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XVII LEGISLATURA

Allegato B

Seduta di Mercoledì 8 giugno 2016

ATTI DI INDIRIZZO

Mozioni:


   La Camera,
   premesso che:
    l'obesità rappresenta uno dei principali problemi di sanità pubblica a livello mondiale. Il sovrappeso e l'obesità sono un fattore di rischio per l'insorgenza di patologie croniche degenerative come le malattie cardiovascolari, che rappresentano la prima causa di morte, e il diabete, che affligge il 10 per cento della popolazione italiana ed è in costante aumento. È provata la relazione esistente tra obesità e alcune patologie tumorali;
    in questo scenario di vera e propria epidemia di obesità, particolarmente preoccupante è il fenomeno dell'insorgenza della obesità infantile che predispone alla obesità in età adulta e che si accompagna sempre di più a patologie in età pediatrica come l'aumentata insorgenza di diabete e ipertensione;
    secondo l'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) i bambini in eccesso ponderale nel mondo sono quarantaquattro milioni. L'impatto dell'obesità e le conseguenti ripercussioni dirette sulla salute sottolineano come sia prioritario e necessario contrastare tempestivamente tale fenomeno. L’Action Plan on Childhood Obesity 2014-2020 dell'Unione europea si inserisce proprio in quest'ottica di prevenzione e contrasto;
    il sistema di sorveglianza nazionale «OKkio alla SALUTE», promosso e finanziato dal Ministero della salute/CCM, coordinato dal Centro nazionale di epidemiologia, sorveglianza e promozione della salute dell'Istituto superiore di sanità e condotto in collaborazione con tutte le regioni italiane e il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, dal 2007 costituisce una solida fonte di dati epidemiologici sugli stili di vita dei bambini della scuola primaria e rappresenta la risposta istituzionale italiana al bisogno conoscitivo del problema del sovrappeso e dell'obesità nella popolazione infantile;
    lo sviluppo di sistemi di sorveglianza è alla base delle strategie italiane in materia di prevenzione e promozione della salute, quali il programma governativo «Guadagnare salute» e il piano nazionale della prevenzione. L'Italia con i dati di «OKkio alla SALUTE» partecipa, inoltre, all'iniziativa della regione europea dell'Organizzazione mondiale della sanità denominata COSI – Childhood Obesity Surveillance Initiative;
    dall'ultimo report del 2014 di OKKIO si desume che i bambini in sovrappeso sono il 20,9 per cento e i bambini obesi sono il 9,8 per cento, compresi i bambini severamente obesi che da soli sono il 2,2 per cento. Si registrano prevalenze più alte nelle regioni del Sud e del Centro;
    in particolare, il dato in Campania resta preoccupante nell'ultimo report del 2014; certamente i programmi di prevenzione sono fondamentali per il contenimento del fenomeno, ma risulta altrettanto importante offrire un percorso di diagnosi e cura per quei bambini che già presentano obesità spesso già con le complicazioni di tale malattia;
    un dato importante che emerge dalle indagini epidemiologiche è che tale patologia si associa a condizioni sociali di fragilità, quali scarsa istruzione materna, che non riconoscono la condizione o la sottovalutano ed è quindi un elemento di diseguaglianza in sanità;
    è importante invece che tali bambini abbiano una offerta di presa in carico del servizio sanitario nazionale che consenta loro di potere eseguire gratuitamente anche oltre i 6 anni un percorso di diagnosi e cura presso centri appositamente dedicati, individuando secondo le linee guida delle società scientifiche i parametri clinici e le correlate indagini di laboratorio e strumentali e visite specialistiche necessarie;
    i dati del sistema di sorveglianza «OKkio alla SALUTE» non rilevano i comportamenti alimentari di tutta la popolazione infantile, perché l'indagine riguarda solo i bambini della scuola primaria,

impegna il Governo:

   a mettere in atto, entro sei mesi, concrete iniziative di intervento che consentano la gratuità dei percorsi diagnostici e di prevenzione dell'obesità per i minori di età inferiore ai dodici anni;
   ad attivarsi, quanto prima, per una rapida adozione di specifiche misure di rilevazione dello stato nutrizionale della popolazione al di sotto della scuola primaria, ossia quella prettamente infantile, in particolare con riferimento ai bambini sino ai 3 anni di vita;
   a predisporre un'attività di monitoraggio uniforme a livello nazionale per misurare il tasso di allattamento al seno in termini di percentuale delle mamme italiane che allattano e in termini di durata del periodo di allattamento e di modalità perseguite (allattamento esclusivo o misto);
   a predisporre apposite iniziative di lunga prospettiva per la prevenzione e la cura dell'obesità infantile che riguardino i primissimi momenti, di vita dell'individuo, in quanto è ormai scientificamente dimostrato e sostenuto dall'Organizzazione mondiale della sanità che lo stato di salute da adulti deriva anche dal tipo di nutrizione che si è portato avanti nei primi 1.000 giorni, dal concepimento ai primi due anni di vita, per cui risulta fondamentale che la donna incinta segua un'alimentazione equilibrata per garantire un migliore apporto di nutrienti al feto, che, ove possibile, il neonato venga alimentato con l'allattamento esclusivo al seno fino ai 6 mesi e che si prosegua con una dieta specifica per i bambini che consenta il giusto apporto di micro e macro nutrienti;
   ad attivarsi, quanto prima, per una rapida adozione di specifiche linee guida in materia, sul modello di altri Paesi europei, che rappresenteranno un primo passo per dare indicazioni pratiche volte ad indirizzare in maniera uniforme la pediatria italiana, per prima, e le famiglie nella corretta alimentazione da fornire ai bambini nella fascia d'età da 0 a 3 anni, con particolare riferimento all'allattamento al seno e al corretto svezzamento, e su cui è stato convocato un apposito tavolo di lavoro al Ministero della salute, il cui mandato risulta ormai scaduto.
(1-01296) «Tartaglione, D'Incecco, Grassi, Piccione, Carnevali, Fossati, Amato, Burtone, Antezza, Cardinale, Carloni, Di Salvo, Fedi, Ferranti, Gandolfi, Giuliani, Tino Iannuzzi, Lenzi, Manfredi, Minnucci, Mongiello, Morani, Patriarca, Realacci, Ribaudo, Paolo Rossi, Sgambato, Tullo, Valiante, Venittelli, Zampa, Zoggia».


   La Camera,
   considerato che:
    pochi giorni fa il Ministro Padoan ha presentato alla Commissione europea il documento «I principali fattori che influenzano gli sviluppi del debito in Italia» (Relevant Factors Influencing Debt Developments In Italy), destinato non solo a perorare le richieste italiane di flessibilità ai sensi dell'articolo 126, paragrafo 3, del Trattato, ma anche a rafforzare l'azione del Governo italiano in direzione di un nuovo modello di crescita in un contesto economico internazionale particolarmente difficile e quindi di una rivisitazione delle regole di controllo della spesa e dell'indebitamento comunitari, attraverso una lettura critica ma propositiva delle attuali regole europee;
    nel 1980 il rapporto debito pubblico/prodotto interno lordo dell'Italia era appena al 54 per cento. In soli 14 anni è raddoppiato, passando al 117,2 del 1994. Questo dato, per la sua rilevanza, è oggetto di studio da parte degli storici e sarebbe superficiale ogni giudizio sommario che attribuisse al nostro Paese – al suo tessuto produttivo e sociale o alle sue istituzioni politiche – una strutturale incapacità di tenere sotto controllo i conti pubblici. Quello che infatti è certo è che dal 1994 in avanti, grazie a una politica fiscale rigorosa, il debito pubblico italiano è andato calando fino a scendere al 99,8 per cento nel 2007;
    certamente negli anni della grande crisi questo percorso virtuoso ha subito una brusca interruzione e il trend si è invertito, fino a raggiungere l'attuale livello di debito, intorno al 133 per cento del prodotto interno lordo. Ma è evidente il nesso causale fra straordinarietà della crisi e l'interruzione del trend graduale ma virtuoso di abbassamento del debito, dovuto a politiche fiscali rigorose e affidabili che il nostro Paese, dopo il 1994, al pari di tante altre fasi della sua storia, era stato capace di intraprendere;
    non si tratta solo di ricordare che in questi stessi anni la Francia – che pure non partiva gravata da livelli alti di indebitamento, e quindi di spesa per interessi – ha raggiunto nel 2015 il livello del 95,8 per cento e la Spagna quello del 99,2 per cento; si deve prendere atto fino in fondo che la crisi economica che ha colpito l'economia globale a partire dal fatidico 2008 – a prescindere da ogni esercizio futurologico che lascia il tempo che trova – sta comunque modellando un nuovo ecosistema di bassa crescita. Ciò comporta conseguenze che cominciano ad essere rilevate dalla letteratura economica ormai fiorente sulla «stagnazione secolare», ma a cui i sistemi di regole più rigidi ancora non riescono ad adeguarsi;
    quasi sette anni dopo quella che negli USA viene indicata come la fine ufficiale della «grande recessione» (2009), il reddito reale in quel Paese è sostanzialmente stagnante (il reddito medio della popolazione maschile è oggi più basso che nel 1969) e, ciò che desta maggiori preoccupazioni, sembra essersi arrestata – non solo in Europa, ma anche negli USA – la crescita della produttività;
    le regole europee di controllo della spesa devono essere pienamente collocate in questo contesto; questa consapevolezza ha portato il Governo italiano ad avviare una coraggiosa azione politica in seno alle istituzioni europee volta alla revisione dell'intero approccio alle politiche monetarie e fiscali dell'Unione, sfruttando al meglio i margini di dialogo esistenti e allargandoli grazie alla stabilità politica che rappresenta oggi per l'Italia il maggiore elemento di forza contrattuale;
    grazie anche all'azione del Governo italiano sta crescendo la consapevolezza che, per consentire la nascita di una moneta comune ci si è dati delle regole le quali, nella loro rigidità, oggi – in un contesto economico internazionale completamente mutato – sembrano fatte più per aggravare i problemi che per risolverli;
    si deve proseguire in questa «operazione verità» e sostenere con coraggio che quello dell'Italia è un caso paradigmatico perché, nonostante la sua fama di economia di sprechi, molto indebitata e poco osservante degli impegni, in realtà l'Italia ha una spesa pubblica al netto degli interessi che in termini reali è rimasta quasi invariata tra il 2005 e il 2015 (una delle migliori performance tra i Paesi avanzati). E anche durante la lunga crisi cominciata nella seconda metà del 2008, l'Italia ha mantenuto una condotta fiscale crescentemente rigorosa, spesso migliore persino di quella tedesca;
     l'Italia – come del resto gli altri Paesi europei – deve cambiare molte cose, ma è anche uno dei Paesi più disciplinati nel rispettare le regole europee di finanza pubblica. Ad esempio, durante, questi ultimi anni di crisi, già dal 2012, cioè ben prima di altri Paesi, il deficit/prodotto interno lordo rispetta la regola del 3 per cento. Nel lungo periodo, poi, sin dal 1992 l'Italia è sempre stata in avanzo statale primario (entrate superiori alle uscite, al netto degli interessi) con la sola eccezione del 2009: un record assoluto a livello mondiale. Come sottolinea il citato documento del Ministero dell'economia e delle finanze, nel periodo 2009-2015 l'avanzo statale primario dell'Italia è stato mediamente il più alto nella Unione europea;
    come conseguenza di questa disciplina fiscale che l'Italia ha dimostrato di saper mantenere costantemente nel tempo, c’è anche il fatto che in valore assoluto il debito italiano è quello cresciuto percentualmente di meno nell'Unione europea tra il 2008 e il 2015, assieme al debito tedesco e olandese;
    comincia finalmente a farsi strada la consapevolezza che il rapporto debito/ prodotto interno lordo italiano è aumentato di più in proporzione per effetto della forte caduta del prodotto interno lordo stesso che proprio l'eccessiva austerità ha provocato, vanificando in parte gli sforzi fatti dal nostro Paese;
    la stessa Commissione riconosce che il debito pubblico italiano è il più sostenibile dell'Unione europea nel lungo periodo per l'effetto combinato delle importanti riforme avviate. Mentre nel medio termine la Commissione prevede, nel suo scenario base, che la probabilità che il debito italiano sia più alto nel 2020 rispetto ai livelli del 2015 sia la più bassa nell'Unione europea dopo la Germania;
    è sorprendente, eppure le regole europee – così concentrate sui parametri di debito pubblico – non tengono conto di fattori rilevantissimi per valutarne la pericolosità quali la quota dello stesso in mani estere o la sua durata. L'Italia, ad esempio, ha un debito pubblico estero appena superiore al 40 per cento del prodotto interno lordo esattamente come la Germania; analogamente non tengono conto del fatto che non tutti i Paesi hanno settori privati sufficientemente capienti da poter finanziare la quota del proprio debito pubblico interno. L'Italia, ad esempio, può strutturalmente sostenere in modo diretto (con le famiglie) o indiretto (attraverso le banche, le assicurazioni e altro) un debito pubblico interno piuttosto alto;
    nel bollettino statistico della Banca d'Italia (dicembre 2015) sulla ricchezza delle famiglie italiane, essa è valutata a fine 2013 pari a 8.730 miliardi di euro (5848 attività reali+3.793 attività finanziarie-911 passività finanziarie); tale somma arriva a 9.499 miliardi di euro se si considerano anche le istituzioni private, pari ad 8 volte il reddito nazionale;
    nel citato documento «Relevant Factors» il Ministero dell'economia e delle finanze ha dimostrato che, con una metodologia di calcolo dell’output gap, cioè la differenza tra il prodotto interno lordo effettivo e quello potenziale, più aderente alla reale evoluzione dell'economia e in linea con quelle del Fmi e dell'Ocse, l'Italia avrebbe già ampiamente centrato gli obiettivi europei di bilancio di medio termine nel 2015. Mentre la deviazione dagli obiettivi del 2016 risulterebbe pienamente coperta dai margini di flessibilità consentiti, legati anche all'ampio programma di riforme che l'Italia sta realizzando; su questo aspetto il 18 marzo 2016 l'Italia ha inviato una lettera alla Commissione, insieme a Spagna, Lussemburgo, Portogallo, Slovenia, Slovacchia, Lettonia, Lituania, di rivedere il metodo di calcolo dell’output gap, a cominciare dall'estensione dell'orizzonte di previsione da 2 a 4 anni, in linea con quello degli Stati europei;
    a conferma della bontà dell'azione di Governo in sede comunitaria, il 26 maggio 2016 è giunta dalla Commissione la notizia che la proposta sull’output gap degli 8 Paesi sopra citati è stata accolta. E ulteriori segnali incoraggianti sono intervenuti dalla Commissione;
    attorno alla meta di maggio 2016, con uno scambio di documenti tra alcuni suoi membri e il Ministro Padoan, nei quali si cerca di trovare una convergenza su tre questioni: gli effetti della politica monetaria sulla politica fiscale, la qualità operativa della politica fiscale e le riforme di struttura;
    nella stessa sede è stata approvata alla Commissione la concessione di un ulteriore margine di flessibilità 0,85 per cento del prodotto interno lordo pari a circa 15 miliardi di euro, in sostanza quasi tutta la flessibilità che il Governo reclamava; si tratta di un successo rilevante e difficile da negare, un riconoscimento non solo del fatto che il nostro Paese «ha fatto i compiti», ma anche che la sua azione nelle istituzioni europee comincia a dare frutti concreti;
    tale azione non è certo conclusa: occorre incalzare le istituzioni europee con concrete proposte orientate alla crescita dell'economia del continente. È infatti fondamentale il consolidamento dei timidi segnali di crescita; il ritorno dell'inflazione su livelli coerenti con il mantenimento della stabilità dei prezzi esige il riassorbimento della capacità produttiva inutilizzata e della disoccupazione. È essenziale che – sempre di più – l'azione della politica monetaria sia affiancata dall'operare delle politiche economiche, anche a livello europeo;
    il vero tema, da porre in modo sempre più coerente e forte in sede europea, è che le politiche europee in tutta la fase storica avviata dall'introduzione dell'euro hanno perseguito l'obiettivo – condivisibile – di una più elevata competitività attraverso interventi virtuosi sul piano finanziario combinati a politiche sul versante dell'offerta (le cosiddette riforme strutturali). Questo approccio è oggi spiazzato dagli effetti della crisi: occorre non solo attenuare le politiche di austerità (che soffocano i timidi segnali di crescita che nascono dall'economia reale), ma creare un asse europeo di coerenti politiche di sostegno della domanda. Occorre riequilibrare un asse di politica economica che è oggi fortemente squilibrato;
    occorre farlo partendo dalla registrazione dei positivi effetti moltiplicatori del piano Junker, anche se ancora insufficienti a imprimere una svolta davvero significativa alla drammatica penuria di investimenti, enti, calati del 15 per cento in media nell'Unione europea rispetto al 2007 (Italia –25 per cento, Portogallo –36 per cento, Spagna –38 per cento, Irlanda –39 per cento, Grecia –64 per cento). L'investimento totale (metà aprile 2016, 8 mesi di attività) è stato pari 82,1 miliardi, pari al 26 per cento dell'intera operazione, che prevede una mobilitazione complessiva di capitali fino a 315 miliardi entro il 2017 compreso;
    degli 82,1 miliardi di euro di investimenti del piano Junker approvati l'80 per cento è capitale privato. Ciò significa che la capacità di attrazione di finanziamenti privati o altri (per esempio, quelli delle banche di sviluppo degli Stati) è stata superiore all'obiettivo di 1 a 15, il cosiddetto «moltiplicatore» Juncker. A metà aprile, secondo gli ultimi dati della Commissione, il rapporto è infatti di 1 a 22,5. Il Fondo per gli investimenti strategici (FEIS, 16 miliardi dal bilancio comunitario, 5 della Banca europea degli investimenti) ha approvato finanziamenti per progetti infrastrutturali per 11,2 miliardi di euro, di cui «firmati» per 5,8 miliardi di euro: per quanto ancora insufficienti, tali misure indicano la direzione nella quale andare;
    l'Italia ha dimostrato ancora una volta una capacità di reagire positivamente a questi stimoli. Non è un caso che proprio l'Italia guidi la classifica dei beneficiari del piano Juncker: al Paese saranno erogati 1,7 miliardi di euro per 8 progetti infrastrutturali e 21 patti di finanziamento; il pacchetto dei progetti italiani, secondo le stime, potrebbe creare 3.200 posti di lavoro, tra industria, energia, telecomunicazioni, trasporti e ricerca; 7,3 miliardi di investimenti complessivi andranno a beneficio di oltre 44 mila imprese e start up;
    certamente sono essenziali – in questo campo – le politiche nazionali: molto si sta facendo e ancora di più si sarà chiamati a fare nel prossimo futuro. Ma è maturo un salto di qualità anche delle politiche comunitarie: senza l'apporto europeo, anzi addirittura con le limitazioni che l'Unione appone alle strategie nazionali, non sarà possibile riassorbire capacità produttiva e occupazione;
    se il piano Junker va nella giusta direzione, esso non può comunque esaurire le politiche europee di crescita, e neanche quelle di crescita infrastrutturale: ad esempio, è urgente sottoporre ad un accurato esame il modo in cui vengono utilizzate le ingenti capacità di credito della BEI nel finanziamento di investimenti volti all'ammodernamento della rete infrastrutturale – materiale e immateriale – del continente europeo, ma occorre soprattutto modificare talune impostazioni culturali dominanti in sede comunitaria;
    le costanti rimostranze tedesche sulle politiche portate avanti dalla BCE e dal suo presidente Mario Draghi (quantitative easing e bassissimi tassi di interesse) appaiono non tener adeguato conto della grave debolezza della domanda nell'Eurozona che invece andrebbe oggi collocata al centro dell'attenzione delle istituzioni politiche dell'Unione; il bollettino economico della Banca d'Italia, relativo al primo trimestre del 2016, ricorda che nell'ultimo trimestre del 2015 la domanda reale dell'eurozona era del 2 per cento inferiore a quella del primo trimestre del 2008, mentre negli Stati Uniti era del 10 per cento superiore;
    la Bce sta cercando giustamente di impedire che un'economia europea affetta da debolezza cronica della domanda precipiti in una spirale deflattiva. Come sottolinea il presidente dell'Eurotower, Mario Draghi, i tassi di interesse bassi fissati da Francoforte non sono il problema, semmai sono «il sintomo» di un'insufficiente domanda di investimenti;
    quanto appena sopra illustrato non costituisce la sola presa di posizione della Germania contraria alla stabilità interna degli Stati e, di conseguenza, allo sviluppo della domanda globale nell'Eurozona. Un documento recente della Bundesbank avanza l'ipotesi di un allungamento di tre anni delle scadenze dei titoli di Stato di un Paese che chiede e ottiene l'aiuto del meccanismo di stabilità Esm. Tale proposta nasce da una visione ormai superata del ruolo delle istituzioni europee e va nella direzione sbagliata/perché la sua adozione produrrebbe instabilità e rischio: l'allungamento delle scadenze in tale maniera fa infatti scattare il default tecnico, perché equivale a una ristrutturazione con perdita sul valore facciale per i sottoscrittori creditori;
    anche la proposta tedesca di ridurre i titoli di Stato nel portafoglio delle banche, come strumento per ridurre il rischio degli istituti di credito e spezzare il legame fra debito sovrano e sistema bancario nasce da un contesto ormai superato e va nella direzione opposta a quella necessaria, poiché – ove adottata – metterebbe a rischio l'equilibrio monetario ed economico anche della stessa Germania;
    se infatti è vero che, in percentuale del totale dell'attivo, le banche tedesche detengono titoli di Stato al di sotto della media europea (circa il 3,3 per cento, contro il 6,7 per cento dell'Italia, per esempio, secondo cifre della European Banking Authority), è anche vero che gli importi sono comunque consistenti e, secondo una simulazione di impatto condotta dall'Esrb lo scorso anno, l'imposizione di un criterio di diversificazione costringerebbe le banche tedesche al più alto volume in valore assoluto, fra tutti i Paesi dell'eurozona, di vendite di titoli di Stato in «eccesso» nei propri portafogli: per l'esattezza, 303 miliardi di euro (su un totale di 716 miliardi dell'intera area euro), se venisse applicato un tetto pari al 25 per cento dei mezzi propri;
    infine vi sono ragioni politiche e culturali che suggeriscono un cambiamento di passo e «di immagine» dell'Europa – ragioni richiamate anche dal Presidente emerito della Repubblica in un suo recentissimo scritto animato da vera e propria «passione» europeista. Un rapporto Sole 24 Ore-Fondazione Hume, pubblicato il 22 maggio 2016 segnala ancora una volta, con dovizia di particolari, che l'immagine dell'Unione è in caduta libera. Oggi l'euroscetticismo sta avvelenando il clima politico in quasi tutti i Paesi europei, fino a mettere a rischio per la prima volta in 60 anni il futuro stesso dell'unione europea;
    secondo la ricerca della Fondazione Hume, gli euro-scettici di destra rappresentano nel Parlamento europeo il 22,2 per cento dei seggi (rispetto al 14,7 per cento nel 1979). Viceversa, gli euroscettici di sinistra sono il 7,2 per cento dei deputati rispetto all'11,1 del 1979. Nel contempo, l'assemblea di Strasburgo ha registrato uno spostamento verso la destra più estrema è revanscista dell'intero emiciclo; i cittadini europei si sentono comunque prima di tutto francesi, italiani, tedeschi, anche lussemburghesi o maltesi. In Italia, il 36,1 degli interpellati si considera solo italiano, il 57,4 per cento si ritiene italiano ed europeo, il 5 per cento europeo ed italiano, l'1,5 per cento solo europeo. Solo il 51 per cento degli interpellati si fida del Parlamento europeo e solo il 43 per cento si fida della Banca centrale europea. In Italia quasi il 40 per cento, dei cittadini si dichiara insoddisfatto delle istituzioni comunitarie. Molti non capiscono cosa sia la Commissione;
    per consentire la nascita di una moneta comune ci si è dati delle regole le quali, tuttavia, nella loro rigidità sembrano oggi fatte più per aggravare i problemi che per risolverli, puntando quasi esclusivamente sul rigore fiscale e non considerando che, senza un'adeguata crescita economica, il rigore da solo non basta a far diminuire il rapporto debito/prodotto interno lordo; i segnali regressivi nascono da uno squilibrio della politica economica europea che il nostro Paese sta contribuendo a correggere anche attraverso la sua presenza critica ma propositiva nelle istituzioni europee;
    nella fase preparatoria della conferenza di Maastricht segnata dalla decisione di costituire l'euro la moneta pubblica europea era parte di un più vasto disegno volto a costituire l'effettiva Europa politica all'interno della quale le politiche economiche dovevano essere stabilite da un Governo e da un Parlamento democraticamente eletti e quindi dovevano essere adattate al variare imprevedibile delle condizioni; il veto britannico e francese impedì di conseguire questo obiettivo e la responsabilità politica per la politica economica fu sostituita da un sistema di parametri fissi certo ragionevoli in condizioni di stabilità economica, ma inadeguati a reggere choc imprevisti ed allora imprevedibili,

