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Resoconto dell'Assemblea

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XVII LEGISLATURA


Resoconto stenografico dell'Assemblea

Seduta n. 113 di giovedì 7 novembre 2013

Pag. 1

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE SIMONE BALDELLI

  La seduta comincia alle 9,05.

  ANNA MARGHERITA MIOTTO, Segretario, legge il processo verbale della seduta di ieri.
  (È approvato).

Missioni.

  PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del Regolamento, i deputati Alfreider, Balduzzi, Bonaccorsi, Michele Bordo, Brandolin, Bruno, Bruno Bossio, Caparini, Catalano, Chaouki, Cirielli, Dambruoso, Damiano, De Lorenzis, Di Gioia, Gregorio Fontana, Fontanelli, Garofalo, Gasbarra, Gebhard, Liuzzi, Meta, Pes, Pistelli, Portas, Quaranta, Speranza, Tabacci e Vito sono in missione a decorrere dalla seduta odierna.
  Pertanto i deputati in missione sono complessivamente ottantotto, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell’allegato A al resoconto della seduta odierna.

  Ulteriori comunicazioni all'Assemblea saranno pubblicate nell’allegato A al resoconto della seduta odierna.

Seguito della discussione del disegno di legge: Conversione in legge del decreto-legge 10 ottobre 2013, n. 114, recante proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione (A.C. 1670-A).

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito della discussione del disegno di legge n. 1670-A: Conversione in legge del decreto-legge 10 ottobre 2013, n. 114, recante proroga delle missioni internazionali delle Forze Armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione.
  Ricordo che nella seduta di ieri sono proseguiti gli interventi nella discussione sulle linee generali.

(Ripresa discussione sulle linee generali – A.C. 1670-A)

  PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Fava. Ne ha facoltà.

  CLAUDIO FAVA. Signor Presidente, signori del Governo, colleghi, è una discussione alla quale il nostro gruppo si affaccia con un certo disagio, dovuto al fatto che stiamo discutendo il destino di ventuno missioni e operazioni militari, il destino operativo di 6 mila militari italiani, e abbiamo deciso di comprimere tutto questo all'interno di un solo articolo.
  Il nostro gruppo, in tempi non sospetti, già all'inizio della legislatura e unico tra tutti i gruppi di questa Camera, si era Pag. 2rivolto al Governo per sollecitare uno spacchettamento di questo decreto, per fare in modo che il Parlamento fosse messo in condizione di poter discutere nel merito: una discussione che permettesse a questo Parlamento, nel confronto con il Governo, di valutare una per una le missioni, uno per uno gli impegni che l'Italia andava ad assumere su terreni difficili, rischiosi, e su un crinale complicato come quello della pace e della guerra.
  Lo spacchettamento è stato negato. In questo senso, signor Presidente e signori del Governo, ci sembra che l'atteggiamento ideologico sia quello del Governo, un atteggiamento ideologico quello di proporre a questo Parlamento una equazione secca: o prendere o lasciare, o accettate di votare tutte le missioni, limitandovi a lasciare a verbale qualche annotazione critica su qualcuna di esse, o decidete di respingerle tutte. Non è un modo rispettoso di relegare il Parlamento a una liturgia democratica e, soprattutto, è la sensazione e la prova di una grande fragilità di questo Governo, che, nel momento in cui si tratta di discutere, di assumere posizioni critiche, di valutarle e di intervenire anche all'interno delle proprie scelte tenendo conto delle indicazioni offerte da questo Parlamento, decide che questa libertà, questa autonomia, questa autorevolezza politica non gli competono. E chiederei...

  PRESIDENTE. Colleghi, per favore.

  CLAUDIO FAVA. ... se non altro per non offendere ulteriormente questa liturgia, di dare una parvenza di ascolto alle parole che questo gruppo vuole dire anche al Governo...

  PRESIDENTE. Colleghi, liberiamo l'emiciclo per cortesia. Sta parlando l'onorevole Fava. Prego, onorevole.

  CLAUDIO FAVA. È chiaro, manca una legge-quadro e questo Parlamento si dovrebbe impegnare a partire da oggi e ci piacerebbe su questo aver sentito e sentire parole chiare e inequivocabili da parte del Governo. Manca una riforma complessiva dello strumento delle missioni.
  Parlare di missioni, intervenire su questo strumento, vuol dire intervenire prima, intervenire nel merito di ciascuna missione per tentare di capire quali siano le condizioni, il contesto, la finalità, l'obiettivo e l'utilità, decidere dove, come, quanti, quando.
  L'idea che questo Parlamento debba essere soltanto un revisore dei conti – come spesso, magari, a qualcuno dei nostri più giovani colleghi piace immaginare – o l'idea che debba essere soltanto un notaio di decisioni che vengono costruite altrove. E quando dico «altrove», non penso soltanto ai luoghi e agli uffici del Governo, penso anche ad altre volontà, ad altre vocazioni, ad altre necessità, ad altre urgenze, di cui il Governo, spesso, si fa semplice ricettore.
  Non abbiamo mai avuto l'opportunità di discutere in questo Parlamento un bilancio sulle missioni che ci vedono già impegnati. Io vorrei parlare anzitutto della missione in Afghanistan, che mi sembra la cartina al tornasole, se possiamo dire, una sorta di autobiografia non autorizzata del modo in cui il nostro Governo e questo Paese si affacciano sullo strumento delle missioni militari. Mai un bilancio sulla missione ISAF: credo che sarebbe opportuno farlo, soprattutto alla vigilia di un impegno che ci viene proposto dalla NATO e che questo Governo raccoglie per coinvolgere l'Italia in una seconda missione d'impianto potenzialmente e apparentemente diverso, che è la missione «Resolute Support».
  Mai un'informativa da parte del Governo né una discussione sui risultati civili di questa missione. Io vorrei ricordarlo anche ai colleghi del Partito Democratico impegnati in altra discussione che nulla ha a che fare con l'Afghanistan, dove, tutto sommato, abbiamo visto crepare cinquantadue nostri soldati, amici del Partito Democratico...

  PRESIDENTE. Colleghi... Onorevole Rosato, per cortesia.

  CLAUDIO FAVA. Presidente, se questa discussione riguardasse dettagli, potremmo Pag. 3anche accettare che questo sia il clima in cui il Parlamento la assume, però, io non intendo parlare di cinquantadue militari ammazzati in un'Aula in cui ciascuno pensa ai fatti propri. Lo dico non per rispetto a chi sta parlando, ma per rispetto alla memoria di quelle cinquantadue persone e per l'impegno che ci stiamo assumendo nei confronti di altri 6 mila militari italiani, chiamandoli a rappresentare le ragioni di questo Paese e le indicazioni di questo Governo e di questo Parlamento in molti teatri di guerra.
  Dicevo, mai un'informativa sui risultati civili. Noi in Afghanistan non siamo andati a fare una guerra, Presidente: noi siamo andati con un impegno di civiltà, che voleva riportare democrazia nelle istituzioni afgane, riportare la pace in quel Paese, ricostruire istanze democratiche. E abbiamo bisogno di fare un bilancio sereno, ma, allo stesso tempo, concreto e rigoroso di quello che è accaduto in Afghanistan durante gli anni del nostro impegno a fianco di molti altri Paesi.
  Il costo per l'Italia, visto che questo tema dei costi è così caro, spesso, alle sensibilità della nostra Aula, è di 5 miliardi e mezzo di euro soltanto per l'Italia; di questo costo, appena il 4 per cento è stato speso in cooperazione. Quando parliamo di un intervento che militare non voleva essere, ma che serviva ad accompagnare la ricostruzione del Paese, è chiaro che il tema, il termine, la filosofia, il senso della cooperazione allo sviluppo, della cooperazione del mettere a disposizione e condividere strumenti di crescita civile dovrebbe essere quasi ontologicamente, per definizione, lo strumento naturale. Così non è stato, a giudicare da questa percentuale minima che è stata raccolta di 5 miliardi e mezzo di impegno economico dell'Italia.
  Abbiamo un altro dato, che si affianca in termini di numeri a questo, ma che, naturalmente, è molto più drammatico: cinquantadue militari italiani morti, 75 mila civili morti. Io capisco che 75 mila è una cifra, è una serie di zeri, è difficile sul piano dell'emozione rappresentarla come una fila di 75 mila esseri umani che sono rimasti uccisi, da civili, quindi, vittime incolpevoli di una guerra che passava nella loro vita e sulle loro teste. Ma è il bilancio di cui bisogna farsi carico, quando si valuta una missione che aveva il compito di riportare il più celermente possibile questo Paese in condizioni di pace e di democrazia.
  Vorrei ricordare, signor Presidente, che soltanto nel 2011, secondo un rapporto dell'Unicef, in Afghanistan sono stati uccisi o feriti a causa del conflitto 1.756 bambini. La media – questa è la matematica, l'ironia di usare persino i decimali anche sulla vita degli esseri umani – è di 4,8 bambini morti ogni giorno; 316 sono i ragazzi al di sotto dei dodici anni, bambini, che sono stati arruolati in questa guerra soltanto in un anno, soprattutto da parte dei gruppi armati di opposizione.
  Un'altra cifra che ci dà il senso del processo democratico, della qualità, dell'autonomia e dell'autorevolezza delle istituzioni civili afgane è la corruzione: la corruzione in Afghanistan rappresenta un saldo negativo per quel Paese di 4 miliardi di dollari.
  Ricordo discussioni accese in quest'Aula, nei talk show, nei dibattiti politici che animano la discussione nel nostro Paese, quando ci interroghiamo sui 60, 70 miliardi di euro che rappresentano il saldo della corruzione per questo Paese. Quattro miliardi di dollari per un Paese come l'Afghanistan sono una cifra grave, con un aumento del 40 per cento di anno in anno, con una certificazione che ci viene offerta da osservatori indipendenti che ci dice che un afgano su due, per avere accesso alla pubblica amministrazione sotto qualsiasi forma e per qualsiasi necessità, è costretto a pagare.
  Il 90 per cento della produzione dell'oppio, della produzione del prodotto base da cui si ricava e si offre l'eroina nei mercati della droga in tutto il mondo, deriva dall'Afghanistan e rappresenta una delle risorse sostanziali di questo grande e diffuso mercato della corruzione. Il 90 per cento del prodotto interno lordo dipende da aiuti dall'estero; questo Paese dipende nella sua sopravvivenza dalla bontà, dalla Pag. 4generosità, dalla lungimiranza con cui i Paesi della comunità internazionale continueranno a tenerlo per mano, a tenerlo in piedi.
  Sono cifre drammatiche, signor Presidente, signor sottosegretario del Governo e cari colleghi, che ci raccontano i morti, ci raccontano una corruzione che è diventata, non una iattura endemica, ma una parte strutturale della società organizzata afghana, ci raccontano la disperazione di una economia che è legata soltanto all'elemosina, ci raccontano, in altri termini, se ci è permesso spendere questa parola, il fallimento della missione ISAF. Il fallimento in un Paese che oggi non è né più sicuro né più democratico, che erano esattamente i due obiettivi, le due priorità che questo intervento militare si è dato all'inizio: rendere questo Paese più sicuro, rendere le sue istituzioni più democratiche.
  Se ha fallito la missione ISAF, che garanzie abbiamo che Resolute Support non rappresenti un secondo, ancora più umiliante, fallimento ? Peraltro, di fronte a un mandato molto vago, signor Presidente, un mandato vago sugli scopi, sulla durata, sui limiti. La NATO si è limitata a chiedere un atto di lealtà e di fedeltà ai Paesi che fanno parte dell'Alleanza Atlantica, dicendo che bisogna organizzarsi, mobilitarsi, apparentemente – dicono i titoli – per tentare di dare una mano nella formazione operativa e democratica delle forze di sicurezza afgane, solo che non sarà così semplice, se noi pensiamo a qual è lo stato dell'arte, la fatica delle forze di sicurezza afgane a poter controllare il loro territorio, e chiede a noi italiani di restare ad Herat.
  Sono molte le incognite di cui questo Parlamento si dovrebbe fare carico e di cui ci saremmo volentieri fatti carico in una discussione che riguardasse un articolo di legge, un provvedimento che avesse come obiettivo soltanto la missione Resolute Support, senza costringerla nel piano inclinato che vede precipitare una addosso all'altra tutte le missioni e tutti gli impegni del nostro Governo e del nostro Paese.
  Sono molte le incognite: che succede se non si vota ad aprile, a maggio, per le elezioni presidenziali e poi per le elezioni politiche ? Che succede se continua ad esserci questo vuoto di legittimità politica, di legittimità istituzionale, che succede a fianco di una missione che avrebbe bisogno di avere un interlocutore certo, autorevole e autorizzato da un voto democratico a rappresentare le ragioni dell'Afghanistan ?
  Che succede se invece si vota e viene eletto, come probabile, il fratello di Karzai, cioè si propone una dimensione quasi feudale della democrazia afgana che ormai vive soltanto della riproduzione di un impianto familistico, unico luogo e unica forma legittimata al Governo del Paese ? Che succede con i militari italiani che rimarranno dal 2014 fino al 2017 ?
  Ci permettiamo di annunciare e prevedere, con uno scarso margine di dubbio, che fra quattro anni verrà chiesto a queste Camere, o ad altre Camere, di continuare a prolungare questa missione sino al 2020. Che accade con il loro mandato, che accade con le forze di sicurezza afgane se non avranno il controllo del territorio come prevede il patto di ingaggio che la NATO sta chiedendo ai Paesi che dovrebbero partecipare a questa operazione ?
  Che accade se Resolute Support, nell'assenza di spirito critico, di attenzione, di consapevolezza di questo Parlamento, e temiamo anche del Governo, si trasforma in un secondo conflitto armato e diventa, nella sostanza e nella forma, una seconda guerra in Afghanistan ? È una domanda alla quale, signor Presidente, questo Parlamento avrebbe voluto e dovuto rispondere, intervenendo nel merito, valutando questa missione, potendo decidere, giudicare e votare questa missione, non 21 missioni tutte insieme, con una logica da supermercato per cui o rinunci a tutte o le assumi tutte perché non c’è la possibilità né la libertà di manovra per potere intervenire nel merito di ciascuna di esse. Resolute Support rischia di essere il canto di morte per l'Afghanistan. Occorre altro.
  E noi, alcune proposte, ripeto in tempi non sospetti, non soltanto nella frettolosa dinamica di questo dibattito parlamentare, non soltanto alla presentazione dei nostri Pag. 5emendamenti, ma anche nella discussione che ha preceduto la presentazione di questo «decreto missioni» in Commissione difesa e in Commissione esteri, in tutte le occasioni e in tutti i luoghi in cui è stato utile ricordare al Governo che il «decreto missioni» doveva essere un luogo di discussione e di assunzione di responsabilità da parte di questo Parlamento, abbiamo proposto delle soluzioni.
  Abbiamo detto che forse conviene, come hanno fatto altri Paesi, la Francia, anticipare il ritiro delle truppe e dare un segno concreto a quello che è lo scopo fondativo della nostra missione in Afghanistan, che è la ricostruzione della società e delle istituzioni civili, decidendo di destinare il 30 per cento di quello che avremmo risparmiato ritirando le truppe alla cooperazione e allo sviluppo.
  Abbiamo proposto di investire in progetti bilaterali di cooperazione. Lo ricordava il collega Scotto, lo 0,19 per cento non è una cifra, è una vergogna. Destinare meno del 2 per mille alla cooperazione internazionale pone l'Italia – lo dico al sottosegretario che ha grande esperienza e anche grande sensibilità su questo tema – agli ultimi gradini, non dico di una graduatoria economica tra i Paesi dell'Unione europea, ma di decenza, di dignità. La cooperazione internazionale è lo strumento attraverso il quale camminano la pace e i processi di pace, perché i processi di pace hanno bisogno di insediarsi in una società, non possono essere portati sulla punta delle baionette, hanno bisogno che ci sia un dialogo con la società civile, che ci sia la capacità di costruire luoghi, forme, forze che rappresentino la necessità della democrazia. Questo non avviene se noi destiniamo lo 0,19 per cento, che, ripeto, non è una cifra, è una vergogna per questo Parlamento.
  L'altra proposta era trasformare questa campagna di guerra in una missione di peacekeeping, e una missione di peacekeeping, come è avvenuto in passato e anche con effetti significativi, positivi – penso a quello che è accaduto molti anni fa in Cambogia, che usciva da una guerra civile straziante, che aveva avuto milioni di morti –, va costruita sotto l'ombrello delle Nazioni Unite; non dico l'Unione europea, se non riteniamo che abbia forza politica e autorevolezza sufficiente, ma le Nazioni Unite sono in condizione di poter governare un processo di peacekeeping che abbia dentro di sé realmente le ragioni della pace.
  Di tutto questo – e vado a concludere, signor Presidente –, nel «decreto missioni» non c’è traccia. È un decreto-legge fotocopia di tutti i precedenti decreti, e questo già in sé è un elemento di malinconia, una cosa abbastanza umiliante per questo Parlamento. Cambiano gli importi, perché cambia nelle scale dell'inflazione la necessità dell'impegno economico di questo Paese, ma la sottigliezza e la semplicità dei ragionamenti e anche la necessità di accorpare tutto insieme e su tutto chiedere un «sì» o un «no», come un giudizio universale, fa assomigliare questo decreto-legge a tutti i decreti che l'hanno preceduto, anche con altre maggioranze e con altri Governi.
  E anche questo dibattito, signor Presidente, è una fotocopia del passato, di altri Governi, di altre maggioranze. Il Parlamento è solo un notaio. Così come l'attenzione svagata che ha offerto il Governo alle parole preoccupate di questi parlamentari e anche l'attenzione svagata che abbiamo complessivamente dedicato a questa discussione. Questo Parlamento ha discusso di guerra e di pace, ma ne ha discusso come si potrebbe fare – mi permetta, signor Presidente – al «Circolo dei civili», dove si discute molto, moltissimo, e si decide nulla.
  Ecco, io credo che questa sia stata un'occasione mancata anche per la qualità della nostra democrazia parlamentare.
  Su parole difficili, sdrucciole, complicate come quelle che abbiamo utilizzato oggi sul tema della guerra e della pace avremmo preferito che questo Parlamento potesse pronunciarsi ed essere ascoltato e che questo Governo fosse capace di esercitare, in un dibattito come questo, l'alta e necessaria virtù del dubbio. Così non è Pag. 6accaduto e ce ne rammarichiamo (Applausi dei deputati del gruppo Sinistra Ecologia Libertà).

  PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, ho il piacere di comunicarvi che è presente in Aula ed assiste ai nostri lavori una delegazione dello State Audit Office del Vietnam, Corte dei conti vietnamita, guidata dal signor Nguyen Thanh. Porgiamo i nostri saluti alla delegazione (Applausi).

  ETTORE ROSATO. Chiedo di parlare.

  PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

  ETTORE ROSATO. Signor Presidente, io intervengo ai sensi dell'articolo 44, comma 1, del Regolamento, per chiedere la fine della discussione sulle linee generali e di passare alle fasi successive dell'esame di questo decreto.
  Lo faccio con la consapevolezza che c’è stata ampia possibilità di dibattito in queste tre giornate, dove abbiamo ascoltato numerosi interventi di tutti i gruppi e dove, dopo un approfondito dibattito in sede di Commissione, che credo sia stato assolutamente utile, con la collaborazione e il lavoro dei relatori, ma dove tutti i gruppi parlamentari hanno portato un significativo contributo, noi possiamo cominciare a pensare di dover passare alla fase successiva di questo decreto, per entrare nel merito di quei punti aperti e che sono stati segnalati negli interventi di tutti i gruppi e anche del nostro gruppo.
  Io ritengo che questo sia un decreto importante – noi riteniamo che questo sia un decreto importante – che parla di politica estera e che parla del contributo significativo che il nostro Paese dà alla pace e alla stabilità del nostro mondo. Ma, siamo anche consapevoli che da parte di questo Parlamento c’è bisogno di un segno di attenzione che non sia solo nelle parole ma sia anche nei fatti, assumendo decisioni e assumendosi responsabilità, e noi siamo per assumerci le nostre responsabilità e riteniamo che queste vadano assunte anche con una rapida approvazione di questo provvedimento.
  Quindi, consapevoli di non avere tolto la possibilità a tutti di dare il loro contributo, ma consapevoli che non si può decidere solo a parole ma bisogna decidere con i fatti, noi chiediamo che si concluda la discussione sulle linee generali e si proceda alla parte successiva dell'esame del provvedimento.

  PRESIDENTE. Onorevole Rosato, sulla base dell'articolo 44, comma 1, del Regolamento, che ella giustamente ha richiamato, la Presidenza darà la parola a un oratore a favore e a un oratore contro la proposta avanzata.

Preavviso di votazioni elettroniche (ore 9,30).

  PRESIDENTE. Poiché nel corso della seduta potranno aver luogo votazioni mediante procedimento elettronico, decorrono da questo momento i termini di preavviso di cinque e venti minuti previsti dall'articolo 49, comma 5, del Regolamento.

Si riprende la discussione.

(Ripresa discussione sulle linee generali – A.C. 1670-A)

  PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare contro l'onorevole Scotto. Ne ha facoltà.

  ARTURO SCOTTO. Signor Presidente, siamo alle solite. È del tutto evidente che la maggioranza di questo Parlamento – e mi dispiace, ma vorrei ascoltare anche una parola dal Governo della Repubblica italiana – non ha interesse a sviluppare una discussione reale e concreta e fondata sulla verità rispetto a un appuntamento, quello delle missioni, che viene affrontato in maniera rituale e ripetitiva...

  PRESIDENTE. Onorevole Librandi, chiedo scusa.

Pag. 7

  ARTURO SCOTTO. ... come se noi stessimo affrontando un qualsiasi provvedimento, come se noi stessimo affrontando una mozione parlamentare che parla di argomenti seppure importanti ma secondari rispetto agli interessi strategici del nostro Paese.
  La responsabilità a cui faceva riferimento l'onorevole Rosato si esercita nel dibattito parlamentare anche se è prolungato, anche se è faticoso, anche se è complesso da affrontare, in una discussione lunga. Noi voteremo contro questa proposta, perché la riteniamo offensiva rispetto al lavoro che tutti quanti noi ci dobbiamo apprestare a fare (Applausi dei deputati del gruppo Sinistra Ecologia Libertà).

  PRESIDENTE. Se nessuno chiede di intervenire a favore della proposta, si intende che si sia espresso a favore l'onorevole Rosato.
  Non essendo ancora decorso il termine di preavviso previsto dal Regolamento per procedere alle votazioni nominali con il procedimento elettronico, sospendo la seduta, che riprenderà alle ore 9,50.

  La seduta, sospesa alle 9,35, è ripresa alle 9,55.

  PRESIDENTE. Riprendiamo il seguito della discussione del disegno di legge n. 1670-A: Conversione in legge del decreto-legge 10 ottobre 2013, n. 114, recante proroga delle missioni internazionali.
  Ricordo che prima della sospensione della seduta è stata avanzata dal deputato Rosato – se liberiamo l'emiciclo e prendiamo posto – la richiesta di chiusura della discussione sulle linee generali.
  Dobbiamo ora procedere a tale votazione. Avverto che è stata chiesta la votazione nominale mediante procedimento elettronico. Passiamo, dunque, ai voti.
  Indìco la votazione nominale, mediante procedimento elettronico, sulla richiesta di chiusura della discussione sulle linee generali del disegno di legge in esame. Dichiaro aperta la votazione.
  (Segue la votazione).

  Rizzetto, Romano, Carnevali, Mosca, Palese, Giulietti, Distaso, Prataviera...
  Dichiaro chiusa la votazione.
  Comunico il risultato della votazione: la Camera approva (Vedi votazioni).

   (Presenti  342   
   Votanti  328   
   Astenuti   14   
   Maggioranza  165   
    Hanno votato
 247    
    Hanno votato
no   81).    

  (I deputati Capelli, Scuvera, Agostini, Capodicasa, Cardinale, Manfredi e Pagani hanno segnalato che non sono riusciti ad esprimere voto favorevole e i deputati Pellegrino e Airaudo hanno segnalato che non sono riusciti ad esprimere voto contrario).

  Ricordo che, essendo stata deliberata la chiusura della discussione sulle linee generali, ha facoltà di parlare, a norma dell'articolo 44, comma 2, del Regolamento e per non più di trenta minuti, un deputato, fra gli iscritti non ancora intervenuti nella discussione, per ciascuno dei gruppi che ne facciano richiesta. Ha chiesto di parlare l'onorevole Melilla. Ne ha facoltà.

  GIANNI MELILLA. Signor Presidente, la scelta di chiudere la discussione sulle linee generali è indubbiamente una scelta grave...

  PRESIDENTE. Colleghi, se riusciamo a far parlare l'onorevole Melilla, senza sovrapporre la vostra voce alla sua. Colleghi !

  GIANNI MELILLA. Dicevo, Presidente, che la scelta di interrompere la discussione sulle linee generali su una legge così importante dal punto di vista politico, istituzionale e finanziario denota una grave sottovalutazione della questione di cui stiamo discutendo.
  Noi avevamo chiesto di differenziare questo decreto-legge, che «affastella» interventi i più disparati possibili. L'Italia è Pag. 8impegnata in missioni militari di cui si chiede la proroga in Afghanistan, Kosovo, Bosnia, Libano, Mediterraneo Orientale, Hebron, Rafah, Sudan, sud Sudan, Cipro, mare della Somalia contro la pirateria, Bahrain, Qatar, Tampa, Somalia, Libia, Georgia, Mali, Albania, Palestina, Gibuti.
  L'impegno finanziario per queste missioni internazionali è un impegno non sostenibile dal nostro Paese e, tra l'altro, non è assolutamente proporzionale all'autorevolezza del nostro Paese a livello di politica estera. Anche rispetto alle alleanze di cui fa parte, spesso, l'Italia viene messa da parte perché non ha quel prestigio e quel ruolo di autorevolezza che pensa di poter avere partecipando a tutte queste missioni internazionali.
  Ho letto su un giornale che l'Italia...

  PRESIDENTE. Mi perdoni, onorevole Melilla. Colleghi, per favore, vi invito a smettere di fare capannelli in Aula, a evitare di dare le spalle alla Presidenza, se è possibile, ad abbassare il brusio ed a liberare il banco del Comitato dei nove.
  Colleghi, per favore, siccome ci sarà probabilmente un altro intervento e la replica dei relatori e del Governo, chi non è interessato o chi ha altro da fare può uscire in questo momento dall'Aula, visto che, di qui a breve, non ci saranno votazioni, e quindi lasciar parlare l'onorevole Melilla tranquillamente.

