard –, iniziamole nel giardino del vicino le riforme, mai nel nostro giardino. Che siano centri di sottopotere, guardate, io credo che sia veramente difficile negarlo, nel senso che le province sono diventate nel tempo una struttura lontana dal cittadino, lontana dalla sua percezione, lontana da ciò di cui il cittadino ha bisogno, ma assolutamente vicine alle esigenze dei partiti politici.
  E allora forse dobbiamo ammettere che uno dei motivi per cui è difficile mettere mano al sistema delle autonomie locali è perché ciascuno dei partiti presenti anche in quest'Aula ha consiglieri provinciali, ha presidenti delle province, ma ha anche presidenti eletti nelle società amministrate dalle province. Infatti, all'interno del mondo delle province si è creata una situazione difficile anche da censire, di decine e centinaia di società partecipate dalle province, società in house, che oltretutto spesso scavalcano il sistema della concorsualità pubblica per quanto riguarda le assunzioni, e che costituiscono una sorta di potentati locali, dei veri e propri «califfati» all'interno dei quali la politica, le seconde linee della politica o qualche volta le prime linee stesse attraverso le proprie leve di potere, riesce a gestire meravigliosamente quella rete vischiosa che tanto dà fastidio al cittadino, ma che tanto è difficile per la politica stessa riuscire in qualche maniera a eliminare.
  Allora, nonostante tutti i partiti politici – io credo – si siano espressi contro il mantenimento del livello provinciale, io vi faccio il resoconto di quello che succede. In Sardegna siamo fermi, nel senso che siamo riusciti a commissariare le quattro nuove province e siamo riusciti anche a far approvare dal consiglio regionale una legge di modifica costituzionale che cancella dallo statuto sardo la parola «province», che è presente esattamente come all'interno della Costituzione.
  Stiamo aspettando che il Parlamento dia una risposta al consiglio regionale della Sardegna perché il consiglio regionale della Sardegna ha avuto il coraggio di dire con chiarezza che nello statuto sardo non c’è più la necessità di avere la parola «province», per quello che la parola «province» comunque oggi rappresenta nell'immaginario collettivo degli italiani. La stessa cosa succede in Italia, dove tutti i tentativi di eliminare l'ente intermedio, come quello che il Governo Monti fece con il massimo dello sforzo, con il massimo della chiarezza e con il massimo della capacità di comunicazione possibile con gli italiani, si sono arenati di fronte al problema della modifica costituzionale, che rende comunque difficilissimo andare avanti. Ecco perché oggi questo Parlamento è chiamato ad avere coraggio. È chiamato a rendersi conto che ciò che è indispensabile non è la creazione, al posto delle province svuotate, di una serie di enti intermedi che in qualche maniera sostituiscono le province e ricreano quella ragnatela vischiosa del sottopotere della politica di cui gli italiani non ne possono più in nessun modo.
  Quindi, il messaggio che arriva a questo Parlamento è chiaro, inequivocabile ed è Pag. 32in questa direzione: gli italiani in questo momento non hanno bisogno di strutture della politica, di sovrastrutture della politica, che danno soddisfazione e rispondono ad esigenze e interessi che sono solo della politica. Quindi, non servono città metropolitane ipertrofiche, non servono aree vaste che non hanno alcun senso, non servono unioni di comuni strutturati. Servono uffici provinciali che gestiscano competenze – quindi uffici, non politica – servono unioni di comuni funzionali, che si uniscano tra di loro per gestire servizi comuni e che abbiano anche una simmetria variabile, quindi abbiano una geometria che si adatti ai singoli servizi che devono essere gestiti, non nuovi «carrozzoni» di cui questo Paese non ha bisogno e di cui gli italiani non sentono alcun bisogno. Se la politica oggi ignorasse ciò che fuori da questo Palazzo si pensa, farebbe ancora una volta un clamoroso errore (Applausi dei deputati del gruppo Scelta Civica per l'Italia).

  PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Dalila Nesci. Ne ha facoltà.

  DALILA NESCI. Signor Presidente, a noi cittadini che stiamo dentro questo Parlamento sembra di vivere in un costante lancio pubblicitario che viene mandato nello spazio di intervallo di un film. Dopo la «legge truffa» sull'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, che non abolisce nulla e che non è neanche legge, ecco l'ennesimo spot del Governo: addio province ! Troppo bello per essere vero, ed infatti non lo è.
  Non ci sarà alcuna abolizione delle province perché l'impianto di questo disegno di legge ordinaria si sta limitando a cancellare la componente elettiva dell'ente provincia, cioè la rappresentanza politica scelta direttamente dai cittadini. Inoltre, c’è il tentativo di accorpare, almeno sulla carta, province, comuni e le future città metropolitane. In questo disegno di legge si è architettato un modo per mantenere in vita le province. Sarà così nel caso in cui determinati comuni ne facciano richiesta. Le norme, infatti, prevedono la permanenza di una provincia, se lo richiede almeno un terzo dei suoi comuni oppure un terzo della popolazione della circoscrizione provinciale. Insomma, c’è il rischio concreto del raddoppio degli enti intermedi, poiché sullo stesso territorio potranno sopravvivere sia la provincia sia la città metropolitana.
  Occorre aggiungere, poi, che questo provvedimento presenta evidenti profili di incostituzionalità, così come abbiamo rilevato noi del MoVimento 5 Stelle, ma anche tutti i costituzionalisti intervenuti in audizione alla Camera, nonché l'ANCI piccoli comuni e l'UPI. È paradossale, pertanto, proseguire su una strada che da principio è riconosciuta come sbagliata, tanto più che questo tipo di valutazione è pervenuta dai diretti interessati, cioè i comuni e le province. Sarebbe come insistere nella pratica di una tecnica chirurgica che la medicina ufficiale ha bocciato per i pericoli che essa provocherà senz'altro all'organismo.
  È vero che in Italia siamo abituati ai giri di parole, alle contorsioni, alla normalizzazione dell'impossibile, a quella naturalizzazione che ci permette di accettare tutto, purché serva a mantenere determinati privilegi. Tuttavia, nella fattispecie, ci sono limiti invalicabili. Mi riferisco, per esempio, alla bocciatura da parte della Corte dei conti, che, per l'ipotesi di riorganizzazione degli enti territoriali, ha rilevato che non può avvenire a costo zero. Quindi, non è vero che non ci saranno oneri a carico dello Stato. Altri casi in questa XVII legislatura ci hanno mostrato la pervicacia di una maggioranza mobile, fluida e cangiante, che ha difeso atti con oneri a carico dello Stato, per esempio i due concorsi per i sovrintendenti della polizia di Stato, che si tradurranno, se non ci saranno responsabilità e coscienza della Cosa pubblica, in ulteriori sprechi e percorsi farraginosi.
  L'abolizione delle province è un argomento che si trascina da tempo e sempre con abilità di finzione. Il dibattito politico è stato caratterizzato, soprattutto in queste ultime elezioni, dal tentativo diffuso di accreditarsi come sostenitori di uno snellimento Pag. 33dell'apparato pubblico. Infatti, a parole, voi eravate tutti in favore dell'abolizione delle province. E questa ambiguità originaria e costante delle forze politiche tradizionali si è trasferita appieno nella vostra proposta di legge in tema di province.
  Dopo tutto, come ricordava Lucrezio nel De rerum natura, nessuna cosa viene dal nulla, insomma, niente accade per caso. Ciò che questo disegno di legge trascura in concreto è che, una volta modificato il sistema attuale, i cittadini e gli stessi amministratori locali avranno molte difficoltà a capire quale sarà l'ente di riferimento. Peraltro, stando ai lavori preparatori, non risulta chiaro il riparto delle funzioni; in sostanza, non ci sarà riordino degli enti, ma soltanto confusione, con conseguenti disagi alle piccole e medie imprese, le quali non sapranno dove riscuotere i crediti, se presso la provincia o la città metropolitana. Agli accademici negazionisti, cui non mancano mai gli argomenti per smentire o rassicurare, rammento il clima che stanno creando le direttrici intraprese in questo disegno di legge. L'assessore ai trasporti della provincia di Milano, Giovanni De Nicola, ha minacciato persino il ricorso alle vie legali per via dell'emendamento al cosiddetto disegno di legge «svuota province» sull'Expò, che rischia di azzerare un bando dell'ente intermedio per la vendita del 52 per cento dell'ASAM. La notizia in proposito è che De Nicola ha dato mandato ai legali della provincia di citare il relatore del disegno di legge, Bressa, e l'ormai ex relatrice, Centemero, per turbativa d'asta. I parlamentari «navigati» ci dicano se queste situazioni non sono indicative di un vulnus che tocca l'ordinamento e la vita della pubblica amministrazione, colpendo anche l'armonia fra le istituzioni.
   Il disegno di legge, Atto Camera n. 1542-A, presenta problematiche di illegittimità costituzionale e di opportunità politica che gli emendamenti del gruppo parlamentare del MoVimento 5 Stelle colgono e affrontano nella sostanza. Per quanto riguarda le criticità riguardanti l'illegittimità costituzionale, segnalo la trasformazione delle città metropolitane e delle province da enti territoriali di primo livello ad enti territoriali di secondo livello. Questo significa che dall'elezione diretta dei rappresentanti, si passa all'elezione indiretta, con tutte le conseguenze per la democrazia effettiva.
  Inoltre, dal 1o luglio 2014, reca con sé ulteriore complicazione l'attribuzione alle città metropolitane dei rapporti attivi e passivi e di tutte le funzioni delle province che ne restano prive, salvo che, entro il 28 febbraio 2014, dei comuni della città metropolitana non si dissocino secondo una determinata procedura. Nel qual caso la provincia omonima resta in funzione per il territorio corrispondente a quello di pertinenza dei comuni che hanno optato per questa procedura. Quindi, di fatto, il disegno di legge considera le città metropolitane come enti territoriali alternativi alle province. Ancora, il disegno di legge in argomento opera nelle città metropolitane una limitazione della partecipazione dei piccoli comuni e delle minoranze politiche alla democrazia rappresentativa.
  Le criticità fin qui riassunte sono particolarmente importanti dal momento che le predette trasformazioni presentano sul piano normativo marcate incompatibilità con la natura degli enti territoriali prevista dalla Costituzione e con l'esigenza che per ciascuno di essi sia assicurata la rappresentatività democratica.
  Gli obiettivi dichiarati di questo disegno di legge erano la semplificazione e il contenimento della spesa; tuttavia, i risultati saranno la complicazione, la confusione e una restrizione significativamente gravosa della partecipazione democratica. Le province non vengono realmente abolite e si è persa l'occasione per incentivare la fusione dei piccoli comuni ed abolire gli enti inutili, che ci costano diversi miliardi di euro. Ciò perché il disegno di legge in parola prevede alternativamente l'estinzione della provincia o la riduzione delle circoscrizioni provinciali in una modalità costituzionalmente illegittima e suscettibile di annullamento da parte della Corte costituzionale; prevede la sostituzione delle province con le città metropolitane, enti Pag. 34territoriali ancora da istituire con ulteriori ed ingenti aggravi di spesa per la finanza pubblica.
  Il disegno di legge in esame, insomma, non ha avuto la forza di operare il cambiamento che invece il MoVimento 5 Stelle raccoglie e, di fatto, rappresenta. Quanto vi ho esposto finora mostra l'incompletezza, la fallacia e la strumentalità del disegno di legge sulle province, con il quale il Governo pensa di investire in propaganda, tirando a campare nell'ambiguità, nel disordine, nella vaghezza voluta e nell'illusione dei cittadini. Una lettura sistematica ci porta ad osservare il Governo in carica: esso è un teatro nel teatro, il quale ha partorito una finta opposizione, utile agli equilibri di potere per i favori e le poltrone. Abbiamo dunque il quadro completo dell'inadeguatezza della maggioranza che si divide con lo scopo di moltiplicarsi, ben lontana dai processi di vera riforma.
  È questo il senso della bipartizione del PdL in Forza Italia e Nuovo Centrodestra, funzionale a comporre l'ennesima creatura che dovrà riunire istinti, desideri e pesi elettorali, per imporre la permanenza delle solite cerchie di potere, alla faccia delle esigenze reali del Paese, dei bisogni e delle aspettative dei cittadini.
  Nel nostro programma c’è l'abolizione delle province, quindi noi siamo d'accordo con l'obiettivo, tant’è vero che, per coerenza, noi del MoVimento 5 Stelle non ci siamo mai candidati alle elezioni provinciali. In ogni caso, se vogliamo parlare di riforma vera e di abolizione delle province, va cancellato questo testo in formazione, «indecente» perché inadeguato a riordinare gli enti locali e ad abolire le province una volta per tutte. Siamo favorevoli ad una riforma ragionata e seria di tutti gli enti territoriali, ma essa dovrà procedere al di fuori delle riforme costituzionali adottate in deroga all'articolo 138 della Costituzione; soprattutto, essa dovrà costruirsi senza la farsa, grottesca e deleteria, che maggioranza e finte opposizioni stanno inscenando (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

  PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Fabbri. Ne ha facoltà.

  MARILENA FABBRI. Signor Presidente, signor Ministro, gentili colleghi, io credo che il provvedimento di oggi che abbiamo in discussione ha un grande obbiettivo, che è quello di introdurre uno dei primi elementi di cambiamento nel nostro assetto istituzionale. Cambiamento che, sicuramente, raccoglie moltissime resistenze che vengono anche mascherate sul piano giuridico-normativo, ma che in realtà denotano una difficoltà al cambiamento di carattere culturale e politico. Io credo sia un momento significativo e che questa norma, a differenza di altre, si caratterizzi per introdurre elementi procedurali significativi e immediatamente operativi, a differenza di quanto è stato fatto in passato, in particolare in materia di città metropolitane, che – lo vorrei ricordare – sono previste tali e quali nell'elenco delle dieci città fin dal 1990 con la prima legge di riforma degli enti locali. Fin da allora si individuavano le dieci città metropolitane che vedono tra i requisiti l'aspetto della popolazione, sicuramente non l'elemento più determinante e significativo, la posizione geografica, la complessità delle infrastrutture alle quali afferiscono, nonché il fatto di essere anche città capoluogo. Questo non riduce l'elenco, è probabile che in futuro ne debbano essere individuate delle altre, però ritengo strumentale dire che non si è ponderato a sufficienza su quelle che dovrebbero essere le città che oggi dovrebbero essere trasformate in città metropolitane. Sono ventitré anni che se ne conosce la denominazione e che si aspetta, anzi i cittadini sono ben consapevoli di questa attesa e ormai non ci credono più alle promesse della politica. Piuttosto, ci dovremmo interrogare per quali motivi in ventitré anni non si è riusciti a realizzare una riforma organica delle istituzioni in questo Paese, forse perché questo Paese non è capace di realizzare riforme organiche, proprio perché produce resistenze a tutti i livelli, compresi quelli espressi in questo Parlamento oggi. Ritengo invece che siamo Pag. 35davanti ad una riforma che io chiamo a tessera di mosaico, nel senso che l'obbiettivo è quello di introdurre un cambiamento dinamico, non statico, che si comporrà di diverse tessere, la prima delle quali è quella che presentiamo oggi, che va a modificare l'assetto delle istituzioni territoriali. È vero, in questa fase non c’è l'abolizione delle province, ma una trasformazione in area vasta di secondo livello che, a nostro avviso, non è incostituzionale, in quanto in Costituzione non viene previsto il sistema elettivo diretto delle province o delle città metropolitane. Ciò, lascia desumere che la legge ordinaria può anche regolamentare diversamente l'elezione di quegli enti, senza togliere rilievo costituzionale; infatti, come ricordava il relatore Bressa questa mattina, anche il Presidente della Repubblica è un organo costituzionale, ma non è eletto a suffragio universale, e ciò non toglie a tale figura né autorevolezza né rilievo democratico e costituzionale all'interno della nostra Carta. Finalmente, dopo ventitré anni, vi è anche la previsione delle modalità per l'istituzione delle città metropolitane e un riassetto delle funzioni tra i diversi livelli. È vero, siamo in un disegno dinamico, non statico, non tutto viene disegnato con questo provvedimento, ma è un tassello che si pone l'obbiettivo di costruire insieme il cambiamento.
  Perché io ho l'impressione che si faccia anche molta confusione fra i diversi livelli istituzionali che intervengono e devono intervenire a regolamentare la materia. Lo Stato deve indicare un disegno, ma è indubbio che c’è anche una relazione costruttiva che si costruisce sul campo, che deve essere con le realtà territoriali, con i comuni e con le regioni. Faccio due esempi. Si dice che non viene rispettata l'autonomia dei comuni, dopodiché si critica il fatto che viene lasciato il diritto-dovere e la libertà dei comuni di scegliere se stare o non stare all'interno della città metropolitana. È vero che si rischia di determinare una sovrapposizione, di determinare la permanenza di una provincia, di un ente ciambella, all'interno di una città metropolitana, ma qui interviene la politica, che è sia all'interno di questo ente che ai diversi enti e livelli istituzionali. È la politica che deve determinare un processo di cambiamento e non di resistenza al cambiamento e di salvaguardia magari dello status quo. È qui che si deve in qualche modo accompagnare i comuni a non scegliere di stare fuori, ma a scegliere di stare all'interno di questo processo costitutivo delle comunità delle città metropolitane, che hanno l'obiettivo di rendere finalmente maggiormente competitive le nostre aree metropolitane e di fare un passaggio, un salto di qualità culturale e professionale delle nostre realtà territoriali e di mettere a valore quello che in realtà hanno già costruito in tutti questi anni. Quindi, è vero che la norma prevede un potenziale pericolo, ma è a salvaguardia delle autonomie locali, ed è un pericolo che va evitato attraverso l'azione della politica.
  Secondo aspetto: le regioni. Si dice che le regioni hanno un ruolo marginale: non è assolutamente vero. Lo era forse nel testo originario, e forse qualche collega non ha riletto il testo come è stato definito nella sua stesura definitiva. Qualche citazione non corretta, in effetti, la si è sentita. Le regioni hanno un ruolo fondamentale, sia nella definizione delle funzioni delle città metropolitane, di quelle residuali, che non vengono qui definite e che vengono lasciate alla concertazione dei territori, sia nella definizione degli ambiti e dell'organizzazione delle unioni dei comuni e delle funzioni che eventualmente potrebbero essere redistribuite verso i comuni o le unioni dei comuni e anche verso l'incentivazione alle fusioni. Non è vero, quindi, che le regioni non fanno parte di questo processo, tant’è che le critiche che erano all'interno del parere della Conferenza Stato-regioni erano proprio in questi termini e sono state raccolte nella stesura che è stata portata in Aula oggi e che quindi hanno visto il superamento di quelle criticità che venivano evidenziate. Quindi, c’è un lavoro che va fatto, che in parte è stato definito dalle norme e da questo provvedimento e in parte dovrà Pag. 36essere sviluppato e realizzato nella concertazione fra i diversi livelli istituzionali: Stato, regioni e autonomie locali.
  Ci sono aspetti che qui non vengono evidenziati e che invece vanno ricostruiti nella relazione fra gli enti, ed è un rapporto di fiducia fra le istituzioni. Le istituzioni locali e nazionali sono l'ossatura di questo Paese. Noi non riusciremo ad uscire dalla crisi, dalla situazione di impasse se non ricostruiamo un rapporto di fiducia fra le istituzioni. Le responsabilità, laddove ci sono state delle storture, un uso distorto delle cariche politiche e dei ruoli istituzionali, vanno assolutamente perseguite, ma non possano essere strumentalizzate o «perseguite» le istituzioni rispetto alle loro funzioni e ai loro compiti. E credo che in futuro dovrà essere rivisto – è stato detto anche da altri colleghi – il tema della gratuità degli incarichi, perché c’è un aspetto: noi chiediamo ai nostri amministratori sempre di più, maggiori competenze, maggiori capacità professionali, ma soprattutto tempo, tempo che va dedicato al lavoro istituzionale, e allora, il tempo e le responsabilità, soprattutto quando sono civili, penali e contabili, vanno adeguatamente remunerate, non perché qualcuno ci debba lucrare, ma perché se le istituzioni vogliono persone di qualità che lavorano per loro, sia dal punto di vista tecnico che dal punto di vista politico, devono essere equamente e giustamente remunerate.
  Quindi credo che in un futuro questo aspetto della gratuità vada rivisto proprio per avere all'interno personale competente.
  Io credo che sia particolarmente importante, lo sottolineo, «l'accompagnamento»; con questa legge non finiamo, i tasselli successivi sono sicuramente il riordino delle regioni, il riordino degli uffici periferici dello Stato, e ricordo appunto la norma che è stata introdotta che dice, a differenza di quella originaria che diceva che questo provvedimento non andava a ritoccare gli uffici periferici dello Stato, invece oggi si dice che gli uffici periferici dello Stato non sono più necessariamente ordinati secondo i territori provinciali. Questo vuol dire che quello sarà un'altra tessera del mosaico che dovremmo andare ad intaccare.
  Le fusioni e le unioni, tocco veramente l'ultimo aspetto. Questo provvedimento va ad incentivare le fusioni e le unioni perché si deve fare un passaggio di qualità, si deve superare la frammentazione della nostra organizzazione territoriale e si deve andare verso enti con maggiore capacità critica e quindi anche con maggiore capacità di affrontare e gestire la complessità dell'amministrazione pubblica (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Fabio Lavagno. Ne ha facoltà.