impegna il Governo:

   a proseguire e approfondire la propria azione all'interno delle istituzioni europee per un arricchimento delle politiche monetarie e fiscali e un loro riorientamento in direzione della crescita e del sostegno alla domanda interna;
   a proporre il rafforzamento del piano Juncker che si sta rivelando un valido strumento di rafforzamento della capacità delle economie europee e di rilancio della credibilità dell'Unione quale promotrice di crescita e di benessere;
   ad assumere iniziative per una rapida revisione di mezzo termine del bilancio pluriennale dell'Unione europea conformemente agli impegni presi al momento della sua approvazione, con la finalità di rendere disponibili risorse utili a sollecitare, con i meccanismi già previsti dal piano Juncker, la inderogabile infrastrutturazione materiale ed immateriale dell'Unione, capace di renderla più competitiva e di collocarla all'avanguardia nell’«economia della conoscenza» del secolo XXI;
   a tal fine, a proporre una riconsiderazione del ruolo della Banca europea per gli investimenti (BEI) volta a migliorare l'utilizzo della capacità di credito dell'Istituto e ad ampliare la portata del suo intervento nell'ambito degli investimenti;
   nell'ambito della stessa revisione di mezzo termine, ad assumere iniziative per individuare le risorse adeguate finanziare la politica europea dell'emigrazione istituendo una guardia costiera comune europea e una politica di cooperazione con i Paesi di origine dei flussi migratori, tale da porre fine alle condizioni che generano le migrazioni di massa, posto che non è pensabile che questi costi rimangano sulle spalle dei Paesi geograficamente più esposti alle frontiere dell'Unione;
   ad assumere iniziative per una rapida conclusione dei lavori della Commissione Monti sulla riforma delle risorse proprie dell'Unione con la finalità di contribuire a finanziare le politiche sopracitate e con la creazione di una fiscalità propria europea, contestualmente prevedendo che l'aumento di pressione fiscale dovuta alla costituzione della fiscalità europea sia integralmente controbilanciata dalla riduzione delle fiscalità nazionali;
   ad adoperarsi affinché la Commissione europea formuli una raccomandazione sulla base del titolo XIII del trattato su funzionamento dell'Unione europea, per una iniziativa congiunta dei Paesi membri, al fine di favorire la crescita di una opinione pubblica europea con un'adeguata informazione sull'effettivo funzionamento delle istituzione europee, sulle radici culturali comuni dei popoli europei e sulle sfide che l'Europa deve affrontare, tenuto conto che il fine è la formazione della coscienza e della cittadinanza comune europea e che i mezzi sono le politiche culturali, le politiche della istruzione e la collaborazione tra le radiotelevisioni di servizio pubblico europeo.
(1-01297) «Lupi, Buttiglione, Cicchitto, Alli, Tancredi, Vignali».


   La Camera,
   premesso che:
    per vivere in una società complessa come quella attuale, è indispensabile elevare il livello di formazione degli individui;
    il diritto allo studio universitario si manifesta nel nostro sistema giuridico come una delle declinazioni del principio generale di uguaglianza sostanziale di cui all'articolo 3, secondo comma, della Costituzione, che impone alla Repubblica di rimuovere tutti quegli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono agli individui di sviluppare ed esprimere pienamente la propria personalità nella società civile. Questo principio trova inoltre il suo esplicito fondamento negli ultimi due commi del successivo articolo 34, laddove si afferma che i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi economici, hanno il diritto di accedere ai gradi più alti dell'istruzione e della formazione e che la Repubblica deve garantirne l'esigibilità attraverso l'attribuzione, per concorso, di borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze;
    in seno alla stessa Assemblea Costituente fu, infatti, osservato che: «Uno dei punti al quale l'Italia deve tenere è che nella sua Costituzione, come in nessun'altra, sia accentuato l'impegno di aprire ai capaci e meritevoli, anche se poveri, i gradi più alti dell'istruzione. Alla realizzazione di questo impegno occorreranno grandi stanziamenti; ma non si deve esitare; si tratta di una delle forme più significative per riconoscere, anche qui, un diritto della persona, per utilizzare a vantaggio della società forze che resterebbero latenti e perdute, di attuare una vera e integrale democrazia»;
    il diritto allo studio, oltre a rappresentare un diritto sociale costituzionalmente garantito, è dunque uno strumento per garantire i diritti inviolabili dell'individuo nelle formazioni sociali, al quale corrisponde un preciso dovere della collettività di assicurare a tutti i capaci e meritevoli uguali punti di partenza ed uguali possibilità di portare a compimento i percorsi formativi prescelti;
    eppure da alcuni anni in ambito europeo si va affermando un'idea di economia della conoscenza, ossia uno sviluppo del tessuto produttivo mirato all'estrazione di valore sulla base di una forte innovazione e dell'elevazione del livello generale di formazione, che sta portando alcuni Paesi membri, incluso il nostro, a smantellare il tradizionale meccanismo di assegnazione delle suddette provvidenze, in favore di un sistema nuovo, riservato a pochi eccellenti, attraverso un innalzamento dei soli criteri di merito ed un'aumentata competitività tra studenti;
    a rendere, inoltre, la formazione universitaria un percorso irto di ostacoli sono stati i continui e pesanti definanziamenti, nonché tutte quelle politiche scarsamente inclusive ed incapaci di rispondere alle esigenze della popolazione studentesca attraverso la pianificazione di servizi, agevolazioni ed interventi che, direttamente o indirettamente, contribuiscono a migliorare la condizione dei soggetti in formazione, siano essi residenti, fuorisede, italiani o stranieri;
    nel nostro Paese il diritto allo studio universitario non ha mai ricevuto quell'attenzione che invece meriterebbe, anche a causa di una legislazione che si è evoluta lentamente rispetto alle reali necessità e spesso in maniera confusa ed inadeguata. La stessa costituzionalizzazione del diritto allo studio non ne ha garantito in tutti questi decenni la piena ed immediata effettività, avendo conosciuto un significativo riconoscimento normativo solo dopo il trasferimento delle competenze a favore delle regioni avvenuto negli anni ‘70, cui seguirono tuttavia una frammentazione ed una stratificazione di leggi regionali molto eterogenee tra loro perfino riguardo alla definizione di welfare studentesco, tanto da delineare l'assenza di una reale volontà politica di investire nell'accesso ai percorsi formativi e da sfociare in un mancato rispetto dello stesso principio di eguaglianza. A ciò si aggiunga che l'incapacità delle regioni di garantire l'esercizio del diritto allo studio è storicamente imputabile ad una serie di fattori, primo fra tutti quello delle inadeguate risorse finanziarie trasferite loro dallo Stato, risorse che per croniche difficoltà strutturali di bilancio le stesse regioni non sono state in grado di integrare attraverso fondi propri;
    d'altra parte, anche la successiva legge quadro, la n. 390 del 1991, ha aggravato la confusione del contesto normativo, essendosi caratterizzata, da un lato, per l'attribuzione di funzioni importanti agli organi centrali dello Stato, nel tentativo di porre freno alla eterogeneità delle risposte locali, e dall'altro, per il trasferimento di alcune competenze dalle regioni alle università;
    successivamente, a seguito della riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, e secondo il decreto legislativo n. 68 del 2012, il diritto allo studio universitario, non rientrando tra le materie attribuite in via esclusiva allo Stato né tra quelle di natura concorrente, si è collocato come ambito di competenza legislativa residuale delle regioni, competenza che, pur incontrando attualmente un limite molto importante imposto dall'articolo 117, comma 2, lettera m), della Costituzione, e sulla base del quale lo Stato deve stabilire i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, tra i quali rientrano a pieno titolo le provvidenze legate al diritto allo studio, può riprodurre quel quadro di interventi e di frammentazione normativa antecedenti all'approvazione della legge quadro n. 390 del 1991, capaci di inficiare il principio di uguaglianza sancito dal suddetto articolo 3 della Costituzione. Inoltre, lo stesso diritto, rimanendo in parte di competenza regionale, è soggetto alle incerte e fluttuanti disponibilità finanziarie delle singole regioni, con risultati tutt'altro che lusinghieri. Oggi infatti, grazie a strumenti di welfare studentesco di tipo assistenziale che, seppur fondamentali, non bastano alla promozione dell'autonomia del soggetto in formazione, solo pochissime regioni, quelle peraltro più virtuose, riescono ad attribuire a tutti gli idonei le borse di studio, mentre rimangono ancora inadeguati ed insufficienti rispetto al numero degli aventi diritto gli alloggi e le forme di reddito indiretto, come mobilità gratuita, mense agevolate, misure per l'accesso alla cultura e, laddove esistono, luoghi di aggregazione culturale sui territori;
    altro punto dolente è rappresentato dall'ottica assistenzialista con cui le amministrazioni hanno fino ad oggi gestito la materia, quasi che vigesse la logica della «beneficenza» piuttosto che l'obbligo, da parte delle istituzioni, di garantire un diritto. Lo stesso ruolo delle amministrazioni comunali, delegate dalle regioni all'assegnazione delle borse di studio, ha fallito gran parte degli obiettivi preposti e auspicati. In sostanza, la mancanza di parametri e principi comuni di riferimento ha fatto sì che vigesse l'arbitrio delle singole istituzioni di competenza che, invece di investire sulle vere priorità, hanno sempre considerato la questione del diritto allo studio come secondaria;
    sul fronte dei finanziamenti l'Italia, secondo quanto riportato dall'ultimo rapporto sull'educazione dell'Ocse, spende per l'università circa lo 0,9 per cento del proprio prodotto interno lordo, di cui solo una quota pari allo 0,04 destinata al diritto allo studio universitario; in secondo luogo, come rivelato dall'ultimo «Rapporto Istat sulla povertà nel nostro Paese», sono stimate in 2.737.000 le famiglie che si trovano in condizione di povertà relativa rappresentando l'11,3 per cento delle famiglie residenti. A fronte di questo scenario risulta desolante il confronto delle politiche economiche nazionali per il diritto allo studio con quelle degli altri Paesi europei, dove invece la presenza di un più forte stato sociale e politiche per l'accesso ai canali formativi hanno meglio garantito altissimi livelli di istruzione e formazione e, conseguentemente, migliori condizioni di vita: se l'80 per cento degli studenti italiani non riceve una borsa di studio, in Francia la percentuale è del 70 per cento; la percentuale scende al 60 per cento in Germania, mentre in Olanda addirittura al 4 per cento; rispetto alle residenze universitarie, in Italia solo il 2 per cento degli studenti ha diritto ad un alloggio, mentre in Francia la percentuale sale all'8 per cento, in Germania al 10 per cento, ed in Svezia addirittura al 17 per cento. Si tratta di dati che chiariscono come in Italia vi sia uno dei tassi di abbandono universitario tra i più alti d'Europa, il 18,5 per cento, ben al di sopra di altri Stati come Olanda, pari al 7 per cento, o Gran Bretagna, pari all'8,5 per cento;
    dunque, accanto ad una normativa lacunosa, anche la scelta trasversale degli ultimi Governi di trascurare l'investimento in formazione superiore ha fatto sì che i fondi destinati dallo Stato al riconoscimento delle borse di studio siano sempre insufficienti a garantire la copertura totale degli idonei e che il diritto allo studio pesi ormai per oltre il 42 per cento sulle spalle degli studenti stessi che vi provvedono tramite la tassa regionale per il diritto allo studio, diventandone così essi stessi i principali finanziatori. Se si guarda, infatti, al decennio che va dal 2002 al 2012 si scopre che, a fronte di un numero quasi costante di studenti dichiarati idonei alla borsa di studio, una larga parte di essi, oltre 25.000, a causa della carenza di fondi è stata confinata nel limbo degli idonei che non l'hanno percepita, andando così ad allargare la platea dei cosiddetti «idonei non beneficiari», ossia di coloro che, pur soddisfacendo i requisiti di accesso sanciti dal bando dell'ufficio regionale competente, non ricevono alcuna borsa a causa dell'insufficienza delle risorse;
    poiché la concessione delle borse di studio è assicurata a tutti gli studenti aventi i requisiti di eleggibilità nei limiti delle risorse disponibili nello stato di previsione del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, lo stesso Stato, pur vincolando le regioni a versare per tale finalità il 40 per cento del contributo statale, non vincola in alcun modo se stesso allo stanziamento atto a coprire la spesa di tutte le borse in concorso, dimostrando in tal modo di non attribuire al diritto allo studio quel carattere inderogabile e prioritario che invece gli impone la Costituzione;
    a complicare la situazione interviene lo stesso meccanismo previsto dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, 9 aprile 2001 che, a garanzia del prioritario utilizzo delle risorse statali da parte delle regioni, prevede che le stesse possano ricorrervi solo dopo aver esaurito le proprie e quelle derivanti dalla tassa regionale per il diritto allo studio, pena la riduzione di pari importo della quota loro spettante del fondo integrativo;
    tutte le suddette carenze generano anche profonde sperequazioni tra le diverse zone d'Italia che si traducono nella penalizzazione degli studenti che provengono dalle aree più povere del Paese, in particolare dal meridione. Ogni anno, infatti, le università meridionali registrano una costante riduzione delle immatricolazioni e circa 29.000 diplomati al sud emigrano al Centro-nord per iscriversi a corsi universitari, una riduzione che ovviamente condiziona anche il numero dei laureati. Anche i criteri di riparto del fondo integrativo per la concessione delle borse di studio penalizzano in maniera evidente da oltre 13 anni il meridione, sottraendo ogni anno importanti risorse economiche agli studenti, il 75 per cento dei quali, pur essendo idonei non ricevono le agevolazioni per la prosecuzione dei loro studi;
    sempre l'Ocse, nel suo rapporto annuale « Education at glance», pubblicazione che analizza i sistemi di istruzione di 34 Paesi membri e li elabora con i dati relativi ai tassi di occupazione e disoccupazione per livello di studio, ha sottolineato la stretta correlazione tra il numero di laureati e lo sviluppo economico di un territorio e come la riduzione del numero dei laureati meridionali produca ripercussioni negative sulla situazione economica e culturale di quell'area del Paese;
    l'articolo 5, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 25 luglio 1997, n. 306, («Regolamento recante disciplina in materia di contributi universitari») stabilisce che la quota totale di contribuzione con la quale gli studenti concorrono alla copertura del costo dei servizi offerti dalle università non può eccedere il 20 per cento dell'importo del finanziamento ordinario annuale dello Stato a ciascuna di esse. A causa della sensibile diminuzione delle risorse del fondo per il finanziamento ordinario, molte università a fronte di una conseguente diminuzione di risorse, per garantire il medesimo livello dei servizi, sono state costrette a superare tale limite (a volte fino ad elevarlo al 40 per cento) e ad elevare le tasse;
    in tutti i Paesi dell'Unione europea, tranne Italia e Grecia, esistono forme di reddito diretto per i soggetti in formazione. Si tratta di uno strumento che supera il modello assistenzialistico e rende lo studente libero e responsabile delle proprie scelte, favorendone la partecipazione e la creatività giovanile, stimolando l'opportunità di formarsi culturalmente al di là dei luoghi classici della formazione, in grado di slegare i soggetti in formazione dalla famiglia e dalla propria condizione sociale, imprimendo un'accelerazione alla mobilità sociale;
    quanto premesso promuove un modello sociale che rischia di esacerbare le disuguaglianze e di annullare ogni opportunità di autodeterminazione dei soggetti impegnati in percorsi di alta formazione,

impegna il Governo

   ad adottare ogni iniziativa di competenza, relativa al diritto allo studio universitario, volta:
    a) alla definizione di un sistema di welfare studentesco nazionale che garantisca l'effettiva rimozione degli ostacoli di natura economica per gli studenti capaci e meritevoli, consentendo loro di accedere e completare i corsi di studio universitario;
    b) alla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni connesse al diritto allo studio, di cui all'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, capaci di abbattere le attuali disuguaglianze sociali e disomogeneità territoriali;
    c) all'adozione di un piano straordinario di finanziamenti strutturali per il diritto allo studio al fine di raggiungere la copertura totale dei fondi destinati alle borse di studio da erogare a tutti gli idonei per risolvere definitivamente il diffuso ed inaccettabile fenomeno degli idonei non vincitori di borsa;
    d) all'ampliamento delle fasce di reddito degli aventi diritto alle provvidenze attualmente previste che al peggiorare della situazione economica si rivelano sempre più inadeguate;
    e) alla garanzia del pieno godimento dei diritti di cittadinanza agli studenti universitari anche attraverso misure di agevolazione della mobilità sui mezzi di trasporto pubblico, canoni calmierati per la locazione di immobili nel comune in cui ha sede l'ateneo, ed assistenza sanitaria gratuita nella regione in cui ha sede l'università;
    f) ad un regime sperimentale che riconosca il reddito di formazione a tutti quegli studenti che vivono in condizioni economiche particolarmente disagiate;
    g) ad una più equa ripartizione della contribuzione studentesca attuata anche attraverso la previsione di una «no tax area» per quei soggetti con isee al di sotto dei 20.000 euro, che, a causa di condizioni economiche disagiate, sono potenzialmente più esposti al rischio di abbandono degli studi;
    h) all'estensione agli studenti immigrati di tutte le agevolazioni riservate agli studenti di cittadinanza italiana in materia di diritto allo studio;
    i) all'istituzione della carta di cittadinanza studentesca al fine di favorire i consumi culturali;
    j) allo stanziamento di ulteriori risorse finanziarie finalizzate a rendere effettivo su tutto il territorio nazionale il diritto allo studio universitario.
(1-01298) «Pannarale, Giancarlo Giordano, Carlo Galli, Paglia, Nicchi, Gregori, Scotto».

Risoluzioni in Commissione:


   La IX e X Commissione,
   premesso che:
    l'articolo 14, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445 che reca il testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, sancisce che la trasmissione del documento informatico per via telematica, con modalità che assicurino l'avvenuta consegna, equivale alla notificazione per mezzo della posta nei casi consentiti dalla legge;
    il decreto del Presidente della Repubblica 11 febbraio 2005, n. 68 «Regolamento recante disposizioni per l'utilizzo della posta elettronica certificata, a norma dell'articolo 27 della legge 16 gennaio 2003, n. 3», statuisce le caratteristiche e le modalità per l'erogazione e la fruizione di servizi di trasmissione di documenti informatici mediante posta elettronica certificata (PEC);
    la PEC, in sostanza, è un sistema di trasmissione sicuro e regolamentato per inviare documenti e messaggi di posta elettronica con valore legale. Viene istituita come versione digitale della raccomandata con ricevuta di ritorno e punta a rendere più agili, immediati ed economici, tutti gli scambi di informazioni tra persone, imprese, pubbliche amministrazioni e professionisti, sfruttando le potenzialità del digitale;
    con l'articolo 16 del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185 (convertito con modificazioni dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2) viene introdotto l'obbligo da parte delle imprese e dei professionisti di creare un indirizzo di PEC proprio e di comunicarlo rispettivamente al registro delle imprese e agli ordini o collegi di appartenenza;
    i commi 1 e 2 dell'articolo 5 del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179 (convertito con modificazioni dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221) estende l'obbligo alle imprese individuali, siano esse nuove o già esistenti, di comunicare al registro delle imprese il proprio indirizzo PEC. Il comma 3 dello stesso articolo, apportando una modifica al decreto legislativo del 7 marzo 2005, dopo l'articolo 6, introduce l'articolo 6-bis che sancisce la nascita dell'INI-PEC, l'Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata, a partire dagli elenchi di indirizzi PEC già registrati presso il registro delle imprese e gli Ordini o Collegi professionali di appartenenza dei singoli professionisti, come previsto dall'articolo 16 del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185;
    con l'adozione del regolamento (UE) n. 910 del 23 luglio 2014 (2014/910/UE) «eIDAS», entrato in vigore il 17 settembre 2014, si è provveduto a garantire la piena interoperabilità a livello comunitario non solo della firma elettronica ma di tutto un insieme di servizi di identificazione ed autenticazione: questo regolamento troverà applicazione definitiva dal 1o luglio 2016 con l'abrogazione della direttiva 1999/93/EC e per quanto riguarda la vita quotidiana dei consumatori contribuirà a snellire e semplificare gli adempimenti amministrativi e burocratici;
    il regolamento (UE) n. 910 del 23 luglio 2014 (2014/910/UE) «eIDAS» introduce all'articolo 3 le definizioni di «servizio elettronico di recapito certificato» e di «servizio elettronico di recapito qualificato certificato», disciplinati alla sezione 7, rispettivamente agli articoli 43 e 44, che estendono e generalizzano il servizio fornito dalla posta elettronica certificata;
    attualmente, il titolare di un servizio in abbonamento, per comunicare la disdetta al fornitore, deve rispettare condizioni contrattuali che prevedono come modalità di invio della comunicazione il fax o la raccomandata con ricevuta di ritorno: per il consumatore ciò rappresenta un obbligo che comporta un aggravio di costi e tempi rispetto ai servizi elettronici di recapito certificato, modalità comunicativa sicura, semplice e poco costosa;
    la diffusione dei servizi elettronici di recapito certificato ed il relativo utilizzo anche da parte dei singoli cittadini è parte integrante della «Mission» dell'Agenda digitale italiana: l'Agenzia per l'Italia digitale (AgID), ha, tra le altre cose, il compito di garantire la realizzazione degli obiettivi dell'Agenda digitale attraverso la diffusione dell'innovazione digitale per contribuire allo sviluppo economico, culturale e sociale del Paese, promuovendo l'alfabetizzazione digitale di cittadini e imprese e creando nuove conoscenze e opportunità di sviluppo,

impegna il Governo:

ad assumere le opportune iniziative, anche normative, per assicurare che, per le disdette e/o le comunicazioni relative a contratti in abbonamento, per cui attualmente è richiesto l'obbligo di utilizzare la forma del fax o della raccomandata con ricevuta di ritorno, i cittadini siano messi in condizione di poter liberamente scegliere, in alternativa, l'utilizzo dei servizi elettronici di recapito certificato.
(7-01020) «Basso, Coppola, Bargero, Cani, Senaldi, Tentori, Vico, Becattini, Taranto, Arlotti».


