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Resoconto dell'Assemblea

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XVII LEGISLATURA

Allegato A

Seduta di Lunedì 11 maggio 2015

COMUNICAZIONI

Missioni valevoli nella seduta dell'11 maggio 2015.

  Angelino Alfano, Gioacchino Alfano, Amici, Baldelli, Bellanova, Dorina Bianchi, Biondelli, Bobba, Bocci, Boccuzzi, Bonifazi, Michele Bordo, Borletti Dell'Acqua, Boschi, Brambilla, Bratti, Bressa, Brunetta, Caparini, Casero, Castiglione, Chaouki, Chimienti, Cicchitto, Cirielli, Cominelli, Costa, D'Alia, D'Ambrosio, Dadone, Dambruoso, Damiano, De Micheli, Del Basso de Caro, Dellai, Di Gioia, Di Lello, Dieni, Faraone, Fedriga, Ferranti, Fico, Fioroni, Gregorio Fontana, Fontanelli, Formisano, Franceschini, Giachetti, Giacomelli, Giancarlo Giorgetti, Gozi, Gribaudo, La Russa, Lorenzin, Lotti, Lupi, Lupo, Madia, Manciulli, Merlo, Migliore, Orlando, Pes, Pisicchio, Pistelli, Polverini, Portas, Rampelli, Ravetto, Realacci, Domenico Rossi, Rughetti, Sani, Scalfarotto, Scotto, Simonetti, Sisto, Tabacci, Tidei, Velo, Vignali, Zanetti, Zolezzi.

Annunzio di proposte di legge.

  In data 8 maggio 2015 sono state presentate alla Presidenza le seguenti proposte di legge d'iniziativa delle deputate:
  ROSSOMANDO: «Norme in materia di crediti derivanti dalla prestazione del patrocinio a spese dello Stato» (3109);
  RICCIATTI: «Introduzione dell'articolo 610-bis del codice penale, in materia di atti di discriminazione o di persecuzione psicologica in ambito lavorativo» (3110).

  Saranno stampate e distribuite.

Trasmissione dalla Corte dei conti.

  Il Presidente della Sezione del controllo sugli enti della Corte dei conti, con lettera in data 7 maggio 2015, ha trasmesso, ai sensi dell'articolo 7 della legge 21 marzo 1958, n. 259, la determinazione e la relazione riferite al risultato del controllo eseguito sulla gestione finanziaria del Formez PA – Centro servizi, assistenza, studi e formazione per l'ammodernamento delle PA, per l'esercizio 2013. Alla determinazione sono allegati i documenti rimessi dall'ente ai sensi dell'articolo 4, primo comma, della citata legge n. 259 del 1958 (Doc. XV, n. 270).

  Questi documenti sono trasmessi alla I Commissione (Affari costituzionali), alla V Commissione (Bilancio) e alla XI Commissione (Lavoro).

Trasmissione dal Dipartimento per le politiche europee della Presidenza del Consiglio dei ministri.

  Il Dipartimento per le politiche europee della Presidenza del Consiglio dei ministri, in data 8 maggio 2015, ha trasmesso, ai sensi dell'articolo 6, commi 4 e 5, della legge 24 dicembre 2012, n. 234, la relazione in merito alla proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica il regolamento (UE) n. 1304/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio relativo al Fondo sociale europeo, per quanto riguarda un aumento del prefinanziamento iniziale versato a programmi operativi sostenuti dall'Iniziativa a favore dell'occupazione giovanile (COM(2015) 46 final).

  Questa relazione è trasmessa alla XI Commissione (Lavoro) e alla XIV Commissione (Politiche dell'Unione europea).

Annunzio di progetti di atti dell'Unione europea.

  La Commissione europea, in data 8 maggio 2015, ha trasmesso, in attuazione del Protocollo sul ruolo dei Parlamenti allegato al Trattato sull'Unione europea, i seguenti progetti di atti dell'Unione stessa, nonché atti preordinati alla formulazione degli stessi, che sono assegnati, ai sensi dell'articolo 127 del Regolamento, alle sottoindicate Commissioni, con il parere della XIV Commissione (Politiche dell'Unione europea):
   Relazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni – Relazione 2014 sull'applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (COM(2015) 191 final), che è assegnata in sede primaria alla I Commissione (Affari costituzionali);
   Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni – Strategia per il mercato unico digitale in Europa (COM(2015) 192 final), che è assegnata in sede primaria alle Commissioni riunite IX (Trasporti) e X (Attività produttive);
   Relazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio sull'attuazione del regolamento (CE) n. 789/2004 relativo al trasferimento delle navi da carico e passeggeri tra registri all'interno della Comunità (COM(2015) 195 final), che è assegnata in sede primaria alla IX Commissione (Trasporti).

Trasmissione dall'Assemblea regionale siciliana.

  Il Presidente del Consiglio dell'Assemblea regionale siciliana, con lettera in data 4 maggio 2015, ha trasmesso una mozione, approvata dalla medesima Assemblea, concernente il mantenimento degli attuali distretti di corte d'appello in Sicilia.

  Questo documento è trasmesso alla II Commissione (Giustizia).

Trasmissione dal Consiglio regionale della Lombardia.

  Il Presidente del Consiglio regionale della Lombardia, con lettera in data 30 aprile 2015, ha trasmesso un voto, approvato dal medesimo Consiglio il 21 aprile 2015, volto a chiedere un'adeguata tutela del settore dell'autoriparazione, nel contesto delle norme in materia di assicurazioni contenute nel disegno di legge recante «Legge annuale per il mercato e la concorrenza» (atto Camera n. 3012).

  Questo documento è trasmesso alla VI Commissione (Finanze) e alla X Commissione (Attività produttive).

Trasmissione dal Commissario straordinario del Governo per il piano di rientro del debito pregresso di Roma Capitale.

  Il Commissario straordinario del Governo per il piano di rientro del debito pregresso di Roma Capitale, con lettera in data 7 maggio 2015, ha trasmesso, ai sensi dell'articolo 14, comma 13-quater, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, introdotto dall'articolo 13, comma 1, del decreto legislativo 18 aprile 2012, n. 61, la relazione concernente la rendicontazione delle attività svolte dalla gestione commissariale, riferita all'anno 2014 (Doc. CC, n. 3).

  Questa relazione è trasmessa alla I Commissione (Affari costituzionali) e alla V Commissione (Bilancio).

Atti di controllo e di indirizzo.

  Gli atti di controllo e di indirizzo presentati sono pubblicati nell’Allegato B al resoconto della seduta odierna.

MOZIONI CAPELLI, PIRAS, VARGIU ED ALTRI N. 1-00697, NICOLA BIANCHI ED ALTRI N. 1-00850, NIZZI ED ALTRI N. 1-00851, MURA ED ALTRI N. 1-00854 E PISO ED ALTRI N. 1-00855, CONCERNENTI INTERVENTI A FAVORE DELLA SARDEGNA

Mozioni

   La Camera,
   premesso che:
    dai dati emersi dalla rilevazione Svimez 2014 continua a registrarsi, per la regione Sardegna, una tendenza fortemente negativa che si riassume con i seguenti dati: diminuzione del prodotto interno lordo rispetto all'anno 2013 pari al 4,4 per cento, perdendo complessivamente negli anni di crisi dal 2007 oltre il 13 per cento di prodotto, tasso di natalità inferiore di due punti percentuale rispetto al tasso di mortalità, ripresa delle emigrazioni con un saldo migratorio (-1,2 per cento), occupazione diminuita del 7,3 per cento nel biennio 2012-2013, tasso di disoccupazione ufficiale pari al 17,5 con tasso di disoccupazione giovanile (giovani con meno di 24 anni) pari al 54 per cento, un aumento della percentuale di laureati emigrati (21,6 per cento) e un tasso di dispersione scolastica pari al 25 per cento, percentuale di famiglie povere pari al 24,8 per cento, saldo fortemente negativo nell'immediato ma con una pesante tendenziale conferma per quel che concerne il numero di cessazioni di imprese, procedure fallimentari e aziende avviate alla liquidazione;
    i dati sopra indicati, comuni peraltro alle regioni del Centro-Sud dell'Italia, si inseriscono in una realtà già gravemente pregiudicata dalla mancata risoluzione di vertenze aperte da troppo tempo con lo Stato italiano;
    la situazione in cui versa la regione è sicuramente anche il frutto del mancato pieno utilizzo delle potenzialità dell'autonomia speciale, ma ancor più gravi sono le responsabilità in capo allo Stato italiano, sempre più patrigno, nella gestione e risoluzione di questioni centrali per l'economia isolana;
    in tale contesto rileva che, a fronte del riconoscimento statutario di quote di compartecipazione alle entrate erariali, spettanti alla regione Sardegna, persistono tuttora difformità di interpretazione in merito ad alcuni tributi erariali e residua un debito statale – di circa un miliardo di euro – da saldare nei confronti della regione sarda, ancora più insopportabile in un momento di forti tagli alla spesa pubblica e tenuto conto che la regione Sardegna attuerà il pareggio di bilancio contribuendo al debito dello Stato per oltre 570 milioni di euro – anni 2013-2014, con una previsione di aumento per il 2015 di 97 milioni di euro. Lo Stato, su questo punto, è inadempiente, come confermato anche dalla sentenza del 2012 della Corte costituzionale e sarebbe necessario trovare urgentemente una soluzione condivisa che detti criteri certi di suddivisione delle quote e determini un maggior rafforzamento del ruolo della regione per risolvere, anche per il futuro, la vertenza;
    in Sardegna oltre 35.000 ettari di territorio sono sotto vincolo di servitù militare. L'isola ospita, infatti, strutture ed infrastrutture al servizio delle Forze armate italiane e della Nato: i poligoni missilistici (Perdasdefogu) e per le esercitazioni aeree (Capo Frasca) e a fuoco (Capo Teulada), aeroporti militari (Decimomannu) e depositi. La necessità di una riduzione della presenza militare nell'isola è ormai stata riconosciuta in tutte le sedi. Il consiglio regionale, con ordine del giorno n. 9 del 17 giugno 2014, ha impegnato la giunta regionale a chiedere, tra gli altri punti, un riequilibrio in termini di compensazione economica rispetto ai danni ambientali, sanitari ed economici subiti nel corso degli anni a causa del gravame militare nell'isola e la progressiva diminuzione delle aree soggette a vincoli militari e la dismissione dei poligoni. Tuttavia, anche su questo tema, il Governo appare arroccato sulle sue posizioni, ritenendo prevalenti i supremi interessi nazionali rispetto agli interessi del territorio. Anzi, con il decreto-legge 24 giugno 2014, n. 91, si parificano per le «aree dove si svolgono esercitazioni militari» le concentrazioni di soglia di contaminazione alle «aree industriali», determinando, in tal modo, gravi pregiudizi al territorio limitrofo, prevalentemente residenziale, all'ambiente, all'agricoltura;
    sempre con riferimento alle servitù militari, un discorso a parte merita la vicenda del poligono sperimentale di addestramento interforze (Salto di Quirra), situato a nord di Cagliari che, con i suoi 120 chilometri quadrati di estensione, è la più importante base europea per la sperimentazione di nuovi missili, razzi e radio bersagli. Ebbene, nel gennaio del 2011, si apre un'inchiesta che porterà alla luce la terribile scoperta che il poligono è stato, per anni, utilizzato come una vera e propria discarica di materiale militare dove si è smaltito uranio impoverito e torio radioattivo. Quest'ultimo, a seguito delle indagini e dei prelievi effettuati è stato ritrovato in diversi alimenti umani e nelle ossa di alcuni pastori deceduti, che, per la loro attività, avevano accesso all'interno del poligono;
    sempre in merito alle servitù militari, il Ministro della difesa Roberta Pinotti ha imposto, unilateralmente, per altri 5 anni i vincoli su Santo Stefano. Il Presidente Pigliaru ha presentato ricorso contro l'imposizione della servitù militare su Guardia del Moro alla Maddalena e chiesto al Consiglio dei ministri un riesame del decreto impositivo della servitù, ma resta il dato di fatto: nonostante la regione Sardegna, attraverso il suo consiglio regionale e la sua popolazione, siano apertamente contro le servitù militari, nonostante il mancato rinnovo della servitù nei tempi consentiti e nonostante il contenzioso in atto con il comune di La Maddalena, il Governo è andato avanti unilateralmente, anteponendo ancora una volta i supremi interessi della «difesa nazionale» alle esigenze dei territori. La procedura della reimposizione sarebbe, dal punto di vista amministrativo, improponibile in quanto lesiva dei principi di sussidiarietà e leale collaborazione introdotti dalla modifica del titolo V della Costituzione. Anche il tribunale amministrativo regionale della Sardegna, con una pronuncia del 2012, ha stabilito che l'interesse alla difesa non è superiore all'interesse della comunità locale, definendo entrambi di massimo rilievo e di natura sensibile e ricordando che «le servitù hanno carattere temporaneo proprio perché legate all'esigenza di valutare e rivalutare le situazioni, tenendo conto dei cambiamenti che vive il territorio su cui sono calate»;
    quando lo Stato italiano avrebbe potuto rimediare almeno in parte di danni subiti da questo territorio, non ha invece adempiuto ai propri impegni in occasione del G8 della Maddalena, privando, dapprima, l'isola della possibilità di una vetrina a livello internazionale e trasferendo d'ufficio il vertice in altra regione e, successivamente, non dando corso agli impegni presi in ordine alla bonifica del territorio – impedendo conseguentemente la realizzazione dell'accordo del 2009 con imprese private (di recente, a causa di tale inadempimento la protezione civile è stata condannata a pagare alla società aggiudicatrice circa 36 milioni di euro). Attualmente, pertanto, le acque che dovevamo essere bonificate risultano ancora inquinate e le strutture costruite in stato di abbandono. In generale, il tema dell'ambiente è uno di quelli maggiormente colpiti dall'incuria statale, in quanto sono diversi i siti inquinati che dovrebbero essere oggetto di attenzione da parte del Governo italiano, in particolare quei siti industriali insediati dalle note aziende partecipate statali, che da Porto Torres al Sulcis, passando per la piana di Ottana nel centro Sardegna, hanno compromesso territori di incomparabile bellezza;
    la negazione da parte dello Stato italiano dell'articolo 14 dello statuto della regione Sardegna che prevede la restituzione al patrimonio regionale di tutte le aree demaniali (comprese quelle costiere) e militari nazionali, che non siano più giudicate strategiche ai fini di interesse pubblico, costituisce un ulteriore freno a possibili opportunità di sviluppo economico, soprattutto in ambito turistico ed ambientale, in vaste aree del territorio sardo;
    attenzione che, comunque, il Governo non sembra di avere in merito ad un altro aspetto. La Sardegna, infatti, potrebbe essere prescelta per lo stoccaggio di scorie nucleari radioattive. La notizia in merito alla destinazione di questi rifiuti, già assunta dal comitato interministeriale, è stata rimandata al 3 gennaio 2015, in quanto la società pubblica Sogin si è presa qualche altro giorno di tempo. A nulla sembrano essere servite le prese di posizione dei cittadini sardi che, già nel 2011, con un referendum consultivo avevano detto «no» al nucleare in Sardegna e del governo regionale che, a settembre 2014 con un ordine del giorno, votato all'unanimità, si è impegnato a portare all'attenzione del Governo l'impegno che: «La Sardegna non deve essere inclusa nella lista delle regioni candidate ad ospitare siti nucleari»;
    una nuova «servitù» sembra contraddistinguere la Sardegna: quella relativa al regime carcerario per i detenuti ai sensi dell'articolo 41-bis. A seguito, infatti, della recente revisione normativa, dove si statuisce «preferibilmente detenuti nelle aree insulari», sembra che l'isola sia stata trasformata nell'area per eccellenza di detenzione di mafiosi, ergastolani e terroristi. Non va dimenticato che, anche di recente, è stata ventilata la demenziale proposta di una possibile riapertura del carcere dell'Asinara. A questo si deve aggiungere la presenza sul territorio sardo di un numero di strutture carcerarie più elevato rispetto alle altre regioni italiane (2.700 posti detentivi per 1 milione e 600 mila abitanti) che determineranno il trasferimento dalla penisola, in contrasto con il principio della «territorializzazione» della pena sancita dall'ordinamento penitenziario, di un numero elevato di detenuti. Ancora una volta, gli interessi nazionali prevalgono sugli interessi del territorio e ancora una volta un nuovo peso si aggiunge a quelli già presenti sul territorio sardo;
    con riferimento, invece, alle calamità naturali che hanno colpito la regione nel novembre 2013, lo Stato deve rispettare i propri impegni anche su tale versante, tenuto conto che, ad oggi, si registrano ritardi nei tempi e nelle entità dei risarcimenti dovuti. Spiace, peraltro, constatare una diversità di trattamento rispetto ad altre regioni che purtroppo hanno dovuto affrontare la stessa problematica – ad esempio, in Emilia-Romagna lo Stato è intervenuto con il decreto-legge n. 74 del 2014, recante disposizioni urgenti per l'Emilia-Romagna. A fronte della catastrofe immane che ha colpito duramente il territorio sardo (19 morti, 2.700 sfollati e circa 700 milioni di danni) lo stesso presidente della regione ha pubblicamente ricordato che lo Stato non ha praticamente dato nulla alla causa sarda e che mancherebbero all'appello circa 474 milioni di euro. Anche di recente si è cercato con emendamenti a diversi provvedimenti all'esame del Parlamento di prevedere l'esclusione dal patto di stabilità di tutti gli stanziamenti per opere e interventi legati all'evento alluvionale, compresi anche i fondi avuti dai comuni in beneficenza, ma il Governo continua ad essere sordo;
    di recente poi, l'articolo 38 del decreto-legge n. 133 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 164 del 2011, rubricato «Misure per la valorizzazione delle risorse energetiche nazionali», ha tolto di fatto agli enti locali – non solo sardi – il potere di veto su ricerca di petrolio e trivellazioni, trasferendo la competenza delle valutazioni di impatto ambientale su attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi e di stoccaggio sotterraneo di gas naturale dalla regione allo Stato. In Sardegna, l'effetto della norma si avrà sulla zona di Arborea, interessata dal cosiddetto progetto Eleonora, rispetto al quale gran parte della popolazione è contraria. In un'area di eccezionale interesse naturalistico, a forte vocazione agricola, si vorrebbe autorizzare la trivellazione per la ricerca di giacimenti di gas naturale;
    in Sardegna, inoltre, la produzione di energia dall'uso idroelettrico è piuttosto diffusa e si concentra sui bacini dei fiumi principali, con modeste attività in alcune altre piccole centrali periferiche. La regione, con legge regionale n. 19 del 2006, è subentrata nella titolarità delle concessioni inerenti l'utilizzo dell'acqua, ma la procedura di subentro non è stata completata per gli invasi sfruttati dall’Enel per uso idroelettrico. Enel continua a gestire secondo i firmatari del presente atto di indirizzo impropriamente le centrali, confidando sull'applicazione del decreto legislativo n. 79 del 1999, che ha prorogato le concessioni fino al 2029. Le parti sembrerebbero vicine ad un accordo per la gestione comune delle acque per evitare un contenzioso dovuto, ancora una volta, ad una contraddizione – almeno lamentata da una delle parti – tra una legge statale e regionale. Occorre che lo Stato, anche su questo punto, riconosca i torti subiti fino ad oggi dalla regione;
    la regione per soddisfare esigenze non proprie sta diventando una grande piattaforma di produzione di energia attraverso la costruzione di impianti fotovoltaici, di impianti eolici, lo scavo di pozzi marini per la ricerca del gas naturale. Ferme restando le responsabilità regionali per la mancanza di un piano energetico, la questione del costo dell'energia resta un problema irrisolto e trascurato che compromette pesantemente lo sviluppo economico dell'isola. Sul punto spicca la questione del riconoscimento del regime di essenzialità per gli impianti di produzione sardi, in particolare per quello di Ottana: infatti, la regione è in attesa della proroga anche per il 2015 e del parere dell'Autorità per l'energia elettrica, il gas e il sistema idrico. Il riconoscimento dell'essenzialità è fondamentale per permettere ai gestori delle centrali sarde di vedersi riconosciuti da Terna i costi di produzione dell'energia e garantire pertanto alle imprese sarde di poter fruire di prezzi dell'energia più bassi. Questo avviene in un contesto segnato dalla mancata metanizzazione e da costi per energia altissimi: occorre, infatti, ricordare, che la Sardegna è l'unica regione a non avere il metano (a seguito anche dell'uscita dal progetto Galsi, società sostenuta, oltre che dalla regione, anche da Enel ed Edison) e che l'energia ha il costo più elevato d'Italia – 15 per cento in più – Paese peraltro in cui l'energia ha già un costo maggiore rispetto al resto d'Europa);
    la mobilità è un diritto ancora non pienamente riconosciuto alla Sardegna. Il diritto alla mobilità, riconosciuto dall'articolo 16 della Costituzione, deve essere inteso come garanzia per ogni cittadino del trasporto indipendentemente dalla realtà geografica nella quale vive. La continuità territoriale deve eliminare gli svantaggi delle aree del Paese dovute a distanze o insularità. L'articolo 53 dello statuto sardo dispone che la regione sia rappresentata nell'elaborazione delle tariffe ferroviarie e nella regolamentazione dei servizi nazionali di comunicazione e trasporti terrestri, marittimi ed aerei che possano direttamente interessarla. Fino ad oggi, invece, anche su questo punto si deve registrare un atteggiamento poco rispettoso delle competenze regionali, tanto che la Corte costituzionale, in materia di trasporto marittimo, ha riconosciuto recentemente fondato il ricorso proposto dalla regione volto al riconoscimento del diritto ad una partecipazione effettiva al procedimento in materia di trasporto marittimo. Nelle materie in cui si registra una sovrapposizione di competenze deve essere valorizzato il principio di leale collaborazione; in particolare, ad avviso della Corte costituzionale, le decisioni assunte in materia dallo Stato toccano interessi indifferenziati della regione ed interferiscono in misura rilevante con scelte rientranti nella competenza della regione; pertanto, la regione ha diritto a partecipare ai procedimenti in materia. Occorre, inoltre, vigilare, per evitare, come accaduto in passato, la creazione di pericolosi monopoli nei trasporti marittimi (si deve registrare il caso recente di una pericolosa scalata da parte del gruppo Moby all'interno della società Compagnia italiana di navigazione spa). Si deve, inoltre, ricordare che la regione Sardegna, a seguito dell'accordo stipulato con lo Stato nel 2006 si è accollata interamente le spese sul trasporto pubblico locale che in altre regioni sono finanziate attraverso compartecipazioni a tributi erariali. La provincia di Nuoro, insieme a quella di Matera, è l'unica provincia italiana non servita dalla linea principale a scartamento ordinario delle Ferrovie dello Stato, essendo coperta solo da un tratto a scartamento ridotto, gestito attualmente dall’Arst, società pubblica regionale, e non rientrando nel novero delle grandi opere infrastrutturali dello Stato;
    diversi sono inoltre i casi che hanno interessato la regione sul fronte del lavoro. Per quanto riguarda l'occupazione le responsabilità non sono certamente solo politiche, in quanto è evidente che la produzione industriale rientra in un contesto di mercato e di competitività nazionale, ma occorre ricordare l'assenza di una strategia nazionale industriale e il fatto che la chiusura di molti stabilimenti è la conseguenza degli alti costi di produzione che paga l'insularità (per tutti si cita il caso del sito industriale di Portovesme, uno dei più grandi poli di metallurgia non ferrosa, gestito fino a poco tempo fa da società private come Alcoa, leader mondiale nella produzione di alluminio, la quale ha comunicato la chiusura dello stabilimento sardo nel 2012);
    legato ai problemi dell'insularità e alla crisi occupazionale è la vicenda della compagnia aerea Meridiana (di cui fanno parte, oltre la compagnia aerea, anche Meridiana maintenance, società di manutenzione, Geasar spa, società di gestione dell'aeroporto di Olbia). Ad oggi nessuna soluzione sembra palesarsi all'orizzonte e circa 1.600 dipendenti rischiano il licenziamento. Anche in questo caso l'atteggiamento del Governo italiano è apparso poco incisivo: questo è più che mai evidente, secondo i firmatari del presente atto di indirizzo, nella risposta all'interrogazione n. 3-01155 che il Ministro Lupi ha dato l'11 novembre 2014 nell'aula di Montecitorio;
    anche per quanto riguarda il settore agricoltura non sono state tenute in debita considerazione le specificità sarde, comuni peraltro anche ad altre regioni. Agea, ente nazionale, incurante delle procedure stabilite e validate precedentemente, con un atteggiamento vessatorio verso le peculiarità dell'agricoltura italiana ha dato indicazioni operative ai suoi tecnici rilevatori per una riclassificazione che, ha comportato per la Sardegna e per le altre regioni interessate dalla «macchia mediterranea», la perdita di migliaia di ettari di superficie – 280.000 ettari circa di superficie coltivabile e finanziabile precedentemente riconosciuti – con la conseguenza che, per tantissime domande, presentate a valere sul programma di sviluppo rurale e sulla politica agricola comune, oggi sono riscontrabili gravi anomalie particellari e, di conseguenza, il rischio reale che centinaia o migliaia di operatori del settore debbano restituire somme già percepite. Si è richiesto già al Governo – con la risoluzione n. 7-00396 – un intervento presso l'organismo pagatore Agea affinché sospenda gli effetti del nuovo ciclo di refresh, evitando, in particolare, iscrizioni massive nella banca dati debitori di aziende che invece presentano titoli e requisiti per l'accesso ai premi comunitari;
    altro problema è quello relativo al dimensionamento scolastico che rappresenta forse più di ogni altro come le decisioni prese dall'alto poco si adattino a territori con caratteristiche morfologiche del tutto particolari come è la Sardegna. Anche se dalle aule dei tribunali continuano ad arrivare espressioni negative contro la legge che ha disposto le cancellazioni e gli accorpamenti degli istituti – il decreto-legge n. 98 del 2011 ha fissato l'obbligo di fusione degli istituti comprensivi delle scuole dell'infanzia, elementari e medie con meno di 1.000 alunni, ridotti a 500 per le istituzioni site nelle piccole isole, nei comuni montani, nelle aree geografiche caratterizzate da specificità linguistiche – tale provvedimento comunque ha, di fatto, causato la cancellazione di oltre 1.700 scuole. Seppur reputato «costituzionalmente illegittimo» dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 147 del 2012, occorre in questa sede rilevare come la disposizione non solo contrasta con ogni criterio didattico-pedagogico, comportando la creazione di istituti scolastici abnormi, di difficile gestione e governabilità, ma ha effetti ancora più negativi in un territorio come quello sardo, costringendo a gravosi spostamenti intere famiglie e rappresentando un ulteriore deterrente alla prosecuzione del cammino scolastico degli studenti, in una regione, come in precedenza evidenziato, con il più alto tasso di dispersione scolastica;
    infine, a fronte degli oneri e delle servitù gravanti sul territorio sardo, lo Stato italiano continua a dismettere presidi importanti per il territorio (caserme, uffici dei giudici di pace, tribunali, uffici della motorizzazione civile, sedi della Banca d'Italia), proponendo accorpamenti che ancora una volta non tengono conto delle specificità del territorio isolano, costituito da aree con scarsa densità di popolazione e da collegamenti molto spesso difficili;
    le considerazioni sopra esposte evidenziano la persistente prevalenza dell'interesse nazionale rispetto a quello territoriale, segnando profondamente il modo di essere di una regione e, in taluni casi, rischia di compromettere definitivamente la sua vocazione naturale, turistica e culturale;
    sussiste una «specificità» Sardegna dettata anche da un riconoscimento costituzionalmente garantito in merito alla «specialità», che deve essere affrontata autonomamente ed inserita con urgenza nell'agenda dei lavori dal Governo, in modo tale da risolvere definitivamente problematiche che durano da troppo tempo, anche attraverso un ripensamento delle attuali competenze,

impegna il Governo:

   nelle questioni sopra richiamate, ad attivarsi concretamente al fine di superare le criticità esistenti, tenendo nel debito conto gli interessi territoriali in base anche al principio della leale collaborazione tra enti e comunque nel pieno rispetto degli interessi di cui è portatrice la Regione autonoma della Sardegna;
   a prestare un'attenzione «particolare» in termini di assunzione di responsabilità e di riconoscimento delle specificità della realtà e delle problematiche della Sardegna, affinché possano essere superate ed orientate ad una valorizzazione delle vocazioni principali dell'isola stessa;
   ad inserire nell'agenda dei lavori del Governo la questione Sardegna, anche attraverso l'istituzione di uno specifico tavolo di lavoro congiunto Stato-regione per l'esame urgente delle vertenze ancora aperte e per definire, in particolare, tutte le iniziative utili a garantire la loro risoluzione in tempi certi.
(1-00697) «Capelli, Piras, Vargiu, Dellai, Tabacci, Labriola, Di Gioia, Lo Monte, Fauttilli, Pinna».