  FABIO LAVAGNO. Signor Presidente, signor Ministro, la ringraziamo per la sua presenza che è un attestato non usuale di attenzione da parte del Governo, o meno dei suoi colleghi, ed è un attestato nei confronti della sua intelligenza, della sua cultura politica rispetto a determinate questioni. Sarebbe inevitabile non fosse così visto che stiamo parlando di autonomie locali e la sua intelligenza, sono certo, la porterà a considerare con drammatica evidenza in quale situazione di incertezza e di confusione, a volte di frustrazione, le autonomie locali nel loro complesso si stiano muovendo, si stiano interrogando sul proprio destino rispetto a come garantire efficacia ed efficienza di servizio nei confronti dei cittadini amministrati.
  Appare paradossale tutto questo alla luce di un periodo, iniziato circa vent'anni fa, in cui ha fatto irruzione nel lessico politico il termine «federalismo», diversamente coniugato, a volte utilizzato come sinonimo di autonomismo o a volte anche nella versione di separatismo.
  Ora crediamo che vent'anni siano un periodo di tempo sufficiente per consentire di verificare in modo pratico gli effetti che l'insieme di norme varate sotto il viatico del federalismo hanno prodotto sul sistema delle autonomie locali nel nostro Paese.
  In particolare, abbiamo subito una accelerazione nell'ultimo triennio con cadenze Pag. 37di norme, con cadenze strettissime, dalla proposta di sopprimere i comuni sotto i mille abitanti – poi revocata –, dall'accorpamento, la soppressione al mantenimento delle province, al tentativo di soppressione bocciato dalla Corte Costituzionale, la soppressione – poi negata – dei consorzi socio-assistenziali, un continuo movimento di avanti e indietro che di fatto ha generato confusione.
  Credo che valga la pena andare all'origine di tutto ciò e andare all'origine di questa serie storica, di questa frustrazione che, aldilà dei proclami, si genera appunto come frustrazione per le autonomie locali, forse occorre richiamare alla mente e alla memoria tutto ciò che è intervenuto dall'istituzione delle regioni negli anni Settanta e alla mancata riforma di allora di comuni e di province.
  Per quei decenni comuni e province sono state istituzioni territoriali in larga misura in balia dello Stato e delle regioni e si è dovuto attendere sino alla legge n. 142 del 1992 per cominciare a incidere sul vecchio ordinamento risalente ancora all'epoca fascista, per valorizzare le autonomie locali in sintonia con quanto stabilito dall'articolo 128 della Costituzione, poi soppresso dalla riforma del Titolo V.
  Nel frattempo, le regioni sono state spesso tentate di intervenire sul tessuto locale, specie prefigurando comprensori, circondari o altre strutture alternative alla provincia. Sono stati tentativi di superare in ogni caso, in ogni modo e in ogni tempo in cui si sono succedute, la dimensione territoriale di area vasta che invece rappresenta, ancora oggi, un punto di riferimento costituzionale imprescindibile del sistema istituzionale del nostro Paese e credo che il dibattito di oggi, nelle parole del relatore e nelle parole del Ministro, ponga questa questione e non la eluda.
  Il tema dell'area vasta, della soppressione o meno delle province, è un tema di natura costituzionale non affidabile a un disegno di legge ordinaria.
  Francamente troviamo un po’ improvvido utilizzare modalità di riformulazione in attesa di una riforma costituzionale e forse in attesa di un'analisi seria delle necessità e dei bisogni rispetto a questa tematica. Gli ultimi vent'anni sono stati contrassegnati invece da riforme e innovazioni che hanno investito in alcuni casi le autonomie territoriali, sia quelle locali comunali, che quelle provinciali. Tali riforme in attuazione e sviluppo del principio autonomistico dell'articolo 5 della Costituzione, hanno avuto anche una rilevanza assai significativa. La stagione autonomistica viene avviata nel 1990 con la legge 142, come ricordavo, e i successivi decreti attuativi che si traducono in tributi propri addizionali, con partecipazione, razionalizzazione dei trasferimenti dal centro alla periferia. Per tutti questa svolta ha due immagini simboliche: l'elezione diretta dei presidenti delle province e dei sindaci e l'istituzione di un tributo locale come quello dell'ICI, che ha avuto alterne vicende nell'arco di questi venti anni.
  In tutti questi anni però permane ciò che si era consolidato anche precedentemente, ovvero un accentramento di carattere regionale, una sorta di progressiva amministrativizzazione dell'ente regione; era ed è una sorta di resistenza delle stesse regioni al decentramento amministrativo degli enti locali, in sostanza un vero e proprio centralismo regionale a cui tutti noi oggi assistiamo. E guardate, credo che noi nell'affrontare il dibattito su questo disegno di legge non facciamo molti passi avanti rispetto alla confusione generata in questi anni, né tanto meno rispetto alla concorrenza tra enti locali.
  In questo provvedimento, l'istituzione delle città metropolitano, tanto attesa, rischia di essere un parto non solo difficile, ma forse anche non con le prospettive che ci si era augurati. Io credo che la mancata abolizione delle province, e quindi il non superamento dell'idea stessa di area vasta, ma la semplice trasformazione di questi enti in enti di secondo livello, non sia quello che si auspicava in termini di democraticità e di rappresentanza istituzionale con una forte legittimizzazione in questo Paese.
  La parte relativa alle unioni di comuni rimane ancora un troppo timido tentativo di razionalizzare l'estrema frammentazione Pag. 38degli otto e più mila comuni presenti in questo Paese. Signor Ministro, una collega mi ha ricordato, richiamando le mie origini regionali, dicendomi: «voi piemontesi, ricordatevelo bene, avete fatto l'Italia ma non siete l'Italia». Signor ministro, le cambio la prospettiva e le dico: l'Italia non è neanche l'Emilia dei grandi comuni, non è nemmeno la Toscana, l'Italia è molto spesso più variegata di come le nostre origini geografiche ce la vogliono rappresentare, è spesso fatta di piccoli o piccolissimi comuni, di entità territoriali estremamente frammentate in realtà geografiche estremamente difficili e in condizioni, come la cronaca quasi settimanalmente ci dimostra, assolutamente fragili, di un territorio lasciato molto spesso alla buona volontà e alle buone pratiche dei singoli amministratori.
  In questo provvedimento noi avremmo voluto che si partisse realmente da un'analisi delle funzioni e da un confronto serio con i diretti interessati in maniera diversa da come è stato fino ad adesso. Invece cittadini ed amministratori non sono stati interpellati adeguatamente se non nella fase di lavoro in Commissione, perché in realtà, e i fatti lo dimostrano, le realtà appaiono più complesse e più variegate di come invece spinte mediatiche spesso ci portano a ragionare a proposito di queste tematiche.
  Ma quello che noi temiamo di più è che si leda un principio che è intrinseco nella nostra Costituzione e nel suo articolo 5, che vado a ricordare a tutti noi, laddove si dice che: «la Repubblica, unica ed indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione» – sua della Repubblica – «alle esigenze dell'autonomia e del decentramento». Mi pare che ancora una volta questo adeguamento dello Stato, questo adeguamento della Repubblica nei confronti della promozione delle autonomie locali non sia un adeguamento proprio, ma sia un adeguamento richiesto dalle autonomie locali ad esigenze di natura politica.
  Perché quello che è in gioco oggi è una forte riduzione della rappresentanza democratica, perché dopo vent'anni di federalismo abbiamo realizzato almeno tre obiettivi, che non so se siano proprio vantaggiosi per gli enti locali: di fatto abbiamo sottoposto praticamente tutti i comuni al patto di stabilità, abbiamo ridotto notevolmente il ruolo e il numero delle assemblee elettive e abbiamo frustrato le ambizioni e le buone politiche degli amministratori locali con continui tagli e una mancata autonomia fiscale degli enti locali. Credo che ancora una volta siamo in questo solco: e il solco più drammatico e più pericoloso è proprio quello della «leggerezza» con cui si pensa di trasformare in enti di secondo livello le città metropolitane, le province e – come di fatto sono, seppur timidamente, già – le unioni comunali.
  Il tema delle città metropolitane, dicevo, è stato un parto lungamente atteso, ma rischia di avere delle conseguenze piuttosto pericolose: perché se viene espunta la possibilità, che era riservata, laddove lo statuto lo avesse previsto, di far eleggere direttamente dai cittadini il proprio sindaco metropolitano, di fatto noi avremo sindaci metropolitani eletti, nella stragrande maggioranza dei casi, da una minoranza dei cittadini che insistono su quelle province; che andranno a presiedere entità di area vasta, le nuove e costituende città metropolitane, delle stesse dimensioni della provincia, che molto spesso conteranno popolazione, numero, concentrazione di risorse non inferiori al 50 per cento stesso delle regioni, e quindi aumentando una conflittualità notevole fra enti che dovrebbero invece collaborare.
  Credo che anche sulla questione delle province dobbiamo dire una parola di chiarezza. È già stata detto, ripetiamolo: non si aboliscono le province, se ne abolisce la democrazia. E guardate, anche qui stiamo facendo molti passi indietro. È stata ricordata dal relatore la riforma Rattazzi. Ebbene, cito volentieri Rattazzi, che fu quell'avvocato che, nella sua funzione Pag. 39di ministro prima e poi di Presidente della Camera dell'Italia unitaria, tolse alla mia città il ruolo di provincia.

  PRESIDENTE. La invito a concludere.

  FABIO LAVAGNO. Perché nel 1859, sotto la riforma Rattazzi – e vado a concludere, Presidente -quantomeno ogni provincia era retta da un consiglio provinciale elettivo che nominava un proprio presidente. La base elettorale, seppur censuaria, era quantomeno dell'8,6 per cento: siamo inferiori, come democrazia, al 1859 ! E quello stesso Rattazzi diceva: «La provincia è una grande associazione di comuni, destinata a provvedere alla tutela dei diritti di ciascuno di essi e alla gestione degli interessi morali e materiali che hanno collettivamente fra loro». Non credo che le province, per come le andiamo a disegnare, potranno rispondere a queste esigenze: è qualcosa di assolutamente drammatico, proprio perché abbiamo invece la necessità di rispondere puntualmente a quei piccoli comuni che, di fronte alla scelta tra l'unione e la convenzione di comuni, molto spesso sceglieranno la seconda, proprio perché l'unione dei comuni non è quel prodromo alla fusione che avremmo auspicato, non è quello strumento valido e incentivato adeguatamente per ridurre quella frammentazione in cui il nostro Paese realmente versa.
  Avevamo visto, all'inizio di questa stagione federalista, nell'elezione di diretta di sindaci e presidenti delle province una via alla modernizzazione del Paese. Ebbene, noi dovremmo incamminarci su quella strada della modernizzazione del Paese, e non crediamo che provvedimenti di questo tipo vadano in quella direzione (Applausi dei deputati del gruppo Sinistra Ecologia Libertà).

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Andrea Mazziotti Di Celso. Ne ha facoltà.

  ANDREA MAZZIOTTI DI CELSO. Signor Presidente, signor Ministro, onorevoli colleghi, vorrei partire da una constatazione che dovrebbe essere di principio ma anche di fatto: l'abolizione delle province è un fatto che non è acquisito oggi, ma lo sarà sicuramente in tempi brevi, perché abbiamo un disegno di legge del Governo, a firma Letta, Alfano, Quagliariello, Delrio, intitolato «Abolizione delle province», e ne prevede l'abolizione dalla Costituzione.
  Abbiamo il MoVimento 5 Stelle che ci ha ribadito pochi minuti fa di essere a favore dell'abolizione. Il PDL, se vogliamo coinvolgere Forza Italia, aveva un programma che lo prevedeva esplicitamente. Noi di Scelta Civica l'abbiamo proposto come il primo punto dei nove presentati al Governo Letta. Quindi, riassumendo, oggi abbiamo Letta, Berlusconi, Alfano, Grillo e noi tutti d'accordo che le province non ci saranno più.
  Io avevo già espresso in quest'Aula il dubbio che il percorso generale sulle riforme avrebbe comportato dei ritardi e per questo noi avevamo chiesto, in sede di discussione del disegno di legge costituzionale generale, che la parte sulle province venisse stralciata. Così non è stato, è stata inserita nella riforma generale e adesso vedremo cosa succede, nel senso che, con quello che si è verificato anche dal punto di vista politico, è evidente che adesso paradossalmente è a rischio – si dice – il percorso di riforma costituzionale generale e quindi non si capisce bene cosa succederà anche su questo aspetto, che credo sia una delle questioni sulle quali c’è il consenso più ampio, in quest'Aula, fra tutte le questioni che stanno venendo discusse.
  Quindi io credo che una prima considerazione da fare sarebbe che tutti i leader politici dovrebbero dirci in questa fase e dovremmo tutti dire che, visto che il disegno di legge sulle riforme è un disegno di legge costituzionale come lo sarebbe quello sulle province, se si vedesse un’impasse nell'analisi e nella valutazione da parte del Parlamento di tutte le altre riforme, quanto meno quella sulle province bisognerebbe cercare di stralciarla e portarla avanti come noi avevamo proposto inizialmente, anche perché se questo Pag. 40non succedesse sarebbe abbastanza grave, perché avremmo programmi elettorali, interviste pubbliche, dichiarazioni pubbliche e disegni di legge che sarebbero sostanzialmente smentiti (non voglio dire carta straccia, però il termine sarebbe questo).
  Oramai in ogni caso la scelta di rinviare è stata fatta, si è scelto di analizzare la riforma delle province in sede costituzionale insieme a tutto il resto e a quel punto è giusto intervenire, nel senso che ci sono una serie di cose che a questo punto vanno fatte e non si può probabilmente aspettare la fine del periodo di riforma, in particolare per evitare di votare sulle province e per una serie di altri interventi che sono sicuramente condivisibili. Penso al «disboscamento» degli enti di secondo livello, di livello subprovinciale, su cui noi abbiamo presentato delle proposte per rafforzarlo ulteriormente e che abbiamo riproposto in aula. Penso all'abrogazione delle norme che prevedono l'intervento provinciale a livello amministrativo in via obbligatoria. Ci sono delle cose sulle quali siamo assolutamente d'accordo.
  Pensiamo anche che l'elezione diretta del sindaco della città metropolitana sia inutile, un'inutile duplicazione, tanto che noi, anzi io personalmente, ho presentato un emendamento soppressivo della facoltà di prevedere l'elezione diretta, perché è una scelta da fare: o si vota nella città metropolitana o nel comune, ma prevedere tutte e due le elezioni ci sembra un'inutile duplicazione di costi e di ruoli. Ci sembra francamente altrettanto poco sensata la famosa regola per cui ci vuole la suddivisione in comuni per poter avere il voto, che è stata prevista per poter avere l'elezione diretta, perché ci sembra una complicazione eccessiva.
  Ora diciamo che dove forse si appunta la critica è sul punto che sarebbe meglio, nel disegno di legge, anziché scrivere «inserire l'inciso: in attesa della riforma costituzionale» e via dicendo, si ragionasse appunto sull'assunto che la riforma costituzionale ci sarà, o comunque i partiti principali la vogliono, e quindi cercare di strutturare un disegno di legge che sia più adattabile alla situazione in cui le province vengano effettivamente abolite. Infatti è evidente che, come è stato scritto, gli interventi necessari dal punto di vista della legge ordinaria saranno pesantissimi se ci sarà l'abolizione delle province. Penso all'esempio, citato poco fa dalla collega del MoVimento 5 Stelle, delle famose province di nuova creazione. Francamente se si avrà questa situazione (città metropolitana, nuova provincia, abolizione delle province a fine anno) visto da uno che legge l'evoluzione normativa due o tre anni dopo, sembra una cosa piuttosto schizofrenica. Quindi ci sono delle cose sulle quali secondo noi si sarebbe potuto cercare di adottare delle soluzioni che fossero più coerenti con un eventuale disegno di riforma costituzionale successivo. Noi abbiamo cercato di farlo.
  Io ho presentato degli emendamenti che prevedono, ad esempio, dove si parla delle funzioni delle province, che sia la legge regionale, con riferimento a degli ambiti di funzioni massime delle province, che oggi esistono e non si possono eliminare, a determinarne l'ambito, in conformità alla Costituzione, e quindi senza un'eliminazione totale, in maniera tale che le regioni possano prepararsi a un'eventuale riforma, riducendo al minimo possibile e conformemente alla Costituzione le funzioni esercitate dalle province.
  Infatti, anche una volta eliminate le province, vi sarà bisogno di una gestione intermedia. Vi sono servizi che, probabilmente, non possono essere gestiti dai comuni o dalle regioni, ma saranno necessarie strutture intermedie amministrative, probabilmente. Senza costi politici, senza elezioni, ma vi sono, probabilmente, in determinate regioni, situazioni che andranno gestite in un ambito di area vasta e di bacini ottimali. Però, per come è stato fatto, questo disegno di legge indubbiamente fa pensare ai più maliziosi, che però molte volte hanno ragione, che un reale intento di eliminare le province in molti non vi sia.
  Per concludere, avremmo preferito che si discutesse prima il disegno di legge costituzionale. Non è avvenuto e voteremo a favore di questo provvedimento, perché Pag. 41riteniamo che si debba evitare un voto nelle province dove questo potrebbe accadere e perché riteniamo che altri interventi siano giusti. Auspichiamo che siano accolti alcuni dei nostri emendamenti che rendono più possibile e più facile un passaggio a una situazione successiva, nel caso in cui venissero abolite le province.
  Se poi il riordino si fermasse qui, finiremmo per dare ragione a chi ci accusa di avere fatto uno spot elettorale, anzi, non elettorale, ma politico – prima elettorale, direi, per quei partiti che lo hanno messo nel programma e, oggi, politico da parte del Governo –, e di non avere veramente voluto riformare il sistema. Se questo accadesse, questa legge resterebbe appesa, perché, indubbiamente, suggerisce un passaggio successivo alla riforma e all'abolizione, e quindi resterebbe un po’ monca, probabilmente, e, da un punto di vista politico, credo che tutti i partiti che proclamano di voler abolire le province perderebbero la faccia (Applausi dei deputati del gruppo Scelta Civica per l'Italia).

  PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Dieni. Ne ha facoltà.