   La IX Commissione,
   premesso che:
    la navigazione sul lago Maggiore e sul lago di Lugano, per i profili relativi all'attraversamento del confine di Stato tra l'Italia e la Confederazione elvetica è disciplinata da specifica Convenzione, conclusa il 2 dicembre 1992 ed entrata in vigore mediante scambio di note il 1o giugno 1997;
    l'articolo 14 di detta Convenzione richiede, per i vettori di navigazione sottoposta ad autorizzazione e servizi di noleggio di banchina (ossia i servizi non regolari di linea di trasporto persone, regolati dalla legge 15 gennaio 1992, n. 21, quali ad esempio il noleggio con conducente e il servizio taxi), un'annotazione supplementare sull'autorizzazione al trasporto che consenta di effettuare corse nelle acque territoriali dell'altro Stato;
    tale annotazione, a norma dello stesso articolo 14, deve essere apposta «dall'autorità competente», previo assenso dell'autorità dell'altro Stato;
    ormai da diversi anni l'autorità svizzera, e in particolare il Dipartimento federale dell'ambiente, dei trasporti, dell'energia e delle comunicazioni (DATEC) ritiene di individuare nel Ministero delle infrastrutture e dei trasporti l'autorità competente per parte italiana;
    in assenza di un procedimento specifico, al momento la menzionata annotazione non viene resa, né risulta chiarito se la stessa possa essere apposta da autorità diversa dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti;
    di tale situazione il Ministero è pienamente informato, attesa anche l'attivazione di uno specifico tavolo sulle problematiche e sulle criticità relative alla situazione del trasporto pubblico non di linea sui laghi di interesse, riunitosi nel mese di settembre 2015;
    rispetto alla riunione inaugurale di detto tavolo tuttavia non si sono avuti seguiti apprezzabili, permanendo così uno stato di estrema incertezza per gli operatori del settore, nonché un significativo disagio per i turisti;
    allo stato attuale, infatti, i vettori italiani del trasporto non di linea non possono più superare il confine di Stato, essendo loro impedito l'ingresso in territorio svizzero, in quanto sprovvisti della citata annotazione supplementare;
    la situazione descritta si presenta dunque del tutto irrazionale e a tutto svantaggio degli operatori turistici, nonché della migliore fruizione dei servizi da parte degli utenti;
    tale irrazionalità si riverbera in un danno continuo per il comparto turistico, che costituisce uno dei principali elementi trainanti del territorio interessato,

impegna il Governo

ad assumere ogni iniziativa utile al fine di porre termine all'attuale situazione, anche attraverso il coinvolgimento delle autorità svizzere, degli enti locali interessati, nonché della gestione governativa dei servizi pubblici di linea di navigazione sui laghi Maggiore, di Garda e di Como, giungendo alla definizione di un procedimento per il rilascio dell'annotazione supplementare che sia conforme ai principi di trasparenza, equità e tutela della concorrenza, al fine di ripristinare al più presto l'effettività dei servizi di trasporto non di linea.
(7-01019) «Pagani, Falcone».

ATTI DI CONTROLLO

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI

Interpellanza:


   I sottoscritti chiedono di interpellare il Presidente del Consiglio dei ministri, il Ministro dell'economia e delle finanze, per sapere – premesso che:
   durante la trasmissione televisiva di Rai Tre «Report» la conduttrice Milena Gabbanelli ha mostrato una lettera indirizzata al presidente della Consob, Giuseppe Vegas, sulle raccomandazioni che l'autorità avrebbe dovuto emanare alle banche relativamente agli scenari probabilistici da accompagnare alle emissioni di subordinate;
   come riportato anche dal il Fatto Quotidiano, del 7 giugno, la lettera è stata scritta il 3 maggio 2011 dal direttore della divisione emittenti della Consob, Claudio Salini, e in chiusura afferma: «Conformemente alle indicazioni fornite per le vie brevi dalla S.V. al Responsabile della Divisione Studi Economici, gli Uffici inviteranno gli emittenti a non inserire le informazioni sugli scenari di probabilità nel prospetto e ne richiederanno l'eliminazione nel caso in cui qualche banca dovesse farlo di propria iniziativa»;
   questa sarebbe la prova che il presidente Vegas «per le vie brevi» avrebbe ordinato al direttore della divisione studi economici, Giovanni Siciliano, di abolire gli scenari probabilistici, strumento che serve a tutelare i risparmiatori, per favorire le banche intenzionate a collocare presso i loro clienti le rischiosissime obbligazioni subordinate;
   il direttore Salini, poco dopo l'invio della citata lettera, ha lasciato la Consob ed è stato nominato nel consiglio di amministrazione della Banca Etruria, e recentemente è stato sanzionato dalla Banca d'Italia per una serie di irregolarità amministrative; come amministratore di Banca Etruria ha beneficiato della decisione di Vegas, consentendo così alla banca di piazzare le obbligazioni subordinate;
   la vicenda è stata ricostruita nei dettagli sempre dal il Fatto Quotidiano il 25 maggio: nel 2009 l'allora presidente della Consob, Lamberto Cardia, emanò una raccomandazione che imponeva alle banche di accompagnare le emissioni di subordinate con gli scenari probabilistici, numeri, cioè, che indicano sinteticamente ai risparmiatori le probabilità di guadagnare o perdere con quell'investimento;
   il presidente Vegas — che il 1o marzo 2011 venne proposto dall'allora Governo Berlusconi da viceministro dell'economia e delle finanze a presidente della Consob — subito dopo la nomina si attivò per eliminare gli scenari probabilistici in nome della semplificazione;
   gli scenari probabilistici, introdotti proprio per tutelare i clienti delle banche, mostravano la realtà di quei titoli in modo così chiaro da mettere in fuga gli acquirenti o comunque da imporre cedole all'altezza del rischio: non rendimenti intorno al 5 per cento come i titoli di Stato, ma del 12/13 per cento;
   il 28 marzo 2011, nell'ambito dell'ampia consultazione aperta da Vegas, Stefano Micossi, direttore dell'Assonime, associazione delle società per azioni, descrive gli scenari probabilistici come l'arma di un ricatto a cui le aziende sarebbero sottoposte dalla burocrazia della Consob: «Benché la raccomandazione finale non sia stata ancora emanata, la Consob già richiede che tali informazioni vengano incluse nei prospetti come condizione per accelerarne l'approvazione»;
   dopo la lettera di Micossi le informazioni dovute sugli scenari probabilistici sono sparite e la lettera di Salini è stata secretata per cinque anni ora; grazie alle informazioni fornite dalla sunnominata trasmissione televisiva, si evince che fu il presidente Vegas a dare l'ordine, a voce, a Siciliano di disapplicare la regola fissata dal precedente presidente Cardia;
   tale linea di condotta è in aperto contrasto con quanto stabilito dal comma 6 dell'articolo 1 della legge n. 216 del 1974 che ha istituito la Consob: «Il presidente sovrintende all'attività istruttoria e cura l'esecuzione delle deliberazioni»; quindi, a parere degli interroganti, la legge non dice che il presidente può far disapplicare della Commissione;
   l'ordine dato «per le vie brevi» dal presidente Vegas nell'aprile del 2011 ha, come è ormai noto, favorito il collocamento massiccio delle subordinate di Banca Etruria, ma anche Banca Marche, Banco Popolare di Vicenza, Veneto Banca, che si è tradotto nell'evaporazione di 800 milioni di euro di risparmio italiano con un gravissimo danno per migliaia di risparmiatori –:
   quali iniziative di competenza intenda assumere nei confronti del presidente della Consob.
(2-01392) «Melilla, Daniele Farina, Franco Bordo, Kronbichler, Ferrara, Duranti, Costantino, Nicchi».

Interrogazioni a risposta in Commissione:


   COLONNESE, DALL'OSSO, SILVIA GIORDANO, LOREFICE, MANTERO, GRILLO e DI VITA. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   l'isola di Procida ha una superficie di 3,7 chilometri quadrati. Il perimetro, estremamente frastagliato, misura circa 16 chilometri. La superficie comunale ricopre interamente l'isola di Procida e il vicino isolotto di Vivara (0,4 chilometri quadrati), due isole del golfo di Napoli appartenenti al gruppo delle isole Flegree;
   Procida ha 10.500 residenti, 25 mila abitanti d'estate e 250 mila sbarchi di ospiti nel corso dell'anno;
   l'ospedale Gaetanina Scotto, situato in via Alcide De Gasperi sull'isola di Procida in provincia di Napoli, è presidio ospedaliero della azienda sanitaria locale Napoli 2 nord, che comprende un territorio articolato in 32 comuni della, provincia di Napoli, collocati nel territorio a nord del capoluogo. La struttura, dedicata all'infermiera Gaetanina Scotto di Perrotolo, è dotata di nove posti letto di ricovero: 3 in chirurgia, 3 in medicina e 3 in ostetricia. Di recente l'installazione nella unità operativa di diagnostica per immagini di una macchina per la tomografia assiale computerizzata (TAC), che permette di gestire con maggiore tranquillità le prime fasi dell'emergenza e di assicurare ai cittadini isolani una maggiore accuratezza nella diagnostica sul territorio;
   il nuovo piano regionale per l'organizzazione sanitaria, in particolare delle strutture ospedaliere, prevede il ridimensionamento se non la soppressione dei piccoli centri di cura. Il Gaetanina Scotto a Procida ha finora assicurato servizi 24 ore con nove posti letto e medici preparati. La modifica prevista dal piano regionale declassa il presidio procidano a «osservatorio» e attua la soppressione del pronto soccorso: tre posti letto e una operatività talmente minima che i pazienti dovranno essere necessariamente trasferiti sulla terraferma con conseguente perdita di tempo prezioso e forse di vite. Durante l'anno, infatti, soprattutto a motivo delle condizioni meteo avverse, Procida si trova più volte in una condizione di vero isolamento;
   il nuovo piano ospedaliero (che segue le direttive del decreto ministeriale n. 70 del 2015), prevede la soppressione del pronto soccorso h24 e la sua sostituzione con un punto di primo intervento con quattro posti letto di osservazione breve (Obi), e un ospedale di comunità, gestito dai medici di famiglia;
   in questi giorni i procidani hanno organizzato manifestazioni di protesta decisi a difendere l'ospedale dell'isola, piccolo ma prezioso, dalla minaccia di un ridimensionamento che pare una cancellazione, più che della struttura, del diritto alla salute. La malaugurata chiusura avrebbe effetti negativi gravissimi sui livelli di assistenza sanitaria d'urgenza, privando gli abitanti ed i tanti turisti, che in estate affollano l'isola, di un servizio di tutela della salute e aumenterebbe i costi per i trasferimenti altrove esponendo gli stessi pazienti a maggiori rischi –:
   se siano conoscenza di quanto esposto in premessa;
   se non ritengano che il ridimensionamento della struttura leda fortemente il diritto alla salute degli abitanti dell'isola, tenendo conto che il raggiungimento del più vicino pronto soccorso prevede l'attraversamento di un braccio di mare;
   quali siano i criteri e se e quali osservazioni siano state fatte sulle decisioni di riorganizzazione della rete sanitaria in Campania da parte dei rappresentanti del Ministero della salute in sede di monitoraggio del piano di rientro della regione Campania, con particolare riferimento a quanto descritto in premessa;
   come intendano attivarsi, per quanto di competenza, onde monitorare i servizi sanitari regionali, ivi incluso quello della regione Campania e se abbiano verificato l'adeguatezza complessiva dello stato di approntamento ordinario e straordinario rispetto alla ridefinizione degli standard di servizio;
   quali iniziative di competenza intendano assumere per risolvere le problematiche che impediscono i servizi di emergenza; se intendano assumere iniziative, per quanto di competenza e anche per il tramite del commissario ad acta per l'attuazione del piano di rientro, per garantire il rispetto delle norme e ripristinare il pubblico servizio di emergenza. (5-08837)


   MARCO DI STEFANO. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro dell'economia e delle finanze, al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   si è appreso informalmente, da segnalazioni promananti da operatori economici affidatari, a vario titolo, di pubbliche commesse, di talune incertezze interpretative che sarebbero insorte nell'applicazione, dell'articolo 118 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (recante il così detto codice dei, contratti pubblici), nella versione risultante all'esito delle modifiche apportate dall'articolo 13 comma 10, lettera a) del decreto legislativo 23 dicembre 2013, n. 145 convertito con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2014, n. 9;
   la riforma in questione è volta a consentire la prosecuzione dei contratti di appalto mediante l'estensione, per condizioni di particolare urgenza, della facoltà della stazione appaltante di provvedere direttamente al pagamento dei subappaltatori e dei cottimisti dell'importo a essi dovuto dall'appaltatore principale per prestazioni eseguite, anche qualora il bando non contempli tale facoltà. Trattasi, quindi, di norma chiaramente applicabile anche ai contratti stipulati in epoca anteriore all'entrata in vigore della novella;
   il fine diretto perseguito è di evitare che l'impresa appaltatrice in crisi di liquidità, non potendo fornire all'amministrazione appaltante le fatture quietanzate dei pagamenti effettuati ai subappaltatori, si veda sospendere da parte della stessa il pagamento degli stati di avanzamento lavori (SAL) successivi, con ciò alimentando una spirale negativa che incide inevitabilmente sulla prosecuzione delle attività, danneggiando appaltatore, subappaltatori e stazione a appaltante;
   la norma, attraverso il richiamo operato dall'articolo 36, comma 4 del medesimo codice dei contratti pubblici, trova applicazione anche nei confronti dei consorzi e, in particolare, nel rapporto tra consorzio aggiudicatario e consorziato assegnatario dei lavori (assimilabile al rapporto antagonista appaltatore/subappaltatore);
   la disposizione richiamata impone alle stazioni appaltanti, una volta effettuato il pagamento di uno stato di avanzamento lavori Sal, di ottenere dal beneficiario del pagamento (sia esso appaltatore o consorzio) le quietanze rilasciate dai subappaltatori, subfornitori, società consorziate, e altro. Il mancato rilascio di tale quietanza – nel termine perentorio di 20 giorni dal pagamento – imporrebbe alla stazioni appaltanti di sospendere il pagamento dei SAL successivi;
   in tale contesto si colloca il meccanismo del cosiddetto pagamento diretto che dovrebbe scattare, a richiesta dell'interessato, nell'ipotesi in cui il soggetto formalmente aggiudicatario della commessa pubblica versi in una situazione di crisi di liquidità finanziaria, comprovate da reiterati ritardi nei pagamenti;
   a fronte di una segnalazione in tal senso, la stazione appaltante dovrebbe constatare il ritardato pagamento da parte del soggetto aggiudicatario della commessa e, in caso di reiterazione, dovrebbe disporre il cosiddetto pagamento diretto, al fine di salvaguardare sia il superiore interesse pubblico (all'ultimazione dell'opera o del servizio), che gli interessi economici degli operatori che materialmente hanno dato esecuzione alla commessa, anticipando i relativi costi ed esponendosi al rischio di impresa;
   la semplice presenza di reiterati ritardi nei pagamenti, infatti, dovrebbe essere sufficiente ad integrare gli estremi di una condizione di crisi di liquidità finanziaria, assunta dalla norma a presupposto per l'applicazione del cosiddetto pagamento diretto;
   a quanto consta all'interrogante invece, le stazioni appaltanti si appalesano refrattarie e recalcitranti a disporre il cosiddetto pagamento diretto, che interviene soltanto quale extrema ratio, vale a dire quando l'aggiudicatario della commessa non solo versa in una condizione di crisi di liquidità finanziaria ma, addirittura, in una situazione di vera e propria insolvenza sovrapponibile con il presupposto di accesso alla procedura concorsuale della dichiarazione di fallimento;
   al fine di dettagliare in maniera più specifica la questione (e, possibilmente, ricevere spiegazioni sul comportamento delle stazioni appaltanti), si segnala il seguente caso:
    la Icr impianti e costruzioni s.p.a. fa parte, quale consorziata, del consorzio Cipea & Cariiee – co.ed.a – unifica – consorzio fra imprese di produzione edilizia, impiantistica ed affini società cooperativa (in sigla «unifica soc. coop.»), costituito ai sensi dell'articolo 2615-ter c.c.;
    in esecuzione dei suoi scopi sociali, il consorzio Unifica ha assegnato alla Icr i seguenti lavori, appaltati da Poste italiane s.p.a.;
    con atto del 24 luglio 2013, è stata assegnata l'esecuzione dei lavori denominati: «Servizio Multiservice Area Centro – Lotto 1 regione Lazio – Cod. Appalto EP1626 – Servizio di Conduzione e Manutenzione Tecnologica, Edile e Assunzione della Funzione di Terzo Responsabile per gli immobili direzionali, industriali e per gli uffici postali in uso a Poste italiane s.p.a. dislocati nell'ambito dell'area immobiliare Centro Lotto 1 – Appalto triennale (CIG 49078906F2)»;
    con atto del 24 luglio 2013, la esecuzione dei lavori denominati «Servizio Multiservice Area Centro – Lotto 2 regione Toscana – Cod Appalto EP1624 – Servizio di Conduzione e Manutenzione Tecnologica, Edile e Assunzione della Funzione di Terzo Responsabile per gli immobili direzionali, industriali e per gli uffici postali in uso a Poste italiane s.p.a. dislocati nell'ambito dell'area immobiliare Centro 1 Lotto 2 – Appalto triennale (CIG 4905097617)»;
   con atto del 29 maggio 2015, l'esecuzione dei lavori denominati: «Ravenna Filiale – progettazione esecutiva ed esecuzione dei lavori di manutenzione straordinaria per il restauro e la conservazione delle facciate e per l'accessibilità, compresa la prestazione di servizi (CIG 624625088E)», lavori assegnati sulla scorta della offerta formulata dalla ICR stessa;
   la Icr ha segnalato alle predette stazioni appaltanti i plurimi e reiterati ritardi di pagamento da parte del Consorzio, fin dal mese di ottobre dell'anno 2015. Ha chiesto più volte alle stazioni appaltanti di chiudere in maniera espressa l'istruttoria avviata, a tutt'oggi ancora senza esito. È stata più volte convocata per partecipare a riunioni in contraddittorio con il Consorzio, alle quali, tuttavia, il Consorzio non ha partecipato senza addurre giustificate motivazioni. Lo stesso Consorzio ha omesso di fornire i chiarimenti richiesti per iscritto dalle stazioni appaltanti. Nonostante ciò, ad oggi non è successo nulla, l'impresa ha effettuato attività per oltre tre milioni di euro, che non è stata ovviamente saldata ed è conseguentemente a rischio sia la prosecuzione delle commesse in questione che la stabilità finanziaria della impresa considerata, senza considerare le sorti dei lavoratori dipendenti;
   la questione, peraltro, non sembra superata – per il futuro – dalla corrispondente disposizione contenuta nel nuovo codice dei contratti pubblici (decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50) che, prima facie, presenta altrettanti ed ulteriori aspetti problematici –:
   se risulti al Governo per quali ragioni le stazioni appaltanti, nel caso di cui in premessa come pure in altri, abbiano omesso di disporre il pagamento diretto ai sensi dell'articolo 118 del codice dei contratti pubblici, che tipo di istruttoria sia stata compiuta per verificare la sussistenza dei presupposti delineati dalla norma e in quante occasioni l'istruttoria si sia conclusa con la decisione di disporre il cosiddetto pagamento diretto;
   se le difficoltà interpretative ed applicative debbano ritenersi superate nella vigenza del nuovo codice dei contratti pubblici o se non sia opportuno assumere ulteriori iniziative normative al riguardo.
(5-08838)


   DI VITA, LOREFICE, SILVIA GIORDANO, MANTERO, GRILLO, COLONNESE e BARONI. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, al Ministro della salute, al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   l'articolo 22, comma 1, della legge quadro «per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali» dell'8 dicembre 2000 (legge n. 328 del 2000) stabilisce che «Il sistema integrato di interventi e servizi sociali si realizza mediante politiche e prestazioni coordinate nei diversi settori della vita sociale, integrando servizi alla persona e al nucleo familiare con eventuali misure economiche, e la definizione di percorsi attivi volti ad ottimizzare l'efficacia delle risorse, impedire sovrapposizioni di competenze e settorializzazione delle risposte»;
   la medesima legge, al comma 2 della medesima disposizione, sancisce che «ferme restando le competenze del Servizio sanitario nazionale in materia di prevenzione, cura e riabilitazione, nonché le disposizioni in materia di integrazione socio-sanitaria di cui al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni, gli interventi di seguito indicati costituiscono il livello essenziale delle prestazioni sociali erogabili sotto forma di beni e servizi secondo le caratteristiche ed i requisiti fissati dalla pianificazione nazionale, regionale e zonale, nei limiti delle risorse del Fondo nazionale per le politiche sociali, tenuto conto delle risorse ordinarie già destinate dagli enti locali alla spesa sociale:
    a) misure di contrasto della povertà e di sostegno al reddito e servizi di accompagnamento, con particolare riferimento alle persone senza fissa dimora;
    b) misure economiche per favorire la vita autonoma e la permanenza a domicilio di persone totalmente dipendenti o incapaci di compiere gli atti propri della vita quotidiana;
    c) interventi di sostegno per i minori in situazioni di disagio tramite il sostegno al nucleo familiare di origine e l'inserimento presso famiglie, persone e strutture comunitarie di accoglienza di tipo familiare e per la promozione dei diritti dell'infanzia e dell'adolescenza;
    d) misure per il sostegno delle responsabilità familiari, ai sensi dell'articolo 16, per favorire l'armonizzazione del tempo di lavoro e di cura familiare;
    e) misure di sostegno alle donne in difficoltà per assicurare i benefici disposti dal regio decreto-legge 8 maggio 1927, n. 798, convertito dalla legge 6 dicembre 1928, n. 2838, e dalla legge 10 dicembre 1925, n. 2277, e loro successive modificazioni, integrazioni e norme attuative;
    f) interventi per la piena integrazione delle persone disabili ai sensi dell'articolo 14; realizzazione, per i soggetti di cui all'articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, dei centri socio-riabilitativi e delle comunità-alloggio di cui all'articolo 10 della citata legge n. 104 del 1992, e dei servizi di comunità e di accoglienza per quelli privi di sostegno familiare, nonché erogazione delle prestazioni di sostituzione temporanea delle famiglie;
    g) interventi per le persone anziane e disabili per favorire la permanenza a domicilio, per l'inserimento presso famiglie, persone e strutture comunitarie di accoglienza di tipo familiare, nonché per l'accoglienza e la socializzazione presso strutture residenziali e semiresidenziali per coloro che, in ragione della elevata fragilità personale o di limitazione dell'autonomia, non siano assistibili a domicilio;
    h) prestazioni integrate di tipo socio-educativo per contrastare dipendenze da droghe, alcol e farmaci, favorendo interventi di natura preventiva, di recupero e reinserimento sociale;
    i) informazione e consulenza alle persone e alle famiglie per favorire la fruizione dei servizi e per promuovere iniziative di auto-aiuto»;
   la legge n. 328 del 2000 indica dunque, oltre alle caratteristiche ed ai requisiti delle prestazioni sociali tipiche dei livelli di assistenza sociale, anche i principi fondamentali per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, delinea le funzioni rimesse allo Stato, alle regioni ed agli enti locali, evidenzia le fonti di finanziamento del sistema ed, all'articolo 18 istituisce il cosiddetto «piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali» quale strumento di programmazione per individuare i principi e gli obiettivi della politica sociale;
   ai sensi dell'articolo 46, commi 2 e 3, della legge n. 289 del 27 dicembre 2002, Fondo nazionale per le politiche sociali di cui all'articolo 59, comma 44, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, e successive modificazioni, deve essere determinato dagli stanziamenti previsti per gli interventi disciplinati dalle disposizioni legislative indicate all'articolo 80, comma 17, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, e successive modificazioni, e dagli stanziamenti previsti per gli interventi, comunque finanziati a carico del Fondo medesimo, disciplinati da altre disposizioni. Gli stanziamenti affluiscono al Fondo senza vincolo di destinazione; ancora, ad abundantiam, «il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, d'intesa con la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, provvede annualmente, con propri decreti, alla ripartizione delle risorse del Fondo di cui al comma 1 per le finalità legislativamente poste a carico del Fondo medesimo, assicurando prioritariamente l'integrale finanziamento degli interventi che costituiscono diritti soggettivi e destinando almeno il 10 per cento di tali risorse a sostegno delle politiche in favore delle famiglie di nuova costituzione, in particolare per l'acquisto della prima casa di abitazione e per il sostegno alla natalità»;
   ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione la potestà legislativa esclusiva dello Stato è riservata alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernente i diritti ed i diritti sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale;
   come in una recente mozione (n. 1-00087), pubblicata il 25 giugno 2013 nella seduta n. 49 in Senato, è stato più volte rilevato che a distanza di ben più di dieci anni dall'approvazione della riforma del Titolo V della Costituzione, nonché del vigente articolo 117 della Costituzione nonché dall'approvazione delle leggi sopracitate, l'Esecutivo non ha provveduto ancora oggi né a tipizzare quelli che sono i contenuti dei livelli essenziali di assistenza e sociali (LIVEAS) ex articolo 22 della legge n. 328 del 2000, rendendoli di fatto ed in concreto «lettera morta», né a dare attuazione ai commi 2 e 3 dell'articolo 46 della legge n. 289 del 2002; tra l'altro anche le numerose Conferenze unificate, di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281 – succedutesi nel tempo – mai hanno riportato dal gennaio 2003 (anno di entrata in vigore della L. n. 289 del 2002) nei rispettivi punti all'ordine del giorno la definizione e il finanziamento dei livelli essenziali di assistenza sociale cosiddetti LIVEAS;
   nessun decreto del Presidente del Consiglio dei ministri finalizzato alla definizione appunto dei livelli essenziali di assistenza sociale è stato emanato ed approvato a seguito della sopracitata mozione;
   questo quadro così indefinito e confuso, congiuntamente al pregiudizio economico e assistenziale derivante dal regime di calcolo dell'ISEE introdotto con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 2013, lede e preclude di fatto i diritti di tutti quegli utenti che si sono visti esclusi e/o ridotti l'accesso al beneficio ed al sostegno da parte degli enti territoriali di sostegni di natura socio-assistenziale tanto da non poter usufruire di fatto di livelli essenziali di prestazioni sociali adeguati e indispensabili alle rispettive necessità, bisogni di cura nonché condizioni reddituali;
   suddetto trattamento ha, in definitiva, prodotto un evidente stato di sfavor economico-assistenziale ad esempio, e non solo, in capo alle fasce di popolazione affette da gravi menomazioni, handicap ed incapacità di fare fronte in maniera autonoma ai bisogni primari di cura e di assistenza, oltre al discrimen etico creatosi per effetto dell'illegittimità della normativa –:
   se il Governo abbia posto in essere tutte le iniziative previste dai commi 2 e 3 dell'articolo 46 legge n. 289 del 2002 e quindi se si sia fatto promotore di quanto indicato nelle disposizioni di legge e, in caso contrario, quali iniziative concrete si intendano adottare in particolare al fine di determinare, sempre con urgenza e tempestività, i livelli essenziali delle prestazioni da garantire su tutto il territorio nazionale. (5-08843)