   La Camera,
   premesso che:
    i dati contenuti nel rapporto Svimez 2014 sull'economia del Mezzogiorno, presentato a Roma il 28 ottobre 2014, offrono una fotografia allarmante della perdurante e gravissima crisi economica, sociale e finanziaria che la regione Sardegna sta attraversando. Nel 2013 nell'isola si è registrato un calo del prodotto interno lordo pari al 4,4 per cento rispetto al 2012. Dallo studio emergono anche altri dati preoccupanti: tasso di disoccupazione ufficiale pari al 17,5 per cento, tasso di disoccupazione giovanile (giovani con meno di 24 anni) pari al 54,2 per cento, percentuale di famiglie residenti monoreddito pari al 53,1 per cento, percentuale di famiglie povere sul totale famiglie (povertà relativa) nel 2013 pari al 24,8 per cento. I numeri che riguardano l'isola si inseriscono in un quadro negativo generale registrato per tutto il Centro-Sud d'Italia. Se si considera il dato cumulato dei sei anni di crisi, dal 2008 al 2013, la riduzione del prodotto interno lordo, che per la Sardegna è del 13 per cento, risulta per quasi tutte le regioni meridionali – ad eccezione del solo Abruzzo (-7,3 per cento) – di entità assai forte;
    è doveroso sottolineare che la situazione di stallo in cui versa oggi la regione Sardegna scaturisce da una serie infinita di scelte opinabili da parte della politica regionale e nazionale nel corso degli ultimi decenni. Gli amministratori locali che si sono succeduti nel tempo non sono stati in grado o non hanno avuto la volontà di attuare una programmazione nel medio e nel lungo periodo e non hanno sfruttato le potenzialità dell'autonomia speciale. Grandi responsabilità restano in capo anche e soprattutto ai Governi nazionali che non hanno mai prestato la dovuta attenzione alle problematiche dell'isola, ritenendo in numerosissime occasioni non prioritaria la ricerca delle soluzioni delle criticità presenti nel territorio;
    innumerevoli sono le vertenze con lo Stato italiano aperte da tempo e mai risolte. Tra i numerosi fallimenti che è impossibile non imputare a una politica incapace negli anni di compiere scelte risolutive è d'obbligo citare, in primo luogo, la perdurante «vertenza entrate», fondata sul riconoscimento dell'articolo 8 dello statuto autonomo. La Regione autonoma della Sardegna vanta da tempo un credito con lo Stato italiano di centinaia di milioni di euro per il mancato trasferimento di una parte consistente di entrate tributarie, come confermato dalla Corte costituzionale nel 2012. Nonostante l'annuncio, il 1o aprile 2015, dell'arrivo nelle casse regionali di 300 milioni di euro dallo Stato, come acconto del credito della regione per gli anni dal 2010 al 2014, la questione rimane ancora non conclusa, risultando pertanto necessario arrivare nel più breve tempo possibile a una soluzione definitiva e condivisa;
    la Sardegna, a causa della sua insularità, dell'ampiezza e della particolare conformazione del territorio, vive da sempre una condizione di svantaggio rispetto alla penisola in termini di erogazione di servizi e di potenzialità di sviluppo economico, aggravata dalla totale inadeguatezza del sistema dei trasporti e della viabilità e da una forte carenza infrastrutturale che ostacolano la circolazione di merci e persone. Il problema dei difficili collegamenti, sia via mare che via aerea, da e per il continente rappresenta una delle più grandi criticità per la regione, tanto da poter affermare che la popolazione sarda subisce costantemente una limitazione del pieno godimento del diritto alla mobilità e dello strumento della continuità territoriale, intesa come capacità di garantire un servizio di trasporto che non penalizzi cittadini residenti in territori meno favoriti. In data 18 luglio 2012 è stata stipulata tra il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e la Compagnia italiana di navigazione spa una convenzione che disciplina gli obblighi e i diritti derivanti dall'esercizio di servizi di collegamento marittimo in regime di pubblico servizio con le isole maggiori e minori, redatta ai sensi dell'articolo 1, comma 998, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, e dell'articolo 19-ter del decreto-legge n. 135 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 166 del 2009. A distanza di due anni e mezzo dalla firma è evidente che tale convenzione non ha portato alcun vantaggio alla regione Sardegna, né in termini economici né in termini di servizi offerti al cittadino, risultando pertanto necessaria, in vista della scadenza del primo periodo regolatorio stabilita per il 31 dicembre 2015, una profonda rivisitazione della stessa con miglioramenti e aggiustamenti che siano di reale garanzia degli interessi dell'utenza. I difficili e costosi collegamenti da e per l'isola, inoltre, rappresentano un freno anche per lo sviluppo turistico della regione, settore di rilevanza fondamentale che andrebbe maggiormente sostenuto, valorizzando l'immenso patrimonio naturalistico e artistico che la Sardegna offre;
    se i collegamenti da e per la penisola sono problematici, i trasporti all'interno dell'isola appaiono a loro volta carenti e inadeguati. L'utilizzo dei trasporti su rotaia è costantemente disincentivato a causa delle pessime condizioni in cui versa la rete ferroviaria della regione e del limitato numero di treni che percorre l'isola quotidianamente. La rete principale della Sardegna si compone solamente di quattro linee ferroviarie. Dei 432 chilometri a scartamento ordinario soltanto 51 sono a doppio binario. Interi territori, che comprendono anche comuni molto popolosi, non sono serviti da treni. Talvolta, l'unico modo per raggiungere le stazioni più vicine rispetto al luogo di residenza è utilizzare i mezzi propri. I pendolari sardi, inoltre, sono quotidianamente costretti ad estenuanti attese nelle stazioni e impiegano tempi molto lunghi per percorrere brevi distanze, con tutti i disagi che ne conseguono. Non meno critica è la situazione che riguarda le pericolose strade statali per le quali si aspettano, da tempo, interventi di ammodernamento e di messa in sicurezza. Anche a tal proposito non si può non sottolineare l'assoluta disattenzione nei confronti della Sardegna da parte di uno Stato centrale, che preferisce stanziare miliardi di euro per infrastrutture inutili e dannose a scapito di opere che sono necessarie e urgenti e che richiedono senza dubbio l'utilizzo di minori risorse;
    in Sardegna è in atto o è stato annunciato l'avvio di numerosi processi di privatizzazione di società a capitale pubblico, prevalentemente regionali. Molte delle aziende coinvolte fanno parte del settore dei trasporti, sia marittimi sia aerei. Si possono ricordare, soltanto per citare degli esempi, la Sardegna regionale marittima spa (Saremar), società di gestione del pubblico servizio di linea tra la Sardegna, le isole minori e la Corsica, il cui azionariato è oggi detenuto al 100 per cento dalla regione, e la società della regione Sogeaal spa, che gestisce l'aeroporto «Riviera del Corallo» di Alghero-Fertilia. Tali privatizzazioni, conseguenza di discutibili scelte politiche nazionali e regionali compiute nel tempo ed oggi presentate come unica soluzione per il mantenimento in vita delle società, destano preoccupazioni per il rischio di un abbassamento dei livelli di qualità dei servizi offerti al cittadino e della perdita di posti di lavoro;
    una delle più gravi criticità della Sardegna è l'altissimo tasso di disoccupazione, il cui aumento non pare arrestarsi, arrivando alla fine del 2014 al 18,2 per cento. Risulta pertanto necessaria e non più procrastinabile l'adozione di iniziative urgenti volte concretamente al superamento della drammatica crisi occupazionale che investe il territorio. L'emergenza occupazionale si ricollega indissolubilmente alle numerosissime crisi industriali che stanno attraversando le aziende presenti nella regione. Sono molte le imprese che sono state costrette a dichiarare fallimento o che sono in procinto di farlo, la cui chiusura, oltre a provocare un ulteriore freno allo sviluppo economico dell'isola, sta determinando pesanti perdite di posti di lavoro nell'ordine di decine di migliaia. Tra le maggiori realtà imprenditoriali interessate dalle crisi aziendali è doveroso ricordare, oltre all’Alcoa e all'ex-Ila, la Keller elettromeccanica spa, produttrice di carrozze ferroviarie con stabilimento primario a Villacidro e stabilimento secondario in Sicilia, il cui fallimento è stato recentemente decretato dalla corte d'appello del tribunale di Cagliari, che ha rigettato il ricorso contro la sentenza di primo grado presentato dai lavoratori, dalle organizzazioni sindacali, dalla regione Sardegna e dalla regione Sicilia insieme con il Ministero dello sviluppo economico;
    di grandi dimensioni è la vertenza Meridiana, gruppo di primaria importanza in Italia nel settore del trasporto aereo, che sta vivendo da tempo una profonda crisi aziendale. Il 15 settembre 2014 la compagnia ha comunicato l'avvio della procedura di mobilità e licenziamento collettivo per 1.634 lavoratori in esubero, di cui una rilevante percentuale residente in Sardegna. Dopo l'apertura di un tavolo tecnico interministeriale e la scelta, quasi obbligata, da parte di circa 300 dipendenti dell'esodo «incentivato», soltanto per citare le tappe più significative della vicenda, in data 30 aprile 2015 è stato siglato presso la sede del Ministero dello sviluppo economico un accordo grazie al quale 1.340 lavoratori potranno beneficiare di un altro anno di cassa integrazione straordinaria, il cui pagamento sarà anticipato dalla compagnia dell'Aga Khan. Per i dipendenti del gruppo che rischiano il licenziamento questo passo rappresenta senza dubbio un segnale positivo, ma si tratta soltanto di una soluzione provvisoria, risultando pertanto necessari interventi più incisivi da parte dei Ministeri competenti per scongiurare definitivamente il rischio del licenziamento collettivo, che, se verrà messo in atto, porterà per la Sardegna un ulteriore peggioramento della situazione occupazionale già drammatica;
    scarsa è l'attenzione prestata, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, dai Governi nazionali che si sono susseguiti negli anni rispetto al tema dell'inquinamento ambientale nella regione Sardegna. In particolare, l'industrializzazione e i processi di destrutturazione produttiva di aree di inestimabile bellezza, come il Sulcis-Iglesiente, hanno compromesso gli equilibri naturali, provocando pesanti danni all'ecosistema naturale e alla salute fisica e psichica della popolazione. Un'area gravemente colpita è quella di Portovesme. Nel grande polo industriale specializzato nella metallurgia non ferrosa, unico in Italia per le sue produzioni di alluminio da bauxite, zinco, piombo e acido solforico, oro, argento e alluminio primario, hanno operato a lungo industrie quali EurAllumina spa, Otefal sail spa, Portovesme srl, Alcoa, Rockwool Italia spa, Carbosulcis spa. La presenza di tre discariche di rifiuti industriali nel comune di Carbonia, di cui una dell'azienda Ecodump (di Riverso srl), una della Portovesme srl ed una della Carbosulcis spa, ha avuto conseguenze devastanti per il territorio che non possono essere sottovalutate. La discarica Ecodump, nel 2012, è finita al centro di un'inchiesta per traffico illecito di rifiuti pericolosi, falso ideologico e attività di gestione di rifiuti non autorizzata. Nel 2012 è stata aperta un'indagine per traffico di rifiuti altamente pericolosi prodotti dagli impianti della Portovesme srl che sarebbero stati smaltiti illecitamente in cave del territorio cagliaritano, con un risparmio per la società di circa 3,6 milioni di euro;
    preoccupano le possibili conseguenze negative che potrebbero derivare per l'ambiente e per la salute dei cittadini dai presunti sversamenti di olio combustibile nei terreni sottostanti i serbatoi di alimentazione dei gruppi 1 e 2 della centrale termoelettrica della E.on di Fiume Santo, situata nella zona nord occidentale della Sardegna, i cui dirigenti si sono trovati recentemente al centro delle cronache giudiziarie. Secondo la procura della Repubblica di Sassari, che ha coordinato le attività di polizia giudiziaria per oltre un anno, i manager, per garantire un risparmio di spesa alla multinazionale tedesca, avrebbero omesso di segnalare alle autorità competenti i suddetti sversamenti e avrebbero consentito, in questo modo, la persistente contaminazione dei terreni e delle falde acquifere del sito interessato, provocando un danno ambientale in aree di interesse pubblico;
    i dati sul rischio idrogeologico in tutto il Paese sono allarmanti e da soli sarebbero sufficienti a determinare un'inversione di rotta delle scelte strategiche che riguardano il territorio. La prevenzione del rischio idrogeologico e la messa in sicurezza del territorio sembrano essere non prioritarie rispetto alla realizzazione di opere faraoniche che portano nuovo cemento e continuano a consumare il suolo. In particolare, per quanto riguarda la Sardegna, l'espansione urbanistica di Olbia è stata inarrestabile e solo nel decennio 1997-2007, secondo Il Sole 24 ore, sono sorti «dal nulla» ventitré quartieri e diciassette piani di risanamento, con evidente scarsa attenzione ai potenziali rischi che ne sarebbero derivati. La Sardegna, se si prendono in considerazione soltanto gli ultimi anni, ha dovuto fronteggiare più di un centinaio di situazioni di dissesto idrogeologico che hanno causato morti e feriti e costretto migliaia di cittadini sardi allo sfollamento. L'alluvione che ha colpito decine di comuni della regione il 18 novembre 2013 è soltanto l'evento naturale più noto. È necessario constatare, anche su questo tema, una forte contraddizione da parte dei Governi che si sono succeduti nel Paese, tra ciò che si annuncia e ciò che in realtà viene realizzato. Dopo le buone intenzioni manifestate «a caldo» e gli impegni assunti nell'immediato, oggi si devono purtroppo ancora registrare fortissimi ritardi nella consegna delle risorse necessarie per far fronte ai danni causati dalla calamità naturale e «l'emergenza Sardegna», seppur ancora molto sentita dai cittadini del territorio sardo, a Roma sembra che sia stata dimenticata. A distanza di quasi un anno, inoltre, dalle piogge alluvionali che hanno colpito pesantemente il nord Sardegna e prevalentemente i comuni di Sorso e Sennori il 18 giugno 2014, provocando danni ingenti – in particolare alle colture e alle infrastrutture – che ammontano a circa 36 milioni di euro, nessun intervento, a quanto risulta, è stato adottato dal Governo in merito;
    in Sardegna, soprattutto nelle stagioni calde, si verifica un numero impressionante di incendi. Il 30 per cento del territorio italiano è costituito da boschi, habitat di moltissime specie naturali e vegetali. Il ricco patrimonio forestale del Paese non è adeguatamente tutelato e ogni anno migliaia di ettari di bosco (circa il 12 per cento negli ultimi 30 anni) vengono distrutti da incendi dolosi e colposi. La Sardegna è la prima regione in Italia per numero di morti a causa di roghi: 73 dal 1945 ad oggi. Molto spesso la scarsa disponibilità di mezzi, soprattutto d'aria, rende più complessi e meno tempestivi gli interventi per sedare gli incendi. Nel luglio 2014 in poche ore nell'area collinare di Sibiri e delle campagne che si trovano nel triangolo tra Guspini, Gonnosfanadiga e Arbus sono andate in fumo migliaia di ettari fra boschi di sugherete, macchia mediterranea, pascoli e uliveti. Nonostante la palese necessità di incrementare nei numeri la flotta aerea antincendio dello Stato anziché ridurla, come si è fatto in particolare negli ultimi due anni, anche per il 2015 non risultano iniziative che prevedano un aumento della disponibilità di mezzi aerei per far fronte agli incendi boschivi. Nel 2014, nei mesi di luglio e agosto, sono stati messi a disposizione un massimo di 15 Canadair del Corpo nazionale dei vigili del fuoco e due Erickson S-64 del Corpo forestale dello Stato. Il 12 agosto 2013 l'allora Presidente del Consiglio dei ministri, Enrico Letta, ha annunciato la vendita di tre dei dieci aerei di Stato, un Airbus A-319 e due Falcon 900, per un valore complessivo di mercato stimato in circa 50 milioni di euro da destinare al potenziamento della flotta antincendio, ma non risulta ai firmatari del presente atto di indirizzo che le suddette risorse siano state trasferite e nessuna notizia si ha ad oggi a proposito della vendita dei mezzi di Stato;
    il decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133 («Misure urgenti per l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive»), convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164, ha tolto alle regioni il potere di veto su ricerca di petrolio e trivellazione. La competenza delle valutazioni di impatto ambientale su attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi e di stoccaggio sotterraneo di gas naturale è passata allo Stato. Anche la Sardegna potrebbe essere colpita dagli effetti di tale norma, in particolare per quanto riguarda la realizzazione del cosiddetto «progetto Eleonora» della Saras spa, cui si sta opponendo fortemente la popolazione locale. Se fossero autorizzate le trivellazioni per la ricerca di giacimenti di gas naturale si andrebbe, infatti, a deturpare un territorio, quello di Arborea, di immenso valore naturalistico, posto a circa 200 metri di distanza dalle aree umide di importanza internazionale tutelate dalla Convenzione di Ramsar, dove vige un vincolo paesaggistico e di conservazione integrale, con costi altissimi per la salute dei cittadini, per l'ambiente e per l'economia della zona;
    altra questione di grande rilievo per l'isola è quella relativa al costo dell'energia, problema che non si è mai affrontato con la dovuta attenzione e che ancora oggi non trova soluzioni da parte del Governo. La criticità, già notevole in tutto il territorio italiano, è ancora più accentuata nella regione. I costi per l'energia, già in generale in Italia maggiori rispetto al resto d'Europa, in Sardegna sono i più alti del Paese, nonostante il surplus di produzione regionale. È doveroso constatare, anche a questo proposito, la mancanza di interventi veramente efficaci finalizzati alla riduzione del costo delle bollette dell'energia elettrica da parte di un Governo che ha attuato finora, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, soltanto politiche in materia che si sono rivelate fallimentari;
    in Sardegna più di 35.000 ettari di territorio sono sotto vincolo di servitù militare. L'isola ospita oltre il 60 per cento delle basi militari italiane, strutture e infrastrutture al servizio delle Forze armate italiane o della Nato, un pesante fardello che la regione si porta dietro da decenni. Nonostante la pesante opposizione di cittadini e comitati spontanei che chiedono a gran voce la dismissione dei poligoni e la bonifica dei territori inquinati per i problemi economici e sociosanitari derivanti dalla massiccia presenza militare sull'isola, anche in questo caso la politica, nel corso degli anni, si è mostrata sorda di fronte alle richieste della popolazione. Nel comune di Perdasdefogu, a nord di Cagliari, ha sede il poligono sperimentale e di addestramento interforze del Salto di Quirra che si estende per 120 chilometri quadrati. Un'inchiesta aperta nel 2011 ha rivelato che il poligono è stato utilizzato per lungo tempo come discarica di materiale militare in cui sono stati smaltiti uranio impoverito e torio radioattivo. Quest'ultimo è stato ritrovato, in seguito alle analisi effettuate, in numerosi alimenti destinati all'uomo e nelle ossa di alcuni pastori che prima di ammalarsi e di morire erano transitati nelle aree del poligono. Il poligono permanente per esercitazioni terra-aria-mare di Teulada, il secondo poligono in Italia per estensione, occupa una superficie di 7.200 ettari di terreno e preclude alla navigazione e alla pesca uno specchio d'acqua di circa 450 chilometri quadrati. Il poligono di Capo Frasca si estende per 1.400 ettari a terra lungo la costa occidentale dell'isola e comprende una fascia di 3 miglia a mare interdetta alla navigazione. Oltre a numerose sedi di comandi militari di Esercito, Aeronautica e Marina, in Sardegna è presente anche un aeroporto militare, quello di Decimomannu. Nell'ottobre 2014 il Ministro della difesa ha firmato il decreto di reimposizione della servitù militare su Guardia del Moro a La Maddalena. L'interrogazione a risposta in Commissione n. 5-04728, a prima firma Emanuela Corda, presentata l'11 febbraio 2015, con cui si chiedevano al Ministro della difesa le motivazioni della reimposizione della servitù di Guardia del Moro, ha ricevuto dal ministro interrogato una risposta del tutto insoddisfacente. Il Ministro, anziché dare spiegazioni agli interroganti, ha dichiarato che fornirà maggiori informazioni di dettaglio in seguito all'esito della relativa determinazione da parte della Presidenza del Consiglio dei ministri richiesta dalla regione Sardegna. Anche il tribunale amministrativo regionale della Sardegna si è espresso in merito, stabilendo, con una pronuncia del 2012, che l'interesse alla difesa non è superiore all'interesse della comunità locale, definendo entrambi di massimo rilievo e di natura sensibile e affermando che «le servitù hanno carattere temporaneo proprio perché legate all'esigenza di valutare e rivalutare le situazioni, tenendo conto dei cambiamenti che vive il territorio su cui sono calate»;
    in Sardegna sembrerebbe previsto a breve il trasferimento di 92 detenuti sottoposti al regime di cui all'articolo 41-bis dell'ordinamento penitenziario nella casa circondariale di Sassari-Bancali. La notizia ha destato non poche preoccupazioni tra i cittadini dell'isola, in particolare per i rischi di infiltrazioni e di investimenti della criminalità organizzata che potrebbero derivare da tale trasferimento. Sarebbe pertanto necessario e urgente intervenire per potenziare le forze dell'ordine nel territorio, in modo da garantire maggiore sicurezza alla popolazione, nonché per il riconoscimento dell'autonomia della corte d'appello di Sassari, oggi sede distaccata della corte d'appello di Cagliari, e per la relativa istituzione degli uffici della direzione distrettuale antimafia nella città nel nord dell'isola;
    l'isola de La Maddalena, territorio che può vantare una rara bellezza naturalistica, era stato indicato nel 2009 come luogo ideale per ospitare il vertice dei «grandi della terra», evento che avrebbe portato alla Sardegna grande visibilità a livello nazionale e internazionale, turismo, posti di lavoro e avrebbe dato una grossa mano all'economia regionale. Nonostante ingenti somme di denaro pubblico già spese per avviare opere e per la bonifica del mare, la Presidenza del Consiglio dei ministri ha stabilito di trasferire la sede del G8 a L'Aquila, dove si è poi tenuto. In tal modo i lavori eseguiti, a tempo di record, fino a quel momento sono stati pressoché inutili. Oggi, a distanza di sei anni dal G8, lo Stato italiano non ha ancora dato corso agli impegni assunti per quanto riguarda le bonifiche. Le acque che dovevano essere bonificate risultano ancora inquinate e le strutture costruite versano in uno stato di abbandono. Per il G8 de La Maddalena, secondo i dati ufficiali, sono stati spesi circa 327 milioni di euro, anche se gli investimenti parrebbero superare il mezzo miliardo di euro. Il milionario progetto privato che consisteva in un polo di lusso per la vela, gestito dalla Mita resort dall'ex presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, di fatto non è mai partito e, a causa delle mancate bonifiche, lo Stato italiano è stato di recente condannato a risarcire l'impresa appaltatrice con 36 milioni di euro;
    la regione sembrerebbe destinata a diventare sede del deposito nazionale di scorie nucleari radioattive, nonostante il netto pronunciamento in occasione del referendum consultivo regionale, svoltosi il 15 e il 16 maggio 2011, da parte della popolazione sarda contro l'installazione in Sardegna di centrali nucleari e di siti per lo stoccaggio di scorie radioattive da esse residuate o preesistenti (848.634 «sì», corrispondenti al 97,13 per cento dei votanti). Il dissenso unanime dei cittadini, dei comitati e delle istituzioni locali e regionali nei confronti dell'individuazione dell'isola come sede del deposito di scorie radioattive scaturisce da precisi motivi, primo fra tutti il reale rischio di compromissione dell'ambiente in un territorio già fortemente penalizzato a causa degli oneri eccessivi delle servitù militari, come sopra esposto. A causa dell'insularità della regione, inoltre, è utile non sottovalutare le implicazioni catastrofiche che potrebbe determinare il trasporto dei materiali radioattivi via mare in caso di incidente, come denunciato anche dall'Enea;
    preoccupano i rischi di inquinamento ambientale che potrebbero essere provocati dall'espansione verso il centro abitato dell'aeroporto di Cagliari-Elmas, così come previsto dal master plan. Il piano di sviluppo aeroportuale prevede, con un investimento totale di 93,9 milioni di euro, un ampliamento del sedime verso nord-est per la realizzazione di un piazzale aeromobili di aviazione generale e aree di sosta, la razionalizzazione e rilocazione dei servizi aeroportuali e delle installazioni militari presenti nelle aree a sud est del sedime per la loro trasformazione in piazzali per aeromobili di aviazione commerciale per passeggeri e merci, la ristrutturazione delle installazioni presenti a ovest del sedime aeroportuale per la creazione di una base tecnica manutentiva e per l'insediamento di un parco logistico e l'ampliamento del lato nord-est dell'aerostazione passeggeri. Il 13 giugno 2014 il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e il Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo hanno firmato il decreto ministeriale n. 162 che stabilisce la compatibilità ambientale del progetto, cui si stanno opponendo con forza – in particolare per la parte relativa all'ampliamento verso la città – gli abitanti di Elmas;
    anche per quanto riguarda l'agricoltura, un settore produttivo di notevole importanza per l'economia della regione, non sono state considerate nel modo più opportuno le potenzialità del territorio. La nuova classificazione dell'uso del suolo, che ha trasformato in boschi quelli che venivano considerati pascoli a macchia mediterranea, ha provocato notevoli problemi per le aziende agricole sarde che rischiano oggi di perdere milioni di contributi comunitari a causa dell'inserimento nella «lista nera» da parte dell'Agea (Agenzia per le erogazioni in agricoltura). Il cambiamento di uso, da agricolo a non agricolo, interessa decine di migliaia di ettari di superficie coltivabile e finanziabile. Secondo le stime, inoltre, le 12 mila aziende sarde perderanno a causa del refresh circa 12 milioni di euro per ciascuna annualità;
    secondo il dossier pubblicato nel 2014 dalla rivista Tuttoscuola sulla dispersione scolastica la regione italiana che nel quinquennio 2009/2014 ha in assoluto perso più studenti della scuola secondaria superiore è stata la Sardegna: 6.903 allievi pari al 36,2 per cento. In un territorio dove i numeri sull'abbandono prematuro degli studi sono impressionanti sono a maggior ragione necessari interventi volti al contrasto di questo fenomeno e che siano finalizzati al superamento degli ostacoli che contribuiscono ad acuire il problema. Per effetto del comma 4 dell'articolo 19 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (”Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, sono state soppresse più di 1.700 scuole e sono stati creati istituti scolastici enormi e difficili da gestire. Ciò ha provocato, tra le altre cose, non pochi disagi per le famiglie, costrette a dover affrontare lunghi e difficoltosi spostamenti quotidiani in un territorio, come già sottolineato, con caratteristiche morfologiche particolari e che pecca di un carente sistema di trasporti. La norma suddetta è stata dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale con la sentenza 4 giugno 2012, n. 147, ma risulta che molte sedi scolastiche non siano state ripristinate;
    è opportuno segnalare, infine, la continua dismissione di presidi importanti per la regione, come uffici dei giudici di pace, tribunali, uffici della motorizzazione civile, sedi della Banca d'Italia, e il relativo accorpamento che, anche in questo caso, non fanno altro che aumentare i disagi per la popolazione sarda,