  GIANNI MELILLA. Ho letto su un giornale che l'Italia è al terzo posto tra tutti i Paesi del mondo come presenza in missioni internazionali. Ci siamo molto soffermati, nel dibattito che ha preceduto il mio intervento, sulla giustezza di questa scelta dal punto di vista morale e anche di politica estera, quindi politico nel senso più generale del termine.
  Io vorrei porre anche un problema di natura finanziaria: noi, per tre mesi, impegniamo 266 milioni di euro, su base annua siamo sul miliardo di euro; se gettiamo uno sguardo sull'insieme della spesa militare di questo Paese, ci rendiamo conto di come sia insopportabile, dal punto di vista finanziario, per il nostro Paese. Noi stiamo impegnando le finanze dello Stato per acquistare F35 e navi da guerra per una spesa di decine di miliardi di euro nel corso dei prossimi anni. Questo dinanzi ad un Paese stremato da una crisi economica infinita, che dura dal 2008 e che ha impoverito il nostro Paese.
  È evidente che questi miliardi di euro, che sono programmati per i prossimi anni, potrebbero essere utilizzati diversamente. Innanzitutto, per dare una risposta ai problemi della crescita economica del Paese, del rilancio dei consumi e della lotta alla disoccupazione e, poi, anche per tentare una via di politica estera diversa da quella affidata, quasi esclusivamente, al ruolo dell'Italia nelle missioni internazionali sotto l'egida dell'ONU, della NATO o dell'Unione europea.
  Si è messo in evidenza come siamo il fanalino di coda nel campo della cooperazione internazionale allo sviluppo. Quest'anno abbiamo speso 213 milioni di euro, una percentuale infima, vicina allo 0,1 per cento del prodotto interno lordo, quando la media europea è pari allo 0,30 per cento ed è tale perché l'Italia ha la percentuale più bassa di tutti i Paesi europei. Solo la Grecia ha una percentuale più bassa di noi, mentre i Paesi più grandi d'Europa, la Germania, il Regno Unito e la Francia, sono allo 0,50 per cento del prodotto interno lordo e i Paesi del nord Europa, a partire dai Paesi scandinavi, sono ben oltre lo 0,70 per cento del prodotto interno lordo, che è l'obiettivo che le Nazioni Unite si sono date nella riunione solenne del settembre del 2001 a New York, in sede di Nazioni Unite, con la partecipazione di 179 Capi di Stato e di Governo, ossia di raggiungere entro il 2015 lo 0,7 per cento del prodotto interno lordo per aiutare i Paesi poveri.
  Del resto, il nostro Paese, l'Italia, non è stato in grado neanche di corrispondere all'impegno che era stato assunto in sede di formazione del Governo, quando il Viceministro degli affari esteri, delegato alla cooperazione internazionale allo sviluppo, Lapo Pistelli, aveva detto che l'Italia, a partire da questo patto di stabilità, avrebbe aumentato per i prossimi tre anni, Pag. 9a partire dal 2014, dello 0,10 per cento i fondi destinati alla cooperazione internazionale, per arrivare allo 0,30 alla fine del triennio, quindi per cercare di avvicinarci agli altri Paesi e recuperare uno spazio poiché nel corso degli anni, la crisi finanziaria ed economica, purtroppo, si è abbattuta in modo devastante sul finanziamento della cooperazione internazionale allo sviluppo.
  Io vorrei citare il nostro Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che nel messaggio mandato l'anno scorso al Forum della cooperazione internazionale (gli stati generali della cooperazione, che si sono svolti a Milano, sotto la direzione del Ministro della cooperazione internazionale di allora, Andrea Riccardi), disse: «Cosa significa oggi fare cooperazione allo sviluppo ? La cooperazione è sempre stata un imperativo etico di solidarietà, ma oggi, nel XXI secolo della globalizzazione e dell'interdipendenza, è anche un critico investimento strategico nelle relazioni internazionali del Paese e per la tutela e la promozione degli interessi dell'Italia nel mondo. La cooperazione internazionale è politica estera nel senso più nobile e più elevato della parola, come indice di presenza e immagine dell'Italia nel mondo e cartina di tornasole della nostra capacità di giocarvi un ruolo adeguato. È giusto, quindi, riportare la cooperazione internazionale allo sviluppo tra le priorità della politica nazionale».
  Queste parole di Giorgio Napolitano evidentemente non sono seguite da chi oggi non ripropone questo tema come un grande tema della politica estera di un grande Paese, come l'Italia, che, tra l'altro, essendo anche sede della Chiesa, è anche particolarmente sensibile al tema della pace, al tema dei diritti umani e al tema del rifiuto della guerra, come ogni giorno ci ricorda il Sommo Pontefice.
  Quindi, poniamo un problema molto semplice. Noi poniamo una grande questione, quella di diminuire le spese militari, non solo in materia di missioni all'estero, ma in generale, perché i miliardi di euro che ci apprestiamo a spendere per acquistare F-35, navi da guerra e sofisticati armamenti dal punto di vista tecnologico sono incompatibili non solo con un livello di consapevolezza morale, ma soprattutto con lo stato dell'economia italiana e con lo stato di sofferenza di milioni di cittadini italiani, che al posto di avere cacciabombardieri che costano 130 milioni di euro l'uno – e l'Italia ne vuole acquistare novanta –, vorrebbero che i loro salari, i loro stipendi e le loro pensioni non fossero bloccati.
  Vorrebbero rilanciare i propri consumi, vorrebbero non avere una dilagante cassa integrazione; non vorrebbero avere, come è successo quest'anno, un aumento del 170 per cento delle richieste di indennità di disoccupazione, perché la cassa integrazione in deroga non è neanche più in grado di dare risposte a un minimo bisogno di tutela del reddito delle persone che perdono i posti di lavoro.
  E badate, quando noi parliamo di riduzione delle spese militari, non parliamo in termini ideologici, perché questa scelta, di natura politica e morale, non appartiene ad una parte politica. Vorrei fare una citazione che forse scandalizzerà qualcuno: noi abbiamo approvato l'articolo 81 della Costituzione in materia di pareggio del bilancio. Bene, l'Italia, per chi non lo sa, non ha mai raggiunto il pareggio di bilancio, nella sua storia, durante il periodo della Repubblica; lo ha raggiunto due volte durante il periodo della monarchia.
  Lo ha raggiunto nel 1876, con il Ministro dell'economia e delle finanze Minghetti, e poi lo ha raggiunto nel 1925, con il Ministro dell'economia di Mussolini, che era Alberto De Stefani. Bene, questo economista fascista, ovviamente, non adoperò soltanto la solita ricetta, che era stata adoperata anche da Minghetti, il famoso inventore della tassa sul macinato. Anche De Stefani, naturalmente, mise nuove tasse sui ceti meno abbienti, sulle classi medie e sui ceti popolari. Licenziò 65 mila lavoratori del pubblico impiego per diminuire, in modo assolutamente inaccettabile, la spesa pubblica, però fece una scelta: nel 1925 abbassò le spese militari da 20 miliardi di lire, allora, a 3 miliardi Pag. 10di lire: da 20 a 3 miliardi di lire ! E quando dico questo, lo dico proprio per rivendicare una consapevolezza, che non appartiene soltanto alla sinistra o all'estrema sinistra, perché il pacifismo è un filone culturale che appartiene al meglio della cultura internazionale, da Einstein ai grandi scienziati, letterati e filosofi del mondo, come Bertrand Russell, che sicuramente non possono essere tacciati di ideologismo politico.
  In più, in un momento di crisi come quello che noi viviamo, abbiamo il dovere di interrogarci seriamente. Lo dico a quella parte cattolica che pure siede in questi scranni del Parlamento, che, magari, partecipa alle messe del Papa e che condivide quell'ansia pacifista che il mondo religioso esprime, in maniera anche ecumenica, e poi qui abbassa la testa dinanzi al fatto che noi, in modo scandaloso, portiamo avanti dei progetti di armamento del nostro Paese che costano, negli anni, miliardi e miliardi di euro, che potrebbero essere utilizzati in maniera sicuramente più proficua. Noi continueremo la nostra battaglia, come ha annunciato il collega Arturo Scotto, perché abbiamo presentato molti emendamenti. Badate, noi, da molti mesi, siamo presenti qui in Aula e, come deputati di Sinistra Ecologia Libertà, non siamo mai ricorsi a mezzi che potessero ritardare i lavori dell'Aula in maniera artificiosa.
  Lo stiamo facendo oggi, con grande convinzione, politica e morale, perché riteniamo che su questo argomento il Paese debba interrogarsi, perché vogliamo battere quell'ipocrisia strisciante che ci fa vedere, come è successo in occasione del possibile intervento in Siria, schierarsi la parte migliore del Paese per chiedere pace, dialogo, soluzioni diplomatiche (Applausi dei deputati del gruppo Sinistra Ecologia Libertà), e poi, qui, noi assistiamo a un girare le spalle, al non affrontare i problemi.
  Quindi noi vogliamo sollevare nel Paese una grande questione che un Presidente della Repubblica compianto, forse il più grande Presidente della Repubblica che noi abbiamo mai avuto, Sandro Pertini (Applausi dei deputati del gruppo Sinistra Ecologia Libertà), sottolineava quando chiedeva sempre nei suoi interventi – io me li ricordo i messaggi di fine anno – di svuotare gli arsenali e di riempire i granai (Applausi dei deputati del gruppo Sinistra Ecologia Libertà); chiedeva che le spese militari fossero compatibili con un orizzonte morale ideale e, soprattutto, in questa fase io aggiungo anche, compatibili con gli equilibri economici e finanziari del Paese.
  Non potete, cari amici del Governo, bloccare le retribuzioni del pubblico impiego, che negli ultimi cinque anni hanno perso il 10 per cento del loro valore reale ! Non potete chiedere la diminuzione delle prestazioni sociali – perché se il prodotto interno lordo è sceso dell'8 per cento dal 2008 in poi e la spesa pubblica nel campo sanitario e nella scuola è rimasta invariata, vuol dire che in termini assoluti è diminuita dell'8 per cento, che c’è stata una grave penalizzazione della classe media e dei ceti popolari in questo Paese – e continuare magari a fare gli spot per la Lookheed e andare avanti su programmi di armamento che devono essere assolutamente rifiutati e su cui il Parlamento ricordo che aveva assunto anche una decisione di sospendere l'iter autorizzativo, in attesa di una riflessione.
  Invece, si va avanti come se niente fosse, e si vuole, da questo punto di vista, anche mettere a tacere quelle voci critiche che si sono innalzate, soprattutto quest'estate in occasione della crisi siriana, a partire dal Sommo Pontefice, ma anche da tante associazioni del volontariato, dei sindacati, delle forze istituzionali del nostro Paese. Per questo, noi continueremo la nostra battaglia nonostante abbiate deciso di chiudere il dibattito generale (Applausi dei deputati del gruppo Sinistra Ecologia Libertà).

  PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Marta Grande. Ne ha facoltà.

  MARTA GRANDE. Signor Presidente, prima di tutto vorremmo esprimere la nostra contrarietà rispetto alla decisione Pag. 11di interrompere gli interventi, perché, anche in base agli emendamenti che abbiamo presentato, avremmo molto da discutere e da dire. Pertanto, noi continueremo poi con un intervento rispetto alle nostre opinioni su ogni singolo emendamento.
  Inoltre, abbiamo deciso, proprio perché uno dei nostri emendamenti – quello che probabilmente rappresenta di più la nostra politica estera, che riguarda soprattutto una delle nostre mozioni, la prima mozione consegnata, riguardo all'Afghanistan – prevede il ritiro di 250 soldati dal territorio afgano, abbiamo deciso di intervenire leggendo una lettera scritta da un grande scrittore italiano, ovvero Tiziano Terzani, nell'Himalaya indiano già nel gennaio 2002. Quindi, un punto di vista che è un po’ diverso da quello strettamente politico, ma che può darci bene una visione di cosa fosse il mondo poco prima dell'11 settembre e, successivamente, dopo l'attacco alle Torri gemelle.
  Ci dice Terzani: «Ci sono giorni nella vita in cui non succede niente, giorni che passano senza nulla da ricordare, senza lasciare una traccia, quasi non si fossero vissuti. A pensarci bene, i più sono giorni così, e solo quando il numero di quelli che ci restano si fa chiaramente più limitato, capita di chiedersi come sia stato possibile lasciarne passare, distrattamente, tantissimi. Ma siamo fatti così: solo dopo si apprezza il prima e solo quando qualcosa è nel passato ci si rende meglio conto di come sarebbe averlo nel presente. Ma non c’è più. Il 10 settembre 2001 per me, e son certo non solo per me, fu un giorno di questo tipo: un giorno di cui non ricordo assolutamente nulla. So che ero ad Orsigna, l'estate era finita, la famiglia s'era di nuovo sbrancata in tutte le direzioni ed io probabilmente preparavo vestiti e carte per tornare in India a svernare.
  Pensavo di partire dopo il mio compleanno, ma non contavo i giorni e quel 10 settembre 2001 passò senza che me ne accorgessi, come non fosse nemmeno stato nel calendario. Peccato. Perché per me, per tutti noi – anche per quelli che ancora oggi si rifiutano di crederlo –, quel giorno fu particolarissimo, uno di cui avremmo dovuto, coscientemente, gustare ogni momento. Fu l'ultimo della nostra vita di prima: prima dell'11 settembre, prima delle Torri Gemelle, della nuova barbarie, della limitazione delle nostre libertà, prima della grande intolleranza, della guerra tecnologica, dei massacri di prigionieri e di civili innocenti, prima della grande ipocrisia, del conformismo, dell'indifferenza o, peggio ancora, della rabbia meschina e dell'orgoglio malriposto; l'ultimo giorno prima che la nostra fantasia in volo verso più amore, più fratellanza, più spirito, più gioia venisse dirottata verso più odio, più discriminazione, più materia, più dolore. Lo so: apparentemente poco o nulla è cambiato nella nostra vita. La sveglia suona alla stessa ora, si fa lo stesso lavoro, nello scompartimento del treno squillano sempre i telefonini ed i giornali continuano ad uscire ogni giorno con la loro dose di mezze bugie e mezze verità. Ma è un'illusione, l'illusione di quel momento di silenzio che c’è fra il vedere una grande esplosione in lontananza ed il sentirne poi il botto. L'esplosione c’è stata: enorme, spaventosa. Il botto ci raggiungerà, ci assorderà. Potrebbe anche spazzarci via. Meglio prepararsi in tempo, riflettere prima che si debba correre, anche solo figurativamente, a cercare di salvare i bambini o a prendere qualche ultima cosa da mettere in borsa. Il mondo è cambiato. Dobbiamo cambiare noi. Innanzitutto non facendo più finta che tutto è come prima, che possiamo continuare a vivere vigliaccamente una vita normale. Con quel che sta succedendo nel mondo la nostra vita non può, non deve, essere normale. Di questa normalità dovremmo avere vergogna. Questa impressione che tutto era cambiato mi colpì immediatamente. Un amico mi aveva telefonato dicendo semplicemente: accendi la televisione, subito. Quando in diretta vidi il secondo aereo esplodere, pensai: Pearl Harbor. Questa è una nuova guerra. Restai incollato davanti un po’ alla BBC, un po’ alla CNN per delle ore, poi uscii a fare una passeggiata nel bosco. Mi ricordo con quanto stupore mi accorsi che la natura era indifferente a quel che succedeva: Pag. 12le castagne cominciavano a maturare, le prime nebbie a salire dalla valle. Nell'aria sentivo il solito, lontano frusciare del torrente e lo scampanellio delle capre della Brunalba. La natura era assolutamente disinteressata ai nostri drammi di uomini, come se davvero non contassimo nulla e potessimo anche scomparire senza lasciare un gran vuoto. Forse perché ho passato tutta la mia vita adulta in Asia e davvero sono ora convinto che tutto è uno e che, come riassume così bene il simbolo taoista di Yin e Yang, la luce ha in sé il seme delle tenebre e che al centro delle tenebre c’è un punto di luce, mi venne da pensare che quell'orrore a cui avevo appena assistito era... una buona occasione. Tutto il mondo aveva visto. Tutto il mondo avrebbe capito. L'uomo avrebbe preso coscienza, si sarebbe svegliato per ripensare tutto: i rapporti fra Stati, fra religioni, i rapporti con la natura, i rapporti stessi fra uomo e uomo. Era una buona occasione per fare un esame di coscienza, accettare le nostre responsabilità di uomini occidentali e magari fare finalmente un salto di qualità nella nostra concezione della vita. Dinanzi a quel che avevo appena visto alla televisione e quel che c'era ora da aspettarsi non si poteva continuare a vivere normalmente, come tornando a casa vidi fare alle capre che brucavano l'erba. Credo che in tutta la vita non sono mai stato davanti alla televisione quanto nei giorni che seguirono. Dalla mattina alla sera. Quasi non dormivo. In testa avevo sempre quella frase: una buona occasione. Per mestiere, dinanzi ad una verità ufficiale ho sempre cercato di vedere se non ce n'era una alternativa, nei conflitti ho sempre cercato di capire non solo le ragioni di una parte, ma anche quelle dell'altra. Nel 1973, assieme a Jean-Claude Pomonti di Le Monde ed al fotografo Abbas, fui uno dei primi a passare le linee del fronte nel Vietnam del sud per andare a parlare col “nemico”, i Vietcong. Allo stesso modo, per cercare di capire i terroristi che avevano già provato a far saltare in aria una delle Torri Gemelle a New York, nel 1996 ero riuscito, due volte di seguito, ed entrare nella “università della jihad” per parlare con i seguaci di Osama bin Laden.
  Pensai che sarebbe servito riraccontare brevemente quella storia e le impressioni di quelle visite per immaginarsi il mondo dal punto di vista dei terroristi. Ma scrivere mi pesava. Il 14 settembre era il mio sessantatreesimo compleanno ed in quella data scadeva formalmente il mio bel rapporto di lavoro con Der Spiegel, iniziato esattamente trent'anni prima, ma già dal 1997 messo, su mia richiesta, in una forma concordata di letargo. Con “In Asia”, il libro che raccoglieva tutte le grandi e piccole storie di cui ero stato testimone, avevo detto quel che avevo da dire sul giornalismo. Da allora mi sono praticamente ritirato dal mondo. Passo gran parte del tempo nell'Himalaya e godo enormemente di non avere scadenze tranne quelle della natura. Il buio è l'ora di andare a letto, la prima luce l'ora di alzarsi. Dove abito, in un posto isolato a due ore di macchina dal primo centro abitato, più un'ora a piedi attraverso una foresta di rododendri giganti, non c’è né luce né telefono e così non ho distrazioni tranne quelle piacevolissime degli animali, degli uccelli, del vento e delle montagne. Ho perso l'abitudine di leggere i giornali e, anche quando vengo in Europa, ne faccio volentieri a meno. Le storie si ripetono e mi pare di averle già lette anni fa, quando erano scritte meglio. L'inverno è anche per me la più bella stagione dell'Himalaya. Il cielo è limpidissimo e le montagne appaiono vicinissime.
  Avevo assolutamente fatto piani per partire, ma come dicono gli indiani indicando il cielo: vuoi far ridere Dio ? Bene: digli i tuoi piani. Così passai il mio compleanno a scrivere, non un articolo con quel numero fisso di righe, con l'attacco attraente per renderlo leggibile, ma una lettera come l'avrei scritta di getto a un amico. Mi piace scrivere lettere. Ho sempre pensato che se fossi nato ricco e trecento anni fa, là dove comunque sono nato, povero, a Firenze, avrei solo voluto viaggiare il mondo per scrivere delle lettere. Il giornalismo in qualche modo mi ha Pag. 13permesso di fare una cosa simile, ma con la limitazione dello spazio, la fretta delle scadenze, gli obblighi del linguaggio. Ora, finalmente, posso scrivere semplicemente delle lettere. Quella da Orsigna la mandai per e-mail a Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere della Sera, con un messaggio che più o meno diceva: vedi tu, secondo gli accordi. Per anni avevo avuto col Corriere della Sera un contratto di collaborazione, ma quando era venuto il momento di rinnovarlo avevo scelto di non farne niente, per la stessa ragione per cui non ho mai voluto anticipi sui libri non ancora scritti. Non voglio sentirmi obbligato da nulla, non voglio avere complessi di colpa, sensi del dovere. Così con de Bortoli ripiegammo su un personalissimo gentlemen agreement: io mi sarei sentito libero di scrivere quando, quanto e come volevo, lui libero di pubblicare o meno, cambiando al massimo le virgole. Così è stato. La lettera uscì il 16 settembre. Il titolo non era quello che avevo suggerito, “Una buona occasione”, ma non potevo, come non ho mai dovuto fare poi, lamentarmi. Cominciava in prima pagina ed il seguito ne occupava un'altra intera. Il nocciolo di tutto quel che volevo dire era lì: le ragioni dei terroristi, il dramma del mondo musulmano nel suo confronto con la modernità, il ruolo dell'Islam come ideologia antiglobalizzazione, la necessità da parte dell'Occidente di evitare una guerra di religione, una possibile via d'uscita, la non-violenza. Il sasso era tratto. Finii per preparare vestiti e carte ed andai a Firenze, pronto a partire. Non ero sicuro di andare nell'Himalaya. Tornare nel mio splendido ritiro mi pareva un lusso che non potevo permettermi. Bush aveva giusto detto: “We shall smoke Osama bin Laden out of his cave”. Io dovevo accettare che Osama aveva stanato me dalla mia tana.
  La tentazione di tornare nel mondo, di scendere in pianura, come dicono nell'Himalaya quando vanno a fare la spesa, mi era già venuta. A luglio era uscita l'edizione americana di “Un indovino mi disse” e l'editore mi aveva invitato a fare quella orribile cosa che gli americani chiamano flogging, frustare il libro, spingerlo, il che tradotto in parole povere significa diventare un pacco postale in mano a degli abilissimi ed efficientissimi giovani PR che ti prendono in consegna e ti portano a giro dalla mattina alla sera in macchina, in aereo, in elicottero, da costa a costa e da una città all'altra, a volte due in un giorno, mettendoti ora davanti all'intervistatore di un quotidiano che del libro ha solo letto la copertina, ora davanti ai microfoni di una stazione radio per tassisti o di un'altra per insonni, ora davanti alle telecamere di un grande TV-show o a quelle di un più modesto programma di prima mattina per massaie dove si parla di destino fra una ricetta di insalata di pollo e un nuovo tipo di sci acquatico (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle). L'ho fatto per due settimane. E Dio mio se ne valeva la pena ! Tornai da quel viaggio scioccato, con un'impressione spaventosa.
  Avevo visto un'America arrogante, ottusa, tutta concentrata su se stessa, tronfia del suo potere, della sua ricchezza, senza alcuna comprensione o curiosità per il resto del mondo. Ero stato colpito dal diffuso senso di superiorità, dalla convinzione di essere unici e forti, di credersi la civiltà definitiva. Il tutto senza alcuna autoironia. Una notte, dopo un incontro sul libro allo Smithsonian Institute, un vecchio giornalista che conosco da anni mi portò a fare una passeggiata tra vari monumenti nel cuore di Washington, quello particolarmente commovente ai caduti in Vietnam, quello teatrale e suggestivo ai morti in Corea e, nel posto dove sorgerà, quello ai caduti della Seconda guerra mondiale. La prima riflessione che feci era che mi pareva strano che un paese giovane, fondato sull'aspirazione alla felicità, avesse scelto di mettere al centro della sua capitale tutti quei monumenti alla morte. L'amico disse che non ci aveva mai pensato. Quando fummo davanti al mastodontico, bianchissimo Lincoln, seduto su una gran poltrona bianca in una gigantesca copia tutta bianca d'un tempio greco, mi venne da dire, sapendo che anche lui era stato a Pyongyang: “Mi ricorda Kim Il Sung”. Si, offese come gli Pag. 14avessi toccato la madonna. “Noi amiamo quest'uomo”, disse. Mi trattenni dal fargli notare che un nordcoreano avrebbe detto esattamente la stessa cosa, ma questa era l'impressione che l'America mi aveva messo addosso. Il paragone non era soltanto della mastodonticità dei monumenti; era nel fatto che gli americani mi parevano loro stessi vittime di un qualche lavaggio del cervello: tutti dicono le stesse cose, tutti pensano allo stesso modo. La differenza è che, al contrario dei nordcoreani, essi credono di farlo liberamente e non si rendono conto che quel loro conformismo è frutto di tutto quel che vedono, bevono, sentono e mangiano. L'America mi aveva fatto paura e avevo pensato di tornarci, magari a fare un viaggio di qualche mese attraverso l'intero paese, un viaggio come quello che feci con mia moglie Angela quando ero studente alla Columbia University, un viaggio che un tempo facevano i giornalisti europei, ora invece incollati a New York davanti ai loro computer, dove vedono e leggono quello che l'America vuole che vedano e che leggano perché ce lo possano riraccontare.
  Avevo già in tasca il biglietto per Delhi quando il solito amico mi chiamò: “L'hai letta ?” “Chi ?” “La Fallaci. T'ha risposto, nel Corriere di stamani”. Erano le tre del pomeriggio del 29 settembre e dovetti fare il giro di mezza Firenze per procurarmene una copia. Il giornale era davvero andato a ruba. Lessi i quattro paginoni e mi prese una gran tristezza. Ancora una volta m'ero sbagliato. Altro che buona occasione ! L'11 settembre era stata l'occasione di svegliare ed aizzare il cane che è in ognuno di noi. Il punto centrale della risposta della Oriana era non solo di negare le ragioni del «nemico», ma di negargli la sua umanità, il che, è il segreto della disumanità di tutte le guerre. Mi colpì. Poi mi fece una gran pena. Ognuno ha diritto ad un suo modo di affrontare la vecchiaia e la morte; mi dispiaceva vedere che lei aveva scelto la via del rancore, dell'astio, del risentimento: la via delle passioni meno nobili e della loro violenza. Sinceramente mi dispiaceva per lei perché la violenza – ne sono sempre più convinto – brutalizza non solo le sue vittime, ma anche chi la compie.
  Mi misi a scrivere. La lettera questa volta era diretta a lei. Uscì sul Corriere l'8 di ottobre, il giorno in cui i giornali erano dominati dalle foto di Bush e di Osama bin Laden. L'America aveva cominciato a bombardare l'Afghanistan. Riuscii a trovare una copia del giornale all'aeroporto di Firenze. Era l'alba, partivo per Parigi, da lì sarei volato a Delhi e poi in Pakistan. Avevo deciso di “scendere in pianura”. Pagavo di tasca mia, così da essere libero, eventualmente, di non scrivere. Mi sentivo leggero a non “rappresentare” che me stesso e a rispondere “pensionato” alla domanda sulla professione nelle schede dell'immigrazione. Le lettere sono quelle scritte nel corso di questo lungo viaggio. Le date indicano quando e dove sono state scritte. Solo metà di quel che segue è uscito sul Corriere, ma mi sta a cuore precisare che ogni singola parola di ogni lettera che ho mandato a de Bortoli lui l'ha con grande correttezza pubblicata. Gliene sono grato, e sono certo che lo sono anche molti lettori. Anche se a volte, specie dopo che un missile americano aveva colpito a Kabul la sede della televisione indipendente Al Jazeera, ho temuto che uno, con simili intenzioni, potesse esser già caduto anche su via Solferino a Milano. Ovviamente de Bortoli ed io non abbiamo affatto le stesse idee. Lui, ad esempio, concluse l'editoriale del 12 settembre con una frase famosa, che poi molti gli hanno tolto di bocca: “Siamo tutti americani”. Bene, io no. Di fondo mi sento fiorentino, un po’ italiano e sempre di più europeo. Ma americano proprio no, anche se all'America debbo molto, compresa la vita di mio figlio, quella di mio nipote – tutti e due nati là – ed in parte anche la mia. Ma questa è un'altra storia.
  In fondo trovo difficile questo definirmi. Sono arrivato alla mia età senza mai aver voluto appartenere a nulla, non a una chiesa, non a una religione: non ho avuto la tessera di nessun partito, non mi sono mai iscritto a nessuna associazione, né a quella dei cacciatori né a quella per Pag. 15la protezione degli animali. Non perché non stia naturalmente dalla parte degli uccellini e contro quella degli omacci col fucile che sparano nascosti in un capanno, ma perché qualunque organizzazione mi sta stretta. Ho bisogno di sentirmi libero. E questa libertà è faticosa perché ogni volta, davanti ad una situazione, quando bisogna decidere cosa pensare, cosa fare, si può solo ricorrere alla propria testa, al proprio cuore e non alla facile linea, pronta all'uso, di un partito o alle parole di un testo sacro. Per istinto sono sempre stato lontano dal potere e non ho mai corteggiato chi lo aveva. I potenti mi hanno sempre lasciato freddo. Se mai sono entrato in qualche stanza dei bottoni, era con un taccuino per prendere appunti e sempre pronto a scoprire qualche magagna. Non dico questo per vantarmi, ma per rassicurare chi, leggendo le pagine che seguono, può pensare che io sono parte di un qualche giro, di un qualche complotto, che ho un mio progetto o che porto avanti il piano di Tizio e di Caio. Con queste lettere non cerco di convincere nessuno. Voglio solo far sentire una voce, dire un'altra parte di verità, aprire un dibattito perché tutti prendiamo coscienza, perché non si continui a pretendere che non è successo niente, a far finta di non sapere che ora, in questo momento, in Afghanistan migliaia di persone vivono nel terrore di essere bombardate dai B-52, che in questo momento un qualche prigioniero, portato incappucciato e incatenato a venti ore di volo dalla sua terra, viene ora “interrogato” su un ultimo lembo di terra coloniale degli Stati Uniti a Guantanamo, nell'isola di Cuba, mentre gli strateghi della nostra coalizione contro il terrorismo stanno preparando altri attacchi in chi sa quali altri Paesi del mondo. Allora io dico: fermiamoci, riflettiamo, prendiamo coscienza. Facciamo ognuno qualcosa e, come dice Jovanotti nella sua poetica canzone contro la violenza, arrivata fin quassù nelle montagne: “Salviamoci”. Nessun altro può farlo per noi».
  Particolarmente interessante, poi, ci risulta la lettera da Kabul, con la quale continuiamo, scritta il 19 dicembre 2001: «La vista è stupenda. La più bella che potessi immaginarmi. Ogni mattina mi sveglio in un sacco a pelo disteso sul cemento e su qualche piastrella di plastica d'uno stanzone vuoto all'ultimo piano del più alto edificio del centro città e gli occhi mi si riempiono di tutto quel che un viaggiatore diretto qui ha sempre sognato: la mitica corona delle montagne di cui un imperatore come Babur, capostipite dei Moghul, avendole viste una volta, ebbe nostalgia per il resto della vita e desiderò che fossero la sua tomba; la valle percorsa dal fiume sulle cui sponde è cresciuta la città a proposito della quale un poeta, giocando sulle due sillabe del nome Kabul in persiano, scrisse: “La mia casa ? Eccola: una goccia di rugiada fra i petali di una rosa”; il vecchio bazar dei Quattro Portici dove, si diceva, è possibile trovare ogni frutto della natura e del lavoro artigiano; la moschea di Puli-i-Khisti; il mausoleo di Timur Shah; il santuario del Re dalle Due Spade costruito in onore del primo comandante musulmano che nel VII secolo dopo Cristo, pur avendo già perso la testa, mozzatagli da un fendente, continuò – secondo la leggenda – a combattere con un'arma per mano, determinato com'era a imporre l'Islam, una nuova, aggressiva religione appena nata in Arabia, a una popolazione che qui, da più d'un millennio, era felicemente indù e buddhista; e poi, alta, imponente sulla cresta della prima fila di colli, proprio di fronte alle mie vetrate, la fortezza di Bala Hissar nella cui residenza hanno regnato tutti i vincitori e nelle cui galere han languito, o sono stati sgozzati, tutti i perdenti della storia afghana. La vista è stupenda, ma da quando sono arrivato, più di due settimane fa, con in tasca una lettera di presentazione per un vecchio intellettuale, nella borsa una bibliotechina di libri-compagni-di-viaggio e in petto un gran misto di rabbia e di speranza, questa vista non mi dà pace. Non riesco a goderne perché mai, come da queste finestre impolverate, ho sentito, a volte quasi come un dolore fisico, la follia del destino a cui l'uomo, per sua scelta, sembra essersi votato: con una mano costruisce, con l'altra Pag. 16distrugge; con fantasia dà vita a grandi meraviglie, poi con uguale raffinatezza e passione fa attorno a sé il deserto e massacra i suoi simili. Prima o poi quest'uomo dovrà cambiare strada e rinunciare alla violenza. Il messaggio è ovvio. Basta guardare Kabul.
  Di tutto quel che i miei libri raccontano non restano che i resti: la fortezza è una maceria, il fiume un rigagnolo fetido di escrementi e spazzatura, il bazar una distesa di tende, baracche e container; i mausolei, le cupole, i templi sono sventrati; della vecchia città fatta di case in legno intarsiato e fango non restano, a volte in file di centinaia e centinaia di metri, che patetici mozziconi color ocra come sulla battigia le guglie dei castelli di sabbia costruiti da bambini e subito espugnati dalle onde. Tanti monumenti sono letteralmente scomparsi. L'enigmatico Minar-i-Chakari, Colonna della Luce, costruito fuori Kabul sulla vecchia via di Jalalabad nel I secolo dopo Cristo, forse per commemorare l'illuminazione del Buddha, non ha resistito alle cannonate e dal 1998 non è che un triste cumulo di antichi sassi.
  Kabul non è più, in nessun senso, una città, ma un enorme termitaio brulicante di misera umanità; un immenso cimitero impolverato. Tutto è polvere e ho sempre di più l'impressione che nella polvere che mi annerisce costantemente le mani, che mi riempie il naso, che mi entra nei polmoni, in questa polvere c’è tutto quel che resta di tutte le ossa, di tutte le regge, le case, i parchi, i fiori e gli alberi che hanno un tempo fatto di questa valle un paradiso. Settanta diversi tipi di uva, trentatré tipi di tulipani, sette grandi giardini folti di cedri erano il vanto di Kabul. Non c’è assolutamente più nulla. E questo non per una maledizione divina, non per l'eruzione di un vulcano, lo straripamento di un fiume o una qualche altra catastrofe naturale. Il paradiso è finito una volta e poi di nuovo e poi tante altre volte per una sola, unica causa: la guerra. La guerra degli invasori di secoli fa, la guerra dell'Ottocento e dell'inizio del secolo scorso portata qui dagli inglesi – che ora, poco delicatamente, sono voluti tornare a capo della “Forza di pace” – la guerra degli ultimi vent'anni, quella a cui tutti, in un modo o nell'altro, magari solo vendendo armi a uno dei tanti contendenti, abbiamo partecipato; ed ora la guerra americana: una fredda guerra di macchine contro uomini. Forse è l'età che mi ha fatto sviluppare una sorta di isterica sensibilità per la violenza, ma dovunque poso lo sguardo vedo buchi di pallottole, squarci di schegge, vampate nere di esplosioni ed ho l'impressione di esserne, io, ora, trafitto, mutilato, bruciato. Forse ho perso, se l'ho mai avuta, quella obiettività dell'osservatore non coinvolto, o forse è solo il ricordo di un verso che Gandhi recitava nella sua preghiera quotidiana, chiedendo di potersi “immaginare la sofferenza degli altri” per poter capire il mondo, ma davvero non riesco ad essere distaccato come se questa storia non mi riguardasse. Dall'alto della mia finestra vedo un uomo camminare lento e voltarsi continuamente a guardare una giovane donna che gli arranca dietro senza una gamba. Forse è sua figlia. Anch'io ne ho una e solo ora, per la prima volta nella vita, penso che potrebbe saltare su una mina. Il freddo ora screpola la pelle e vedo gruppi di bambini mendicanti che accendono dei falò con sacchetti e pezzi di plastica trovati nei cumuli di spazzatura. Ho un nipote di quell'età e mi immagino lui a respirare quell'aria puzzolente e cancerogena pur di scaldarsi. Dopo giorni di ricerca sono finalmente riuscito a rintracciare l'anziano signore per il quale avevo una lettera di presentazione: l'ex curatore del museo di Kabul. L'ho trovato al bazar di Karte Ariana dove ora, per campare la famiglia, vende patate. Avrebbe potuto succedere a me, potrebbe ancora succedere a ognuno di noi: a causa di una guerra.
  Mi hanno raccontato che, durante il periodo più duro della guerra, fra il 1992 e il 1996, quando quelle stesse fazioni dell'Alleanza del Nord che ora governano Kabul, ma che allora avevano fatto di questa città il loro campo di battaglia e il loro mattatoio, i grandi container di ferro, Pag. 17arrivati via mare e poi via Pakistan pieni delle armi e munizioni americane per la jihad contro l'Unione Sovietica, venivano usati dai gruppi di mujaheddin come prigioni per i loro nemici e che a volte, per rappresaglia, i prigionieri ci venivano dimenticati dentro, a volte ci venivano arrostiti appiccando il fuoco a delle taniche di benzina messe attorno. Non so se sia vero, ma non riesco più a guardare uno di questi container, senza ripensare a quella storia. Ogni oggetto, ogni muro, ogni faccia qui sono segnati, mi pare, da questa orribile violenza che è stata ed è ancora, ora, in questo momento, mentre scrivo – e mentre io leggo – la guerra. Neppure l'alba, dopo una notte di dormiveglia col rombo intermittente dei B-52 che passano alti, è rincuorante a Kabul. Il sole sembra un incendio dietro il paravento delle montagne che rimangono a lungo come ritagli di carta scura contro l'orizzonte. Capita che mentre la città è ancora tutta nell'ombra, un solitario B-52 si illumini improvvisamente nei primi raggi dorati e diventi come un misterioso e inquietante uccello da preda e intanto scriva con le sue quattro code di fuoco strani messaggi di morte nel cielo nero e turchese.
  I B-52 non sono qui soltanto per bombardare i rifugi degli uomini di Bin Laden o i convogli sospetti in cui potrebbe nascondersi il Mullah Omar. Sono qui per ricordare a tutti chi sono i nuovi poliziotti, i nuovi giudici, i nuovi padroni-burattinai di questo Paese. L'alzabandiera americano messo in scena lunedì scorso, giorno della grande festa musulmana di Id, alla fine del Ramadan, era fatto esattamente per dire questo, con la banda dei marines che intonava il “Dio salvi l'America”, i discorsi di circostanza, il picchetto d'onore ed il lento, lentissimo issare del vessillo a stelle e strisce sul pennone del giardino. Varie rappresentanze hanno riaperto a Kabul i loro battenti; diplomatici iraniani, turchi, francesi, cinesi, inglesi ed italiani hanno rispolverato le scrivanie e tirato su le loro bandiere, ma nessuno ha fatto di questa routine un tale evento. Gli americani hanno una loro sorta di ossessione con la bandiera. Quella che hanno rimesso sull'ambasciata di Kabul è la stessa che avevano ammainato nel 1989. Ma non era la prima che gli Stati Uniti ripiantavano sul suolo afghano. Quella l'anno issata i marines nella loro base alla periferia di Kandahar agli inizi della campagna militare. La base è stata battezzata “Campo giustizia”, e la bandiera, tanto perché sia chiaro che “giustizia” in questo caso vuol dire soprattutto “vendetta”, porta le firme dei familiari delle vittime delle Torri Gemelle. Gli afghani non hanno alcuna difficoltà a capire questo tipo di cose. Nel 1842 il grande Bazar dei Quattro Portici, con i suoi famosi disegni murali e le sue decorazioni floreali, venne raso al suolo e saccheggiato dalle truppe inglesi per vendicare l'uccisione di due emissari di Londra ed il successivo sterminio, da parte degli afghani, di un corpo di spedizione di 16.000 uomini e dipendenti sulla via da Kabul a Jalalabad (solo un medico sopravvisse a raccontare la storia). Nel 1880 furono di nuovo gli inglesi, dopo aver impiccato nel cortile della fortezza 29 capi afghani di una nuova rivolta indipendentista, a radere al suolo gran parte di Bala Hissar, perché – come scrisse il generale di Sua Maestà che diresse l'operazione – “indelebile resti il ricordo di come sappiamo vendicare i nostri uomini”. Con questo tipo di “ricordi”, a cui fanno riferimento tanti monumenti e nomi di strade e quartieri nella Kabul di oggi, sarebbe certo stato più corretto, da parte di quella misteriosa entità che si definisce “comunità internazionale” e che in verità sembra sempre di più un club ad uso e consumo degli Stati Uniti, affidare il comando della forza di pace ad un Paese che non fosse, come l'Inghilterra, identificato qui col colonialismo, l'aggressione e un record di nessun vanto: il primo bombardamento aereo della storia in cui le vittime furono dei civili fu il bombardamento di Kabul da parte dell'aviazione inglese nel 1919».
  Essendo concluso il tempo invito tutti a leggerlo quando avranno tempo (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