Interrogazione a risposta scritta:


   LOREFICE, GRILLO, SILVIA GIORDANO, DI VITA, MANTERO, COLONNESE e BARONI. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   in provincia di Ragusa si registra da tempo il proliferare della criminalità organizzata, con la consumazione di reati soprattutto contro il patrimonio ma anche contro la persona. I giornali ogni giorno raccontano di rapine a mano armata, di furti, di violenze private, di agromafie che approfittano delle vaste aree agricole e non controllate dalle forze dell'ordine;
   difatti, da tempo, le forze dell'ordine registrano un deficit nella dotazione organica tale da non consentire nemmeno l'espletamento dell'attività ordinaria, con la conseguenza che si attinge con una certa regolarità al personale addetto ad altre mansioni pur di assicurare i normali servizi di controllo del territorio e di ordine pubblico;
   le assegnazioni di nuove unità sono irrisorie rispetto ai trasferimenti, ai pensionamenti e alle crescenti esigenze derivanti dall'apertura dell'aeroporto «Pio La Torre» di Comiso, dalla continua operatività del centro di primo soccorso e accoglienza di Pozzallo, dall'apertura di nuovi centri di accoglienza straordinaria e di centri legati allo S.P.R.A.R.;
   tale situazione è già stata sottoposta all'attenzione del Ministro dell'interno attraverso le interrogazioni n. 4-01653 e n. 4-06386, nonché attraverso vari interventi in aula. All'interrogazione n. 4-01653 il vice ministro Bubbico ha risposto dichiarando, tra l'altro, che «Le complessive crescenti esigenze di servizio sono state, comunque, sempre affrontate mediante l'ottimizzazione dell'impiego del personale a disposizione, nonché attraverso la razionalizzazione delle attività di controllo del territorio. Si ricorda inoltre che, il dispositivo delle forze di polizia preposto al controllo del territorio della provincia può contare su 372 unità della Polizia di Stato supportati da 19 appartenenti ai ruoli tecnici, 378 militari dell'Arma dei Carabinieri e 224 della Guardia di Finanza»;
   da tali informazioni si evince che circa 1000 unità, da suddividere presumibilmente in base alle funzioni e ai turni di lavoro, devono presidiare e controllare 1614 chilometri quadrati di territorio e garantire la sicurezza di oltre 300.000 persone, distribuite in 12 comuni e relative frazioni, collegati da una rete di circa 1400 chilometri di arterie extraurbane, con la conseguenza riscontrata che i centri minori rimangono spesso sprovvisti di personale che possa intervenire in caso di chiamata;
   l'insufficienza del presidio territoriale è confermata dall'incremento esponenziale di furti e rapine che non di rado sfociano in reati contro la persona. Le frazioni e le campagne sono costantemente setacciate da ladri; le effrazioni nei centri abitati sono in continuo aumento, anche in ore diurne e in presenza di inquilini; criminali in trasferta portano a termine su commissione furti sempre più consistenti; le rapine a banche, farmacie, esercizi commerciali, ma anche a semplici cittadini, crescono nel numero e nell'efferatezza. I clan mafiosi sono tornati a permeare l'economia e le istituzioni iblee, come evidenziato nella relazione 2012-2013 della direzione nazionale antimafia, e come dimostrano i continui atti intimidatori ad artigiani ed esercizi commerciali;
   la prima firmataria del presente atto ha altresì chiesto l'intervento dello Stato, tramite il Ministro dell'interno, in quanto nonostante l'eccellente lavoro espletato giornalmente dalle forze dell'ordine non è garantita appieno la sicurezza nel territorio, forse anche a causa della naturale vastità del territorio urbano ed extra urbano che non permette serrati controlli ovunque;
   il Ministro interrogato ha risposto alla lettera inviata rassicurando che «l'intera provincia è costantemente monitorata dalle competenti articolazioni di questo Dicastero e che in occasione di future assegnazioni di personale saranno tenute in evidenza le esigenze di detto territorio»;
   nonostante il Ministro interrogato abbia rassicurato che si è registrata una diminuzione dei reati commessi nella provincia di Ragusa, questi continuano a verificarsi con cadenza quasi giornaliera e la sfiducia della popolazione nelle istituzioni è sfociata a volte in allarmanti iniziative autonome di presidio e controllo territoriale –:
   quali iniziative il Governo stia adottando a supporto del lavoro delle forze dell'ordine al fine di una più efficace e permeante azione di contrasto della dilagante criminalità nella provincia di Ragusa;
   se il Governo stia valutando la possibilità di intervenire tempestivamente attraverso un rafforzamento del dispiegamento di forze dell'ordine nella provincia di Ragusa, anche in considerazione dell'alto livello di tensione presente nella popolazione locale. (4-13406)

AFFARI ESTERI E COOPERAZIONE INTERNAZIONALE

Interpellanza:


   I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, per sapere – premesso che:
   il 20 maggio 2016 il Parlamento della Turchia ha approvato un emendamento costituzionale che prevede la revoca dell'immunità per i deputati. L'emendamento, proposto dal partito di governo Akp del presidente Recep Tayyip Erdogan, è stato approvato anche grazie al sostegno dell'opposizione nazionalista dell'Mhp e di una ventina di deputati del Partito Repubblicano del Popolo kemalista (Chp); i voti a favore, infatti, sono stati 376 su 550 componenti: una maggioranza tale da scongiurare il possibile ricorso al referendum;
   la revoca dell'immunità colpirà, in particolare, almeno 50 dei 59 parlamentari rappresentanti dell'Hdp, il partito filocurdo che nel giugno 2015 è tornato in Parlamento superando la soglia di sbarramento del 10 per cento, che ora rischiano l'arresto con accuse di terrorismo e sostegno al Pkk. Lo stesso presidente turco Erdogan ha più volte auspicato la rimozione dell'immunità per i deputati curdi, accusandoli di essere il braccio politico del Pkk;
   il segretario dell'Hdp, Selahattin Demirtas, ha annunciato la presentazione di un ricorso alla Corte Costituzionale dichiarando che «nessuno dei nostri deputati andrà volontariamente in tribunale. Dovranno venire a prenderci con la forza, perché in Turchia non c’è un potere giudiziario indipendente che possa garantire un giusto processo»;
   nel 1994 l'arresto di alcuni deputati curdi, tra cui Leyla Zana che oggi, dopo 10 anni di prigione in cui si è sempre proclamata innocente è tornata in Parlamento, aveva scatenato un'ondata di violenza nel sud-est del Paese, dove, tra l'altro, dalla scorsa estate è ripreso il conflitto tra l'esercito e il Partito dei lavoratori del Kurdistan dopo l'interruzione di una tregua durata due anni e mezzo;
   la deliberazione del Parlamento turco ha suscitato la ferma reazione politica in particolare della Germania, storicamente terra di forte immigrazione di provenienza turca: per il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, si è trattato di «colpo alla democrazia turca e alla libertà politica», mentre per la segretaria generale dell'Spd, Katarina Barley «il pluralismo democratico in Turchia subirà danni duraturi» e «si tratta unicamente del mantenimento e del consolidamento del potere del presidente Erdogan e dell'Akp»;
   la stessa cancelliera tedesca Angela Merkel, tramite il suo portavoce, si è detta preoccupata «per l'accresciuta polarizzazione della politica interna in Turchia» e nel corso dell'incontro avuto con il presidente turco Erdogan il 23 maggio 2016 ha ribadito la propria preoccupazione rispetto allo stato della democrazia in Turchia, preludio di un ulteriore accentramento dei poteri in capo al Presidente della Repubblica. A Erdogan, la Cancelliera ha ricordato che «una democrazia compiuta si regge su di un sistema giudiziario indipendente, una stampa indipendente e un Parlamento forte»;
   è impossibile ignorare il fatto che questa iniziativa politica che comprime i diritti parlamentari delle minoranze in Turchia, sia stata approvata a pochi giorni dalla conclusione di un importante accordo con l'Unione europea per la gestione dei flussi migratori, accordo che si basa sul riconoscimento della Turchia come «Paese terzo sicuro» o come «Paese di primo asilo» per quanti arriveranno poi in Grecia –:
   se il Ministro interrogato non intenda farsi promotore, in sede internazionale e soprattutto europea, di un'iniziativa politica finalizzata a favorire la piena affermazione dei diritti costituzionali in Turchia, compreso il ripristino della immunità parlamentare a garanzia del libero esercizio del mandato di rappresentanza per i deputati di ogni parte politica.
(2-01391) «Romanini, Quartapelle Procopio, Marco Di Maio, Borghi, Tidei, Amoddio, Patrizia Maestri, Roberta Agostini, Ciracì, Andrea Maestri, Galperti, Venittelli, Taricco, Albanella, Carella, Prina, Cenni, Tacconi, Gigli, Fossati, Paolo Rossi, Zardini, Giuseppe Guerini, Locatelli, Gandolfi, Donati, D'Incecco».

Interrogazioni a risposta immediata in Commissione:

III Commissione:


   SIBILIA, GRANDE, MANLIO DI STEFANO, DEL GROSSO, DI BATTISTA, SCAGLIUSI e SPADONI. — Al Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale. — Per sapere – premesso che:
   in data 19 aprile 2016 il primo firmatario del presente atto ha ricevuto una mail istituzionale da parte del personale a contratto presso la Rappresentanza permanente d'Italia alle Nazioni Unite di New York in cui sono evidenziate «alcune gravi e annose problematiche che sono causa di uno stato di profondo disagio»;
   in particolare, nella mail si riporta testualmente che: «nonostante l'elevatissimo costo della vita di questo Paese (USA), la nostra Amministrazione (il Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale) non concede adeguamenti retributivi da oltre 15 anni e non ha mai adeguato i contratti alla normativa locale. Quindi, niente piani pensione, niente straordinari retribuiti e nessuna progressione di carriera ! Inoltre, sono state applicate forti limitazioni alla copertura sanitaria»;
   questa situazione, a detta del personale interessato, potrebbe portare a uno stato di agitazione e all'astensione dall'attività lavorativa;
   da un punto di vista previdenziale il personale lamenta, inoltre, il fatto che, sempre testuale: «l'Amministrazione, a fronte di una base imponibile equivalente al 100 per cento della retribuzione, non permette alla categoria di contribuire al sistema pensionistico italiano sull'intera retribuzione, bensì sul 50 per cento dello stipendio, per il personale i cui contratti sono regolati dalla legge locale, e soltanto sulla base di uno stipendio convenzionale equivalente a circa un terzo dello stipendio, per coloro i cui contratti sono regolati dalla legge italiana ! Pertanto, una volta raggiunta l'età pensionabile, riceveremo una pensione bassissima e del tutto inadeguata a poter continuare a vivere in questo Paese. Questa palese ingiustizia si aggiunge al fatto che molti non avranno neanche la copertura sanitaria (Medicare), in quanto il Trattato Italia-USA in materia pensionistica non prevede che coloro che non sono cittadini statunitensi e lavorano per un governo straniero possano effettuare versamenti al Social Security !» –:
   quali iniziative ritenga opportuno porre in essere in ordine alle criticità evidenziate per garantire l'adeguamento retributivo e il tasso di cambio in valuta locale degli stipendi del personale a contratto negli USA, nonché la piena applicazione del decreto legislativo n. 103 del 2000 nella parte in cui stabilisce che i contratti devono essere adeguati alla normativa locale. (5-08846)


   PALAZZOTTO. — Al Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale. — Per sapere – premesso che:
   secondo quanto riportato dal quotidiano online gambiano The Point, il 10 maggio 2016 una delegazione composta da rappresentanti della polizia scientifica e della cooperazione italiana si è recata in Gambia;
   la visita sarebbe avvenuta nel quadro del cosiddetto «Migration Compact» e l'incontro avuto con il Ministro degli interni gambiano, Ousman Sonko, pare avesse l'obiettivo di trattare con la dittatura di Yahya Jammeh per facilitare l'espulsione dei migranti gambiani presenti in Italia e per bloccare ulteriori arrivi;
   non è la prima volta che l'Italia prepara e poi firma accordi con il Gambia; altri memorandum erano stati firmati nel 2011 e 2013;
   nell'ambito della cooperazione con la dittatura gambiana per il contrasto all'immigrazione, l'Italia ha promesso di inviare 50 veicoli per il controllo delle frontiere con il Senegal da cui i richiedenti asilo transitano per raggiungere il Mali, l'Algeria, la Libia e l'Italia. Come incentivo affinché il Gambia accetti i connazionali espulsi dal nostro Paese e nell'ottica di rendere efficaci i controlli alle frontiere, l'Italia ha promesso anche 250 computer, 250 scanner, 250 stampanti;
   questa visita appare ancora più grave se si pensa che l'Italia ha riconosciuto, nel 2015: 2546 protezioni umanitarie, 194 sussidiare e 250 status di rifugiati ai cittadini gambiani;
   se l'accordo diventasse operativo, persone che potrebbero ottenere lo status di rifugiato o una qualche forma di protezione, verrebbero rimandate indietro o bloccate prima di partire, lasciando nelle mani di un regime antidemocratico la sorte di chi fugge proprio da quel regime;
   i gambiani sono la seconda nazionalità tra quelle registrate sulle nostre coste, con poco più di 8500 domande d'asilo presentate nel 2015. Nonostante in Gambia ci sia un regime dittatoriale, un'economia asfittica e una repressione sistematica di attivisti e giornalisti, l'Italia punta a rafforzare la polizia gambiana, perché controlli meglio le sue frontiere, impedendo a chi cerca di fuggire di uscire dal Paese;
   negli ultimi mesi si è registrato un aumento delle notifiche di respingimenti differiti a cittadini d'Africa subsahariana arrivati nei porti italiani;
   tale aumento è stato rilevato grazie all'attività delle numerose associazioni italiane presenti sul territorio in attività di assistenza giuridica e sociale ai migranti sbarcati sul territorio italiano e nell'ambito del sistema hotspot, le quali, riunite nel tavolo nazionale asilo avevano già espresso – in una lettera al Ministro del interno dello scorso dicembre – grande preoccupazione sull'applicazione nei centri sbarco e nei punti di accoglienza di prassi contrarie alla normativa interna e internazionale;
   tali preoccupazioni erano state confermate da un reportage della tv belga RTBF, in cui si sarebbe evidenziata la diffusione della pratica di respingimenti differiti sulla sola base discriminante della nazionalità;
   il Consiglio italiano per rifugiati, in data 3 dicembre 2015, ha denunciato le cattive prassi introdotte in Italia in concomitanza con l'apertura del primo hotspot a Lampedusa, in particolare in ordine alla notifica di provvedimenti di respingimento differito e la non ammissione alle procedure di asilo di alcune specifiche nazionalità (specificamente persone provenienti dal Gambia, Senegal e Mali);
   un comunicato dall'associazione ARCI denunciava che un numero importante di persone a cui è stato notificato un respingimento in differita sono di nazionalità gambiana;
   nella road map italiana sull'immigrazione, a pagina 12 si evince che un accordo in tal senso sarebbe stato firmato. Nel documento in particolare si legge: «In questo contesto, un accordo tecnico con il Gambia è stato sottoscritto il 6 giugno 2015 e, al contempo, grazie al supporto da parte della rete diplomatica italiana all'estero, il Dipartimento di Pubblica Sicurezza sono stati stabiliti proficui contatti con le autorità competenti dei seguenti Paesi asiatici e africani, da cui originano consistenti flussi di immigrazione irregolare diretti verso l'Italia: Costa d'Avorio, Ghana, Senegal, Bangladesh e Pakistan»;
   l'11 novembre 2015 il quotidiano spagnolo El País pubblicava un reportage sulle gravi condizioni che spingono i gambiani a lasciare il Paese, i quali meriterebbero protezione in base alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati;
   nel rapporto 2014-2015 di Amnesty international si ricorda che in Gambia il Presidente Yahya Jammeh ha festeggiato il suo 20o anno al potere nel 2014. Due decenni caratterizzati da una forte intolleranza nei confronti del dissenso, in cui giornalisti, oppositori politici e difensori dei diritti umani hanno continuato a essere vittime di intimidazioni e tortura. Il 2014 è terminato con un tentativo di colpo di Stato nella notte del 30 dicembre, che ha portato a decine di arresti e a un duro giro di vite sugli organi di stampa;
   il 22 luglio 2014 in molti Paesi del mondo organizzazioni non governative come Amnesty international, Artide 19 Afrique de l'Ouest, Rencontre africaine pour la défense des droits de l'homme e la comunità gambiana in esilio hanno organizzato proteste e manifestazioni per ricordare il colpo di Stato che ha portato al potere il presidente Yahya Jammeh e per sensibilizzare l'opinione pubblica sulla terribile situazione dei diritti umani in Gambia, dove la gente teme di subire un arresto arbitrario e dove la tortura e la scomparsa degli oppositori sono una pratica ricorrente;
   il Governo del Gambia, nel novembre 2014, ha vietato ai 2 ispettori dell'ONU, Christof Heins (sudafricano, relatore speciale sulle esecuzioni extra-giudiziali, sommarie o arbitrarie) e Juan Mandes (statunitense, relatore speciale sulla tortura), l'accesso al braccio della morte nelle galere di Banjul, la capitale del Gambia. Heins e Mandez volevano entrare nell'ex colonia britannica per indagare su torture ed esecuzioni di attivisti, giornalisti e oppositori politici, uccisioni extragiuridiziarie. I due sono rimasti nel Paese dal 3 al 7 novembre 2014 e hanno raccolto molte informazioni in pro sito: la pena di morte è stata reintrodotta nel 2012 e nell'immediato sono state uccise 9 persone;
   indipendentemente dagli accordi internazionali coi Paesi di provenienza, andrebbero garantite alle persone, al di là delle modalità di ingresso e di soggiorno, i diritti fondamentali come ad esempio, il diritto ad una difesa effettiva, diritto che, in base a quanto esposto in premessa, appare gravemente compresso;
   altrettanto può dirsi per il divieto di non refoulement sancito all'articolo 33 della Convenzione di Ginevra, che esclude la possibilità di respingimenti collettivi che siano in qualsiasi modo collegati, esclusivamente, alla nazionalità. A questo riguardo, la dottrina più attenta ha sollevato dei seri dubbi di costituzionalità in ordine al respingimento differito per come previsto dal Testo unico immigrazione e la commissione De Mistura, già nel 2007, ne chiedeva una revisione profonda –:
   se il Ministro interrogato non ritenga di chiarire il contenuto degli accordi Italia-Gambia stipulati dal 2011 ad oggi e richiamati in premessa, con particolare riguardo agli aspetti connessi ad eventuali accordi di riammissione o comunque finalizzati al contenimento dei flussi migratori. (5-08847)


   PORTA e QUARTAPELLE PROCOPIO. — Al Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale. — Per sapere – premesso che:
   martedì 7 giugno 2016 è stato assassinato a Caracas il signor Mauro Monciatti, funzionario del consolato italiano, dopo che casi simili a danno di connazionali si erano già verificati nel contesto di grave crisi economica e sociale che da tempo travaglia il Venezuela;
   i problemi di sicurezza dei connazionali, drammatici e prioritari, si affiancano al grave disagio sociale indotto dall'elevato e incontrollabile tasso di inflazione e dalla penuria di generi di prima necessità, a partire dai medicinali; un disagio che ormai si innesta in un processo di regressione sociale che coinvolge ampi strati della nostra stessa comunità;
   un aspetto quanto mai significativo di tale stato di cose è la revoca da parte dell'INPS, a causa dell'elevato tasso di inflazione e della crescente sopravvalutazione del tasso di cambio reale del bolivar, di tutte le prestazioni assistenziali (integrazione al minimo, maggiorazioni sociali, assegni familiari) erogate ai pensionati ivi residenti, sulle quali un gran numero di connazionali facevano affidamento;
   per tale ragione, la comunità italiana in Venezuela chiede da tempo allo Stato italiano, anche mediante una recente petizione sottoscritta da migliaia di pensionati, di considerare come prioritaria l'adozione di un sistema di cambio per le pensioni pagate in Venezuela che non penalizzi i pensionati ivi residenti e che tenga conto del reale potere d'acquisto del bolivar;
   sul piano strettamente emergenziale, si pone, inoltre, la questione della carenza di medicinali, essenziali soprattutto per gli anziani, che richiede un intervento immediato di fornitura di materiale sanitario da distribuire per i casi di maggiore urgenza e necessità –:
   quali iniziative concrete di sostegno e solidarietà il Ministro interrogato intenda assumere, in concerto con gli altri Ministri competenti, con carattere di assoluta urgenza, per tutelare la comunità italiana in Venezuela in una fase di tanto gravi difficoltà umane e sociali, in particolare sotto i profili della sicurezza, dell'emergenza sanitaria e del ripristino delle prestazioni socio-previdenziali. (5-08848)