impegna il Governo:

   ad inserire con urgenza nell'agenda dei lavori dell'Esecutivo l'adozione di iniziative volte al superamento di tutte le criticità evidenziate, valorizzando il principio costituzionale di leale collaborazione tra Stato, regioni ed enti locali nelle materie in cui si registra una sovrapposizione di competenze e rimuovendo ostacoli procedurali, al fine di affrontare concretamente annose problematiche che affliggono il territorio ed arrivare alla soluzione della «questione Sardegna»;
   ad esaminare proficuamente la «questione Sardegna», anche attraverso l'istituzione di un tavolo tecnico di lavoro con la Regione autonoma della Sardegna e con il coinvolgimento degli enti locali al fine di analizzare tutte le problematiche sopra esposte e giungere, in tempi certi, a soluzioni condivise e concrete delle numerose vertenze aperte, tenendo nel debito conto gli interessi territoriali e promuovendo e potenziando le vocazioni principali dell'isola, facendo di queste una forza da sfruttare nel modo più opportuno per avviare rapidamente una ripresa dell'economia della regione;
   a provvedere con urgenza alla consegna delle somme di cui la Regione autonoma della Sardegna è creditrice con lo Stato per il mancato trasferimento di una parte consistente di entrate tributarie, come confermato anche dalla Corte costituzionale nel 2012, al fine di arrivare in tempi rapidi alla conclusione della cosiddetta «vertenza entrate»;
   ad adottare iniziative, anche normative, al fine di garantire un degno sistema di trasporti per la Sardegna, già in una condizione di svantaggio per l'insularità e per la particolare conformazione del territorio, aggravata da un'inadeguatezza dei collegamenti da e per il continente e all'interno dell'isola, affinché sia tutelato il diritto alla mobilità per i cittadini sardi e non sia compromessa la continuità territoriale;
   ad adottare con urgenza iniziative per la messa in sicurezza delle strade statali della regione, attualmente insicure e pericolose, e per la realizzazione o per il completamento di opere infrastrutturali utili per la popolazione, sottraendo risorse a progetti dannosi per l'ambiente e per il territorio e di dubbia necessità oggettiva;
   ad attivarsi per cercare insieme con la Regione autonoma della Sardegna soluzioni comuni, per quanto di competenza e nel rispetto delle disposizioni normative vigenti, per il salvataggio di aziende pubbliche regionali che rischiano la chiusura e per la salvaguardia dei posti di lavoro, anche considerando l'eventualità di non procedere alle operazioni di privatizzazione previste per alcune di queste;
   a promuovere e ad adottare iniziative urgenti e concrete per il necessario superamento della crisi occupazionale in atto in Sardegna, la quale ha ormai raggiunto caratteri allarmanti;
   a prevedere misure urgenti, di concerto con la Regione autonoma della Sardegna, per la salvaguardia dei posti di lavoro dei dipendenti della Sardegna regionale marittima spa (Saremar), società di gestione del pubblico servizio di linea tra la Sardegna, le isole minori e la Corsica;
   ad adottare iniziative urgenti e maggiormente incisive rispetto alle azioni finora intraprese affinché si arrivi ad una rapida conclusione della vertenza Meridiana al fine di scongiurare definitivamente il rischio del licenziamento collettivo per centinaia di dipendenti del gruppo;
   ad adottare tutte le iniziative che riterrà opportune per la prevenzione del rischio idrogeologico nel medio e nel lungo termine, per la messa in sicurezza del territorio, per la prevenzione e per il contrasto degli incendi boschivi, anche con l'incremento della flotta aerea antincendio dello Stato, per preservare il territorio della Sardegna dai rischi derivanti dall'inquinamento ambientale, troppo spesso provocato dalla «mano umana», tutelando con ogni mezzo a disposizione l'inestimabile patrimonio naturalistico della regione e salvaguardando la salute dei cittadini;
   a colmare con urgenza i ritardi nella consegna delle risorse annunciate per far fronte ai pesanti danni provocati dall'alluvione del 18 novembre 2013 e ad adottare ogni iniziativa che riterrà opportuna a favore dei cittadini e, in particolare, degli imprenditori colpiti dal nubifragio della Romagna del 18 giugno 2014;
   a non concedere alcuna autorizzazione per trivellazioni per la ricerca di giacimenti di gas naturale nel territorio sardo, visti gli altissimi costi, già ampiamente calcolati, per la salute dei cittadini, per l'ambiente e per l'economia che potrebbero derivare dalla realizzazione di tali progetti, come il «progetto Eleonora» nella zona di Arborea, considerato il passaggio allo Stato delle competenze per le valutazioni di impatto ambientale su attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi e di stoccaggio sotterraneo di gas naturale, come previsto dal decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133;
   ad adottare con urgenza iniziative a tutela dei lavoratori del polo industriale del Sulcis-Iglesiente e a promuovere immediati interventi di bonifica delle aree industriali dismesse con conseguente riqualificazione del territorio;
   ad adottare iniziative affinché si proceda urgentemente ad una verifica della reale entità dei danni ambientali nell'area della centrale di Fiume Santo e affinché siano accelerate, per quanto di competenza, le procedure di bonifica del sito suddetto e si individuino gli strumenti di intervento per mettere in sicurezza il territorio;
   ad adottare ogni iniziativa che riterrà opportuna al fine di tutelare con ogni mezzo a disposizione la salute dei cittadini della Sardegna, considerato che, in modo particolare nelle aree industriali e in quelle che necessitano di bonifica, il tasso di mortalità registrato, soprattutto per malattie causate dall'inquinamento ambientale, è elevatissimo;
   ad adottare iniziative, incisive e concrete, finalizzate alla riduzione del costo dell'energia che in Sardegna oggi è molto elevato;
   ad adottare iniziative volte alla riduzione della massiccia presenza militare sull'isola e alla bonifica dei territori inquinati;
   ad adottare iniziative finalizzate al riconoscimento della corte d'appello di Sassari come sede autonoma e alla relativa istituzione degli uffici della direzione distrettuale antimafia nella città nel nord dell'isola;
   a dare corso agli impegni assunti dallo Stato italiano per quanto riguarda la bonifica del territorio de La Maddalena, anche al fine del potenziamento dello sviluppo turistico dell'area;
   a rispettare la volontà espressa dai cittadini sardi che in occasione del referendum consultivo del 2011 in materia di nucleare si sono largamente dichiarati contrari all'installazione in Sardegna di centrali nucleari e di siti per lo stoccaggio di scorie radioattive da esse residuate o preesistenti;
   ad intervenire affinché non sia realizzata la parte del progetto di ampliamento dell'aeroporto «Mario Mameli» di Cagliari verso il centro abitato, valutando con particolare attenzione le conseguenze negative per la città di Elmas e per le zone limitrofe che potrebbero derivare da tale espansione;
   ad intervenire presso l'Agea affinché si sospendano gli effetti della nuova classificazione dell'uso del suolo per la tutela di moltissime aziende agricole che rischiano di perdere a causa del cambiamento di uso, da agricolo a non agricolo, milioni di euro di contributi comunitari su cui contavano per il mantenimento e per lo sviluppo delle proprie attività;
   ad adottare iniziative volte al contrasto del fenomeno della dispersione scolastica, che in Sardegna ha raggiunto livelli allarmanti anche a causa della chiusura di molte sedi scolastiche.
(1-00850) «Nicola Bianchi, Corda, Vallascas, Sibilia, Capelli».


   La Camera,
   premesso che:
    secondo quanto risulta da un recente documento elaborato dall'Istat, le prospettive dell'economia italiana per il 2015-2017 indicano un aumento del prodotto interno lordo nel 2015 (+0,7 per cento), cui seguirà una crescita dell'1,2 per cento e dell'1,3 per cento nel biennio successivo, i cui effetti determineranno la conclusione della fase recessiva del triennio precedente;
    al riguardo, i firmatari del presente atto di indirizzo evidenziano che, a fronte di tali indicatori, obiettivamente modesti, che rimangono al di sotto della media europea, permangono evidenti e gravissime componenti macroeconomiche negative, che rallentano fortemente il consolidamento della ripresa della domanda interna e dei consumi nel Paese, i cui timidi segnali di miglioramento rischiano di essere vanificati rapidamente, se dovesse ulteriormente aumentare prossimamente l'iva, come previsto dalla clausola di salvaguardia, a seguito della sentenza della Corte costituzionale sul blocco delle rivalutazioni delle pensioni;
    all'interno del sopra esposto scenario, pertanto, permane fragile il quadro complessivo dell'economia italiana, i cui fattori di debolezza si evidenziano, in particolare, nelle regioni del Mezzogiorno, la cui vastità degli effetti negativi che la crisi economica e finanziaria ha prodotto nel tessuto economico e sociale ha ulteriormente aumentato i divari con le altre aree del Centro-Nord;
    in tale ambito la regione Sardegna, anche a causa della sua insularità che la rende meno concorrenziale rispetto alle altre regioni e per storiche irrisolte questioni, come la continuità territoriale, evidenzia una costante caduta verticale dell'attività economica e produttiva, come dimostrano i principali osservatori nazionali e le analisi della Banca d'Italia, che rilevano come, sia nel 2014 che nel 2015, si siano registrati ulteriori segnali di riduzione della produzione industriale, associati a una diminuzione della domanda di lavoro e alla riduzione del credito alle famiglie e alle imprese della Sardegna;
    le note debolezze strutturali dell'economia regionale isolana, relative al sistema dei trasporti e dei collegamenti stradali, ferroviari e marittimi, le difficoltà legate al diritto alla mobilità, i cui effetti si ripercuotono negativamente sui servizi, sullo spostamento delle persone e delle merci, sul commercio e sui sistemi della logistica e, soprattutto, sull'economia turistica, ribadiscono la necessità di rafforzare le politiche d'intervento in favore dell'area regionale sarda, su cui l'azione del Governo Renzi è stata finora assente e inadeguata, in particolare con riferimento all'insufficienza delle risorse destinate;
    le evidenti politiche di dismissione messe in atto dall'Esecutivo in carica nei riguardi del sistema industriale, artigianale e del terziario della regione Sardegna, come dimostrano il numero delle imprese del Sulcis (pari a 1.250) che hanno cessato l'attività negli ultimi due anni e quelle inattive (oltre 1.110 nel 2014 soggette a procedure concorsuali o in liquidazione), hanno conseguito effetti particolarmente gravi anche nel mercato del lavoro, come dimostrano i dati del primo trimestre del 2015 rilevati dalla Confederazione dell'artigianato e della piccola media impresa sarda;
    la Confederazione nazionale dell'artigianato Sardegna ha infatti evidenziato che, nel primo trimestre del 2015, i lavoratori in uscita risultano pari a 4.820, a fronte di 4.170 assunzioni, con un saldo negativo di – 650 posti di lavoro, aggiungendo, inoltre, come lo scenario economico della Sardegna si caratterizzi negativamente dal numero di persone inattive, pari a 446 mila persone, dal tasso di disoccupazione medio al 18,2 per cento (con quello giovanile che raggiunge oltre il 50 per cento), da 25 mila lavoratori in cassa integrazione guadagni e mobilità in deroga, da oltre 2 mila aziende in crisi e circa 350 mila soggetti che vivono sotto la soglia di povertà, a cui si aggiungono oltre 25 mila imprese artigiane che hanno cessato l'attività nel 2014;
    ulteriori profili di criticità associati a quelli in precedenza esposti si rinvengono anche nell'elevata carenza di scolarizzazione: la percentuale dei giovani che nel 2013 ha abbandonato prematuramente gli studi in Sardegna è pari al 24,7 per cento e rappresenta la più alta in Italia, dopo la Sicilia (25,8 per cento), a fronte della media nazionale pari al 17 per cento, e ciò conferma, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, una situazione complessiva sociale ed economica di estrema difficoltà per l'interessata isola;
    a tal fine, a giudizio dei firmatari del presente atto di indirizzo, occorrono politiche d'intervento in netta controtendenza con le misure finora previste dal Governo Renzi, in grado di favorire il processo di crescita e sviluppo per la Sardegna, la cui economia rimane strettamente ancorata alle dinamiche nazionali e del Mezzogiorno;
    al riguardo, risultano urgenti e necessarie misure finalizzate a rafforzare i principi di coesione territoriale, sociale ed economica su cui si fonda il Trattato dell'Unione europea, che individuano nella riduzione delle disparità regionali le condizioni per la crescita e lo sviluppo dell'Unione europea, promuovendo iniziative imprenditoriali pubbliche e private, in favore della regione Sardegna, completando l'infrastrutturazione primaria del territorio sardo e avviando più rapidamente quella secondaria;
    a fronte dei predetti interventi, occorre affiancare ulteriori misure di sostegno attraverso adeguati investimenti, sia per la modernizzazione della viabilità interna, che per il miglioramento della continuità territoriale, costituzionalmente garantita, quale componente fondamentale per la ripresa economica dell'isola, in considerazione degli effetti che riveste sui servizi di trasporto delle persone e delle merci, nonché sui flussi turistici;
    a tal fine, nell'ambito dei sistemi di trasporto marittimo e delle misure d'intervento previste dalla Commissione europea, in merito alla revisione della rete Ten-T, che definisce le scelte strategiche infrastrutturali per i nuovi corridoi trasportistici multimodali, occorre rafforzare le misure d'intervento in favore delle «autostrade del mare»; il ricorso maggiore all'intermodalità, indicato dal piano della logistica come obiettivo chiave dell'economia italiana, consentirà di favorire la regione Sardegna, all'interno della piattaforma logistica del Mediterraneo;
    risultano, altresì, necessari interventi per il completamento delle infrastrutture digitali, rispetto alle quali il Mezzogiorno e la Sardegna sono fortemente in ritardo, in grado di determinare la crescita nel settore della ricerca e dell'innovazione per una nuova linfa imprenditoriale radicata sul territorio, creando nella regione una rete di piccole e medie imprese capaci di produrre indotto;
    nell'ambito delle misure prospettate, occorre, altresì attivare ulteriori iniziative rispetto a quelle già esistenti, attraverso l'estensione in via sperimentale delle zone franche, in grado di garantire agevolazioni fiscali e contributive in favore delle micro e piccole imprese che sono ubicate nei territori dei comuni della regione Sardegna, interessati maggiormente dai livelli di crisi produttiva e occupazionale, al fine di stimolare i consumi e la ripresa della domanda che, secondo l'ufficio studi di Confcommercio (sugli ultimi dati disponibili), segnano un prodotto interno lordo a meno 4,8 per cento rispetto al nazionale;
    a giudizio dei firmatari del presente atto di indirizzo, necessitano, tra l'altro, adeguati interventi volti alla risoluzione delle difficoltà dei servizi di trasporto ferroviario ed aereo (anche a causa della crisi delle compagnie di volo Meridiana e Alitalia), spesso oggetto di reiterate interruzioni, le cui ricadute negative sui flussi di traffico passeggeri e merci, sulla competitività delle aree, sull'occupazione e sui flussi turistici, in nome di un progetto di complessiva razionalizzazione dei servizi e della rete finalizzato unicamente alla contrazione dei costi, rischiano di accrescere i ritardi rilevanti rispetto alle altre aree del Paese e del Mediterraneo;
    nell'ambito degli accordi di partenariato per il commercio e gli investimenti fra Unione europea e Stati Uniti d'America, volti a sostenere entrambe le economie continentali, la regione Sardegna può svolgere un ruolo fondamentale all'interno dei negoziati, attraverso l'articolo 52 dello statuto speciale (che prevede il coinvolgimento nell'elaborazione dei progetti dei trattati di commercio che il Governo intenda stipulare con Stati esteri nell'ambito degli scambi di specifico interesse della Sardegna), per i meccanismi arbitrali Investor State dispute settlement indicati dal trattato medesimo;
    risulta, pertanto, indifferibile la realizzazione di un piano d'intervento, in favore della regione Sardegna, attraverso i sopra esposti indirizzi strategici da perseguire con convinzione e con i necessari investimenti finalizzati alla creazione di un nuovo modello di sviluppo legato ad una visione non solo nazionale, all'interno di una prospettiva di sviluppo internazionale dell'isola,

impegna il Governo:

   ad assumere le iniziative indicate in premessa, con particolare riferimento alle politiche d'intervento legate al miglioramento dei sistemi infrastrutturali di collegamento e dell'estensione delle zone franche per le aree del territorio ad elevata disoccupazione, al fine di rilanciare lo sviluppo e la crescita della regione Sardegna, i cui livelli di debolezza economici e sociali permangono ancora su livelli elevati;
   ad intervenire in sede comunitaria, sia favorendo iniziative finalizzate ad incrementare il ricorso all'intermodalità attraverso il sistema delle autostrade del mare, tramite lo strumento dell’ecobonus, in grado di migliorare il sistema dell'autotrasporto della Sardegna, che nell'ambito dei negoziati in corso del Ttip (Transatlantic trade and investment partnership), affinché la medesima regione possa svolgere un ruolo primario nell'elaborazione del trattato;
   a prevedere, infine, la realizzazione di un piano d'intervento straordinario in favore della regione Sardegna, attraverso l'istituzione di una cabina di regia rappresentata dalle istituzioni locali e dalle imprese sarde, in grado di realizzare gli indirizzi d'intervento indicati in premessa.
(1-00851) «Nizzi, Vella, Palese, Capelli».