  FEDERICA DIENI. Signor Presidente, Ministro, colleghi, il provvedimento in esame e gli emendamenti ad esso presentati dagli altri gruppi non trovano il nostro appoggio per le ragioni di metodo e di contenuti da noi già espressamente elencate in Commissione, dove, purtroppo, abbiamo riscontrato una tale chiusura alle nostre argomentazioni da essere costretti ad abbandonare i lavori nella fase conclusiva.
  Pur apprezzando lo sforzo di mettere mano, attraverso questo provvedimento, a un tema delicato e mai veramente riformato organicamente, invitiamo il Governo e il Parlamento a ripensare all'opportunità di approvare il disegno di legge, dichiarando, al contempo, la disponibilità del MoVimento 5 Stelle a partecipare a una discussione mirata a condividere una riforma costituzionale che riguardi tutti gli enti locali, nonché gli enti inutili.
  Il disegno di legge rappresenta, di fatto, una trovata pubblicitaria, uno spot, per non dire l'ennesimo tentativo di realizzare quella «circonvenzione di elettore» ai danni dei cittadini italiani, che è pratica molto comune in Parlamento. Questo disegno di legge infatti: serve unicamente alla maggioranza per poter affermare falsamente davanti all'opinione pubblica che si stanno sopprimendo le province, mentre l'unica strada possibile per ottenere questo risultato è una legge di revisione costituzionale; dovrebbe essere provvisorio, ma rischia di diventare definitivo; infine, in realtà, con l'intenzione di svuotare le province, crea una duplicazione o, addirittura, una triplicazione di funzioni, che causeranno problemi a cittadini e imprese.
  Sicché il presente atto non è idoneo né a realizzare una razionalizzazione della disciplina degli enti territoriali, ma, anzi, crea situazioni conflittuali, né a semplificare o a innovare la normativa vigente, ma ha un intento meramente propagandistico e produce soltanto confusione.
  Vi sono vari punti che manifestano una palese illegittimità costituzionale. Le disposizioni sulla trasformazione delle città metropolitane e delle province da enti territoriali di primo livello, con organi quindi direttamente elettivi, ad enti territoriali di secondo livello, con organi di governo indirettamente elettivi, sono incompatibili con le disposizioni costituzionali secondo le quali le città metropolitane e le province, al pari degli altri enti territoriali, sono enti autonomi, costitutivi della Repubblica e hanno determinate competenze riservate e le collettività locali operano mediante organi collegiali costituiti da membri eletti a suffragio libero, segreto, paritario, diretto e universale.
  Le disposizioni del disegno di legge sul subentro totale o parziale delle città metropolitane alle province omonime sono incompatibili con le disposizioni costituzionali appena citate e con quelle che prevedono che l'istituzione di nuove province e, per analogia, l'abolizione delle province esistenti si svolgano secondo una determinata procedura.
  Si segnala, inoltre, che le disposizioni del disegno di legge sull'esclusione o sulla limitazione della partecipazione dei piccoli Pag. 42comuni e delle minoranze politiche alla democrazia rappresentativa nelle città metropolitane sono incompatibili con le disposizioni costituzionali secondo le quali la sovranità appartiene al popolo e tutti i soggetti giuridici hanno uguale diritto di partecipare alla democrazia rappresentativa.
  In realtà, appunto, con questo provvedimento si manifesta palesemente la volontà politica di conservare le province, la volontà politica di questa maggioranza e di questo Governo, in quanto per le province insistenti sui territori delle città metropolitane, si prevede la loro estinzione, la riduzione delle relative circoscrizioni in violazione della Costituzione oppure la loro conservazione, in spregio ad esigenze di razionalizzazione e di economizzazione della pubblica amministrazione.
  Si registra, per le province sopravvissute, il mantenimento, sostanzialmente, delle stesse funzioni e strutture che attualmente sono già attribuite ad esse, contrariamente all'intenzione, ripetutamente espressa nel disegno di legge, di favorire una riforma costituzionale della materia in questione, incentrata sulla vera abolizione delle province.
  Si registrano inoltre: la volontà della maggioranza di istituire delle città metropolitane con aumento di spesa pubblica e di attribuire ad esse le strutture e le funzioni delle province, con aggravio della pubblica amministrazione; il mancato trasferimento di funzioni e di strutture delle province, nella misura massima costituzionalmente consentita, e senza modificare le relative circoscrizioni, ad enti territoriali già esistenti o ad organismi associativi tra questi ultimi, come anzitutto le unioni di comuni.
  Ciò che in questo provvedimento manca, quindi, è sia l'abolizione degli enti inutili, sia la fusione dei piccoli comuni sotto i 5.000 abitanti, che invece noi riteniamo necessarie.
  La disciplina del sistema delle autonomie locali stabilita dal provvedimento risulta non soltanto oscura, incerta e di costosa applicazione, ma anche illegittima e inopportuna. Vi si legge in controluce la ratio di simulare la volontà politica di abolire le province e di dissimulare quella di addizionare alle province omonime le città metropolitane, sugli stessi territori e con le stesse funzioni e strutture, moltiplicando, quindi, i centri di decisione e di spesa, e rimettendo a tali enti territoriali la facoltà di risolvere le criticità illustrate, se possibile, in via di conciliazione o, altrimenti, ricorrendo alla Corte costituzionale, prima, e al Parlamento, poi.
  Per queste ragioni, il MoVimento 5 Stelle fa appello a tutti i parlamentari di buona volontà, appartenenti a tutti i partiti, affinché, per un momento, superino le loro appartenenze di parte per tornare ad essere, almeno per una volta, portavoce dei cittadini, contrastando la presente manovra legislativa e impegnandosi per una riforma costituzionale della materia in questione, ispirata ai principi di efficacia, efficienza ed economicità.
  Ribadiamo – e vogliamo, appunto, fare chiarezza e ristabilire la verità – che noi abbiamo depositato una nostra proposta di legge costituzionale. Quindi, se vogliamo agire, dobbiamo farlo prima modificando la Costituzione e poi, eventualmente, quindi, riorganizzando, con un testo corposo e organico, tutti gli enti territoriali.
  Non ha senso agire in questo modo. Ha senso soltanto se la maggioranza – in questo caso, appunto, sembra confermarlo – non vuole successivamente agire per abolire e abrogare le province dalla Costituzione (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Roger De Menech. Ne ha facoltà.

  ROGER DE MENECH. Signor Presidente, rappresentanti del Governo, colleghi, anche dalla discussione di questa mattina credo di poter dire che, nel tentativo di razionalizzare, facciamo discussioni molto poco razionali. È chiaro, infatti, che dobbiamo collocare questo intervento normativo all'interno di un quadro politico, sociale e direi quasi culturale che vede coinvolto il tema delle province negli ultimi anni. Invece, dalle discussioni Pag. 43che vediamo oggi, sembriamo dei marziani, che scendono nel Parlamento e che improvvisamente si trovano a confrontarsi con una riforma che nessuno si aspettava.
  Io voglio solo ricordare che ci sono province, di questa Italia, che sono da oltre due anni commissariate. Ci sono province che vivono in un limbo, in un'incertezza, che è assolutamente la situazione peggiore in cui possiamo mettere i nostri amministratori.
  Per questo è paradossale che, nonostante che praticamente tutti i partiti politici presenti in Parlamento e tutte le forze politiche, ma anche una gran parte della società civile, ci chiedano di riformare le province e di razionalizzare i servizi pubblici, oggi, nei confronti di un dibattito parlamentare, siamo su posizioni più ideologiche che concrete.
  Infatti, è chiaro che tutto quello che ho detto è la premessa indispensabile del perché siamo qui a discutere di riorganizzazione delle province. La vera sfida di questo provvedimento non è il provvedimento in sé, ma è la capacità che avranno questo Parlamento e, soprattutto gli amministratori locali nel rendere operative le razionalizzazioni che sono all'interno del provvedimento stesso. Questa è la vera sfida: è il domani, quando noi dovremo rendere concreto questo provvedimento. Quindi, la vera sfida è l'aspetto di concretizzazione del provvedimento stesso e, su questo campo, io credo che questo provvedimento tracci una linea, ma che dia molti strumenti ed anche molto lavoro da fare, con la premessa che facevo prima, che è indispensabile, ossia che oggi è impensabile – lo ripeto – rimanere fermi su queste tematiche.
  Abbiamo molti temi da discutere e molti ambiti su cui intervenire: la proliferazione delle aziende, delle aziende speciali, delle società dei comuni, degli ambiti. Tutto questo ha creato nel corso degli anni una sedimentazione tale da rendere complicata la vita ai cittadini. Questo dobbiamo dire ! Questa è la vera sfida che dobbiamo affrontare e questo provvedimento è una base di partenza importante.
  Io mi sono occupato di un pezzo di questa razionalizzazione, di una di queste sfide: quella delle polizie, quella del sistema di sicurezza ambientale. È proprio lì che noi riusciamo a concretizzare, dando non soltanto l'impressione, ma anche la concretezza, ai nostri cittadini che iniziamo con un po’ di buon senso a mettere insieme le istituzioni e a formulare provvedimenti che poi concretamente determinano un beneficio per i nostri cittadini.
  Io vengo a dire anche che sul campo delle unioni e delle fusioni dei comuni, come è stato detto più volte – e parlo anche nella mia veste passata di amministratore –, siamo sulla strada giusta. È perfettamente inutile obbligare a questi percorsi i nostri comuni. Noi dobbiamo stimolarli, dobbiamo creare il presupposto giuridico perché queste fusioni e queste unioni di comuni abbiano da crescere in maniera volontaria e consapevole rispetto ai nostri amministratori.
  Io vengo a dire – anche con un senso di provocazione – che, se questa norma facesse tutto questo percorso, per i nostri cittadini la successiva riforma costituzionale diventerebbe quasi superflua, perché noi non dobbiamo essere concentrati sulla norma di per sé, sull'aspetto giuridico. È chiaro che come legislatori abbiamo questo compito. Ma noi dobbiamo essere concentrati sul ritorno che hanno le norme rispetto all'uso che ne fanno i cittadini, le nostre imprese: la semplificazione. Allora, vogliamo dirci che su questo aspetto c’è molto lavoro da fare e che questo è il primo passo ? Perché, altrimenti, corriamo il rischio che tutti i programmi politici, tutte le forze politiche continuino a ribadire a più voci che è necessario abolire, ma poi nessuno praticamente mette un punto, mette un segno, mette un punto di inizio.
  Questa è la parte iniziale del mio discorso. Avrei voluto farlo più a lungo, ma proprio ieri, rispetto alle tematiche che mi sono più vicine, che sono quelle delle aree montane della nostra penisola, leggo un articolo de Il Sole 24 Ore di sabato che dice: «Belluno e Sondrio vincono. Governo Pag. 44che va eccezione che viene». Ecco, io voglio spiegare concretamente la questione delle aree montane della nostra penisola, perché è chiaro che siamo anche qui nei confronti di una legittima e sacrosanta – finalmente – concretizzazione di concetti che sono presenti nella nostra Italia da troppi anni e che da troppi anni sono stati aggirati.
  Quindi, per rispondere proprio a questo articolo, che era un «filino» ironico nei confronti di questo riconoscimento normativo delle aree interamente montane confinanti con Stati esteri, io cito una piccola frase: «Autonomia non è espressione verbale, ma è lavoro di tutti giorni: progetti concreti che vengono applicati, esigenze esistenti che vengono soddisfatte, mano a mano – questo è importante – che i mezzi lo permettono».
  Chi era questo ? Era Alcide De Gasperi, che è stato uno dei più forti sostenitori delle autonomie. Mano a mano che i mezzi lo permettono. Oggi il presente provvedimento è il mezzo che ci permette il momento politico e questo dobbiamo cogliere. Ma perché lo dobbiamo cogliere ? Perché le situazioni della montagna italiana sono situazioni ormai che gridano dolore. Io riporto qualche cifra perché è corretto – con il Ministro ne abbiamo parlato più volte – che il Parlamento sappia perché si prendono alcuni provvedimenti e che li dobbiamo prendere a testa alta riconoscendo un'oggettiva difficoltà di quelle aree.
  La provincia che mi onoro di rappresentare, nel 1921, aveva gli stessi abitanti grosso modo della provincia di Trento e la provincia di Bolzano ne aveva 400 mila. Cosa è stato l'effetto di un'autonomia virtuosa ? Che oggi la provincia di Belluno è calata a 213 mila abitanti, quella di Bolzano è a 529 mila e quella di Trento a 507 mila. Ma per un semplice motivo, quasi banale direi: condizioni particolari geografiche hanno bisogno di situazioni normative particolari. È questa la verità, è questo il grido d'allarme e di dolore delle aree che sono più in difficoltà, che sono quelle montane.
  Altro dato: nel 1971, anno di svolta per le autonomie, le presenze turistiche erano praticamente uguali nelle province montane, circa 5 milioni a testa. Oggi la provincia di Belluno è rimasta a 5 milioni, Bolzano è a 30 e Trento a 28. Questo in virtù dell'applicazione virtuosa dell'autonomia in quelle province. Questo è un primo passo e non è sufficiente, come dicevo. Probabilmente la sfida vera, che vale per il provvedimento in senso generale e vale anche per il provvedimento in senso puntuale, è l'applicazione di tutte queste norme, è come gli amministratori locali sapranno interpretare la sfida anche di questa normativa all'interno di un panorama europeo che viene definito dalla Convenzione delle Alpi e all'interno, quindi, di una macro regione alpina, della regione dolomitica e all'interno di tutti quei contesti di aree che hanno la loro specificità e che hanno bisogno, quindi, di un riconoscimento.
  All'interno del presente provvedimento, come dicevo, questo viene riconosciuto e credo sia un passaggio sacrosanto, mettendo anche in discussione comunque, come ripeto, tutto quello che è oggi l'amministrazione locale. Oggi abbiamo parlato molto di amministratori, di comuni. Io credo che i comuni italiani siano veramente il motore fondamentale per lo sviluppo del nostro Paese.
  E, allora, in questo senso dobbiamo vincere la sfida anche dei rapporti che non sono previsti, per i motivi detti, all'interno di questo provvedimento, anche nei rapporti fra i comuni, le province, le nuove province e le regioni. Questa è la sfida di razionalizzazione. Mettendo insieme, in un procedimento virtuoso, quella che è esattamente la filiera dell'amministrazione pubblica.
  Solo una puntualizzazione, una chiusura rispetto al provvedimento che mi riguarda più da vicino. Mano a mano che i mezzi lo permettono, diceva Alcide De Gasperi. Questo è un primo punto: è chiaro che noi dobbiamo avvicinare la competitività del sistema alpino e della montagna italiana. Dobbiamo avvicinarla. E non possiamo creare, sia da un punto di Pag. 45vista demografico, che geografico, differenze troppo evidenti. Come sa il Ministro, io avrei auspicato addirittura le province montane molto simili a quelle province a statuto speciale riconosciute dalla nostra Costituzione.
  Questo è un primo passo e io spero, mi auguro, ma ne sono convinto, che sia un passo decisivo anche per i successivi provvedimenti per creare veramente aree alpine omogenee che possono vincere la sfida all'interno dell'Europa e che possono veramente essere un motore di sviluppo. Infatti, ricordiamolo, come diciamo sempre, le bellezze naturali del nostro territorio e della nostra Italia sono uno di quei motori. Come ho detto, la buona gestione di queste bellezze passa anche da forme di autonomia. Quindi, questo è lo stimolo che do al Governo e che do a tutto il Parlamento (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Sannicandro. Ne ha facoltà.

  ARCANGELO SANNICANDRO. Signor Presidente, bisogna dare atto al relatore per la maggioranza, il collega Bressa, di essere stato intellettualmente onesto e molto chiaro. Egli ha detto che questo disegno di legge – io traduco – rappresenta ormai il requiem della legge di riforma della Costituzione relativamente al Titolo V e anche al disegno di legge di riforma costituzionale n. 1543, che prevede l'abolizione delle province. Altrettanta chiarezza, però, non ho colto nelle parole del Ministro Delrio.
  Ora, il collega Bressa lo dice a ragion veduta, perché in effetti la Commissione ha eliminato dal testo – io dico, dall'ex testo, mi scusi, Delrio, perché ormai non c’è più tanta coincidenza tra il testo del Governo e questo – là dove c’è l'inciso secondo cui la presente legge detta disposizioni anche in attesa della riforma costituzionale ad essi relativa. Questa abrogazione è ripetuta ogni volta in cui è presente questa dicitura. Quindi noi siamo di fronte ad un testo che disciplina compiutamente e definitivamente, sostanzialmente, il nuovo regime delle province.
  Ora, si potrà essere d'accordo o non d'accordo con questa situazione, però è ovvio che il Governo deve essere chiaro su questo punto: praticamente, domani, i media come devono titolare: sopravviveranno o non sopravviveranno le province ? Noi abbiamo approvato una legge, la quale stabilisce che il Comitato per le riforme costituzionali dovrà modificare il Titolo V della Costituzione e poi abbiamo, sempre in Commissione, il disegno di legge n. 1543, che è intitolato, appunto, abrogazione delle province. Sostanzialmente, che fine fa questo disegno di legge ? Lei, signor Ministro, su questo punto non è stato affatto chiaro.
  Ora, io personalmente sono lieto del fatto che le province sopravvivano, è una mia percezione personale, perché ho sempre combattuto contro la nascita delle province artificiali, cioè praticamente quelle che hanno visto la luce negli ultimi anni, però sono sempre stato dell'opinione che non è possibile sopprimere così tanto facilmente un ente che ha una sua storia e una sua funzione. Paradossalmente, siamo arrivati al punto che, mentre all'Assemblea costituente si aveva diffidenza delle regioni ma non delle province, cioè si aveva diffidenza dell'istituto regionale perché era un istituto a cui venivano attribuiti poteri legislativi e, quindi, c'era una sorta di diffidenza in quanto sul territorio nazionale ci sarebbero stati due enti con potere legislativo, invece vi è una certa predilezione per le province, che storicamente hanno rappresentato il raccordo tra la città e la campagna.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE SIMONE BALDELLI (ore 13,55)

  ARCANGELO SANNICANDRO. Ora siamo arrivati al punto, in questi anni, grazie all'opinione pubblica – anzi, pubblicata, come io amo dire, che è stata incrementata in tutti questi vent'anni – che le province sono diventate un ente inutile o un ente da abolire.
  La realtà si imporrà e si sta imponendo, in fin dei conti, perché è indubitabile Pag. 46che rimangono dei problemi che oggi si denominano di area vasta, è evidente che vi sono delle situazioni che non possono essere governate a livello comunale. E quindi, come dicevo, la realtà si sta vendicando. Però, è anche inaccettabile il modo in cui si fanno sopravvivere le province. È stato già detto da qualche collega che, in fin dei conti, tutta questa parodia, tutta questa commedia, in che cosa si è risolta ? Si è risolta nella ormai consueta riduzione, nella consueta offensiva nei confronti della democrazia. E non lo dico per spirito polemico, lo dico avendo letto la relazione che accompagna il disegno di legge n. 1542, laddove più volte – ben cinque – è ribadito che si tratta di modificare la Carta costituzionale, in fin dei conti, riducendo il livello degli enti territoriali.
  Soprattutto, è scritto che bisogna ridurre la classe politica, non più i costi della politica, ma la classe politica. Anche qui abbiamo una dichiarazione di onestà intellettuale, perché in questi vent'anni, partendo dall'attacco ai costi della politica, in fin dei conti, si è arrivati ai costi della democrazia e quindi all'eliminazione, alla riduzione della classe politica. Basti vedere qual è stata la sorte che hanno subito i consigli comunali che, nel giro di vent'anni, si sono ridotti, sostanzialmente, a ben misera cosa; consigli comunali che, spesso, non costavano nulla, come non costano nulla, sostanzialmente, al di là dei consigli comunali dei grandi comuni. La stessa sorte, sostanzialmente, è stata assegnata alle province.
  Ho preso i dati della Corte dei conti sui costi della classe politica e, quindi, sui costi della politica. Ora, la Corte dei conti spiega, con tanto di tabelle e con i dati rilevati dal Ministero, che, sostanzialmente, il costo della politica dell'ente provincia ammonterebbe ad appena 105 milioni di euro all'anno, a fronte di una movimentazione di 8 miliardi di euro. Ora, è evidente che tutto ciò non giustifica affatto la «canea» che si è sviluppata contro la politica e contro gli enti in cui la politica viene esercitata.
  Ora, il testo di questo disegno di legge è veramente inaccettabile; è inaccettabile, lo ripeto, non soltanto perché non è altro che il punto di arrivo di questa grande, grande campagna di aggressione nei confronti della politica, ma soprattutto è in contrasto, è già stato ricordato, con l'articolo 5 e con l'articolo 114 della Costituzione, dove è scritto ben chiaramente – dobbiamo parlare a livello di Costituzione vigente – che la Repubblica è costituita – non si articola, ma è costituita – dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato. Questa è una dizione sulla quale, lo ripeto, ho anche da esprimere qualche perplessità, perché qui c’è il famoso dibattito che si aprì all'epoca sulla equiparazione tra comuni, province, regioni, città metropolitane e Stato, ma, indipendentemente da ciò, rimane il fatto che allo stato attuale la nostra Repubblica contempla, come fatto costitutivo, le province e i comuni come enti autonomi, enti territoriali autonomi e non come struttura di servizio, come nella relazione che accompagna il disegno di legge n. 1542, è spesso ripetuto. Ciò è spesso ripetuto, cioè il redattore richiama spesso l'attenzione del lettore sul fatto che non devono più contemplarsi enti autonomi, enti territoriali autonomi, ma questi, come la città metropolitana, come la provincia, come l'unione dei comuni, devono essere concepiti, semplicemente, come delle strutture di servizio.
  Ora, sulla base di questa logica è nata l'idea bislacca di una elezione di secondo livello. Praticamente è nata l'idea di attribuire, addirittura con voto ponderato, la rappresentanza degli interessi della provincia a figure che non hanno l'adeguata rappresentatività politica e del territorio.
  Ora, ho preso lo spunto da tutto ciò per dire che non è proprio il caso di manomettere la Costituzione con tanta semplicità e con tanta facilità. Avete avviato un percorso che era quello di revisione della Costituzione, lo avete avviato indubitabilmente con una certa coerenza, nel senso che, se dobbiamo mettere mano all'impianto della struttura dello Stato e delle sue componenti non dobbiamo far altro Pag. 47che partire dalla Costituzione. Allora, quello che bisogna sapere, oggi, che gradirei conoscere oggi, è che fine fa quella impostazione ? Se devo credere a quello che ha detto il collega Bressa, oppure se devo credere ancora alle carte che ho sottomano. Questo è un punto dirimente, perché se questo punto non viene chiarito è evidente che stiamo praticamente facendo il famoso gioco delle tre carte.
  Ed è evidente che l'accusa che il Governo va avanti con spot pubblicitari, spot politici è molto, molto fondata.
  Ora, io non mi soffermo sui singoli articoli e sui singoli istituti: lo faremo dettagliatamente quando presenteremo i nostri emendamenti, voglio semplicemente ancora ribadire che l'area vasta è una realtà, e che deve essere governata, e che non può essere governata nel modo in cui si è previsto in questo provvedimento.

  PRESIDENTE. Onorevole Sannicandro...

  ARCANGELO SANNICANDRO. Ho finito il tempo, per caso, Presidente ?

  PRESIDENTE. Ha ancora trenta secondi, onorevole Sannicandro.

  ARCANGELO SANNICANDRO. Allora, posso continuare. Stavo dicendo appunto che l'area vasta è ineliminabile, non la si può eliminare con la bacchetta magica, con un decreto-legge, neanche con un disegno di legge ordinaria; reclama, l'area vasta, di essere governata, e se la dobbiamo governare, che sia governata democraticamente.