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  PRESIDENTE. La ringrazio, anche per la sintesi. A questo punto si sono conclusi gli interventi svolti ai sensi dell'articolo 44, comma 2, del Regolamento.

(Repliche dei relatori e del Governo – A.C. 1670-A)

  PRESIDENTE. Prendo atto che il relatore di minoranza, onorevole Gianluca Pini, il relatore per la maggioranza per la III Commissione, onorevole Manciulli, e il relatore per la maggioranza per la IV Commissione, onorevole Rossi, non si avvalgono della facoltà di replica.
  Ha facoltà di replicare il rappresentante del Governo.

  LAPO PISTELLI, Viceministro degli affari esteri. Signor Presidente, colleghi, questa è la prima volta nella XVII legislatura che questa Camera dei deputati affronta il «decreto missioni». Chi, non in virtù del ruolo che pro tempore ricopre, come capita a me adesso al Ministero degli affari esteri, ma in virtù di un'anzianità parlamentare maggiore, ha vissuto questa esperienza, sa in quanti formati e con quante modalità diverse, a partire dai primi degli anni Duemila, abbiamo ripetuto questo tipo di discussione.
  Molti di noi l'hanno vissuta dalla prospettiva di maggioranza, altri l'anno vissuta dalla prospettiva di opposizione in altri momenti. Ci troviamo oggi ad affrontare alcuni di questi temi con colleghi con i quali abbiamo condiviso sia l'esperienza di maggioranza che di opposizione; è la prima volta che l'affrontiamo con questa modalità anomala di coalizione.
  Ma questo è un Parlamento molto rinnovato. È molto rinnovato per l'effetto del turnover delle ultime elezioni ed è molto rinnovato anche in virtù dell'età media che è molto scesa. Per questo consentitemi di utilizzare un momento che sarebbe altrimenti rituale, cioè la replica del Governo alla fine della discussione sulle linee generali, per vedere se mi riesce di fornire un po’ a tutti noi degli elementi di una grammatica comune, perché questa è la prima volta che affrontiamo questo dibattito, ma non sarà l'ultima. Anzi, lo affrontiamo a partire da una scadenza anomala.
  C’è un decreto-legge che ha il compito di chiudere l'ultimo trimestre del 2013, quando, da qui a poche settimane, il Governo si ripresenterà in Aula per discutere analogo decreto, ma orientato a coprire almeno i primi nove mesi del prossimo anno. Lo ripeto, si tratta di una grammatica comune. Da qui, lo sforzo, che cercherò di fare nei prossimi minuti, di rimettere insieme alcuni fili, dopo avere ascoltato gli interventi del dibattito di ieri pomeriggio e avere letto alcuni degli interventi, a cui non ho assistito personalmente, che si sono svolti vuoi in Commissione vuoi in Aula nelle sessioni precedenti.
  Partirei da questa considerazione. Noi abusiamo spesso, nel dibattito giornalistico e anche un po’ nel nostro dibattito politico, del termine «bipartisan». Talvolta è un merito, talvolta è un rimprovero, però questo aggettivo fiorisce molte volte nel nostro vocabolario politico. Se c’è un tema nel quale storicamente, e non in virtù di maggioranze anomale, nei Parlamenti occidentali si tende e si cerca di avere un approccio bipartisan, questa è la politica estera.
  Lo si fa per tre ragioni diverse, che indicherò molto rapidamente: perché vi deve essere, in un Paese maturo, la capacità di convergere su quello che è l'interesse nazionale, al di là del ruolo che si può coprire pro tempore in maggioranza e in opposizione; perché in tutte le democrazie mature, quando una maggioranza affronta un'emergenza non prevista, si fa sempre e comunque carico di coinvolgere e avere un rapporto con l'opposizione; e, da ultimo, perché la politica estera, a differenza di altre politiche domestiche, ha bisogno di mostrare nella comunità internazionale un grado di attendibilità e di credibilità.
  Per cui capita, più sovente che in altre politiche, che, anche quando si è davanti a un cambio di maggioranza, la nuova maggioranza debba farsi carico di garantire, in termini di continuità, alcuni degli Pag. 19impegni assunti nelle precedenti gestioni, nelle precedenti legislature. Questa è la ragione per cui la politica estera è per definizione, tra le molte politiche, uno dei campi in cui si tende ad avere un approccio – lo ripeto – bipartisan, convergente.
  In questo Parlamento – sembrerà che parta da lontano, ma non la prendo molto da lontano – noi abbiamo avuto due momenti di grande frattura. Lo voglio dire perché ci siamo trovati, con colleghi che avevano questa lunga esperienza parlamentare, a vivere da parti separate questi momenti. È stato il caso, alla fine degli anni Novanta, degli interventi italiani nei Balcani, interventi che furono fatti sul filo del rapporto tra NATO e Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, producendo un grande strappo, all'epoca, nel centrosinistra e nella sinistra italiana. Vi è stato poi un secondo grande strappo, a proposito della partecipazione italiana in Iraq, l'unico intervento degli ultimi quindici anni che si è svolto al di fuori di un tipico mandato di legalità internazionale, sotto la guida delle Nazioni Unite, che quindi ha prodotto un grave strappo nel Paese e una violenta contrapposizione parlamentare.
  Nella stragrande maggioranza degli altri casi, questo Parlamento ha avuto un approccio convergente, sia che si fosse in maggioranza sia che si fosse in opposizione. Devo dire che anche questo decreto-legge cosiddetto missioni, che oggi esaminiamo, rappresenta l'album che raccoglie l'insieme di molti di questi impegni convergenti. È un album – lo voglio dire con riferimento ad alcuni interventi che ho ascoltato dei colleghi di SEL – che in realtà tiene profondamente conto del tempo di crisi che stiamo vivendo, se è vero, come è vero, che soltanto negli ultimi quattro anni il numero dei nostri effettivi impegnati all'estero nelle missioni si è sostanzialmente dimezzato. Avevamo toccato quasi una soglia di circa 10 mila effettivi impiegati all'estero, siamo oggi a poco più della metà. Quindi, la crisi ha pesato non soltanto sulle politiche sociali e di welfare, che vengono spesso richiamate, ma ha pesato anche sulla capacità di proiezione internazionale del nostro Paese.
  Detto questo, resta vero – ma io tenderei a rivendicarlo non ad onore di questo Governo, ma di questo Paese – il fatto che l'Italia resta tra gli attori internazionali più esposti nel ruolo di contributori in denaro e in uomini a missioni di polizia internazionale. Lo facciamo – e vorrei che lo rivendicassimo tutti assieme – perché, tra i capisaldi della politica estera italiana, vi è anche quello di credere profondamente nel multilateralismo, dunque nella nostra capacità di partecipare a consessi non soltanto nazionali, e se uno vuole oggi stare in quei consessi – non è un fatto di prestigio, non è un fatto di orgoglio, non è un fatto di nazionalismo – lo fa diventando non soltanto un security consumer, come siamo stati per molti anni, ma un security provider, ossia come un Paese che esercita le proprie responsabilità non aspettando soltanto che qualcun altro le eserciti al suo posto.
  Anche questo modo di partecipare alla comunità internazionale delle missioni – lo dico «per i più giovani», ma è un fatto naturale – non è un modo che è sempre esistito nella storia delle relazioni internazionali; questo è uno dei frutti più tipici, nell'ultimo ventennio, della fine dell'equivoco della Guerra Fredda. Insomma, ci sono poche missioni UE perché non c’è la competenza, poche missioni NATO, mai stati a quel livello, poche missioni Nazioni Unite, prima del 1989.
  Prima del 1989 il mondo era diverso, e non ve lo devo spiegare. Questo tipo di missioni ha cominciato a crescere nell'ultimo ventennio ed è diventato una modalità con la quale non soltanto noi, ma molti altri player europei – non soltanto europei, anche asiatici ed africani – vivono la nuova comunità internazionale, che è tutt'altro – lo voglio dire – che un posto tranquillo, che è tutt'altro che un posto esente da contraddizioni, che è tutt'altro che un posto che quando interviene magari con ottime legittimazioni e con ottime aspirazioni poi produce sul campo i risultati che si era prefisso. Questo non è il migliore dei mondi possibili, e quindi la comunità internazionale non è quel posto paradisiaco che molti di noi vorrebbero, Pag. 20non soltanto a vent'anni, ma anche a cinquanta o a settant'anni, non è un tema di idealismo giovanile. Ma questo è il mondo con cui dobbiamo fare i conti.
  Allora, questa modalità di stare dentro la comunità internazionale è cresciuta dopo la Guerra Fredda, è cresciuta con una stagione dove molti di voi erano sicuramente lontani da responsabilità politiche, quando alcuni Paesi europei, a partire dagli Stati Uniti, hanno introdotto la categoria dell'interventismo democratico, del non stare fermi davanti a crisi che si consumavano.
  Gli anni Novanta ci hanno regalato due shock violenti nella cultura internazionale: il genocidio in Ruanda, lontano da noi, e il genocidio a Srebrenica, e questa è stata una sveglia per l'intera comunità internazionale che si è via via adoperata per costruire contesti e formati per dare il proprio contributo alle crisi.
  Si deve alla disgrazia, alla violenta cesura di Srebrenica, se anche l'Unione europea ha cominciato a discutere sull'opportunità di non essere soltanto una grande area commerciale, ma essere anche un soggetto politico che si faceva carico della sicurezza intorno a sé, abbastanza adulta e matura – due generazioni dopo la Seconda Guerra Mondiale – per assumersi delle responsabilità. Questo è il luogo.
  Allora anche per l'Italia le missioni internazionali sono state il modo con cui, come gli altri e insieme agli altri, ci siamo fatti carico di questo disordine globale. Piacerebbe a tutti che il mondo fosse diverso, ma questo è il mondo in cui viviamo. In alcuni casi abbiamo partecipato a missioni che si svolgevano vicino a casa nostra; la politica estera si fa anche con una carta geografica in mano e ciascuno di noi ha delle responsabilità a partire dalle aree regionali più vicine. In altri casi abbiamo ricambiato impegni chiesti da alleati dopo che gli alleati si erano fatti carico di ascoltare delle nostre richieste – nelle amicizie si fa pure così –, alcune altre volte abbiamo dato un contributo, soprattutto quando la crisi non mordeva in modo così grave, in aree molto lontane da noi, anche a 10-12 mila chilometri di distanza, dove non c'erano né italiani a rischio, né materie prime, né interessi geopolitici, ma per dare una dimostrazione assieme alla comunità internazionale che eravamo pronti a farci carico delle nostre responsabilità.
  Devo anche dire che in alcuni casi quelle missioni sono state relativamente facili e si sono concluse. Le potevate trovare nei decreti missioni di cinque, sei o dieci anni fa, non le trovate più, la comunità è stata capace di uscire. In altre circostanze trovate – ci sono degli esempi in questo decreto – delle missioni – fatemi dire – manutentive dove, finita la parte più hard, resta un ruolo di monitoraggio, di presidio delle frontiere, di zone di forze cuscinetto. Ci sono anche altre crisi dove la comunità internazionale – non solo l'Italia, colleghi, non solo l'Italia – si cimenta con aree a fragilità strutturale.
  Io ascolto volentieri le letture sulla storia dell'Afghanistan degli ultimi cento anni e ne potremmo moltiplicare molte altre per molte altre parti del mondo, ma se ci sono aree strutturalmente fragili è evidente che nessuno di noi, da solo o in compagnia, possiede né retoricamente né concretamente quella bacchetta magica che ci permette di entrare, risolvere e uscire.
  Dunque, una delle domande che tutti noi ci facciamo è come, garantito un buon intervento in fase di crisi, la comunità internazionale è in grado di uscire dal post-crisi in tempi che non diventino biblici.
  Ecco, tutto questo – e vengo alla seconda parte del ragionamento – l'abbiamo sempre fatto, ci tengo a dirlo anche per la parte politica cui appartengo, nel pieno rispetto dell'articolo 11 della Costituzione, che è fatto di una prima parte e di una seconda parte, è fatto di uno strumento che dice che si ripudia la guerra, ma è fatto anche di una capacità di limitare reciprocamente le sovranità, partecipando a esercizi multilaterali superiori.
  Se la retorica – una retorica fatemi dire un po’ stantia – ci spinge oggi a dire che ogni intervento che preveda l'uso di Forze armate è, in re ipsa, una violazione Pag. 21dell'articolo 11, io vi invito a leggere quell'articolo 11 e il dibattito che lo generò in modo un po’ più adulto e in modo un po’ più maturo. Abbiamo sempre avuto, negli ultimi quindici anni, ottimi Presidenti della Repubblica che si sono premurati, anche tramite il Consiglio supremo di difesa, di fare in modo che i nostri interventi fossero sempre entro le linee di quell'articolo 11.
  Per queste ragioni, colleghi, fatemelo dire con schiettezza, come con schiettezza ho ascoltato gli interventi anche aspri dell'opposizione, io ho trovato in molti degli interventi di ieri un uso massiccio, francamente ingeneroso e anche immotivato di aggettivi molto forti: follie, pazzie, robe inaccettabili e robe ignobili. Fatemi dire che questo schema del «noi e voi» e del «noi e loro» non aiuta a fare una buona politica internazionale. Questo modello che, ahimè, non è figlio di nessuno, se non di una cultura che, negli ultimi dieci anni, fa giocare sempre nella politica il ruolo della contrapposizione – ed è molto praticato nei talk show televisivi, e, secondo me, meno adatto nelle Aule parlamentari – presupporrebbe sempre un mondo in cui c’è un «noi», che siamo portatori di idealismo, di giustizia e di pace e un «voi» e un «loro», dove alligna superficialità, malafede, agende nascoste e cattivi interessi.
  La comunità internazionale non è così; noi ci siamo fatti carico della nostra quota parte di disordine globale con le risorse di cui disponevamo e sempre in accordo a strumenti di legittimazione e di policy che ci mettessero nelle migliori condizioni di svolgere il nostro compito.
  Quindi, lo dico in questo caso ai colleghi del MoVimento 5 Stelle: non si tratta di confrontarsi tra giovani idealisti che vogliono cambiare il mondo e anziani iperrealisti e cinici che l'accettano per come è, si tratta semplicemente di sapere che si interviene in aree complesse e fragili, dove si interviene assieme ad altri con gli strumenti che si hanno e tenendo conto di fattori strutturali storici – come leggeva l'onorevole Marta Grande – che spesso risalgono, non certo a questo Governo e neanche al precedente, ma a periodi storici che si valutano sull'arco dei decenni.
  Cosa trovate in questo decreto, molto rapidamente ? Voi trovate piccolissime missioni di osservazione – e lo dico prevenendo alcuni emendamenti che sono stati respinti in sede di discussione preliminare – che prevedono la presenza di pochissime unità di ufficiali e spesso in missioni di lungo periodo. Guardate, questi sono i retaggi storici più antichi – parlo di Cipro, parlo del valico di Rafah, parlo di alcune aree dove c’è una presenza storica di italiani – e fatemi dire che tagliare quelle presenze non serve a niente perché non si risparmiano cifre, ma soprattutto permettetemi di dire che questo modo di alternare ufficiali in contesti multinazionali è stato uno dei modi indiretti per cui negli ultimi quindici anni anche le nostre Forze armate sono state in grado di «sprovincializzarsi», di «europeizzarsi», di imparare a lavorare insieme ad altri contingenti nel meccanismo di rotazione degli ufficiali. E questo tipo di lavoro ci ha permesso peraltro negli ultimi anni di mettere al vertice di molte organizzazioni e di catene di comando militari internazionali degli italiani. Questo è stato possibile soltanto grazie ad un processo di lunga lena, che ha trasformato anche la professionalità delle Forze armate presenti in queste piccole unità di missioni internazionali dai primi anni Novanta ad oggi.
  Ci trovate l'eredità dei Balcani e ci tengo a farvi notare che, in questa eredità dei Balcani, missioni che dieci anni fa avevano un prevalente contenuto militare oggi si svolgono quasi tutte, anzi tutte, sotto il cappello dell'Unione europea, e sono diventate missioni di formazione, di polizia e di capacity building e, dunque, l'Unione europea ha sviluppato, negli ultimi dieci anni, una propria capacità di entrare in aree non di hard conflict e di riuscire, in qualche modo, ad aiutare nei processi di post crisi.
  Ci trovate in Libano, che molti di noi – me compreso – considerano quasi il modello perfetto di missione internazionale: comando sotto le Nazioni Unite, classico Pag. 22caso di peace enforcing, assenza di conflitto e assenza di vittime da quando siamo lì, capacità di tenere in pace e in rapporti con aree molto complicate un'area di crisi che, senza di noi, avrebbe sicuramente girato al peggio.
  E ci trovate, ovviamente, in Afghanistan, che è uno di quei teatri nei quali – lo diciamo ma da tanti anni quindi e questo è soltanto l'inizio di un dibattito – essendo un conflitto che ormai dura un tempo doppio di quello dell'intera seconda guerra mondiale, ha visto cambiare le condizioni sul campo, le aspettative di missione e il modo con cui noi siamo presenti in quello scenario al variare del tempo.
  Ecco, di tutte queste cose, però, lo voglio dire all'Aula, la policy, chiamiamola così, che sta dietro a questa presenza, gli orientamenti che spiegano come mai noi decidiamo di rimanere in questi teatri e quali sono le prospettive è figlio dei dibattiti e delle audizioni che facciamo con il Ministro degli affari esteri e con il Ministro della difesa, in audizioni congiunte nelle rispettive Commissioni. Dunque, quando alcuni colleghi in dibattito lamentano l'assenza di informazioni, io voglio semplicemente richiamare loro al fatto che il «decreto missioni» è un documento che indica personale e cifre. La policy che sta dietro non può fare parte del «decreto missioni», ma fa parte del lavoro politico che, in audizione assieme ai due Ministri competenti, questo Parlamento svolge e, dunque, la riconnessione fra gli stanziamenti di risorse, la dottrina strategica che vi sta dietro e la motivazione politica va fatta raccordandosi con il lavoro che quotidianamente facciamo nelle Commissioni affari esteri e difesa. Nonostante questo, noi siamo ancora il primo contributore alle missioni di peace-keeping sotto il cappello delle Nazioni Unite e non credo che siamo più il terzo contributore a livello globale ma siamo ancora fra i primi.
  Fatemi dire una parola, prima di concludere, sulla cooperazione e, poi, una considerazione sola sul prosieguo di questo dibattito. Sulla cooperazione, io sono contento delle cose che ho ascoltato. È vero: noi riprendiamo la cooperazione da un ruolo di fanalino di coda. Sappiamo tutti le ragioni: dal 2008 al 2013 la cooperazione gestita dal MAE è stata tagliata da un miliardo e 350 milioni fino a 150 milioni. È stato dato un importante segnale l'anno scorso. Mi permetto di dire che c’è un altrettanto importante segnale quest'anno, perché nella Legge di stabilità quegli stanziamenti vengono confermati e lievemente aumentati e io sono il primo a rallegrarmi se questo Parlamento, in modo bipartisan, vorrà fare l'ultimo miglio che ci permette al Senato di raggiungere il più 10 per cento che abbiamo concordato in sede OCSE-DAC.
  Ma, fatemi dire una cosa, soprattutto per quelli più giovani o entrati recentemente in Parlamento. Quando immaginammo di affiancare al decreto missioni una componente di cooperazione civile, forse non eravamo consapevoli, al tempo, fino in fondo di quanto questo avrebbe cambiato il nostro modo di essere dentro le missioni internazionali. Al tempo – lo dico con molta franchezza – sembrava un modo con il quale per fare accettare un impegno maggiore delle nostre Forze armate noi, come dire, ci sentivamo in dovere di affiancare una componente civile.
  Ecco, a distanza di 14 anni quella è diventata un'impronta digitale che l'intero mondo riconosce al modo italiano di stare dentro le missioni internazionali e anche la capacità della cooperazione civile di lavorare assieme a quella militare, nelle cosiddette cellule CIMIC, è un modello che ci viene completamente riconosciuto da ogni alleato, europeo e non europeo, al punto tale che passando il tempo si viene a chiedere sempre più spesso agli italiani, nei momenti in cui la parte più hard di una presenza internazionale finisce, di rimanere in funzione di addestramento e di capacity building delle istituzioni e di capacità di affiancamento delle comunità civili, a riconoscimento di un modello che funziona.
  Allora, fatemi dire ancora, per andare a concludere, che io penso che noi saremmo, Pag. 23anche nel prosieguo di questo dibattito, tutti più, diciamo, sulla palla e più coerenti con il tema di questo decreto. Poi, ciascuno è libero di assumere il posizionamento che ha, ciascuno di noi ha una constituency di riferimento, ciascuno di noi ha elettori a cui parla, però il mio, come dire, sereno e modesto consiglio è di cercare di fare in modo che l'Italia riesca, in questa fase difficile, a superare uno dei suoi vizi storici, che è quello di utilizzare la politica estera come luogo di contrapposizione per ragioni domestiche. Questa è una di quelle poche cose che in Francia, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e nelle grandi potenze europee non succede. Non succede neanche quando ci sono cambi radicali di Governo e cambi radicali di posizione politica. E lo dico perché questo modo di alzare il tono ci fa oscillare, in una sindrome che io trovo anche sbagliata nella percezione che noi abbiamo di noi stessi.
  Nel dibattito che ho ascoltato con molto interesse e con molto rispetto, io sento talvolta colleghi che ci definiscono come una sorta di giganti delle nostre aspirazioni. Dovremmo essere quelli che vanno e risolvono, noi dovremmo essere quelli che sono capaci di portare la pace in luoghi dove in centocinquanta anni non c’è riuscito nessuno. Siamo un po’ i giganti dei nostri sogni e in altri momenti siamo dei predicatori della cattiva retorica del declino: noi Calimero, noi che siamo gli ultimi della fila, noi che non riusciamo mai a fare niente. Guardate sono due sindromi che si tengono assieme e io considero entrambe sbagliate. L'Italia è una media potenza, ottimo contributore di sicurezza, professionalmente riconosciuto grazie alle trasformazioni fatte nelle Forze armate, apprezzato per il modo in cui sta dentro le missioni. Se noi riusciamo ad essere coerenti con quel passo, noi svolgiamo al meglio il nostro ruolo. Se oscilliamo pericolosamente, innanzitutto per noi stessi, fra il sentirsi il gigante dei nostri sogni e il nano delle nostre paure, noi in realtà facciamo delle scelte sbagliate, delle scelte cattive, delle scelte che non riusciamo neanche a rivendicare nelle sedi internazionali. Allora, il Governo è pronto a discutere di una cosa che è emersa nel Comitato dei nove e dei diciotto e anche nelle riunioni informali, cioè – se questo Parlamento avrà una vita più lunga di quella che molti gli pronosticano – di mettere finalmente in cantiere la legge quadro. La chiediamo da anni e siamo pronti a fare questa parte. Il Governo è pronto a discutere i due punti che stanno a cuore a entrambi i principali gruppi di opposizione, cioè come rimodulare il rientro dall'Afghanistan secondo un calendario che non è mai stato né nascosto né oggetto di seconde agende e che ci vede già da quest'anno ridurre una presenza. Il Governo è attento a permettere, a partire dal prossimo decreto, che i gruppi politici si possano esprimere in modo differenziato sulle singole missioni, cercando di modulare un testo che ci permetta di mettere in capo a ogni singolo articolo ogni singola missione. Tutto questo lo possiamo fare. Ciò che invece diventa posizionamento esterno per mostrare uno scalpo alla propria costituency – fatemi dire con molta franchezza – è una linea che il Governo non è disposto a superare, perché non è sulla politica estera che vanno cercate queste rivendicazioni. Noi in questo momento viviamo una stagione difficile, nessuno di noi si immaginava due anni fa che la faglia mediterranea e le transizioni arabe sarebbero state così complesse. Nessuno di noi si immaginava, o meglio speravamo che non fosse così, che le transizioni arabe nella fascia del Maghreb avrebbero destabilizzato a loro volta la fascia sahariana e subsahariana. Nessuno di noi si immaginava che potessimo arrivare, come in questi ultimi mesi del 2013 e i primi del 2014, a discutere in contemporanea tre dossier delicatissimi, come il processo di pace israelo-palestinese, la riapertura di una stagione di rapporti con l'Iran sul negoziato nucleare e il tentativo di convocare una conferenza di pace per la Siria. Sono tre esercizi complicati che possono riuscire tutti assieme e cambiare la mappa del Medio Oriente in modo positivo. Sono tre esercizi che possono anche fallire clamorosamente e riconsegnarci Pag. 24ad un'ennesima stagione di instabilità. Voi sapete che questo Governo è impegnato per una soluzione politica, diplomatica e pacifica in Siria e non per una soluzione militare. Sapete che in una posizione di equivicinanza stiamo aiutando il processo di pace israelo-palestinese. Sapete che stiamo facendo la nostra parte per Paesi a cui siamo più legati, e penso alla Libia, alla Somalia e ai luoghi dove siamo rientrati pur nell'arco di questi pochi mesi di vita. Non ci si può chiedere di fare ciò che è impossibile fare, ma la nostra parte la stiamo facendo completamente. Se siamo sulla stessa pagina, il Governo e la maggioranza sono lieti di avviare, a partire da questa XVII legislatura, un modo diverso di dialogare sulla politica estera. Se la politica estera smette di essere il luogo delle contrapposizioni strumentali, domestiche ma giocate in salsa internazionale, siamo pronti. Evidentemente, se così non fosse, Governo e maggioranza sono anche pronti a difendere in modo compatto l'impianto di un decreto che non contiene niente di sbagliato, nella speranza però e nell'auspicio che si possa invece chiudere rapidamente questo decreto-legge, che è dedicato ad un solo trimestre, per aprire fra un mese una discussione un po’ più ampia sui nostri impegni del 2014. Voglio dirvi che questo è un auspicio che esprimiamo senza doppie agende, esprimiamo con sincerità, ma richiamando, anche spero grazie a questo tipo di grammatica comune che stiamo cercando di ricostruire insieme, tutte le parti politiche ad un esercizio un po’ più serio di responsabilità (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico, Il Popolo della Libertà-Berlusconi Presidente e Scelta Civica per l'Italia).