   La Camera,
   premesso che:
    il rapporto Svimez 2014 sull'economia del Mezzogiorno ha rilevato come tra le principali economie industrializzate, principalmente per effetto della crisi di competitività che la colpisce da oltre dieci anni, l'Italia è fra le più lente a recuperare: dal 2001 al 2013 il prodotto interno lordo nazionale ha infatti registrato una flessione dello 0,2 per cento, per effetto dell'ampia forbice tra un Centro-Nord positivo (+ 2 per cento) e un Mezzogiorno fortemente in ribasso (-7,2 per cento);
    in base a valutazioni Svimez, nel 2013 il prodotto interno lordo è crollato nel Mezzogiorno del 3,5 per cento con un calo superiore di quasi due punti percentuali rispetto al Centro-Nord e che per il sesto anno consecutivo registra un segno negativo, a testimonianza della criticità dell'area. Il divario di prodotto interno lordo pro capite tra Centro-Nord e Sud nel 2013 è sceso al 56,6 per cento, tornando ai livelli del 2003, oltre dieci anni fa, con un prodotto interno lordo pro capite pari a 16.888 euro;
    il rapporto Svimez evidenzia due grandi emergenze nel nostro Paese: quella sociale con il crollo occupazionale e quella produttiva con il rischio di desertificazione industriale, che caratterizzano oramai per il sesto anno consecutivo il Mezzogiorno. Nel caso del Sud la peggior crisi economica del dopoguerra rischia di essere sempre più paragonabile, scrive l'istituto di ricerca, alla Grande depressione del 1929;
    in questo quadro, la Sardegna si mostra sempre più povera, con una disoccupazione giovanile allarmante, e in recessione. Nel 2013, il prodotto interno lordo della Sardegna è diminuito del 4,4 per cento, più della media registrata nelle regioni meridionali e insulari. Negli anni della crisi – dal 2007 al 2013 – l'isola ha perso il 13 per cento del suo prodotto, meno di Basilicata e Molise (-16 per cento) ma più di Abruzzo e Campania (-12 per cento). Sempre nel 2013, in tutto il Sud gli occupati sono diminuiti di circa 280 mila unità (-4,6 per cento): 43 mila erano posti di lavoro sardi (-7,3 per cento). E anche la disoccupazione giovanile, nell'isola, è risultata ben più alta della media del Mezzogiorno: 54,2 per cento contro il 46,9 per cento;
    sempre secondo i dati Svimez, in Sardegna si sono registrati: 10 milioni di ore di cassa integrazione nella manifattura, il calo dei consumi (-2 per cento), l'aumento delle famiglie che si trovano in una condizione di povertà relativa (24,8 per cento, una su quattro). Alla desertificazione produttiva e industriale si registra anche quella umana. La Sardegna è, infatti, sempre di più una terra di emigrazione, in cui i morti superano i nati - il tasso di mortalità sardo nel 2013 è stato del 7,2 per mille, quello di mortalità del 9,2 per mille e in tutto il Sud il numero dei nati ha toccato il suo minimo storico ovvero 177 mila, il più basso dal 1861 – e i giovani fanno la fila per staccare un biglietto di sola andata verso il resto d'Italia e del mondo;
    la gravissima situazione economica e sociale dell'isola, così come delineata, si inserisce all'interno della cosiddetta «vertenza Sardegna» e dei rapporti tra Stato e regione, con l'individuazione di una serie di temi che, ancora oggi, non hanno trovato una soluzione e che impongono di inserire nell'agenda dei lavori del Governo la «questione sarda» come vera e propria questione nazionale;
    a tal fine, il presidente della regione autonoma della Sardegna ha convocato un tavolo permanente di consultazione con le forze politiche e sociali per approfondire temi, priorità e modalità di azione per trovare una soluzione a questioni che fino a oggi non hanno trovato alcuna soluzione nel rapporto con lo Stato. Se, da un lato, la giunta sarda ha incassato la cancellazione dei vincoli di spesa sul patto di stabilità (prima regione ad aver ottenuto il solo pareggio di bilancio da rispettare), dall'altro rimangono ancora da risolvere nella loro interezza le seguenti questioni: vertenza entrate, energia, trasporti e continuità territoriale interna ed esterna, superamento del deficit infrastrutturale, servitù militari, G8 de La Maddalena con la gestione delle opere incompiute, insularità e mantenimento della condizione di specialità nell'attuale quadro costituzionale;
    per quanto riguarda la «vertenza entrate», la Sardegna attende ancora una soluzione del mancato versamento di parte delle entrate tributarie dovute dallo Stato alla regione, nel corso degli anni tra il 1991 e oggi. Secondo l'articolo 8 dello statuto della regione Sardegna (legge di rango costituzionale) la regione sarda ha, infatti, diritto a una parte delle entrate tributarie statali riscosse in Sardegna. Tra queste, ad esempio i 7 decimi dell'Irpef e analoghe percentuali di altre imposte, soprattutto indirette (IVA, accise). Secondo le verifiche effettuate, lo Stato ha mancato di versare per intero la quota di compartecipazione sull'Irpef spettante alla Sardegna: avrebbe restituito i 4 decimi del totale riscosso anziché i 7 decimi stabiliti nello statuto. Questa è la voce principale dell'intera «vertenza entrate», ma non l'unica. Il 1o aprile 2015, alla regione sono stati versati i primi 300 milioni di euro, primo acconto per gli anni dal 2010 al 2014, del credito che la regione vanta nei confronti dello Stato. Si tratta solo di un anticipo, giacché all'appello mancano altri trecento milioni di euro, saldo del credito complessivo vantato dalla Sardegna nei confronti dello Stato. Queste somme in ogni caso sono di gran lunga inferiori a quanto lo Stato dovrebbe in realtà versare alla Sardegna in base al suo statuto speciale. Dai 16 miliardi di euro iniziali, un accordo tra regione e Governo ha portato il debito dello Stato italiano a circa 5 miliardi di euro, a fronte di una garanzia di «maggiori entrate» (da inserire nello statuto). L'accordo definitivo sulle entrate attende di trovare una completa definizione in una norma di attuazione dello statuto speciale per la redazione della quale, entro il mese di giugno 2015, la regione ha annunciato una proposta;
    a livello politico si è riacceso il dibattito sulle regioni a statuto speciale e sull'opportunità che il nostro sistema costituzionale ne riconosca ruolo, prerogative e poteri. Si tratta di una prerogativa costituzionale che le regioni hanno assunto in virtù di evidenti condizioni di svantaggio e di peculiarità che sono elemento di forza e di arricchimento nella repubblica italiana. È sbagliato sostenere che le cinque regioni ad autonomie differenziate, tra le quali c’è anche la Sardegna, godano di ingiusti privilegi. Come è noto, e la tesi è sostenuta anche da autorevoli costituzionalisti e dalla giurisprudenza prevalente, la riforma del Titolo V (2001) della Carta costituzionale ha quasi annullato la specialità delle regioni, attribuendo una serie di poteri e funzioni così ampie a quelle «ordinarie» che, di fatto, allinea le realtà speciali a quelle ordinarie. Oggi, quella specialità quasi non esiste, se non nella compensazione di una serie di spese e trasferimenti che ancora non sono sufficienti ad assicurare la parità di condizioni tra tutte le regioni italiane. L'equivalenza tra specialità e privilegi non solo è un assurdo giuridico e storico ma è anche ingiusto sotto il profilo politico. Nel caso della Sardegna, la regione gestisce con il proprio bilancio, senza alcun fondo statale, tutto il servizio sanitario regionale, il trasporto pubblico locale e la continuità territoriale aerea. La presenza di regioni a statuto speciale è ancora utile al Paese e non può essere messa in discussione se non si vuole rompere la coesione territoriale e il principio di solidarietà nazionale;
    altra questione irrisolta è quella delle servitù militari nazionali, il 65 per cento delle quali grava sulla Sardegna. È necessario un equilibrio, poiché, come ha ricordato il presidente della regione Francesco Pigliaru in audizione presso la IV Commissione (Difesa) della Camera dei deputati, si tratta di numeri significativi: 30 mila ettari, di cui 13 mila con limitazioni totali, impegnati dal demanio militare a cui si devono aggiungere gli spazi aerei e circa 80 chilometri di costa. La giunta regionale della Sardegna non ha ancora firmato l'accordo con il Ministero della difesa sulle servitù militari e non lo firmerà in assenza di nuove prospettive per la presenza militare nell'isola. Da tempo, è richiesta una riqualificazione della presenza militare alleggerendo il territorio dal carico delle servitù, nel rispetto delle esigenze di difesa nazionali. Si tratta di prestare una fattiva attenzione alla tutela del territorio a mezzo di bonifiche, del riconoscimento del diritto di fruire anche a fini turistici delle aree costiere attualmente occupate dalle basi militari, nonché dell'investimento di risorse della difesa in ricerca tecnologica applicata anche al campo civile, per un rapporto sostenibile tra presenza militare e contributo allo sviluppo economico del territorio in termini dinamici e non assistenziali. Tutto questo anche al fine di dimostrare che non è vero che la presenza militare in Sardegna rechi soltanto svantaggi;
    la regione autonoma della Sardegna, per soddisfare esigenze non proprie, sta diventando una grande piattaforma di produzione di energia attraverso la costruzione di impianti fotovoltaici ed eolici e lo scavo di pozzi marini per la ricerca del gas naturale. Ferme restando le responsabilità regionali per la mancanza di un piano energetico, la questione del costo dell'energia resta un problema irrisolto e trascurato che compromette pesantemente lo sviluppo economico dell'isola. Sul punto spicca la questione del riconoscimento del regime di essenzialità per gli impianti di produzione sardi, in particolare per quello di Ottana: infatti, la regione è in attesa della proroga anche per il 2015 e del parere dell'Autorità per l'energia elettrica il gas ed il sistema idrico. Il riconoscimento dell'essenzialità è fondamentale per permettere ai gestori delle centrali sarde di vedersi riconosciuti da Terna i costi di produzione dell'energia e garantire pertanto alle imprese sarde di fruire di prezzi dell'energia più bassi;
    questo avviene in un contesto segnato dalla mancata metanizzazione e da costi per energia altissimi. Occorre, infatti, ricordare che la Sardegna è l'unica regione a non utilizzare il metano (a seguito anche dell'uscita dal progetto Galsi, società sostenuta oltre che dalla regione anche da Enel ed Edison) e che l'energia ha il costo più elevato d'Italia (20-30 per cento in più) in una realtà nazionale in cui l'energia ha già un costo maggiore rispetto al resto d'Europa. Tale gap si risolve in un danno economico valutato, ogni anno, in circa 400 milioni di euro sul bilancio di imprese e famiglie. Rispetto al tempo in cui è maturato il progetto Galsi, è cambiata sia la geopolitica mondiale degli scambi commerciali del gas naturale liquido, sia la valutazione sulla consistenza dei giacimenti, sia le tecniche di esplorazione ed estrazione. L'autonomia energetica degli Stati Uniti, derivante dall'utilizzazione di quote sempre più rilevanti di shale gas e shale oil, e la prospettiva che questo Paese diventi addirittura esportatore in Europa di materie prime energetiche, insieme alla messa in produzione di grandi giacimenti in Africa centrale, non connessi ad una significativa rete di trasporto, sta rendendo obbligata e profittevole la scelta tecnologica della liquefazione del gas metano ed il suo trasporto con navi gasiere. Un sistema, questo, che potrebbe rapidamente consentire alla Sardegna, senza opere infrastrutturali di lunga e costosa realizzazione, di avere una disponibilità pressoché immediata di metano. A questo proposito risulta decisiva l'azione del Governo per attuare in tempi rapidissimi la direttiva comunitaria 94/2014/UE, che prevede la realizzazione di infrastrutture di stoccaggio del gas naturale liquido per la realizzazione di una politica europea energetica che agevoli, tra le altre, l'utilizzazione di questa fonte. Il Governo ha la possibilità di «iniziare dalla Sardegna» l'attuazione della direttiva, concordando con la regione procedure autorizzative semplificate, la definizione di chiari standard di sicurezza per gli stoccaggi nelle aree portuali, e la destinazione di risorse, anche comunitarie, per favorire investimenti privati nella creazione di un numero adeguato di siti di stoccaggio, a partire dalle aree industriali attrezzate. Ciò non deve escludere la possibilità, in proseguo, di programmare e favorire la realizzazione di una dorsale sarda (nord/sud) di trasporto del metano, la realizzazione di grandi impianti di rigassificazione e la connessione della Sardegna alla rete nazionale dei gasdotti con una connessione alla Corsica ed al continente. Occorre inoltre agevolare, anche con atti di indirizzo all'autorità competente, la prima diffusione dell'utilizzo del metano tra le famiglie e le imprese, valutando un'eliminazione temporanea o un alleggerimento significativo delle accise sul gas, in modo da compensare rapidamente i costi di allaccio delle utenze;
    collaterale a questo tema, ma con tempi urgentissimi per la definizione della cornice normativa necessaria a garantire la certezza degli investimenti, rimane la ricerca di una soluzione a sostegno dell'industria metallurgica energivora (filiera dell'alluminio e del piombo-zinco) per la quale da tempo è in corso un'inesauribile trattativa tra regione, Stato e Unione europea sulle «compensazioni per i servizi di interrompibilità» in tutte le sue possibili declinazioni;
    rimangono le criticità relative al sistema dei trasporti da e per l'isola, specialmente sul versante della continuità aerea e marittima. Malgrado gli innegabili passi in avanti compiuti in questi ultimi anni, si pone l'esigenza di disegnare una Sardegna più coesa al suo interno e più vicina al resto del continente. La continuità territoriale aerea è totalmente sostenuta dal bilancio della regione per oltre 50 milioni di euro, nonostante il diritto alla mobilità in tutto il territorio italiano debba essere garantito a tutti i cittadini, compresi gli abitanti della Sardegna;
    relativamente alla continuità territoriale marittima, si rende necessaria l'approvazione di una nuova legge sulla continuità territoriale marittima ovvero di norme di attuazione dello statuto speciale, per regolamentare qualità e tipologia dei servizi anche in situazioni come quella attuale in cui un unico armatore risulta titolare di tutte le sovvenzioni statali, la cui erogazione è disciplinata da una convenzione da 72,5 milioni di euro all'anno e scade nel 2020 – sia per il trasporto dei passeggeri che delle merci. Una normativa speciale per la Sardegna, rispettosa delle disposizioni comunitarie e nazionali che disciplinano la materia, che tenga presenti i principi di permanenza (l'insularità è un handicap costante nel tempo), discriminazione positiva (garantire autentica parità con le altre regioni mediante misure volte a bilanciare gli svantaggi) e proporzionalità (tenere conto delle differenti situazioni che sono certamente il ristretto mercato regionale ma anche e soprattutto la distanza degli scali sardi da quelli del continente che nel minimo è di 125 miglia nautiche – praticamente sette ore di navigazione – contro le appena 2 miglia della Sicilia) e finalizzata a garantire un'efficiente mobilità delle persone e delle merci. In definitiva, nuove regole sulla continuità, che confermino la copertura finanziaria in capo allo Stato degli oneri per il servizio di trasporto sovvenzionato, riconoscano alla Sardegna il ruolo preminente nell'individuazione del contenuto degli oneri di servizio e compartecipazione alla responsabilità di selezione, con procedura di evidenza pubblica, delle compagnie di navigazione concessionarie del servizio. Nella prospettiva dell'attuazione della direttiva 2012/33/UE dell'Unione europea, che impone l'abbattimento dello zolfo nei combustibili per il trasporto marittimo nel Mediterraneo proprio entro il 2020, e la prospettiva di diffusione del gas naturale liquido in Sardegna, la gara internazionale per la scelta dei vettori marittimi potrebbe ben essere associata alla realizzazione di infrastrutture portuali per il rifornimento delle navi nei porti sardi di destinazione delle rotte gravate da oneri di servizio pubblico, nonché da misure che favoriscano l'utilizzazione del gas naturale liquido come carburante pulito nei trasporti marittimi;
    la Sardegna è la regione italiana con i maggiori deficit infrastrutturali: l'indice di dotazione stradale della Sardegna è pari a un valore di 43,9, mentre nel Mezzogiorno e nelle altre isole è al 111,2. L'indice di dotazione ferroviaria è pari al 17,4 a fronte del 102,6 del Sud e delle altre isole. L'Unione europea nella definizione dello spazio unico europeo dei trasporti sostiene che «gli investimenti nell'infrastruttura di trasporto hanno un impatto positivo sulla crescita economica, creano ricchezza e occupazione e migliorano gli scambi commerciali, l'accessibilità geografica e la mobilità delle persone». Tutto ciò, evidentemente, non riguarda la Sardegna, dove il deficit delle infrastrutture si ripercuote negativamente sul tessuto sociale ed economico regionale. L'isola detiene, infatti, il record nazionale di disoccupazione giovanile, oltre il 40 per cento di giovani in età 15-24 anni; è ai primi posti fra le regioni italiane con il maggior numero di disoccupati (il 29 per cento degli italiani in fascia di età 20-64 anni); la percentuale di abbandono scolastico dei giovani sardi (oltre il 25 per cento) è la più alta in Italia, la Sardegna è la regione dove si registra il più alto indice di spopolamento nelle zone interne e svantaggiate;
    in un contesto regionale complessivamente al di sotto dei livelli minimi di infrastrutture e servizi e con complessi problemi demografici, si ripropongono ogni anno più drammatici, gli squilibri territoriali (mai risolti nonostante le numerose direttive e risorse europee destinate a risolvere, strutturalmente e definitivamente, gli squilibri territoriali), per cui in diverse sub-aree geografiche, in particolare ricadenti nell'entroterra sardo e nella Sardegna centro-meridionale, gli indici di cui si è trattato in premessa presentano valori prossimi al dramma e prefigurano situazioni sociali, economiche, demografiche e di ordine pubblico oramai, insostenibili. Si tratta di realtà territoriali particolarmente aspre dal punto di vista morfologico e significativamente distanti dai centri di offerta di servizi essenziali (di istruzione, salute e mobilità), ricche di importanti risorse ambientali e culturali e fortemente diversificate;
    la questione Sardegna come questione nazionale è strettamente legata al tema dell'insularità: alle problematiche legate a questa condizione, che vedono la regione non efficientemente collegata alle reti dell'energia, delle comunicazioni e dei trasporti, con costi aggiuntivi per la popolazione; alla conseguente difficoltà di cogliere e valorizzare le opportunità che, pure, derivano, dallo stato di insularità, in particolare, vista la centralità della Sardegna nel Mediterraneo, e le connesse potenzialità, che dalla stessa potrebbero derivare, per la costruzione di serie e lungimiranti politiche euro-mediterranee. Quello dell'insularità e del suo riconoscimento in ogni sede è un tema strettamente legato allo sviluppo economico, in particolare per quanto riguarda la mobilità, l'energia e il turismo della Sardegna, ma di tutta l'area euro-mediterranea;
    la Sardegna ha bisogno di un sistema industriale moderno ed ecocompatibile. Devono essere chiuse in tempi rapidi crisi industriali ormai aperte da troppo tempo. In particolare le grandi vertenze del Sulcis, che riguardano gli stabilimenti dell'Alcoa e dell'Eurallumina. Nell'area di Ottana si è prodotto un deserto industriale non più accettabile. Relativamente a Porto Torres, il protocollo d'intesa sulla chimica verde del 2011 prevedeva 1,2 miliardi di euro di investimenti entro 5 anni, eppure finora ne sono stati spesi solo il 25 per cento ed è stato comunicato da Eni che si proseguirà solo sulle bonifiche, cancellando altri investimenti senza una vera ipotesi alternativa alla prospettata centrale a biomasse da 250 milioni di euro;
    poiché il valore degli investimenti relativi alle bonifiche industriali e legate alle aree militari supera i 500 milioni di euro e interessa almeno 5 siti, non si possono ammettere ritardi e serve, soprattutto, che il Governo definisca una regia istituzionale consentendo che, oltre al risanamento, la Sardegna possa beneficiare anche di parte degli investimenti economici e delle competenze professionali e d'impresa necessarie;
    la Sardegna è da considerarsi parte lesa in quello che può essere considerato uno dei più grandi scandali della recente storia italiana: il mancato svolgimento del G8 sull'Isola de La Maddalena. Quattrocentosettanta milioni di euro di denaro pubblico che hanno consegnato al nulla 27 mila metri quadrati di edifici, 90 mila metri di aree a terra e 110 mila metri quadri di mare. Nessun progetto privato fino a oggi è mai partito. Insieme allo spreco di denaro, c’è l'enorme danno ambientale, con i veleni liberati dai fondali della darsena dell'ex arsenale militare, mercurio e idrocarburi pesanti, la cui dispersione ha raggiunto, sedimentandosi in profondità, l'area limitrofa allo specchio di mare del Parco de La Maddalena. Urgono bonifiche urgenti per le quali non esistono risorse sufficienti e anche se si dovessero trovare, l'accordo tra le amministrazioni dello Stato (Presidenza del Consiglio dei ministri, ministero, regione, comune) non è ancora raggiunto. La Protezione civile al termine dei lavori ha consegnato l'hotel e centro congressi al concessionario Mita Resort. Questo, una volta verificato che le bonifiche non erano state fatte e che era impossibile aprire l'albergo in quelle condizioni, senza poter usare la darsena, ha tirato in causa la Protezione civile, ottenendone in un arbitrato la condanna al pagamento dei danni (39 milioni di euro). Nel lodo arbitrale si è deciso, inoltre, che le chiavi delle strutture debbano essere riconsegnate alla Protezione civile, non alla regione, che ne è proprietaria ma non ne è mai venuta in possesso. E viene esplicitamente affermato che la regione Sardegna è estranea alla contesa. Ora la Protezione civile ha presentato un ricorso, prolungando una vicenda giudiziaria che ancora una volta taglia fuori la regione, alla quale rimane soltanto l'obbligo di versare ogni anno circa 500 mila euro di Imu a fronte del canone annuo di 65 mila euro che la società Mita Resort deve alla regione per 40 anni, ma che, dal 2009 a oggi, non ha mai versato;
    nell'anno di Expo 2015 dedicata al cibo, la Sardegna non può essere posta ai margini del sistema agroalimentare nazionale per motivi legati alla peculiarità di alcune produzioni o al mantenimento di alcune condizioni di privilegio di altre regioni più grandi, impedendo la competizione tramite la valorizzazione dei suoi sistemi produttivi. Serve un indirizzo politico del Governo anche nei confronti di uffici che tendono alla conservazione: il fondo di valorizzazione del comparto del latte bovino che oggi esclude il comparto ovicaprino al quale la Sardegna contribuisce con quasi l'80 per cento dell'intero patrimonio nazionale; il comparto ittico che vede la Sardegna esclusa dall'aumento del 20 per cento annuo delle quote europee per l'Italia, come confermano le scelte recenti per la regolamentazione della pesca del tonno rosso, nelle quali è stata del tutto ignorata una richiesta equilibrata della regione; il settore ippico considerato di grande interesse per gli investitori internazionali provenienti dal Medio oriente e che richiede normative più avanzate sulle quali viene opposto un ostacolo incomprensibile alle richieste della regione;
    deve essere garantito il pagamento delle mensilità degli ammortizzatori sociali in deroga, dai quali, in Sardegna, dipendono oltre 43.000 persone nell'isola e per i quali si è fermi ai primi due ratei del 2014. A legislazione vigente solo altre 4 mensilità saranno pagate se non si consente all'isola di accedere alle risorse del Fondo per lo sviluppo e la coesione decurtate nel giugno 2014. E infatti, le richieste di accesso agli ammortizzatori sociali in deroga relative all'anno 2014 interessano, in Sardegna, complessivamente, 26.763 lavoratori, dei quali 9.494 per provvedimenti di cassa integrazione in deroga e 17.269 di mobilità in deroga e ad oggi, il Governo ha assegnato, 17.313.000 euro (decreto ministeriale 6 agosto 2014) e 21.641.000 euro (decreto ministeriale 4 dicembre 2014), così che con le prime risorse assegnate sono state pagate due mensilità di trattamento di cassa integrazione guadagni straordinaria in deroga, ma l'Inps dai primi di febbraio 2015 ha interrotto i pagamenti a seguito dell'esaurimento dei fondi. Per il completamento dei pagamenti relativi al 2014 sono necessari ancora 179 milioni di euro, di cui solo 50 arriveranno dopo un prossimo decreto ministeriale che il Ministro del lavoro, Giuliano Poletti, ha annunciato e che consentirà il pagamento di ulteriori tre/quattro mensilità rendendo ancora necessario il reperimento di circa 130 milioni di euro: tali risorse potrebbero essere recuperate considerato che la delibera Cipe 30 giugno 2014, n. 21, nel disporre meccanismi di disimpegno automatico e sanzionatori a valere sulle risorse del Fondo per lo sviluppo e la coesione 2007-2013, ha disposto a carico della regione Sardegna, una decurtazione pari a circa 107 milioni di euro, derivante dall'applicazione di misure sanzionatorie nella misura del 10 per cento, per un importo di circa 24 milioni di euro, e nella misura del 15 per cento, per un valore pari a circa 83 milioni di euro, su interventi che hanno fatto registrare ritardi nell'assunzione delle obbligazioni giuridicamente vincolanti e che la sopra citata delibera Cipe n. 21 del 2014 ha disposto il finanziamento degli «ammortizzatori sociali in deroga», per un importo pari a 100 milioni di euro, a valere sulle decurtazioni operate dalla stessa, e che tali risorse sono confluite tra le fonti generali di finanziamento dei decreti ministeriali di assegnazione delle risorse alle regioni e che al netto delle finalizzazioni operate dalla suddetta delibera Cipe n. 21 del 2014, risulta, quindi, la disponibilità per successive finalizzazioni per un importo complessivo di 182 milioni euro, tra i quali è moralmente indispensabile prevedere la copertura del fabbisogno della cassa integrazione guadagni in deroga nell'isola;
    l'alluvione in Sardegna del 2003 è l'unica tra le calamità naturali avvenute negli ultimi tre anni in Italia i cui danni non siano stati ripagati né alle imprese né alle famiglie. In sede di esame del decreto-legge 30 dicembre 2013, n. 151 (cosiddetto «salva Roma bis») era parso possibile ottenere specifiche misure di sostegno finanziario che furono invece rinviate ad un disegno di legge ordinario rimasto bloccato alla Camera dei deputati. Gli unici interventi finora realizzati sono il finanziamento iniziale di 20 milioni di euro per il ripristino immediato della viabilità temporanea, il mandato di commissario al presidente Anas per il ripristino delle strade provinciali e un intervento di 10 milioni di euro per le scuole primarie introdotto con la legge di stabilità 2015;
    il previsto trasferimento in Sardegna di decine di detenuti sottoposti ai regimi di massima sicurezza, condannati per reati di mafia, ha destato un forte allarme sociale per il timore che possano prodursi infiltrazioni mafiose in una regione impreparata, anche considerato che, a tutt'oggi, non sono conosciuti né il piano dei trasferimenti, né il piano definitivo di razionalizzazione del sistema penitenziario sardo, né la presenza di nuove e ulteriori strutture di prevenzione e sicurezza a partire dalla richiesta di una seconda direzione distrettuale antimafia da parte del sistema istituzionale e giudiziario sardo;
    quella sarda è la più grande minoranza linguistica italiana, composta da oltre un milione e mezzo di persone, come riconosciuto dalle legge n. 482 del 1999, adottata in applicazione dell'articolo 6 della Costituzione. In virtù di questa specificità, da anni la regione autonoma della Sardegna si è dotata di un suo piano della lingua e sostiene la produzione di notiziari radiotelevisivi e programmi in lingua sarda, diffusi anche dal servizio pubblico per effetto di una convenzione stipulata con la Rai-Radiotelevisione italiana. La situazione isolana non solo è assimilabile a quella presente nelle province autonome di Trento e Bolzano e nelle regioni della Valle d'Aosta e del Friuli Venezia Giulia, ma presenta delle sue specificità, essendo in Sardegna presenti delle lingue alloglotte, come il catalano di Alghero, il Sassarese, il Gallurese e il Tabarchino dell'isola di San Pietro. In virtù di questa varietà e ricchezza linguistica e delle leggi già vigenti nell'ordinamento, sarebbe auspicabile estendere alla Sardegna il medesimo trattamento normativo e relativo ai trasferimenti statali previsto per la diffusione di trasmissioni radiofoniche e televisive in lingua tedesca e ladina per la provincia autonoma di Bolzano, in lingua ladina per la provincia autonoma di Trento, in lingua francese per la regione autonoma Valle d'Aosta e in lingua slovena per la regione autonoma Friuli Venezia Giulia,

impegna il Governo:

   a promuovere ogni necessaria iniziativa istituzionale, legislativa, economica-finanziaria e organizzativa finalizzata allo sviluppo locale e alla crescita dell'occupazione in Sardegna, connessa alla più efficace valorizzazione delle principali vocazioni produttive della regione, anche per il particolare ruolo che occupa nel Mediterraneo;
   a riconoscere la «specialità» della condizione di insularità, nella programmazione di tutte le politiche di sviluppo nazionali, insularità comprensiva dell'accezione problematica, come costo aggiuntivo per la popolazione, naturale difficoltà per la Sardegna di essere connessa ai network nazionali e intesa come opportunità, considerata la centralità della Sardegna nel Mediterraneo, e le connesse potenzialità, che dalla stessa potrebbero derivare, per la costruzione di serie e lungimiranti politiche euro-mediterranee;
   ad inserire nell'agenda di Governo la questione sarda, i vincoli allo sviluppo e, insieme, le opportunità legate all'insularità e ai limiti infrastrutturali, anche attraverso la convocazione di uno specifico tavolo istituzionale Stato-regione, all'occorrenza partecipato anche dalle rappresentanze delle autonomie locali e delle forze sociali sarde, per l'esame del complesso delle vertenze aperte, sul fronte istituzionale, finanziario, economico-produttivo e sociale, al fine di una loro progressiva e celere risoluzione;
   a definire la questione energetica con l'avvio immediato di un tavolo tecnico e istituzionale per la metanizzazione dell'isola, che veda l'attuazione privilegiata sia nei tempi sia nelle risorse delle direttive dell'Unione europea 2014/94/UE e 2012/33/UE in materia di infrastrutture di stoccaggio del gas naturale liquido e di abbattimento dello zolfo nei combustibili per il trasporto marittimo; a monitorare e definire procedure chiare, rapide e semplificate per l'autorizzazione di impianti di stoccaggio del gas naturale liquido non solo a terra ma anche nelle aree portuali e per le tecnologie navali di trasporto, utili ad una quanto più veloce dotazione infrastrutturale che consenta l'uso del gas naturale liquido nell'isola;
   a valutare la possibilità di applicare misure fiscali atte a favorire la rapida compensazione dei costi delle famiglie e delle imprese finalizzate alla dotazione tecnologica per l'utilizzazione del metano, anche mediante gli opportuni indirizzi all'Autorità per l'energia il gas e il servizio idrico;
   a promuovere una continuità territoriale aerea e marittima in grado di garantire la concorrenza e il miglior servizio per i cittadini, sardi e non, in particolare, a sostenere e favorire, per quanto di competenza, l'introduzione di una nuova disciplina sulla continuità territoriale marittima ovvero a concorrere con la regione Sardegna alla redazione di norme di attuazione dello statuto speciale in materia di trasporto marittimo;
   a favorire il superamento del deficit infrastrutturale della Sardegna, assegnando alla regione risorse statali e comunitarie aggiuntive e con specifica destinazione, fra le altre, per le aree interne della Sardegna, per interventi volti a superare il deficit stesso, l'inefficienza dei servizi scolastici e sanitari, le problematiche legate all'abbandono del territorio;
   a promuovere la chiusura rapida del confronto sull'applicazione dell'articolo 8 dello statuto e il pieno riconoscimento del debito pregresso come richiesto dalla giunta regionale della Sardegna;
   a definire un nuovo accordo tra la regione e lo Stato che preveda la revisione dell'estensione territoriale delle servitù militari con un accordo con i comuni sui quali gravitano le servitù per l'accesso alle spiagge nella stagione turistica, una programmazione pluriennale per investimenti nel campo della ricerca scientifica e tecnologica che si rapporti con la quantità di territorio utilizzato rendendo sostenibile l'impegno dell'isola nel campo della difesa;
   ad assumere iniziative per estendere alla Sardegna, quale più grande minoranza linguistica italiana, il medesimo trattamento normativo, e relativo ai trasferimenti statali, previsto per la diffusione di trasmissioni radiofoniche e televisive in lingua tedesca e ladina per la provincia autonoma di Bolzano, in lingua ladina per la provincia autonoma di Trento, in lingua francese per la regione autonoma Valle d'Aosta e in lingua slovena per la regione autonoma Friuli Venezia Giulia;
   a promuovere l'apertura di un tavolo generale sulle tre aree di crisi industriali per valutare nell'insieme una strategia produttiva ed energetica per l'isola, una possibile nuova declinazione della vocazione industriale di alcuni territori, portando a conclusione le vertenze industriali ormai aperte da troppo tempo, valutando il possibile utilizzo di alcuni strumenti legislativi già disponibili, come l'istituzione delle aree di crisi complessa, per definire un piano operativo regionale di rilancio delle imprese strategiche (si veda il settore dell'alluminio), come di bonifica delle aree inquinate;
   ad istituire un tavolo istituzionale per individuare le necessarie iniziative normative volte a incentivare il settore agroalimentare al fine del rilancio a livello regionale di un comparto strategico anche alla luce del ruolo di Expo, sia sul fronte della produzione legata al patrimonio ovino che a quello ittico che ad ambiti strategici per gli investitori internazionali;
   ad assumere iniziative per individuare la copertura dei costi del 2014 della cassa integrazione guadagni in deroga per i 43.000 lavoratori sardi attraverso l'adozione di una delibera Cipe di assegnazione, in favore della regione Sardegna, dell'importo derivante dai meccanismi sanzionatori disposti nel giugno 2014 (delibera Cipe n. 21 del 2014, pari a circa 110 milioni di euro, per il finanziamento degli «ammortizzatori sociali in deroga»);
   a definire le vicende relative al mancato svolgimento del G8 sull'isola de La Maddalena, con la conclusione delle bonifiche marine e di superficie e il subentro della regione nelle proprietà ancora in capo alla Protezione civile, pur in costanza di un conflitto giudiziario, per far partire, dopo 7 anni, la conversione dell'economia dell'isola da militare a turistica;
   a ridiscutere il piano carcerario per l'isola, degli interventi a breve e medio termine, compresi quelli relativi al rafforzamento della struttura di prevenzione e di sicurezza per l'isola.
(1-00854) «Mura, Cani, Capelli, Di Gioia, Marrocu, Martella, Marco Meloni, Meta, Pes, Rosato, Francesco Sanna, Giovanna Sanna, Scanu».
(Mozione non iscritta all'ordine del giorno ma vertente su materia analoga).