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Gitti. Ne ha facoltà.

  GREGORIO GITTI. Signor Presidente, signor Ministro, signori rappresentanti del Governo, cari colleghi, la riforma che iniziamo a discutere oggi, mi viene da definirla la riforma «nel frattempo». Segue un tentativo, promosso dal Governo Monti, di razionalizzazione delle province che ha avuto un vaglio negativo, per ragioni di carattere formale, da parte della Corte costituzionale. Segue un'iniziativa del Governo, probabilmente definibile «estemporanea», con un disegno di legge costituzionale per l'abrogazione dell'ente provincia nell'ambito della Costituzione, credo ampiamente superato dal dibattito che ho appena ascoltato e dai lavori osservati in Commissione. Anticipa quello che, nell'ambito del Titolo V, il famoso Comitato dei quaranta, tra deputati e senatori, dovrà discutere, semmai – come noi ci auspichiamo – partirà.
  Detto questo, e quindi nell'ambito di un reticolo normativo in divenire, avremo da sistemare molte cose, lo faremo credo – mi auguro – con una certa decisione nell'ambito di questo Comitato, identificando anche nelle regioni un necessario laboratorio di razionalizzazione, un elenco che la Costituzione ci restituisce assolutamente inadeguato nell'oggi, con riferimento alle situazioni demografiche, economiche, produttive, sociali. Quindi, la necessità di un ripensamento del livello regionale, ma probabilmente anche del livello di funzioni e di poteri amministrativi e normativi a livello regionale. Troppi sono stati i casi di disfunzioni, di sovrapposizioni, di contrapposizioni fasulle, inventate e pretestuose. Questo sarà un livello di riflessione alto, ma necessario.
  Nel frattempo, ad un livello più basso, appunto ci stiamo muovendo con la riforma che mi piace nominare con il nome del Ministro Delrio. E qui immagino un discorso in divenire, in divenire non solo con riferimento al lavoro della Commissione, ma anche al lavoro dell'Aula; e lo dico non solo per anticipare che oggi ho presentato un emendamento che cerca di cucire quanto sto per dire; lo dico anche con riferimento agli elementi di novità politica che si stanno coagulando in questi giorni, perché mi piace immaginare che questa riforma possa essere rafforzata da una maggioranza, magari meno consistente dal punto vista numerico, ma più forte dal punto di vista della strategia politica. E, quindi, mi scuserà il Presidente se in qualche passaggio farò riferimento diretto al ministro Delrio.Pag. 48
  Abbiamo detto che a livello alto ci sono le regioni; a livello, chiamiamolo così, della rappresentanza più immediata, i comuni; immaginiamo una sopravvivenza – ripeto, nel frattempo – dell'ente provinciale, all'interno del quale io vedo muoversi, con riferimento ai necessari processi di programmazione e di coordinamento, le unioni di comuni.
  Le unioni di comuni saranno necessarie per salvaguardare alcuni servizi essenziali: parliamo di quelli formativi, scolastici, sociali e per quanto riguarda il coordinamento sempre più necessario nell'ambito dei servizi pubblici come quelli relativi alla distribuzione di gas, energia elettrica e dei nuovi servizi che la tecnologia sta sviluppando. Serve una maggiore massa critica, servono maggiori risorse – ripeto – per poter cablare dei paesi, per poter gestire in modo innovativo e consono agli standard ambientali il servizio di smaltimento dei rifiuti, solo per fare alcuni esempi. Ma nel momento in cui si affaccia il nuovo ente della città metropolitana, un ente non nuovo, citato addirittura nella Costituzione e frenato da chi si sentiva in concorrenza, cioè dalle regioni, io immagino che, nell'ambito delle regioni più ampie da un punto di vista non soltanto demografico, ci sia la necessità di una maggiore forza di coordinamento che vada nel senso di superare l'ente provinciale. Mi spiego subito e spiego anche il senso di un emendamento che oggi ho presentato, secondo il quale nell'ambito delle province con un tetto, anzi con un pavimento – con un floor, direbbero gli anglosassoni – di 1 milione di abitanti, ci possa essere la possibilità di aprire quel numero chiuso di città metropolitane che abbiamo ereditato – e probabilmente ereditato come il frutto di un accordo politico che non ho reticenze nel definire assolutamente inadeguato e da superare –, in modo da poter supportare questa domanda, questa possibile apertura, chiesta da ragioni che sovrintendono alle necessità strategiche di un coordinamento del livello sociale, produttivo ed economico. Sto pensando, in particolar modo, alle regioni del nord, dove in alcune aree particolarmente popolose c’è la necessità di offrire un'interlocuzione unitaria e forte rispetto a forze produttive ed economiche e finanziarie arrembanti, da questo punto di vista. Serve dare un di più alla rappresentanza e alla rappresentatività politica.
  Questo per dire che, ripeto, nella riforma «nel frattempo», oltre alle province, rispetto alle quali ho sentito voci improntate probabilmente alla nostalgia e alla tradizione della struttura degli enti locali, io immaginerei un'altrettanto compensativa apertura sul livello delle città metropolitane, dove, evidentemente, è il sindaco della città metropolitana a svolgere quell'opera di coordinamento, ma da ripensare – questo lo dirò evidentemente in una seconda fase –, dove probabilmente la sua forza politica, la sua capacità rappresentativa dovrà passare attraverso una conferma elettorale diretta e quindi una forma di elezione diretta.
  Non vorrei, Ministro Delrio, affaticarla ulteriormente in questi giorni decisivi, ma probabilmente è necessario un ripensamento anche sul tema dell'elezione diretta nell'ambito delle province, quindi del presidente della provincia. Mi auguro che ci possa essere ancora uno scarto, una possibilità anche di ripensamento che potrebbe dar luogo anche ad una – ripeto, «nel frattempo» – apertura sull'elezione diretta del sindaco della città metropolitana, se davvero vogliamo investire su questo livello, come io mi auguro e come mi auguro che anche questa nuova maggioranza politica possa fare. Ripeto, lo faremo con una riflessione politica, istituzionale e giuridica che avrà tempo anche di maturazione nell'ambito dei lavori di riforma costituzionale, ma che dobbiamo già immaginare e prevedere sin da ora. Grazie per l'attenzione.

(Annunzio di una questione sospensiva e di una questione pregiudiziale – A.C. 1542-A)

  PRESIDENTE. Avverto che sono state presentate la questione sospensiva Dadone ed altri n. 1 e la questione pregiudiziale di Pag. 49costituzionalità Brunetta ed altri n. 1, che saranno esaminate e poste in votazione prima di passare all'esame degli articoli.
  Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

(Repliche dei relatori e del Governo – A.C. 1542-A)

  PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare il relatore di minoranza, deputato Matteo Bragantini. Ne constato l'assenza e, pertanto, s'intende che vi abbia rinunziato.
  Ha facoltà di replicare il relatore per la maggioranza, onorevole Bressa.

  GIANCLAUDIO BRESSA, Relatore per la maggioranza. Signor Presidente, molto brevemente, ma è necessario perché vorrei chiarire alcuni equivoci politici e vorrei porre due questioni ai colleghi che sono intervenuti. Innanzitutto l'equivoco di tipo politico, in cui qualcuno è incorso. Io, nella mia relazione, sono voluto partire, non a caso, da un commento alla sentenza n. 220 del 2013 perché è da lì che ha un senso cominciare a riflettere per capire che cosa stiamo facendo. Se permettete rileggo un passo che avevo già letto, in modo tale che questo mi consenta di essere, in questa occasione, più chiaro.

  PRESIDENTE. Onorevole Bressa, soltanto una cosa. Io le ricordo che lei ha poco meno di un minuto del tempo residuo.

  GIANCLAUDIO BRESSA, Relatore per la maggioranza. Si, Presidente, il tempo di leggere questo passo. Cito testualmente la sentenza. La Corte afferma che i propri argomenti «non portano alla conclusione che sull'ordinamento degli enti locali si possa intervenire solo con legge costituzionale – indispensabile solo se si intenda sopprimere uno degli enti previsti dall'articolo 114 della Costituzione, o comunque si voglia togliere allo stesso la garanzia costituzionale». È esattamente quello che ha fatto il Governo: ha presentato un disegno di legge che anticipa la fine, politica, delle province come enti politici e rappresentativi necessari e discuteremo al momento opportuno la riforma costituzionale.
  La domanda che voglio fare ai colleghi è: mi citino un esempio, tra i grandi Paesi, in cui la dimensione di area vasta è stata soppressa. Possono scegliere tra Germania, Spagna, Francia, Regno Unito, Polonia. Citino uno di questi Paesi: se in uno di questi Paesi l'area vasta è scomparsa io sono disponibile ad adeguare la legislazione italiana a quella di quel Paese, ma siccome questo non è possibile, è bene e opportuno approvare questo provvedimento.

  PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare il rappresentante del Governo.

  GRAZIANO DELRIO, Ministro per gli affari regionali e le autonomie. Signor Presidente, molto rapidamente per ripetere alcune questioni che sono state sollevate. Il disegno di legge non intende deprimere la democrazia; il secondo livello è un livello assolutamente fruito da diverse istituzioni a partire, appunto, dal Presidente della Repubblica che viene eletto in questa Aula, e non direttamente dai cittadini. Quindi, non capiamo dove possa esistere, in un ente di coordinamento, una lesione della democrazia da questo punto di vista; e per ribadire che gran parte degli studi che sono stati effettuati affermano che la riduzione delle funzioni e la focalizzazione su poche funzioni è premessa indispensabile per l'efficientamento degli enti al servizio dei cittadini.
  Quindi, io credo che i sindaci e i consiglieri comunali siano sufficientemente in grado di svolgere funzioni di coordinamento tra di loro e di svolgere quindi non doppie funzioni, ma funzioni semplicemente di coordinamento e di tarare il loro lavoro mirato, appunto, a famiglie e imprese.
  Quindi, se c’è una cosa che certamente non alimenta questo disegno di legge è il Pag. 50tema della confusione e della sovrapposizione, che invece viene, credo, anche nelle forme delle unioni comunali, ulteriormente semplificato, perché avevamo una serie di provvedimenti che sovrapponevano diverse forme di unioni comunali e diverse efficienze.
  Invece ribadisco l'apertura sul ragionamento per le future aree metropolitane e aree urbane perché ci pare questa sia una riflessione che va nella linea del promuovere lo sviluppo economico e delle forme con cui lo troveremo, ne discuteremo, poi, volentieri nel prosieguo della discussione.

  PRESIDENTE. Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Discussione delle mozioni Fratoianni ed altri n. 1-00190, Zampa ed altri n. 1-00156, Giancarlo Giorgetti ed altri n. 1-00266 e Costa ed altri n. 1-00267 concernenti iniziative in ordine alla disciplina dell'ingresso, del soggiorno e dell'allontanamento dei cittadini stranieri, con particolare riferimento alla problematica dei centri di identificazione ed espulsione (ore 14,20).

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione delle mozioni Fratoianni ed altri n. 1-00190, Zampa ed altri n. 1-00156, Giancarlo Giorgetti ed altri n. 1-00266 e Costa ed altri n. 1-00267 concernenti iniziative in ordine alla disciplina dell'ingresso, del soggiorno e dell'allontanamento dei cittadini stranieri, con particolare riferimento alla problematica dei centri di identificazione ed espulsione (Vedi l'allegato A – Mozioni).
  La ripartizione dei tempi riservati alla discussione è pubblicata nel calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).
  Avverto che sono state altresì presentate le mozioni Toninelli ed altri n. 1-00269 e Marazziti ed altri n. 1-00270 che, vertendo su materia analoga a quella trattata dalle mozioni all'ordine del giorno, verranno svolte congiuntamente. I relativi testi sono in distribuzione.

(Discussione sulle linee generali)

  PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali delle mozioni.
  È iscritto a parlare il deputato Fratoianni, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00190. Ne ha facoltà.

  NICOLA FRATOIANNI. Signor Presidente, il tema di cui discutiamo oggi, su cui apriamo il dibattito, quello in particolare della condizione dei CIE, in generale della modalità con cui questo Paese ha affrontato fino ad oggi la condizione di irregolarità che talvolta i cittadini migranti vivono sul territorio italiano, è per noi molto importante, perché ha a che fare non tanto e non solo con l'analisi di una condizione specifica, di un impianto normativo, della sua applicazione concreta, quanto con i principi stessi che regolano o dovrebbero regolare la vita in un Paese civile come il nostro e con alcuni principi fondamentali, come quelli dell'accoglienza di persone spesso e volentieri vittime di una condizione, non agenti consapevoli di una condotta persino delittuosa.
  È vero che nel nostro Paese il quadro si è ulteriormente aggravato da quando è stato introdotto il cosiddetto reato di clandestinità, che, come abbiamo avuto modo di dire molte volte in quest'Aula, purtroppo in occasioni drammatiche anche nelle settimane scorse, ha finito per sancire un principio che definirei rovesciato.
  Quel reato ha finito per rovesciare l'ordine naturale delle cose per determinare un contesto nel quale ad essere combattuto è, invece che una condizione che andrebbe sconfitta e bandita, che è appunto una condizione di cui i migranti sono sempre vittime e non artefici – è difficile immaginare che qualcuno cerchi di essere un cosiddetto clandestino, scelga di essere irregolare, scelga di non avere documenti –; è ben più probabile pensare che chi si trovi in quella condizione vi si trovi nella condizione di vittima è chi la subisce.
  È come se – ho avuto modo di dirlo ancora in quest'Aula – per combattere la Pag. 51povertà si decidesse di combattere i poveri e di scatenare contro di loro una guerra senza quartiere.
  Questo è il segno che purtroppo pesa e macchia complessivamente la nostra politica sull'immigrazione, il segno di una politica fondata sull'esclusione, sul respingimento. Ricordo che il nostro Paese è stato condannato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo per non aver rispettato in più di un'occasione il principio di non respingimento sancito dalla convenzione di Ginevra.
  È il segno di una politica che ha fatto dei Centri di identificazione ed espulsione, già precedentemente conosciuti come Centri di permanenza temporanea, istituiti con il testo unico per l'immigrazione, poi – ripeto – peggiorati dalla loro condizione reale anno dopo anno, dei veri e propri luoghi di internamento, dei luoghi nei quali il diritto è una parola sconosciuta. Vorrei che fosse chiaro a chi discuterà in questi giorni in quest'Aula di questo tema che la condizione che si vive nei CIE è ben peggiore della condizione che si vive nelle carceri. Almeno lì esiste una cosa che si chiama diritto carcerario, almeno lì ci sono delle norme che regolano diritti e doveri di chi vi si trova trattenuto.
  Nei CIE tutto questo non esiste. Nei CIE perfino le regole interne di comportamento e le regole di gestione sono spesso determinate da regolamenti, accordi, convenzioni, definiti dai singoli prefetti sulla base anche di soggettive interpretazioni del concetto di sicurezza e di controllo della sicurezza all'interno di questi centri. Nei CIE si può restare rinchiusi per un tempo infinito, fino a diciotto mesi. Anche in questo caso è un tempo che è andato via via lievitando: siamo partiti dagli originari sessanta giorni previsti nella prima normativa – il tempo strettamente necessario ad una identificazione e poi alle misure conseguenti – per arrivare ad un tempo sempre più lungo, appunto un tempo infinito.
  I CIE sono luoghi nei quali si è costretti ad una inattività perenne; sono luoghi di reclusione, sono luoghi nei quali le condizioni di vivibilità sono spesso indegne di una condizione di civiltà. I CIE sono luoghi nei quali in questi anni si sono moltiplicati atti di autolesionismo, tentativi di suicidio; nei quali sono morti immigrati, spesso in condizioni non chiare, come è successo recentemente nel CIE di Crotone, tema sul quale il nostro gruppo ha presentato un'interrogazione a cui però non abbiamo ancora avuto risposta.
  I CIE sono luoghi nei quali quotidianamente si sviluppano rivolte, nei quali i migranti, di fronte all'indegnità delle condizioni in cui vengono trattenuti, reagiscono per rivendicare uno spazio minimo di diritto; e perfino un tribunale di questa Repubblica, il tribunale di Crotone, di fronte a una delle tante rivolte che avevano determinato danneggiamenti di quella struttura, con una sentenza ha stabilito che quei migranti non erano colpevoli di danneggiamento, che quella protesta era proporzionata alle ingiuste offese a cui erano sottoposti: cioè che quella ribellione era legittima, tanto era indegna la condizione a cui loro, come i migranti di tutti i CIE italiani sono sottoposti. E di questi casi ne abbiamo avuti molti, anche nei mesi recenti: questa estate – ne parlerà dopo di me la collega Pellegrino – la vicende di Gradisca. Ma sono episodi quotidiani, che dicono di una condizione insostenibile.
  Il nostro Paese in questi anni, sempre in modo deficitario per la verità, ma qualche volta ha anche provato ad affrontare la questione: nel 2007 la Commissione De Mistura provò, in un lungo giro per le strutture di trattenimento italiane (una commissione mista, fatta di interlocuzione con le associazioni), ad andare al nodo del problema e a capire che cosa non funzionava; e le sue conclusioni furono chiare: disse quella Commissione che i CIE andavano superati attraverso un progressivo svuotamento e che bisognava ripensare radicalmente tutto il sistema che riguarda il trattenimento, l'identificazione e, ove necessario, l'espulsione. Più recentemente, la Ministra Cancellieri nel 2012 ha dato vita ad una task force, che però incredibilmente è arrivata ad indicazioni opposte: quella task force dice che va implementata Pag. 52la presenza nelle strutture di trattenimento, che vanno addirittura immaginate forme di contenimento delle rivolte, e che i problemi di vivibilità in fondo sono solo colpa di chi lì è trattenuto e di chi di fronte a quell'illegittimo trattenimento si ribella, giustamente.
  Signor Presidente, signor sottosegretario, di fronte a questi dati – dati che sono rafforzati da molte inchieste, peraltro trasversali, da indagini sviluppate in questi anni da soggetti tra loro molto diversi e non per questo tacciabili di partigianeria – di fronte all'evidenza che emerge dalle molte visite di parlamentari che in questi anni, in questi mesi, a cominciare dal sottoscritto, hanno monitorato concretamente che cosa succede dentro queste strutture, di fronte ad un quadro che ci racconta di strutture nelle quali, anche e soprattutto in ragione dell'incertezza normativa che le definisce, si determinano condizioni abbastanza incredibili, un'eterogeneità infinita nella composizione delle presenze – nei CIE troviamo detenuti che, scontata la pena, vengono ulteriormente sottoposti ad un periodo di trattenimento, come se in carcere, magari per lunghi anni, non fosse stato possibile identificarli, talvolta addirittura minori; assistiamo alla presenza dei richiedenti asilo, che hanno potuto accedere alla domanda e alla procedura solo all'interno dei CIE, che quindi lì si trovano in una condizione di illegittima detenzione – di fronte a tutti questi elementi, signor sottosegretario, noi crediamo – e questo chiede la nostra mozione – che sia arrivata l'ora di un passaggio forte, di un ripensamento radicale, che sia arrivata l'ora per questo Paese di fare un passo in avanti verso la civiltà, di dire innanzitutto e una volta per tutte che queste strutture vanno chiuse. Vanno chiuse, una volta per tutte ! Che quel modello non funziona, che non è possibile che ci siano cittadini – uomini e donne – che sono sottoposti ad una condizione di detenzione solo per aver violato una condizione amministrativa, quella dell'irregolarità nella possibilità di esibire una documentazione rispetto al titolo di soggiorno.

  PRESIDENTE. La invito a concludere.

  NICOLA FRATOIANNI. Che vadano chiuse quelle strutture. Che vada assunta un'iniziativa per rafforzare i meccanismi regolari di ingresso in questo Paese.
  Magari prevedendo il permesso per ricerca di lavoro e cioè immaginando strumenti ed interventi normativi che ci consentano di ridurre l'area dell'irregolarità e non di aumentarla, così come è successo invece attraverso la pessima legislazione che in questi anni ha governato questa materia. Insomma, abbiamo bisogno di una svolta di fondo. È una svolta che ci chiede non solo chi oggi è costretto a vivere in una condizione indegna, come quella dei migranti trattenuti in queste strutture, ma che ci chiede anche il buon senso, la civiltà, l'intelligenza di un Paese che vorrebbe essere moderno, ma che troppe volte si scopre ancora molto arretrato (Applausi dei deputati del gruppo Sinistra Ecologia Libertà).

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Beni, che illustrerà la mozione Zampa ed altri n. 1-00156, di cui è cofirmatario. Ne ha facoltà.