Interrogazione a risposta in Commissione:


   SANGA. — Al Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale. — Per sapere – premesso che:
   da notizie a mezzo stampa, si apprende che diciannove ragazze curde sarebbero state bruciate vive in pubblico dai jihadisti del Daesh a Mosul, nel nord dell'Iraq; le ragazze sarebbero state bruciate all'interno di gabbie di ferro davanti a centinaia di persone, perché si erano rifiutate di diventare schiave sessuali dei miliziani;
   la notizia è stata riportata dall'emittente iraniana Press tv, citando la testimonianza di un attivista locale all'agenzia di stampa curda Ara News, ma non può essere, attualmente, confermata da altre fonti, poiché non ci sono osservatori indipendenti in questa zona del nord dell'Iraq controllata dal Daesh;
   stando al racconto di un testimone oculare coperto dall'anonimato citato da Press tv, nessuno ha potuto fare niente per salvarle;
   Mosul è la seconda città del Paese, ed è attualmente la roccaforte dei jihadisti in Iraq; lo Stato Islamico ha lanciato un'offensiva proprio nelle zone curde, sia ad Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, che a est e a nord di Mosul, contro i peshmerga curdi dispiegati intorno alla stessa Mosul;
   proprio a Mosul sono presenti team avanzati italiani per fare ricognizione e a breve una task force italiana inizierà a dispiegarsi a protezione dei lavori di messa in sicurezza della diga di Mosul, con il dispiego progressivo di un contingente complessivo di 450 soldati italiani, che si andranno a sommare agli 800 militari italiani già dislocati tra Bagdad, Erbil e Kuwait City e impegnati nell'addestramento dei peshmerga curdi e poliziotti iracheni e nelle ricognizioni aeree;
   è in atto una sistematica violazione dei diritti umani da parte dello Stato islamico prevalentemente nelle regioni della provincia siriana di Raqqa e in quella irachena di Mosul, dove avrebbe perpetuato crimini di ogni genere sulla base di un «codice di condotta» a danno di innocenti civili e minoranze religiose –:
   quali siano le informazioni a disposizione del Governo relativamente ai fatti richiamati in premessa;
   qualora i fatti risultino confermati, quali iniziative a livello europeo ed internazionale possano ulteriormente essere intraprese per assicurare la protezione e la tutela delle popolazioni civili, in particolare delle donne, nelle aree interessate dalla presenza di Daesh. (5-08834)

AMBIENTE E TUTELA DEL TERRITORIO E DEL MARE

Interrogazioni a risposta scritta:


   DE ROSA, BUSTO, DAGA, MANNINO, MICILLO, TERZONI e VIGNAROLI. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   l'utilizzazione a scopo idroelettrico delle acque del bacino del fiume Spol di Livigno (Sondrio) ha natura internazionale ed è regolata di comune accordo fra la Repubblica italiana e la Confederazione elvetica con la convenzione di Berna, datata 27 maggio 1957, ratificata in Italia dalla legge 26 febbraio 1958 n. 215;
   per effetto della convenzione internazionale e della legge di ratifica, veniva concesso all’ex «azienda municipalizzata di Milano» (ora A2A s.p.a.) di derivare ad usi idroelettrici 90 milioni di metri cubi di acqua medi annui;
   il Ministero dei lavori pubblici regolava le concessioni idroelettriche, esercite ancor oggi da A2A s.p.a., con disciplinare di concessione nr. 4533 del 12 gennaio 1962;
   nonostante il disciplinare di concessione richiami la piena ed esatta osservanza di tutte le norme del testo unico delle leggi sulle acque ed impianti elettrici, approvato con R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775, nonché di tutte le prescrizioni legislative e regolamentari concernenti il buon regime delle acque pubbliche, l'agricoltura, la pescicoltura, l'industria, l'igiene e la sicurezza pubblica, a valle delle opere di presa, a quanto risulta agli interroganti, non viene rilasciata la componente obbligatoria e tassativa di deflusso minimo vitale (DMV);
   per effetto del mancato rilascio del deflusso minimo vitale è tutt'oggi in atto un vero e proprio disastro ambientale, palese ed evidente per completo prosciugamento dei corsi d'acqua assentiti a valle delle opere di presa idroelettriche;
   l'aver sottratto il minimo deflusso vitale dai torrenti ha determinato l'effetto di naturale abbassamento della falda acquifera di Livigno, non più perfettamente funzionale ai preminenti usi dell'acqua per uso civico o agricolo per segnalate difficoltà di attingimento dai pozzi;
   in ordine temporale, la legge 183 del 1989, la direttiva 2000/60/CE ed il decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, indicano gli adempimenti da attuarsi per assicurare il rilascio del deflusso minimo vitale anche in corsi d'acqua con natura internazionale;
   il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio — direzione per la qualità della vita — gestione integrata risorse idriche — divisione IV — già in data 26 luglio 2005, con f.n. 15169/QdV/DI(IV), si riservava di «impartire le opportune disposizioni per il rispetto dell'obbligo di rilascio del deflusso minimo vitale, riferito proprio alle concessioni di derivazione idroelettrica assentite, stabilito in modo tassativo dall'articolo 12, co. 9, del D.Lgs 16 marzo 1999 nr. 79 (oltre che, in via generale, dalle disposizioni recate dalla L. 36/1994 e dal D.Lgs 152/2006)»;
   a distanza di ben 11 anni dal sopra citato intervento ministeriale, che definisce il minimo deflusso vitale come «obbligatorio» e «tassativo», il disastro ambientale risulta evidentemente immutato;
   lo stato di prosciugamento dei corsi d'acqua non permette di esprimere appieno le proprie potenzialità di attrazione turistica a Livigno (Sondrio);
   numerose associazioni ambientaliste ed il comune monitorano continuamente lo stato dei corsi d'acqua e richiedono il ripristino dello stato naturale dei luoghi –:
   se il Ministro interrogato sia al corrente dei fatti indicati in premessa e se intenda assumere con urgenza le iniziative di competenza affinché venga ripristinato lo stato di diritto mediante il rilascio immediato della componente di deflusso minimo vitale (DMV) nei tratti di alveo prosciugati a valle delle derivazioni idroelettriche esercite da A2A s.p.a.;
   se intenda verificare quali provvedimenti siano stati adottati a seguito della comunicazione del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio — direzione per la qualità della vita — gestione integrata risorse idriche — divisione IV — già in data 26 luglio 2005, con f.n. 15169/QdV/DI(IV);
   se intenda dar corso alla diffida prevista dall'articolo 65 del decreto legislativo 152 del 2006, anche nell'ottica di prevenire all'approvazione di un piano di bacino sulla parte italiana del fiume Spol, adottando sin da subito, con ordinanza cautelare, le misure di salvaguardia utili ad assicurare il rilascio del deflusso minimo vitale in alveo, in assenza del quale, il territorio risulta essere gravemente danneggiato. (4-13412)


   ZOLEZZI, TERZONI, BUSTO, DE ROSA, DAGA, VIGNAROLI, MICILLO e MANNINO. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   nel giugno 2001, con lettera indirizzata al sindaco pro tempore di Grosseto, Alessandro Antichi e all'allora direttore dei servizi ambientali Arturo Bernardini, l'ASL 9 Grosseto riteneva «necessario dare avvio quanto prima, e senza ulteriore indugio, alle operazioni di bonifica dell'intera area della discarica delle Strillaie, nonché alla contestuale verifica e censimento delle attività produttive, in particolare aziende agricole e zootecniche, presenti nella zona, anche al fine di stabilire un'area di salvaguardia circostante la discarica nella quale siano regolamentate tali attività. Ciò appare rilevante al fine di valutare il rischio sanitario determinato dall'uso irriguo di tali acque emunte anche a distanza dal sito in questione che potrebbero comunque risentire della contaminazione. Infatti, in questa ipotesi, gli agenti inquinanti potrebbero contaminare le colture foraggere, quelle ortive o altre colture limitrofe ed avere una ricaduta sul bestiame e sull'uomo attraverso la catena alimentare.» Dopo aver accennato al pericolo di contaminazione delle acque destinate all'abbeveramento degli animali, la lettera prosegue evidenziando come «la contiguità della discarica con il Canale S. Rocco rappresenti un rischio di contaminazione dello stesso, per mezzo dell'azione di dilavamento delle acque»;
   l'articolo 252, comma 9, del decreto legislativo n. 152 del 2006, come originariamente formulato, istituiva il sito di interesse nazionale, ai sensi della normativa vigente, 1'area interessata dalla bonifica della ex discarica delle Strillaie (Grosseto). Successivamente il decreto ministeriale dell'11 gennaio 2013 ha riassegnato le competenze per i siti di bonifica di interesse nazionale, delegando il sito in oggetto alla regione Toscana;
   con decreto ministeriale dell'11 agosto 2006, il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare ha perimetrato le aree da sottoporre a bonifica: l'area ex SIN in oggetto comprende la discarica esaurita delle Strillaie, la quale sorge sulle rive del fiume San Rocco, a 3,5 km dalla foce, nelle immediate vicinanze del litorale grossetano e dei centri turistici di Marina di Grosseto, Castiglione della Pescaia e Principina a Mare. Oltre alla discarica è presente nelle immediate vicinanze un impianto per la produzione di Combustibile da Rifiuti;
   con il decreto 28 novembre 2006, n. 308, avente a oggetto il regolamento recante integrazioni al decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare 18 settembre 2001, n. 468, concernente il programma nazionale di bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare ha stanziato la somma di 1 milione di euro per il progetto di messa in sicurezza della falda acquifera sottostante la ex discarica;
   detto progetto comprendeva la realizzazione di una «barriera idraulica», costituita da pozzi per il recupero e il trattamento delle acque di falda potenzialmente contaminate da percolato, senonché una volta completati i pozzi sono emerse una serie di criticità, fra cui l'intrusione salina e l'impossibilità di calibrare l'emungimento di falda, come affermato nella lettera di convocazione della conferenza di servizi sulla messa in sicurezza della falda acquifera sottostante la discarica;
   la conferenza di servizi decisoria del 25 giugno 2008 relativa al SIN in oggetto, delibera di «sollecitare al Comune di Grosseto l'attivazione, ad horas, delle misure di messa in sicurezza d'emergenza della falda e delle acque superficiali risultate contaminate»;
   l'associazione ambientale le Strillaie ha dato incarico al dottor Andrea Borgia (geologo della European Development and Research Agency) di realizzare un modello idrogeologico della discarica delle Strillaie. I risultati dello studio, di assoluto rilievo, sono stati raccolti in una dettagliata relazione, datata 1o maggio 2009, (già depositata in procura), in cui si afferma che quando entrerà in funzione l'impianto di produzione di combustibile derivato da rifiuti (CDR) di nuova costruzione, questo comporterà l'inquinamento della falda più profonda con ripercussioni su tutta la pianura di Grosseto. Che la falda sia inquinata anche nell'area CDR è stato confermato dai dati ARPAT (2002 – 2006) dal dottor D'Oriano (superamento delle CSC – concentrazione soglia di contaminazione, articolo 242 decreto legislativo n. 152 del 2006), come combustibile da rifiuti, sempre a detta del dottor Borgia, richiedendo la realizzazione di un ulteriore pozzo di emungimento, «potrebbe comportare la vanificazione degli effetti del già carente sistema di messa in sicurezza di emergenza, generando una situazione di effettivo rischio per le falde profonde»;
   dallo studio del Dottor Borgia emerge in primis che la presenza della discarica permette di incrementare significativamente il locale livello di falda, generando una percolazione significativa verso il basso, che interessa anche gli strati profondi dell'acquifero; che senza pozzi di emungimento, i percolati della discarica avrebbero inquinato unicamente lo strato più superficiale della falda, invece a causa degli emungimenti presenti gli inquinanti si propagano anche verso gli strati profondi dell'acquifero e che l'intervento di messa in sicurezza di emergenza non è sufficiente a contenere la totalità del flusso degli inquinanti della discarica verso l'acquifero. Inoltre, il sistema con cui l'intervento è progettato implica che i percolati della discarica possono in parte essere diluiti artificialmente con le acque di falda, provocando un inutile, ulteriore, depauperamento della risorsa idrica;
   i fanghi di dragaggio sono rifiuti, classificati come CER 170505, ove contenenti sostanze pericolose, e CER 170506 negli altri casi e tuttavia l'articolo 12 del decreto legislativo n. 205 del 2010 esclude dall'ambito di applicazione della normativa sui rifiuti i sedimenti spostati all'interno di acque superficiali, purché non pericolosi;
   il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare ha pubblicato nel 2006 un manuale guida per la movimentazione dei sedimenti marini, nel quale si stabiliscono fra l'altro le modalità di caratterizzazione dei materiali, i parametri fisico – chimici e microbiologici da analizzare. Tuttavia dette procedure sono previste una tantum in via preventiva e non è previsto il monitoraggio in continuo durante le operazioni di movimentazione dei fondali;
   in diversi casi l'ARPAT ha rilevato un inquinamento del canale San Rocco dovuto a vari fattori, tra cui il non rispetto delle specifiche per quanto concerne gli scarichi da parte di alcune aziende presenti lungo il corso del canale e dei suoi affluenti;
   con lettera del 4 marzo 2010, prot. n. 417, a firma dell'allora Presidente di ATO Toscana Sud Paolo Nannini, si richiedeva al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare lo spostamento di 3 pozzi di emungimento delle acque sotterranee contaminate;
   da un articolo uscito a firma di Francesca Ferri su « Il Tirreno», edizione di Grosseto, del 20 maggio 2016 si apprende che la «barriera idraulica» sarebbe stata disattivata nel 2014 a causa della Sua palese inefficacia;
   a causa di quanto in premessa esiste il concreto rischio che le acque e i sedimenti del canale San Rocco siano contaminati da metalli pesanti ed altre sostanze nocive provenienti dalla ex discarica e più in generale da monte. A ciò si aggiunga che periodicamente viene azionata un'idrovora presso la foce del San Rocco, con lo scopo di liberare la foce dai sedimenti accumulati e consentire il normale deflusso delle acque, tuttavia le sabbie e i sedimenti aspirati vengono scaricati in mare tal quali, senza alcun tipo di trattamento –:
   di quali informazioni disponga il Ministro interrogato circa l'attuale stato della contaminazione della falda acquifera sottostante la ex discarica e circa l'efficacia del progetto di messa in sicurezza ambientale dell'ex SIN delle Strillaie;
   se ritenga opportuno inoltre una segnalazione alla Corte dei Conti, stante il dispendio di fondi statali per un'opera che è poi risultata inutile;
   se ritenga opportuno assumere iniziative normative al fine di obbligare alla tempestiva pubblicazione dei risultati delle analisi preventive delle sabbie e dei fondali oggetto di dragaggio, anche per mettere a disposizione della cittadinanza, nel caso di specie, le risultanze del procedimento di messa in sicurezza in modo da escludere le possibilità di contaminazione del fiume San Rocco o stabilire finalmente un nesso di causa – effetto fra la presenza di discariche e impianti di produzione di combustibile da rifiuti e inquinamento dei corsi d'acqua attigui;
   se ritenga opportuno un'iniziativa normativa in ossequio al principio di precauzione, al fine di obbligare al trattamento dei materiali provenienti dal dragaggio dei fondali prima della loro reimmissione in mare. (4-13420)

BENI E ATTIVITÀ CULTURALI E TURISMO

Interrogazione a risposta orale:


   DISTASO, ALTIERI, CIRACÌ e FUCCI. — Al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo. — Per sapere – premesso che:
   da numerosi articoli di stampa (recentemente sul quotidiano «la Repubblica», «la Repubblica – Bari», «Corriere del mezzogiorno – Bari»), si apprende della esistenza di n. 181 ricorsi nei confronti della Fondazione lirica Teatro Petruzzelli di Bari, da parte di dipendenti assunti con contratto a tempo determinato, per i quali vi sono state già n. 21 sentenze a favore dei lavoratori;
   analoga sorte dovrebbe certamente riguardare i restanti n. 160 ricorsi pendenti;
   laddove ciò si verificasse, ovvero la condanna della Fondazione a riassumere i lavoratori ed a pagare i relativi danni da quantificarsi, l'Ente lirico subirebbe un danno stimato in circa sei milioni di euro, con conseguente rischio di liquidazione;
   alla pagina V del quotidiano « la Repubblica», cronaca di Bari, in data 1o giugno 2016, l'attuale sovrintendente al Teatro dell'Opera di Roma, Carlo Fuortes, già commissario della Fondazione Teatro Petruzzelli (anno 2012), dichiara espressamente: «l'articolo 3, comma 8 bis, della legge n. 100 del 2010, prevedeva espressamente una pianta organica concordata (con il Ministero, ndr) e l'autorizzazione alle assunzioni (a tempo determinato o indeterminato), a patto che queste avvenissero attraverso procedure di evidenza pubblica»; ed ancora: «per questo motivo il Ministero mi autorizzò a farle mentre prima erano state sempre rifiutate»;
   nello stesso articolo, lo stesso commissario dichiara espressamente: «Quando sono arrivato (al Teatro Petruzzelli) ho trovato una situazione non conforme alle regole o, per dire meglio, ho trovato una situazione determinata da scelte arbitrarie, dunque illegali»;
   sempre su Repubblica – Bari, in data 3 giugno 2016 il dottor Salvo Nastasi, già capo di gabinetto e successivamente direttore generale e del ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo ricorda come sin dal 2010 vigeva l'obbligo, per le assunzioni di personale delle fondazioni liriche, delle procedure di evidenza pubblica, come stabilite dal contratto nazionale di lavoro;
   in particolare, a partire dal 2010 (con la legge n. 100 del 2010) venne consentita la possibilità di deroga al blocco per le assunzioni a tempo indeterminato, a condizione che venissero espletate procedure ad evidenza pubblica;
   pertanto, lo stesso dottor Nastasi afferma che la Fondazione Teatro Petruzzelli avrebbe dovuto procedere attraverso l'espletamento delle procedure concorsuali, anziché ricorrere, com’è invece successo, alla stipula di contratti a tempo determinato «(...) Che non dovevano essere autorizzati, poi rinnovati più e più volte (...) » ; ed ancora afferma «(...) Una scelta di Michele Emiliano e del Sovrintendente dell'epoca che ovviamente ha illuso i lavoratori e creato forti aspettative, oltre ad aver indebolito la Fondazione nelle difesa (in seguito) delle sue posizioni»;
   sempre nel citato articolo, il dottor Nastasi dichiara altresì che «... La morsa del sindacato (Cgil, ndr) sul Petruzzelli è stata fortissima; è la cronaca e se ne parla da anni. Le pressioni su di loro (Regione e Comune) furono conseguentemente enormi; si volevano assunzioni dirette senza limiti o controlli ...» –:
   se la ricostruzione dei fatti, riguardante le assunzioni effettuate (a partire dall'anno 2008), dalla Fondazione Teatro Petruzzelli di Bari, come si evince anche dalle dichiarazioni citate del dottor Fuortes e del dottor Nastasi, corrisponda al vero, secondo la documentazione in possesso del Ministro;
   quali iniziative di competenza il Ministro interrogato intenda promuovere alla luce dei contenziosi pendenti e delle sentenze già emesse nei confronti della fondazione Teatro Petruzzelli di Bari;
   se il Ministro ritenga di intervenire finanziariamente a sostegno della Fondazione, ai fini del rilancio delle attività della stessa e non già per consentire una sanatoria di attività e procedure ormai acclarate come illegittime, tenuto conto che una eventuale e non auspicabile mancanza di intervento ministeriale, a fronte di atti e provvedimenti ritenuti illegittimi (che rischiano di produrre concreti danni finanziari, e probabilmente erariali, alla Fondazione Petruzzelli), rischierebbe di minare la credibilità stessa della istituzione e di coprire, in tal modo, quelle che appaiono agli interroganti responsabilità, personali ed amministrative, del presidente e del sovrintendente della Fondazione, in particolare negli anni dal 2008 al 2011. (3-02306)

Interrogazione a risposta scritta:


   PRODANI e MUCCI. — Al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo. — Per sapere – premesso che:
   il Porto Vecchio di Trieste (Punto Franco Nord), realizzato nell'ultimo trentennio dell'800 su una superficie di 67 ettari prospicienti il centro città e comprendente cinque moli, banchine di carico e scarico e raccordi ferroviari, è riconosciuto quale uno tra gli ambiti di archeologia industriale marittima più rilevanti del Mediterraneo: i magazzini, posti al suo interno, che contano una cubatura di oltre un milione di metri, appartengono alla classificazione disciplinata dalle regole costruttive specifiche dei lagerhauser dei porti del Nord Europa;
   negli ultimi decenni, il Porto Vecchio ha subito, da un punto di vista produttivo, un parziale e progressivo abbandono. Sono stati recuperati, negli ultimi dieci anni, i varchi doganali, il magazzino 1 sul molo IV e, quali esempi di archeologia industriale-portuale, il magazzino 26, l'edificio della centrale idrodinamica e l'edificio della sottostazione elettrica, ancora oggi sedi di macchine generatrici di energia conservate nella loro interezza nell'edificio originario. Questi due ultimi edifici sono stati restaurati e riutilizzati (come Polo museale del Porto dal 2012), su iniziativa di Italia Nostra e grazie a un protocollo di intesa tra Autorità Portuale, regione Friuli Venezia Giulia e Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, con utilizzo di fondi pubblici ed europei;
   la legge 23 dicembre 2014, n. 190, (legge di stabilità 2015) ha stabilito la sdemanializzazione di gran parte dei 60 ettari del Porto Vecchio, sancendo la fine della pubblica utilità dell'area nonché, in capo al commissario di Governo del Friuli Venezia Giulia, il trasferimento del regime di Punto Franco ad altre aree da individuare. In particolare, la legge stabilisce anche il passaggio del Porto Vecchio al patrimonio disponibile del Comune di Trieste, che dovrà occuparsi della vendita dell'area e del trasferimento «dei relativi introiti all'Autorità Portuale di Trieste per gli interventi di infrastrutturazione del Porto Nuovo e delle nuove aree destinate al regime internazionale di Punto Franco»;
   l'associazione Italia Nostra da molti anni è impegnata fattivamente per il recupero e la tutela dell'area di Porto Vecchio. Una missiva del 24 dicembre 2013 (Prot 009951) indirizzata da Giangiacomo Martines, Direttore Regionale per i beni culturali e paesaggistici per il Friuli Venezia Giulia, all'allora Ministro Bray, nel rimarcare il pregio architettonico e monumentale di Porto Vecchio ha sottolineato la necessità, indicata da Italia Nostra, di intervenire con urgenza per la messa in sicurezza ed il restauro leggero degli edifici del Porto Vecchio, anche al fine del suo riutilizzo in termini economici, turistici e culturali. La missiva indica che il citato restauro proposto attraverso l'elaborazione di un Masterplan, meritasse la massima attenzione da parte del Ministero, ampiamente condiviso con l'Autorità Portuale, la Provincia e l'Università degli Studi ed attraverso dei finanziamenti europei, opportunamente individuati dall'associazione;
   dal 2013 ad oggi l'interlocuzione tra Italia Nostra e il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo è stata caratterizzata, da parte di quest'ultimo, da una valutazione positiva sia nei riguardi del Masterplan inerente il Porto Vecchio, che nell'organizzazione di un workshop internazionale finalizzato a raccogliere e integrare gli aspetti di conoscenza e di progettualità prodotti nel tempo su Porto Vecchio da studiosi e da associazioni interessate alla tutela dei patrimoni storici e culturali;
   il 20 febbraio 2016 Il Piccolo riporta dell'invio al Governo, da parte del Sindaco di Trieste, di due documenti tecnici accompagnati dalla bozza di un protocollo d'intesa per la richiesta di investimenti statali, pari a 18 milioni di euro, corredati da un protocollo d'intesa Governo-Regione-Comune abbozzato insieme alla Presidente Debora Serracchiani, per attivare gli investimenti sollecitati;
   il 1o maggio 2016 il comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe), ha approvato il Piano Cultura e Turismo proposto dal Ministro dei beni e attività culturali e del turismo. Da una nota stampa del 2 maggio il Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo dichiara che il piano stanzia un miliardo di euro del Fondo Sviluppo e Coesione 2014-2020 per realizzare 33 interventi di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e di potenziamento del turismo culturale; tra i vari interventi da attuare nelle regioni italiane, il piano prevede «50 milioni per il restauro e la valorizzazione del Porto Vecchio di Trieste, destinato a divenire un grande attrattore culturale transfrontaliero»;
   il 2 maggio, nel corso della presentazione alla stampa del piano #UnMiliardoperlacultura, il Ministro Franceschini ha dichiarato pubblicamente che «Portovecchio è una delle sfide più importanti che il Paese dovrà affrontare nei prossimi anni. È un posto incredibile, era il porto degli Asburgo, e può diventare una delle operazioni più importanti in Europa di riqualificazione di un'intera città. Questi 50 milioni sono destinati ad interventi importanti che apriranno anche il tema della destinazione di quest'area, con una discussione a livello nazionale»;
   in data 3 maggio 2016, un articolo del quotidiano Il Piccolo riporta che «Il documento presentato di recente agli uffici della Presidenza del Consiglio, dopo che il 10 febbraio un primo dossier era già stato consegnato a Lotti, stima per i primi interventi infrastrutturali funzionali a quelli successivi (comprensivi però anche di specifiche ristrutturazioni) un fabbisogno complessivo di 53.700.000 euro. (...)»;
   l'articolo, inoltre, elenca una serie di interventi, prevalentemente indirizzati ad opere di infrastrutturazione ed alla creazione del nuovo museo del mare ma non specifica, né riporta, la documentazione ufficiale che attesti la programmazione e le tempistiche dei lavori; nessuna risorsa sarebbe destinata alle urgenti opere di messa in sicurezza e di restauro leggero di cui le strutture del Porto Vecchio necessitano;
   l'interrogante ha depositato in data 12 maggio 2016, l'interrogazione 4-13166, ancora senza risposta, nella quale ha chiesto al Ministro un piano dettagliato degli interventi, le priorità e le specifiche per ogni singola opera da realizzare;
   in data 12 maggio 2016, l'Associazione Italia Nostra ha inviato una lettera indirizzata al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, Dario Franceschini, al segretario generale Antonio Pasqua Recchia, al soprintendente belle arti e paesaggio Friuli Venezia Giulia Corrado Azzolini, al commissario straordinario dell'autorità portuale di Trieste - Zeno D'Agostino e al sindaco di Trieste Roberto Cosolini avente come oggetto le «proposte sull'utilizzo dei fondi del piano stralcio del fondo per lo sviluppo e la coesione approvato dal CIPE il 1o maggio 2016 destinati al Porto Vecchio». Nel testo, oltre a ribadire che una parte delle aree e degli immobili del Porto Vecchio è in corso il trasferimento al comune di Trieste, «non è noto a che punto siano tali attività catastali. Tuttavia è chiaro che il trasferimento del diritto di proprietà dello Stato al Comune non può far venire meno l'applicabilità delle norme generali in materia di beni culturali di proprietà pubblica, contenute nel codice civile (articolo 822-824) e nel codice dei beni culturali (articolo 53-59): in base a tali norme il Comune è tenuto a rispettare il regime di inalienabilità dei beni, per i quali sia stata accertata la sussistenza di un interesse culturale. Come dispone infatti l'articolo 53 del codice dei beni culturali, i beni appartenenti allo Stato, alle regioni e agli altri enti pubblici territoriali, che rientrino nelle tipologie indicate all'articolo 822 del codice civile (cioè gli immobili riconosciuti di interesse storico, archeologico e artistico a norma delle leggi in materia, le raccolte dei musei, delle pinacoteche degli archivi, delle biblioteche), costruiscono il demanio culturale, e non possono essere alienati, ne formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei limiti con le modalità previsti dal codice dei beni culturali, e cioè, in caso di immobili la cui esecuzione risalga a più di 70 anni, solo in caso di accertamento dell'insussistenza dell'interesse culturale, attraverso il procedimento di cui all'articolo 12 del codice predetto»;
   l'associazione ribadisce la necessità «di promuovere urgentemente un Workshop internazionale, che possa costituire un momento di confronto ad alto livello, per la messa a punto degli interventi immediatamente cantierabili necessari a conservare e valorizzare gli antichi magazzini asburgici del Porto Vecchio di Trieste, soggetti da tempo al vincolo culturale»;
   Italia Nostra nella comunicazione specifica, infine, come sia fondamentale, rispetto alle azioni programmate dal comune, la realizzazione di interventi di messa in sicurezza immediata degli immobili di interesse storico architettonico in condizioni di grave degrado. Per tali provvedimenti di messa in sicurezza, secondo la stima elaborata dall'associazione si ritiene che possano essere sufficienti circa 26 milioni di euro;
   in data 28 maggio 2016, il Piccolo di Trieste riporta la notizia della firma del protocollo per la valorizzazione del Porto Vecchio, tra il Presidente del Consiglio dei ministri Matteo Renzi, il sindaco di Trieste Roberto Cosolini, la presidente della regione Debora Serracchiani e il commissario del porto Zeno d'Agostino. Il patto «sblocca 50 milioni di investimenti per l'infrastrutturazione dell'antico scalo». L'articolo illustra come «le parti firmatarie s'impegnano in particolare a realizzare le opere per l'infrastrutturazione e l'inserimento dell'area del Porto vecchio nel tessuto cittadino e a elaborare il Piano strategico di valorizzazione predisponendo gli strumenti urbanistici necessari. Altro aspetto fondamentale dell'intesa è la costituzione entro trenta giorni di un Tavolo coordinato dalla Regione» –:
   se il ministro interrogato intenda chiarire l'utilizzo dei fondi del piano stralcio del Fondo per lo sviluppo e la coesione approvato dal Comitato interministeriale per la programmazione economica il 1o maggio 2016 destinati al Porto Vecchio di Trieste;
   se il Ministro interrogato ritenga che il «Workshop internazionale» di cui in premessa sia lo strumento più adatto a definire le linee guida per il recupero del porto Vecchio, alla luce del protocollo siglato a Trieste di cui in premessa e dell'annuncio di costituzione di un tavolo coordinato dalla regione Friuli Venezia Giulia;
   quali iniziative intenda adottare, alla luce dell'articolo 53 del codice dei beni culturali, posto che, come riportato in premessa, i beni che costituiscono demanio culturale non possono essere alienati;
   se il Ministro interrogato non ritenga necessario e urgente assumere iniziative di competenza per la messa in sicurezza dei magazzini di cui in premessa e per favorire, a tale scopo, l'utilizzo di fondi europei attraverso una programmazione nazionale ed europea;
   se non reputi che l'intervento di destinazione dei fondi individuati di cui in premessa debba prioritariamente riguardare la messa in sicurezza ed il recupero dei magazzini storici. (4-13414)

ECONOMIA E FINANZE

Interrogazioni a risposta in Commissione:


   D'UVA. — Al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   la Cassa Centrale di Risparmio Vittorio Emanuele per le province siciliane CCRVE, altresì nota come Sicilcassa, è stata una banca italiana con sede a Palermo;
   così come riportato dal quotidiano consultabile online «La Repubblica» in un articolo pubblicato in data 23 gennaio 2004, la Sicilcassa «nata nel 1861 con un capitale sociale di appena 42 mila e 500 lire, ha seguito e segnato la storia dell'Isola attraversando due guerre, catastrofi (dal colera di Palermo al terremoto di Messina), crisi economiche e politiche, espansioni edilizie, diventando punto di riferimento per operai, allevatori, imprenditori, famiglie e investendo esclusivamente in Sicilia»;
   lo stesso quotidiano, dopo aver riportato la fondamentale importanza della Cassa nel corso degli anni, ricordava come intorno agli anni 90’ «vengano fuori gli scandali, i prestiti “facili” ai cavalieri del lavoro e al conte Arturo Cassina di Palermo, e tassi sempre più alti per piccoli imprenditori e famiglie», sostenendo come «la Sicilcassa prestò molto denaro a personaggi come Graci ma è anche vero che su questi soldi c'erano garanzie patrimoniali e immobiliari»;
   tale crescente condizione di possibile illecita gestione veniva ribadita da un articolo pubblicato dallo stesso quotidiano in data 6 ottobre 1994, il quale evidenziava come la stessa si fosse «messa al servizio di potenti imprenditori, faceva business per favorire gruppi al di sotto di ogni sospetto, c'erano clienti specialissimi che solo grazie a certe operazioni potevano sanare debiti miliardari»;
   in data 5 settembre 1997, con nota del Ministero dell'economia e delle finanze, veniva reso noto che il Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio avesse esaminato, «sulla base di una relazione del Governatore della Banca d'Italia la gravissima situazione di crisi in cui continua a versare la Sicilcassa S.p.A., posta in amministrazione straordinaria con decreto ministeriale 6 marzo 1996», riscontrando una condizione finanziaria ormai irreversibile dell'ente: L'istituto di credito, di conseguenza, veniva sottoposto a liquidazione coatta amministrativa, ai sensi del testo unico in materia bancaria con decreto del Ministero del Tesoro del 5 settembre 1997, ed in pari data venivano nominati i commissari liquidatori e componenti comitato di sorveglianza;
   a 19 anni dal provvedimento di liquidazione coatta amministrativa, nonché dalla prima nomina dei commissari liquidatori e dei componenti del comitato di sorveglianza della Sicilcassa, il procedimento relativo risulta ancora pienamente in essere;
   in data 14 aprile 2013 il programma televisivo Report, in programmazione sui canali della Rai – Radiotelevisione Italiana, trasmetteva un servizio dedicato al fallimento dell'ente creditizio Sicilcassa. Così come riportato dal sito ufficiale del programma, «era il 1997 quando la Sicilcassa, la storica banca siciliana, ha fatto crack. Sembra una vecchia storia. Ma non è così. A distanza di sedici anni è ancora in corso il processo sul crack della banca e solo due mesi fa è arrivata la sentenza di condanna in primo grado per gli ex amministratori (peraltro a pene elevate), accusati di bancarotta fraudolenta. Ancora oggi è in piedi la struttura della liquidazione della Sicilcassa che, sotto la vigilanza della Banca d'Italia, ha il compito di provare a recuperare i crediti ereditati dal crack della banca»;
   secondo quanto riscontrabile nel servizio ancora oggi disponibile online, tra le cause del crack della Sicilcassa vi sarebbe l'elargizione di crediti a società ormai prossime al fallimento, con la concessione di crediti e fondi a soggetti non in condizione di provvedere alla futura restituzione delle somme ricevute;
   tra i casi emersi dall'inchiesta giornalistica emergerebbe il rapporto finanziario tra la Sicilcassa e la Restivo Gioielli, che secondo quanto riportato «aveva alla fine un'esposizione di oltre 13 milioni di euro verso la Sicilcassa, che però dal 1997 è in liquidazione. Banca d'Italia ha nominato, quindi, dei commissari liquidatori con il compito di recuperare il denaro dei debitori inadempienti», liquidatori incaricati da Banca d'Italia che, tuttavia, «fanno questa transazione con la Restivo Gioielli. Il debito complessivo era arrivato a 27 miliardi di vecchie lire, Restivo ne paga 3 e così estingue la sua posizione»;
   condizione simile vedeva protagonista la famiglia di noti costruttori romani Parnasi la quale, così come appreso dal servizio, nel 2002 disponeva una transazione per l'acquisto dei crediti e le azioni di tre società del gruppo Graci Finocchiaro, che alla data del crack avevano un'esposizione di 287 milioni di euro verso la Sicilcassa. I Parnasi ne mettono 129 e azzerano i debiti», evidenziando ancora una volta una notevole propensione alla transazione da parte dei soggetti liquidatori della Sicilcassa;
   «dal 1997 ad oggi, i liquidatori nominati da Bankitalia», è riportato sul sito internet del programma «hanno potuto recuperare dei complessivi 640 milioni di euro del gruppo Graci, circa 194 milioni. E le cose vanno anche peggio per gli altri grandi gruppi finanziati dalla ex Sicilcassa. Gruppo Ienna, prestanome dei boss Graviano, su 47 milioni e mezzo dovuti ne sono stati recuperati meno di 13»;
   nello stesso documento si conclude come «fra stipendi dei commissari, consulenze e spese legali, in 16 anni di liquidazione si sono spesi 80 milioni di euro. Sono riusciti a recuperare il 35 per cento dei crediti, ma se si arriva a un momento in cui le spese superano i benefici, qualche domanda bisognerà pur porsela. E qualche domanda avrebbe dovuto porsela a suo tempo anche Banca d'Italia»;
   così come riportato dal citato documento relativo alla trasmissione Rai «Report», «che la Sicilcassa fosse in malafede lo pensa anche la Cassazione, che nel 2010 ha ritenuto la banca consapevole di finanziare operazioni poco trasparenti», accettando così il rischio di favorire progetti di riciclaggio anche da parte della mafia;
   nel biennio 1988-89 la ditta Vitale Immobiliare s.p.a., società che sarà poi dichiarata fallita con sentenza emessa dal tribunale di Messina nel 1996, edificava alcuni complessi destinati a uso abitativo sia nel comune di Messina che nel comune di Rometta Marea (ME), alienandoli pur in presenza di iscrizioni ipotecarie derivanti da mutui stipulati con la Sicilcassa, ed erogati a seguito di onerose somme di denaro concesse dall'ente, il quale, come già evidenziato in premessa per casi analoghi, agevolava e favoriva tali operazioni finanziarie;
   tali modalità di azione sembrano emergere, tra l'altro, dalle carte processuali relative al procedimento penale per concorso in bancarotta cui sono stati sottoposti gli amministratori ed i funzionari della società fallita;
   la posizione dei proprietari nel caso di specie, alcuni dei quali addirittura inconsapevoli delle ipoteche gravanti sugli immobili, veniva descritta in occasione del citato procedimento penale instaurato nei confronti dell'amministratore della società, il quale tuttavia si concludeva con sentenza di non luogo a procedere per estinzione dei reati per morte del reo;
   essenziale a tali fini risulta essere la nota n. 1/99 di protocollo datata 7 gennaio 1999 del tribunale di Messina, terza sezione civile «ufficio fallimentare», laddove si presenta la relazione del curatore sui rapporti tra la società Vitale e la Sicilcassa S.p.A. così come depositata in data 25 novembre 1998 e successive integrazioni, il quale riporta chiaramente come la Società Vitale «non pagò le rate del preammortamento del mutuo stipulato con la Sicilcassa e per il quale vennero iscritte le ipoteche nelle abitazioni che nel frattempo erano state realizzate e promesse in vendita a terzi che già le abitavano», i quali risultavano «completamente ignari» delle operazioni messe in atto dalla ditta e dai mutui concessi dai funzionari della Sicilcassa secondo le modalità di cui in premessa;
   lo stesso curatore richiedeva l'autorizzazione a convenire in giudizio della Sicilcassa, al fine di «privare il credito della garanzia derivante dalla contestata ed illegittima operazione di credito fondiario»;
   la «gestione spregiudicata della società, caratterizzata da una serie di alienazioni strumentali», ovvero «una serie di operazioni ad alto rischio poste in essere al fine di sottrarre dolosamente disponibilità economiche», venivano altresì riportate dalla sentenza n. 2013/10815 del 2 luglio 2013, così come emessa dalla corte di appello di Reggio Calabria in occasione del procedimento penale instaurato contro altri soci ed amministratori della ditta Vitale, per bancarotta e truffa, che tuttavia si concludeva con sentenza di prescrizione;
   i crediti concessi nelle modalità sin qui richiamate hanno condotto lo stesso direttore della sede di Messina, Alfano Giovanni, a rispondere di concorso in bancarotta fraudolenta, essendo accusato di aver agevolato molteplici operazioni di comune accordo con l'imprenditore, tra cui l'accensione di un secondo mutuo pur in assenza delle idonee garanzie;
   tuttavia, anche il processo nei confronti del suddetto direttore si concludeva, al pari di quello nei confronti degli amministratori della società fallita, con sentenza di prescrizione;
   nonostante tali evidenze, dopo circa 20 anni dall'inizio della procedura di liquidazione dell'ente creditizio Sicilcassa e dall'apertura del relativo fallimento, gli attuali liquidatori, a quanto risulta agli interroganti, avrebbero richiesto agli acquirenti il pagamento di somme ingentissime, comprensive di oneri accessori e superiori alle stesse somme per le quali la Sicilcassa era stata ammessa in via privilegiata alla procedura fallimentare, non tenendo in debito conto le anzidette modalità con le quali l'istituto di credito aveva concesso prestiti e finanziamenti a degli imprenditori che, così come riportato dello stesso curatore fallimentare, erano avvenuti fraudolentemente, con il consenso della banca, e all'insaputa dei proprietari delle abitazioni;
   ad una richiesta di applicazione di un trattamento paritario inoltrata dai proprietari degli immobili, i liquidatori inviavano in data 25 giugno 2015 un documento di risposta, prot. N.1249, nel quale veniva sottolineata la generica «disponibilità a vagliare soluzioni conciliative, così come avvenute recentemente per casi analoghi»;
   a seguito di tale missiva tuttavia gli stessi liquidatori intendevano ricordare, ribadendo una posizione di sostanziale chiusura, che le diffide costituivano doverosa attività conservativa dei crediti vantati dalla liquidazione Sicilcassa, il cui valore degli immobili ipotecati potrebbe verosimilmente risultare, a oggi, finanche superiore all'importo dei loro crediti, in luogo di una procedura fallimentare ancora in corso e gli immobili passibili di revocatoria da parte del fallimento;
   ad avviso degli interroganti tali motivazioni appaiono certamente inique, dal momento che in occasione di transazioni di maggior rilievo economico gli organi preposti alla liquidazione, che seppur in diversa composizione risultavano comunque soggetti al controllo della Banca d'Italia e di altri organi ministeriali, hanno dimostrato una spiccata propensione alla transazione, intendendo ridurre considerevolmente i propri crediti in favore di imprenditori ai quali, in virtù consistenti riduzioni debitorie, è stato consentito in taluni casi addirittura la prosecuzione della propria attività, così come evidenziato dal citato servizio giornalistico;
   si aggiunga che se nel caso di specie le somme in questione fossero state richieste agli acquirenti in tempi ragionevoli rispetto alla data del fallimento della società così come avvenuta nell'anno 1996, l'ammontare richiesto dai soggetti liquidatori sarebbe stato certamente inferiore perché non gravato da ingenti interessi e, allo stesso tempo, gli acquirenti avrebbero potuto procedere al pagamento di quanto preteso in via graduale, agendo tempestivamente in giudizio anche nei confronti della stessa Sicilcassa, responsabile per i fatti sopra riferiti e direttamente connessi all'illecita concessione del credito e ad altri comportamenti caratterizzati da possibile connivenza con la società fallita;
   l'attuale gestione liquidatoria, protrattasi per quasi 20 anni, ed il sospetto ritardo nell'avanzare la richiesta di pagamento, ha inevitabilmente costretto i proprietari degli immobili a subire non solamente un trattamento iniqua ma, cosa ancor più grave, a sottostare al rischio di perdita delle proprie tutele giudiziali, condizione che condurrebbe i liquidatori della Sicilcassa, attualmente non limitati da aspetti di ordine sociale ravvisabili nella vicenda, ad utilizzare a proprio esclusivo tali sopraggiunte prescrizioni delle azioni di responsabilità, le quali avrebbero dovuto e potuto essere promosse tempestivamente nei confronti dell'Istituto;
   per tali motivi gli interroganti ritengono urgente verificare l'attuale condizione del procedimento di liquidazione della Sicilcassa, auspicando un idoneo intervento che possa tentare di ridurre le diseguaglianze che l'eccessivo allungamento dei termini ha inevitabilmente provocato, a danno di numerosi nuclei familiari direttamente o indirettamente coinvolti;
   il procedimento di liquidazione in esame ha condotto, tra l'altro, gli organi preposti al finanziamento ad ingenti spese, a fronte di un recupero del credito, a giudizio degli interroganti, certamente non proporzionale ed assolutamente incerto, oltreché non immediato –:
   di quali elementi disponga in merito alla vicenda di cui in premessa e se non ritenga di assumere iniziative normative utili ad impedire, in questo caso come in quelli analoghi, che le evidenti distorsioni causate dal notevole allungamento dei termini del procedimento possano continuare a produrre effetti iniqui e, per i motivi riportati in premessa, discriminatori nei confronti di soggetti più deboli quali i singoli cittadini truffati rispetto al trattamento riservato ad altri soggetti, tutelando in particolare gli acquirenti che in buona fede rischiano di perdere beni essenziali quali l'unica abitazione, come è avvenuto attraverso recenti provvedimenti di legge adottati a salvaguardia dei cittadini in occasione del fallimento di altri enti creditizi. (5-08835)