   La Camera,
   premesso che:
    in base al rapporto Svimez (diffuso nell'ottobre 2014), nel 2013 il prodotto interno lordo è crollato nel Mezzogiorno del 3,5 per cento, un calo superiore di quasi due punti percentuali rispetto al Centro-Nord (-1,4 per cento); per il sesto anno consecutivo il prodotto interno lordo del Mezzogiorno registra un segno negativo e negli anni di crisi (2008-2013) il Sud ha perso il 13,3 per cento contro il 7 per cento del Centro-Nord; in quest'ambito la Sardegna registra per il 2013 un calo superiore alla media con una riduzione del prodotto interno lordo del 4,4 per cento, mentre per il periodo 2008-2013 il calo è del 13,3 per cento;
    nel 2014, mentre le regioni del Centro-Nord hanno iniziato una faticosa ripresa, il Sud ha continuato nella sua spirale discendente. Per la Sardegna questo significa un calo ulteriore del prodotto interno lordo dello 0,8 per cento; nell'isola il prodotto interno lordo pro capite è pari a 18.620 euro annui, circa la metà della Valle d'Aosta, e il tasso di popolazione in disagio sociale è tra i più elevati d'Italia, il 31,7 per cento. Le famiglie povere sono pari al 24,8 per cento. Il tasso di disoccupazione supera il 19 per cento, il tasso di disoccupazione per i giovani con meno di 24 anni è pari al 54 per cento. Sono in aumento sia la percentuale di laureati emigrati (21,6 per cento), sia il tasso di dispersione scolastica pari al 27 per cento;
    in un'economia ormai in fase di stagnazione, dalla fine del 2013 al settembre 2014 il numero di imprese artigiane della Sardegna è calato del 2,4 per cento. Il rapporto congiunturale sulle imprese artigiane dell'isola, presentato a Cagliari dalla Confederazione nazionale dell'artigianato e della piccola e media impresa a fine ottobre 2014, segnala che in media ogni mese nell'isola falliscono cento aziende artigiane. Assoturismo registra un bilancio negativo anche nell'ambito delle imprese turistiche, con numero di chiusure pari quasi al doppio delle nuove aperture, nonostante il trend turistico indichi per il 2015 un aumento degli afflussi turistici nella regione;
    in questo quadro è opportuno registrare positivamente quanto stabilito dai commi 511 e 514 dell'articolo 1 della legge di stabilità per il 2015, nei quali si è stabilito che:
     a) le entrate afferenti al territorio della regione Sardegna siano destinate per 50 milioni di euro alla copertura di spese in conto capitale della regione e per la restante parte alla riduzione del debito della regione Sardegna stessa e degli enti locali del proprio territorio;
     b) la regione potrà usufruire di una maggiore manovrabilità della leva fiscale e di una maggiore autonomia nell'utilizzo delle risorse, anche grazie alla riscrittura dell'articolo 10 dello statuto regionale;
    il 6 maggio 2015 la giunta regionale ha autorizzato l'utilizzo dei primi 150 milioni di euro di riserve erariali per abbattere il debito pubblico della Sardegna; tuttavia, sussiste ancora un contenzioso finanziario dovuto alla difformità di interpretazione in merito all'attribuzione di alcuni tributi erariali e ad un residuo debito statale per circa un miliardo da saldare nei confronti della regione sarda, tenendo conto che la stessa regione ha contribuito al ristoro del debito dello Stato per oltre 570 milioni di euro negli anni 2013-2014, con previsione di un ulteriore apporto a decorrere dal 2015 di 97 milioni di euro (comma 400 dell'articolo 1 della legge di stabilità 2015);
    in Sardegna oltre 35.000 ettari di territorio, pari al 61 per cento del totale delle aree del territorio nazionale, sono oggetto di servitù e 80 chilometri di coste sono sotto vincolo di servitù militare; ma nell'isola si investe solo il 2 per cento dei costi relativi alla funzione difesa. Nel gennaio 2015 la giunta regionale ha chiesto misure di riequilibrio volte a ridurre e compensare i danni sanitari, ambientali, sociali ed economico-produttivi subiti che derivano dai vincoli delle servitù militari; ha chiesto inoltre la progressiva diminuzione delle aree soggette a vincolo oltre alla dismissione di alcuni poligoni;
    un documento condiviso, siglato dalla regione e dal Ministero della difesa a gennaio 2015, prevede di valutare ipotesi di riequilibrio che riducano il gravame delle servitù militari. Nel mese di aprile 2015 si è aperto uno specifico «tavolo Stato-regione» con l'obiettivo di individuare meccanismi per la mitigazione dell'impatto della presenza militare in Sardegna e la definizione dei costi sia per il mancato sviluppo, sia in relazione ai danni ambientali;
    alle imprese sarde l'energia costa trecento milioni di euro l'anno, il 50 per cento in più rispetto alla media dei Paesi dell'Unione europea, mentre l'Italia si attesta su un +30 per cento rispetto alla media europea. Per ogni impresa sarda si tratta di maggiori costi per oltre 2.700 euro l'anno. Gli alti costi e la crisi economica hanno comportato il crollo dei consumi elettrici: un'elaborazione dell'ufficio studi di Confartigianato relativa alla domanda di energia elettrica delle imprese, su dati Terna del 2012 e 2013, ha evidenziato il dato che a livello regionale si è passati da 7.383 a 5.573 gigawatt/ore, con una riduzione dei consumi del 24,5 per cento;
    in tale ambito sussiste un duplice problema: da un lato, anche a seguito dell'uscita dal progetto Galsi, la Sardegna è l'unica regione a non essere metanizzata; inoltre, occorre ricordare che la regione deve ancora subentrare nella gestione degli invasi sfruttati dall'Enel per uso idroelettrico, che, ai sensi del decreto legislativo n. 79 del 1999 sono in concessione fino al 2029; infine, i gestori delle centrali sarde sono ancora in attesa della deliberazione dell'Autorità per l'energia elettrica il gas e il servizio idrico che proroghi anche per il 2015 il riconoscimento del regime di essenzialità per gli impianti di produzione sul territorio dell'isola; tale decisione è di primaria importanza affinché Terna riconosca ai gestori i costi di produzione dell'energia, in modo da garantire alle imprese sarde di poter fruire di più bassi costi dell'energia;
    contestualmente la Sardegna è divenuta una piattaforma di produzione di energia rinnovabile da impianti fotovoltaici ed eolici ed è interessata da numerosi progetti per la realizzazione di pozzi marini per la ricerca di petrolio e gas naturale; peraltro il decreto-legge «sblocca Italia» n. 133 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 164 del 2014, ha ridotto il potere della regione di decidere su prospezioni e coltivazioni di giacimenti di idrocarburi;
    per quel che riguarda l'attuazione del principio della «continuità territoriale», intesa come fattore di riequilibrio di condizioni permanenti di svantaggio derivanti dall'insularità e volta ad assicurare la parità di trattamento, in termini di mobilità interna all'Unione europea, dopo la privatizzazione della compagnia marittima Tirrenia, il 31 luglio 2014 la regione ha siglato un accordo con la compagnia con il quale si è mantenuto un regime tariffario favorevole, ma sono stati ridotti fortemente non solo le corse, specie nel periodo invernale, ma anche i punti di attracco; si consideri altresì che la Tirrenia continuerà a ricevere dallo Stato 52 milioni di euro l'anno fino al 2020 per compensazioni relative alla continuità territoriale;
    a luglio 2015, cioè alla fine del primo periodo regolatorio, da più parti si richiede una profonda rivisitazione della convenzione in quanto il contratto di servizio è ritenuto carente e fondato su parametri di traffico non corretti e complessivamente non rispettoso delle reali esigenze di collegamento della Sardegna; è anche necessario riconsiderare la continuità territoriale merci, ove si tenga conto che i prodotti della regione continuano a soffrire un gap di competitività dovuto alla distanza dai mercati e che negli ultimi 5 anni è scomparso il 21,4 per cento delle imprese di autotrasporto dell'isola;
    quanto al trasporto aereo, nell'ottobre 2014 è stato ritirato, dopo le osservazioni comunitarie, il decreto relativo alla proposta della «continuità territoriale 2» che avrebbe imposto gli oneri di servizio pubblico per i voli tra gli aeroporti di Alghero, Cagliari e Olbia e gli scali cosiddetti minori della penisola: Bologna, Verona, Torino e Napoli; la decisione comunitaria, basata sull'osservazione che per tali tratte esistono già voli di compagnie low cost, ha posto definitivamente in crisi la Meridiana, con il concreto rischio (poi in parte rientrato) di oltre 1600 licenziamenti nel 2015. Meridiana ha svolto in passato un ruolo importante nella continuità territoriale da e per la Sardegna e la decisione comunitaria di favorire le compagnie low cost non appare del tutto congrua con le esigenze occupazionali, ma soprattutto con le esigenze di copertura del servizio anche al di là della redditività economica; peraltro il 13 novembre 2014 sono stati approvati al Senato della Repubblica alcuni atti di indirizzo con i quali il Governo si è impegnato a verificare la compatibilità del piano industriale di Meridiana con il piano generale del trasporto aereo; a definire un'adeguata strategia con la regione sarda che consenta politiche di trasporto aereo per garantire la continuità territoriale di residenti e non residenti; a garantire in linea con la normativa europea regimi tariffari e un adeguato numero di collegamenti aerei da e per la Sardegna di breve e medio raggio, per favorire la libera circolazione di persone e mezzi;
    in materia di infrastrutture, il 2014 e il primo scorcio del 2015 hanno evidenziato segnali indubbiamente positivi per la Sardegna. Nel corso del 2014 è stata registrata una lieve ripresa dei lavori pubblici essendo stati banditi 1.103 appalti del valore di circa 761 milioni di euro, relativi a 980 gare; inoltre il Cipe nel marzo 2015, ha definitivamente approvato il piano per il Sulcis, dotandolo di 127 milioni di euro; infine, nella tabella E della legge di stabilità per il 2015, è stato previsto un fondo di 700 milioni di euro, grazie al quale la regione ha avviato un piano infrastrutturale in cui sono previsti 259 interventi per oltre 550 milioni di euro;
    con riferimento alla legge obiettivo per le infrastrutture strategiche, la Sardegna ha in programma interventi per 6,3 miliardi di euro, su un valore complessivo degli interventi di 285,2 miliardi di euro. Le disponibilità finanziarie ammontano a 3,2 miliardi di euro mentre il fabbisogno residuo ammonta a 3,1 miliardi di euro. Il progetto «Piastra logistica euro mediterranea della Sardegna» prevede importanti investimenti su due delle principali arterie stradali, la strada statale 131 (circa 1,7 miliardi di euro) e la strada statale 597/199 Sassari-Olbia (927 milioni di euro). Quest'ultima opera è finanziata per un importo pari a 606,5 milioni di euro con le risorse del piano nazionale per il sud ed è considerata prioritaria dal Governo. Si tratta dell'unica infrastruttura regionale del Programma delle infrastrutture strategiche inserita tra le opere prioritarie di cui all'Allegato infrastrutture al Documento di economia e finanza 2015 (aprile 2015); ulteriori opere prioritarie potranno essere individuate in occasione della definizione, entro il mese di settembre 2015, del Documento pluriennale di pianificazione; si rammenta che con il Documento di economia e finanza 2009, oltre alle due opere citate, il Governo si era impegnato anche alla realizzazione della trasversale centrale sarda e del tunnel sotterraneo a Cagliari;
    la Sardegna tuttavia non è ricompresa nell'elenco di progetti infrastrutturali relativi al cosiddetto piano Junker, avviato nel gennaio 2015 con l'intento di rilanciare la crescita economica e in relazione al quale l'Italia ha presentato in tutto 98 progetti per un costo complessivo di oltre 200 miliardi di euro; poiché tale piano non è ancora del tutto definito potrebbe esservi ricompreso il rilancio dell'Alcoa, così come vi è stata compresa l'Ilva di Taranto,

impegna il Governo:

   in relazione al contenzioso finanziario ancora in essere tra lo Stato e la regione Sardegna, ad individuare con urgenza una soluzione condivisa che detti criteri certi di suddivisione delle quote e determini un maggior rafforzamento del ruolo della regione;
   in sede di trattativa Stato-regione Sardegna per quel che riguarda le servitù militari, a valutare l'ipotesi di ridurre le aree della regione soggette a vincolo e contestualmente, nel quadro della trasparenza necessaria sui dati che riguardano la salute dei cittadini, a fornire tutte le informazioni sulle aree contaminate dalle attività militari e una valutazione sugli oneri necessari alla loro bonifica e messa in sicurezza;
   al fine di garantire maggiore competitività alle imprese della regione:
    a) a porre in essere le iniziative necessarie a riequilibrare il differenziale dei costi dell'energia tra la Sardegna e la media dei costi sostenuti nel resto della penisola;
    b) ad avviare le procedure di competenza al fine di istituire in Sardegna una o più zone franche, come previsto dallo statuto speciale della Sardegna;
   in considerazione dei limiti riscontrati nell'applicazione del principio di continuità territoriale:
    a) in vista della prossima revisione prevista per luglio 2015 della convenzione tra Tirrenia e regione Sardegna, ad adoperarsi, per quanto di competenza, per l'ampliamento dei servizi compresi nel contratto di servizio, anche in considerazione del fatto che la Tirrenia, che ha i bilanci in attivo, percepisce contributi dal bilancio dello Stato;
    b) tenuto conto degli atti di indirizzo in materia, approvati dal Senato della Repubblica il 13 novembre 2014, a valutare la possibilità di riproporre il cosiddetto decreto «continuità territoriale 2», secondo modalità che tengano conto delle osservazioni comunitarie;
    c) ad adoperarsi per rafforzare la continuità territoriale merci, che già in passato era stata stabilita per legge mediante applicazione di un regime compensativo in favore delle imprese di trasporto residenti sull'isola, in considerazione del gap competitivo di cui ancora soffrono i beni prodotti in regione e della crisi dell'autotrasporto locale;
    d) a monitorare gli incrementi delle tasse di imbarco nei porti e negli aeroporti della terraferma, a carico dei passeggeri, dei mezzi e delle merci verso la Sardegna, come denunciato dalla regione più volte, intervenendo per una loro riduzione qualora le suddette tasse si configurino come non giustificate;
    e) ad avviare una puntuale analisi e ad assumere, ove necessario, iniziative per la modifica sostanziale delle norme vigenti e della loro applicazione al fine di assicurare la piena mobilità dei cittadini sardi, da e verso la Sardegna;
   in materia di attuazione dei piani infrastrutturali, così come descritti in premessa, in vista della definitiva stesura, prevista per settembre 2015, del documento pluriennale di pianificazione, sentita la regione Sardegna, a dare priorità realizzativa ed adeguata dotazione finanziaria:
    a) agli interventi in materia di adeguamento delle reti stradali e ferroviarie;
    b) agli interventi in ambito portuale;
    c) agli interventi necessari a ridurre il prezzo dell'energia nell'isola, con particolare riferimento al progetto di interconnessione elettrica con l'Italia e agli interventi del piano degli elettrodotti della rete elettrica di trasmissione nazionale;
   con riferimento ai progetti relativi al cosiddetto piano Junker, a valutare se non sia opportuno ricomprendere nei progetti presentati dall'Italia taluni interventi nella regione Sardegna, ivi compreso un piano di rilancio dell'Alcoa, quale industria strategica nazionale.
(1-00855) «Piso, Dorina Bianchi, Capelli».
(Mozione non iscritta all'ordine del giorno ma vertente su materia analoga).


MOZIONI DAMBRUOSO, PAGANO, CAPEZZONE, CATANIA, FAUTTILLI ED ALTRI N. 1-00760, CARFAGNA ED ALTRI N. 1-00827, RONDINI ED ALTRI N. 1-00692, BINETTI ED ALTRI N. 1-00483, GRANDE ED ALTRI N. 1-00849, BECHIS ED ALTRI N. 1-00856 E PREZIOSI ED ALTRI N. 1-00857 CONCERNENTI INIZIATIVE IN SEDE EUROPEA E INTERNAZIONALE PER LA PROTEZIONE DEI PERSEGUITATI PER MOTIVI RELIGIOSI

Mozioni

   La Camera,
   premesso che:
    in ampie aree del mondo, dall'area mediorientale – Iraq, Siria, Libia, Palestina – a quella del Nord e del Centro dell'Africa – Libia, Nigeria, Somalia – si sono intensificate le persecuzioni nei confronti dei cristiani. Le continue violazioni della libertà religiosa, ispirate dall'odio ultrafondamentalista causano morte, sofferenze, l'esilio, perdita delle persone care e dei propri beni;
    i cristiani al mondo che in questo momento subiscono persecuzioni sono stimati in non meno di 100 milioni e le uccisioni, secondo le valutazioni più prudenti, sono almeno 7.000 all'anno (ma per qualcuno si dovrebbe aggiungere uno zero);
    le violazioni della libertà religiosa non riguardano solo i cristiani: la follia omicida dell'Isis, per esempio, colpisce con eguale crudeltà gli yazidi, i musulmani sciiti e anche i musulmani sunniti che non accettano le prevaricazioni dei terroristi. Sono rase al suolo non soltanto le chiese, ma anche i templi, le moschee e i minareti. I cristiani, tuttavia, vantano il triste primato di essere circa l'80 per cento del totale dei perseguitati per ragioni religiose;
    il terribile destino riservato ai ventuno coopti decapitati nei giorni scorsi sulle coste libiche, espiando la «colpa» di essere cristiani, a poche centinaia di miglia dalla Sicilia, ha esplicitato nel modo più turpe che si tratta di una tragedia molto prossima a noi;
    il rischio è che la moltiplicazione delle notizie di uccisioni, di massacri, di distruzioni provochi non un incremento della capacità di reagire da parte dell'Occidente, dell'Europa e dell'Italia, ma un incremento dell'assuefazione, come se fossero eventi inevitabili, qualcosa che comunque deve succedere;
    la risposta a un'aggressione ingiusta deve essere intelligente e adeguata al contesto. È, dunque, necessario che un eventuale intervento sia multilaterale, non di sole potenze «occidentali», coinvolgendo possibilmente anche Paesi musulmani;
    l'intervento militare, doveroso da realizzare, sarà efficace soltanto se coerente con l'atteggiamento culturale. È fondamentale pertanto respingere l'idea che tutto l'Islam è il male assoluto, quasi fosse una guerra finale fra l'Occidente e un miliardo e mezzo di musulmani. L'unico modo di disinnescare l'ultrafondamentalismo islamico e il terrorismo è trovare dei musulmani che ci aiutino a farlo: fuori e dentro i confini nazionali;
    quel che è certo è che non può proseguire una indifferenza di fatto, che concorre ad aumentare i lutti, le violenze e le distruzioni,

impegna il Governo:

   a rendersi promotore nelle sedi europee e internazionali di ogni iniziativa necessaria ad assicurare la concreta protezione dei perseguitati per motivi religiosi, in coerenza con le numerose deliberazioni adottate dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e con gli indirizzi già approvati dal Parlamento italiano;
   ad assumere, in particolare, l'iniziativa in sede europea e internazionale della costituzione di una compagine, aperta ai principali attori regionali, che reagisca alle violenze più efferate e tuteli popolazioni e comunità oggetto di massacri e di persecuzioni solo per ragioni di fede religiosa;
   ad aggiornare periodicamente la Camera dei deputati sullo stato dei lavori e sui risultati ottenuti.
(1-00760) «Dambruoso, Pagano, Capezzone, Catania, Fauttilli, Bernardo, Binetti, Bueno, Centemero, Antimo Cesaro, Chiarelli, D'Agostino, Fabrizio Di Stefano, Ermini, Galati, Galgano, Riccardo Gallo, Gigli, Laffranco, Latronico, Maietta, Marazziti, Marotta, Matarrese, Molea, Palese, Piepoli, Piso, Rabino, Romele, Santerini, Tancredi, Vargiu».


   La Camera,
   premesso che:
    la libertà religiosa è la madre di tutte le libertà, in quanto investe la libertà di coscienza, di pensiero e di professione pubblica della fede di ciascuno. Come tale fa parte dei diritti fondamentali ed inalienabili dell'uomo, espressi nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. Tale diritto, pertanto, include la libertà di cambiare religione o credo e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, sia in pubblico sia in privato, la propria religione o il proprio credo nell'insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell'osservanza dei riti;
    la libertà religiosa rappresenta senz'altro lo sfondo dove ricercare un'efficace politica sociale attenta alle differenze, dove incoraggiare scelte segnate da una tolleranza genuina che non camuffi le diversità e da un'azione che sostenga l'integrazione, il dialogo plurale per il bene comune, la tutela dei diritti umani e la partecipazione democratica;
    la storia dimostra che non solo la libertà religiosa è il pilastro portante di tutte le libertà, ma che l'intolleranza religiosa porta inevitabilmente alla violazione di diritti umani fondamentali e, molto spesso, a conflitti cruenti e devastanti;
    purtroppo, come documentano troppi eventi, il diritto alla libertà religiosa è ancora oggi messo in discussione: gli atti di violenza commessi in nome della religione continuano, infatti, a dominare la scena internazionale, generando intolleranza spesso alimentata e strumentalizzata per motivi politici ed economici, che sempre più di frequente producono azioni collettive aberranti a danno delle minoranze;
    in molti Paesi, vi sono ancora discriminazioni di ordine giuridico o costituzionale oppure vere e proprie ostilità religiose, spesso legate a tensioni etniche o tribali. In diversi casi, vi è un gruppo religioso che opprime o, addirittura, cerca di eliminarne un altro, o c’è uno Stato autoritario che tenta di limitare le attività di un particolare gruppo religioso;
    in questo contesto, la grave mancanza di libertà religiosa di cui soffrono i cristiani in molti Paesi provoca ancora vittime innocenti, perpetrando una vera e propria persecuzione, che rappresenta un'offensiva condotta con violenza sistematica e indiscriminata contro la presenza cristiana in vaste aree del mondo. Si tratta di una tragedia umanitaria di proporzioni drammatiche che si consuma ogni giorno: casi di cristiani perseguitati solo a causa della loro fede, trucidati in nome del fanatismo e radicalismo religioso;
    il termine «cristianofobia» è quello che descrive più compiutamente questo fenomeno di portata universale e come tale è stato adottato dall'Onu sin dal 2003 e dal Parlamento europeo nel 2007. Con questa espressione si vuole qualificare la peculiarità di una persecuzione che si manifesta in odio cruento in Paesi dove il cristianesimo è minoranza, ma trova fertile terreno anche in Occidente da parte di chi vuole negare la pertinenza pubblica della fede cristiana;
    il Novecento è stato il secolo dell'eccidio dei cristiani: in cento anni ci sono stati più «martiri» che nei duemila anni precedenti. Sono circa cento milioni i cristiani perseguitati in tutto il mondo: nel 2014 si stimano 4.344 vittime e 1.062 chiese attaccate. In media ogni mese 322 cristiani vengono uccisi nel mondo a causa della loro fede, 214 tra chiese ed edifici di proprietà dei cristiani sono distrutti e danneggiati e 722 sono gli atti di violenza perpetrati nei loro confronti. Le statistiche sono di opendoorsusa.org, un'organizzazione no profit evangelica che assiste cristiani perseguitati di tutte le confessioni in più di sessanta Paesi;
    nel 2014 e nel primo trimestre 2015 i cristiani si confermano, dunque, come il gruppo religioso maggiormente perseguitato: dalla Nigeria all'Africa subsahariana, dalla Siria all'Iraq, al Pakistan, è lunga la scia di sangue che li vede sempre più sotto attacco con arresti, deportazioni, torture, stupri e decapitazioni;
    tra i crimini recenti più efferati, si ricorda la barbara uccisione dei 21 cristiani copti, rapiti a Sirte, in Libia, dai miliziani affiliati allo Stato islamico;
    il 10 aprile 2015, in Pakistan un adolescente di 14 anni di religione cristiana è stato arso vivo da alcuni giovani musulmani ed ora lotta tra la vita e la morte, in ospedale a Lahore, con gravi ustioni su tutto il corpo;
    le limitazioni alla libertà religiosa conoscono un triste primato in Darfur, teatro di violenti stupri di massa, ma ancora più agghiaccianti sono i massacri compiuti in Nigeria dai fondamentalisti islamici di Boko Haram; lo stesso gruppo terroristico si è reso protagonista di uno degli episodi più raccapriccianti: il rapimento, nella notte del 14 aprile 2014, di 275 ragazze cristiane, studentesse della scuola secondaria del villaggio di Chibok. Alcune decine di loro riuscirono a scappare, ma in grandissima misura (più di 200) mancano ancora all'appello, molto probabilmente gettate nelle fosse comuni;
    non sono da meno i tormenti inflitti ai cristiani in Medio Oriente: in Iraq, dall'estate del 2014, sono centinaia di migliaia quelli costretti a fuggire dalle loro case sotto l'incalzare dell'avanzata dei jihadisti dell'Isis;
    vi sono poi Paesi come il Kenya, in cui i cristiani rappresentano la maggioranza della popolazione, ma che, a causa delle tensioni religiose, connesse ad una situazione politica complessa, sono vittime di atti di persecuzione. Risale, infatti, a giovedì santo l'episodio di violenza jihadista degli estremisti somali Al Shabaab contro un campus universitario, che ha provocato la morte di almeno 147 persone;
    nel mese di marzo 2015, davanti agli attentati mossi dinnanzi a due chiese in Pakistan, che hanno provocato 15 morti e 80 feriti, Papa Francesco ha parlato di una «persecuzione contro i cristiani che il mondo cerca di nascondere»;
    e ancora recentemente, in occasione della messa per gli armeni, il Papa ha avuto modo di ricordare che «oggi stiamo vivendo una sorta di genocidio causato dall'indifferenza generale e collettiva», «una terza guerra mondiale a pezzi», in cui «sentiamo il grido soffocato e trascurato di tanti nostri fratelli e sorelle inermi, che a causa della loro fede in Cristo o della loro appartenenza etnica» vengono perseguitati;
    non si può rimanere indifferenti davanti a tutto questo, soprattutto in un momento storico in cui il fronte dell'intolleranza sta toccando così tante nazioni nei diversi continenti e, soprattutto, nelle occasioni più incredibili. Basti pensare che solo qualche giorno fa, su un barcone di immigrati diretto verso il nostro Paese, durante la traversata del Canale di Sicilia, è scoppiata una rissa per motivi religiosi, in cui i musulmani avrebbero sopraffatto i cristiani scaraventandoli fuori bordo e provocando la morte di alcuni di loro;
    in questo clima, ciò che più colpisce è il silenzio delle istituzioni, nonché la mancanza di un'iniziativa forte e decisa a carico della diplomazia internazionale;
    l'integrazione europea, per essere autentica, deve fondarsi sul rispetto delle identità dei popoli dell'Europa, che vedono tra le sorgenti della propria civiltà il Cristianesimo, che è all'origine dell'idea di persona e della sua centralità;
    lo stesso principio di laicità dello Stato, che rappresenta una delle conquiste più importanti delle democrazie liberali e pluraliste, non implica indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni, ma garanzia dello Stato stesso per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale;
    la libertà religiosa assume, quindi, un ruolo fondamentale anche a garanzia del principio supremo di laicità dello Stato, sul quale si struttura il concetto di democrazia;
    di fronte a ciò che sta accadendo, anche a tutela dei principi che fondano le democrazie che la compongono, l'Europa, in particolare, ha il dovere di rivendicare con orgoglio i propri valori e la propria identità, senza rinunciare ad affermare le sue radici giudaico-cristiane, con piena consapevolezza delle origini culturali delle proprie idee e istituzioni democratiche,

impegna il Governo:

   a promuovere ogni azione, a livello internazionale e nei rapporti bilaterali, volta a riconoscere la persecuzione nei confronti dei cristiani come priorità assoluta, affinché sia condannata e contrastata con ogni mezzo;
   a porre in essere ogni iniziativa affinché i Governi dei Paesi alleati e dei Paesi che sostiene con gli strumenti della cooperazione internazionale forniscano adeguata protezione ai cristiani e garantiscano il loro diritto ad esercitare e a professare la loro fede in sicurezza e libertà;
   ad adottare ogni iniziativa utile a garantire la tutela delle minoranze cristiane anche attraverso azioni dirette, da realizzare in collaborazione con le rappresentanze diplomatiche italiane e consolari;
   a far valere, nelle relazioni diplomatiche ed economiche, bilaterali o multilaterali, la necessità di un effettivo impegno degli Stati per la tolleranza e la libertà religiosa, in particolare dei cristiani e delle altre minoranze perseguitate, laddove risulti minacciata o compressa per legge o per prassi, direttamente dalle autorità di Governo o attraverso un tacito assenso che implichi l'impunità dei violenti;
   ad adoperarsi affinché analogo principio sia fatto valere a livello di Unione europea e di qualsiasi altro organismo internazionale per l'assegnazione di aiuti agli Stati;
   a promuovere nelle competenti sedi internazionali, di concerto con i partner dell'Unione europea, iniziative atte a rafforzare il rispetto del principio di libertà religiosa, la tutela delle minoranze religiose, la lotta contro la cristianofobia e il monitoraggio delle violazioni, dando concreta attuazione agli strumenti internazionali esistenti.
(1-00827) «Carfagna, Brunetta, Centemero, Prestigiacomo, Palmieri, Gelmini, Garnero Santanchè, Giammanco, Ravetto, Milanato, Sandra Savino, Distaso, Polidori, Vella, Elvira Savino, Altieri, Marotta, Bianconi, Bergamini, Biancofiore, Castiello, Abrignani, Nizzi, Calabria, Occhiuto».