  PAOLO BENI. Signor Presidente, colleghi, con questa mozione che andiamo a discutere noi intendiamo sollecitare il Governo ad un deciso cambio di rotta nella disciplina relativa alla gestione dei Centri di identificazione ed espulsione per i cittadini stranieri e intendiamo proporre anche una svolta netta nell'insieme delle politiche del nostro Paese sull'immigrazione.
  I CIE, che sono andati a sostituire, come sappiamo, i Centri di permanenza temporanea, i CPT, già previsti nel testo unico sull'immigrazione fin dal 1998, sono strutture destinate al trattenimento degli stranieri in procinto di espulsione per il tempo strettamente necessario, quando non sia possibile eseguirla immediatamente. Il limite massimo temporale del trattenimento in questi centri, inizialmente fissato in sessanta giorni, è stato portato a diciotto mesi con la legge n. 94 del 2009, Pag. 53il cosiddetto pacchetto sicurezza, rafforzando così la loro natura di veri e propri luoghi della detenzione amministrativa. Sempre con il pacchetto sicurezza del 2009, con l'intento di inasprire le misure di contrasto all'immigrazione irregolare, fu introdotto il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato, il cosiddetto reato di clandestinità, che veniva citato nel precedente intervento, norma fortemente contestabile e contestata sul piano giuridico. Infatti, sanzionare come reato penale una condizione della persona indipendente dalla sua volontà e a prescindere dalla sua effettiva condotta è in palese contrasto con il principio della responsabilità penale proprio del nostro ordinamento giuridico, norma oltre tutto sanzionata anche dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, perché contraria a quel principio del non respingimento sancito dalla Convenzione di Ginevra, un provvedimento che di fatto nega la possibilità, riconosciuta pure dalle convenzioni internazionali, di emigrare verso il nostro Paese, dal momento che i canali regolari di ingresso sono praticamente impraticabili con le procedure attuali.
  Era facile prevedere che il reato di immigrazione clandestina non sarebbe servito a fermare il flusso di lavoratori stranieri che entrano e soggiornano in Italia come irregolari, in una condizione di invisibilità sociale e senza tutele, esposti spesso al rischio di scivolare nella maglie della criminalità organizzata.
  Oggi, dopo quattro anni, possiamo tirare un bilancio, e che il reato di clandestinità e l'aumento dei tempi di permanenza nei CIE non si siano rivelati utili agli scopi per cui furono proposti è provato dai fatti: le espulsioni di irregolari sono diminuite dal 2003 al 2012; nel 2012 solo la metà dei migranti trattenuti nei CIE è stata rimpatriata, esattamente come tre anni prima, cioè il reato di clandestinità non è stato un deterrente nei confronti del racket dell'immigrazione clandestina; semmai ha avuto l'effetto di produrre un appesantimento del sistema giudiziario e di distogliere parte delle forze dell'ordine da altri compiti legati alla sicurezza dei cittadini.
  L'allungamento delle permanenze nei CIE, anziché facilitare le identificazioni e i rimpatri, ha creato una sorta di «limbo giuridico», in cui sono avvenute ripetute violazioni dei diritti fondamentali delle persone, ampiamente denunciate da inchieste giornalistiche, da associazioni di volontariato, dagli stessi parlamentari che hanno fatto i sopralluoghi. Ora la legge prescrive che nei centri gli stranieri siano trattenuti con modalità – testuali parole – tali da assicurare la necessaria assistenza ed il pieno rispetto della loro dignità.
  Quindi, questo vuole dire libertà di contatti con l'esterno, di corrispondenza, servizi di cura, servizi sanitari, assistenza, promozione umana. Invece, i CIE sono diventati, di fatto, centri di internamento, in cui i migranti, anche se trattenuti per pratiche amministrative, sono privati della libertà personale, sono «parcheggiati» in condizioni spesso umanamente degradanti per carenza di letti, di cibo, di condizioni igieniche, di assistenza medica, costretti, oltretutto, all'inattività forzata in spazi angusti e inadeguati.
  L'assenza di un regolamento comune per i CIE favorisce la discrezionalità delle prefetture sulle condizioni di detenzione e sui diritti concessi. Un ulteriore problema deriva dall'eterogeneità e dalla promiscuità delle persone trattenute. Vi sono persone già regolari che hanno perso il permesso di soggiorno, vi sono richiedenti asilo non ancora trasferiti nei CARA, vi sono ex detenuti, vi sono persone non identificabili. Queste criticità sono emerse più volte anche nelle visite effettuate dai parlamentari e, come veniva ricordato dal collega, nel 2007, la Commissione interministeriale presieduta da Staffan de Mistura, dopo un'accurata indagine nei CPT, auspicava il progressivo svuotamento e la chiusura di questi centri.
  Ma quelle raccomandazioni non trovarono attuazione negli anni successivi, né sono state prese in considerazione nel corso della nuova indagine promossa dalla Ministra Cancellieri nel 2012. Al contrario, Pag. 54il rapporto che ne è emerso nel 2013 del sottosegretario Ruperto ribadisce la necessità dei CIE e propone di implementarli, ammette le disfunzioni che ci sono, ma le attribuisce al comportamento dei trattenuti, enfatizzando la necessità di prevenire e contenere gli atti di ribellione addirittura con celle di isolamento, accentuando così il profilo dei CIE come luoghi di detenzione e sospensione dei diritti.
  Il rapporto Ruperto sembra anche contraddire la «direttiva rimpatri», ad esempio dove prevede rimpatri effettuati direttamente attraverso i centri di primo soccorso e accoglienza, che, invece, dovrebbero accogliere i migranti solo per fornire i primi generi di conforto e poi trasferirli in strutture idonee. Vi sono rimpatri effettuati con procedimenti informali, spesso con espulsioni collettive che espongono lo straniero al rischio di trattamenti crudeli nei Paesi di origine e che sono illegittime per la Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Io penso che tutte queste siano lesioni dei diritti umani inaccettabili in un Paese civile e per le quali, non a caso, il Governo italiano è stato più volte richiamato dall'Unione europea. Per questo, la nostra mozione chiede al Governo di ripensare radicalmente l'attuale sistema della detenzione amministrativa, limitandone il ricorso soltanto come extrema ratio.
  Chiediamo di ridurre la lunghezza eccessiva e inutilmente persecutoria del periodo di permanenza, di evitare che nei CIE sia trattenuto chi ha bisogno di protezione sociale, come le vittime di tratta, i minori, i richiedenti asilo, chi non può essere identificato.
  Chiediamo di rivedere, anche con il confronto con le associazioni impegnate nel settore, gli aspetti normativi, organizzativi e gestionali dei CIE. Servono regole certe e uniformi a livello nazionale, serve trasparenza nella gestione, garantire che le pratiche avvengano nel rispetto dei diritti fondamentali e della dignità delle persone.
  Queste sono cose, signor Presidente, che Governo e Parlamento, per le rispettive competenze, possono fare subito, correggendo gli errori del passato, ma io penso anche che questo non basti, penso che dobbiamo fare di più per invertire, con decisione, la rotta fin qui seguita dal nostro Paese sulle politiche dell'immigrazione. La situazione dei CIE, in fondo, è lo specchio di un approccio sbagliato al tema dell'immigrazione, caratterizzato dalla distanza fra la realtà del fenomeno e la sua rappresentazione, da poco realismo e da molta ideologia, che ha prodotto 20 anni di errori e una legislazione inefficace e anche discriminatoria.
  L'immigrazione è una delle sfide che il futuro ci propone, un fenomeno strutturale, destinato a incidere profondamente nelle trasformazioni economiche, sociali e culturali della società italiana e europea. Secondo l'ultimo rapporto della Caritas, gli immigrati regolari in Italia sono ormai più di cinque milioni: una componente determinante della nostra economia e della nostra società.
  Per costruire le condizioni di un possibile e necessario patto di convivenza in una società che sta cambiando, occorre che l'immigrazione sia governata con politiche realistiche, capaci di guardare al presente e al futuro del Paese, e al tempo stesso ai diritti inalienabili delle persone.
  È tempo di cambiare rotta, nel quadro di una strategia unitaria e non contraddittoria in seno all'Unione europea, con politiche capaci di garantire effettive possibilità di ingresso regolare e di positivo inserimento sociale nel nostro Paese.
  Va superato quello che io definirei l'approccio utilitaristico della cosiddetta legge Bossi-Fini, che vede i migranti solo come forza lavoro, braccia e non persone.
  Il primo problema è l'impossibilità di ingresso regolare per ricerca di lavoro. Le norme sulla chiamata nominativa sono un'ipocrisia, costringono gran parte dei migranti a un periodo più o meno lungo di clandestinità in attesa dell'ennesima sanatoria, e quindi lavoro nero, condizioni di debolezza e ricattabilità sociale, «cittadini di serie B», in due parole. Ma quando milioni di persone vengono mortificate nella propria dignità e private dei diritti che dovrebbero essere garantiti a tutti, si finisce per alzare una barriera fra i cittadini Pag. 55che vivono e lavorano nella stessa comunità e si finisce per alimentare la marginalità sociale e l'insicurezza di tutti.
  Serve una politica dei flussi realistica che consenta un adeguato numero di ingressi regolari per ricerca di lavoro. Vanno favoriti i percorsi di emersione per «prosciugare» il terreno dell'irregolarità. Se si rendesse possibile e conveniente il rispetto delle regole, resterebbero pochi casi di irregolarità, che si potrebbero gestire meglio, anche sul fronte delle necessarie espulsioni.
  Occorre abolire il reato di immigrazione clandestina. Occorre chiudere la stagione del diritto speciale e della detenzione amministrativa. Serve una legge organica sul diritto di asilo che oggi nel nostro Paese non abbiamo. Bisogna riformare la legge sulla cittadinanza, perché oggi in Italia un quarto dei bambini nasce da genitori stranieri e non ha senso che questi bambini crescano stranieri: sei cittadino non per diritto di sangue, ma in virtù della tua appartenenza alla comunità dove vivi, lavori, costruisci affetti e relazioni. Bisogna garantire processi di inclusione, di integrazione e politiche concrete che affrontino i problemi dei migranti, delle loro famiglie, dei datori lavoro, delle comunità locali che li accolgono.
  Dico questo, voglio dirlo con forza, proprio in queste ore in cui siamo costretti a piangere l'ennesima tragedia dell'immigrazione, la strage nella fabbrica-dormitorio di Prato. Le condizioni di schiavitù in cui quei lavoratori erano costretti a vivere nella civilissima Toscana dovrebbero suscitare la ribellione morale dell'intero Paese e soprattutto dovrebbero richiamare la responsabilità di chi ha ruoli e funzioni istituzionali.
  Non è questione di tutela di una minoranza, non si parla di questo, ma qui è in gioco la tenuta della qualità della nostra società e della nostra democrazia. Le nostre città stanno diventando sempre più comunità plurali, in cui si mescolano lingue, religioni, culture diverse. Di fronte a questi cambiamenti, Presidente, si può scegliere di soffiare sul fuoco delle paure, dei pregiudizi, di avvalorare l'idea dell'immigrazione come minaccia e promettere, magari, ricette illusorie per arginarla, oppure si può cercare il filo di un ragionamento comune, provare a favorire l'incontro, il dialogo, per contrastare pregiudizi e discriminazioni e costruire un nuovo possibile e necessario patto di convivenza.
  Favorire questa seconda strada, che è l'unica possibile, che è l'unica buona per il nostro Paese, è compito della cultura, compito dell'informazione, ma soprattutto attiene alla responsabilità della politica e alla responsabilità delle istituzioni.
  Per questo noi proponiamo, anche con la nostra mozione di oggi, a Governo e Parlamento di cambiare passo sulle politiche dell'immigrazione nel nostro Paese.

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Invernizzi, che illustrerà anche la mozione Giancarlo Giorgetti ed altri n. 1-00266, di cui è cofirmatario. Ne ha facoltà.

  CRISTIAN INVERNIZZI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato è stato introdotto, ormai nel 2009, dall'articolo 1 della legge n. 94 del 2009, che ha modificato il testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero (decreto legislativo n. 286 del 1998), introducendovi l'articolo 10-bis. Successivamente alla sua introduzione nell'ordinamento italiano, il reato di immigrazione clandestina è stato dichiarato legittimo anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 250 del 2010.
  Come da consolidata giurisprudenza, il potere di disciplinare l'immigrazione rappresenta una prerogativa essenziale dello Stato in quanto espressione del controllo del territorio, poiché la regolamentazione dell'ingresso e del soggiorno degli stranieri nel territorio dello Stato è «collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali, ad esempio, la sicurezza e la sanità pubblica, l'ordine pubblico».
  Il reato di immigrazione clandestina, tra l'altro, vige anche in numerosi altri Stati europei, ad esempio in Francia, Germania, Pag. 56Gran Bretagna, talvolta con pene molto più severe e, pertanto, anche in sede europea, non vi è alcuna pronuncia che abbia dichiarato l'articolo 10-bis contrario a disposizioni comunitarie o internazionali.
  I centri di identificazione ed espulsione sono strutture destinate al trattenimento, convalidato dal giudice di pace, degli stranieri extracomunitari irregolari e destinati all'espulsione e si propongono di evitare la dispersione degli immigrati irregolari sul territorio e di consentire, pertanto, la materiale esecuzione, da parte delle forze dell'ordine, dei provvedimenti di espulsione emessi nei confronti degli irregolari.
  L'istituzione e l'operatività di tali centri sono del tutto in linea con quanto dispone e richiede l'Unione europea, poiché è la stessa direttiva 2008/115/CE, la cosiddetta «direttiva rimpatri», a prevedere, agli articoli 15 e 16, il «trattenimento in appositi centri di permanenza temporanea per il tempo necessario all'espletamento diligente delle modalità di rimpatrio» e ad imporre agli Stati membri, tra cui l'Italia, l'adozione di «norme chiare, trasparenti ed eque per definire una politica di rimpatrio efficace quale elemento necessario di una politica d'immigrazione correttamente gestita».
  Nonostante la normativa europea, risulta però che in Italia dei dodici centri per l'identificazione ed espulsione ne siano stati chiusi sei, di cui ultimo quello di Gradisca d'Isonzo, a causa dei danneggiamenti e delle rivolte che, periodicamente, vengono innescate dai clandestini ospitati ed in attesa di espulsione e, sempre secondo quanto si apprende dai dati pubblicati dal Ministero dell'interno, che la capienza dei centri di identificazione ed espulsione è stata ridotta almeno in quattro dei sei istituti rimasti aperti.
  È evidente che la chiusura dei centri di identificazione ed espulsione comporta, di conseguenza, un insufficiente numero di posti disponibili rispetto al numero dei clandestini presenti sul nostro territorio e in continuo arrivo a causa di politiche lassiste di questo Governo in tema di immigrazione – pare, infatti, che siano oltre 40 mila gli immigrati entrati clandestinamente e sbarcati sulle coste italiane nel 2013 –, ma soprattutto – circostanza che pone l'Italia non solo in contrasto con la normativa europea, ma anche con le politiche degli altri Stati europei in questo momento – la mancata esecuzione dei rimpatri dei clandestini.
  Infatti, a fronte di una massiccia immigrazione clandestina e per l'inerzia delle istituzioni comunitarie – che, come noto, hanno nel tempo avocato a sé sempre più competenze in materia di immigrazione, rivelando però sempre più l'incapacità di apprestare in tempi brevi effettivi strumenti di controllo del fenomeno – recentemente in altri Stati europei i Governi hanno cominciato a predisporre misure sempre più severe in materia di contrasto all'immigrazione clandestina, come ad esempio in Gran Bretagna, dove il Premier David Cameron ha annunciato che, a partire dall'inizio del 2014, applicherà una severissima politica restrittiva ai sussidi pubblici per l'immigrazione, bloccherà i servizi di assistenza sanitaria gratuita a quegli stranieri che non sono in grado di dimostrare la loro permanenza regolare sul suolo britannico ed introdurrà sanzioni per chi offrirà un lavoro o una casa agli irregolari.
  In Italia la chiusura dei centri di identificazione ed espulsione, la mancata effettuazione delle espulsioni e, invece, operazioni come quella denominata Mare Nostrum, non solo vanno in direzione completamente opposta alle politiche degli altri Paesi europei in questo momento, ma creano un sistema diversificato, di cui i trafficanti di esseri umani approfittano, e, anzi, alimentano il traffico di esseri umani, potendo ora i trafficanti garantire a chi paga il viaggio verso l'Italia la certezza che arriverà sicuramente a destinazione senza venire fermato o rimpatriato.
  Al di là degli studi e delle conclusioni delle diverse commissioni ministeriali, sostenere che una rigorosa legislazione interna scoraggia sicuramente i flussi migratori clandestini, e conseguentemente le tragedie come quella recente di Lampedusa, Pag. 57ha un preciso riscontro oggettivo. Dopo l'entrata in vigore del reato di ingresso e soggiorno illegale ex articolo 10-bis del decreto legislativo n. 286 del 1998, nell'anno 2010 gli sbarchi sono diminuiti dell'88 per cento, secondo i dati del Ministero dell'interno pubblicati a suo tempo, ma ora non più disponibili sul sito, salvando così numerose vite umane e dando un duro colpo ai trafficanti di esseri umani che gestiscono, come è noto ormai a tutti, l'organizzazione di tali viaggi illegali.
  Oltre al trattenimento nei Centri di identificazione ed espulsione, è necessario procedere all'effettiva espulsione dei clandestini, così come stabilisce sempre la direttiva cosiddetta rimpatri che, infatti, dispone altresì che, al fine di agevolare la procedura di rimpatrio si sottolinea la necessità di accordi comunitari e bilaterali di riammissione con i Paesi terzi. Mancando un'azione comune a livello comunitario, occorre, infatti, da parte dei Governi una continua cooperazione internazionale con i Paesi di origine per la stipula o il rinnovo di accordi, sia con riguardo alle operazioni di controllo dei confini, soprattutto di quelli costieri, sia per velocizzare e agevolare le operazioni di rimpatrio dei clandestini.
  Anche in questo caso, sono i numeri a dimostrare la validità di tale sistema. Ad esempio, dal maggio 2009, a seguito dell'accordo stipulato dal Ministro dell'interno pro tempore Maroni tra l'Italia e la Libia, prima della guerra, il flusso di sbarchi di immigrati era quasi cessato, passando da 39 mila persone nel 2008 a solo 450 nel 2009. Essendo il nostro uno Stato europeo di confine, ove è più difficile il controllo delle frontiere, in gran parte marittime, dunque è più facile meta dei flussi immigratori clandestini, non è pensabile, e nella grave congiuntura economica che si sta attraversando neanche sostenibile, che la gestione di tutto il problema dell'immigrazione, anche quando derivante da vere e proprie emergenze umanitarie a seguito di eventi bellici, sia a carico solo del sistema italiano. A livello comunitario gli Stati non sono ancora riusciti a creare un sistema comune di asilo, come dimostra anche la vicenda della guerra in Libia. In tale occasione il Consiglio giustizia affari interni non volle inspiegabilmente applicare la direttiva 55/2001/CE, la quale disponeva la condivisione degli oneri e la redistribuzione sull'intero territorio europeo (cosiddetto burden sharing) delle persone in caso di fughe di massa ed emergenze umanitarie, come, appunto, innegabilmente stava accadendo in Libia. Recentemente, è stato modificato il regolamento di Dublino III, che vede l'Italia fortemente penalizzata quale Paese in gran parte costiero e di primo ingresso e, pertanto, competente all'accoglienza dei richiedenti asilo, ma ancora gli altri Stati non hanno voluto introdurre il principio del burden sharing.
  Pertanto, noi riteniamo che il Governo debba impegnarsi a rafforzare l'attuale sistema di detenzione amministrativa che, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, è del tutto legittimo e in linea con le normative europee e di altri Stati, innanzitutto ripristinando quanto prima la funzionalità dei sei Centri di identificazione ed espulsione di Gradisca d'Isonzo, Brindisi, Bologna, Crotone, Modena e Trapani Vulpitta, attualmente chiusi. È necessario, inoltre, rendere effettivo il recepimento della direttiva 2008/115/CE, direttiva rimpatri, procedendo in modo celere all'identificazione e al rimpatrio dei clandestini presenti sul territorio italiano, anche mediante il rinnovo e la stipula di accordi con i Paesi di origine. Dobbiamo necessariamente assumere iniziative per rafforzare e rendere effettiva l'intera disciplina dell'ingresso, del soggiorno e dell'allontanamento dei cittadini stranieri, così come previsto dal Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, decreto legislativo n. 286 del 1998. Dobbiamo scoraggiare qualsiasi forma di ingresso facile nel territorio italiano, che, come ben noto, non fa che rafforzare e incrementare il grave fenomeno della tratta degli esseri umani e, invece, dobbiamo adottare campagne di informazione, sia nei Paesi di origine dei Pag. 58principali flussi migratori irregolari, che nel nostro Paese, in cui vengano fornite precise informazioni circa la legislazione vigente nel nostro Paese in materia di ingresso e soggiorno irregolare, circa quali siano rischi inerenti ai viaggi e circa i tassi di disoccupazione del mercato del lavoro italiano.
  Il Governo dovrebbe attivarsi presso le istituzioni europee affinché venga introdotto il principio del burden sharing nelle politiche relative all'immigrazione e all'asilo e venga rivisto il regolamento di Dublino III e vengano rafforzate le misure di controllo e pattugliamento dei confini, soprattutto costieri. È necessario procedere alla stipula e al rinnovo di accordi per il controllo delle acque territoriali con i Paesi di origine, ma soprattutto con quelli dove vengono organizzati i viaggi clandestini e, dunque, dove operano i trafficanti, al fine di scongiurare le partenze e la perdita di ulteriori vite umane.