(Esame dell'articolo unico – A.C. 1670-A)

  PRESIDENTE. Passiamo all'esame dell'articolo unico del disegno di legge di conversione (vedi l'Allegato A – A.C. 1670-A) nel testo recante le modificazioni apportate dalle Commissioni (Vedi l'allegato A – A.C. 1670-A).
  Avverto che le proposte emendative presentate si intendono riferite agli articoli del decreto-legge nel testo recante le modificazioni apportate dalle Commissioni (Vedi l'allegato A – A.C. 1670-A).
  Avverto che le Commissioni I (Affari costituzionali) e V (Bilancio) hanno espresso i prescritti pareri, che sono distribuiti in fotocopia (Vedi l'allegato A – A.C. 1670-A).
  Avverto che la Presidenza non ritiene ammissibili, ai sensi dell'articolo 86, comma 1, e 96-bis, comma 7, del Regolamento, le seguenti proposte emendative, non previamente presentate in Commissione: Piras 5.200 e Duranti 6.200, che recano una copertura finanziaria relativa alla riduzione delle spese sostenute dalle amministrazioni pubbliche per l'acquisto, la manutenzione, il noleggio e l'esercizio di autovetture, nonché per l'acquisto di buoni taxi. Si tratta di una copertura che non presenta carattere accessorio, strumentale e proporzionato rispetto all'intervento principale e che riguarda materia del tutto estranea rispetto a quella oggetto del decreto-legge in esame (si veda, al riguardo, il parere espresso dalla Giunta per il Regolamento in data 26 giugno 2013); Totaro 7.200, volto a prevedere che le compagnie di navigazione aerea assicurino agli organi di polizia giudiziaria la consultazione tempestiva dei dati individuali dei passeggeri e delle merci.
  Informo l'Assemblea che, in relazione al numero di emendamenti presentati, la Presidenza applicherà l'articolo 85-bis del Regolamento, procedendo in particolare a votazioni per principi o riassuntive, ai sensi dell'articolo 85, comma 8, ultimo periodo, ferma restando l'applicazione dell'ordinario regime delle preclusioni e delle votazioni a scalare.
  A tal fine, il gruppo Sinistra Ecologia Libertà è stato invitato a segnalare gli emendamenti da porre comunque in votazione.
  Ha chiesto di parlare sul complesso delle proposte emendative il deputato Claudio Fava. Ne ha facoltà.

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  CLAUDIO FAVA. Signor Presidente, la ringrazio e mi permetta di correggere subito il rappresentante del Governo, il Viceministro Pistelli. Non siamo noi in campagna elettorale (Applausi dei deputati dei gruppi Sinistra Ecologia Libertà e MoVimento 5 Stelle) e la nostra constituency sono gli italiani, non sono i nostri militanti.
  L'intervento del Viceministro ci rafforza nella convinzione di votare contro questo decreto-legge, non tanto e non soltanto per le sbavature di paternalismo che questo intervento contiene, ma proprio per ciò che di questo intervento abbiamo apprezzato, ma che riteniamo tragicamente lontano dalla realtà. Il Viceministro Pistelli ci ha parlato della necessità, da parte del Governo, di un approccio bipartisan, di una maggioranza che si faccia carico delle esigenze, dei suggerimenti e delle sensibilità dell'opposizione.
  Ci ha ricordato, da fratello maggiore, che è bene che in politica estera maggioranza e opposizione abbiano la generosità di trovare un punto di sintesi, che il «noi» e il «voi», quando parliamo di guerra e quando parliamo di pace, non devono esistere, ma questo Governo ha praticato una politica esattamente opposta (Applausi dei deputati dei gruppi Sinistra Ecologia Libertà e MoVimento 5 Stelle), rifiutando ogni emendamento proposto dall'opposizione, anche i più insignificanti, anche i più inoffensivi.
  Allora, Signor Presidente, mi permetta di dire che questa non è una battaglia emendativa. I nostri emendamenti, molti, numerosi, sono una critica all'impianto stesso di questo decreto-legge e l'accusa di ostruzionismo che ci viene rivolta mi sembra un'accusa mal posta. Credo che la forma più alta e insolente di ostruzionismo sia stata quella di voler presentare un decreto-legge in cui 21 missioni sono tutte compresse in un solo articolo (Applausi dei deputati del gruppo Sinistra Ecologia Libertà) e il destino di 6 mila soldati italiani è compresso in quell'unico articolo, al quale si chiede a questo Parlamento di votare «si» o «no», come in un giudizio universale.
  Mi sembra che l'accusa di ostruzionismo vada rivolta al Governo, anche per aver rifiutato tutti gli emendamenti e perché lo consideriamo un atteggiamento che non è soltanto ostile all'opposizione, ma ostile a questo Parlamento. È un vizio di fabbrica dei decreti-legge del Governo, quando il Governo si vuole sostituire al Parlamento, ma poi non ha né l'autonomia né l'autorevolezza per pagare il prezzo politico, che è una discussione nel merito di ciò che ha proposto.
  I nostri emendamenti svolgono la funzione che avrebbe dovuto assumere questo Parlamento: volevano entrare nel merito di ciascuna missione, volevano discutere queste missioni, i loro presupposti, le loro finalità, i loro obiettivi. Volevano valutare e giudicare ciò che è già accaduto nella comunità internazionale e volevano, soprattutto, proporre un ripensamento, signor Presidente, un ripensamento più complessivo sullo strumento delle missioni, anche con l'onestà di ammettere che molte di queste missioni sono figlie dell'11 settembre, cioè sono figlie di una data che segna uno spartiacque, come ricordava la collega Grande, leggendoci Terzani.
  Terzani ricorda che c’è un prima e un dopo rispetto a quella data, e noi ci chiediamo, e chiediamo al Governo, quanto a lungo questo «dopo» continuerà, quanto a lungo saremo figli dell'emergenza, quanto a lungo, in nome di questa bandiera dell'emergenza issata sui nostri pennoni, dovremo continuare a praticare politiche che si sono rivelate, alla prova dei fatti, anche fallimentari (Applausi dei deputati del gruppo Sinistra Ecologia Libertà). E penso non solo al caso dell'Afghanistan, ma penso al caso della missione Active Endeavour: dodici anni di pattugliamento nel Mediterraneo, 230 milioni di costo per l'Italia, navi di 62 Paesi diversi. Il 60 per cento del Mediterraneo, ci spiegano gli amici della NATO, è sotto il controllo di questa missione, per dare la caccia ai navigli di Al Qaeda. In questi dodici anni sono stati fermati, inutilmente, 155 mercantili, non è stato scoperto un solo militante di Al Qaeda, ma ci chiediamo come mai in questi dodici anni – il Pag. 2660 per cento del Mediterraneo controllato, centinaia di navi che lo pattugliano giorno e notte – non si siano mai accorti dei barconi di disperati che solcavano questo mare e che cercavano di andare a sopravvivere (Applausi dei deputati del gruppo Sinistra Ecologia Libertà), non solo a vivere. Ci chiediamo come mai non ci sia stata mai una richiesta, una segnalazione di intervento. Ci chiediamo, ed è un dubbio legittimo, se queste indicazioni non ci siano state perché non sono stati in condizioni di sapere e di capire ciò che accadeva o perché hanno preferito voltarsi dall'altra parte. È un dubbio legittimo ed è un dubbio sgradevole, signor Presidente, perché uno dei settori di intervento di questo progetto, uno dei settori di pattugliamento aereo si chiama «Melita W»: al centro di questo settore disegnato in un quadrante che racconta il Mar Mediterraneo c’è l'isola di Lampedusa. Possibile che per dodici anni ai radar della NATO, alle pattuglie della NATO, siano sfuggiti sempre e soltanto questi mercantili che trasportavano disperati che stavano solo cercando di sopravvivere ?
  È il caso della missione in Libia, signor Presidente. L’«autismo» dell'Italia nei confronti della Libia è un po’ il racconto anche della nostra politica recente. Abbiamo prima osannato Gheddafi, lo abbiamo omaggiato, abbiamo scodinzolato davanti a lui ritenendo che fosse il leader più autorevole di questa parte del mondo, e poi abbiamo scoperto che era uno losco dittatore, abbiamo deciso di stare accanto alla rivoluzione con i nostri militari, con i nostri poliziotti, esattamente a far cosa laggiù non lo sappiamo. Ci sono 200 mila miliziani che fanno capo a centinaia di bande in questo momento in armi, e non si sa esattamente per quale scopo e con quali intenzioni. Abbiamo deciso di rievocare e di costruire la mitologia dei diritti umani parlando della Libia. Ma dove eravamo quando in Libia si costruivano questi lager a cielo aperto dove venivano confinati migliaia di disperati, di profughi che volevano solcare il Mediterraneo ? Dove eravamo quando con i nostri decreti, con la firma dei nostri Ministri, abbiamo autorizzato l'apertura di quei luoghi che sono la negazione di ogni più elementare principio dei diritti umani ?
  È il caso dell'Afghanistan, signor Presidente. È il caso di questa missione che abbiamo continuato impropriamente a chiamare «missione di pace», ma che è stata una guerra e le guerre si misurano non per vocazione polemica o per dichiarazione di voto, ma per i bilanci che offrono alla storia. E dentro questa guerra ci sono stati 52 militari italiani uccisi, ci sono stati 75 mila civili uccisi. Le cifre di questa guerra ci raccontano un Paese che oggi dipende al 90 per cento nella propria sopravvivenza economica dagli aiuti che arrivano dall'estero. Ci racconta di istituzioni democratiche che avremmo dovuto costruire o ricostruire, che avremmo dovuto consolidare, perché lo scopo prioritario di questa missione era portare pace e democrazia, ma che alla resa dei fatti ci dicono che oggi la corruzione è talmente diffusa che un cittadino su due, se deve adire un pubblico ufficio, una pubblica amministrazione, è costretto a pagare. Ci parla di un aumento del 40 per cento della corruzione. Ci parla di un traffico di oppio che nel mondo trae origine al 90 per cento dalle produzioni afgane. Ci racconta questo bilancio ! Come facciamo, in questo decreto, a non avere l'opportunità di discutere, di ragionare su questo bilancio, sulle premesse fallite, e sul modo in cui rischia di configurarsi la prosecuzione di questa missione ?
  Avevamo un obiettivo: riportare pace e democrazia. Falliti entrambi: né pace, né democrazia. Ma l'Afghanistan ha avuto un merito – signor Presidente, mi avvio a concludere –, ci ha dimostrato che la parola «guerra» è una parola che non merita aggettivi e che molti aggettivi le abbiamo cucito addosso come abiti della festa nel corso di questi anni d'intervento: la guerra «chirurgica», la guerra «umanitaria», la guerra «mirata». Quei 75 mila civili uccisi almeno ci raccontano che ogni aggettivo che abbiamo tentato di affiancare alla guerra per addolcirne gli effetti Pag. 27è soltanto una menzogna e quella menzogna in Afghanistan ha avuto un prezzo altissimo.
  Ritenere ideologico il nostro dolore per quei morti: mi sembra piuttosto ideologica la tentazione di negare che ci sia stato quel saldo di dolore. In un'altra vita, signor Presidente, da giornalista ho conosciuto da vicino molte guerre e la cosa più drammatica di ogni guerra, la cosa che ti raccontavano i civili in Libano, in Salvador, a Mogadiscio non era la disperazione, il dolore, la morte, era l'abitudine. Perché la guerra diventa abitudine, perché questo decreto-legge, ahimè, nella scelta di non entrare nel merito degli effetti che hanno prodotto queste missioni, costruisce nuova abitudine all'idea che la guerra possa essere uno strumento che risolva i conflitti nel mondo.
  E anche la parola «pace» va usata con più parsimonia, con più rispetto, mi permetterei di dire, signor Presidente, con più stile. È lo stile che è mancato a questo Governo ed è lo stile che è mancato, in particolare, ad un Ministro di questo Governo, al Ministro della difesa Mauro, che ci ha raccontato, citando un filosofo del IV secolo, Vegezio, «si vis pace, para bellum», se vuoi la pace, costruisci la guerra. È un'espressione costruita 1600 anni fa, ripresa da Cornelio Nepote, da Cicerone, che in bocca al Ministro, durante uno spot che serve a raccontare quanto utili siano alle sorti della democrazia del nostro Paese gli F-35 Lockheed, suona davvero come una parodia. E suona come una parodia e come un'epigrafe a questo decreto-legge il modo in cui il Ministro Mauro lo ha voluto accompagnare qualche giorno fa, con un'espressione che consideriamo tra le più infelici che siano state utilizzate per spiegare cosa è avvenuto in questi anni e cosa è avvenuto in Afghanistan. Ci ha detto il Ministro: «vale la pena stare in Afghanistan anche a costo della vita».
  Questa frase, signor Presidente – che resti agli atti –, dal punto di vista del nostro gruppo è un'ingiuria. La faccia dire ai parenti di uno dei 52 militari italiani che sono morti, faccia dire a loro se davvero il prezzo della vita era utile che venisse pagato per questa missione ! Lo faccia dire a loro oppure taccia. Taccia e ricordi le parole con cui Camus, che è nato cento anni fa, il 7 novembre, ci ricordava come dovremmo affrontare il tema della pace: siate realisti, chiedete l'impossibile (Applausi dei deputati del gruppo Sinistra Ecologia Libertà).

  PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Spadoni. Ne ha facoltà.

  MARIA EDERA SPADONI. Signor Presidente, io parto da una premessa...

  PRESIDENTE. Scusi, onorevole Spadoni, io parto dal presupposto che lei per parlare ha bisogno di un clima di maggiore silenzio, soprattutto intorno a lei. Prego.

  MARIA EDERA SPADONI. Aspettiamo ? Comincio ?

  PRESIDENTE. Prego.

  MARIA EDERA SPADONI. La premessa è la seguente: questa proroga non ci piace. Non ci piace, perché ci ritroviamo, da più o meno dieci anni, a dover riavere in Parlamento una proroga e non abbiamo invece una legge-quadro sulle missioni, cosa che invece dovremmo avere. Ce la ritroviamo nell'urgenza, perché appunto la precedente proroga è scaduta il 30 settembre e, quindi, come al solito, ci ritroviamo in Parlamento una proroga che dobbiamo nell'urgenza approvare.
  Non ci piace perché ci ritroviamo un pacchetto di tante cose. Ci sono le missioni e c’è la parte della cooperazione.
  Sulla cooperazione c’è una paginetta, nelle specifiche tecniche, in cui si parla di cinque-sei Paesi. Stanziamo 24 milioni di euro, pochissimo, senza sapere in che progetti, cosa stanziamo, quanto dovrebbero durare i progetti. E poi stanziamo oltre 100 milioni di euro per la missione ISAF. Ora questa missione... Presidente, però le chiedo un po’ di silenzio, non riesco ad andare avanti.

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  PRESIDENTE. Ha ragione. Colleghi, specie nelle vicinanze dell'onorevole Spadoni, ma anche tra gli altri banchi, se riusciamo ad abbassare il tono della voce, o meglio ancora a stare in silenzio, è cosa assai gradita per tutti. Grazie.