   DA VILLA. — Al Ministro dell'economia e delle finanze, al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo. — Per sapere – premesso che:
   nella terraferma veneziana è presente un vasto sistema di forti, polveriere, hangar per dirigibili e opere difensive denominato «Campo Trincerato di Mestre» che, per valore storico, architettonico e ambientale e per stato di conservazione, rappresenta uno dei più importanti campi trincerati otto-novecenteschi europei;
   il comune di Venezia da quasi vent'anni sta portando avanti con le amministrazioni centrali dello Stato (demanio militare e demanio civile) una organica operazione immobiliare per la sua acquisizione e gestione unitaria, e tale operazione fino a questo momento ha consentito di trasferire alla proprietà comunale i forti Marghera, Manin, Carpenedo, Gazzera, Tron, Rossarol, Mezzacapo e Pepe, lasciando in proprietà statale i forti Cosenz e Bazzera;
   parallelamente, tra Favaro e Dese il comune di Venezia ha portato avanti una vasta opera di forestazione denominata «Bosco di Mestre», dall'elevato valore naturalistico ed esempio virtuoso di rigenerazione urbana; tale opera è stata realizzata integralmente con fondi pubblici e i costi a carico della comunità nel solo triennio 2006-2008 sono stati di 4,5 milioni di euro, e anche ora per il mantenimento del bosco vengono spesi annualmente 400.000 euro di canoni di locazione, oltre alle spese di gestione forestale (500.000 euro annui);
   con delibera di giunta n. 729 del 27 maggio 2014, la regione Veneto incaricava il dirigente della sezione demanio patrimonio e sedi di adottare i provvedimenti per l'acquisizione a titolo non oneroso del compendio immobiliare denominato Forte Cosenz in Favaro Veneto (VE) ai sensi dell'articolo 5, comma 5, del decreto legislativo 28 maggio 2010, n. 85 (federalismo demaniale culturale);
   tale delibera prevede l'impiego del compendio al fine di: sviluppare attività protezione civile complementari a quelle concentrate nella «piattaforma logistica regionale di protezione civile» ubicata a Bonisiolo, Mogliano Veneto; consentire all'OCRAD (l'associazione dopolavoristica regionale) di «continuare ad effettuare lo svolgimento delle proprie attività culturali, dopolavoristiche, hobbistiche, di socializzazione, di assistenza e accoglienza diurna dei figli dei dipendenti regionali»; realizzare, da parte della sezione agroambiente, alcuni «orti urbani»;
   in applicazione di tale delibera la regione Veneto predisponeva un apposito programma di valorizzazione;
   nel 2015 anche l'amministrazione comunale di Venezia decideva di presentare un proprio programma di valorizzazione all'Agenzia del demanio e al Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo ai sensi dell'articolo 5, comma 5, del citato decreto legislativo n. 85 del 2010 per l'acquisizione a titolo non oneroso di Forte Cosenz;
   della redazione di tale programma veniva incaricata l'Istituzione Bosco e Grandi Parchi del comune di Venezia, in collaborazione con la direzione patrimonio e casa del comune di Venezia;
   nel febbraio 2015 veniva presentato all'Agenzia del demanio il «programma di valorizzazione della casa del maresciallo presso Forte Cosenz a Favaro Veneto», per la realizzazione del centro visitatori del bosco di Mestre;
   tale programma di valorizzazione risultava gravemente incompleto poiché chiedeva l'attribuzione in proprietà di un solo edificio, minore (la casa del maresciallo), e del relativo terreno pertinenziale (N.C.E.V. - Sezione: FV; Foglio 8; Mappale A; Sub 1 «parte»), e non anche dell'intero compendio con il bene culturale vero e proprio (il forte dei primi del Novecento);
   in data 29 aprile 2015 (PROT. 2015/7502/DR-VE) la direzione regionale Veneto dell'Agenzia del demanio rispondeva al comune di Venezia che il programma regionale «interessa l'intero compendio, e, pertanto, le porzioni richieste da codesto Comune sono già oggetto di un progetto di valorizzazione approvato dal Ministero in indirizzo in favore della Regione»;
   è ora intenzione dell'amministrazione comunale di Venezia presentare all'Agenzia del demanio e al Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo un programma di valorizzazione completo e una richiesta di attribuzione che interessi l'intero compendio (compreso il forte dei primi del Novecento);
   a tal fine, in via preliminare, il vicesindaco di Venezia, con lettera del 18 aprile 2016 (p.g. 2016/188269), chiedeva al segretariato regionale per il Veneto del ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e all'Agenzia del demanio, direzione regionale per il Veneto, «se sussistono tuttora le condizioni affinché il Comune di Venezia possa presentare un nuovo Programma di valorizzazione ex articolo 5, comma 5, del decreto legislativo n. 85/2010 che interessi l'intero compendio immobiliare di proprietà dello Stato denominato “Forte Cosenz”»;
   poiché l'articolo 2, comma 5, del decreto legislativo n. 85 del 2010 prevede che «i beni sono attribuiti, considerando il loro radicamento sul territorio, ai Comuni, e solo qualora un bene non sia attribuito a un ente territoriale di un determinato livello di governo, lo Stato procede, sulla base delle domande avanzate, all'attribuzione del medesimo bene a un ente territoriale di un diverso livello di governo» (decreto legislativo n. 85 del 2010, articolo 2, comma 3), l'accoglimento della richiesta del comune di Venezia consentirebbe di dare piena attuazione al principio di sussidiarietà trasferendo il Forte Cosenz al comune di Venezia e non alla regione del Veneto;
   tale circostanza favorirebbe la massima valorizzazione funzionale dell'immobile a vantaggio diretto e indiretto della «collettività territoriale rappresentata» (decreto legislativo n. 85 del 2010, articolo 2, comma 4);
   con lettera del 5 maggio 2016, la segretaria regionale per il Veneto del ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, architetto Codello, riscontrava la citata nota della vicesindaco di Venezia prendendo atto del ritiro della proposta primigenia, invitando il comune a «fornire la documentazione concernente il Programma di valorizzazione di cui alla nota prot. 188269/2016» e preannunciando che «tale proposta sarà valutata altresì in relazione alla efficacia dei presupposti motivazionali concernenti la migliore conservazione e fruizione riservata al compendio medesimo, ai sensi e per gli effetti del decreto legislativo n. 85 del 2010 –:
   se il Ministro dell'economia e delle finanze intenda attivarsi affinché l'Agenzia del demanio fornisca un sollecito e positivo riscontro alla comunicazione del vicesindaco di Venezia menzionata in premessa;
   se i Ministri interrogati sulla scorta della positiva esperienza realizzata con i citati precedenti relativi ai forti Marghera, Manin, Carpenedo, Gazzera, Tron, Rossarol, Mezzacapo e Pepe, nutrano un orientamento in linea di principio favorevole alla conferma dell'approccio finora seguito in casi analoghi, e intendano quindi raccomandare una sollecita e positiva attenzione da parte delle competenti istanze delle rispettive amministrazioni, qualora naturalmente esse non rilevassero profili ostativi negli elementi offerti dal programma di valorizzazione che verrà presentato ex novo dal comune di Venezia. (5-08859)

Interrogazione a risposta scritta:


   VALLASCAS, COZZOLINO, PAOLO NICOLÒ ROMANO, L'ABBATE, GAGNARLI, BUSTO e DE ROSA. — Al Ministro dell'economia e delle finanze, al Ministro dello sviluppo economico, al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   circa 98 mila dipendenti in quiescenza dell'Enel o i coniugi superstiti usufruirebbero di un regime tariffario agevolato per l'utenza elettrica del proprio domicilio;
   il 12 ottobre 2015 Enel spa avrebbe comunicato alle organizzazioni sindacali la decisione di disdire unilateralmente la regolamentazione collettiva sulle agevolazioni tariffarie riservate ai dipendenti in quiescenza o ai coniugi superstiti;
   il successivo 27 novembre, l'azienda avrebbe sottoscritto un accordo con le sigle sindacali Filctem CGIL, Flaei CISL e Uiltec UIL, in base al quale si sarebbe impegnata a erogare una tantum un corrispettivo in denaro quale forma di compensazione per la revoca delle agevolazioni tariffarie;
   secondo quanto pubblicato da alcuni organi di stampa, il corrispettivo in denaro sarebbe commisurato all'anzianità dei soggetti beneficiari, dai 1.800 euro per coloro che hanno più di 83 anni ai 6.000 euro per coloro che hanno 60 anni;
   sempre secondo quanto riportate da alcuni organi di stampa, numerosi soggetti interessati avrebbero diffidato l'Enel a dare seguito a quanto annunciato;
   entro il 31 dicembre, l'Enel ha comunicato agli interessati la decisione di disdire unilateralmente quanto pattuito dalla regolamentazione collettiva sulle agevolazioni tariffarie riservate ai dipendenti in quiescenza o ai coniugi superstiti;
   sembrerebbe che il meccanismo che riconosce il regime tariffario agevolato sia originato dal contratto collettivo nazionale del lavoro in vigore al momento della cessazione del servizio, in base al quale al dipendente in quiescenza verrebbe riconosciuto il salario differito sotto forma di sconto sulla tariffa energetica;
   secondo quanto precedentemente esposto, alcune associazioni di categoria avrebbero sollevato delle perplessità sulla legittimità sia della decisione assunta da Enel sia dell'accordo sottoscritto dalle summenzionate organizzazioni sindacali;
   in particolare, il Codacons, in un comunicato pubblicato il 5 novembre 2015, avrebbe dichiarato «Il Codacons, di fronte a questi colpi di mano, ha scelto di intervenire. Ai diritti acquisiti non si può rinunciare senza colpo ferire, quando manca – da una delle due parti – la disponibilità a trovare soluzioni condivise e a immaginare insieme proposte alternative. Una gelida nota amministrativa non può liquidare, d'un colpo, equilibri duraturi, diritti acquisiti, e prassi sindacali consolidate»;
   in tal senso, l'associazione a tutela dei consumatori avrebbe avviato le procedure per sostenere le ragioni degli ex dipendenti, predisponendo e mettendo a disposizione gratuitamente una diffida da inviare all'Enel;
   oltre al Codacons sarebbero intervenuti anche alcuni studi di consulenza legale con l'intento di promuovere collettivamente, anche grazie al coinvolgimento dei soggetti interessati attraverso la rete internet e i social network, una causa civile contro Enel;
   questo stato di cose solleva molteplici interrogativi soprattutto per gli esiti che potrebbero avere le controversie legali annunciate e per i costi, nel caso l'azienda risultasse soccombente, che finirebbero per gravare sugli utenti del servizio e sulla collettività –:
   se corrisponda al vero quanto esposto in premessa;
   quali siano gli orientamenti del Ministro dell'economia e delle finanze circa la decisione assunta da Enel spa di disdire le agevolazioni tariffarie illustrate in premessa, e quali iniziative di competenza intenda assumere in modo tale da evitare che eventuali azioni legali, nel caso in cui l'azienda risultasse soccombente, si possano ripercuotere negativamente sugli utenti del servizio e sulla collettività attraverso un aggravio dei costi in bolletta. (4-13403)

GIUSTIZIA

Interrogazione a risposta in Commissione:


   ROMANINI, PATRIZIA MAESTRI, PAOLO ROSSI, ZAPPULLA, CARNEVALI, PRINA, TARICCO, ZANIN, CARRA, TERROSI, FIORIO, COVA, DAL MORO, ANTEZZA e ALBANELLA. — Al Ministro della giustizia. — Per sapere – premesso che:
   la legge 11 dicembre 2012, n. 220, ha modificato, dopo oltre 70 anni di vigenza, gli articoli del codice civile che disciplinano il condominio degli edifici;
   tra le modifiche introdotte, alcune riguardano la figura dell'amministratore di condominio e specificatamente: l'obbligatorietà dell'amministratore in presenza di più di otto condomini, la durata del suo mandato e i casi di possibile revoca, gli obblighi in particolare finanziari (uso del conto corrente) e di trasparenza, nonché la possibilità, per l'assemblea, di subordinare la nomina alla stipula di una polizza individuale di assicurazione per la responsabilità civile per gli atti compiuti nell'esercizio del mandato;
   nonostante le importanti innovazioni normative introdotte, sempre più spesso la cronaca dà conto di episodi che vedono coinvolti amministratori condominiali «infedeli», i quali si appropriano indebitamente di risorse proprie del condominio;
   l'associazione Federconsumatori, in particolare di Parma, con la collaborazione dell'Associazione nazionale amministratori condominiali e immobiliari (Anaci), ha elaborato una sorta di piano antiraggiro con una serie di accortezze e proposte aventi la finalità di prevenire improprie distrazioni di fondi;
   il piano propone, in particolare, l'obbligatorietà della polizza individuale di assicurazione per l'amministratore, il divieto di prelievi per cassa o mediante assegni bancari/postali dal conto corrente intestato al condominio, la possibilità, per ciascun condomino, di poter visionare in tempo reale i movimenti e i saldi del conto corrente –:
   se il Ministro interrogato non ritenga opportuno valutare di assumere iniziative per un'ulteriore modifica della disciplina del condominio degli edifici al fine di prevenire il ripetersi di episodi, purtroppo frequenti, di amministratori «infedeli» che distraggono fondi dal condominio, considerando in particolare le proposte formulate da Federconsumatori in materia di trasparenza e tracciabilità dei flussi monetari. (5-08833)

Interrogazione a risposta scritta:


   BUSIN. — Al Ministro della giustizia. — Per sapere – premesso che:
   dopo numerose sollecitazioni, sono stati assegnati di recente, da parte del Consiglio superiore della magistratura, presso il tribunale di Vicenza, nuovi magistrati, e precisamente 6, di cui due con funzioni inquirenti e 4 con funzioni requirenti. Tale nuove nomine consentiranno sicuramente di poter dare un aiuto fattivo alla drammatica situazione in cui versa detto tribunale;
   purtroppo, seppur si stia cercando di sopperire alla carenza strutturale del tribunale di Vicenza con dette nuove nomine, al contrario, come ha ben ricordato il procuratore capo dottor Antonino Cappelleri, durante la cerimonia di insediamento, e come risulta da notizie apparse su quotidiani locali e su diversi siti web, «La giustizia non procede solo con i magistrati, (ho dovuto pescare) anche fra la polizia giudiziaria, per assegnare ai nuovi Pubblici Ministeri del personale di cancelleria. Tutti gli uffici scontano una pesante carenza di organico, che rende complessa l'attività quotidiana. E la coperta, da qualunque parte la si tiri, resta sempre molto corta», mentre, come sempre segnala il procuratore capo, i servizi di cancelleria sono al collasso;
   se i servizi di cancelleria, necessari e prodromici al lavoro dei magistrati, rimanessero nelle condizioni prospettate, tenuto conto anche delle indagini in corso sulla Banca Popolare di Vicenza che probabilmente sfoceranno in un ulteriore carico per le cancellerie, si creerebbe un disservizio tale che le nuove nomine di magistrati a poco servirebbero, e un utile nomina e rafforzamento dell'organico dei magistrati verrebbe immediatamente svilita e sarebbe priva, de facto, di effetti utili –:
   se il Ministro interrogato intenda porre rimedio urgente alla situazione, anche con iniziative normative emergenziali, favorendo l'immediata ricostituzione dell'organico degli operatori giudiziari e consentendo alle cancellerie del tribunale di Vicenza di funzionare in modo efficiente ed efficace affinché possa essere svolto in tempi ragionevoli il ruolo che costituzionalmente è assegnato a detti uffici giudiziari. (4-13422)

INFRASTRUTTURE E TRASPORTI

Interrogazioni a risposta immediata in Commissione:

VIII Commissione:


   MATARRESE, PIEPOLI, VARGIU e DAMBRUOSO. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   secondo quanto si evince dai dati pubblicati dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti relativi all'anagrafe delle opere incompiute, persistono in tutta Italia centinaia di investimenti, attivati dalle amministrazioni, in opere pubbliche che, per cause diverse, non sono mai arrivate all'ultimazione dei lavori risultando incompiute. Questo stato di fatto potrebbe determinare un elevato spreco di risorse pubbliche nonché il mancato soddisfacimento delle necessità della collettività cui sono state destinate tali opere;
   i dati, rilevati dal SIMOI – Sistema informatico di monitoraggio delle opere incompiute – del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, evidenziano, secondo gli ultimi aggiornamenti, 868 opere in corso e mai ultimate. Per ognuno di esse sono state segnalate la stazione appaltante, le risorse spese e quelle necessarie per il completamento, lo stato di avanzamento dei lavori e le cause rilevanti dell'interruzione;
   secondo quanto si evince da fonti di stampa, il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti avrebbe chiesto agli enti pubblici di aggiornare entro il 31 marzo 2016 gli elenchi delle opere incompiute di loro competenza, ma anche di sensibilizzare le stazioni appaltanti sulle quali svolgono attività di vigilanza per far sì che queste inseriscano nel database le infrastrutture non terminate sotto la loro responsabilità;
   da quanto si evince dagli organi di informazione, molte opere pubbliche, nonostante rientrino nei parametri per poter essere valutate come incompiute, non sarebbero ancora state censite o inserite da parte degli enti e delle stazioni appaltanti nella banca dati;
   i dati forniti in corso di aggiornamento hanno determinato un aumento del numero delle opere incompiute. Il record negativo spetterebbe alla Sicilia, regione che vede sul proprio territorio ben 215 infrastrutture non terminate, seguita dalla Calabria, che dalle 64 incompiute del 2013 è passata alle 93 del 2014, e dalla Puglia, che dalle 59 opere incompiute del 2013 si assesta alle 81 censite nel 2014. In Abruzzo sono passate dalle 33 del 2013 alle 40 del 2014, mentre in Lombardia in un anno le opere non terminate sono passate da 19 a 35;
   a seguito dell'ultimo aggiornamento del monitoraggio, il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti ha comunicato l'intenzione di voler istituire una task force che, così come avvenuto con l'Agenzia della coesione per i fondi europei, selezioni con puntualità le opere che ancora corrispondono all'interesse pubblico e che sono quindi, meritevoli di essere completate e quelle che, per motivi diversi, non risultano più in linea con gli indicatori di efficienza, efficacia ed economicità;
   secondo recenti analisi del Codacons «(...) lo spreco complessivo è di 4 miliardi. Servirebbero 1,4 miliardi per completare le opere avviate e mai completate. Il costo per ogni famiglia italiana è stato già di 166 euro...»;
   tra le regioni con il numero di opere incompiute più rilevante vi è certamente la Puglia. In particolare, in provincia di Foggia se ne contano 23, a Lecce 18, a Taranto 16, a Bari 11, a Brindisi 9 e nella provincia Bat 3. Da infrastrutture per la mobilità alla realizzazione di scuole, mercati, carceri e cimiteri, da restauri a opere irrigue e fognarie, da adeguamenti normativi a bonifiche ambientali, il valore di queste 81 opere è di circa 235 milioni, aumentato rispetto al 2013, quando si attestava sui 160 milioni di euro;
   solo per citarne alcune, tra le 81 opere pugliesi che richiedono risorse più ingenti per essere ultimate si evidenziano i lavori di sistemazione idraulica negli agri di Gravina e Poggiorsini (euro 34.602.612,00), il restauro del palazzo degli uffici di Taranto di piazza Archita (euro 33.200.000,00), la costruzione di un serbatoio per scopi irrigui in agro di Altamura (euro 30.290.197,00), i lavori di messa in sicurezza dell'area ex-Fibronit di Bari (euro 14.227.684,67) e quelli di bonifica dell'ex-gasomentro di Bari (euro 12.334.335,17);
   da quanto si evince dalla risposta all'interrogazione n. 5-05685 presentata dal primo firmatario del presente atto in data 3 giugno 2015, e concernente proprio iniziative per il completamento delle opere incompiute, il Governo comunicò che era «(...) in via di elaborazione uno schema di provvedimento teso, fra l'altro, a fornire supporto agli Enti locali per il superamento delle criticità procedimentali ed economico-finanziarie determinanti l'incompiutezza delle opere, nonché misure innovative per consentire l'utile reperimento di risorse finanziarie anche attraverso l'attivazione di un fondo specifico per il completamento di quelle opere connotate da una prioritaria valenza istituzionale e strategica (...)» –:
   se il Governo abbia già selezionato, tra quelle censite, le opere che intende completare e quali siano le risorse che intende utilizzare a tale scopo, con particolare riferimento alle opere relative alla regione Puglia, e se quindi il fondo specifico per il completamento delle opere connotate da una prioritaria valenza istituzionale e strategica sia attivo così come prefigurato nella risposta all'interrogazione n. 5-05685. (5-08849)


   ZARATTI, FASSINA, PELLEGRINO e GIANCARLO GIORDANO. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   il decreto-legge 28 marzo 2014 n. 47, contenente misure urgenti per l'emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015, approvato dal Consiglio dei ministri nella riunione del 12 marzo 2014, è stato convertito in legge il 20 maggio 2014;
   il decreto-legge ha varato il cosiddetto piano casa che prevede interventi per oltre 1 miliardo e 740 milioni di euro con tre obiettivi: il sostegno all'affitto a canone concordato; l'ampliamento dell'offerta di alloggi popolari e lo sviluppo dell'edilizia residenziale sociale;
   con le deliberazioni del 2014 del 15 marzo 2016, la regione Lazio, in linea con quanto stabilito a livello governativo, ha configurato e predisposto il programma straordinario per l'emergenza abitativa per Roma Capitale;
   con tale provvedimento non si è intervenuti, nell'ambito dell'articolo 13 del regolamento regionale n. 2 del 2000, relativo alla ordinaria riserva di alloggi di edilizia residenziale pubblica per situazioni di emergenza abitativa, ma inserendo «ex novo» un articolo, l'articolo 30-bis, appunto, che mette in atto una disposizione transitoria limitata nel tempo;
   dunque, non solo la giunta regionale, recependo quanto stabilito a livello governativo, non interviene nell'articolo afferente alle riserve che in via ordinaria si possono applicare nell'ambito del bando generale di assegnazione degli alloggi, ma definisce, con un articolo aggiuntivo, ed a sé stante, una nuova categoria di soggetti a cui si possono assegnare un complesso di alloggi realizzati nell'ambito del programma straordinario per Roma Capitale: si tratta dei nuclei familiari che vivono negli immobili impropriamente adibiti ad abitazione;
   con la delibera commissariale n. 50 del commissario governativo Tronca, Roma Capitale si pone per gli interroganti tecnicamente e politicamente in diretta contrapposizione con quanto stabilito dalla regione Lazio con le deliberazioni di giunta regionale n. 18 del 2014 e 110 del 2016 e dal Governo e dal Parlamento, con il decreto-legge 28 marzo 2014 n. 47, convertito dalla legge 23 maggio 2014, n. 80;
   a giudizio degli interroganti si è compiuta una forzatura per riportare tutto impropriamente nelle quote di riserva previste all'articolo 13 del citato regolamento regionale n. 2 del 2000; si va incontro secondo gli interroganti ad un duro contenzioso e probabilmente ad una lunga paralisi;
   del resto, la ratio dei provvedimenti parlamentari e regionali, non sembra quella di togliere validità agli strumenti ordinari, ma al contrario affrontare le emergenze pregresse accumulate negli anni attraverso strumenti straordinari, per poter parallelamente riprendere una politica per la casa — anche per le fasce più deboli – da attuare attraverso strumenti nuovi ed una nuova programmazione –:
   quali iniziative urgenti, per quanto di propria competenza, intenda assumere il Governo al fine di dirimere in via strutturale e definitiva le problematiche inerenti all'emergenza abitativa di Roma Capitale e, in particolare, nell'ambito di tale contesto, quali elementi intenda fornire su come il provvedimento del commissario straordinario di Roma Capitale in materia di emergenza abitativa di cui in premessa si concili con i nuovi indirizzi normativi inerenti ai piani abitativi straordinari e transitori da attuare attraverso una nuova programmazione. (5-08850)