  PRESIDENTE. Avverto che è stata presentata la mozione Palese ed altri n. 1-00271 che, vertendo su materia analoga a quella trattata dalle mozioni presentate, verrà svolta congiuntamente. Il relativo testo è in distribuzione (Vedi l'allegato A – Mozioni).
  È iscritta a parlare l'onorevole Pellegrino. Ne ha facoltà.

  SERENA PELLEGRINO. Signor Presidente, membri del Governo, onorevoli colleghi, in questi pochi mesi di esperienza parlamentare, grazie alle prerogative che ci vengono consentite dal sindacato ispettivo, ho potuto verificare di persona la situazione, drammatica e insostenibile, dei cosiddetti Centri di identificazione ed espulsione. Ho avuto la possibilità di entrare più volte nel centro di Gradisca d'Isonzo in Friuli Venezia Giulia.
  Possiamo oggi affermare, senza dubbio di smentita, che i CIE sono i gironi infernali della dignità umana, la dimostrazione del fallimento della politica dell'immigrazione che si è instaurata in Italia. Un fallimento normativo, organizzativo e gestionale. Nei fatti, con i CIE, signor Presidente, si è pensato di nascondere, dietro provvedimenti amministrativi, una vera e propria detenzione.
  Una detenzione amministrativa, sì amministrativa, perché è di questo che si tratta !
  Si è creato una sorta di «limbo giuridico» senza riuscire a risolvere il problema dell'identificazione e dei rimpatri. Un limbo contrassegnato dalla negazione dei diritti, anche di quelli fondamentali, nel quale i trattenuti, ma è meglio definirli detenuti, possono permanere fino a 18 mesi, come previsto dalla legge n. 94 del 2009, il cosiddetto pacchetto sicurezza. Si sono create, di fatto, delle prigioni amministrative, che però ufficialmente non possono essere considerate carceri.
  Secondo il comma 2 dell'articolo 14 del decreto legislativo n. 286 del 1998, in tali centri lo straniero dovrebbe essere trattenuto, cito: «con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza e il pieno rispetto della sua dignità». Ospiti li definisce la norma !
  Tutti ormai sappiamo che così non è !
  In alcuni casi mancano delle minime norme igienico/sanitarie, sono privi di lenzuola, le strutture hanno le finestre rotte, i bagni non erogano acqua sanitaria. Le stesse misure di sicurezza, messe in atto dalle prefetture per evitare le fughe, raggiungono dei livelli inammissibili ! Reclusi su sei lati ! Questo perché tutte queste strutture, signor Presidente, sono inadatte ad adempiere a questa funzione. Perché, anche quelle costruite ex novo, non sono nate per una funzione detentiva ma per una funzione ospitante.
  La sentenza del Giudice di Crotone su tutto ciò è chiara ed esaustiva, quando ha ritenuto di dichiarare che i CIE sono «strutture – nel loro complesso – al limite della decenza, intendendo questo termine nella sua precisa etimologia, ossia di conveniente alla loro destinazione: che è quella di accogliere esseri umani».Pag. 59
  E questa situazione mette i trattenuti/detenuti – mi consenta – in condizioni di totale disagio sociale, nella convivenza, nella vivibilità: che porta a gesti estremi.
  Gli atti di autolesionismo sono all'ordine del giorno ! Queste persone trascorrono le 24 ore in attesa che arrivi la sentenza liberatrice, oppure meditando ogni giorno come fuggire, perché, una volta privati di tutto, persino della loro identità, l'unico diritto che gli viene riconosciuto è il diritto alla fuga !
  E alcuni, proprio durante la fuga, mettono in pericolo la loro vita ! Non possiamo dimenticare che una persona è ancora in coma, ricoverata nell'ospedale Cattinara, a Trieste, dal 12 di agosto, e che un altro è morto a Crotone !
  Dobbiamo alla campagna nazionale dell'Associazione LasciateCIEntrare, con il documento «MAI PIÙ CIE», il riconoscimento di aver potuto accedere a numerose informazioni; questo documento, signor Presidente, è stato presentato a tutti i ministeri competenti, fino alla Ministra Kyenge.
  La situazione all'interno di queste strutture non è più umanamente sostenibile, sia da parte del Governo che da parte del Parlamento, di un paese che si definisce civile !
  Nemmeno per coloro che lavorano alle dipendenze degli Enti gestori le cose vanno meglio: in molti casi i dipendenti non vengono pagati. A Gradisca non percepiscono lo stipendio da maggio. I 24 euro di supplemento che ricevono i dipendenti delle forze dell'ordine per espletare il loro dovere di vigilanza all'interno dei CIE sono davvero pochi per un lavoro che li mette sotto assedio costantemente.
  Diciamolo una volta per tutte, signor Presidente, i CIE sono delle «pentole a pressione» pronte ad esplodere in qualsiasi momento.
  E non dimentichiamo che ogni qualvolta scoppia una rivolta, si mobilitano polizia, esercito e carabinieri ! Un presidio tolto alla sicurezza ordinaria !
  Ma, allora, se queste strutture sono inadeguate, se i dipendenti degli enti gestori non vengono pagati, se i trattenuti vengono trattati come «schiavi detenuti», in condizioni disumane, dove vanno a finire i fiumi di sussidi erogati ad ogni finanziaria ? Perché gli unici a non manifestare disagio sono le ditte appaltatrici dei lavori di ripristino delle strutture causate dalle rivolte ? Perché sono gli unici che dichiarano di essere puntualmente pagati ? Ovviamente questo non può che farci piacere, signor Presidente, ma riteniamo che sia davvero troppo poco !
  Perché, diciamolo chiaramente, siamo di fronte a una «macchina» che non produce né funzione sociale, né distribuzione di reddito, né tanto meno sicurezza. E secondo noi investire 55 milioni di euro per il trattenimento di sole cinquecento persone, è davvero troppo, tenuto conto che i sedicenti ospiti non percepiscono nemmeno un centesimo; che siano loro, i veri datori di lavoro ? Qualcuno accusa: sono dei delinquenti ! Ebbene, alcuni sono degli ex detenuti e in quanto «ex», se fossero cittadini italiani, sarebbero uomini liberi.
  Pertanto, noi chiediamo con forza al Governo che, durante il periodo di detenzione, vengano agevolate tutte le procedure di identificazione, anche traducendo il detenuto presso le ambasciate di provenienza, se necessario. Ci sarebbero molti meno ex detenuti da identificare e si ridurrebbero di molto i tempi di reclusione nei CIE. E come non prendere in considerazione la presa di posizione dei giudici di pace che asseriscono che i CIE sono anticostituzionali ? Già nel 2001 la Corte costituzionale dichiara che vi sono garanzie valide per tutte le persone, italiane o straniere, in quanto esseri umani, sì che: «lo straniero presente, anche irregolarmente, nello Stato ha il diritto di fruire di tutte le prestazioni che risultino indifferibili e urgenti», orientamento che si riferisce all'insopprimibile tutela della persona umana. Anche il Consiglio d'Europa ha definito sbagliate e pregiudizievoli le politiche italiane nella materia dell'immigrazione. Pag. 60
  Chiediamo, quindi, che si proceda, senza dilazioni, all'abolizione della legge n. 189 del 2002, la cosiddetta Bossi-Fini, un compendio di inciviltà: l'ennesima «legge securitaria», dove l'immigrazione è considerata come un problema di ordine pubblico, cui ricorrere con norme penali e interventi di polizia.
  Chiediamo di abrogare il reato di clandestinità e tutte le norme che limitano indebitamente la libertà e i diritti fondamentali dei migranti, così come sono sanciti nella Carta Europea dei Diritti fondamentali. Si chiudano, quindi, definitivamente, i CIE, vista la loro totale inefficacia: strutture inutilmente costose e lesive dei diritti umani.
  Chiediamo misure che riconsiderino le diverse modalità di ingresso legale nel nostro Paese, come ad esempio quello per la ricerca di un lavoro. Dobbiamo farci promotori, in Europa, affinché si costruiscano «corridoi umanitari» per aiutare i migranti in fuga dalla disperazione, evitando che i loro sogni si trasformino in tragedie, signor Presidente.
  Chiediamo la sospensione delle missioni Frontex e una modifica radicale della convenzione di Dublino, perché l'Europa si assuma davvero le proprie responsabilità e sia permesso, a chi entra in Italia, di poter andare in altri Paesi, senza sotterfugi.
  È giunto davvero il momento che l'Italia e l'Europa si aprano all'accoglienza verso quei popoli che noi, lo ripeto, noi oltraggiamo ogni giorno, sfruttando le loro risorse e violando i loro territori. Non permettiamo più che politiche sbagliate e repressive continuino ad essere causa di morte o di negazione dei più elementari diritti umani.

  PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali delle mozioni.
  Prendo atto che il Governo si riserva di intervenire successivamente.
  Pertanto, il seguito della discussione è rinviato ad altra seduta.

Sull'ordine dei lavori (ore 15).

  ANTONELLO GIACOMELLI. Chiedo di parlare sull'ordine dei lavori.

  PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

  ANTONELLO GIACOMELLI. Signor Presidente, vogliamo formalmente reiterare in aula la richiesta – già avanzata ieri – di un'informativa urgente del Governo sulla tragedia accaduta a Prato, che ha visto sette persone di origine cinese perdere la vita a causa di un incendio cha ha colpito il capannone industriale dove vivevano e lavoravano.
  Signor Presidente, sette persone sono morte nel rogo di ieri, ma migliaia vivono nelle stesse condizioni, sfruttate e prive di diritti. Dunque, chiediamo un'informativa che, in primo luogo, chiarisca tutti gli aspetti di un dramma che ha colpito tutta la città, senza eccezioni, ed ha scosso l'opinione pubblica del Paese. Ad ogni modo, ci aspettiamo anche, finalmente, un'interlocuzione più attenta che coinvolga l'intero Governo; ci aspettiamo che Prato, la sua comunità, il suo territorio, non sia lasciata sola; ci aspettiamo politiche più adeguate, più efficaci e meno spettacolari di quelle che abbiamo visto negli ultimi anni, magari meno soldati per le vie della città e più forze dell'ordine specializzate; ci aspettiamo finalmente che lo Stato si attrezzi per segnare la sua presenza in un territorio, nel cuore della Toscana, che vive un dramma che tutti conoscono e che attende ancora una risposta efficace.

  PRESIDENTE. Grazie, onorevole Giacomelli, sospendiamo ora la seduta che riprenderà alle ore 16 con l'assegnazione a Commissione in sede legislativa della proposta di legge n. 544 e con il seguito della discussione del decreto-legge recante proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di Polizia. La seduta è sospesa.

  La seduta, sospesa alle 15,05, è ripresa alle 16,05.

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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE LAURA BOLDRINI

Missioni.

  PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del Regolamento, i deputati Balduzzi, Borletti Dell'Acqua, Capezzone, Luigi Di Maio, Giachetti, Giorgia Meloni, Ravetto, Santelli, Valeria Valente e Vito sono in missione a decorrere dalla ripresa pomeridiana della seduta.
  Pertanto i deputati in missione sono complessivamente settantasette, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell’allegato A al resoconto della seduta odierna.

Assegnazione alla V Commissione (Bilancio) del disegno di legge di stabilità e del disegno di legge di bilancio (ore 16,07).

  PRESIDENTE. A norma del comma 1 degli articoli 72 e 120 del Regolamento, i seguenti disegni di legge sono assegnati alla V Commissione (Bilancio), in sede referente, con il parere di tutte le altre Commissioni permanenti e della Commissione parlamentare per le questioni regionali:
   S. 1120. – «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2014)» (approvato dal Senato) (1865);
   S. 1121. – «Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2014 e bilancio pluriennale per il triennio 2014-2016» (approvato dal Senato) (1866) e relativa nota di variazioni (1866-bis).

  Ricordo che, secondo quanto stabilito a seguito della Conferenza dei presidenti di gruppo del 27 novembre 2013, la settimana in corso è dedicata all'esame delle Commissioni di merito, mentre la prossima all'esame, e alla relativa conclusione, da parte della Commissione bilancio, che in ogni caso dovrà terminare i propri lavori in tempo utile a consentire che l'Assemblea avvii la discussione sulle linee generali dei suddetti disegni di legge nella mattinata di martedì 17 dicembre 2013.

Annunzio di una delibera dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato.

  PRESIDENTE. Il Presidente dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, con lettera in data 29 novembre 2013, ha trasmesso, ai sensi dell'articolo 6, comma 9, della legge 20 luglio 2004, n. 215, la delibera del 28 novembre 2013, con la quale l'Autorità ha dichiarato che la carica di sindaco del comune di Salerno, ricoperta dal Sottosegretario di Stato alle infrastrutture e ai trasporti, dottor Vincenzo De Luca, è incompatibile ai sensi dell'articolo 2, comma 1, lettera a), della legge n. 215 del 2004 e dell'articolo 13, comma 3, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148.
  La predetta delibera è a disposizione degli onorevoli deputati presso gli Uffici della Segreteria generale.

Trasferimento a Commissione in sede legislativa della proposta di legge n. 544.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'assegnazione di proposta di legge a Commissione in sede legislativa.

  Propongo alla Camera l'assegnazione in sede legislativa della seguente proposta di legge, della quale la VII Commissione (Cultura) ha chiesto il trasferimento in sede legislativa, ai sensi dell'articolo 92, comma 6, del Regolamento:
   VERINI ed altri: «Disposizioni per la celebrazione del centenario della nascita di Alberto Burri» (544).
  (La Commissione ha elaborato un nuovo testo)

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  Se non vi sono obiezioni, rimane così stabilito.
  (Così rimane stabilito).

Seguito della discussione del disegno di legge: Conversione in legge del decreto-legge 10 ottobre 2013, n. 114, recante proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione (AC. 1670-A/R) (ore 16,12).

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito della discussione del disegno di legge n. 1670-A/R: Conversione in legge del decreto-legge 10 ottobre 2013, n. 114, recante proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione (per l'articolo unico del disegno di legge di conversione vedi l'allegato A – A.C. 1670-A/R).
  Ricordo che nella seduta del 27 novembre il provvedimento era stato rinviato in Commissione.
  Avverto che le Commissioni hanno predisposto un nuovo testo (per il testo recante le modificazioni apportate dalle Commissioni vedi l'allegato A – A.C. 1670-A/R), con riferimento al quale la Commissione bilancio ha espresso il parere (vedi l'allegato A – A.C. 1670-A/R) che è in distribuzione.
  Resta inteso che, come da prassi, si intendono ripresentati gli emendamenti già presentati in Assemblea e non ancora posti in votazione prima del rinvio, ove ancora riferibili al nuovo testo approvato dalle Commissioni (per gli emendamenti riferiti agli articoli del decreto-legge, nel testo recante le modificazioni apportate dalle Commissioni, vedi l'allegato A – A.C. 1670-A/R).

(Posizione della questione di fiducia – Articolo unico A.C. 1670-A/R)

  PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare il Ministro per i rapporti con il Parlamento ed il coordinamento dell'attività di Governo, Dario Franceschini. Ne ha facoltà.

  DARIO FRANCESCHINI, Ministro per i rapporti con il Parlamento ed il coordinamento dell'attività di Governo. Signor Presidente, questo decreto-legge è da diverse settimane all'attenzione delle Commissioni e dell'Aula ed è stato oggetto, oltre che nella parte dei lavori parlamentari, anche di diversi incontri tra il Governo, i gruppi di maggioranza e i gruppi di opposizione alla ricerca di correzioni, condivisibili nel merito, in grado di consentire l'approvazione nei tempi dovuti e quindi far cessare l'atteggiamento negativo delle opposizioni.
  Questi incontri, purtroppo, non hanno portato a risultati giudicati sufficienti dalle opposizioni e del resto è evidente che questa è una materia molto delicata in cui, come dire, i margini di trattativa si riducono via via che si tratta di affrontare impegni internazionali in corso e già assunti.
  Il decreto scade il 9 dicembre e deve andare al Senato e per questi motivi, rispetta una tendenza che io credo – voglio cogliere soltanto questa occasione – noi abbiamo come Governo significativamente corretto rispetto ai precedenti perché io ricordo che, da quando è in carica il Governo Letta, sui 16 decreti-legge del Governo Letta è stata posta la fiducia soltanto in una votazione.
  In quella situazione, come nella fiducia al Senato sulla legge di stabilità, abbiamo rigidamente rispettato l'impegno che avevamo assunto che in caso di inevitabile apposizione del voto di fiducia, in questo caso non per ragioni politiche ma per garantire la conversione del decreto nei tempi, l'avremmo comunque posta sul testo Pag. 63della Commissione, senza modifiche, quindi cercando di interrompere – in attesa che arrivino, come noi speriamo, le modifiche regolamentari che consentano di evitare questo circuito sui decreti-legge –, il meccanismo che sembrava inevitabile: maxiemendamento, magari con correzioni, e voto di fiducia.
  Nello stesso periodo di tempo il Governo precedente ha posto la fiducia 22 volte. Non era colpa di nessuno, ma era colpa del meccanismo che noi abbiamo cercato di correggere.
  Purtroppo questa volta diventa inesorabile dato che la conversione va garantita, soprattutto in presenza di missioni internazionali; per questo motivo io, a nome del Governo, autorizzato dal Consiglio dei ministri, pongo la questione di fiducia sull'approvazione dell'articolo unico del disegno di legge di conversione in legge del decreto-legge del 10 ottobre 2013, n. 114, recante proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione, appunto, nel testo licenziato dalle Commissioni senza modifiche.

  ARTURO SCOTTO. Chiedo di parlare.

  PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

  ARTURO SCOTTO. Signora Presidente, abbiamo ascoltato le parole del Ministro Franceschini e, purtroppo, non ci ha convinto né nel merito né nelle questioni che sono al centro della proposta che viene oggi avanzata a questo Parlamento. Mi passi il termine un po’ forte, consideriamo questa questione di fiducia un atto punitivo nei confronti di una opposizione che ha chiesto soltanto il diritto di poter discutere missione per missione. Avevamo chiesto di poter affrontare nel merito le grandi problematiche dei nostri militari all'estero e dello sviluppo e del destino di alcune missioni militari rilevantissime. Invece avete scelto di «frantumare» la discussione in Aula attraverso una sistematica tattica del rinvio. Non è accettabile che un Paese grande come l'Italia debba comprimere la discussione in un solo articolo di un decreto-legge su 25 missioni di pace.
  Reputiamo un vero e proprio blitz la questione di fiducia, dopo che il Ministro Mauro si è degnato di venire esclusivamente venti minuti a conferire in questo Parlamento rispetto a questioni rilevantissime, come il destino della nostra missione militare in Afghanistan e tutte le altre questioni relative alle spese militari.
  Noi non daremo, come è naturale, la fiducia a questo Governo su questa missione. Avevamo avuto un atteggiamento positivo proponendo – e qui gli esponenti del Governo lo sanno bene – un articolo aggiuntivo all'attuale decreto che chiedeva dall'anno prossimo la possibilità di «spacchettare» l'Afghanistan ed altre missioni rispetto agli interventi di cooperazione e alle missioni di peace keeping. Ci hanno detto che era una proposta di buon senso ma non si poteva fare. Chiediamo al Ministro Franceschini per quale motivo un Governo che «sforna» decreti ogni ora non possa immaginare di consentire a questo Parlamento di potere discutere dell'Afghanistan separatamente dalle altre missioni (Applausi dei deputati dei gruppi Sinistra Ecologia Libertà e MoVimento 5 Stelle).

  PRESIDENTE. Quindi, a seguito della decisione del Governo di porre la questione di fiducia, la Conferenza dei presidenti di gruppo è convocata, presso la biblioteca del Presidente, per definire l'articolazione del dibattito fiduciario, tra trenta minuti.
  Sospendo la seduta, quindi, che riprenderà al termine della riunione della Conferenza dei presidenti di gruppo.

  La seduta, sospesa alle 16,20, è ripresa alle 18.

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PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE SIMONE BALDELLI (ore 18)

Sul calendario dei lavori dell'Assemblea e aggiornamento del programma.

  PRESIDENTE. Comunico che, a seguito della riunione della Conferenza dei presidenti di gruppo testé svoltasi, si è convenuto che, a seguito della posizione della questione di fiducia al disegno di legge n. 1670-A/R – Conversione in legge del decreto-legge 10 ottobre 2013, n. 114, recante proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione (da inviare al Senato - scadenza 9 dicembre 2013), la votazione per appello nominale avrà inizio domani non prima delle ore 16,15, previe dichiarazioni di voto a partire dalle ore 14,15.
  Seguiranno l'illustrazione e il parere sugli ordini del giorno, il cui termine di presentazione è fissato alle ore 10 di domani, martedì 3 dicembre.
  Le dichiarazioni di voto finale avranno luogo a partire dalle ore 12 di mercoledì 4 dicembre, con ripresa televisiva diretta. Seguirà la votazione finale.
  I lavori dell'Aula dei prossimi giorni sono così conseguentemente rimodulati:

  Martedì 3 dicembre (ore 11,45 e pomeridiana).