  MARIA EDERA SPADONI. Questa missione, che cos’è ? Noi siamo partiti nel 2002 con la Enduring Freedom. Seguiamo come al solito gli Stati Uniti e dobbiamo per forza entrare in una missione che vede operare militari italiani in territorio extranazionale. E che cosa ha portato fino ad ora ? Se penso all'Afghanistan, penso che in questi dieci anni non abbiamo raggiunto nessun obiettivo. Abbiamo sì una Costituzione, ma dall'altra parte abbiamo un Governo corrotto ed estremamente fragile. Il territorio centrale dell'Afghanistan è assolutamente senza controllo. Quindi, anche che ci vogliono far credere che ci sia un controllo nel territorio afgano, noi possiamo avere un controllo soltanto della provincia di Herat. Io, quando sono stata in delegazione, proprio con il Viceministro Pistelli, la notte ad Herat c’è stato un attentato, a un chilometro e mezzo da noi, nell'ambasciata statunitense. Ecco, la mia sensazione è stata che non c’è assolutamente controllo.
  Continuiamo ad avere una strada che stiamo finanziando dal 2007, della lunghezza di 157 km, stanziata al momento per 120 milioni di euro e che ancora non riusciamo a finire e non si capisce perché. Sicurezza ? Il territorio non lo permette ? Però, intanto, noi investiamo. Investiamo in una strada che al momento è costruita per il 50 per cento. Ci ritroviamo ad investire in un aeroporto, l'aeroporto di Herat, e stranamente proprio Herat è la provincia sotto il nostro controllo. Quindi, io mi chiedo anche lì che tipo di aiuto alle popolazioni diamo nel momento in cui investiamo soltanto in infrastrutture.
  Noi chiediamo, nei nostri emendamenti, fondamentalmente due cose: la prima è la trasparenza, perché in questo decreto-legge non vediamo la trasparenza che, invece, dovrebbe esserci. Abbiamo un funzionario che dovrebbe stare al confine tra Turchia e Siria per interloquire con gli «Amici della Siria». Poi andiamo a parlare con il Governo e il Governo ci dice, invece, che il funzionario dovrebbe aiutare per dare un canale umanitario tra Turchia e Siria. Allora, io mi chiedo perché nelle specifiche viene detto che questo funzionario dovrebbe parlare con gli «Amici della Siria» che sono pro intervento a favore dei ribelli e poi, dall'altra parte, abbiamo la Ministra Bonino che ci dice che, invece, noi dobbiamo andare avanti in una soluzione diplomatica. Ecco, io vorrei capire l'Italia dove sta. Sta dalla parte degli «Amici della Siria» oppure sta dalla parte delle Nazioni Unite ? Ma io ancora non ho ricevuto una risposta a questa domanda.
  L'altro punto sui nostri emendamenti è il ritiro delle truppe dall'Afghanistan. Questo perché ? Perché abbiamo visto che in dieci anni in Afghanistan non abbiamo raggiunto nessun obiettivo, perché crediamo fermamente che la funzione dei nostri militari è quella di difendere il nostro Paese e non di andare ad esportare la democrazia, perché sappiamo perfettamente cosa è successo ogni volta che abbiamo cercato di esportare la democrazia. Non è successo nulla. Nulla è successo per far sì che la democrazia in altri Paesi potesse essere in qualche modo forzata attraverso un impegno militare.
  Noi vogliamo che i militari ritornino a casa e che svolgano la loro funzione, che sarebbe proprio la funzione difensiva, perché, sennò, cambiamo direttamente il Ministero, lo chiamiamo Ministero dell'attacco, cambiamo la nostra Commissione di difesa e la chiamiamo Commissione di attacco, che probabilmente sarebbe molto più coerente con quello che stiamo facendo (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).
  
Prima il Ministro ha parlato di contrapposizioni strumentali. Ecco, la linea dell'intervento del Ministro mi sembrava una linea che avrebbe potuto tenere senza problemi anche un La Russa o un Mauro. Questo proprio a riprova del fatto che, quando ci sono nei circoletti del Partito Democratico le belle bandiere della pace e Pag. 29tutti i loro vari discorsi sul disarmo e sulla pace, è semplicemente, appunto, una bandiera che si mettono addosso, quando invece alla fine sono esattamente la stessa cosa, sia da una parte che dall'altra: non c’è l'interesse di uscire da un territorio, come per l'Afghanistan, in cui non abbiamo ottenuto nulla se non morti civili – quello sì – e anche morti dei nostri militari. Purtroppo, anche quello è successo.
  Quindi, non crediamo neanche quando Letta ci dice che ci sarà una ritiro delle truppe. Si dice spesso che nel 2014 sicuramente le truppe ritorneranno. Questi sono slogan che vengono dati in pasto ai cittadini, perché ai cittadini non piace che, mentre qua la gente non arriva a fine mese, noi ci ritroviamo a spendere 300 milioni di euro per tre mesi di missioni. Questa cosa non piace ai cittadini (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).
  Quindi, quando si parla di ritiro, noi abbiamo fatto una richiesta che ci sembra assolutamente fattibile: noi chiediamo che, entro fine dicembre, il 10 per cento delle truppe in Afghanistan ritorni in Italia. Ora, visto che comunque nell'ultimo anno e mezzo, credo, già più di un migliaio di militari sono ritornati, non credo proprio che sia così complicato far sì che più o meno 250 militari ritornino indietro, visto che, a livello di immagine, a livello mediatico, noi ci ritroviamo comunque a dire che nel 2014 noi ritorniamo indietro.
  Però, mi chiedo: nel 2014 ci sono anche le votazioni, ci sarà un post Karzai. E, quindi, mi chiedo: come è possibile ? Magari può essere che l'Italia, a un certo punto, a marzo o aprile inizi a dire: no, ma noi le truppe non le possiamo riportare indietro, per il semplice fatto che, appunto, ci sono le votazioni. E dopo le votazioni cos'altro ci sarà ? Dopo che ci sarà un nuovo Presidente, che cosa ci ritroveremo ad avere ? A quel punto dovremo aiutare a livello di territorio ? Che cosa facciamo per la cooperazione ? In questi anni, che cosa abbiamo fatto ? Facciamo delle infrastrutture e non formiamo degli ingegneri. Mettiamo a posto o costruiamo degli aeroporti e poi delle scuole il nulla.
  Questa è una concezione della cooperazione che non funziona. Noi dobbiamo insegnare, dobbiamo aiutare alla formazione le persone che stanno là, ma non soltanto i militari, come diceva prima il Viceministro Pistelli. Noi siamo bravi nel training, è vero, ma non possiamo permetterci di formare soltanto militari. Noi, negli altri territori, dobbiamo formare ingegneri, dobbiamo formare maestre, dobbiamo far sì che la mortalità infantile sia più bassa, dobbiamo aiutare l’empowerment delle donne.
  Questo dobbiamo fare: dobbiamo andare avanti con una cultura della cooperazione che al momento, però, non vediamo. E, allora, ci stiamo prendendo in giro, perché, fondamentalmente, noi investiamo così poco in cooperazione. Lo ripeto, non si conoscono i progetti: l'ultima relazione sulla cooperazione risale al 2011, quindi, noi non sappiamo che tipo di progetti vengono fatti, dove vengono fatti e quando. Il Governo non riesce a darci delle informazioni su questo.
  Allora, io mi chiedo: in che cosa stiamo investendo nella cooperazione ? Io sono stata in Afghanistan con la delegazione e ho visto personalmente sei donne, che dicevano: sì, abbiamo fatto una formazione, abbiamo avuto una formazione. Questo è stato. Ma che cos'altro facciamo ? Che cos'altro facciamo negli altri Paesi ? Dove vanno questi soldi ? Io voglio saperlo, perché io del Governo non mi fido, non mi fido (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle) !
  Quindi, ritornando al discorso degli emendamenti, noi vorremmo più trasparenza, vorremmo che si sapessero i costi del personale che va all'estero, perché io non voglio trovarmi nella situazione di non avere un'idea di quante persone abbiamo all'estero e quanto vengono pagate, tra auto blindate, forfait o viaggi. Si sono trovati nelle schede specifiche dei viaggi Roma-Ankara di 1.800 euro. Con 1.800 Pag. 30euro si arriva a New York senza problemi. Perché ci sono dei costi così alti ? E questo solo per un funzionario.
  Il Parlamento non ha idea di quanti funzionari ci siano all'estero, non c’è un'idea. Abbiamo provato a controllare, a vedere che personale c'era, anche nel rispetto della privacy: non vogliamo che degli esperti, che vanno anche in zone di rischio, poi, si ritrovino, in un certo modo, a rischio perché vengono pubblicati determinati dati. Però, noi vogliamo sapere quanto prendono e vogliamo almeno sapere che tipo di formazione hanno. Questa cosa la dobbiamo sapere, perché queste persone vanno con i nostri soldi.

  PRESIDENTE. La invito a concludere.

  MARIA EDERA SPADONI. E questa non chiarezza rende ancora più problematico il nostro lavoro, perché io ricordo che noi siamo qua, dovremmo essere qua, sia maggioranza che opposizione, per rappresentare il cittadino. Allora, se io penso a me come cittadina, perché io sono una cittadina, mi sento una cittadina, se io credo a me come cittadina, io vorrei sapere, vorrei avere informazioni. E, in questi mesi, quello che non si è trovato è stato proprio questo: avere l'accesso alle informazioni.
  Chiaramente, noi siamo assolutamente contrari o, comunque, non ci piace questo mix, questo pacchetto, che include missioni e cooperazione, in cui non ci sono informazioni. Cerchiamo di migliorarlo con i nostri emendamenti: faremo una lotta spietata sugli emendamenti, sopratutto su un emendamento, perché vogliamo che questo emendamento venga approvato e che ci sia anche più trasparenza all'interno di questa proroga (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

  PRESIDENTE. Visto il numero degli iscritti sul complesso delle proposte emendative e a seguito delle intese intercorse tra i gruppi parlamentari, comunico all'Assemblea che oggi procederemo con la prosecuzione degli interventi sino al loro esaurimento e, di conseguenza, l'inizio delle votazioni sul disegno di legge di conversione del decreto-legge in esame avrà luogo la prossima settimana, secondo quanto stabilito dalla Conferenza dei presidenti di gruppo.
  Ha chiesto di parlare l'onorevole Buttiglione. Ne ha facoltà. Se i colleghi abbandonano l'Aula, sono invitati a farlo con il maggiore silenzio possibile, per non disturbare l'oratore. Ha chiesto di parlare il presidente Buttiglione. Ne ha facoltà.

  ROCCO BUTTIGLIONE. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, io ho ascoltato con grande attenzione, ma non sempre con piena condivisione, il dibattito che si è svolto fino ad ora in quest'Aula.
  Alcune obiezioni delle opposizioni sembrano, anche a noi, fondate, ragionevoli. Noi abbiamo ancora una prassi dell'emergenza in Parlamento nell'affronto di questi problemi; discutere le missioni tutte insieme e non dentro una cornice generale di politica estera e della difesa – quindi dentro un dibattito molto più ampio, in cui si possa esaminare anche l'attualità di ciascuna delle missioni e la proporzionalità dell'impegno in ognuna delle aree nelle quali siamo presenti – mi sembra un difetto ed un errore, anche perché collude con una certa tendenza a non affrontare i problemi reali, trascinando la discussione nell'ambito più della retorica che dell'esame concreto di ciò che il Paese deve fare. Voglio fare una seconda premessa di carattere e di metodo...

  PRESIDENTE. Mi scusi, onorevole Buttiglione, ma anche la Presidenza intende fare una premessa ai colleghi che stanno in questo momento parlando nell'emiciclo: se liberiamo l'emiciclo e se permettiamo all'onorevole Buttiglione di intervenire, l'andamento dei nostri lavori sarà certamente più agevole.

  ROCCO BUTTIGLIONE. La ringrazio, signor Presidente, gentile come sempre. La seconda premessa riguarda la questione che è stata sollevata del pacifismo. C’è Pag. 31stato un appello ai cattolici; io non mi proclamo mai cattolico nei miei discorsi politici e quindi non parlerò da cattolico, ma mi sembra, da studioso di filosofia e anche di scienza della politica, che i cattolici non sono pacifisti, i cattolici sono pacifici. Pacifico e pacifista non sono la stessa cosa e voglio spiegarlo facendo riferimento a Gandhi. Gandhi dice che bisogna opporsi al male, senza usare la forza se sei capace di opporti al male senza usare la forza e, se non ne sei capace, facendo uso della forza; opporsi al male facendo uso della forza è comunque meglio, per Gandhi, che non opporsi al male, chiudersi nel proprio guscio o, addirittura, consentire la prepotenza e la violenza altrui. Sarebbe bene che i pacifisti ricordassero questo altissimo insegnamento di Gandhi, il satyagraha di Gandhi non è l'acquiescenza alla violenza.
  È possibile una politica estera e della difesa che rinunci all'uso della forza ? Io credo che sia possibile ma non nasce dalla retorica, nasce da una profonda educazione popolare oltre che dalla disponibilità a fare una politica estera che stanzi risorse, che si impegni, che accetti i rischi, più ancora di una politica che fa uso anche dello strumento militare. Io non vedo nei critici di questo provvedimento la dimensione globale di un modello di difesa che programmaticamente rinunci all'uso della forza. Lo dico ricordando che noi abbiamo sperimentato un modello di difesa simile, contro la dittatura comunista di Jaruzelski in Polonia, abbiamo avuto un grande movimento popolare, Solidarnosc, che si è battuto contro la violenza della dittatura comunista senza fare uso della forza, programmaticamente rinunciando a far uso della forza, spargendo il sangue dei propri, e voglio ricordare Jerzy Popieluszko, mai quello dell'avversario. Non vedo questa tensione, che era anche quella di Capitini, in Italia, in certi discorsi che si fanno; vogliamo parlare di un modello di difesa che non fa uso della forza, di un modello di difesa non violento ? Parliamone, ma parliamone seriamente, perché altrimenti quello che si propone è semplicemente l'acquiescenza davanti alla violenza come tanti cortei pacifisti che chiedevano una Europa disarmata davanti a una Unione Sovietica che metteva i missili nucleari per poter minacciare e ricattare i Paesi europei. Se vogliamo parlarne, parliamone, in un altro modo, però.
  In ogni caso una discussione del genere non può iniziare senza una valutazione del fabbisogno di sicurezza del Paese. Io sento alcuni slogan che non condivido e mi pare che molto autorevolmente anche il Capo dello Stato sia intervenuto su questo tema. Riteniamo che non esistano minacce per la sicurezza dell'Italia nel mondo di oggi ? Ebbene, parliamone, se non esistono minacce non vale la pena di spendere soldi per la difesa, non solo per le missioni militari, ma per la difesa in generale.
  Siamo convinti di poter garantire che di qui a trent'anni non emergano nel Mediterraneo minacce gravi contro la sicurezza del Paese e che quindi non valga la pena di attrezzare uno strumento di difesa ? Se ne siamo convinti argomentiamolo, perché io, per esempio, ho l'impressione che minacce per la sicurezza dell'Italia, minacce per i valori democratici che noi difendiamo, nell'area del Mediterraneo ed in altre aree, stiano emergendo, anzi, per la verità siano già emerse. E le missioni militari che abbiamo nel mondo sono la risposta a delle minacce, diverso è se riteniamo che non ci sia la minaccia. In qualche caso – ne abbiamo ventuno, mi pare, di missioni – forse la minaccia si è esaurita, e potremmo anche ritirare i nostri soldati, ma valutiamolo in concreto; e magari da qualche altra parte varrebbe la pena, invece, di iniziare delle azioni. L'idea che non ci siano minacce e noi possiamo fare la retorica di chi dice «ah, questi soldi si userebbero meglio per fare degli asili» è vera se non c’è la minaccia; ma se la minaccia c’è e noi domani o dopodomani possiamo trovarci a vedere gli asili che abbiamo costruito distrutti e i bambini uccisi da attacchi contro la sicurezza italiana, allora forse il discorso era sbagliato.
  Ecco, io vorrei invitare tutti alla concretezza, perché stiamo parlando di cose serie. La sicurezza del Paese è una cosa seria. La discussione che stiamo facendo, Pag. 32per colpa non dell'opposizione, del Governo prima di tutto e del modo in cui viene calendarizzato e presentato il problema nelle Aule parlamentari, non permette di fare un esame che parta dal punto di partenza giusto: la valutazione del fabbisogno di sicurezza, la valutazione della minaccia. C'era o non c'era in Afghanistan una centrale terroristica che ha guidato l'attacco dell'11 settembre e poi anche altri attacchi ? C'era o non c'era ? Se c'era, riteniamo che l'intervento che c’è stato abbia impedito la ripetizione di altri attacchi come quello dell'11 settembre o che invece non abbia avuto alcun effetto ? A me sembra che dopo alcune ripetizioni, quegli attacchi terroristici siano finiti, forse – è un'ipotesi – perché è venuta meno la base, lo Stato il quale copriva e dava immunità a quelli che organizzavano questi attentati. Sarà vero, sarà falso ? Non lo so, ma di queste cose dovremmo parlare, mentre io vedo, invece, che si mettono fra parentesi. I 52 soldati che sono morti in Afghanistan sono morti per la nostra sicurezza. È stato sbagliato mandarli ? C'era un'altra strategia ? Forse. Parliamone, ma non facciamo finta che non ci fosse un problema, perché questa è la tattica degli struzzi che mettono la testa sotto la sabbia. Guardiamo la realtà del mondo per quella che è: viviamo in un mondo pericoloso.
  E nel valutare le missioni dovremmo anche valutare un modello di difesa. Una volta, quando ho fatto il servizio militare, nel Reggimento dei Granatieri, la minaccia contro la sicurezza per l'Italia si concentrava nella difesa della soglia di Gorizia contro il possibile attacco dell'Armata rossa, e coincideva molto bene con l'idea di difendere il territorio della patria. Il mondo è cambiato. Oggi lo strumento militare è tarato su di un altro modello di difesa. Il modello di difesa sul quale è tarato lo strumento militare è quello di intervenire per spegnere i focolai di conflitto prima che possano incendiare il mondo, prima che arrivino nel nostro cortile, ed è evidentemente un modello di difesa integrato. Era integrato anche quello di prima, ma questo è ancora più integrato. È un modello di difesa integrato, insieme con i nostri alleati, perché è evidente che da sola l'Italia questo lavoro non lo può fare. Una volta ci si ci lamentava contro gli americani gendarmi del mondo. Era giusto, non potevano essere gli americani a decidere dell'ordine pubblico mondiale, però di un gendarme c’è bisogno. Immaginate un villaggio in cui non c’è il gendarme. Che uno si autonomini gendarme non è bello, ma che con il controllo di tutti, quindi delle Nazioni Unite, all'interno di alleanze multilaterali, quindi la NATO, tutti facciano la loro parte per assicurare il ruolo del gendarme è giusto. Allora, vogliamo un mondo in cui c’è un gendarme comune o vogliamo un mondo in cui ci si autonomini gendarmi quando conviene ? Abbiamo più fiducia in un mondo che abbia un sistema di sicurezza multipolare in cui noi dobbiamo fare la nostra parte o vogliamo un mondo in cui le grandi potenze, ognuna nell'ambito che ritiene più opportuno, esercitino il ruolo di gendarme ?
  Sono domande serie, a cui bisogna dare risposte, e le risposte non possono essere meramente retoriche. Allora, che modello di difesa vogliamo ? Le missioni, infatti, dipendono da un modello di difesa e, se cambiamo modello di difesa, magari molte, tutte o alcune missioni risulteranno superflue. Ma bisogna avere un modello di difesa, non c’è cosa peggiore che non avere un modello di difesa, perché è come presentarsi nel mondo aperti alle offese che provengono da qualunque parte.
  Vogliamo un modello di difesa disarmata ? Parliamone, affrontiamo l'idea di cosa costa, di cosa implica, anche come educazione di massa alla non violenza. Vogliamo un modello di difesa che rinunci al sistema di sicurezza multilaterale in cui siamo inseriti ? Vediamo, valutiamo anche i costi, perché non ci sono modelli senza costi, né la difesa non violenta né la difesa che esca dai sistemi di alleanze. Se, invece, decidiamo che vogliamo un sistema multilaterale, sotto controllo NATO, come quello nel quale siamo, allora non capisco Pag. 33alcuni interventi che ho sentito, che si collocano, mi sembra, un po’ fuori dalla realtà.
  Ci sono, invece, cose serie di cui bisognerebbe discutere e di cui non ho sentito parola. È sproporzionato l'impegno dell'Italia ? Qualcuno potrebbe dire, forse non senza ragione, che per una media potenza, come diceva giustamente il Viceministro, qual è l'Italia, forse abbiamo un eccesso di impegno, forse abbiamo troppa gente fuori dai confini. Non lo so, può darsi. Forse qualche missione l'abbiamo fatta più per farci belli e per conquistare un maggiore sostegno da parte di questo o di quel grande alleato, che non perché veramente fosse in gioco la nostra sicurezza o perché veramente corrispondesse alla nostra quota dell'impegno complessivo. Questo lo dico in modo bipartisan perché si potrebbero fare esempi di interventi del genere a carico di Governi di centrosinistra e di centrodestra, un esempio da un lato e un esempio dall'altro. I due esempi sono rilevanti, non credo che siano più di due, però sicuramente sono esempi non di poco conto, non dei più piccoli. Di questo bisognerebbe discutere.
  Inoltre, è possibile integrare questo impegno dell'Italia all'interno di un comune impegno europeo ? Non sarebbe forse più efficace e meno costoso creare uno strumento in cui queste missioni fossero missioni europee, non con tante catene logistiche piccole, ma con un'unica catena logistica, con un'unica responsabilità ? Non avremmo una maggiore efficacia ? Tutto questo si integra in una questione più ampia. Non avremmo maggiore efficacia se si mettessero assieme le politiche della difesa ?
  Noi per la difesa spendiamo non così tanto come dicono alcuni, ma spendiamo. Il ritorno è adeguato ? Noi spendiamo, come Europa, il 40 per cento di quello che si prendano gli Stati Uniti. Abbiamo il 40 per cento del potenziale militare degli Stati Uniti ? È evidente che non è così. Qui vi è il generale Rossi che potrebbe darci una valutazione, ma se abbiamo il 5 per cento, massimo il 10 per cento del potenziale degli Stati Uniti è tanto. Gli Stati Uniti, infatti, hanno un sistema in cui i costi fissi di base sono pagati una volta sola, mentre noi abbiamo ventotto sistemi in cui i costi di base sono pagati ventotto volte. Abbiamo ventotto Stati Maggiori, ventotto uffici per progettare le navi. Voi capite che progettare una nave di cui abbiamo una copia sola costa tanto, mentre progettare una nave di cui fai, come gli americani con le loro portaerei, undici copie ti costa molto di meno in proporzione. Questi sono i temi che un Parlamento responsabile deve affrontare.
  Infine, lasciate che dica una parola di lode per i nostri soldati. Abbiamo di fatto introdotto, o comunque dato concretezza, ad una parola che gli studi di strategia già conoscevano, ma a cui non davano peso. Un minuto solo e concludo. La parola – la dirò in inglese – è acceptance. Per svolgere queste missioni, che sono militari ma anche politiche, devi dare sicurezza ma ti devi fare accettare. L'integrazione con la cooperazione è importante. Aumentare il contributo alla cooperazione in queste missioni non è secondario, perché riesce a mantenere l'ordine e a impedire che le fazioni si scontrino se hai la fiducia della gente.
  I denari spesi per acquisire la fiducia della gente sono importanti come quelli spesi per i mezzi corazzati, anzi, se mai un giorno dovessimo seriamente parlare di un modello di difesa, non pretendo non violento, ma con una minor percentuale di intervento militare, è proprio da qui che la nostra discussione ora deve partire anche (Applausi dei deputati del gruppo Scelta Civica per l'Italia).

  PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Di Stefano. Ne ha facoltà.

  MANLIO DI STEFANO. Signor Presidente, dunque ho ascoltato con molto interesse le dichiarazioni del Viceministro Pistelli...

  PRESIDENTE. Chiedo scusa, onorevole Di Stefano. Colleghi, per cortesia, poiché non abbiamo in previsione votazioni, chi non è interessato al dibattito può uscire Pag. 34dall'Aula con grande tranquillità e con grande serenità, chi invece resta in Aula dovrebbe usare la cortesia o di utilizzare un tono della voce molto basso oppure, meglio ancora, stare in silenzio.