   La Camera,
   premesso che:
    «la difesa della libertà religiosa è la cartina di tornasole per verificare il rispetto di tutti gli altri diritti umani in un Paese». Così disse Giovanni Paolo II nell'ottobre del 2003 ai partecipanti all'Assemblea parlamentare dell'Osce. Se in un Paese la libertà religiosa non è rispettata, difficilmente lo saranno gli altri diritti umani;
    in quella, come in molte altre occasioni, Wojtyla sottolineò «la dimensione internazionale del diritto alla libertà di religione e la sua importanza per la sicurezza e la stabilità della comunità delle nazioni», incoraggiandone la difesa e la promozione da parte dei singoli Stati e di altri organismi internazionali;
    oggi circa il 74 per cento della popolazione mondiale – quasi 5,3 miliardi di persone – vive in Paesi in cui la libertà religiosa è soggetta a più o meno gravi violazioni e limitazioni, che si traducono spesso in vere e proprie persecuzioni religiose. Sono 116 i Paesi nel mondo in cui si registrano violazioni della libertà religiosa;
    recenti studi dimostrano che circa i tre quarti dei casi di persecuzioni religiose nel mondo riguardano i cristiani. Sono almeno 500 milioni i cristiani che vivono in Paesi in cui subiscono persecuzione, mentre altri 208 milioni vivono in Paesi in cui sono discriminati a causa del proprio credo;
    anche il numero di cristiani uccisi ogni anno in ragione della propria fede è tristemente elevato. Le stime variano da 100 mila a poche migliaia. Non è, tuttavia, rilevante sapere se vi è un cristiano ucciso in odio alla fede ogni cinque minuti, oppure ogni giorno. È comunque troppo;
    tra i colpevoli di discriminazioni e persecuzioni ai danni di gruppi religiosi vi sono numerosi Governi. «La libertà religiosa è qualcosa che non tutti i Paesi hanno – ha ricordato Papa Francesco rientrando dal suo viaggio in Terra Santa –. Alcuni esercitano un controllo, altri prendono misure che finiscono in una vera persecuzione. Ci sono martiri oggi, martiri cristiani, cattolici e non cattolici. In alcuni posti non puoi portare un crocifisso, avere una Bibbia, o insegnare il catechismo ai bambini. E io credo che in questo tempo ci siano più martiri che nei primi tempi della Chiesa»;
    in Cina il controllo dello Stato sulle attività religiose è andato tristemente aumentando negli ultimi anni, così come il numero degli arresti di cristiani, buddisti e musulmani e la distruzione di edifici religiosi. Recentemente nella provincia di Zhejang oltre sessanta chiese sono state demolite o danneggiate. La Costituzione riconosce sulla carta la libertà di religione, ma autorizza le sole attività religiose «normali», senza tuttavia fornirne alcuna definizione. Chiunque partecipi a riunioni o manifestazioni religiose non «autorizzate» è arrestato e può subire torture e abusi. Stessa sorte è toccata ai numerosi cattolici che, per fedeltà al Papa, hanno rifiutato di aderire all'Associazione patriottica cattolica cinese;
    lo stretto controllo governativo limita in modo rilevante la libertà religiosa anche in altri Paesi asiatici, quali Laos, Vietnam, Malesia, Kazakhistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan, Vietnam;
    uno dei Paesi in cui la libertà religiosa è meno tutelata è senza dubbio il Pakistan. Qui lo strumento d'elezione per la discriminazione e la persecuzione delle minoranze religiose è la cosiddetta legge antiblasfemia – corrispondente ad alcuni articoli del codice penale pachistano – che punisce con la pena di morte chi insulta il profeta Maometto e con il carcere a vita chi profana il Corano. In Pakistan sono detenute 36 delle 43 persone arrestate con l'accusa di blasfemia in tutto il mondo. 17 di queste sono state condannate alla pena capitale, mentre le altre stanno scontando una pena detentiva a vita. Senza contare le migliaia di omicidi extra-giudiziali compiuti a causa di tale norma. Ne sono un tragico esempio i due coniugi cristiani gettati vivi in una fornace il 4 novembre del 2014, a seguito di un'accusa di blasfemia;
    anche se tra gli accusati non mancano appartenenti alla maggioranza musulmana, i dati dimostrano come la legge – che non prevede l'onere della prova per chi accusa e si presta dunque facilmente a un uso improprio – è soprattutto utilizzata per colpire le minoranze religiose. Nel 2013 su 32 casi registrati, 12 hanno riguardato imputati cristiani: si tratta del 40 per cento delle denunce, in un Paese in cui la minoranza cristiana rappresenta appena il 2 per cento della popolazione;
    un'altra piaga che colpisce le minoranze religiose del Pakistan è il rapimento e la conversione forzata all'Islam di adolescenti e bambine. Secondo i dati ufficiali, ogni anno circa 750 giovani cristiane e 250 indù sarebbero rapite e obbligate a convertirsi per contrarre matrimonio islamico. Ma, dal momento che la percentuale dei crimini riportati è minima, si ritiene che i casi siano almeno il doppio;
    nei mesi scorsi il caso di Meriam Yahya Ibrahim Ishaq, la donna sudanese condannata a morte per apostasia, ha portato all'attenzione internazionale il dramma in atto nei Paesi in cui è vietato convertirsi dall'Islam ad altra religione. In 21 Paesi il reato di apostasia è regolato dal codice penale e alcuni di questi, tra cui Iran, Sudan, Arabia Saudita, Egitto, Somalia, Afghanistan, Qatar, Yemen, Pakistan e Mauritania, contemplano la pena di morte per questo tipo di reato;
    gravi sono le violazioni alla libertà religiosa nei Paesi in cui la legge islamica è fonte di diritto, sia che questa venga applicata a tutti i cittadini – come ad esempio in Sudan – sia che sia fatta distinzione tra musulmani e non musulmani. In 17 dei 49 Paesi a maggioranza islamica, l'Islam è riconosciuto come religione di Stato. Un primato sancito dalla Costituzione che implica molteplici conseguenze: dall'esclusione delle minoranze dalla pratica religiosa – è questo il caso dell'Arabia Saudita – fino a forme di tolleranza vincolate a rigidi controlli delle attività religiose;
    in Medio Oriente, in seguito alla cosiddetta primavera araba, si è assistito ad un aumento della pressione di gruppi fondamentalisti ed una crescente ostilità nei confronti della minoranza cristiana. In Egitto nel solo 2013 sono stati distrutti o danneggiati oltre 200 tra chiese, edifici religiosi e attività gestite da cristiani;
    in alcune aree di diversi Paesi del mondo arabo – tra cui Egitto, Iraq e Siria – gli estremisti pretendono dai cristiani il pagamento della jizya, la tassa imposta ai non musulmani durante l'impero ottomano;
    la radicalizzazione dei gruppi fondamentalisti ha contribuito ad alimentare il massiccio esodo di cristiani dal Medio Oriente. Se appena un secolo fa essi rappresentavano circa il 20 per cento della popolazione mediorientale, oggi raggiungono a stento il 4 per cento. Tra i fattori che spingono i cristiani ad abbandonare il proprio Paese vi è la concezione, tradizionalmente diffusa nelle società islamiche, che i non musulmani siano cittadini di seconda classe. Tale concezione non di rado porta a gravi discriminazioni in ambito scolastico e lavorativo e perfino a disparità nell'applicazione della giustizia;
    uno dei Paesi simbolo delle difficoltà cristiane nell'area è senza dubbio l'Iraq, che negli ultimi 25 anni ha visto diminuire la propria comunità cristiana da un milione e mezzo di fedeli a poco più di 300 mila. La conquista di vaste aree del Paese da parte dello Stato islamico rischia oggi di porre fine alla millenaria presenza cristiana. Più di 120 mila cristiani sono fuggiti nel Kurdistan iracheno ed ora versano in drammatiche condizioni, stipati nelle scuole, negli edifici abbandonati e condividendo in più famiglie uno stesso appartamento;
    anche in molte aree dell'Africa la pressione dei gruppi fondamentalisti islamici è andata fortemente aumentando, con gravi conseguenze per la popolazione locale e in particolar modo per i non musulmani. Caso emblematico è quello della Nigeria, dove dal 2009 ad oggi si sono intensificati gli attacchi della setta islamica Boko Haram. Nel Nord a maggioranza islamica i fondamentalisti hanno distrutto o danneggiato centinaia di chiese e ucciso migliaia di persone, oltre 2 mila soltanto negli ultimi 12 mesi. Da una ricerca condotta nell'ottobre del 2012 è risultato che su 1.201 cristiani uccisi in odio alla fede durante l'anno, ben 791 avevano trovato la morte in Nigeria. Dal 2001 all'ottobre 2013 nel Paese sono stati uccisi 32 mila cristiani, di cui 12 mila tra il 2011 e l'ottobre 2013. Il Governo è stato più volte accusato di non aver saputo reagire in maniera adeguata, anche a causa della dilagante corruzione che caratterizza l'apparato statale;
    molti dei Paesi citati sono firmatari della Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, la quale esige dai Paesi firmatari il rispetto di diritti civili e politici, incluso quello alla libertà religiosa;
    la Dichiarazione universale dei diritti umani, all'articolo 18, stabilisce che: Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell'insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell'osservanza dei riti,

impegna il Governo:

   a promuovere l'istituzione di una giornata europea dei martiri cristiani per ricordare i tanti cristiani del nostro tempo uccisi in odio alla fede;
   a rendere il rispetto della libertà religiosa uno dei requisiti necessari alla concessione di aiuti a Paesi terzi e all'instaurazione con questi di relazioni di carattere economico;
   ad organizzare con regolarità incontri tra rappresentanti del Governo ed esponenti delle minoranze religiose di diversi Paesi per acquisire informazioni dirette e poter realizzare interventi più efficaci;
   ad inserire il tema del rispetto della libertà religiosa nell'agenda di incontri tra il Presidente del Consiglio dei ministri ed il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale ed i loro omologhi di altri Paesi, specie se in questi Paesi tale diritto non è pienamente garantito;
   ad assumere iniziative affinché parte degli aiuti destinati ad altri Paesi siano devoluti a progetti per la promozione delle minoranze religiose, con particolare attenzione all'educazione (esempio: borse di studio per appartenenti alle minoranze religiose);
   ad esercitare una chiara e dichiarata forma di pressione diplomatica ed economica verso quei Paesi che non garantiscono o non tutelano il diritto alla libertà religiosa, in particolare dei cristiani e di altre minoranze perseguitate, dove essa risulti minacciata o compressa, per legge o per prassi, sia direttamente dalle autorità di Governo sia attraverso un tacito assenso e che vedano l'impunità degli autori di violenze, arrivando, laddove necessario, all'interruzione delle relazioni diplomatiche e commerciali;
   a stabilire come principio imprescindibile alla negoziazione e conclusione di qualsiasi accordo internazionale la garanzia della controparte che al proprio interno sia assicurata la libertà di professare qualunque religione e la libertà di cambiare religione o credo;
   a farsi promotore, nelle sedi comunitarie ed internazionali, della sospensione di ogni accordo multilaterale verso i Paesi nei quali è applicata, anche parzialmente o su porzioni di territorio, la legge islamica, fino alla reale rimozione da parte di questi Paesi di ogni impedimento alla libera professione religiosa e alla cessazione di episodi di violenza contro comunità o singoli non islamici presenti sul territorio.
(1-00692) «Rondini, Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Busin, Caon, Caparini, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Marguerettaz, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera, Simonetti».


   La Camera,
   premesso che:
    in data 2 luglio 2014 la Camera dei deputati ha approvato a grandissima maggioranza una mozione unitaria che aveva come oggetto la tutela della libertà religiosa: la mozione impegnava il Governo su vari fronti, che hanno ancora piena attualità, anche perché nel tempo sono andati moltiplicandosi gli episodi di intolleranza, con grave pregiudizio non solo per la libertà, ma anche per la vita delle persone;
    la mozione approvata il 2 luglio 2014 sollecitava il Governo a denunciare ogni forma di persecuzione nei confronti delle minoranze religiose, in particolare quelle cristiane che vivono in alcuni contesti in cui sono maggiormente vulnerabili; a promuovere misure di prevenzione dell'intolleranza, in particolare nei confronti delle diverse esperienze religione; a sostenere iniziative che promuovano il dialogo interreligioso; a rafforzare le politiche per la cooperazione internazionale, specialmente nei Paesi in cui le minoranze religiose, in particolare quelle cristiane, sono pesantemente discriminate; ad adottare le opportune iniziative, anche in sede Onu, in, materia di libertà religiosa, per monitorare gli episodi di persecuzione religiosa, impegnando i diversi Stati ad intervenire tempestivamente nella prevenzione dell'intolleranza e del fanatismo religioso; ad assumere iniziative presso il Governo del Pakistan per rafforzare il rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo e, in particolare, del diritto di libertà religiosa; infine, ad assumere iniziative a sostegno delle minoranze religiose con particolare attenzione all'educazione;
    all'Onu l'11 marzo 2015 Heiner Bielefeldt, relatore speciale sulla libertà di religione o di credo durante la 28.ma sessione del Consiglio dei diritti umani a Ginevra, ha affermato: «Esistono violenze commesse in nome della religione e questo può portare a massicce violazioni dei diritti umani, compresa la libertà di religione o di credo». Il rapporto è in realtà un atto di accusa contro gli Stati che, implicitamente o esplicitamente, appoggiano violenze commesse in nome della religione, le tollerano sul loro territorio o ne hanno istituzionalizzato, anche, il funzionamento. L'analisi delle cause di questo tipo di violenza è l'essenza del rapporto. Si parla, infatti, di gruppi armati terroristici barbari o della strumentalizzazione della religione per fini di potere o politici; altre volte si tratta di politiche di esclusione etnica o religiosa, oppure della mancanza di uno Stato di diritto che garantisca pace e stabilità ed eviti l'emergere di forme di radicalizzazione religiosa. Altre cause, però, risiedono nella mancanza di istruzione, della quale approfitta l'irrazionalità della violenza religiosa, o nei media stessi che si trasformano in vettori di violenza. Infine, le autorità religiose e politiche che non condannano le barbarie commesse in nome della religione, complici nel promuovere e far crescere tali atti violenza;
    le persecuzioni contro i cristiani sono cresciute in modo esponenziale nell'attuale situazione in Iraq e in altri Paesi del Medio Oriente dove il sedicente «califfato» islamico marchia con una «N» come nazareni le case dei cristiani, costretti a fuggire in massa. La lettera «N» da marchio d'infamia è diventata simbolo di una battaglia di libertà religiosa. Un marchio della vergogna non per chi lo subisce ma per gli jihadisti che lo impongono, come è avvenuto sulle case dei cristiani a Mosul: «N» come nazareno, cioè cristiano;
    fino al 1990, anno della prima guerra del Golfo, i cristiani in Iraq erano circa 600.000, il 3,2 per cento della popolazione, stimata in 18 milioni. Con gli anni dell'embargo (1990-2003) inizia il calo: sono circa 554.000 nel 2003, così ripartiti: 370.000 caldei; 100.000 siriaci cattolici e ortodossi; 50.000 assiri; 20.000 armeni; 10.000 protestanti; 4.000 latini. Nel 2003, con l'occupazione dell'Iraq e l'inizio degli attentati contro chiese e clero, si accelerano l'esodo verso nord e l'emigrazione all'estero. Nel 2010 i cristiani sono stimati attorno ai 400.000. Con l'occupazione di Mosul e di parte della piana di Ninive, la presenza cristiana è a rischio estinzione. Oggi i cristiani sono stimati attorno ai 250.000, meno dell'1 per cento della popolazione;
    «La difesa della libertà religiosa è la cartina di tornasole per verificare il rispetto di tutti gli altri diritti umani in un Paese». Così disse Giovanni Paolo II nell'ottobre del 2003 ai partecipanti all'Assemblea parlamentare dell'Osce (Organization for security and co-operation in Europe). «Se in un Paese la libertà religiosa non è rispettata, difficilmente lo saranno gli altri diritti umani». In quella, come in molte altre occasioni, Papa Wojtyla sottolineò «la dimensione internazionale del diritto alla libertà di religione e la sua importanza per la sicurezza e la stabilità della comunità delle nazioni», incoraggiandone la difesa e la promozione da parte dei singoli Stati e di altri organismi internazionali;
    oggi circa il 74 per cento della popolazione mondiale – quasi 5,3 miliardi di persone – vive in Paesi in cui la libertà religiosa è soggetta a gravi violazioni e limitazioni, che si traducono spesso in vere e proprie persecuzioni religiose. Recenti studi dimostrano che almeno i tre quarti dei casi di persecuzioni religiose nel mondo riguardano i cristiani. Sono almeno 500 milioni i cristiani che vivono in Paesi in cui subiscono persecuzione, mentre altri 208 milioni vivono in Paesi in cui sono discriminati a causa del proprio credo;
    anche il numero di cristiani uccisi ogni anno in ragione della propria fede è tristemente elevato. Le stime variano da 100 mila a poche migliaia. Non è, tuttavia, rilevante sapere se vi è un cristiano ucciso in odio alla fede ogni cinque minuti, oppure ogni giorno. Anche un solo cristiano che sia reso martire per la propria fede è comunque troppo, soprattutto in una civiltà che si definisce pluralista e che fa della tutela dei diritti umani la vera cifra della modernità;
    tra i colpevoli di discriminazioni e persecuzioni ai danni di gruppi religiosi vi sono numerosi Governi. «La libertà religiosa è qualcosa che non tutti i Paesi hanno – ha ricordato Papa Francesco rientrando dal suo viaggio in Terra santa – Oggi ci sono martiri cristiani, cattolici e non cattolici. In alcuni posti non puoi portare un crocifisso, avere una Bibbia, o insegnare il catechismo ai bambini. E io credo che in questo tempo ci siano più martiri che nei primi tempi della Chiesa»; in Corea del Nord la libertà religiosa è completamente negata. Il Governo controlla le attività religiose e chiunque partecipi ad attività religiose non autorizzate è arrestato e soggetto a torture o perfino esecuzioni. Migliaia di nordcoreani sono internati nei campi di lavoro per motivi religiosi – almeno 15 mila su un totale di 150 mila prigionieri – e se rifiutano di rinunciare alla loro fede, subiscono abusi perfino peggiori di quelli cui sono soggetti gli altri detenuti. Molto simile la situazione dell'Eritrea, nota non a caso come la «Corea del Nord d'Africa», dove si contano dai 2 mila ai 3 mila prigionieri arrestati a causa del loro credo religioso. Prigionieri che subiscono atroci torture e sono costretti a vivere in condizioni disumane;
    in Cina il controllo dello Stato sulle attività religiose è andato tristemente aumentando negli ultimi anni, così come il numero degli arresti di cristiani, buddisti e musulmani e la distruzione di edifici religiosi. Recentemente nella provincia di Zhejang oltre sessanta chiese sono state demolite o danneggiate. La Costituzione riconosce sulla carta la libertà di religione, ma autorizza le sole attività religiose «normali», senza tuttavia fornirne alcuna definizione. Chiunque partecipi a riunioni o manifestazioni religiose non «autorizzate» è arrestato e può subire torture e abusi. Stessa sorte è toccata ai numerosi cattolici che, per fedeltà al Papa, hanno rifiutato di aderire all'Associazione patriottica cattolica cinese;
    lo stretto controllo governativo limita in modo rilevante la libertà religiosa anche in altri Paesi asiatici, quali Laos, Vietnam, Malesia, Kazakhistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan, Vietnam;
    uno dei Paesi in cui la libertà religiosa è meno tutelata è senza dubbio il Pakistan. Qui lo strumento d'elezione per la discriminazione e la persecuzione delle minoranze religiose è la cosiddetta legge anti-blasfemia, corrispondente ad alcuni articoli del codice penale pachistano che punisce con la pena di morte chi insulta il profeta Maometto e con il carcere a vita chi profana il Corano. In Pakistan sono detenute 36 delle 43 persone arrestate con l'accusa di blasfemia in tutto il mondo. 17 di queste sono state condannate alla pena capitale, mentre le altre stanno scontando una pena detentiva a vita. Senza contare le migliaia di omicidi extra-giudiziali compiuti a causa di tale norma;
    anche se tra gli accusati non mancano appartenenti alla maggioranza musulmana, i dati dimostrano come la legge – che non prevede l'onere della prova per chi accusa e si presta, dunque, facilmente ad un uso improprio – è soprattutto utilizzata per colpire le minoranze religiose. Nel 2013, su 32 casi registrati, 12 hanno riguardato imputati cristiani: si tratta del 40 per cento delle denunce, in un Paese in cui la minoranza cristiana rappresenta appena il 2 per cento della popolazione;
    un'altra piaga che colpisce le minoranze religiose del Pakistan è il rapimento e la conversione forzata all'Islam di adolescenti e bambine. Secondo i dati ufficiali, ogni anno circa 750 giovani cristiane e 250 indù sarebbero rapite e obbligate a convertirsi per contrarre matrimonio islamico. Ma, dal momento che la percentuale dei crimini riportati è minima, si ritiene che i casi siano almeno il doppio;
    in questi giorni il caso di Meriam Yahya Ibrahim Ishaq, la donna sudanese condannata a morte per apostasia, ha portato all'attenzione internazionale il dramma in atto nei Paesi in cui è vietato convertirsi dall'Islam ad altra religione. In 21 Paesi il reato di apostasia è regolato dal codice penale e alcuni di questi, tra cui Iran, Sudan, Arabia Saudita, Egitto, Somalia, Afghanistan, Qatar, Yemen, Pakistan e Mauritania, contemplano la pena di morte per questo tipo di reato;
    gravi sono le violazioni alla libertà religiosa nei Paesi in cui la legge islamica è fonte di diritto, sia che questa venga applicata a tutti i cittadini – come, ad esempio, in Sudan – sia che sia fatta distinzione tra musulmani e non musulmani. In 17 dei 49 Paesi a maggioranza islamica, l'Islam è riconosciuto come religione di Stato. Un primato sancito dalla Costituzione che implica molteplici conseguenze: dall'esclusione delle minoranze dalla pratica religiosa – è questo il caso dell'Arabia Saudita – fino a forme di tolleranza vincolate a rigidi controlli delle attività religiose; in Medio Oriente, in seguito alla cosiddetta primavera araba, si è assistito ad un aumento della pressione di gruppi fondamentalisti e ad una crescente ostilità nei confronti della minoranza cristiana. In Egitto nel solo 2013 sono stati distrutti o danneggiati oltre 200 tra chiese, edifici religiosi e attività gestite da cristiani; in alcune aree di diversi Paesi del mondo arabo – tra cui Egitto, Iraq e Siria – gli estremisti pretendono dai cristiani il pagamento della jizya, la tassa imposta ai non musulmani durante l'impero ottomano;
    la radicalizzazione dei gruppi fondamentalisti ha contribuito ad alimentare il massiccio esodo di cristiani dal Medio Oriente. Se appena un secolo fa essi rappresentavano circa il 20 per cento della popolazione mediorientale, oggi raggiungono a stento il 4 per cento. Tra i fattori che spingono i cristiani ad abbandonare il proprio Paese vi è la concezione, tradizionalmente diffusa nelle società islamiche, che i non musulmani siano cittadini di seconda classe. Tale concezione non di rado porta a gravi discriminazioni in ambito scolastico e lavorativo e perfino a disparità nell'applicazione della giustizia;
    uno dei Paesi simbolo delle difficoltà cristiane nell'area è senza dubbio l'Iraq, che negli ultimi 25 anni ha visto diminuire la propria comunità cristiana da un milione e mezzo di fedeli a poco più di 300 mila; anche in molte aree dell'Africa la pressione dei gruppi fondamentalisti islamici è andata fortemente aumentando, con gravi conseguenze per la popolazione locale e in particolar modo per i non musulmani. Caso emblematico è quello della Nigeria, dove dal 2009 ad oggi si sono intensificati gli attacchi della setta islamica Boko Haram. Nel Nord a maggioranza islamica i fondamentalisti hanno distrutto o danneggiato centinaia di chiese e ucciso migliaia di persone, oltre 2 mila soltanto negli ultimi 12 mesi. Da una ricerca condotta nell'ottobre del 2012 è risultato che su 1.201 cristiani uccisi in odio alla fede durante l'anno, ben 791 avevano trovato la morte in Nigeria. Il Governo è stato più volte accusato di non aver saputo reagire in maniera adeguata, anche a causa della dilagante corruzione che caratterizza l'apparato statale; nonostante i cristiani subiscano le maggiori persecuzioni in Paesi di religione islamica, non si può dimenticare che nei Paesi islamici ci sono anche molti moderati che desiderano dialogare con la popolazione cristiana per dare vita ad iniziative politiche e sociali condivise; il dialogo con loro è fondamentale per costruire modelli nuovi di convivenza e di pace, a vantaggio di tutti, in Italia e nei diversi Paesi; molti dei Paesi citati sono firmatari della Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, la quale esige dai Paesi firmatari il rispetto di diritti civili e politici, incluso quello alla libertà religiosa;
    la Dichiarazione universale dei diritti umani, all'articolo 18, stabilisce che: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell'insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell'osservanza dei riti»,

impegna il Governo:

   a promuovere l'istituzione di una giornata europea per ricordare i martiri uccisi in odio alla fede e alla religione, non solo i martiri cristiani ma i martiri appartenenti a tutte le fedi e religioni;
   a valutare il rispetto della libertà religiosa come una delle condizioni fondamentali per la concessione di aiuti a Paesi terzi, considerando la libertà religiosa uno dei principali diritti umani;
   ad organizzare con regolarità incontri con i rappresentanti delle minoranze religiose presenti in Italia per acquisire informazioni dirette sulle loro condizioni e poter, quindi, realizzare interventi umanitari più efficaci;
   ad inserire il tema del rispetto della libertà religiosa nell'agenda degli incontri internazionali tra i membri del Governo italiano e i Governi di altri Paesi, specie se in questi Paesi tale diritto non è pienamente garantito;
   ad assicurare protezione ai perseguitati per motivi religiosi, in coerenza con le deliberazioni adottate dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite;
   ad assumere iniziative affinché parte degli aiuti destinati ad altri Paesi siano devoluti a progetti per la promozione delle minoranze religiose, con particolare attenzione all'educazione, ad esempio con l'offerta di borse di studio per appartenenti alle minoranze religiose;
   a richiedere che nei Paesi partner una quota dei posti nel pubblico impiego sia riservata alle minoranze religiose e che venga introdotto, nei diversi livelli dell'istruzione, lo studio storico ed introduttivo delle religioni cui appartengono le minoranze religiose;
   ad assumere, in particolare, l'iniziativa in sede europea e internazionale della costituzione di una compagine, aperta ai principali attori regionali, che reagisca alle violenze più efferate e tuteli popolazioni e comunità oggetto di massacri e di persecuzioni solo per ragioni di fede religiosa;
   ad aggiornare periodicamente la Camera dei deputati sullo stato dei lavori e sui risultati ottenuti.
(1-00483)
(Ulteriore nuova formulazione) «Binetti, Buttiglione, Gigli, Fauttilli, Calabrò, De Mita, Cera, Preziosi, Pagano, Sberna, Piepoli, Fitzgerald Nissoli, Fucci, Bueno, Adornato, D'Alia».