  Ore 12: Informativa urgente del Governo in merito alla vicenda del fermo di numerosi cittadini italiani in occasione della partita di calcio Legia Varsavia-Lazio disputata a Varsavia il 28 novembre 2013.

  Ore 13: Informativa urgente del Governo sul tragico incendio verificatosi in una fabbrica di Prato che ha causato la morte di sette lavoratori di nazionalità cinese.

  A partire dalle ore 14,15 avranno luogo le dichiarazioni di voto sulla questione di fiducia sul disegno di legge n. 1670-A/R – Conversione in legge del decreto-legge 10 ottobre 2013, n. 114, recante proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione (da inviare al Senato – scadenza 9 dicembre 2013). Seguiranno la votazione per appello nominale nonché l'illustrazione e il parere sugli ordini del giorno.

  Mercoledì 4 dicembre (ore 9,30 e ore 16, con eventuale prosecuzione notturna) (con votazioni)

  Seguito dell'esame del disegno di legge n. 1670-A/R – Conversione in legge del decreto-legge 10 ottobre 2013, n. 114, recante proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione (da inviare al Senato – scadenza 9 dicembre 2013) (alle ore 12 è prevista la ripresa televisiva diretta delle dichiarazioni di voto finale)

  A partire dalle ore 16 avrà luogo il seguito dell'esame dei seguenti argomenti:
   mozioni Morassut ed altri n. 1-00011, Lombardi ed altri n. 1-00092, Piazzoni ed altri n. 1-00149, Antimo Cesaro ed altri n. 1-00246, Fedriga ed altri n. 1-00252 e Costa ed altri n. 1-00261 concernenti iniziative in merito alla dismissione immobiliare degli enti previdenziali;
   disegno di legge n. 1710 – Ratifica ed esecuzione dell'Accordo tra la Repubblica di Albania, la Repubblica greca e la Repubblica italiana sul progetto «Trans Adriatic Pipeline», fatto ad Atene il 13 febbraio 2013 (approvato dal Senato);Pag. 65
   mozioni Fratoianni ed altri n. 1-00190 e Zampa ed altri n. 1-00156, Giancarlo Giorgetti ed altri n. 1-00266, Costa ed altri n. 1-00267, Toninelli ed altri n. 1-00269, Marazziti ed altri n. 1-00270 e Palese ed altri n. 1-00271 concernenti iniziative in ordine alla disciplina dell'ingresso, del soggiorno e dell'allontanamento dei cittadini stranieri, con particolare riferimento alla problematica dei centri di identificazione ed espulsione;
   disegno di legge n. 1542 ed abbinate – Disposizioni sulle Città metropolitane, sulle Province, sulle unioni e fusioni di Comuni (deliberata l'urgenza);
   mozioni Sorial ed altri n. 1-00194, Giorgia Meloni ed altri n. 1-00255, Di Salvo ed altri n. 1-00256, Tinagli ed altri n. 1-00257, Gnecchi ed altri n. 1-00258, Fedriga ed altri n. 1-00259 e Pizzolante ed altri n. 1-00260 concernenti iniziative volte all'introduzione di un prelievo straordinario sui redditi da pensione superiori ad un determinato importo.

  Giovedì 5 dicembre (antimeridiana e pomeridiana, con eventuale prosecuzione notturna) (con votazioni)

  Seguito dell'esame degli argomenti previsti nella giornata precedente e non conclusi.

  A partire dalle ore 13,30 avrà luogo la votazione per schede per l'elezione dei componenti effettivi e supplenti della Commissione di vigilanza sulla Cassa depositi e prestiti.

  Lo svolgimento di interrogazioni a risposta immediata (question time) avrà luogo mercoledì 4 dicembre, dalle ore 15.
  Lo svolgimento di interpellanze urgenti avrà luogo venerdì 6 dicembre, alle ore 9.
  Il programma si intende conseguentemente aggiornato.

Ordine del giorno della seduta di domani.

  PRESIDENTE. Comunico l'ordine del giorno della seduta di domani.

  Martedì 3 dicembre 2013, alle 11,45:

  (ore 12)

  1. – Informativa urgente del Governo in merito alla vicenda del fermo di numerosi cittadini italiani in occasione della partita di calcio Legia Varsavia-Lazio, disputata a Varsavia il 28 novembre 2013.

  (ore 13)

  2. – Informativa urgente del Governo sul tragico incendio verificatosi in una fabbrica di Prato, che ha causato la morte di sette lavoratori di nazionalità cinese.

  (ore 14,15)

  3. – Seguito della discussione del disegno di legge:
   Conversione in legge del decreto-legge 10 ottobre 2013, n. 114, recante proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione (C. 1670-A/R).
  – Relatori: Manciulli (per la III Commissione) e Rossi (per la IV Commissione), per la maggioranza; Gianluca Pini, di minoranza.

  La seduta termina alle 18,05.

TESTO INTEGRALE DELLA RELAZIONE DEL DEPUTATO GIANCLAUDIO BRESSA IN SEDE DI DISCUSSIONE SULLE LINEE GENERALI DEL DISEGNO DI LEGGE N. 1542-A

  GIANCLAUDIO BRESSA, Relatore per la maggioranza. Il disegno di legge n. 1542-A detta un'ampia riforma in materia di enti locali, prevedendo l'istituzione Pag. 66delle Città metropolitane, la ridefinizione del sistema delle province ed una nuova disciplina in materia di unioni e fusioni di comuni.
  Il testo originario del Governo, adottato come testo base, è stato ampiamente riscritto nel corso dell'esame in sede referente.
  Il Capo I (articolo 1) reca disposizioni generali.
  L'articolo 1, dopo aver indicato l'oggetto del disegno di legge (comma 1), reca le definizioni di città metropolitane, di province e di unioni di comuni (commi 2-4), dettando altresì alcune disposizioni in materia di unioni di comuni.
  Le città metropolitane sono riconosciute quali enti territoriali di area vasta, con le seguenti finalità istituzionali generali: cura dello sviluppo strategico del territorio metropolitano; promozione e gestione integrata dei servizi, delle infrastrutture e delle reti di comunicazione; cura delle relazioni istituzionali afferenti il proprio livello, comprese quelle a livello europeo (comma 2).
  Le province sono definite quali enti territoriali di area vasta, la cui disciplina è rimessa al capo III del disegno di legge. È altresì riconosciuta la specificità delle province montane, intendendosi per tali le province con territorio interamente montano e confinanti con Paesi stranieri (comma 3).
  Le unioni di comuni sono definite enti locali costituiti da due o più comuni per l'esercizio associato facoltativo di funzioni di loro competenza, al pari di quanto previsto dall'articolo 32 del testo unico sull'ordinamento degli enti locali. Tali unioni sono disciplinate dalle disposizioni del capo V, che apportano modifiche rispetto alla normativa vigente in relazione alla composizione e alla formazione degli organi. Resta fermo l'obbligo dei comuni al di sotto di 5.000 abitanti, previsto dal decreto-legge 78/2010, di esercitare in forma associata le funzioni fondamentali, ad eccezione di quelle relative all'anagrafe tramite unione di comuni o convenzione. In tal caso, non rilevano, ai fini del patto di stabilità, le voci relative al finanziamento delle spese gestite in convenzione nei bilanci dei comuni capofila di convenzioni. L'ultimo comma dell'articolo 1 modifica il timing per l'adeguamento dei comuni all'obbligo di esercizio associato delle funzioni fondamentali (previsto dall'articolo 14, co. 31-ter, decreto-legge 78/2010). In particolare, viene introdotto un termine intermedio al 30 giugno 2014 (che prevede l'esercizio di altre tre funzioni) e viene spostato il termine ultimo dal 1o gennaio al 31 dicembre 2014 (comma 4-6).
  Il Capo II (articolo 2-10-bis) reca l'istituzione e la disciplina delle città metropolitane.
  L'articolo 2 individua 9 città metropolitane: Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria (comma 1).
  Il territorio della città metropolitana coincide con quello della provincia omonima (comma 2). Sono peraltro previsti due distinti procedimenti per l'adesione o l'uscita di comuni dalla città metropolitana: uno, ordinario, per il passaggio di singoli comuni da una provincia limitrofa alla città metropolitana (o viceversa), disciplinato dall'articolo 2, ed un altro, speciale, per l'uscita di un gruppo qualificato di comuni dalla città metropolitana ed il mantenimento della provincia esistente, disciplinato dall'articolo 3, comma 9 (v. infra). Il procedimento ordinario prevede l'applicazione dell'articolo 133, primo comma, della Costituzione, che richiede per il mutamento delle circoscrizioni provinciali una legge dello Stato, adottata su iniziativa dei comuni interessati, sentita la Regione. Rispetto al procedimento dell'articolo 133 Cost., viene rafforzato il ruolo della Regione, dal momento che, in caso di parere negativo della stessa, il Governo è tenuto a promuovere un'intesa tra la regione e i comuni interessati, da definirsi entro 90 giorni; in caso di mancato raggiungimento dell'intesa entro tale termine, la decisione spetta al Consiglio dei ministri, che delibera in ordine alla presentazione al Parlamento del disegno di legge sulle modifiche territoriali di province e di città metropolitane (articolo 2, comma 2).Pag. 67
  Le regioni a statuto speciale Sardegna, Sicilia e Friuli Venezia-Giulia possono istituire città metropolitane nei capoluoghi di regione; ad esse si applica, in quanto compatibili e fatte salve le modifiche apportate dalle leggi regionali, la disciplina dettata dal disegno di legge in esame (comma 1, secondo periodo).
  Gli organi della città metropolitana sono il sindaco metropolitano, il consiglio metropolitano e la conferenza metropolitana (articolo 2, comma 3).
  Il sindaco metropolitano è il sindaco del comune capoluogo (articolo 4); il sindaco metropolitano ha la rappresentanza dell'ente, convoca e presiede il consiglio metropolitano e la conferenza metropolitana, sovrintende al funzionamento degli uffici (articolo 2, comma 4).
  Il consiglio metropolitano è composto dal sindaco metropolitano e da un numero di consiglieri variabile in base alla popolazione (24, se la popolazione è superiore a 3 milioni di abitanti; 18, se è compresa tra 800.001 e 3 milioni di abitanti; 14, se pari o inferiore a 800.000) (articolo 4, comma 2). È l'organo di indirizzo e controllo, approva regolamenti, piani, programmi e approva o adotta ogni altro atto ad esso sottoposto dal sindaco metropolitano; ha altresì potere di proposta dello statuto e poteri decisori finali per l'approvazione del bilancio (articolo 2, comma 4).
  La conferenza metropolitana è composta dal sindaco metropolitano e dai sindaci dei comuni della città metropolitana (articolo 8). È competente per l'adozione dello statuto e ha potere consultivo per l'approvazione dei bilanci; lo statuto può attribuirle altri poteri propositivi e consultivi (articolo 2, comma 4).
  Il procedimento di approvazione dello statuto e delle relative modifiche prevede la proposta del consiglio metropolitano e l'approvazione da parte della conferenza metropolitana con i voti che rappresentino almeno un terzo dei comuni e la maggioranza della popolazione (articolo 2, comma 5).
  Per ciò che attiene al bilancio, i relativi schemi sono proposti dal sindaco metropolitano, adottati dal consiglio metropolitano e sottoposti al parere della conferenza metropolitana, espresso con i voti che rappresentino almeno un terzo dei comuni e la maggioranza della popolazione. Il bilancio è successivamente approvato in via definitiva dal consiglio (articolo 2, comma 4).
  Il sindaco metropolitano può nominare un vicesindaco, scelto tra i consiglieri metropolitani, che esercita le funzioni del sindaco in caso di impedimento. Il sindaco metropolitano può assegnare deleghe al vicesindaco e, nei casi e nei limiti previsti dallo statuto, a consiglieri metropolitani (articolo 7).
  Lo statuto (articolo 2, comma 6) stabilisce le norme fondamentali dell'organizzazione dell'ente, comprese le attribuzioni e le competenze degli organi, nonché:
   a) regola le modalità e gli strumenti di coordinamento dell'azione complessiva di governo del territorio metropolitano;
   b) disciplina i rapporti tra i comuni e la città metropolitana per l'organizzazione e l'esercizio delle funzioni metropolitane e comunali, prevedendo anche forme di organizzazione in comune, eventualmente differenziate per aree territoriali. Mediante convenzione, i comuni possono avvalersi di strutture della città metropolitana e possono delegare l'esercizio di funzioni alla città metropolitana e viceversa;
   c) può prevedere la costituzione di zone omogenee, per specifiche funzioni, con organismi di coordinamento con la città metropolitana; a tal fine è necessaria la proposta o comunque l'intesa con la regione, il cui dissenso può essere superato con decisione della conferenza metropolitana, adottata a maggioranza di due terzi dei componenti.

  Il consiglio metropolitano è organo elettivo di secondo grado e dura in carica 5 anni; in caso di rinnovo del consiglio del comune capoluogo, si procede comunque a nuove elezioni del consiglio metropolitano (articolo 4, comma 3). Hanno diritto di Pag. 68elettorato attivo e passivo i sindaci e i consiglieri dei comuni della città metropolitana.
  Il voto dei sindaci e consiglieri è ponderato in base ad un indice rapportato alla popolazione complessiva della fascia demografica di appartenenza del comune (le fasce demografiche sono determinate dall'articolo 5, comma 9). Nella ponderazione sono adottati due correttivi volti a ridurre il peso degli elettori appartenenti ad un solo comune la cui popolazione superi il 45% della popolazione complessiva della città metropolitana e degli elettori appartenenti ad una fascia demografica la cui popolazione superi il 35 per cento della popolazione complessiva (Allegato A).
  Il sistema elettorale è un sistema proporzionale per liste; ai fini della presentazione, le liste devono essere sottoscritte da almeno il 5 per cento degli aventi diritto al voto. Ciascun elettore esprime un voto per una lista e può esprimere un voto di preferenza per un candidato della lista; il voto è in entrambi i casi ponderato. I seggi sono assegnati secondo il metodo d'Hondt.
  Ai fini di promuovere la rappresentanza di genere, nelle liste nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore a due terzi, a pena di inammissibilità. Tale disposizione troverà peraltro applicazione decorsi 5 anni dall'entrata in vigore della legge n. 215/2012, sulle rappresentanze di genere negli organi elettivi degli enti locali.
  Lo statuto può comunque prevedere l'elezione diretta a suffragio universale del sindaco e del consiglio metropolitano, previa approvazione della legge statale sul sistema elettorale e previa articolazione del comune capoluogo in più comuni secondo la procedura delineata dal disegno di legge (proposta del comune, referendum tra i cittadini e legge regionale). Nelle città metropolitane con popolazione superiore a 3 milioni di abitanti, in alternativa alla divisione del capoluogo in più comuni, è necessario che lo statuto preveda la costituzione di zone omogenee (ai sensi dell'articolo 2, comma 6, lettera c)) e che il comune capoluogo abbia ripartito il territorio in zone dotate di autonomia amministrativa in coerenza con lo statuto della città metropolitana (articolo 4, comma 4).
  L'incarico di sindaco metropolitano, di consigliere metropolitano e di componente della conferenza metropolitana è svolto a titolo gratuito (articolo 4, comma 4).
  Alle città metropolitane sono attribuite (articolo 9):
   le funzioni fondamentali delle province e quelle attribuite alla città metropolitana nell'ambito del processo di riordino delle funzioni delle province ai sensi dell'articolo 15;
   le funzioni fondamentali proprie della città metropolitana, relative a:
    a) piano strategico del territorio metropolitano;
    b) pianificazione territoriale generale;
    c) strutturazione di sistemi coordinati di gestione dei servizi pubblici, organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito metropolitano;
    d) mobilità e viabilità;
    e) promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale;
    f) promozione e coordinamento dei sistemi di informatizzazione e di digitalizzazione in ambito metropolitano;
   ulteriori funzioni attribuite dallo Stato o dalle regioni.