  MANLIO DI STEFANO. Grazie Presidente, peccato che escano, speravo di convincerli al pacifismo. Ho ascoltato con molto interesse il Viceministro Pistelli e mi ha colpito una frase in particolare, più di una ma una più di tutte, ovvero che qualcuno starebbe usando la tematica esteri per alimentare spaccature interne ai gruppi.
  Ora, io accetto quello sfogo personale del Viceministro, probabilmente si riferiva al Governo e alla maggioranza che lo sostiene, perché qui nessuno, almeno il MoVimento 5 Stelle non sta facendo assolutamente una battaglia né per rinsaldare il gruppo né tantomeno per spaccarlo, bensì per arrivare a un obiettivo politico che è quello della nostra visione della politica estera e del ruolo dell'Italia nella politica estera. Capiamo perfettamente, e ce ne siamo resi conto durante il dibattito nel Comitato dei 18, che le visioni interne alla maggioranza sono molto distanti tra di loro relativamente alla politica estera e alla nostra posizione ad esempio in Afghanistan; rabbrividisco all'idea che queste battaglie interne possano o debbano influenzare delle scelte che il Paese deve fare invece nel rispetto del diritto internazionale, dei doveri che abbiamo in termini di cooperazione e del rispetto soprattutto della vita umana e della dignità di alcuni popoli che sono poi soggetti alle nostre scelte. Se questa è la politica estera che pensate di fare, sappiate che con noi non riuscirete mai a dialogare, perché la nostra politica estera, o meglio quello che sogniamo essere la nostra politica estera, è orientata al rispetto di questi valori di cui parlavo precedentemente, che per noi non sono barattabili (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).
  Accettiamo quindi questo sfogo e mi turba vedere un Viceministro degli affari esteri, quindi non della difesa, venire qui a difendersi – perché il suo discorso era un discorso di difesa delle scelte fatte dal Governo – anziché ad attaccare, perché io da un rappresentante degli affari esteri mi aspettavo un discorso in attacco alle scelte del Governo, perché non possiamo pensare di svendere la nostra attenzione alla cooperazione internazionale e a ciò che l'Italia dovrebbe fare in termini di politica estera a degli accordi pregressi in tema di difesa invece, che nulla hanno a che fare con questo.
  Allora io da Pistelli mi sarei aspettato un discorso di denuncia, orientato al «signori, mi dispiace, non posso farci nulla, non ci hanno dato soldi per la cooperazione e li usiamo tutti per le missioni internazionali». Questo sarebbe stato un discorso probabilmente non facile da fare perché chiaramente sarebbe stato contro il suo stesso Governo, ma sicuramente sarebbe stato più onesto e più probabilmente di giusta critica. Il Paese ha bisogno di questo, signori, il Paese ha bisogno di un Governo che parli chiaro, siamo stanchi di sentir parlare di crisi che non esistono quando invece ci sono, siamo stanchi di sentir parlare di missioni utili quando invece sono inutili ed è dimostrato, siamo stanchi di sentir parlare di cose che sono l'opposto della realtà, perché se continuiamo a farlo, fuori da questo palazzo la gente non capirà mai perché poi ci troviamo in delle situazioni allucinanti, e se la gente fuori non capisce, basta dire che quando poi si trova davanti alla crisi, come è stato in questi ultimi anni, si innervosisce, e se si innervosisce la gente qui fuori è con noi che se la prende, giustamente. Giustamente perché se non abbiamo il coraggio di essere chiari, di raccontare la verità delle cose, se non abbiamo il coraggio di dire che l'Afghanistan ci costa più di quanto ci servirebbe per salvare questo Paese dalla crisi, se non abbiamo il coraggio di dire queste cose, le gente non capirà mai, e se non capisce, ribadisco, si innervosisce, quantomeno.
  Quando poi le aziende chiudono, andiamoglielo a spiegare chi le sta facendo chiudere queste aziende. Forse, le stiamo facendo chiudere noi con le scelte su dove Pag. 35dirottare i soldi che abbiamo preso. Abbiamo sentito parlare Pistelli di accordi storici e mi fa ridere il fatto che si riferisse a questi accordi citando la mia collega Marta Grande, che aveva citato a sua volta Lettere contro la guerra di Terzani, perché in quel libro si dice l'opposto di quello che forse lui intendeva perché, nel discorso di Pistelli, sembra che si citino gli accordi pregressi come qualcosa che ci chiude in una struttura nella quale non possiamo muoverci e dalla quale non possiamo uscire, mentre in quel fantastico libro di Terzani, si dice sostanzialmente: basta con queste strutture. Quindi, o il Viceministro non ha letto il libro, o lo ha citato in modo strumentale.
  Io dico – e l'ho detto già ieri – che dobbiamo iniziare a ridiscutere queste strutture perché non è possibile pensare che si scavalchino la nostra Costituzione e l'articolo 11 perché abbiamo delle strutture sovranazionali. Allora, questo Parlamento – lo ribadisco – non serve a nulla se questa è la logica delle strutture sopranazionali; allora possiamo anche parlare – io e il mio gruppo siamo assolutamente aperti a discuterne – di creare veramente un'Europa dei popoli, che abbia un Parlamento unico europeo, nella quale quindi non servono più i parlamenti nazionali, che abbia un esercito comune, che faccia difesa e non attacco – questa è la mia visione ovviamente – e che abbia un concetto di sociale unico, di benessere dell'Europa unico e, allora, possiamo iniziare a parlare di strutture sovranazionali.
  Finché questo non si realizza, non possiamo permetterci di derogare alla nostra Costituzione perché esistono delle strutture sovranazionali, anche perché spesso queste sono elette in modo abbastanza oscuro (abbiamo dei rappresentanti che non sono eletti da nessuno sostanzialmente, specialmente in ambito finanziario), e allora mi chiedo: l'Italia che ruolo vuole avere in queste scelte che condizioneranno il Paese, come hanno già fatto nel passato e come faranno sempre di più nel futuro, perché se l'Italia vuole avere un ruolo per quello che realmente rappresenta, quindi potenza internazionale, come è sempre stata, per la qualità e il valore del popolo italiano e non per le scelte economiche e militari, se l'Italia vuole avere questo orientamento, è bene che si inizi qui dentro a discutere di queste tematiche, si inizino a portare fuori in ambito europeo e si faccia capire alle strutture sovranazionali che l'Italia non ci sta ad essere schiava di alcune strutture che distruggono la nostra Costituzione (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle) e vuole invece dirigere l'orientamento europeo, con la coscienza che il popolo italiano ha sempre saputo dimostrare, perché è dall'Italia che è nato il Rinascimento, è dall'Italia che sono nati i più grandi moti culturali che il modo abbia mai visto.
  Allora, in questo contesto, ci troviamo – lo dico qui e l'abbiamo già detto in Aula – ad avere a che fare con Ministri, come il Ministro Mauro, che, dopo che in questo Parlamento si è discusso di F-35 e, ancora una volta, avete preso in giro il popolo perché il MoVimento 5 Stelle aveva proposto di chiudere il programma F-35, dopo questi discorsi, il Ministro Mauro addirittura viene utilizzato per fare in America la pubblicità per gli F-35, quando dice che bisogna armare la pace, quindi con gli F-35.
  Io mi chiedo: il Ministro Mauro è il Ministro di questo Parlamento o il Ministro della pubblicità americana per gli F-35 ? Perché le due cose non vanno d'accordo, necessariamente non vanno d'accordo (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle). Allora, io mi chiedo: stiamo pubblicizzando gli F-35 all'estero e, nel frattempo, raccontiamo le barzellette in Italia con la chiusura del programma, oppure siamo tutti convinti di quello che il Governo ha dichiarato ? Mettetevi d'accordo, perché il Ministro Mauro è un vostro Ministro, non è certamente qualcuno messo lì da noi, opposizione.
  Allora, l'Afghanistan è sicuramente un fallimento, questo lo dobbiamo dire e dobbiamo avere l'onestà intellettuale di dirlo: sia chi è stato lì, sia le associazioni che in Afghanistan operano – noi abbiamo parlato con tante di queste associazioni – Pag. 36lo possono confermare e lo confermano perché, se durante il giorno, in alcune città – e questo si deve specificare – come Herat e quelle in cui ci sono le cosiddette bolle di sicurezza, non riusciamo ad avere il controllo di giorno, presumibilmente, quando calano le tenebre, noi in quei territori non contiamo più nulla e nelle strade che collegano queste città, noi non contiamo nulla. Sono passati dodici anni e, se in dodici anni, non siamo riusciti a migliorare la situazione di quelle zone – e quando si parla di Afghanistan, non si può parlare di due città, ma si deve parlare dell'Afghanistan – allora, evidentemente, stiamo andando nella direzione sbagliata. Vogliamo porci questo dubbio in questo Parlamento, o no ? O basta che un Ministro ci venga a dire che in Afghanistan siamo i migliori e allora tutti quanti dobbiamo dire: «Sì, ha ragione. Grazie».
  No, questo è un Parlamento e il Parlamento ha il compito di essere critico con se stesso in primis, di ragionare su cosa stiamo facendo e di ragionare su quello che, in base ai dati attuali, si deve fare per rimodulare la nostra azione internazionale.
  Questo non lo stiamo facendo e non lo stiamo facendo per la complicità del Governo, che continua a dirci cose che sono l'opposto di quello che sul territorio si vedono.
  Io ho veramente fiducia nella buona fede di chi lavora nel Governo, perché molti di loro singolarmente hanno delle esperienze assolutamente valide in quei territori, ma continuano, purtroppo, a dover rappresentare una voce che è quella che serve, in realtà, a livello mediatico, fuori da questo palazzo. E questo chiaramente contraddice quello che anche loro magari vorrebbero fare come azione pratica in quelle zone, perché quando parliamo, come si dice off the record, le idee spesso sono le stesse. Però, poi quando si viene in quest'Aula si vengono a raccontare cose che sono l'opposto di quello che ci siamo detti. Allora, facciamo un cambiamento reale e partiamo facendolo su questo decreto sui nostri emendamenti (ma come i nostri ce ne sono altri validi di altre opposizioni e, comunque, di altre visioni politiche).
  L'Afghanistan quindi, ribadisco, è un fallimento. Su Gibuti lo ribadisco. Oggi Pistelli poteva quanto meno venirmi a spiegare quando è stata decisa la missione a Gibuti, ma non lo ha fatto neanche oggi (l'ha fatto poi nel Comitato dei nove, dove chiaramente non è di dominio pubblico). Io vorrei che ci venissero a spiegare, ancora una volta, perché abbiamo questa missione a Gibuti, visto che nessuno di noi l'ha mai vista passare in Parlamento. Allora, diciamolo che siamo semplicemente delle vittime di accordi che oggi subiamo; diciamolo che esistiamo in Europa perché abbiamo un potere di acquisto, perché la guerra esercita un potere di acquisto e noi abbiamo dei doveri che ci vincolano a spendere soldi in armi e, quindi, diciamolo che in Europa spesso siamo rispettati anche per questo ruolo. Diciamolo che non possiamo più scegliere nulla finché il Parlamento non deciderà di ricominciare a scegliere qualcosa, e questo lo dico ai miei colleghi in quest'Aula. Noi abbiamo il diritto e il dovere, come diceva Pistelli, di formare altri popoli. Giusto. Solo che noi vogliamo formarli alla pace, noi vogliamo formarli alla cooperazione perché quando io ero in Africa e facevamo la formazione alimentare alle donne nei villaggi io insegnavo come fare polpette di soia non come fare granate; io insegnavo come stare in fila ad aspettare la propria razione di cibo e non come scavalcarsi a vicenda per andare a conquistare qualcosa (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle). Questo è quello che vogliamo insegnare, questo è quello che vogliamo dare ai popoli dove andiamo in termini di formazione. L'Italia in questo è un'eccellenza, ce lo riconoscono tutti. Allora, convertiamo le nostre missioni armate in missioni come quelle che abbiamo fatto con i carabinieri in passato. Andiamo in altre zone del mondo a formare alla sicurezza, a formare anche alla sovranità dei singoli popoli, ma smettiamola di farlo alimentando la guerra, perché quello che facciamo è alimentare i signori della Pag. 37guerra, perché la difesa che noi insegniamo è basata sulle armi. Iniziamo, piuttosto, a farlo sulla cooperazione e sulla pace. Se facciamo questo sicuramente avrete tutto il nostro supporto.
  Che altro ? Mi rivolgo sempre a Pistelli che nel suo discorso, riferendosi chiaramente a noi, diceva che è facile parlare di sogni ma poi dobbiamo fare i conti con la realtà. Io ribadisco un concetto che ho già detto ieri: noi abbiamo il diritto di sognare un mondo migliore. Voi, ma non perché ve lo dico io, ma perché siete al Governo, avete il dovere di garantire un Paese migliore. Se non siete in grado di fare questo fatevi da parte che lo facciamo noi, non c’è problema (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle), ma, non potete pensare di dirci che non possiamo sognare un mondo migliore, perché quello che noi stiamo sognando oggi lo realizzeremo quando saremo da quella parte. Quindi, fatelo oggi voi oppure fatevi da parte, che lo facciamo noi (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

  PRESIDENTE. Approfitto per salutare studenti e insegnanti della scuola secondaria di primo grado «Pio X», di Treviso, che stanno assistendo ai nostri lavori (Applausi).
  Ha chiesto di parlare l'onorevole Carlo Sibilia. Ne ha facoltà. Non mi pare sia in Aula e, quindi, procediamo oltre.
  Ha chiesto di parlare l'onorevole Di Battista. Ne ha facoltà. Evidentemente accompagna l'onorevole Sibilia, perché neanche lui è in Aula.
  Ha chiesto di parlare l'onorevole Boccadutri. Ne ha facoltà. Constato che è assente.
  Ha chiesto di parlare l'onorevole Frusone. Ne ha facoltà.

  LUCA FRUSONE. Signor Presidente, sinceramente mi aspettavo questo intervento un po’ più in là, quindi ancora stavo studiando le ultime carte, ma cercherò di far fronte a questa situazione, anche perché mi riallaccio a quello che hanno detto già i miei colleghi e sposo in pieno le loro parole. Ho anche sentito alcune parole importanti da colleghi di gruppi diversi e sinceramente mi fa piacere.
  Sono molto concorde con quello che ha detto l'onorevole Buttiglione, quando ha detto che forse stiamo intraprendendo una strada un po’ troppo scivolosa per il Paese, impegnandoci un po’ troppo per quanto riguarda la politica estera. Stiamo prendendo degli impegni che ad oggi non siamo in grado di mantenere ed effettivamente abbiamo le prove dinanzi. Noi sappiamo benissimo che il Paese si trova in una situazione di crisi e sappiamo benissimo che alcuni impegni vanno rinegoziati. Bisogna fare un attimo un mea culpa di quello che è stato fatto negli anni. Le situazioni erano anche diverse, quindi bisogna semplicemente sedersi ad un tavolino e parlare onestamente di quello che vogliamo fare per quanto riguarda la politica estera. Bisogna sedersi a questo tavolino e decidere effettivamente qual è il concetto di difesa che questo Paese può portare avanti, se effettivamente questo articolo 11...io quando parlo di articolo 11 della Costituzione, non mi fermo al primo comma, vado avanti, perché è giusto ricordare il discorso delle organizzazioni sovranazionali.
  Proprio a questo mi vorrei riallacciare, perché il Viceministro Pistelli ha fatto un bel discorso, ha parlato anche in termini piuttosto tecnici. In poche parole, ci ha detto che si sta facendo, che si sta portando avanti il nome dell'Italia nel mondo, che si tiene fede a degli impegni, impegni che noi assolutamente non abbiamo preso, parlo di noi come MoVimento 5 Stelle, quindi ci arroghiamo il diritto anche di rivalutare questi impegni perché noi non ci riteniamo figli di questi impegni. Parlavo appunto di organizzazioni sovranazionali e naturalmente anche qui ci sono degli impegni che devono essere portati avanti. Però, purtroppo, noi dobbiamo anche denunciare quello che succede in questi casi. Noi molto spesso siamo semplicemente degli yesmen di fronte a delle scelte calate dall'alto da queste organizzazioni – parlo naturalmente dell'ONU e della NATO – e questo ci ha portato in Pag. 38Afghanistan, per esempio. Questo ci ha portato anche prima in altre situazioni che probabilmente potevamo risparmiarci. Ci ha portato anche a delle situazioni – e questo è quello che noi vogliamo denunciare – in cui abbiamo assistito ad una lenta erosione di queste strutture sovranazionali che dovrebbero andare a difendere determinati diritti, determinati obblighi, cosiddetti obblighi erga omnes, quegli obblighi che sono così importanti che tutta la collettività si deve far carico di farli rispettare. E naturalmente si parla di diritto umanitario.
  Io sarei ben contento e sarei fiero se il mio Paese fosse in grado di farsi carico di una situazione umanitaria che sta degenerando e, quindi, in grado di essere risolutivo in quelle situazioni. Sarei veramente fiero di un Paese del genere, però purtroppo se andiamo a vedere nella pratica, se andiamo a valutare i vari esempi che ci sono stati negli anni, noi ci troviamo di fronte ad una situazione molto particolare, perché appunto queste strutture sovranazionali si sono trasformate in un semplice cappello, in un semplice via libera per alcuni Stati per fare i loro affari, per fare quello che volevano. Noi, come Italia, come Paese che ha una storia incredibile dietro, che ha una cultura, che ha un patrimonio culturale incredibile, chiediamo semplicemente che si debba intervenire, ma non in Afghanistan, contro determinate situazioni, ma ristabilendo a livello mondiale quello che vuol dire intervenire per degli obblighi erga omnes. Semplicemente questo chiediamo.
  Infatti, se noi andiamo a vedere, nella storia, siamo passati da questi interventi, che hanno finalità umanitarie, e quindi finalità che tutti possono sposare, a finalità prettamente unilaterali, finalità derivate dalle esigenze solamente di alcuni Stati, e non certo per il bene dell'umanità. Questo si può vedere tranquillamente andando a vedere le varie risoluzioni. Questa prassi nasce con la risoluzione n. 678 del 1990 per l'aggressione dell'Iraq ai danni del Kuwait. In questo caso vi era un'autorizzazione legittima dell'ONU, vi era un'aggressione. Adesso possiamo discutere se, effettivamente, si poteva risolvere in un'altra maniera, però diciamo che, dal punto di vista giuridico, possiamo anche rientrarci sotto questa autorizzazione. Quindi, l'intervento era pur sempre legittimato da questo «cappello» dell'ONU, chiamiamolo così. Però, successivamente, vi è qualcosa che cambia. Infatti, subito dopo assistiamo ad un'ulteriore degenerazione, arrivando a degli interventi condotti senza la benché minima autorizzazione da parte del Consiglio di sicurezza.
  Infatti – lo ricordo – nel caso dell'intervento in Iraq la risoluzione n. 678 autorizzava all'utilizzo di qualsiasi mezzo per liberare il Kuwait, e così è stato fatto. Dopo, però, gli Stati Uniti hanno fatto degenerare l'uso della forza e anche in Kosovo abbiamo assistito ad un intervento non sorretto da un'autorizzazione del Consiglio di sicurezza, ma ci siamo trovati di fronte ad un'iniziativa autonoma della NATO, proprio perché vi era un veto da parte di Cina e Russia per quanto riguarda l'ONU. Quindi, si decise di intervenire, per evitare la continuazione di una catastrofe umanitaria. Ma delineiamo le caratteristiche di questo intervento: questo non può essere ricondotto all'articolo 5 dello Statuto, e quindi alla difesa collettiva. Non può essere ricondotto a quegli interventi condotti su autorizzazione del Consiglio di sicurezza, ma ci troviamo di fronte a una fattispecie nuova, gestita in piena autonomia dalla NATO per perseguire un obiettivo che assume rilievo ai sensi del diritto internazionale generale.
  Ci possono essere varie critiche che possono essere portate – parlo sempre dal punto di vista giurisprudenziale – a questo intervento, però la legittimazione di un intervento non deve dipendere solamente dall'autorizzazione e dalla sua conformità ad un modello astratto, derivante dalla norma succitata, ma, allo stesso tempo, deve dipendere anche dai parametri previsti dal diritto internazionale generale. Tali parametri, però, sono difficilmente sintetizzabili: ci proverò in pochissimo tempo. Occorre partire, quindi, da un carattere un po’ più generale. Si deve parlare di buona fede, dell'assoluta necessità Pag. 39di intervenire nella situazione. Bisogna tenere conto anche del principio di proporzionalità tra l'uso della forza e la situazione sulla quale si va ad interferire e, infine, occorre tenere conto del cosiddetto «effetto utile», in modo che le misure intraprese nell'intervento cessino non appena raggiunto l'obiettivo prefissato.
  Questi parametri, se noi li andiamo ad applicare a tutti questi casi, partendo dalla situazione successiva all'intervento in Iraq, se li andiamo ad applicare alla situazione del Kosovo, se li andiamo ad applicare alla situazione dell'Afghanistan, effettivamente, dal punto di vista del diritto internazionale generale, arriviamo ad una situazione palesemente in conflitto con quello che dice la nostra Costituzione e con quello che dicono anche i Trattati di queste organizzazioni. Infatti, facendo riferimento al Kosovo, non possiamo parlare del rispetto di tali parametri, perché il principio di buona fede e dell'assoluta necessità sono stati disattesi, visto che la finalità umanitaria era l'interesse principale. Però, con l'inaccettabile accordo di Rambouillet, un casus belli assurdo, assolutamente questa necessità umanitaria è venuta meno. Lì si è capito tranquillamente che si doveva intervenire per situazioni che non avevano nulla a che fare con la situazione umanitaria (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).
  Eliminiamo ogni dubbio anche sulla buona fede dell'intervento e facciamo emergere la volontà di intervenire a tutti i costi, non dettata dall'assoluta necessità, perché nemmeno il principio di proporzionalità è stato rispettato, in quel caso. Infatti, vi è stato un aggravamento della catastrofe umanitaria; catastrofe umanitaria che l'intervento doveva scongiurare, e invece vi è stato un aggravamento. Quindi, anche questo principio è stato disatteso.
  Per quanto riguarda l'effetto utile, è doveroso ricordare l'assenza di sforzi protesi a raggiungere una soluzione negoziata del conflitto, proprio per via dell'accordo di Rambouillet. Quindi assolutamente in questo caso ci siamo trovati in un intervento che possiamo definire al di fuori di qualsiasi previsione astratta.
  Questa degenerazione poi è continuata, è andata avanti. Siamo arrivati a delle definizioni di peace building, di peace keeping, di peace enforcement. Ogni parola è utile per cercare di coprire, di fronte alla popolazione, questi interventi, per cercare di dare una parvenza di legalità, per dare una parvenza di necessità a questi interventi.
  Dovrei andare avanti, utilizzare moltissimi di questi esempi, ma torniamo un po’ più verso il presente: parliamo dell'Afghanistan, parliamo di questa missione che è la missione più importante per quanto riguarda le missioni all'estero. È quella più dispendiosa (da sola prende circa metà delle risorse destinate alle missioni all'estero) e adopera moltissimi uomini. È dal 2001 che è partita questa missione in Afghanistan, dopo l'attacco alle Torri gemelle (dovrebbe essere l'8 ottobre il primo giorno di conflitto, di invasione americana in Afghanistan). A questo punto io sono sincero: non sono mai stato in Afghanistan. Ci sono persone che sicuramente conoscono molto meglio di me quella situazione. Io posso solamente prendere i dati che queste persone ci portano – quindi il Viceministro – e analizzare questi dati. Molto spesso ci viene detto che grazie a noi la situazione lì sta migliorando, grazie a noi oggi i bambini possono tornare a scuola in Afghanistan. Noi siamo contenti, siamo contenti di tutto questo. Speriamo sia vero. Però dopo ci arrivano anche altri dati, come, per esempio, la malnutrizione di questi bambini. Paradossalmente la cifra per eliminare la malnutrizione di questi bambini in Afghanistan si avvicina moltissimo alla cifra che noi spendiamo ogni anno per queste missioni all'estero. Quindi, sinceramente, ci chiediamo perché spendere questi soldi per delle missioni all'estero che a quanto pare non risolvono tutti questi problemi, come si dice, quando potremmo, a questo punto, investirli semplicemente per risolvere dei problemi attraverso la cooperazione. È assurdo ! Noi sappiamo benissimo Pag. 40che la cooperazione senza sicurezza diventa difficile. Non vogliamo stralciare tutto, non siamo venuti qui semplicemente per lanciare un sasso e poi nascondere la mano. Però noi siamo venuti qui per fare dei discorsi seri su tutto questo aspetto. Noi siamo venuti qui, appunto, per ascoltare le parole di chi lì ci vive. Se noi andiamo ad analizzare, mentre da una parte consideriamo le parole che ci vengono dette, ad esempio, dal Capo di stato maggiore dell'esercito, che rivendica questo intervento come necessario e assolutamente importante, quando invece andiamo a vedere le parole di Karzai – quindi non dico assolutamente qualcuno che vuole cacciare l'invasore, ma qualcuno che dall'invasore è stato messo – egli ci viene a dire che l'intervento della NATO in Afghanistan è stato peggiorativo, ci viene a dire che ci sono state delle vittime civili assurde, solamente nel 2001 i bombardamenti americani hanno comportato più di tremila vittime, cinquemila feriti, delle cose incredibili. Quindi, ritornando a quei parametri che citavo prima, l'effetto utile, quando parlavo del principio di proporzionalità, è facile fare due più due e vedere, appunto, che tutti quei principi, come è stato in Iraq, come è stato in Kosovo, come è adesso in Afghanistan, assolutamente non vengono rispettati. Quindi, anche quando parliamo del secondo comma dell'articolo 11, quando parliamo di queste strutture sovranazionali, l'Italia dovrebbe un attimo fermarsi e chiedersi: ma queste strutture sovranazionali sono qui per fare il benessere della collettività o noi veniamo semplicemente utilizzati, non dico come dei mercenari, ma come dei semplici soldati che vengono mandati lì per fare magari gli interessi di altri e non per difendere quegli obblighi erga omnes di cui ho parlato prima ? Ci troviamo veramente di fronte a questa situazione, una situazione veramente nebbiosa.

  PRESIDENTE. Onorevole Frusone, concluda.

  LUCA FRUSONE. Concludo, Presidente, dicendo un'ultima cosa. Questa situazione è ancora più paradossale perché noi come Parlamento non riusciamo mai ad avere dei dati reali su quello che accade (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle). È stato detto prima: su Gibuti molte informazioni potevano essere date prima. Noi siamo qui senza informazioni e senza dati non possiamo prendere decisioni. Questo spetta al Governo, spetta a chi lavora su queste cose. Quindi noi assolutamente ribadiamo la necessità di avere delle informazioni serie ed oggettive, non assolutamente di parte ma oggettive (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

  PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Sibilia. Ne ha facoltà.