   La Camera,
   premesso che:
    la Dichiarazione universale dei diritti umani, all'articolo 18, stabilisce che: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell'insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell'osservanza dei riti»;
    dall'intensificazione delle violazioni subite dai fedeli di ogni credo e non solo dai cristiani si evince chiaramente che il rispetto della libertà religiosa nel mondo continua a diminuire, benché sia, per sua stessa natura, un diritto da garantire a chiunque; circa il 74 per cento della popolazione mondiale (quasi 5,3 miliardi di persone) vive in Paesi in cui la libertà religiosa è soggetta a più o meno gravi violazioni e limitazioni, che si traducono spesso in vere e proprie persecuzioni religiose;
    nella XII edizione del rapporto sulla libertà religiosa nel mondo del 2014, redatto dalla fondazione di diritto pontificio, la Acs, è stato fotografato il grado di rispetto della libertà religiosa in 196 Paesi, in 116 dei quali si è registrato «un preoccupante disprezzo per la libertà religiosa, ovvero quasi il 60 per cento (...) in 14 dei 20 Paesi dove si registra un elevato grado di violazione della libertà religiosa, la persecuzione dei credenti è legata all'estremismo islamico: Afghanistan, Arabia Saudita, Egitto, Iran, Iraq, Libia, Maldive, Nigeria, Pakistan, Repubblica centrafricana, Somalia, Sudan, Siria e Yemen. Negli altri sei Paesi, l'elevato grado di violazione della libertà religiosa è legato all'azione di regimi autoritari, quali quelli di Azerbaigian, Birmania, Cina, Corea del Nord, Eritrea e Uzbekistan»;
    è indubbio che i cristiani si confermano il gruppo religioso maggiormente perseguitato; minoranza oppressa in numerosi Paesi, molte delle terre in cui i cristiani abitano da secoli, se non da millenni, sono oggi sconvolte dal terrorismo; ad oggi risultano almeno 500 milioni i cristiani che vivono in Paesi in cui subiscono persecuzione, mentre altri 208 milioni vivono in Paesi in cui sono discriminati a causa del proprio credo;
    gravi sono le violazioni alla libertà religiosa nei Paesi in cui la legge islamica è fonte di diritto, sia che questa venga applicata a tutti i cittadini, come, ad esempio, in Sudan, sia che sia fatta distinzione tra musulmani e non musulmani. In 17 dei 49 Paesi a maggioranza islamica, l'Islam è riconosciuto come religione di Stato. Un primato sancito dalle Costituzioni che implica molteplici conseguenze: dall'esclusione delle minoranze dalla pratica religiosa, è questo il caso dell'Arabia Saudita, fino a forme di tolleranza vincolate a rigidi controlli delle attività religiose;
    uno dei Paesi simbolo delle difficoltà cristiane nell'area è senza dubbio l'Iraq, che negli ultimi 25 anni ha visto diminuire la propria comunità cristiana da un milione e mezzo di fedeli a poco più di 300.000; gli attacchi contro i cristiani e le altre minoranze non rappresentano una dinamica degli ultimi mesi in Iraq. Molto prima della crescita in termini di potere del sedicente Stato islamico (Is) in tutto questo tempo le comunità cristiane e sciite (che, tra l'altro, rimane la comunità di maggioranza in Iraq) sono considerate dagli estremisti sunniti come infedeli e ladri e sono disprezzate in ogni modo;
    in Iraq le minoranze perseguitate non sono solo quelle cristiane, ma anche quelle di yazidi, shabak (una minoranza sciita di origine curda), baha'i, armeni, comunità di colore, circassi, kaka'i, curdi faili, palestinesi, rom, turkmeni, mandei e sabei. Si tratta di un mosaico ricco di tessere etniche e religiose, tenute insieme da secoli di convivenza e tolleranza, ridotto in frantumi dai dettami fondamentalisti dei jihadisti sunniti, un'immensa ricchezza umana, culturale e storica che ha sempre fatto dell'Iraq un Paese plurietnico e multireligioso e che oggi rischia di essere cancellato dal fondamentalismo religioso e settario nemico dell'umanità;
    la conquista di vaste aree del Paese da parte dello Stato islamico rischia oggi di porre fine alla millenaria presenza cristiana. Più di 120.000 cristiani sono fuggiti nel Kurdistan iracheno e ora versano in drammatiche condizioni, stipati nelle scuole e negli edifici abbandonati, condividendo in più famiglie uno stesso appartamento;
    anche in molte aree dell'Africa la pressione dei gruppi fondamentalisti islamici è andata fortemente aumentando, con gravi conseguenze per la popolazione locale e, in particolar modo, per i non musulmani. Caso emblematico è quello della Nigeria, dove dal 2009 a oggi si sono intensificati gli attacchi della setta islamica Boko Haram, o quello somalo di al-Shabaab,

impegna il Governo:

   ad attivarsi al fine di rendere il rispetto e la tutela della libertà religiosa uno dei requisiti necessari alla concessione di aiuti a Paesi terzi, attraverso gli strumenti della cooperazione internazionale, e all'instaurazione con questi di relazioni di carattere economico, soprattutto in occasione della stipula di trattati o accordi soggetti alla ratifica da parte del Parlamento;
   ad organizzare con regolarità incontri tra rappresentanti del Governo ed esponenti delle minoranze religiose di diversi Paesi per acquisire informazioni dirette e poter realizzare interventi più efficaci per assicurare la concreta protezione dei perseguitati per motivi religiosi;
   ad inserire il tema del rispetto della libertà religiosa tra le tematiche da trattare durante gli incontri tra il Presidente del Consiglio dei ministri e il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale e i loro omologhi di altri Paesi, soprattutto se in questi Paesi tale diritto non è pienamente garantito;
   ad esigere che parte degli aiuti destinati ad altri Paesi siano devoluti a progetti per la promozione e la tutela delle minoranze religiose, con particolare attenzione all'educazione e ai diversi livelli dell'istruzione;
   a prevedere lo sviluppo di ulteriori programmi di integrazione nazionale che riguardino anche l'ambito religioso in funzione di un'educazione alla tolleranza sia per gli italiani che per gli stranieri.
(1-00849) «Grande, Manlio Di Stefano, Scagliusi, Spadoni, Del Grosso, Sibilia, Di Battista».


   La Camera,
   premesso che:
    la libertà di religione è una delle libertà caratteristiche dello Stato di diritto e trova la sua affermazione nei più importanti documenti costituzionali sin dalla fine del Settecento: ad iniziare dal I emendamento della Costituzione degli Usa del 1787, dall'articolo 10 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789, dall'articolo 5 della Costituzione francese del 1814, l'articolo 5 della Costituzione francese del 1830; gli articoli 14 e seguenti della Costituzione del Belgio del 1831, l'articolo 7 della Costituzione francese del 1848, gli articoli 144 e seguenti della Costituzione di Francoforte del 1849. Nel ventesimo secolo è stata prevista agli articoli 135 e seguenti nella Costituzione della Germania 1919, la cosiddetta Costituzione di Weimar, l'articolo 4 della legge fondamentale della Germania del 1949, l'articolo 16 della Costituzione di Spagna del 1978, l'articolo 15 della Costituzione svizzera del 1999, oltre vedere tale libertà riconosciuta nelle dichiarazioni internazionali e sovranazionali dei diritti come nell'articolo 18 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948, l'articolo 9 della Carta europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, l'articolo 18 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, l'articolo 10 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea;
    si ricorda che storicamente la libertà di religione si sviluppò in corrispondenza dell'affermazione del principio di laicità dello Stato poiché l'esistenza di una religione di Stato impedisce un pieno riconoscimento della libertà di religione dei singoli;
    con riguardo alla nostra Costituzione, le disposizioni di riferimento per la tutela della libertà di religione sono contenute agli articoli 19 e 20: in base ad essi, viene garantito a tutti, cittadini e stranieri, il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, sia in forma associata che in forma individuale, di farne propaganda e di esercitarne il culto, sia in pubblico che in privato. A questo proposito, ci si è chiesti se queste disposizioni tutelino anche gli agnostici e gli atei: a fronte di un'opinione maggioritaria favorevole, fatta propria anche dalla giurisprudenza costituzionale, ve ne è un'altra contraria, che sottolinea come l'ateismo trovi piuttosto la sua tutela nella libertà di coscienza e, in particolare, nell'articolo 21 della Costituzione. Diretta conseguenza del principio della libertà di religione è poi l'articolo 20 della Costituzione, che vieta tutte quelle pratiche vessatorie nei confronti degli enti a sostegno delle confessioni organizzate, in quanto finirebbero per costituire degli ostacoli indiretti alla possibilità di professare la fede, celebrare riti e fare proselitismo;
    per quanto riguarda i limiti che incontra la libertà di religione, l'articolo 19 della Costituzione fa riferimento al buon costume (generalmente inteso come legato al comune senso del pudore) e a questo limite, si aggiunge ovviamente il limite generale dell'ordine pubblico;
    un caso particolare di esercizio della libertà di religione è quello che riguarda la cosiddetta obiezione di coscienza, cioè il rifiuto da parte di un individuo di compiere atti prescritti dall'ordinamento giuridico sulla base delle proprie convinzioni (in primis religiose), tanto che nel nostro ordinamento l'obiezione di coscienza è ammessa anche per quanto riguarda gli obblighi militari;
    ciò è quanto prodotto in termini di norme giuridiche domestiche, nonostante la realtà fattuale sia diversa e specificamente analizzata sotto, ma la libertà religiosa deve essere conquistata non solo nel nostro Paese dando effettiva vigenza alle norme giuridiche poste a tutela della libertà religiosa, siano esse nazionali o sovranazionali, cercando di far aderire norma e fatto. L'Italia deve occuparsi di questa fondamentale libertà con ottica nazionale, globale e sovranazionale;
    solo per fare alcuni esempi che saranno meglio analizzati dappresso, dal Tibet all'Iran, dal Turkmenistan al Vietnam del Nord, dal Laos alla Cina, i diritti umani sono negati in più di un quarto dei Paesi del mondo. L'Occidente non può continuare nel suo silenzio, le istituzioni nazionali, europee e tutti popoli d'Europa, primo tra tutti il popolo italiano, devono agire perché consapevoli che salvaguardando la libertà di tutti si difende anche la nostra libertà;
    non si può restare indifferenti alla privazione dei diritti fondamentali di centinaia di milioni di persone, non si può esprimere solo generiche solidarietà e pacato buonismo, non basta più. Occorre dimostrare il deciso convincimento nel sostenere il diritto alla libertà religiosa, da cui discendono molte altre libertà e diritti delle genti, convinti che le libertà della persona, a partire da quella religiosa, dovranno diventare una priorità internazionale;
    si devono analizzare le violazioni subite dai fedeli di ogni credo a causa del credo professato e, considerata la situazione di moltissimi gruppi religiosi, si deve guardare con nuovi occhi a questo diritto fondamentale, che è condizione imprescindibile di ogni società libera, perché sia consentita a chiunque un'alternativa libera, una libertà positiva, un diritto effettivo;
    grazie ad un rapporto redatto da giornalisti, esperti e studiosi, nel quale è preso in esame il periodo compreso tra l'ottobre 2012 e il giugno 2014, dei 196 Paesi analizzati, si sa che in ben 116 di essi si registra un preoccupante disvalore per la libertà religiosa, pari a quasi il 60 per cento;
    nel periodo in esame sono stati rilevati cambiamenti in 61 Paesi, purtroppo soltanto in sei di questi – Cuba, Emirati Arabi Uniti, Iran, Qatar, Taiwan e Zimbabwe – tali trasformazioni hanno coinciso con un miglioramento della situazione;
    in 14 dei 20 Paesi dove si registra un elevato grado di violazione della libertà religiosa, la persecuzione dei credenti è legata all'estremismo islamico. Negli altri sei Paesi, l'elevato grado di violazione della libertà religiosa è legato all'azione di regimi dittatoriali. Le violenze a sfondo religioso – che contribuiscono in modo determinante al costante aumento dei flussi migratori – sono legate al regresso della tolleranza e del pluralismo religioso;
    l'Asia si conferma il continente dove la libertà religiosa è maggiormente violata. Nei Paesi in cui vi è una religione di maggioranza si riscontra un incremento del fondamentalismo non soltanto islamico, ma anche indù e buddista. Analizzando la situazione del Medio oriente si nota come i Paesi in cui la libertà religiosa è negata offrono un terreno fertile all'estremismo e al terrorismo;
    in Africa, la tendenza più preoccupante degli ultimi due anni è senza dubbio la crescita del fondamentalismo islamico – sotto l'impulso di gruppi come Al Qaeda nel Maghreb islamico, Boko Haram e al Shabaab – e si riscontra un aumento di casi di intolleranza religiosa;
    la situazione mondiale è in continua evoluzione e la tradizione culturale e spirituale del Paese, oltre alla posizione geografica, deve indurre ad essere promotori di un'azione che coinvolga innanzitutto l'Unione europea per estendere il coinvolgimento di tutte le istituzioni internazionali e sovranazionali al fine di operare concretamente perché il flagello della conculcata libertà possa scomparire, come già accaduto per altri atteggiamenti illiberali che nel corso dei secoli hanno afflitto il mondo e dai quali ci si è liberati;
    si riportano i fatti di più grave discriminazione religiosa compiuti in 64 Paesi:
     a) Europa:
    1) l’ Albania è uno Stato laico, ma al tempo stesso pone l'accento sul ruolo delle religioni nella storia del Paese, in particolare quelle tradizionali come l'islam sunnita, il bektashi – una confraternita Sufi –, il cattolicesimo e l'ortodossia. Il quadro generalmente positivo è tuttavia segnato da un aumento dell'Islam radicale, che si va affermando per opera di giovani imam formatisi in Paesi quali Arabia Saudita e Turchia. Un radicalismo d'importazione che ha ovviamente ripercussioni sulla società albanese;
    2) in Belgio nel periodo in esame si sono verificati episodi significativi riguardanti la libertà religiosa il più grave dei quali, avvenuto il 24 maggio 2014, ha visto protagonista un uomo armato di kalashnikov che ha aperto il fuoco contro il Museo ebraico di Bruxelles, uccidendo tre persone sul colpo e ferendone una quarta che è deceduta due settimane dopo in ospedale;
    3) formalmente la Bosnia-Erzegovina è uno Stato laico, ma dalla fine della guerra la religione ha cominciato ad assumere un ruolo sempre più importante. La maggiore criticità riguardante la vita religiosa deriva dalla diffusa sovrapposizione dei concetti di etnia e di religione che genera discriminazioni sociali e amministrative ai danni delle minoranze. Molti musulmani conservatori accettano la comunità islamica e l'autorità del Governo bosniaco. Esistono però piccoli gruppi salafiti che non accettano l'autorità della comunità islamica o dello Stato bosniaco e sono invece favorevoli all'introduzione della Sharia;
    4) in Bulgaria la Costituzione definisce «religione tradizionale» la Chiesa ortodossa, che a differenza degli altri gruppi religiosi non è tenuta a registrarsi legalmente e riceve sovvenzioni statali per le sue comunità religiose. Secondo la Costituzione, partiti politici su basi religiose o etniche sono vietati. I Testimoni di Geova e i musulmani lamentano diverse difficoltà nell'ottenimento dei permessi di costruzione per edifici di culto, mentre membri di comunità cristiane non-tradizionali denunciano numerosi casi di arbitrarie limitazioni nella diffusione di documenti e testi religiosi. Negli ultimi anni si è registrata una forte influenza dei predicatori islamici estremisti sulla locale comunità musulmana sunnita di origine turca;
    5) in Croazia la libertà religiosa è tutelata dalla Costituzione e non vi è una religione di Stato. Attualmente nel Paese sono registrate 44 comunità religiose, ma la Chiesa cattolica ha una posizione di rilievo rispetto alle altre confessioni in virtù di quattro concordati firmati dal Governo croato con la Santa Sede che le assicurano un importante sostegno finanziario. La Chiesa ortodossa serba, invece, non è ancora riuscita a ottenere la restituzione di alcuni beni e terreni confiscati;
    6) in Danimarca, la Costituzione riconosce la Chiesa evangelica luterana come la Chiesa nazionale (Folkekirken), alla quale deve appartenere il sovrano, sebbene soltanto il 2 per cento degli aderenti alla Chiesa nazionale si dichiari praticante. Negli ultimi anni sono aumentati gli episodi di intolleranza religiosa, soprattutto in seguito alla pubblicazione da parte degli organi di stampa danesi di alcune vignette che irridevano il profeta Maometto. Sono stati inoltre denunciati alcuni episodi di antisemitismo. Secondo le stime del Centro comunitario ebraico (Mosaisk Trossamfund) sarebbero stati almeno 37 nel solo 2012;
    7) in Francia, nel periodo in esame, fonte di grandi polemiche discriminatorie è stata la legge Taubira, promulgata il 23 maggio 2013 dopo aver ottenuto l'approvazione del Consiglio costituzionale, che legalizza i matrimoni omosessuali e concede alle coppie gay il diritto di adottare bambini. Gli oppositori al disegno di legge hanno attivato numerose proteste discriminatorie, in particolare, da parte dell'associazione La Manif pour tous. All'inizio dell'anno scolastico 2012-2013, su ordine del Ministro dell'istruzione pubblica, è affissa nelle scuole la cosiddetta carta della laicità. La carta si compone di 15 articoli, tra i quali anche il divieto assoluto di indossare simboli religiosi in classe (come il velo per le musulmane o la croce per i cristiani). In tutto il Paese, nel corso del 2012, sono stati compiuti attacchi a luoghi di culto cristiani, come quello che, nella notte tra il 4 e il 5 febbraio 2015, ha distrutto il presbiterio e l'attigua chiesa della città di Épiais. Nel periodo in esame, la violenza antisemita ha fatto registrare un aumento così come il numero di attacchi o insulti verbali ai danni di fedeli e istituzioni islamiche. Grande eco ha poi suscitato l'attacco terroristico fondamentalista alla sede del giornale satirico Charlie Hebdo in seguito al quale sono stati uccisi 8 giornalisti, 2 agenti, un ospite e il portiere dello stabile mentre cinque sono stati i feriti gravi, tutte vittime di un gruppo di terroristi islamici nati e cresciuti nella Francia stessa;
    8) in Grecia si segnalano sempre più reati contro la libertà religiosa, soprattutto contro le comunità religiose non ortodosse, dovuti principalmente all'identificazione tra nazionalità greca e Chiesa greco-ortodossa. L'articolo 3 della Costituzione definisce il cristianesimo greco-ortodosso come la religione predominante e la Chiesa greco-ortodossa gode di vantaggi istituzionali e finanziari rispetto alle altre religioni. Sebbene l'articolo 13 garantisca la libertà religiosa, in pratica questa è limitata da una serie di altre disposizioni, quali il divieto di «proselitismo» e delle pratiche religiose che «disturbano l'ordine pubblico o offendono i principi morali». L'insegnamento religioso greco-ortodosso è obbligatorio in tutte le scuole pubbliche. La minoranza musulmana è vittima di discriminazione religiosa. I musulmani sono sottorappresentati nel pubblico impiego e negli alti gradi delle forze armate e soltanto il clero islamico di nomina governativa è ufficialmente riconosciuto (e sostenuto) dallo Stato;
    9) la libertà di religione in Irlanda è prevista dall'attuale Costituzione, che risale al 1937, ma è stata modificata nel tempo. La legge consente l'istruzione religiosa nelle scuole pubbliche, provvedimento quasi inutile poiché la maggior parte delle scuole elementari e medie sono confessionali. In base alla Costituzione, il Ministero della pubblica istruzione ha l'obbligo di fornire un finanziamento paritario alle scuole confessionali. Le scuole confessionali hanno il diritto di rifiutare l'ammissione a studenti che non appartengono alla loro confessione;
    10) in Italia nonostante la Costituzione affermi il principio della libertà religiosa, di fatto si elude il principio stesso poiché sono tutt'ora vigenti le norme di epoca fascista sui cosiddetti «culti ammessi» i quali non garantiscono a pieno i principi costituzionali in materia. In Italia, nonostante la presunzione di laicità dello Stato, la blasfemia contro la religione e le divinità cattoliche è punita ancora oggi. Basta una bestemmia per essere multati, basta esporre un manifesto che contenga il libero convincimento che Dio non esiste per rischiare l'incriminazione. Ad avviso dei firmatari del presente atto sono poi numerose le aree nelle quali il Vaticano esprime forti interessi materiali al potere politico come nel caso della scuola, dei beni culturali, della cooperazione internazionale, ove molti appartenenti al potere esecutivo sono fortemente influenzati da persone vicine alla gerarchia ecclesiastica. Ciò è causa della sostanziale cancellazione dell'esistenza stessa nella società italiana di una delle due confessioni diverse dal cattolicesimo, quella protestante. Una componente minoritaria ma che, come quella ebraica, è presente nel Paese fin dal Cinquecento. Al risultato si è giunti anche attraverso un sapiente uso politico-religioso dei mezzi televisivi che secondo i firmatari del presente atto di indirizzo ha annullato il pluralismo e la pluralità delle voci. In materia di opinioni e sensibilità religiosa il dato è evidente perché monitorato. La Chiesa cattolica gode di un'autentica e secondo i firmatari del presente atto di indirizzo ingiustificata posizione dominante perché la Rai sostanzialmente trasmette un solo messaggio, quello dei cattolici, mentre lo spazio riservato ad altre concezioni del mondo è estremamente limitato e quello riservato alle opinione atee e agnostiche è, di fatto, addirittura assente. I dati parlano chiaro: la Chiesa cattolica, fra messe in diretta, presenze nei telegiornali, programmi di approfondimento e presenze di vario tipo, occupa più del 95 per cento dello spazio dedicato dalla Rai all'informazione religiosa, come risulta dal dossier sulla presenza delle confessioni religiose in tv realizzato da una nota fondazione liberale con il contributo della Chiesa valdese;
    11) in Lettonia la Costituzione garantisce la libertà religiosa nonostante un concordato siglato nel 1923 tra lo Stato e la Chiesa cattolica riconosca l'autonomia di quest'ultima riguardo alle proprie attività. La Chiesa ortodossa ha chiesto invece senza alcun successo il riconoscimento del Natale ortodosso come festa nazionale; la proposta è stata presentata in Parlamento dal gruppo di opposizione Centro Armonia, ma è stata respinta per pochi voti;
    12) in Moldova non vi è una religione di Stato, quindi non dovrebbero esservi disparità di trattamento tra i gruppi religiosi. Tuttavia, nella prassi, la Chiesa ortodossa moldava riceve un trattamento preferenziale – anche per quanto riguarda la restituzione delle proprietà confiscate durante il periodo comunista – e il suo ruolo particolare nella storia e nella cultura del Paese viene fortemente sottolineato dalle istituzioni politiche;
    13) a Monaco, la costituzione del Principato stabilisce che la religione cattolica è la religione di Stato;
    14) nel Regno Unito un rapporto ufficiale del Governo scozzese ha evidenziato, nel biennio 2011-2012, un incremento del 26 per cento (le denunce sono state 876) dei crimini aggravati a sfondo religioso, diretti per lo più contro cattolici e protestanti. Secondo la BBC i musulmani sembrerebbero subire discriminazioni nell'ambito delle assunzioni. In generale, si registra un aumento delle violenze e delle discriminazioni ai danni di tutti musulmani e specialmente degli imam. Atti di antisemitismo hanno inoltre colpito tutte le varie figure della comunità ebraica, dagli ortodossi ai riformati e perfino persone di origine ebraica, ma non praticanti. Rispetto al 2012, un rapporto della Community Security Trust ha mostrato un aumento dei casi del 5 per cento nel 2012;
    15) nella Repubblica Ceca durante il periodo preso in esame si sono verificati alcuni incidenti di matrice antisemita e antislamica causati da piccoli ma ben organizzati gruppi di estrema destra;
    16) in Romania, i rapporti tra la Chiesa ortodossa rumena e la Chiesa greco-cattolica sono tesi, principalmente a causa della restituzione delle proprietà della Chiesa greco-cattolica, che sono state confiscate nel 1948 dal regime comunista e consegnate alla Chiesa ortodossa rumena; la Chiesa ortodossa rumena, inoltre, detiene una posizione dominante nel campo dell'istruzione. I membri del Baha'i hanno presentato una denuncia contro un libro scolastico religioso ortodosso, perché descrive i testimoni di Geova, i mormoni e i Baha'i come sette pericolose, mentre la Chiesa greco-cattolica viene definita un prodotto del «proselitismo cattolico» del XVIII secolo;
    17) in Russia la Costituzione riconosce la libertà religiosa, ma leggi e politiche pubbliche impongono severe restrizioni a questa libertà. Secondo la legge sulla libertà di coscienza e le associazioni religiose del 2007, lo Stato riconosce solo il cristianesimo ortodosso orientale, l'ebraismo, l'islam e il buddismo come «religioni tradizionali» della Russia. È dunque ignorato il ruolo storico svolto dalla Chiesa cattolica e dalle comunità protestanti in Russia già dal XVI secolo;
    18) in Slovenia durante il periodo in esame si sono verificati atteggiamenti discriminatori nei confronti delle forze politiche che hanno proposto norme per adottare un più adeguato diritto di famiglia, poi varato dal Governo nel giugno 2011, che ha equiparato le relazioni fra persone dello stesso sesso al matrimonio tradizionale. In reazione a questa scelta, si è formato un movimento discriminatorio fondato su motivi religiosi chiamato «Iniziativa Civile per la Difesa della Famiglia e dei Diritti dei Minori». Fortunatamente il Presidente Danil Türk ha saputo resistere alle indebite pressioni ricevute da parte di esponenti del clero, ribadendo il principio di laicità dello Stato;
    19) in Spagna i rapporti tra Chiesa cattolica e Stato sono retti da accordi con la Santa Sede, risalenti al 1979 che garantiscono l'esenzione alla sola Chiesa cattolica dal pagamento delle imposte su beni ecclesiastici. Per quanto riguarda invece le altre religioni, la commissione islamica di Spagna ha denunciato il fatto che lo Stato non abbia ancora garantito l'insegnamento dell'islam nelle scuole. Analogamente, secondo l'osservatorio della libertà religiosa e di coscienza, nessun imam musulmano può prestare servizio di assistenza spirituale negli ospedali, come invece previsto dall'accordo di cooperazione del 1992 siglato dallo Stato e la Cie. Intanto la comunità islamica continua a richiedere alle autorità, senza successo, un maggior numero di luoghi di culto e di sepoltura;
    20) l'Ucraina sta vivendo dei cambiamenti politici e sociali radicali con la possibilità di importanti implicazioni per la libertà religiosa nel Paese. Nel periodo in esame la situazione relativa alla libertà religiosa risulta nettamente peggiorata e diverse centinaia di migliaia di cittadini ucraini rischiano di essere perseguitati a causa dei vari conflitti locali tra denominazioni maggioritarie e minoritarie. Il Paese ha una composizione confessionale frammentata, trovandosi il Paese al confine tra cristianesimo orientale e quello occidentale;
    21) la nuova Costituzione ungherese, entrata in vigore nel 2012, fa esplicito riferimento all'eredità cristiana della nazione di fatto discriminando tutte le altre. Nel periodo in esame, sono stati segnalati 87 casi di vandalismo contro cimiteri ebraici. È da notare inoltre che il partito Jobbik, ha riscosso un ampio consenso nel Paese, diffondendo concetti antisemiti;
     b) Africa:
    1) l'attuale Costituzione definisce l'Algeria «terra d'islam», indicando tale religione come «religione di Stato». Nella Carta mancano inoltre disposizioni che garantiscano la libertà di religione o consentano la conversione dall'Islam ad altra religione; inoltre l'insegnamento dell'islam obbligatorio nelle scuole di ogni ordine e grado;
    2) in Angola, nonostante il fatto che la Costituzione reciti: «Lo Stato riconosce e rispetta le diverse confessioni religiose, che sono libere di organizzare ed esercitare le loro attività, a condizione d'essere conformi alla Costituzione e alle leggi», nel novembre 2013 il Ministro della cultura Rosa Cruz e Silva ha annunciato la decisione governativa di vietare la religione islamica;
    3) nella Repubblica Centroafricana è in corso una crisi iniziata nel dicembre del 2012, quando la coalizione ribelle Seleka lanciò la sua offensiva nel Nord-Est occupando una città dopo l'altra prima di prendere d'assalto la capitale Bangui nel marzo 2013. Da allora si sono susseguiti numerosi attacchi, violenze, saccheggi e omicidi, che hanno colpito le comunità cristiane. A fine 2013 sono state costituite le milizie cristiane anti-Balaka, che hanno compiuto rappresaglie sia contro la coalizione Seleka che contro persone di etnia Peul, ritenute colpevoli di aver aiutato la Seleka in diversi attacchi contro le case di cristiani e di animisti;
    4) in Egitto si sono inoltre registrate numerose uccisioni, violenze e intimidazioni ai danni dei cristiani coopti;
    5) in Eritrea la Costituzione del 1997 garantisce la libertà di religione nonostante essa non sia entrata in vigore. Lo Stato riconosce soltanto quattro comunità religiose: la Chiesa ortodossa eritrea, la Chiesa evangelica luterana di Eritrea, la Chiesa cattolica e l'Islam. Il Governo controlla i vertici della Chiesa ortodossa e della comunità musulmana vigilando sulle loro attività e risorse finanziarie. Molti dei detenuti nei campi di prigionia sono reclusi per motivi di ordine religioso. Secondo l'Alleanza evangelica eritrea, sarebbero 1.200 gli evangelici attualmente in carcere. Tutti i prigionieri sono detenuti in condizioni spaventose, in celle sotterranee o in capanne di metallo esposte al sole del giorno e al freddo della notte. Numerosi ex detenuti raccontano le brutalità e le torture subite, che avevano il principale intento di costringerli ad abbandonare la loro fede evangelica;
    6) in Etiopia varie minoranze religiose – soprattutto musulmani e protestanti – lamentano di aver subito ingiustizie a livello locale e discriminazioni nella concessione di prestiti per la costruzione di edifici per uso religioso. I musulmani, in particolare, affermano che il procedere delle loro richieste per costruire moschee nel nord del Paese, regione prevalentemente cristiano ortodossa, è stato ostacolato;
    7) in Guinea Equatoriale secondo l'istituto di ricerca Freedom House l'esercizio della libertà religiosa è «a volte limitato dalla repressione politica presente nel Paese». In concreto l'esercizio di tale libertà deve essere visto in un contesto caratterizzato da un politica repressiva e dalla mancanza del rispetto dei diritti umani fondamentali;
    8) in Kenia la Costituzione del 2010 garantisce il diritto alla libertà di religione, tuttavia durante il periodo in esame, la situazione è nettamente peggiorata. La regione è scossa da movimenti secessionisti, alcuni dei quali sono motivati dalla religione come il Consiglio Repubblicano di Mombasa. Questo tipo di movimento è legato a gruppi islamici che vogliono recidere i legami con le autorità centrali ritenute colpevoli di discriminare la popolazione musulmana;
    9) dopo la caduta del regime di Muhammar Gheddafi, la Libia si trova ancora in uno stato di transizione istituzionale. Le autorità provvisorie si trovano ad affrontare enormi difficoltà nel mantenere il rispetto della legge e l'ordine pubblico, anche all'interno della capitale, Tripoli. In tutto il Paese, continuano ad essere attive numerose milizie armate, molte delle quali sono state già coinvolte nella guerra civile iniziata nel 2011. Gli attacchi contro le minoranze religiose sono iniziati nell'ottobre 2011 e sono proseguiti per tutto il 2012 e il 2013. Pur essendo garantita dalla «Dichiarazione costituzionale intermedia» promulgata il 3 agosto 2011 dal Consiglio Nazionale di Transizione (CNT) la libertà religiosa è di fatto estremamente limitata. Il divieto di proselitismo è regolato da severe sanzioni e la libertà di assistere alle funzioni religiose è gravemente compromessa. Durante il periodo preso in esame vi è stato inoltre un aumento degli attacchi contro i luoghi di culto, soprattutto cristiani. Questo perché i vari gruppi jihadisti, molti dei quali sono costituiti da milizie islamiste radicali, esercitano il controllo de facto su gran parte del Paese;
    10) fino a poco tempo fa il Mali era un Paese di pace e di tolleranza religiosa. Tuttavia in seguito al colpo di Stato del 2012 e la conquista da parte di gruppi islamisti di più di due terzi del territorio, la situazione è profondamente peggiorata;
    11) in Mauritania la legge islamica, la Sharia, è osservata in tutto il Paese ed il reato di apostasia, ovvero l'abbandono dell'Islam per un'altra religione, può essere punito con la pena di morte, sebbene finora tale condanna non sia mai stata applicata. Si segnala inoltre che i salafiti, un gruppo islamico ultraconservatore, stanno guadagnando una sempre maggiore influenza nel Paese in virtù dei loro sforzi per imporre rigide regole morali;
    12) nelle Isole Mauritius non vi è persecuzione in senso stretto. Tuttavia, si riscontrano discriminazioni e tensioni, generalmente ai danni dei non induisti;
    13) in Nigeria la situazione della libertà religiosa è palesemente peggiorata nel periodo in esame. La persecuzione dei cristiani varia da regione a regione. Negli Stati del nord (in particolare Kano, Kaduna, Bauchi, Gombe, Yobe, Katsina), quasi tutti i cristiani – specie del gruppo Boko Haram – sono in costante pericolo d'esser uccisi, cacciati dalle loro case, derubati, o vittime di stupro. Più a sud, questa deriva è meno marcata, ad eccezione dello Stato di Nassarawa. La persecuzione anti-cristiana non fa differenze tra le varie denominazioni che assume;
    14) in Ruanda si registrano particolari restrizioni governative ai danni di gruppi religiosi di minoranza, quali i Testimoni di Geova;
    15) in Somalia la libertà religiosa è negata alla minuscola minoranza cristiana del Paese, che continua ad essere perseguitata. Tuttavia anche i molti musulmani non radicali che vivono nelle regioni controllate dai radicali islamisti di al Shabaab, versano in condizioni identiche;
    16) in Tanzania, la Costituzione, approvata nel 1977, riconosce la libertà religiosa come diritto di ognuno ad avere una fede liberamente scelta. Tuttavia nel 2011, alcune chiese protestanti sono state incendiate sulle isole di Zanzibar e Pemba;
    17) in Uganda preoccupano le severe misure antiterrorismo che hanno portato i musulmani a sentirsi perseguitati, molestati e oppressi dalle forze di sicurezza;
     c) Asia:
    1) in Arabia Saudita il wahhabismo è la sola forma di Islam permessa dalla dinastia regnante e non vi è una Costituzione. La Sunna, la tradizione islamica, occupa un posto privilegiato nella formulazione delle leggi del Paese e la Sharia è fonte di diritto. Nessun altro culto religioso islamico al di fuori del wahhabismo è consentito, nemmeno in privato, e dal momento che tutta l'Arabia Saudita è considerata una grande moschea, i luoghi di culto di altre religioni non possono esservi costruiti;
    2) in Bahrein la rivolta della maggioranza sciita contro il governo sunnita esplosa nel 2011 sulla scia delle primavere arabe non sembra ancora appianata e la comunità sciita continua a essere sottoposta a pesanti controlli e misure di sicurezza da parte della polizia;
    3) in Iran il primato dell'Islam pervade ogni settore della società e la Costituzione prescrive che «la religione ufficiale dell'Iran è l'islam e la setta seguita è quella dello sciismo giafarita»;
    4) in Siria l'odio religioso ha giocato un ruolo importante nella guerra civile iniziata nel 2011. A dimostrazione del fatto che il settarismo religioso è alla base del conflitto, vi sono le frequenti profanazioni di chiese e moschee, le uccisioni e i rapimenti di imam, vescovi e altri esponenti religiosi e gli attacchi mirati contro le comunità religiose. Di conseguenza, nel periodo in esame, la libertà religiosa ha sofferto, così come tutti i diritti umani fondamentali, un drastico peggioramento. I sunniti segnalano gravi persecuzioni da parte del presidente Assad e delle forze lealiste, mentre gli alawiti denunciano attacchi ai propri danni. Le comunità cristiane sono vittime di violenze sistematiche. In molti casi il movente è religioso; in altri, la causa è la presunta affiliazione politica delle vittime;
    5) in Cina, la violenta repressione contro le comunità buddiste tibetane continua, come la soppressione dei musulmani uiguri e delle sette evangeliche. L'impegno a rivedere lo statuto degli ebrei e dei cristiani ortodossi, per includerli tra le religioni riconosciute dallo Stato, non è ancora stato mantenuto;
    6) nella Corea del Nord si afferma che la libertà religiosa non esiste e il 75,7 per cento dichiara che le attività religiose sono punite con l'arresto e il carcere. Le conversioni riguardano per lo più coloro che – dopo essere fuggiti in Cina varcando il confine – entrano in contatto con missionari cristiani impegnati nell'accoglienza dei rifugiati; va peraltro segnalato che la Cina attua una politica di rimpatrio forzato, al quale seguono, da parte delle autorità nordcoreane, stringenti interrogatori volti innanzitutto a verificare se i fuggiaschi siano entrati in possesso di materiale religioso. Nucleo del sistema repressivo sono i brutali campi di prigionia, noti come kwan-li-so e talvolta indicati con la parola gulag. Si stima che in essi siano internati oltre 200mila prigionieri detenuti in condizioni terribili, vittime di sistematiche e terribili torture, alimentati con razioni minime di cibo e sottoposti a un duro regime di lavori forzati;
    7) in India proseguono gli atti di violenza reciproca tra gruppi estremisti induisti e musulmani;
    8) in Indonesia ci sono state numerosi casi di gravi violenze e persecuzioni, in particolare contro le «comunità Ahmadiyya» e degli sciiti musulmani. Anche i buddisti hanno subito attacchi da parte di islamisti radicali che hanno colpito templi buddisti indonesiani in reazione alla violenza anti-musulmana in Birmania;
    9) da quando i comunisti hanno conquistato il potere nel 1975, con la conseguente espulsione di tutti i missionari stranieri, la minoranza cristiana in Laos è sottoposta a severi controlli statali e vi sono evidenti limiti alla libertà religiosa. I casi più frequenti di persecuzione religiosa si sono verificati nelle comunità protestanti;
    10) in tutta la Birmania, i cristiani e i musulmani continuano a subire discriminazioni, restrizioni e in alcune zone del Paese una violenta campagna persecutoria. Le persecuzioni più violente si concentrano nelle aree abitate da talune etnie, come quella dei Kachin. Tra i gruppi maggiormente colpiti dalle violenze anche i Rohingya, un'etnia prevalentemente di fede islamica;
    11) in Nepal l'opposizione sociale e politica al diritto di propagare la propria religione permane. Gruppi induisti e monarchici accusano i cristiani di offrire denaro e ad altri benefici materiali per convertire gli induisti al cristianesimo;
    12) in Pakistan, gli attacchi contro luoghi e fedeli cristiani sono numerosi, sebbene il timore di ritorsioni riduca il numero delle denunce presentate dalle vittime. Obiettivo della violenza settaria sono anche altre minoranze religiose, come gli indù e quelle islamiche degli sciiti e degli ahmadi. Particolarmente grave appare la situazione delle donne appartenenti alle minoranze religiose, spesso rapite, violentate e costrette a convertirsi;
    13) a Palau, gli uiguri musulmani lamentano difficoltà nel trovare lavoro a causa dell'ostracismo della popolazione, per il 75 per cento cattolica;
    14) nel Tagikistan, per tentare di consolidare il proprio potere, lo Stato esercita uno stretto controllo su ogni forma di attività religiosa. Le autorità di Governo mantengono uno stretto controllo su tutti i gruppi musulmani del Paese e permangono le politiche di soppressione delle scuole islamiche non autorizzate e delle moschee non ufficiali;
    15) nel Turkmenistan, l'attuale Presidente, Gurbanguly Berdymukhamedov, è salito al potere nel 2007 dopo la morte del suo predecessore, Saparmurat Niyazov – ex-dirigente comunista che ha guidato il Paese in modo assolutista dopo la dissoluzione dell'Unione Sovietica coltivando un forte culto della personalità – e, da quel momento, egli esercita il potere in modo incontrastato, rendendo il Turkmenistan uno dei Paesi più repressivi del mondo, anche in materia di libertà religiosa; il Paese è praticamente chiuso a ogni verifica indipendente. I media e la libertà religiosa sono soggetti a restrizioni draconiane, mentre i difensori dei diritti umani e altri attivisti devono confrontarsi con la costante minaccia di rappresaglie da parte del Governo;
    16) in Uzbekistan, la legge restrittiva sulla libertà di coscienza e le organizzazioni religiose, promulgata nel 1998, criminalizza tutte le attività religiose non registrate, bandisce la produzione e distribuzione di pubblicazioni religiose non ufficiali e impedisce ai minori di far parte di organizzazioni religiose;
    17) il 1o gennaio 2013 è stata introdotta in Vietnam una nuova legge sulla libertà di fede e di religione, il cosiddetto decreto 92. Secondo i promotori, il provvedimento serve a tutelare la libertà religiosa. In realtà, secondo esperti e critici, non è altro che la conferma dell'evidente desiderio del governo di Hanoi di controllare tutte le religioni. Il decreto 92, entrato in vigore all'inizio del 2013, è sembrato subito un tentativo di soffocare la libertà religiosa. I primi a denunciare i pericoli del nuovo provvedimento sono stati i membri dell'Ufficio informativo internazionale buddista (Ibib), un'organizzazione che ha sede a Parigi. Il nuovo decreto, hanno segnalato, è stato fonte di «profondo sconcerto» perché limita le attività dei cittadini e consente alle autorità un «maggior margine di manovra» per colpire chiunque non voglia sottomettersi alle direttive dell'unico partito di Stato. Secondo l'Ibib, la nuova decisione ”stende una patina di legittimità” a una politica di «repressione religiosa pianificata dalle più alte sfere del Partito Comunista e dello Stato»;
     d) Americhe:
    1) in Argentina all'inizio del 2013, il Presidente Cristina Kirchner ha promesso l'introduzione di una nuova normativa che riconoscerebbe alle comunità protestanti, finora registrate come associazioni, di avere personalità giuridica religiosa. È prevista inoltre una legge atta a modificare l'attuale registro delle associazioni religiose, accordando a tutte un maggior riconoscimento. Finora, la Chiesa cattolica era l'unica a godere di un trattamento preferenziale;
    2) in Brasile la Chiesa cattolica rappresenta il gruppo religioso più numeroso, seguita dalle comunità protestanti (metodisti, episcopaliani, pentecostali, luterani e battisti). Ci sono poi minoranze non cristiane (ebrei, musulmani e buddisti) e gruppi ancor più minoritari di rastafariani e seguaci del Candomblé, dell'Umbanda e dello spiritualismo .Negli ultimi anni si sono registrati diversi casi di attacchi ai membri di movimenti religiosi come l'Umbanda e il Candomblé;
    3) in Costa Rica la Costituzione definisce il cattolicesimo religione di Stato. A differenza delle altre religioni, in virtù del suo speciale status giuridico la Chiesa cattolica non è registrata come associazione;
    4) a Cuba le scuole religiose non sono autorizzate, ad eccezione di due seminari cattolici e di alcuni centri di formazione interreligiosi;
    5) in Ecuador la locale comunità musulmana ha denunciato discriminazioni in ambito lavorativo e scolastico, mentre sono stati registrati episodi di violenza ai danni della comunità cattolica, da imputare probabilmente ad alcuni protestanti evangelici;
    6) nella Guyana il reato di blasfemia comporta una possibile pena detentiva di un anno;
    7) ad Haiti esponenti della comunità vudù e della comunità musulmana sostengono di non godere della stessa tutela giuridica dei cristiani. Alcuni gruppi musulmani lamentano inoltre il mancato riconoscimento da parte del Governo dei matrimoni musulmani a differenze delle unioni cristiane,