  Per la prima istituzione delle città metropolitane, l'articolo 3 delinea un procedimento piuttosto articolato.
  Le città metropolitane sono costituite alla data di entrata in vigore della legge sul territorio delle Province omonime. Il comitato istitutivo della città metropolitana è formato dal sindaco del comune capoluogo, che lo presiede, dal presidente della provincia o dal commissario, dal presidente della regione e dal sindaco di uno dei comuni della città metropolitana, eletto, entro 20 giorni dall'entrata in vigore Pag. 69delle legge, da un'assemblea dei sindaci dei comuni, a maggioranza semplice. Fino al 1o luglio 2014, il comitato istitutivo predispone atti preparatori e studi preliminari sul trasferimento delle funzioni, dei beni immobili e delle risorse finanziarie, umane e strumentali alla città metropolitana
  Entro 20 giorni dall'entrata in vigore della legge, è inoltre eletta una conferenza statutaria, cui si applicano le norme sul numero di componenti e sull'elezione del consiglio metropolitano; la conferenza è integrata dai componenti del comitato istitutivo ed è presieduta dal sindaco del comune capoluogo. La conferenza è incaricata di redigere una proposta di statuto della città metropolitana e deve terminare i suoi lavori il 30 giugno 2014, trasmettendo ai sindaci la proposta di statuto o comunque il prodotto dei propri lavori. L'incarico di componente del comitato istitutivo e della conferenza costituente è svolto a titolo gratuito.
  Fino al 1o luglio 2014, sono prorogati gli organi provinciali in carica, comprese le gestioni commissariali.
  Tra il 1o luglio 2014 e il 30 settembre 2014, un terzo dei comuni compresi nel territorio della città metropolitana ovvero un numero di comuni che rappresentino un terzo della popolazione della provincia, comunque tra loro confinanti, può deliberare, con atto del consiglio comunale adottato a maggioranza assoluta dei componenti, di non aderire alla città metropolitana e di continuare a far parte della provincia omonima. In tal caso il territorio della città metropolitana comprende provvisoriamente soltanto i comuni che non hanno manifestato tale volontà, in attesa della legge statale che determinerà il territorio della città metropolitana (e della provincia mantenuta) ai sensi dell'articolo 133 Cost.; si applica altresì la disciplina dell'articolo 2, comma 2, che prevede un rafforzamento del ruolo della regione nel procedimento di l'approvazione della legge ex articolo 133 Cost. Sul territorio dei comuni che hanno deliberato di non aderire alla città metropolitana non può comunque essere istituita più di una provincia. La Provincia omonima continua ad esercitare le proprie funzioni nel territorio dei Comuni che hanno deliberato di non aderire alla città metropolitana e il Presidente o commissario uscente della Provincia è nominato commissario. Dall'entrata in vigore della legge statale di definizione del territorio della provincia, quest'ultima è soggetta alla disciplina ordinaria del capo III; sono altresì disciplinate le modalità di esercizio delle funzioni da parte della provincia nelle more dell'approvazione della legge statale.
  Dal 1o luglio 2014 al 30 settembre 2014, ai fini dell'eventuale dichiarazione da parte dei comuni della volontà di non aderire alla città metropolitana, il comitato istitutivo subentra temporaneamente agli organi della Provincia. Le città metropolitane subentrano definitivamente alle Province al 30 settembre 2014, salvo quanto previsto dal comma 9 (delibera di un gruppo qualificato di comuni di non aderire alla città metropolitana).
  Dopo il 30 settembre 2014, il comitato istitutivo della città metropolitana indìce le elezioni del consiglio metropolitano, che si svolgono entro il 1o novembre 2014; alle elezioni non prendono parte i sindaci e i consiglieri dei comuni che hanno deliberato di non aderire alla città metropolitana. Dal 30 settembre 2014 al 1o novembre 2014, il sindaco del comune capoluogo esercita le funzioni degli organi della città metropolitana; dalla data di insediamento del consiglio metropolitano, esercita le funzioni di sindaco della città metropolitana.
  Entro due mesi dall'insediamento del consiglio metropolitano, è approvato lo statuto definitivo. In caso di mancata approvazione entro tale termine, il Governo esercita il potere sostitutivo ai sensi dell'articolo 8 della legge n. 131 del 2003.
  Dal 30 settembre 2014 le città metropolitane succedono sul loro territorio alle province in tutti i rapporti attivi e passivi ed esercitano le funzioni di queste ultime. Con l'adozione dello statuto definitivo, la città metropolitana assume anche le funzioni fondamentali proprie definite dall'articolo 9.Pag. 70
  Per la città metropolitana di Reggio Calabria, attualmente commissariata, sono previsti termini speciali per la prima istituzione.
  Ai sensi dell'articolo 10, spettano alla città metropolitana il patrimonio, il personale e le risorse della provincia, comprese le entrate provinciali. Al personale delle città metropolitane si applicano le disposizioni vigenti per il personale delle province; il personale trasferito dalle province mantiene, fino al successivo contratto, il trattamento economico in godimento.
  Una disposizione speciale disciplina il subentro della regione Lombardia, anche mediante società controllate, in tutte le partecipazioni azionarie di controllo della provincia di Milano nelle società che operano nella realizzazione e gestione di infrastrutture connesse all'Expo 2015. Dal 1o maggio 2015, le partecipazioni sono trasferite alla città metropolitana (articolo 10, comma 3).
  Alle città metropolitane si applicano, ove compatibili, le disposizioni in materia di comuni del testo unico sull'ordinamento degli enti locali (D.Lgs. n. 267/2000) e le disposizioni della legge n. 131/2003 sulla potestà normativa degli enti locali. Sono altresì modificate le disposizioni del testo unico degli enti locali in materia di ineleggibilità e incompatibilità.
  Il capo III (artt. 11-15-ter) disciplina le province.
  Gli organi della provincia sono il presidente della provincia, il consiglio provinciale e l'assemblea dei sindaci (articolo 12, comma 1). Il riparto di competenza è analogo a quello fissato per gli organi della città metropolitana.
  Il presidente della provincia ha la rappresentanza dell'ente, convoca e presiede il consiglio provinciale e l'assemblea dei sindaci, sovrintende al funzionamento degli uffici (articolo 12, comma 2).
  Il consiglio provinciale è composto dal presidente della provincia e da un numero di consiglieri variabile in base alla popolazione (16, se la popolazione è superiore a 700.000 abitanti; 12, se è compresa tra 300.000 e 700.000 abitanti; 10, se inferiore a 300.000) (articolo 12-ter, comma 1). È l'organo di indirizzo e controllo, approva regolamenti, piani, programmi e approva o adotta ogni altro atto ad esso sottoposto dal presidente della provincia; ha altresì potere di proposta dello statuto e poteri decisori finali per l'approvazione del bilancio (articolo 12, comma 2).
  L'assemblea dei sindaci è composta dai sindaci dei comuni della provincia. È competente per l'adozione dello statuto e ha potere consultivo per l'approvazione dei bilanci; lo statuto può attribuirle altri poteri propositivi, consultivi e di controllo (articolo 12, commi 2 e 3).
  Il procedimento di approvazione dello statuto e delle relative modifiche prevede la proposta del consiglio provinciale e l'approvazione da parte dell'assemblea dei sindaci con i voti che rappresentino almeno un terzo dei comuni e la maggioranza della popolazione (articolo 12, comma 2).
  Per ciò che attiene al bilancio, i relativi schemi sono proposti dal presidente della provincia, adottati dal consiglio provinciale e sottoposti al parere dell'assemblea dei sindaci, espresso con i voti che rappresentino almeno un terzo dei comuni e la maggioranza della popolazione. Il bilancio è successivamente approvato in via definitiva dal consiglio (articolo 12, comma 2).
  Il presidente della provincia può nominare un vicepresidente, scelto tra i consiglieri provinciali, che esercita le funzioni del presidente in caso di impedimento. Il presidente della provincia può assegnare deleghe al vicepresidente e, nei casi e nei limiti previsti dallo statuto, a consiglieri provinciali (articolo 12, comma 9).
  Il presidente della provincia è eletto dai sindaci e dai consiglieri dei comuni della provincia; sono eleggibili i sindaci il cui mandato scada non prima di 18 mesi dalla data delle elezioni (articolo 12-bis).
  Il presidente resta in carica quattro anni, anche in caso di cessazione dalla carica di sindaco.
  Le candidature devono essere sottoscritte da almeno il 15 per cento degli aventi diritto al voto. Ogni elettore vota per un solo candidato ed il voto è ponderato Pag. 71secondo il sistema adottato per l'elezione del consiglio metropolitano. È eletto il candidato che consegue il maggior numero di voti, sulla base della predetta ponderazione.
  Il consiglio provinciale è organo elettivo di secondo grado e dura in carica 2 anni; hanno diritto di elettorato attivo e passivo i sindaci e i consiglieri dei comuni della provincia. Il voto anche in questo caso è ponderato (articolo 12-bis).
  È prevista la presentazione di liste, sottoscritte da almeno il 5 per cento degli aventi diritto al voto. Il voto non è però attribuito alle liste, ma solo ai singoli candidati. Viene dunque stilata un'unica graduatoria e sono eletti i candidati che ottengono il maggior numero di voti, secondo la ponderazione. Per promuovere la rappresentanza di genere, sono previste disposizioni identiche a quelle esaminate per l'elezione del consiglio metropolitano.
  Anche in tal caso, l'incarico di presidente della provincia, di consigliere provinciale e di componente dell'assemblea dei sindaci è svolto a titolo gratuito.
  L'articolo 15 individua le seguenti funzioni fondamentali delle province: a) pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, nonché tutela e valorizzazione dell'ambiente, per gli aspetti di competenza, con particolare riferimento alla difesa del suolo; b) pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, autorizzazione e controllo in materia di trasporto privato, in coerenza con la programmazione regionale, nonché costruzione e gestione delle strade provinciali e regolazione della circolazione stradale ad esse inerente; c) programmazione provinciale della rete scolastica, nel rispetto della programmazione regionale; d) raccolta ed elaborazione dati ed assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali. La provincia può altresì, d'intesa con i comuni, provvedere alla gestione dell'edilizia scolastica con riferimento alle scuole secondarie di secondo grado.
  Viene delineato un complesso procedimento per il riordino delle funzioni attualmente esercitate dalle province, cui lo Stato e le regioni provvedono sulla base dei seguenti principi: a) conferimento ai comuni, perché le esercitino singolarmente o mediante unioni di comuni, delle funzioni il cui esercizio non corrisponde più ad esigenze unitarie o consente di svolgere più efficacemente le funzioni fondamentali dei comuni (ai sensi dell'articolo 14 DL n. 78 del 2011) b) assunzione da parte delle Regioni delle funzioni che rispondono a riconosciute esigenze unitarie; c) adozione di soluzioni gestionali e organizzative orientate all'efficienza e all'efficacia, ivi comprese, con intese o convenzioni, l'avvalimento e le deleghe di esercizio.
  Entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge, Stato e Regioni individuano, mediante accordo sancito in Conferenza unificata, le funzioni oggetto del riordino e le relative competenze. Entro tre mesi dall'accordo, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, previa intesa con la Conferenza unificata, sono determinati i criteri generali per l'individuazione dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative connesse all'esercizio delle funzioni oggetto di trasferimento, garantendo i rapporti di lavoro in corso. Entro sei mesi dal predetto decreto, con legge regionale si provvede a dare attuazione all'accordo sul riordino delle funzioni; decorso tale termine, il Governo esercita il potere sostitutivo ai sensi dell'articolo 8 della legge n. 131 del 2003. Entro trenta giorni dall'entrata in vigore della legge regionale, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, sentita la Conferenza Unificata, si stabilisce la data dalla quale decorre il trasferimento delle funzioni e delle risorse previste, disponendo altresì in via transitoria, fino all'esercizio della delega, in ordine alle modalità di trasferimento delle risorse finanziarie già spettanti alle Province.
  Il Governo è delegato ad adottare, entro un anno dalla data di entrata in vigore del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri che individua i criteri generali per il trasferimento delle funzioni, uno o più decreti legislativi per l'adeguamento della legislazione statale sulle funzioni e sulle Pag. 72competenze dello Stato e degli enti territoriali e di quella sulla finanza e sul patrimonio dei medesimi enti.
  Nello specifico caso in cui disposizioni normative statali o regionali riguardanti servizi a rete di rilevanza economica prevedano l'attribuzione di funzioni di organizzazione dei predetti servizi, di competenza comunale o provinciale, ad enti o agenzie in ambito provinciale o sub-provinciale, le leggi statali o regionali, prevedono la soppressione di tali enti o agenzie e l'attribuzione delle funzioni alle province nel nuovo assetto istituzionale. Alle regioni che si adeguino è data priorità nel trasferimento delle quote spettanti del fondo nazionale per il trasporto pubblico locale, con un incremento del primo anticipo del trasferimento compreso tra il 20 per cento e il 50 per cento, valido per due anni (articolo 15, comma 1-bis).
  In sede di prima applicazione, il presidente della provincia o il commissario convoca l'assemblea dei sindaci per l'elezione del presidente della provincia ed indice l'elezione del consiglio provinciale. Le elezioni si svolgono entro trenta giorni dalla scadenza degli organi provinciali in carica. Fino all'insediamento dei nuovi organi, sono prorogati gli organi provinciali in carica alla data di entrata in vigore della presente legge, compresi i commissari.
  Il consiglio provinciale approva le modifiche statutarie conseguenti al disegno di legge in esame entro sei mesi dalla elezione dei nuovi organi provinciali. In caso di mancata adozione delle modifiche statutarie entro la predetta data, il Governo esercita il potere sostitutivo ai sensi dell'articolo 8 della legge n. 131 del 2003.
  Norme specifiche riguardano le province montane, cui le regioni riconoscono, nelle materie di loro competenza, forme particolari di autonomia (articolo 11, comma 2). Gli statuti delle province montane possono prevedere, d'intesa con la regione, la costituzione di zone omogenee, per specifiche funzioni e tenendo conto delle specificità territoriali, con organismi di coordinamento collegati agli organi provinciali (articolo 12, comma 7) A tali province sono inoltre attribuite funzioni fondamentali ulteriori rispetto a quelle attribuite alla generalità delle province, riguardanti: a) cura dello sviluppo strategico del territorio e gestione in forma associata di servizi in base alle specificità del territorio medesimo; b) cura delle relazioni istituzionali con altri enti territoriali, compresi quelli di altri Paesi, con esse confinanti e il cui territorio abbia caratteristiche montane (articolo 15, comma 1-bis).
  L'articolo 15-bis estende al commissario governativo e al sub-commissario, nominati nelle ipotesi di scioglimento dei consigli comunali e provinciali ex articolo 141 TUEL, l'applicazione:
  della disciplina sulle incompatibilità prevista per il commissario straordinario delle grandi imprese in crisi dall'articolo 38, co. 1-bis, L. 270/1999, nonché dei requisiti di professionalità ed onorabilità dei commissari giudiziali e straordinari delle procedure di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, fissato con decreto ministeriale 60/2013. delle disposizioni sull'incandidabilità e sul divieto di ricoprire cariche elettive e di governo, introdotte dal D.Lgs. 235/2012.
  L'articolo 15-ter prevede che il prefetto, nella scelta dei sub commissari a supporto dei commissari delle province, faccia esclusivo riferimento al personale dell'ente locale, senza oneri aggiuntivi. Conseguentemente, viene disposta la decadenza, con effetto dalla data di entrata in vigore della legge, degli eventuali sub commissari che non corrispondano al prescritto requisito.
  Il capo IV, composto dal solo articolo 16, disciplina la città metropolitana di Roma capitale, cui si applicano le norme sulle città metropolitane del Capo II. Lo statuto della città metropolitana di Roma capitale disciplina i rapporti tra la città metropolitana, Roma capitale e gli altri comuni, garantendo il miglior assetto delle funzioni che Roma è chiamata a svolgere quale sede degli organi costituzionali nonché delle rappresentanze diplomatiche degli Stati esteri. Restano ferme le disposizioni dei decreti legislativi su Roma capitale.Pag. 73
  Il capo V detta disposizioni sulle unioni e fusioni di comuni.
  L'articolo 18, in primo luogo, abroga le disposizioni sulle unioni di piccoli comuni (fino a 1.000 abitanti) per l'esercizio facoltativo associato di tutte le funzioni di cui al decreto-legge 138/2011, come modificato dall'articolo 19 del decreto-legge 95/2012 (co. 1).
  In secondo luogo (co. 2), novella l'articolo 32 TUEL, modificando la disciplina del consiglio (il numero dei componenti è definito nello statuto senza predeterminazione di limiti numerici ex lege), introducendo la figura del segretario dell'unione, scelto tra i segretari dei comuni associati e rinnovando il contenuto e le modalità di approvazione dello statuto dell'unione (v. anche co. 3).
  Inoltre (co. 3), sono introdotte alcune modifiche relative alla disciplina delle unioni per l'esercizio associato obbligatorio delle funzioni fondamentali istituite dal decreto-legge 78/2010, in base alle quali è stabilito un ulteriore limite demografico minimo (oltre quello ordinario di 10.000 abitanti), fissato in 3.000 abitanti qualora si tratti di comuni appartenenti o appartenuti a comunità montane (almeno tre comuni). Il nuovo limite non si applica alle unioni già costituite.
  Infine, l'ultimo comma dell'articolo 18 stabilisce che il numero degli assessori nei comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti non può essere superiore a due (attualmente è pari a O) e nei comuni con popolazione tra 1.000 e 10.000 non superiore a quattro (come previsto attualmente, in seguito alla riforma del 2011).
  L'articolo 20 dispone in ordine al trattamento economico dei titolari delle cariche negli organi delle unioni di comuni, prevedendo la gratuità. Inoltre estende l'applicabilità delle disposizioni in materia di ineleggibilità, incandidabilità e incompatibilità relative ai comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti al primo mandato degli amministratori del comune nato dalla fusione o delle unioni di comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti.
  Per semplificare l'attività amministrativa, l'articolo 20-bis prevede che le funzioni di responsabile anticorruzione e di responsabile per la trasparenza siano svolte da un unico funzionario nominato dal presidente dell'unione anche per i comuni associati. Si dispone, inoltre, che le funzioni di revisione siano demandate ad un revisore unico per le unioni formate da comuni che non superano complessivamente i 10.000 abitanti ed, in caso diverso, da un collegio di revisori, mentre le funzioni di valutazione e controllo di gestione sono attribuite dal presidente dell'unione sulla base di un apposito regolamento.
  L'articolo 20-ter contiene diverse disposizioni concernenti:
   l'attribuzione al presidente dell'unione delle funzioni di autorità comunale di protezione civile sul territorio dei comuni che abbiano conferito all'unione la funzione fondamentale della protezione civile, nonché quelle di polizia locale, laddove siano state conferite all'unione le funzioni di polizia municipale;
   il riconoscimento che, nel caso di unioni a cui siano state conferite le funzioni di polizia municipale, la disciplina vigente relativa alle funzioni di polizia giudiziaria si intende riferita al territorio dell'unione;
   la previsione che per le unioni non si considerano le spese del personale trasferito dai comuni all'unione, ai fini del calcolo dei tetti di spesa del personale previsti dall'articolo 76, co. 7, decreto-legge 112/2008, quale parametro per le assunzioni;
   in caso di trasferimento di personale dal comune all'unione, il parallelo trasferimento all'unione delle risorse già quantificate e destinate a finanziare istituti contrattuali ulteriori rispetto al trattamento economico fondamentale;
   l'estensione alle unioni composte da comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti delle disposizioni normative relative ai piccoli comuni. In proposito, si ricorda che non esiste una definizione normativa di piccoli comuni.Pag. 74
   Gli articoli 21 e 21-bis recano disposizioni in materia di fusione di comuni.
   L'articolo 21 reca alcune misure agevolative e organizzative per la fusione di comuni.

  In primo luogo, si stabilisce che nei comuni sorti a seguito della fusione di più comuni, lo statuto del nuovo comune possa prevedere «forme particolari di collegamento» tra l'ente locale sorto dalla fusione e le comunità che appartenevano ai comuni originari.
  Inoltre, si prevede che lo statuto del nuovo comune contenga misure adeguate per assicurare alle comunità dei comuni oggetto della fusione forme di partecipazione e di decentramento dei servizi. Attualmente la previsione di tali misure spetta alla legge regionale istitutiva dei nuovi comuni.
  Una misura accelerativa del procedimento di adozione dello statuto prevede che i comuni che hanno avviato il procedimento di fusione, possono, anche prima della istituzione del nuovo ente, definire uno statuto del nuovo comune, che deve essere approvato in testo conforme da tutti i consigli comunali; tale statuto «provvisorio» entra in vigore con l'istituzione del nuovo comune e rimarrà vigente fino a che non sia eventualmente modificato dagli organi del comune frutto della fusione.
  Si prevedono poi le seguenti misure agevolative:
   le norme di maggior favore previste per comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti e per le unioni di comuni continuano ad applicarsi anche al nuovo comune frutto della fusione di comuni con meno di 5.000 abitanti;
   il nuovo comune può utilizzare i margini di indebitamento consentiti anche ad uno solo dei comuni originari;
   i sindaci dei comuni che si fondono coadiuvano con il commissario nominato per la gestione del comune derivante da fusione fino all'elezione del sindaco e del consiglio comunale del nuovo comune;
   gli obblighi di esercizio associato di funzioni vengono attenuati e in alcuni casi derogati per la durata di un mandato elettorale;
   gli incarichi esterni dei consiglieri comunali dei comuni oggetto di fusione e gli incarichi di nomina comunale continuano fino alla nomina dei successori;
   le risorse destinate ai singoli comuni per le politiche di sviluppo delle risorse umane e alla produttività del personale sono trasferite in un unico fondo del nuovo comune con la medesima destinazione.

  Vengono poi definite alcune disposizioni organizzative di tipo procedurale per regolamentare il passaggio dalla vecchia alla nuova gestione, principalmente per quanto riguarda l'approvazione dei bilanci.
  In particolare si prevede che:
   tutti gli atti, compresi bilanci, dei comuni oggetto della fusione restano in vigore fino all'entrata in vigore dei corrispondenti atti del commissario o degli organi del nuovo comune;
   i revisori dei conti decadono al momento della fusione ma continuano a svolgere le proprie funzioni fino alla nomina dei nuovi revisori;
   al nuovo comune si applicano le disposizioni dello statuto e del regolamento di funzionamento del consiglio comunale dell'estinto comune di maggiore dimensione demografica fino all'approvazione del nuovo statuto;
   il bilancio di previsione del nuovo comune deve essere approvato entro 90 giorni dall'istituzione dal nuovo consiglio comunale che approva anche il rendiconto di bilancio dei comuni estinti e subentra negli adempimenti relativi alle certificazioni del patto di stabilità e delle dichiarazioni fiscali;
   ai fini dell'esercizio provvisorio, si prende come riferimento la sommatoria Pag. 75delle risorse stanziate nei bilanci definitivamente approvati dai comuni estinti nell'anno precedente;
   ai fini della determinazione della popolazione legale, la popolazione del nuovo comune corrisponde alla somma della popolazione dei comuni estinti;
   l'indicazione della residenza nei documenti dei cittadini e delle imprese resta valida fino alla scadenza, anche se successiva alla data di istituzione del nuovo comune;
   l'istituzione del nuovo comune non priva i territori dei comuni estinti dei benefici stabiliti dall'Unione europea e dalle leggi statali in loro;
   i codici di avviamento postale dei comuni preesistenti possono essere conservati nel nuovo comune.

  L'articolo 21-bis introduce un nuovo procedimento di fusione di comuni per incorporazione. Fermo restando quanto previsto dall'articolo 15 del TUEL (fusione di comuni con legge regionale e referendum tra le popolazioni interessate), il nuovo procedimento prevede che il comune incorporante mantiene la propria personalità e i propri organi, mentre decadono gli organi del comune incorporato.
  L'articolo 22 reca ulteriori misure incentivanti per le unioni e fusioni di comuni, in relazione al patto di stabilità e al Primo Programma «6000 campanili»; nonché disposizioni transitorie volte a graduare gli effetti della fusione tra comuni sia in relazione alla possibilità di mantenere tributi e tariffe differenziati, sia in riferimento all'adeguamento alle norme vigenti in materia di omogenizzazione degli ambiti territoriali ottimali di gestione e di razionalizzazione della partecipazione ad enti pubblici di gestione.
  L'articolo 22-bis reca una delega il Governo per disciplinare in modo organico le disposizioni concernenti il comune di Campione d'Italia.
  Il capo VI (artt. 23 e 23-bis) reca le disposizioni finali.
  L'articolo 23 reca le seguenti norme finali:
   eliminazione dell'obbligo di tenere le elezioni per il rinnovo degli organi provinciali esclusivamente nel periodo 15 aprile – 15 giugno;
   abrogazione di alcune disposizioni in materia di unioni obbligatorie di comuni confluite nel disegno di legge in esame;
   abrogazione del comma 115 dell'articolo 1 della legge di stabilità 2013 (L. 228/2012) che proroga dei termini per il riordino delle province (si ricorda che una ulteriore proroga è prevista dal ddl di stabilità 2014, articolo 1, comma 291);
   adeguamento da parte delle regioni alle disposizioni introdotte dal presente provvedimento;
   obbligo per le città metropolitane e le nuove province a concorrere al raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica;
   abrogazione delle disposizioni vigenti che prevedono obbligatoriamente il livello provinciale dell'organizzazione periferica delle amministrazioni dello Stato;
   elaborazione da parte del Ministro per gli affari regionali e le autonomie di programmi di attività con la finalità di accompagnare e sostenere l'applicazione degli interventi di riforma previsti dal presente provvedimento; previsione di una clausola di invarianza finanziaria del disegno di legge, la cui attuazione non deve apportare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

  Infine, l'articolo 23-bis, delimita l'ambito di applicazione delle disposizioni in materia di province e città metropolitane alla sola struttura organizzativa.

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