  CARLO SIBILIA. Signor Presidente, la ringrazio per la parola e vorrei spendere il tempo che ho a disposizione sul complesso degli emendamenti per fare anche un poco una disamina di quelle che sono le nostre prospettive e, per così dire, i nostri auspici per quanto riguarda quello che poteva essere il proseguo, insomma, nel trattare questo decreto-legge sulle missioni.
  Il decreto-legge sulle missioni coinvolge naturalmente il Ministero della difesa, il Ministero per gli affari esteri, Commissione difesa e Commissione affari esteri, perché all'interno del rifinanziamento alle missioni va inserito ovviamente anche il comparto della cooperazione internazionale. Il MoVimento 5 Stelle dall'inizio di questa legislatura ha sempre puntualizzato che per quanto ci riguarda vogliamo spostare tutti i nostri sforzi su una cooperazione internazionale piuttosto che sulle armi e sull'attacco bellico, anche per ciò che concerne regimi e contesti internazionali.
  Veniamo al decreto-legge. È un decreto che deve assicurare la copertura finanziaria delle nostre missioni all'estero, tutte insieme, per tre mesi. Quindi noi stiamo finanziando da settembre a dicembre quello che i nostri militari devono ricevere per continuare la loro operazione. Innanzitutto io mi faccio delle domande e mi Pag. 41chiedo: che Paese è un Paese che innanzitutto ritarda, ritarda di dieci giorni – perché ci sono delle difficoltà interne alla maggioranza – quello che deve essere un finanziamento necessario per i nostri militari all'estero ? Quindi, che Paese è un Paese che ha un Parlamento che è al limite dell'irresponsabilità, quando si preoccupa più di una crisi legata al proprio Governo ed alla propria poltrona, piuttosto che andare ad interessarsi di quelle che sono le necessità dei nostri militari all'estero (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle) ?
  Questa è una domanda che mi pongo, ma senza vena polemica. E mi chiedo allora: a che punto è la nostra programmazione, qual è la nostra forza di programmare quello che vogliamo essere il nostro futuro ? È possibile che i militari devono aspettare ogni tre mesi un decreto-legge per essere finanziati ? Dov’è la programmazione ? E questo si ripercuote su tutti i settori del nostro Paese: non abbiamo una programmazione energetica, non abbiamo una programmazione sanitaria, non abbiamo una programmazione per quanto riguarda la giustizia e lo svuotamento delle carceri, non c’è nulla, ci sono solo interventi di urgenza, indulti e amnistie per quanto riguarda le carceri, e tutto il resto che viene è sempre inserito all'interno di decreti che devono andare sempre per urgenza. Non abbiamo mai una programmazione definita.
  All'interno di questo quadro delle missioni si cita sempre a sproposito l'articolo 11 della Costituzione, come dire che stabilire e sancire all'interno della Costituzione che l'Italia ripudia la guerra è una cosa impossibile (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle). È una cosa che abbiamo scritta, perché è una cosa da ragazzini.
  Ma è un principio costituzionale ! È un principio costituzionale, allora è vero, e io voglio citare l'articolo 11 e lo voglio leggere, perché è importante capire ogni singola riga di quello che c’è scritto al suo interno. È vero che «L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente,» – e qui mi soffermo un attimo, perché voglio sottolineare queste poche parole che cambiano tantissimo il senso di quest'articolo – «in condizioni di parità con gli altri Stati,» – questa è una condizione necessaria – «alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Quindi, se è necessario avere una collaborazione internazionale, deve essere in parità, non a trascinamento della politica degli Stati Uniti che ci portano in Afghanistan, che ci portano in Iraq, per la manina, a buttare bombe, a dare una mano. Non vogliamo questo. E perché non lo possiamo dire noi ? Perché dobbiamo passare come quelli che sono idealisti, quelli che vogliono la pace a tutti costi, i pacifisti ? Questa è una battaglia di civiltà, non è solo una battaglia morale. E, poi, chi lo può fare ? Chi lo può fare, se non noi ? Ditemelo. Se il Parlamento non può, oggi, all'interno di questo decreto-legge, della sua votazione, della sua discussione, decidere quali sono le nostre priorità, dove bisogna andare, chi può farlo se non lo possiamo fare noi ? C’è qualche longa manus che ci deve dire noi dove dobbiamo andare ? Non possiamo sederci ai tavoli internazionali e dire che noi non possiamo investire perché siamo già oltre il limite ? E non ne faccio una battaglia cenciosa, di quattro spicci. Non si tratta di questo, ma si tratta di capire quali sono le finalità.
  Parliamo dell'Afghanistan. Fatemi capire, ad oggi, a dodici anni dall'inizio del conflitto, cosa abbiamo ottenuto. Non sventolerò qui la lista dei morti della missione ISAF. Non la sventolerò perché verrò accusato di fare demagogia. Allora, non lo voglio fare, però voglio esortare ad una riflessione. Qual è la necessità di stare oggi in Afghanistan ? Eppure, uno dei nostri primi atti in Parlamento, del MoVimento 5 Stelle, è stata una mozione di uscita, ma non uscita impazzita, come tornare domani mattina dall'Afghanistan, ma abbiamo chiesto una programmazione, di impegnare il Governo ad una exit strategy. Pag. 42Una cosa semplicissima: ci si siede e si capisce cosa può restare lì, quanto tempo ci vuole per tornare indietro, però tutto questo, nonostante ci venga sventolato dai media e da parte di Letta, che ritorneremo dall'Afghanistan nel 2014, in verità non trova riscontro nella realtà dei fatti. Dov’è scritto ? Non abbiamo nessuna programmazione del rientro dall'Afghanistan. Non c’è. Allora, noi che cosa chiediamo banalmente ? Di darci una sicurezza. Dateci la sicurezza che una parte dei nostri militari rientri dall'Afghanistan entro il 31 dicembre 2013. È questo che vogliamo. E, poi, quando noi andremo a proporre l'emendamento che chiederà al Parlamento se vuole questo o no, noi lo chiederemo a tutti, ma soprattutto lo chiederemo ad una parte politica, al PD, che già ha avuto le sue difficoltà a giustificare l'acquisto degli F-35 che aveva sventolato in campagna elettorale dicendo «non li compreremo mai» (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle). Ancora oggi i deputati del PD soffrono di questa cosa. Lo sappiamo. Purtroppo, hanno dovuto votarlo per equilibri di maggioranza, non so, problemi vostri, problemi della vecchia politica. Quindi, hanno dovuto necessariamente votarlo. Ok, avete comprato gli F-35. La gente è normale che non può capire per quale motivo oggi spendiamo in un programma 50 miliardi di euro investendoli, non in elicotteri, come disse qualcuno in quest'Aula, ma piuttosto in cacciabombardieri, portatori di bombe. Attacco, non difesa. Gli Aero Fighters sono aerei da difesa, gli F-35 sono cacciabombardieri. Tirano le bombe, ammazzano la gente, questo fanno. La gente non lo può capire. È chiaro che vi verranno a contestare queste cose, è normale.
  Allora, oggi noi in Aula portiamo un emendamento che vi chiede di mettere nero su bianco, con una cifra ragionevole, un certo numero di militari che devono rientrare a casa. Anche uno solo di militari rientrato dall'Afghanistan è una vita risparmiata, un potenziale militare in pericolo, che non muore per la nazione, non muore perché deve difendere l'Italia, ma muore per qualcosa che non abbiamo capito qual è, di cui non abbiamo capito il motivo.
  Allora mettiamolo nero su bianco. Cosa farete a quel punto ? Io quello mi chiedo. Come si spiegherà alla gente che non riusciamo a mettere nero su bianco un impegno preciso che dà un inizio di una exit strategy ? E non ci venite a dire che incardineremo a gennaio la legge-quadro per il rifinanziamento delle missioni. Perfetto: questo è il nostro dovere ! I parlamentari devono fare questo, devono trovare una legge, devono fare una legge, che dia la possibilità ai militari di stare tranquilli, di sapere quali sono i loro obiettivi, di avere i loro finanziamenti per il tempo necessario e per i loro obiettivi. E il Governo deve sapere quale impegno di spesa deve avere. Questa è programmazione ! Lo chiedono i militari, lo chiediamo noi, è normale ! Ma non può essere messa lì come oggetto di scambio o come qualcosa che il Governo sta cercando di fare. Il Governo e i parlamentari devono fare questo, devono dare certezza !
  E vengo anche a quello che noi vorremmo. Vorremmo che i nostri sforzi, i nostri sforzi economici, e lo hanno detto tutti quanti, anche Mauro spesso lo ha detto, anche la Bonino ha detto che noi siamo impegnati oltre i nostri limiti finanziari. Allora perché lo stesso Ministro della difesa, Mauro, dice che noi siamo impegnati oltremodo a livello finanziario e che, però, dovremo continuare a restare fino al 2014 in Afghanistan ? Questo lo ha detto lui in una audizione: che nel 2014 non rientreremo dall'Afghanistan. Il MoVimento 5 Stelle non vuole questo ? Vuole l'opposto. E non capiamo la necessità di dovere restare lì. Perché ? Perché dobbiamo andare a controllare, per conto degli Stati Uniti, mandati dagli Stati Uniti, qual è l'esito delle elezioni, dobbiamo capire se chi uscirà dalle elezioni sarà una persona gradita all'Occidente, alle grandi potenze occidentali, piuttosto che, invece, alla popolazione locale, magari. Chiunque esso sia. Noi siamo per la sovranità dei popoli.Pag. 43
  Noi abbiamo lì, attualmente, intorno ai 3 mila – 3 mila ! – militari impegnati. Sto dicendo una cifra che non conoscono neanche le persone impegnate direttamente all'interno della missione, quindi diciamo intorno ai 3 mila. La popolazione dell'Afghanistan è di 29 milioni. Abbiamo un soldato italiano per ogni 10 mila afgani. È necessario tutto questo ? In Italia chi pensa alla sicurezza ? In Italia, chi ci pensa ? Allora spostiamo questi finanziamenti, spostiamo queste persone sulla cooperazione. Noi crediamo che la cooperazione possa essere un'alternativa, lo crediamo fermamente. Qual è il problema di dare questo genere di finanziamento ad organizzazioni come l'OSCE, ad esempio ? Noi abbiamo dato 1 milione e 150 mila euro all'Iniziativa adriatico-ionica, cioè un'iniziativa che, l'ultimo rapporto che ci ha degnato di fare avere tramite i suoi canali pubblici, è quello del 2011: cioè, sono due anni che non abbiamo notizie di cosa fa l'Iniziativa adriatico-ionica e la andiamo a finanziare con 1 milione 150 mila euro, quando poi dobbiamo fare i salti mortali per trovare il finanziamento giusto per le associazioni degli ex combattenti ? È assurdo.
  Ci siamo fermati, ieri pomeriggio, perché non si trovavano 300 mila euro da dare all'ANPI: è un'associazione di ex combattenti. Poi, dopo dieci minuti, siamo riusciti magicamente a trovare delle coperture con una «capriola» della Commissione bilancio, che è riuscita a trovare delle coperture in una legge del 2004, in cui erano rimasti 300 mila euro che andavano a ridurre la pressione fiscale sulle piccole e medie imprese. Allora, evidentemente, quando i soldi servono perché dobbiamo difendere la nostra parte di elettorato, va bene, si trovano sempre. Però, evidentemente, si possono trovare anche per altre cose.
  Allora perché non accogliere le nostre proposte che dicevano non di cassare totalmente i finanziamenti all'iniziativa adriatico-ionica, non dicevamo questo, noi dicevamo di ridurli ! Cioè, questa è una cosa talmente palese che è quasi superfluo discuterla.

  PRESIDENTE. La invito a concludere.

  CARLO SIBILIA. Invece di dare un milione e 150 mila euro avremmo potuto dare un milione e spostare 150 mila euro a chi, invece, fa la difesa, ai carabinieri, che devono occuparsi della sicurezza degli ambasciatori e dei consolati.
  Arrivo all'ultimo punto, che mi sta molto a cuore, ossia il funzionario che dovremmo mandare al confine turco-siriano: io posso essere anche d'accordo, ci può servire, però quali sono gli obiettivi di questo funzionario ? Se il sottosegretario Giro mi dice che l'obiettivo è quello di spingere per la Conferenza di «Ginevra 2» e di andare a contrattare con gli «Amici della Siria» – poi, anche i nomi, come sempre, ci fregano: gli «Amici della Siria» sono le grandi potenze europee, delle quali noi non facciamo parte naturalmente –, ebbene, gli «Amici della Siria» si schierano a favore del finanziamento dei ribelli. Quindi, già dando dei finanziamenti armano i ribelli.

  PRESIDENTE. Deve concludere.

  CARLO SIBILIA. Noi abbiamo sempre detto di essere contrari all'armamento dei ribelli, eppure mandiamo un funzionario a trattare con gli «Amici della Siria». Quindi, prima contraddizione, e finisco. La seconda contraddizione è che gli stessi ribelli hanno dichiarato, il 28 ottobre 2013, che chi spinge e partecipa a «Ginevra 2» è un traditore. Allora, noi da chi stiamo andando ? Il nostro funzionario chi va a spingere ? Per cosa ?
  Quindi, viste queste criticità e visto il discorso che faceva, appunto, il Viceministro Pistelli, io dico: cerchiamo di lavorare ancora insieme per andare verso gli obiettivi che abbiamo chiesto noi del MoVimento 5 Stelle (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

  PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Di Battista. Ne ha facoltà.

  ALESSANDRO DI BATTISTA. Signor Presidente, in questi sette, otto mesi da Pag. 44parlamentare, io e i miei colleghi non abbiamo ricevuto critiche sostanziali; forse, qualche critica sul modo in cui abbiamo interpretato la comunicazione del gruppo, ma critiche sostanziali non ne abbiamo mai ricevute. Non c’è stato mai un cittadino, né elettore del MoVimento 5 Stelle, né di SEL, né della Lega, né del PD, né del PdL, che ci abbia detto: questa vostra proposta non va, questo emendamento non andava fatto, questo ordine del giorno è sbagliato, avete fatto male ad opporvi ad un determinato decreto-legge. Non è mai successo, e questo lo viviamo anche con estremo orgoglio.
  Abbiamo ricevuto una enorme critica e avremo risposto miliardi di volte. Sono contento che è in Aula, Presidente, il deputato Bersani, perché così possiamo anche spiegare di fronte all'Assemblea le ragioni di questa critica che abbiamo ricevuto dovunque, presso i banchetti, nei social network, attraverso gli organi di stampa: la fiducia al PD. Perché non avete dato la fiducia al PD ? Non vado fuori tema, parlerò del decreto, parlerò del complesso degli emendamenti, però è sostanziale parlare di questo aspetto.
  A parte il fatto che non ci è mai stata chiesta – mai stata chiesta – la fiducia: il collega Bersani ci disse, in sostanza, di abbandonare l'Aula al Senato. Ma quello che noi abbiamo con forza rivendicato è il fatto che volessimo un cambiamento. Io credo che il collega Bersani voleva fare un governo del cambiamento: non lo voleva fare il suo partito, sennò non avrebbero «impallinato» Prodi. Io credo che lui avrebbe voluto farlo. Il problema è che per cambiare occorrono dei segnali, per fidarci abbiamo chiesto dei segnali: li abbiamo chiesti quando abbiamo preteso l'apertura delle Commissioni parlamentari anche in prorogatio, e non ci è stata data. Abbiamo occupato l'Aula di Montecitorio fino a mezzanotte, se vi ricordate bene, e non ci è stata data. Nessun segnale.
  L'abbiamo chiesto durante le elezioni del Presidente della Repubblica. Abbiamo eletto un altro Presidente, che rispettiamo – poi, io non lo stimo personalmente e rivendico il diritto di non stimare una persona –, e non ci è stato dato, neanche in quel caso, un segnale di cambiamento. I deputati del PD ci dicevano: vorremmo votare Rodotà perché è il miglior Presidente della Repubblica possibile, ma non lo votiamo perché lo avete proposto voi. Questa era la risposta dei colleghi del PD. Io avrò parlato con decine di colleghi del PD e, poi, ci dicono di «scongelarci»; con decine, e questa era la risposta.
  Decreti come questo, la guerra in Afghanistan, dimostrano ancora di più perché non ci fidiamo: perché su tematiche così importanti, per noi che siamo da sette mesi in Parlamento, non c’è alcuna differenza tra il Partito Democratico, il Popolo della Libertà, SEL, Fratelli d'Italia. Il discorso che ha fatto prima il Viceministro – gliel'ho detto in faccia – lo avrebbe potuto fare La Russa, lo avrebbe potuto fare Mauro. Noi non notiamo alcuna differenza. Si giustifica, dopo dodici anni, la guerra più lunga – più lunga – dalla Seconda guerra mondiale in poi. Si giustifica, senza senso.
  Allora, avete capito per quale motivo non diamo la fiducia e non abbiamo neanche pensato a dare la fiducia al Partito Democratico ? L'avrete capito, probabilmente, definitivamente, che quando si parla di TAV, di finanziamento pubblico ai partiti, di finanziamento pubblico all'editoria, di costi della politica e anche sulla politica internazionale, soprattutto sulla politica internazionale, non ci fidiamo del Partito Democratico, che comunque ha preso più voti del MoVimento 5 Stelle nel complesso, purtroppo, anche se le elezioni le ha perse e il collega Bersani si sarebbe dovuto dimettere il giorno dopo. Questo è un dato di fatto, questo è un dato di fatto.
  Questo decreto-legge è uno dei pochi decreti-legge arrivati in Aula che non è un decreto omnibus e che ha anche una logica; la logica dell'urgenza ce l'ha in questo caso, perché dobbiamo rifinanziare le missioni, perché purtroppo i nostri militari sono adesso coperti da un'assicurazione per l'eccessivo ritardo, tra l'altro, da parte del Governo; ha una logica, noi Pag. 45non lo contrastiamo quindi dal punto di vista del metodo – no, stavolta no –, ma del merito sì.
  Mio nonno, l'unico nonno che ho conosciuto, diceva che le guerre non bisognerebbe mai, mai combatterle, però, se le fai, se proprio sei costretto a farlo... E a noi nessuno ci ha mai chiesto il permesso, non a noi 5 Stelle, che non c'eravamo quando siamo entrati in Afghanistan, ma a noi cittadini italiani, a noi popolo italiano nessuno ci ha mai detto niente, nessuno ci ha mai chiesto niente. Volete entrare in Iraq, volete entrare in Afghanistan ? Non ce lo ha mai chiesto nessuno. Il popoluccio come lo trattate, quel popoluccio che non è in grado di prendere determinate decisioni perché ci sono delle cose più importanti che non capisce ? Noi cittadini non capiamo gli accordi internazionali, la sicurezza internazionale, il terrorismo – poi ci ragioniamo anche sul terrorismo –: non ce l'avete mai chiesto, mai, trattati davvero come delle pezze, il popolo italiano è trattato come degli zinbelli del potere (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle), siamo questo.
  Come dicevo, mio nonno diceva che le guerre non bisogna mai combatterle, però, se proprio si combattono, almeno proviamo a vincerle. La guerra in Afghanistan – ammettiamolo, ammettetelo voi che l'avete fatta, o comunque sia, voi che non avete mai fatto nulla per cambiarla, perché poi ci è entrato Berlusconi in Afghanistan –, è una guerra persa, è una guerra perduta. Il Governo degli Stati Uniti – e lo sapete, prima ce lo avete detto: sì, è vero, è il segreto di Pulcinella, bene, raccontiamoli in Aula i segreti di Pulcinella ! – sta trattando con i talebani, con i tagliagola, con quelli che mettevano il burqa, che non permettevano lo sviluppo delle donne – per carità, cose vere, per l'amor di Dio –, ma sta trattando, bajo del agua, si dice in spagnolo, sott'acqua. Tratta con il Mullah Omar, ci trattano, anche perché non sono riusciti a sconfiggerlo. Perché il popolo afgano da sempre – questo gli va riconosciuto – dimostra dignità. Hanno cacciato gli inglesi, hanno cacciato i russi, finanziati, anzi giustificati – perdonatemi – dal Partito comunista di allora, anche se era in declino...

  ARTURO SCOTTO. Non è così, non sai la storia !

  ALESSANDRO DI BATTISTA. È così, è così. E comunque gradirei, Presidente, continuare senza interruzione, non è un dibattito, questo.
  Hanno in sostanza sconfitto anche l'Esercito americano supportato dai soliti scendiletto, che siamo noi, perché di questo si tratta: siamo degli scendiletto degli americani. Essere alleati non significa essere sudditi, essere alleati non significa essere sudditi. Il popolo italiano non è suddito di nessun altro. Il popolo italiano è sovrano: non siamo sudditi degli americani, Presidente, nonostante ci siamo comportati in questo modo.
  La guerra è persa, perché non lo ammettiamo ? Cosa ci stiamo ancora a fare in Afghanistan ? Cinque miliardi di euro abbiamo speso, perché poi mi sembra di fare il demagogo e il populista a ricordare le cifre: 5 miliardi di euro; fate delle battaglie in seno alla maggioranza per 100 mila euro qua, 100 mila euro di là, come sull'IMU, che poi ha cambiato nome perché si cambia nome a tutto. Le guerre e le invasioni diventano interventi umanitari, l'IMU diventa service tax, gli inceneritori diventano termovalorizzatori e – perdonatemi – le puttane diventano escort. Perdonate questa parola, ma di questo si tratta. Cambiamo il nome a tutto, ma la sostanza è che siamo in guerra, una guerra che non abbiamo voluto, una guerra persa, che è costata la vita di tanti militari italiani. Andateglielo a dire alle famiglie che lo abbiamo fatto per l'onore, per i diritti umani, perché ce lo ha chiesto la NATO, perché esiste il diritto internazionale, perché esistono degli accordi internazionali. Non lo possiamo fare.
  Vedete, quest'Aula è sempre più staccata dalla realtà. Come sull’affaire Rodotà, come su quei giorni.
  Quei giorni sono stati drammatici per me, perché noi vedevamo fuori migliaia di Pag. 46cittadini che chiedevano una cosa. Mica erano elettori del MoVimento 5 Stelle. Lì fuori c'erano elettori di SEL e del PD, soprattutto, che dalla sera prima chiedevano: votate Rodotà; votate Rodotà. Ricordate che la Finocchiaro diceva: chi sono questi ? Elettori del Partito Democratico. E qua dentro tutti noi arroccati – anzi, tutti voi – a votare di nuovo lo stesso Presidente.
  Ecco, lì io ho avuto la sensazione di uno scollamento totale della classe politica dalla cittadinanza. Totale. Perché vi erano i cittadini, non gli elettori del MoVimento 5 Stelle, perché sapete perfettamente che Rodotà viene da un'altra area, che non è quella dei 5 Stelle. È un uomo di sinistra, mentre il MoVimento 5 Stelle non è un movimento di sinistra e chiaramente non è neanche di destra, andiamo oltre. Sono stati giorni per me drammatici, sì.
  Su questo decreto-legge, sulla guerra in Afghanistan, perché poi soprattutto di guerra in Afghanistan si parla, anche perché il Governo non spacchetta le missioni, il MoVimento 5 Stelle avrebbe anche avuto la gioia di votare favorevolmente alla missione in Libano, perché funziona. I nostri militari sono strastimati e si mettono tra due forze che si contrastano tra di loro. Un ottimo lavoro. Questo significa fare peacekeeping. Perché non ci date la possibilità di votare separatamente una missione in una parte del mondo da un'altra missione che non c'entra nulla ? Perché non ci date questa possibilità ? Noi l'avremmo fatto con tutta la voglia, con il cuore. Ci saremmo «scongelati», tranquillamente. Ma l'Afghanistan no ! L'Afghanistan è stato deciso perché qualcuno voleva costruire oleodotti: è questa la verità ! Soltanto per interessi economici: questa è la verità, perché non c’è scritto da nessuna parte che c'era un collegamento diretto tra quell'ignobile attentato alle Twin Towers con l'Afghanistan. Ma dove sta scritto che gli attentatori erano tutti dell'Arabia Saudita ? Dove sta scritto ? Eppure, subito a dire: no, andiamo lì. E poi la scusa del burqa. Sapete se ancora lo portano il burqa in Afghanistan ? Lo chiedo a chi ci è andato. Sapete se siamo riusciti a cambiare usi e costumi, anche millenari, giusti o sbagliati che siano, di una popolazione ?
  Quante menzogne sono state dette in quest'Aula. Quante menzogne al popoluccio, che di fuori era spesso più saggio dei parlamentari che stavano qui a legiferare. Tutto per interessi economici: sempre e sempre i soldi. Si discute sempre e solo dei soldi, anche in quest'Aula. Sempre e solo dei soldi, mai degli ideali, anche delle utopie, che secondo Galeano sono quel che ci permette di camminare e di andare avanti. Sì, le utopie.
  Il MoVimento 5 Stelle è contrario a qualsiasi – a qualsiasi – intervento militare per portare la pace, perché è un ossimoro. Ossimoro, come dire Berlusconi-onestà. Sono ossimori, non vanno d'accordo queste cose. Una missione di guerra non va d'accordo con portare la pace (Commenti dei deputati del gruppo Il Popolo della Libertà-Berlusconi Presidente). ..
  Non ribatto, per carità. Poi, se si arrabbiamo quelli del PdL siamo felici.

  MAURIZIO BIANCONI. Noi non ci arrabbiamo. Sei un mascalzone e basta !

  PRESIDENTE. Onorevole Bianconi. Onorevole Di Battista, si attenga...

  ALESSANDRO DI BATTISTA. Ho parlato di Berlusconi, non dell'onorevole Bianconi.

  MAURIZIO BIANCONI. È il nostro presidente !

  ALESSANDRO DI BATTISTA. È un condannato, un delinquente (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

  PRESIDENTE. Onorevole Di Battista, prosegua.

  MAURIZIO BIANCONI. Anche Grillo è un condannato !

  ALESSANDRO DI BATTISTA. Infatti, non sta in Parlamento. Comunque, Presidente, l'ha ripreso già due volte, lo può espellere, per favore ?

Pag. 47

  PRESIDENTE. Non è sua facoltà espellere persone da quest'Aula. Onorevole Di Battista, prosegua. Onorevole Bianconi, lasci proseguire, non mi costringa a richiamarla.
  Prego, Onorevole Di Battista.

  MAURIZIO BIANCONI. È un condannato, non è un disonesto. Una cosa è un condannato e un'altra cosa è un disonesto !

  ALESSANDRO DI BATTISTA. Non è un parere mio, è un parere della magistratura, un organo supremo dello Stato, che evidentemente dovrebbe essere assolutamente rispettato. Un condannato è chi non rispetta le leggi e a casa mia è un disonesto. Ma andiamo avanti; parlavamo del decreto (Commenti del deputato Bianconi).

  PRESIDENTE. Onorevole Bianconi, per cortesia. Abbia pazienza, onorevole Bianconi !

  ALESSANDRO DI BATTISTA. È un ossimoro portare la pace con le bombe. È un ossimoro. Non ci siamo riusciti. Dobbiamo tornare a casa.
  Il MoVimento 5 Stelle ha presentato emendamenti, anche uguali a quelli dei colleghi di SEL, per il ritiro immediato. La prima azione politica che la Commissione affari esteri ha fatto in questo Parlamento è stata la presentazione di una mozione per il ritiro immediato, chiaramente pensando, come diceva il collega Sibilia, a un’exit strategy, magari coinvolgendo quelle organizzazioni che lavorano lì.
  Le prime due settimane noi abbiamo convocato delle organizzazioni, tra cui Emergency, che è un vanto, un fiore all'occhiello dei cittadini italiani.
  Ci sono delle persone che sono degli esempi per tutto il popolo italiano; abbiamo convocato Pangea, Intersos, Afghana, loro si sono stupiti che un gruppo parlamentare avesse convocati per parlare di quello che succede in Afghanistan. Noi abbiamo pensato, noi non ci siamo mai stati in Afghanistan, abbiamo chiaramente una visione politica ma non ci siamo mai stati, chiediamo a loro, e ci hanno detto: che cosa ci stiamo a fare, che ogni giorno dobbiamo spendere soldi, energie solamente per curare le ferite dei disgraziati ? Disgraziati.
  Il terrorismo, parliamo del terrorismo. Come nasce il terrorismo ? Nasce quando in sostanza... non voglio giustificare nessuno, però parliamo pure di storia. Per qualcuno, per gli avversari, anche Garibaldi era un terrorista. Giulio Cesare per i Galli era un terrorista, andava a casa loro e faceva determinate cose, questo è un dato di fatto. E nessuno sta giustificando il terrorismo, stiamo dicendo l'esatto opposto, che la violenza giustifica ahimè gli stessi terroristi. Le bombe non fanno altro che creare quelle condizioni per far sì che alcune persone, purtroppo, intraprendano delle strade sbagliate e utilizzino l'arma del terrorismo, anche perché nel mondo di oggi c’è una totale disparità di mezzi bellici che fa sì che purtroppo delle persone utilizzino i mezzi drammatici, che condanniamo fino alla morte, del terrorismo, perché non ne hanno degli altri, perché quando in Afghanistan le bombe vengono addirittura buttate giù con dei droni, cioè non c’è neanche più quella sorta di romanticismo becero che c'era nelle guerre antiche, uno scontro tra due persone, becero, perché siamo assolutamente per la non violenza, che comunque si fronteggiavano. Oggi non c’è neanche più questo, perché dei villaggi zompano in aria in Afghanistan per delle bombe mandate da qualcuno che telecomanda degli aerei, questo è un dato di fatto.
  Ho fatto un discorso ampio, ho fatto arrabbiare qualcuno, mi dispiace forse, quello che vogliamo dire è che su tematiche del genere, sulla politica internazionale, per noi è fondamentale, non è assolutamente – concludo, Presidente – un modo per creare divisioni interne, per creare un dibattito, per fare propaganda, no, perché queste sono posizioni che come cittadini italiani abbiamo da tanti anni, quando neanche si pensava a costituire un movimento di cittadini come il MoVimento Pag. 485 Stelle, ecco è su questi temi che si segna una separazione evidente tra un movimento di cittadini come il MoVimento 5 Stelle e la partitocrazia che ha non soltanto distrutto l'Italia, ma prova a distruggere anche il mondo (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

  PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Boccadutri. Ne ha facoltà.