impegna il Governo:

   a promuovere ogni azione, a livello internazionale e nei rapporti bilaterali, volta a riconoscere la persecuzione nei confronti dei professanti qualsiasi religione come priorità assoluta, affinché sia condannata e contrastata con ogni mezzo;
   a porre in essere ogni iniziativa affinché i Governi dei Paesi alleati e dei Paesi che sostiene con gli strumenti della cooperazione internazionale forniscano adeguata protezione ai tutti i fedeli di qualsiasi confessione religiosa, e garantiscano il loro diritto ad esercitare e a professare la loro fede in sicurezza e libertà;
   ad adottare ogni iniziativa utile a garantire la tutela di tutte le minoranze religiose anche attraverso azioni dirette, da realizzare in collaborazione con le rappresentanze diplomatiche italiane e consolari;
   a far valere, nelle relazioni diplomatiche ed economiche, bilaterali o multilaterali, la necessità di un effettivo impegno degli Stati per la tolleranza e la libertà religiosa, in particolare delle minoranze perseguitate, laddove risulti minacciata o compressa per legge o per prassi, direttamente dalle autorità di Governo o attraverso un tacito assenso che implichi l'impunità dei violenti;
   ad adoperarsi affinché analogo principio sia fatto valere a livello di Unione europea e di qualsiasi altro organismo internazionale per l'assegnazione di aiuti agli Stati;
   a promuovere nelle competenti sedi internazionali, di concerto con i partner dell'Unione europea, iniziative atte a rafforzare il rispetto del principio di libertà religiosa, la tutela delle minoranze religiose, la lotta contro la discriminazione religiosa e il monitoraggio delle violazioni, dando concreta attuazione agli strumenti internazionali esistenti.
(1-00856) «Bechis, Mucci, Artini, Baldassarre, Barbanti, Matarrelli, Prodani, Rizzetto, Segoni, Turco».
(Mozione non iscritta all'ordine del giorno ma vertente su materia analoga).


   La Camera,
   premesso che:
    i drammi che i popoli hanno vissuto per poter affermare il culto delle proprie religioni tornano tristemente vivi. Più e più volte nella storia le minoranze religiose sono state oggetto di persecuzioni molto violente, gli anni che si vivono non sono da meno e l'evoluzione delle società e delle culture non è riuscita a tenere sotto controllo questi atroci fenomeni di intolleranze religiose;
    nel Medio Oriente si sta consumando quella che molti definiscono una vera e propria guerra di religione: il nuovo sedicente califfato Isis sta consumando un vero e proprio genocidio ogni giorno in nome di Allah e i venti di questa guerra stanno soffiando sempre più forti sino in Europa, dove ancora una volta gli ebrei vengono colpiti per la sola colpa di essere minoranza religiosa, mentre in Medio Oriente e in Africa i cristiani sono sotto costante attacco;
    il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha condannato le persecuzioni contro i cristiani nel nord dell'Iraq, sottolineando che i provvedimenti adottati dal califfato contro le minoranze religiose potrebbero essere considerati crimini di guerra. Il Consiglio, con una dichiarazione approvata all'unanimità, ha condannato «la sistematica persecuzione di membri di minoranze e di quanti in Iraq rifiutano l'ideologia estremista dell'Isis e dei gruppi armati associati». I membri del Consiglio di sicurezza ribadiscono che i diffusi e sistematici attacchi diretti contro i civili a causa della loro etnia, del loro credo religioso o della loro fede potrebbero costituire un crimine contro l'umanità;
    in questa guerra particolare rilievo assume la persecuzione che stanno subendo i cristiani: decine di migliaia di cristiani, curdi e yazidi sono in cerca di una via di fuga. Donne, bambini, anziani, e con loro sacerdoti e suore, sono in marcia per cercare di trovare rifugio dopo essere stati costretti a lasciare le loro case. La minaccia del califfato dell'Isis è solo l'ultima nei loro confronti; basti pensare che negli ultimi 11 anni sono fuggiti dall'Iraq oltre 2/3 dei 2 milioni e mezzo di cristiani e ora le persone in fuga sono oltre 200.000;
    in queste ore circa 300 mila cristiani soffrono e guardano al proprio futuro con angoscia e preoccupazione senza alcuna via di fuga, come sta accadendo ai cristiani iracheni che vivono a Mosul, ai quali è impedito anche di celebrare la messa, a causa dell'offensiva dell'Isis;
    secondo il Center for the study of global christianity di South Hamilton, nel Massachusetts, su scala internazionale il numero dei cristiani uccisi, in quanto tali, tra il 2000 e il 2010 è stato di circa un milione, 100.000 all'anno;
    la radicalizzazione dei gruppi fondamentalisti ha contribuito ad alimentare il massiccio esodo di cristiani dal Medio Oriente. Se appena un secolo fa essi rappresentavano circa il 20 per cento della popolazione mediorientale, oggi raggiungono a stento il 4 per cento;
    i dati riguardo la libertà religiosa nel mondo sono davvero allarmanti: circa il 74 per cento della popolazione mondiale (quasi 5,3 miliardi di persone) vive in Paesi in cui la libertà religiosa è soggetta a più o meno gravi violazioni e limitazioni, che si traducono spesso in vere e proprie persecuzioni religiose. Recenti studi dimostrano che circa i tre quarti dei casi di persecuzioni religiose nel mondo riguardano i cristiani. Sono almeno 500 milioni i cristiani che vivono in Paesi in cui subiscono persecuzione, mentre altri 208 milioni vivono in Paesi in cui sono discriminati a causa del proprio credo;
    il divieto di cambiare religione è tuttora in vigore in 39 Paesi, la quasi totalità dei quali appartenenti al consesso dell'Onu;
    accade con troppa facilità ormai che i diritti umani siano violati in nome della fede, invece ogni Stato dovrebbe garantire il rispetto e la possibilità di professare la propria fede, qualunque essa sia. La trappola degli estremisti è voler far credere che la religione sia fonte di divisione, invece è e deve essere parte fondante della pace tra i popoli, unica vera garante di uno sviluppo umano ed economico globale;
    in questo crescente clima di odio e di intolleranza le organizzazioni internazionali, a cominciare dall'Organizzazione delle Nazioni Unite, l'Unione europea, gli Stati tutti devono far sentire la loro voce e tenere alta l'attenzione su questa tematica così importante e così foriera di pace o di guerra;
    in data 8 novembre 2014 ad Oslo, presso il Centro dei Nobel per la pace, 30 parlamentari provenienti da ogni parte del mondo hanno sottoscritto la «carta della libertà di religione e credo» come impegno alla promozione della medesima nel proprio ruolo di parlamentari e attraverso la cooperazione globale tra istituzioni rappresentative;
    il Parlamento e il Governo italiani non possono chiamarsi fuori da questa sfida, per la tradizione, la reputazione, l'identità universalmente riconosciute al nostro Paese, come nazione impegnata nella costruzione della pace e del dialogo tra le religioni;
    in Italia sono presenti fedeli di religione ebraica da oltre duemila anni e, seppure nel recente passato si sono avuti episodi di intolleranza, questo rappresenta per tutte le istituzioni un monito a contrastare, senza riserve, gli episodi di antisemitismo riemersi prepotentemente negli ultimi tempi;
    esiste una libertà religiosa cosiddetta «positiva», che consta nella possibilità di professare e manifestare la propria fede;
    esiste una libertà religiosa cosiddetta «negativa», che consta nell'impossibilità di negare, in nome del proprio credo, la libertà religiosa altrui;
    un appello alla comunità internazionale è stato rivolto anche da Papa Francesco per «porre fine al dramma umanitario in atto» e perché la comunità internazionale «si adoperi a proteggere i minacciati di qualunque religione»,

impegna il Governo:

   ad introdurre, in prossimità dell'imminente scadenza fissata per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo del millennio (il 2015), la questione della libertà religiosa cosiddetta «positiva» e la protezione sociale delle minoranze religiose nei Paesi a rischio tra le priorità da inserire all'interno dell'agenda di sviluppo post2015;
   a rendere il tema della reciprocità religiosa e del rispetto delle minoranze un tema di discussione nell'ambito delle negoziazioni diplomatiche e culturali bilaterali con i Paesi dove questi diritti non sono tutelati;
   a destinare parte dei fondi per la cooperazione allo sviluppo per il sostegno di progetti di tutela delle minoranze religiose e per la promozione di una cultura di tolleranza religiosa.
(1-00857) «Preziosi, Berlinghieri, Ermini, Giuliani, Quartapelle Procopio, Monaco, Piccoli Nardelli, Tidei, Gianni Farina, Ascani».
(Mozione non iscritta all'ordine del giorno ma vertente su materia analoga).