  SERGIO BOCCADUTRI. Signor Presidente, gentili colleghe, gentile colleghi, probabilmente quando l'Aula si svuota la quantità di ossigeno circolante aumenta e qualcuno ha le traveggole, perché ho sentito dire dall'onorevole Di Battista delle cose che non ho capito circa il nostro gruppo e il nostro partito. A un certo punto nella sua foga retorica ha detto che non c’è differenza sulle missioni tra PD, PdL e Sinistra Ecologia Libertà.
  Vorrei soltanto ricordare all'onorevole Di Battista che tra i banchi di questo gruppo ci sono i protagonisti del movimento pacifista, che hanno promosso e organizzato le grandi manifestazioni contro la guerra in Kosovo e in Iraq, che nel 1983 alcuni di questi miei colleghi erano a Comiso, il 6 aprile 1999 sotto il Governo D'Alema organizzavano una manifestazione nazionale contro la guerra in Kosovo, il 15 febbraio del 2003, sotto il Governo Berlusconi, organizzavano e partecipavano alla grandissima manifestazione contro la guerra in Iraq, e nel 1992 erano sotto le bombe di Sarajevo con una missione organizzata a cui partecipavano l'onorevole Marcon e Nichi Vendola (Applausi dei deputati del gruppo Sinistra Ecologia Libertà). Vorrei anche ricordargli – e forse vi farebbe bene anche cercare sui Wikipedia – che il PCI fu contrario all'invasione dell'Afghanistan (Applausi dei deputati del gruppo Sinistra Ecologia Libertà) e Berlinguer andò in televisione a sostenerlo e a dirlo. Quindi probabilmente quando si tratta di fare retorica sul pacifismo bisognerebbe avere anche l'accortezza, quando si parla di altri, di sapere e studiare qualcosa in più.
  Lo dico e lo voglio dire, gentile Presidente, anche all'onorevole Buttiglione, che ha detto in quest'Aula che i cattolici sono pacifici e non pacifisti. Lo dica, lo dica ai tantissimi cattolici che si definiscono pacifisti, agli attivisti e ai sacerdoti di Pax Christi, ai beati costruttori di pace, agli scout dell'AGESCI, ai ragazzi dell'Azione cattolica, che ogni anno marciano per la pace da Perugia ad Assisi. Lo dica a padre Alex Zanotelli, a Don Ciotti, a Don Franco Monterubbianesi, che loro sono pacifici e non pacifisti. La pace non e passività, non è bonarietà, ma impegno attivo contro la guerra e per il disarmo. Gentile Presidente, l'onorevole Buttiglione è un raffinato studioso delle dottrine politiche, ma forse conosce solo superficialmente il pensiero di Gandhi e di Capitini. È vero: c’è un passaggio in cui Gandhi ammette il ricorso alla forza contro un'ingiustizia intollerabile, quando non ci sono altre vie, ma è strumentale e inaccettabile utilizzare Gandhi per giustificare queste missioni, quando tutto il pensiero di Gandhi è volto alla ricerca di alternative alla guerra e alla violenza e non alla forza come strumento preventivo di altra violenza (Applausi dei deputati del gruppo Sinistra Ecologia Libertà).
  Concludo. Ci vuole maggiore prudenza nelle parole quando si parla di pace, soprattutto da parte di chi ha votato per l'aumento delle spese militari e per la guerra. Quando si parla di pace, si parla della vita delle donne e degli uomini e, allora, tutti dobbiamo fare uno sforzo in più (Applausi dei deputati del gruppo Sinistra Ecologia Libertà).

  PRESIDENTE. Saluto gli studenti e gli insegnanti dell'Istituto comprensivo statale «Giovanni Cena», di Latina, che stanno assistendo ai nostri lavori dalle tribune (Applausi).
  Ha chiesto di parlare l'onorevole Artini. Ne ha facoltà.

  MASSIMO ARTINI. Signor Presidente, vorrei intervenire proprio sul complesso degli emendamenti per dare il senso e il perché di tutta una serie di emendamenti concreti e reali che sono venuti fuori dal MoVimento 5 Stelle.Pag. 49
  Innanzitutto, una valutazione sugli obiettivi e le finalità di ogni singola missione. È innegabile, Presidente, e penso di non essere il primo a dirlo, che questa modalità di trattazione delle missioni internazionali...

  PRESIDENTE. Onorevole Artini, mi perdoni. Onorevole Di Battista, colleghi, teniamo basso il tono della voce.

  MASSIMO ARTINI. Presidente, non si preoccupi, non è un problema. Dicevo che questa modalità di trattazione delle singole missioni è per il Parlamento veramente deprimente perché noi ci ritroviamo a discutere per settimane in una Commissione, senza che dopo si abbiano veramente le informazioni che ci permettano di prendere queste decisioni.
  Dobbiamo arrivare a pensare a questo come all'ultimo decreto fatto in questo modo. Le nostre modalità di emendamento su questa parte erano fondamentali perché attenevano ad una richiesta che, fin dalle prime volte che ci siamo incontrati con i Ministri, è stata fatta. Si tratta di un modo diverso di affrontare questo argomento.
  Nel merito di tutti gli altri emendamenti che sono stati presentati, sono stati pensati tutti sulla base dei risultati delle missioni che si sono andate ad autorizzare con questo nuovo decreto. Parto da quelle che probabilmente sono state meno trattate; mi viene, in particolare, in mente quella concernente la questione del mar Mediterraneo e della parte dei Balcani.
  Noi stiamo da anni, ormai da più di dodici, nel Mediterraneo, con una serie di missioni, che sono tra loro disomogenee, spesso non spiegate, senza informazioni reali, che non vengono passate al Parlamento e che non danno la capacità di sapere come utilizziamo le risorse, quanto le stiamo utilizzando e con quale finalità. Abbiamo conflitti nella zona del Mediterraneo, di competenza o di logica nell'utilizzo delle navi – penso a questa parte molto sensibile in quest'ultimo periodo – perché abbiamo missioni nazionali, internazionali, missioni che proteggono la parte che sta vicino al Libano, missioni che proteggono la parte che sta vicino all'Egitto, missioni che proteggono tutto il Mediterraneo, missioni che trattano solamente i tratti di costa tra la Libia e l'Italia. Questo disperdendo, senza un coordinamento, tutta una serie di forze, di costi e di risorse, che potrebbero essere ottimizzate per salvaguardare, per esempio, al meglio, la vita delle persone che purtroppo devono transitare il tratto del Mediterraneo per arrivare in Europa. Questo non viene trattato: viene suddiviso in tre o quattro commi diversi, in quattro o cinque visioni diverse, che non sono omogenee.
  Altra cosa che è stata fondamentale per la Commissione difesa e per il MoVimento 5 Stelle in questo decreto-legge, è ragionare sul fatto che non si può arrivare ad un «decreto missioni» senza avere dei dettagli veri su quelle che sono le cose che il Governo mette nella relazione che è allegata al decreto-legge sulle missioni. In particolare, noi ci siamo ritrovati a dovere lavorare su delle informazioni talmente sbagliate, tant’è che i rappresentanti del Governo sono venuti a dirci che non è così, che abbiamo sbagliato a fare gli emendamenti. Noi non sbagliamo a fare gli emendamenti, ma è l'informazione di base che ne deriva che ti porta a prendere delle decisioni e a fare delle scelte che non possono tornare, perché non hai i dettagli di quello che il Governo dovrebbe fare. Io non so se questo è un discorso di superficialità, di prassi, perché ormai negli ultimi dieci anni è rimasto sempre in questi termini, o di volontà diretta di mancanza di informazione al Parlamento. Anche questa – ed è la prima volta che il MoVimento 5 Stelle tratta il «decreto missioni» – è una cosa che deve finire e deve finire già da gennaio. Deve finire nell'ottica di lavorare anche a una legge-quadro che tolga a questo decreto parti che non gli competono. Bisogna iniziare a lavorare su cose che vanno direttamente a trattare quella parte lì.
  Viene comunque da pensare a missioni come quella, per esempio, in Afghanistan, il cui obiettivo deve essere ben chiaro anche in questa situazione. Noi possiamo Pag. 50ragionare su quanti militari è necessario fare tornare sicuramente a casa, ma l'obiettivo finale è che quella missione non deve esistere, non doveva esistere, e il giustificarla e non prendere atto che quelle azioni che sono state fatte sono state fatte per motivi che altre persone in altri luoghi, penso ad alcuni generali in comando, ti vanno a specificare, quella missione lì, al netto delle parole che vengono dette in quest'Aula e al netto delle dichiarazioni televisive in cui si dice che è una missione di pace, è una missione che è servita, dopo la fine del blocco sovietico e quindi NATO, a garantire agli eserciti un sicuro finanziamento per attività anche di addestramento. Queste parole non le ho usate io. Potrebbero essere forti e le riporto perché non le ho usate io, ma le ha usate un generale che ha ammesso che questa parte di finanziamenti serve, a maggior ragione, come ha detto il viceministro Pistelli, a «sprovincializzare» le Forze armate e a renderle europee.
  Ma, è questo l'obiettivo ? Cioè, noi come Paese, come volontà politica, abbiamo l'obiettivo di finanziare questa cosa per fare il training ai nostri mezzi e alle nostre forze ? Questa è una cosa che è imbarazzante, che va cambiata e che va ripensata. Va ripensata nell'ottica del 2014, in cui finisce quel tipo di missione e ne parte un'altra in cui effettivamente bisogna, come Parlamento e come forze, dare un impulso profondo che segni una differenza totale rispetto a quel tipo di approccio. Abbiamo buoni esempi anche in queste missioni, che ci permettono di prendere e dare una significativa virata a quella che è stata, per quasi dodici anni, una missione che alla fine ha prodotto, per come la vedo io e per come la vede il MoVimento 5 Stelle, zero risultati. Quando mi viene detto espressamente dalle Forze armate che noi abbiamo speso un qualcosa come sette, otto miliardi in dodici anni per la parte militare e solamente 50 milioni per la parte civile – e queste sono cifre che sono state riportate direttamente dai militari – questa cosa è nei numeri e nei fatti, ed è lapalissiano che non esiste nessun tipo di impulso verso la parte di cooperazione. Non ci si può giustificare dando i numeri dicendo che questa cosa è stata fatta per quell'ottica. Quindi, tutta la serie di emendamenti e di lavoro fatto sulla parte relativa all'Afghanistan serve per dare, anzitutto, un impulso diverso per la prima volta a quel tipo di lavoro.
  Altra parte è la missione in Libia. La missione in Libia è un'altra missione nuova, l'EUBAM, che è nata proprio in questo momento. È una missione fatta dall'Europa, che ha fondamenti civili, e dove noi impegniamo soprattutto una parte militare. Era opportuno che venisse specificato anche nel «decreto missioni» che è necessario cambiare, in una situazione che è critica e in cui sappiamo come i libici lavorano con i profughi, con le persone che scappano da situazioni come quelle in Eritrea e in Somalia, arrivano in Libia e vengono trattate come merce, come animali.
  In quella situazione mantenere solamente un presidio militare non aveva senso. Integrarla e rendere forte anche la parte civile è stato uno degli obiettivi del MoVimento 5 Stelle. Per tutta un'altra serie di missioni – io penso in particolare a quella a Gibuti – per il Governo è veramente il risultato di una mancanza completa di informazioni verso il Parlamento.
  Noi almeno un mese fa abbiamo presentato un'interrogazione al Governo affinché ci spiegasse dove, come e quali sono gli obiettivi di quella installazione a Gibuti. Al momento non ci è stata data una risposta nel concreto di quelle che sono le effettive risorse stanziate per gli obiettivi. Queste informazioni ci sono arrivate parzialmente nelle fasi interlocutorie, durante la valutazione degli emendamenti. Perché io, da parlamentare, mi devo aspettare un'interlocuzione mirata e diretta e non devo averla come informazione a tutti i parlamentari che vogliono avere il pregio di poterla valutare ? Questo è il problema, questa è la cosa che va cambiata. Non ci si può permettere di non avere questo tipo di informazioni, perché noi siamo qui per questo, per capire, comprendere, studiare e valutare ogni singolo oggettivo atto che il Pag. 51Governo fa. È quello che abbiamo come compito di valutazione degli indirizzi del Parlamento, sia come opposizione sia, come penso, anche per rispetto per la maggioranza, poiché anche i membri della maggioranza si sono trovati nella medesima situazione di mancanza di informazioni.
  Quindi, venendo a trarne delle conclusioni, questo ragionamento, questa volontà nostra forte di porre l'attenzione su questo tipo di temi è alla base di un nuovo modo di lavorare sulle missioni internazionali. Noi oggi, già ora eventualmente in Ufficio di Presidenza, pensiamo che si possa lavorare in un modo diverso sulle missioni internazionali e ciò probabilmente darà anche l'impulso per non sentire il medesimo refrain che si sente da anni, ossia che le missioni internazionali sono missioni di pace e che vengono fatte in un certo modo. Quando poi vai a vedere i numeri e vai a sapere che giornalmente muoiono in queste situazioni oltre cento persone al giorno, perché non si riesce a stabilizzare la situazione, perché le competenze passate alla polizia afgana per esempio implicano un supplizio di quattrocento persone che vengono trucidate, perché non si riesce a mantenere la stabilità di quella zona dopo dodici anni di lavoro, questo ti fa capire che probabilmente è il caso di arrivare a dire: signori abbiamo sbagliato, dobbiamo pensare ad un sistema diverso, questo sistema non ha funzionato. Non ha funzionato per colpa forse non nostra, forse di chi ci ha comandato dal 2001 ad ora. È una missione multilaterale, dove il comando spesso, anzi nella maggior parte dei casi, è dato agli statunitensi.
  Quindi, pensiamo di lavorare in un'altra ottica, prendiamo esempio da altre missioni, date la possibilità al Parlamento di lavorare in modo che ogni singola missione sia, come dire, singolarmente elaborata e che tutto il Parlamento abbia la possibilità di decidere, sia come maggioranza che come opposizione.
  Di questo ringrazio tutti i colleghi perché è stato un lavoro estenuante, è stato un lavoro bello, è stato un lavoro che ha fatto vedere che il Parlamento, se vuole, può fare qualcosa per cambiare, con piccoli passi. Questo è il primo decreto; è un decreto – passatemi il termine – anche offensivo nei confronti dei militari che sono da quelle parti, perché per una mancanza di fondi abbiamo avuto un decreto per nove mesi e poi successivamente per tre mesi. Fare un decreto per tre mesi non ha veramente nessun senso. Fare un decreto che è stato ritardato di dieci giorni per delle polemiche interne alla maggioranza è ancora più offensivo nei confronti delle persone che erano laggiù.
  Quindi, in questa discussione deve venir fuori l'impegno da parte di tutti che nel prossimo si tratteranno in un modo completamente e radicalmente diverso queste missioni internazionali, ragionando, lavorando sui numeri, lavorando su quello che stanno facendo le missioni, avendo informazioni dettagliate. Non parlo della parte di cooperazione, perché sulla parte di cooperazione siamo ancora a dei livelli più raccapriccianti di assenza di informazioni. Siamo senza nessun tipo di informazioni. Ci viene detto: effettivamente è vero, è dal 2011 che certe cose non vi vengono dette. Perché ? Io non penso che le persone che lavorano nei settori di cooperazione non stiano lavorando. Perché non c’è questo dettaglio maggiore di informazione ?
  Concludendo, l'auspicio è che il Governo «prenda fortemente» questo nostro intento di cambiare radicalmente la gestione delle missioni fin da subito, fin da martedì. Ci dia la possibilità di, radicalmente, mettere un pezzettino in avanti, di cambiare una cosa che permetta a tutti di lavorare in maniera diversa (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

  PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Gallinella. Ne ha facoltà.

  FILIPPO GALLINELLA. Signor Presidente, dovrei essere l'ultimo, e quindi cercherò di fare una breve sintesi. Tengo a precisare che i parlamentari del MoVimento 5 Stelle ritengono inaccettabile che la proroga della partecipazione italiana a Pag. 52missioni militari all'estero avvenga con un decreto unico, che impedisce la libera espressione del voto sulle singoli missioni: Afghanistan, Libia, sul Mediterraneo, le azioni antipirateria, Gibuti e Siria.
  Ma cominciamo un attimo con l'Afghanistan: va subito sgombrato il campo da dubbi o perplessità di sorta. La fallimentare partecipazione italiana all'invasione dell'Afghanistan al seguito degli Stati Uniti d'America, dal punto di vista del diritto internazionale, è stata del tutto illegittima, avendo lo scopo di infliggere una punizione collettiva al popolo afgano, nonostante fosse provato che gli attentatori dell'11 settembre del 2001 erano tutti cittadini dell'Arabia Saudita.
  La guerra in Afghanistan ha prodotto una destabilizzazione di tutta quell'area, rafforzando l'odio verso l'Occidente e potenziando il fondamentalismo islamico. Oltretutto, quando diciamo che controlliamo l'Afghanistan, bisogna spiegare che, praticamente, controlliamo a fatica solo il palazzo di Karzai. La storia di questi decenni dell'Afghanistan ha sempre dimostrato che l'invasione militare straniera, prima quella dell'impero britannico, poi quella disastrosa sovietica, per finire con quella della NATO, non ha mai portato soluzioni, ma ha solo aggravato la situazione delle popolazioni e contribuito a rendere endemico il conflitto armato.
  Non esiste, poi, la ragione umanitaria, per tanti motivi che i miei colleghi hanno spiegato. E poi, vogliamo andare sul fatto economico ? Si sono spesi così tanti soldi in questi 11 anni che, magari, oggi, nella situazione di crisi che attraversiamo, ci sarebbero stati utili per tanti motivi, per la piccola e media impresa piuttosto che per i pensionati che prendono 400 o 500 euro. Noi, nonostante tutto, affrontando questo decreto con tutte queste criticità, abbiamo provato, con degli emendamenti, a migliorarlo.
  Con uno di questi, per esempio – noi abbiamo chiesto da sempre il ritiro immediato abbiamo chiesto almeno che il 50 per cento delle truppe, entro il 2013, potesse rientrare. Poi abbiamo chiesto che 250 militari rientrino entro la fine dell'anno: vediamo se sarà possibile. Con un altro emendamento, invece, vogliamo sostenere quelle politiche di pace che tendono a stabilizzare le operazioni su questi Paesi, perché non è con la guerra che si ottiene la pace, ma con altri interventi, per esempio dando istruzione e lavoro.
  Veniamo alle azioni antipirateria: purtroppo è accertato visto il protrarsi di diverse e disorganiche missioni contro la cosiddetta pirateria internazionale che esse devono essere rivisitate alla luce dei frequenti incidenti in mare e della destabilizzazione prodotta in Somalia. Nello specifico, ci riferiamo al tema della presenza dei militari sulle navi, i nuclei di protezione militare, e, come MoVimento 5 Stelle, presenteremo un ordine del giorno per far sì che queste iniziative non vengano rifinanziate.
  Parliamo, poi, della Repubblica del Gibuti: vi è stata una cessione di armi a tale Repubblica che sembra quasi una «mazzetta», perché non vi è un accordo, un trattato, che regoli questo tipo di cessione. Magari, invece che regalare blindati, erano meglio ambulanze piuttosto che pulmini per portare a scuola i ragazzi. Magari l'educazione e la cultura risolvono in un'altra maniera: i conflitti si possono risolvere con la cultura, con l'istruzione (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).
  E questo vale per tutte le operazioni internazionali: puntiamo su questo piuttosto che sulla guerra, perché, con le bombe che uccidono persone, bambini, case, infrastrutture, lasciamo un deserto che difficilmente potrà essere recuperato in una situazione di crisi. Infatti, adesso noi abbiamo il disastro interno: come potremmo andare ad aiutare gli altri, se abbiamo la guerra in casa ? Questa è una mia personale osservazione.
  Poi vi è da parlare della Siria: riteniamo che l'invio di un diplomatico al confine turco-siriano non debba risolversi sempre con un conflitto bellico, perché è importante chiarire, sin da subito, che noi siamo per l'autodeterminazione dei popoli.
  È un popolo che, in base alla sua cultura, alla storia, riesce a risollevarsi. Pag. 53Noi siamo un esempio che i cittadini si sono risvegliati e sono entrati nelle istituzioni. Loro useranno altre strade, altri percorsi ed è giusto che il popolo si autodetermini in base anche alla propria storia. Noi per questo dobbiamo aiutarli, sempre senza interventi militari, ma sempre sfruttando la cultura, la cooperazione e le associazioni che ci sono già sui territori e che noi abbiamo anche incontrato.
  Vorrei concludere velocemente perché non voglio annoiarvi oltre modo, visto che siamo in pochi e l'attenzione magari è calata, ribadendo il fatto che ci auguriamo – noi ci proveremo con gli emendamenti, discutendo in Aula – di modificare un po’ questo decreto. Non so quanto sarà possibile, ma il nostro impegno sul campo sarà totale, a costo di stancarci e di stancarvi. Questo ve lo promettiamo sicuramente. Però è importante capire che il Governo, questo Governo, ma anche i prossimi Governi – poi magari ci saremo anche noi al Governo, vedremo – deve programmare determinate azioni, programmare qual è l'obiettivo, perché non è possibile fare le cose a caso senza un obiettivo finale. Non ci diamo mai una scadenza, non sappiamo mai quali sono gli stati di avanzamento, non sappiamo mai quali sono gli obiettivi che vogliamo raggiungere in un Paese piuttosto che in un altro. Siamo sempre lo zerbino di qualcuno, non si capisce perché, anzi si capisce, perché sono solo gli interessi economici che guidano tutte le missioni di guerra che voi chiamate di pace. Noi vogliamo dire no a questo tipo di soluzioni. Rifiutiamo di riflettere su come da qui in avanti andare ad affrontare determinate tematiche, perché non è possibile che per fare la pace bisogna comprare i cacciabombardieri (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).

  PRESIDENTE. Avverto che gli ulteriori deputati iscritti a parlare sul complesso degli emendamenti hanno comunicato alla Presidenza la rinuncia ad intervenire. Come già preannunciato, il seguito dell'esame del provvedimento con votazioni è rinviato alla prossima settimana.

Per la risposta a strumenti del sindacato ispettivo e sull'ordine dei lavori (ore 13,30).

  DAVIDE TRIPIEDI. Chiedo di parlare

  PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

  DAVIDE TRIPIEDI. Signor Presidente, io voglio essere molto chiaro. È da marzo che continuo a fare delle interrogazioni e il Governo non risponde a queste interrogazioni. Ma non è che non risponde a me personalmente, non risponde alla gente, agli imprenditori, agli operai, alla gente comune che chiede delle risposte. Io non so perché continuo a fare delle interrogazioni, se il Governo non mi risponde ! A questo punto o ci stiamo prendendo in giro o è inutile il lavoro che si sta facendo qui dentro. Io chiedo veramente, Presidente, che mi ascolti. Chiedo che venga data una risposta alle interrogazioni sia da parte mia che da parte di tutti i miei colleghi, perché io mi sento preso in giro, io e tutte quelle persone che mi hanno contattato per porre delle domande al Governo. Quindi, veramente: una risposta alla gente che ha bisogno di sapere (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle) !

  PRESIDENTE. Grazie, onorevole Tripiedi. Intendiamo il suo intervento come un sollecito alle interrogazioni di cui lei è primo firmatario.

  PAOLO PARENTELA. Chiedo di parlare.

  PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

  PAOLO PARENTELA. Signor Presidente, mi giunge notizia dell'ennesimo atto intimidatorio nei confronti dell'Associazione «Compresi gli ultimi» che opera nella città di Vibo Valentia. L'Associazione gestisce una bottega di commercio equo e Pag. 54solidale in cui sono venduti anche i prodotti delle terre confiscate alle mafie, ma non solo. «Compresi gli ultimi», infatti, si batte da anni a favore dell'acqua pubblica e si impegna ogni giorno per cercare di garantire ai cittadini del vibonese una gestione dei servizi idrici veramente efficiente. La provincia di Vibo Valentia, infatti, riceve l'acqua dall'invaso dell'Alaco, più volte al centro di inchieste rilevanti riguardo la reale salubrità dell'acqua che sgorga dai rubinetti di quasi mezzo milione di cittadini ed oggetto di un'interrogazione parlamentare depositata dalla collega Nesci e cofirmata dal sottoscritto.
  L'invaso, infatti, sarebbe inquinato da rifiuti tossici e avrebbe bisogno di analisi accurate, che ne stabiliscano la reale potabilità.
  Proprio nei giorni scorsi l'associazione «Compresi gli ultimi» aveva pubblicato ed espresso la volontà di denunciare tramite uno studio legale la pericolosa situazione dell'acqua vibonese. La risposta non è tardata ad arrivare e davanti alla bottega, dove da sempre campeggiano le bandiere pro acqua pubblica, le aste sono state trovate distrutte, senza più le bandiere.
  Atto intimidatorio o semplice vandalismo ? Non è difficile immaginare, vista la coincidenza degli avvenimenti, che non si tratti di semplice vandalismo. La faccenda dell'acqua del vibonese ha portato negli anni a diversi atti intimidatori, ma i cittadini, stanchi di bere acqua avvelenata, dal benzene e non solo, al fine di salvaguardare l'interesse dei soliti noti, non hanno smesso di lottare.
  Spero e credo che neanche questo gesto basti per fermare la loro lotta. Dal canto mio rinnovo il nostro costante impegno a fare in modo che questo schifo abbia fine. La loro violenza non metterà fine alle lotte di quei cittadini calabresi che sono stanchi di piegarsi alle logiche mafiose che pervadono la nostra regione.
  Quindi, oltre ad esprimere solidarietà per l'accaduto, signor Presidente, volevo cogliere l'occasione anche per sollecitare appunto la risposta alla nostra interrogazione.

  PRESIDENTE. Però lei ha esaurito il tempo, quindi sia brevissimo.

  PAOLO PARENTELA. Sì, signor Presidente, infatti è stata depositata sei mesi fa e ancora non ha avuto risposta. Ve ne saremmo grati noi e centinaia di migliaia di cittadini calabresi, che oggi non hanno questo accesso al diritto a questo bene comune che è l'acqua pubblica.

Ordine del giorno della seduta di domani.

  PRESIDENTE. Comunico l'ordine del giorno della seduta di domani.

  Venerdì 8 novembre 2013, alle 9:

  Svolgimento di interpellanze urgenti.

  La seduta termina alle 13,30.

ERRATA CORRIGE

  Nel resoconto stenografico della seduta del 6 novembre 2013:
  a pagina 112, prima colonna, ventiquattresima riga, dopo la parola «quotidiane.» inserire le seguenti: «PRESIDENTE. Onorevole Di Battista, se ha vinto il concorso da stenografo può stare lì, altrimenti...

  MIRKO BUSTO. Vuole sempre la scena...».

VOTAZIONI QUALIFICATE EFFETTUATE MEDIANTE PROCEDIMENTO ELETTRONICO

INDICE ELENCO N. 1 DI 1 (VOTAZIONI DAL N. 1 AL N. 1)
Votazione O G G E T T O Risultato Esito
Num Tipo Pres Vot Ast Magg Fav Contr Miss
1 Nom. chiusura discussione generale 342 328 14 165 247 81 74 Appr.

F = Voto favorevole (in votazione palese). – C = Voto contrario (in votazione palese). – V = Partecipazione al voto (in votazione segreta). – A = Astensione. – M = Deputato in missione. – T = Presidente di turno. – P = Partecipazione a votazione in cui è mancato il numero legale. – X = Non in carica.
Le votazioni annullate sono riportate senza alcun simbolo. Ogni singolo elenco contiene fino a 13 votazioni. Agli elenchi è premesso un indice che riporta il numero, il tipo, l'oggetto, il risultato e l'esito di ogni singola votazione.