   MANNINO, TERZONI, BUSTO, DAGA, DE ROSA, MICILLO e ZOLEZZI. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   con il decreto-legge 12 settembre 2014 n. 133, all'articolo 17, sono state introdotte modifiche puntuali al Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380;
   in seguito all'approvazione di una proposta emendativa — sottoscritta dai deputati Mannino, Busto, Daga, Micillo, Segoni, Terzoni, Zolezzi e Vignaroli — è stata inserita la lettera q-bis all'articolo 17, comma 1, del decreto-legge n. 133 del 2014 contenente delle modifiche all'articolo 31 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001 rubricato «Interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali»;
   con l'articolo 17, comma 1, lettera q-bis), è stato inserito, nell'articolo 31 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, il comma 4-bis con lo scopo di prevedere un'ulteriore misura sanzionatoria nei confronti dei responsabili di abusi edilizi, consistente nell'irrogazione di una sanzione pecuniaria amministrativa da 2.000 euro a 20.000 euro, nel caso in cui il responsabile dell'abuso non ottemperi all'ordine di demolizione precedentemente ingiunto dall'amministrazione comunale;
   in base al nuovo comma 4-bis dell'articolo 31 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, la sanzione è dovuta nella misura massima di 20.000 euro in caso di abusi realizzati sulle aree e sugli edifici di cui all'articolo 27, comma 2, e in ogni caso se gli interventi interessano aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato, ed è stato, altresì, stabilito che la mancata o tardiva adozione del provvedimento sanzionatorio da luogo all'apertura di un procedimento disciplinare nei confronti del dirigente o del funzionario inadempiente;
   in base al nuovo comma 4-quater dell'articolo 31 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001 — inserito con la citata disposizione contenuta nel decreto-legge n. 133 del 2014 le regioni hanno la facoltà di aumentare l'importo delle sanzioni amministrative previste dal citato comma 4-bis, e di stabilire che le stesse sanzioni siano periodicamente reiterabili qualora permanga l'inottemperanza all'ordine di demolizione;
   la novella legislativa si innesta all'interno di un quadro normativo definito dalle disposizioni contenute nel decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001 dalla normativa regionale in materia urbanistico-edilizia, e incide — per quel che concerne i profili di responsabilità dei dirigenti ovvero dei funzionari in servizio presso le amministrazioni competenti sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche e in particolare delle amministrazioni locali;
   per effetto delle modifiche introdotte, la mancata ottemperanza all'ordine di demolizione dell'abuso e di ripristino dello stato dei luoghi, una volta accertata, continua a costituire titolo per l'immissione in possesso dell'area in questione e, nei casi previsti, comporta, contestualmente, l'irrogazione di una sanzione pecuniaria che, in base ad apposita normativa regionale, potrà essere reiterata periodicamente in caso di mancata demolizione dell'immobile abusivo;
   le modifiche alla normativa vigente, apportate in sede di conversione in legge del decreto-legge n. 133 del 2014, possono costituire una leva decisiva sia per contrastare la diffusione del fenomeno dell'abusivismo che continua a distruggere il territorio italiano, sia per sanzionare, più duramente, i responsabili di abusi edilizi che non vengono demoliti nonostante l'emissione, da parte delle amministrazioni competenti, delle ordinanze di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi;
   in riscontro all'interrogazione avente ad oggetto «Applicazione della normativa in materia di contrasto all'abusivismo edilizio (articolo 31 comma 4-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001)», presentata dal consigliere comunale di Milano Marco Cappato, l'assessore competente ha precisato che rispetto alle 4 ingiunzioni di demolizione notificate nel periodo compreso dall'11 novembre 2014 al 7 maggio 2015, la sanzione pecuniaria, quantificata in tutti e 4 i casi nella misura di 4.000 euro, è stata determinata applicando quanto previsto dall'articolo 16 della legge n. 689 del 1981;
   il citato articolo 16 della legge n. 689 del 1981, rubricato «Pagamento in misura ridotta», disciplina la modalità di calcolo delle somme dovute nel caso in cui il trasgressore provveda a pagare la sanzione prevista, entro 60 giorni dalla contestazione immediata o dalla notificazione degli estremi della violazione;
   a giudizio degli interroganti, il ricorso al meccanismo utilizzato per determinare l'importo delle sanzioni nel caso vengano pagate entro il termine di 60 dalla contestazione immediata ovvero dalla notificazione della violazione, è incongruo rispetto alle finalità di una norma che intende inasprire le sanzioni a carico dei soggetti che realizzano abusi edilizi e si sottraggono all'ordine di demolizione e rimessione in pristino ingiunto loro dall'amministrazione, e ne riduce l'efficacia;
   in riscontro alla medesima interrogazione, l'assessore ha risposto al quesito relativo all'applicabilità delle sanzioni previste dall'articolo 31, comma 4-bis, del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001 anche rispetto a interventi edilizi per i quali l'ordine di demolizione è stato irrogato prima dell'entrata in vigore della legge n. 164 del 2014, scrivendo che «ai fini dell'applicazione della sanzione occorre che il fatto contestato avvenga in vigenza della normativa sanzionatoria richiamata, nello specifico l'accertamento dell'inottemperanza dell'ingiunzione a demolire»;
   appare necessario — al fine di rendere pienamente efficace la norma — fornire chiarimenti sull'applicazione dell'articolo 31 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, come da ultimo modificato con la legge n. 164 del 2014, ed in particolare sul metodo per la determinazione dell'importo della sanzione prevista;
   con la medesima finalità, occorre precisare che la sanzione pecuniaria debba trovare applicazione anche nei confronti dei responsabili di abusi edilizi per i quali l'ordine di demolizione è stato irrogato prima dell'entrata in vigore della legge n. 164 del 2014, in tutti i casi nei quali le amministrazioni – successivamente all'entrata in vigore della citata legge n. 164 del 2014 – constatano che il medesimo ordine non è stato ancora eseguito, anche quando l'esecuzione del provvedimento è stata inizialmente sospesa per effetto di un'impugnazione, con eventuale accoglimento della richiesta di sospensiva, e successivamente respinta dal collegio giudicante adito –:
   se, alla luce delle sanzioni ad oggi emesse, intenda assumere iniziative affinché vengano precisate le modalità applicative della nuova normativa vigente ed i criteri per la determinazione della sanzione pecuniaria di cui all'articolo 31, comma 4-bis, del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001. (5-08851)


   ZARDINI e BORGHI. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   il casello di Verona nord sull'Autostrada del Brennero (A22) è al servizio della città di Verona, oltreché di due infrastrutture strategiche per l'economia della provincia di Verona, ovvero l'aeroporto Valerio Catullo e l'interporto logistico Quadrante Europa – Consorzio Zai;
   la previsione di un nuovo casello dedicato all'aeroporto è da ritenersi tramontata fin dal 2012 quando il presidente della provincia di Verona ha inviato una lettera alla società «Autostrada del Brennero spa», nella quale si chiedeva di spostare tale intervento a Isolalta;
   in alternativa al progetto originario del nuovo casello dell'aeroporto/interporto è stato progettato, in via preliminare, un intervento di potenziamento dell'esistente casello di Verona Sud, già previsto dal piano precedente, finanziato da «Autostrada del Brennero Spa» e inserito nel piano finanziario della concessione attualmente in prorogatio e in attesa di rinnovo;
   il suddetto progetto preliminare concertato in più riunioni tenutesi tra Autobrennero provincia e comune di Verona e Veneto Strade, affronta il problema della strozzatura sulla tangenziale per la Valpolicella;
   l'intervento ha lo scopo di superare la strettoia presente dove la tangenziale della Valpolicella arriva al bivio tra il casello di Verona Nord e la bretella per la città; in corrispondenza del tratto della strada regionale 62 proveniente dalla Valpolicella che conduce alla rotatoria d'innesto al piazzale del casello si formano, infatti, code e rallentamenti per la riduzione da due a una sola corsia della tangenziale;
   le attuali aree di sosta sono due, quella in uscita dal casello sulla destra (insufficiente per numero di posti), l'altra più a nord accessibile solo a coloro che provengono dalla tangenziale e quindi poco utilizzata;
   per questi motivi la società «Autostrada del Brennero spa» ha deciso di intervenire e, il 25 marzo 2016, il consiglio di amministrazione ha approvato un progetto esecutivo per la sistemazione e la riqualificazione della viabilità nei pressi del casello di Verona nord e per la riqualificazione dei due parcheggi a servizio degli utenti della A22;
   il progetto, per un investimento previsto pari a 2 milioni e 385 mila euro, prevede:
    a) l'allargamento della sede stradale da una corsia a due nel tratto proveniente da Bussolengo e che conduce alla rotatoria in entrata al casello, eliminando quindi l'attuale strozzatura;
    b) la configurazione del tratto stradale che consente a chi proviene da sud di accedere alla rotatoria di stazione così da razionalizzare e ampliare l'attuale parcheggio nord e renderlo accessibile sia dagli automobilisti dell'A22 che dalla tangenziale;
    c) la realizzazione di una passerella pedonale di collegamento tra i due parcheggi, illuminata e videosorvegliata, con accesso sia tramite scale che ascensori, quindi usufruibile anche dai disabili;
    d) l'allargamento del ramo di uscita della rotatoria in direzione Mantova per agevolare le manovre dei mezzi pesanti –:
   se il Governo sia a conoscenza della situazione descritta in premessa e se corrisponda al vero che il Ministero, tramite la direzione competente, abbia provveduto ad autorizzare il previsto addendum alla convenzione del 2006 che consentirebbe il via libera al progetto sopra descritto e, in caso contrario, quali siano le ragioni che ostano al via libera. (5-08852)

Interrogazione a risposta in Commissione:


   PILI. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   dopo aver devastato con politiche nefaste i voli low cost il Governo e la regione Sardegna hanno sbandierato quello che l'interrogante giudica un futile e destituito di ogni interesse rapporto convenzionale con la compagnia Alitalia;
   in questo «pseudo accordo» erano previsti settimanali collegamenti da Alghero per Parigi e Barcellona;
   tali collegamenti risultano a tutt'oggi un vero e proprio fallimento;
   i voli pianificati in base ad un accordo sconosciuto tra l'aeroporto Riviera del Corallo e Alitalia continuano a tenere lontani i viaggiatori in entrata e in uscita;
   al fallimento dei viaggi inaugurali di inizio mese si è aggiunto quello dei voli programmati in questi ultimi giorni;
   il 1o giugno 2016 l'Airbus della compagnia di bandiera è partito per l'aeroporto «El Prat» di Barcellona con 25 passeggeri a bordo;
   è stato devastante il ritorno da Alghero con appena otto viaggiatori;
   il collegamento con l'aeroporto «Charles De Gaulle» di Parigi ha registrato 16 passeggeri da Alghero;
   il rientro in Sardegna dell'aeromobile è avvenuto senza neanche un passeggero;
   il 5 giugno su 165 posti disponibili da Barcellona, i passeggeri atterrati ad Alghero erano appena sette;
   otto quelli partiti per la Spagna, con un solo bagaglio da stiva;
   si tratta come è ovvio di un duplice fallimento;
   non solo non si è riusciti a trattenere Ryanair, ma la sua sostituzione è risultata nefasta;
   nella giornata del 6 giugno 2016 su Alghero-Parigi erano previsti sei passeggeri;
   tale situazione sta ulteriormente danneggiando l'aeroporto di Alghero che è sottoposto ad una gravissima procedura di privatizzazione;
   nella giornata del 6 giugno è intervenuto un nuovo rinvio della vendita dell'aeroporto di Alghero a conferma del fatto che ci sarebbero trattative sottobanco per la svendita dell'aeroporto;
   una governance seria e credibile avrebbe annullato il bando, anziché continuare a insistere su proroghe a giudizio dell'interrogante vergognose e funzionali solo ad un piano ben preciso: deprezzare e svendere lo scalo algherese;
   se fosse, infatti, vero che F2i, la società immobiliare e di infrastrutture, avrebbe intenzione di presentare l'offerta per l'acquisto dell'aeroporto di Alghero, ad avviso dell'interrogante non resterà che trasmettere tutti gli atti alla Corte dei Conti e alla procura della Repubblica;
   si tratterebbe di un'offerta d'acquisto secondo l'interrogante viziata da una procedura anomala e destituita di ogni logica e soprattutto si compirebbe una vera e propria svendita pianificata a tavolino da alcuni personaggi ben noti;
   in questo ultimo anno l'aeroporto è stato totalmente deprezzato, ridotto ai minimi, termini con una perdita secca di passeggeri stranieri nell'ultimo mese di oltre il 60 per cento;
   si tratta di un'operazione messa in campo in ogni singolo dettaglio da un assessore regionale che a giudizio dell'interrogante ha di fatto perseguito, con la complicità politica del Governo sin dal primo giorno, il tracollo dell'aeroporto e del suo traffico voli;
   un piano culminato con la dipartita di Ryanair per evitare la quale il Governo e l'assessore non solo non hanno fatto niente, ma ad avviso dell'interrogante hanno messo in atto tutte le azioni per favorirla;
   ad avviso dell'interrogante tale piano è stato messo a punto per consentire a F2i di formulare un'offerta la più bassa possibile e consentire di «mettere le mani» sull'aeroporto senza alcun tipo di problema;
   tutto questo, ad avviso dell'interrogante, finisce per cancellare per sempre i voli low cost che disturbano non poco Alitalia, sponsorizzata a livello nazionale dal Governo e a livello regionale dalla giunta in carica, e favorire un pacchetto aeroportuale immobiliare con Cagliari che metta in campo operazioni speculative nell'area sud Sardegna;
   un investimento minimo quello per l'acquisto di Alghero funzionale solo al suo sottoutilizzo, ad avviso dell'interrogante per non disturbare altri competitor, a partire dal Qatar per arrivare a Montezemolo;
   non si rivela niente di nuovo se si afferma che l'assessore regionale dei trasporti è direttamente legato politicamente al presidente della fondazione del Banco di Sardegna Antonello Cabras di cui appare diretta espressione;
   non è un caso che lo stesso Cabras qualche settimana fa sia entrato a far parte a pieno titolo nel consiglio di amministrazione proprio di F2i, in sostituzione del suo compagno di partito e di corrente Mannoni;
   dunque venditore e acquirente sono di fatto espressione della stessa corrente e per giunta sono da sempre personalmente legati;
   tutto questo non può essere sottaciuto insieme alle azioni messe in campo in questo ultimo anno soprattutto per deprezzare l'aeroporto di Alghero;
   è necessario che la procura faccia chiarezza su quanto sta avvenendo e su quanto avvenuto;
   agli atti della procura di Sassari del resto ci sono le relazioni dello stesso Deiana che nella duplice veste di consulente della regione e della Sogeaal suggeriva alla società di gestione di rivolgersi alla procura qualora la regione non avesse pagato i contributi co-marketing;
   ora che lo scenario si sta definendo e che F2i starebbe per presentare un'offerta il disegno emerge ad avviso dell'interrogante con una chiarezza esplicita, anche perché in troppi sanno di questo interesse per l'aeroporto di Alghero; interesse che appare tutto teso alla mortificazione dello scalo a favore di altri interessi;
   del resto svendere un aeroporto senza traffico passeggeri è davvero cosa facile soprattutto se si hanno altri obiettivi;
   a quel punto la regione non potrà più dare nessun contributo co-marketing e si potrà trincerare dietro il divieto europeo, mettendo la parola fine alle compagnie low cost;
   la direttiva comunitaria e la sentenza che salvava Alghero prevedevano, infatti, la legittimità del contributo solo se l'aeroporto fosse stato pubblico. Con la privatizzazione tutto sarebbe destinato a morire per sempre;
   si tratta di un piano che ha lasciato l'aeroporto ad un passo dal fallimento per fare poi l'operazione più spregiudicata per venderlo ai compagni di corrente e di cordata;
   tutto questo è inaccettabile, il Governo, la magistratura penale e quella contabile hanno il dovere di andare sino in fondo –:
   se non ritenga di intervenire, per quanto di competenza, con iniziative immediate per invertire questa vergognosa situazione dello scalo di Alghero, abbattendo gli oneri fiscali e le addizionali e favorendo gli accordi co-marketing con le compagnie low cost;
   se non ritenga di dover assumere le iniziative di competenza per il blocco delle procedure di privatizzazione considerate le prescrizioni comunitarie e l'inadeguatezza del bando di concessione. (5-08858)

Interrogazioni a risposta scritta:


   VARGIU. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   l'autorità portuale di Cagliari è un ente con personalità giuridica di diritto pubblico dotato di autonomia finanziaria e di bilancio nei limiti previsti dalla legge di riordino in materia portuale del 28 gennaio 1994, n. 84;
   la gestione patrimoniale e finanziaria dell'autorità portuale è disciplinata da un regolamento di contabilità approvato dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministero dell'economia e delle finanze ed è soggetta al controllo della Corte dei Conti.
   l'autorità portuale di Cagliari è commissariata dal 26 settembre 2013. Il comandante Roberto Isidori – che succede a Vincenzo di Marco – è l'attuale commissario straordinario, nominato con decreto ministeriale 30 ottobre 2015, n. 358;
   la dotazione organica complessiva dell'autorità è attualmente di oltre 35 unità, comprensive di figure e profili professionali diversi, tra i quali personale a tempo determinato, nonché stagisti;
   la convenzione sui diritti delle persone con disabilità del 13 dicembre 2006 favorisce l'esercizio del diritto al lavoro dei disabili, promuovendo l'adozione di misure ed incentivi rispondenti alle esigenze individuali ed eterogenee delle persone disabili, anche sui luoghi di lavoro; il regolamento (CE) n. 800/2008 della Commissione dichiara alcune categorie di aiuti compatibili con il mercato comune in applicazione degli articoli 87 e 88 del trattato (regolamento generale di esenzione per categoria);
   l'articolo 13, comma 4, della legge 12 marzo 1999, n. 68, così come sostituito dall'articolo 1, comma 37, lettera c), della legge 24 dicembre 2007, n. 247 e modificato dal decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 151, attuativo della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (il cosiddetto Jobs Act), prevede l'istituzione presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali del Fondo per il diritto al lavoro dei disabili;
   l'articolo 14, comma 1, della legge n. 68 del 1999 stabilisce che le regioni istituiscano il Fondo regionale per l'occupazione dei disabili;
   l'articolo 11 della medesima legge n. 68 del 1999 e sue successive modificazioni stabilisce che gli uffici competenti, al fine di favorire l'inserimento lavorativo dei disabili, possono stipulare con il datore di lavoro convenzioni di integrazione lavorativa;
   l'articolo 12-bis della legge 12 marzo 1999, n. 68, come modificato dal decreto legislativo n. 151 del 2015, prevede che gli uffici competenti possano stipulare con i datori di lavoro privati tenuti all'obbligo di assunzione di cui all'articolo 3 comma 1, lettera a), della citata legge n. 68 del 1999 (soggetti conferenti) apposite convenzioni, finalizzate all'assunzione di soggetti disabili che presentino particolari caratteristiche e difficoltà di inserimento nel ciclo lavorativo ordinario, a fronte del conferimento di commesse di lavoro e contestuale assunzione del soggetto disabile da parte del soggetto conferente;
   la direttiva 2000/78 del Consiglio dell'Unione europea, del 27 novembre 2000, ha stabilito «un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro». Al punto 12 della premessa tale direttiva specifica che «qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su religione o convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuale nei settori di cui alla presente direttiva dovrebbe essere proibita in tutta la Comunità»;
   l'articolo 5 della suddetta direttiva recita inoltre che: «per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l'onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili»;
   la normativa italiana fa obbligo di assumere un numero determinato di persone portatrici di handicap a seconda del numero complessivo di dipendenti. Da un minimo di 1 lavoratore (imprese con dipendenti in numero tra 15 e 35) ad un massimo del 7 per cento sul totale dei lavoratori occupati (imprese con dipendenti superiori a 50). L'assunzione, tra l'altro, consente alle imprese anche di avere agevolazioni fiscali;
   nonostante quanto sopra disposto, risultano essere frequenti le violazioni alla legge n. 68 del 1999 sia da parte di soggetti privati che delle amministrazioni pubbliche che preferiscono incorrere in sanzioni (pari a 63 euro giornalieri per ogni posto in organico lasciato libero e non ricoperto da un portatore di handicap), piuttosto che assumere un disabile in base all'obbligo di legge sopra richiamato;
   il succitato decreto legislativo n. 151 2015 è intervenuto in materia di lavoratori portatori di handicap, rivedendo integralmente la procedura di concessione dell'incentivo per le assunzioni dei disabili, nonché prevedendo la corresponsione diretta ed immediata dell'incentivo al datore da parte dell'Istituto nazionale della previdenza sociale mediante conguaglio nelle denunce contributive mensili;
   secondo quanto risulta all'interrogante, nessun lavoratore portatore di handicap sarebbe stato assunto dai commissari dell'autorità portuale di Cagliari dal maggio 2014 ad oggi;
   nel caso specifico dell'autorità portuale di Cagliari, trattandosi di un ente con personalità giuridica di diritto pubblico – peraltro sottoposta a commissariamento – le sanzioni eventualmente comminate dalla Corte dei Conti in caso di ricorso per violazione alla legge n. 68 del 1999 e successive modificazioni e integrazioni, si configurerebbero come un «danno erariale», riconducibile alla gestione dei due commissari straordinari, dal momento che l'applicazione delle disposizioni in materia di assunzioni di soggetti portatori di handicap rientra negli atti di ordinaria amministrazione degli stessi;
   tali condotte, qualora confermate, non rappresenterebbero solo una violazione delle numerose disposizioni di legge, peraltro ulteriormente implementate dal Jobs Act, ma anche la dimostrazione del permanere di un anacronistico ed inaccettabile deficit culturale, in conseguenza del quale le persone disabili continuano ad essere considerate un sostanziale impedimento delle dinamiche produttive del nostro Paese –:
   se i Ministri interrogati siano a conoscenza della situazione esposta in premessa e come per quanto di competenza intendano intervenire, per il tramite dell'attuale commissario dell'autorità portuale di Cagliari, al fine di garantire alle persone con disabilità il pieno diritto al lavoro, così come previsto dalla legislazione vigente, dalla convenzione per i diritti dei disabili e dalle direttive europee. (4-13410)


   SCOTTO, FRANCO BORDO, PANNARALE, COSTANTINO, NICCHI, PELLEGRINO e MELILLA. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   l'articolo 1, comma 677, della legge di stabilità per il 2016 (legge n. 208 del 2015) prevede che, qualora entro il 31 dicembre 2016 si proceda all'alienazione di quote o a un aumento di capitale riservato al mercato del gruppo Ferrovie dello Stato italiane spa, il Ministero dell'economia e delle finanze presenti alle Camere una relazione che evidenzi in modo puntuale l'impatto economico, industriale e occupazionale derivante dalla privatizzazione. In particolare, tale disposizione, frutto dell'approvazione durante l'esame del disegno di legge di stabilità 2016 presso la Camera dei deputati di un emendamento presentato dal gruppo parlamentare Sinistra Italiana-SEL a prima firma dell'onorevole Franco Bordo, prevede che: «Qualora entro il 31 dicembre 2016 si proceda all'alienazione di quote o a un aumento di capitale riservato al mercato del gruppo Ferrovie dello Stato italiane Spa, il Ministero dell'economia e delle finanze presenta alle Camere una relazione che evidenzia in modo puntuale l'impatto economico, industriale e occupazionale derivante dalla privatizzazione nella quale sono indicati in particolare:
    a) i dati finanziari e industriali degli effetti dell'alienazione o dell'eventuale aumento di capitale sulle società interessate e sul bilancio dello Stato;
    b) la minore spesa per interessi derivante dall'utilizzo delle risorse incassate dall'alienazione per la riduzione del debito pubblico;
    c) i minori dividendi versati al bilancio dello Stato in conseguenza dell'alienazione;
    d) gli effetti dell'alienazione o dell'aumento di capitale riservato al mercato sul piano industriale del gruppo»;
   nel mese di dicembre 2015, e segnatamente in data 2 dicembre 2015, proprio nel pieno della discussione parlamentare del disegno di legge di stabilità 2016, il Governo si affrettava a trasmettere in Parlamento uno schema di decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri con cui avviare l’iter di privatizzazione di una quota minoritaria del Gruppo Ferrovie dello Stato italiane Spa (fino al 40 per cento), su cui le commissioni trasporti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica sono state chiamate ad esprimere il loro parere; il testo era composto da un unico articolo suddiviso in 4 commi ove:
    1) si prevedeva in primo luogo l'alienazione di una quota della partecipazione detenuta dal Ministero dell'economia e delle finanze in Ferrovie dello Stato S.p.A., in modo tale da consentire comunque il mantenimento di una partecipazione dello Stato al capitale di Ferrovie dello Stato non inferiore al 60 per cento, facendo espressamente salva l'assegnazione dell'infrastruttura delle rete ferroviaria nazionale, gestita da Rete Ferroviara italiana S.p.A. (RFI), che opera in base alla concessione quarantennale di cui al decreto ministeriale n. 138T del 31 ottobre 2000;
    2) detta alienazione poteva essere effettuata, anche in più fasi con possibili modalità: offerta pubblica di vendita rivolta al pubblico dei risparmiatori in Italia, ai dipendenti del Gruppo Ferrovie dello Stato; offerta pubblica di vendita rivolta a investitori istituzionali italiani e internazionali;
    3) inoltre, si consentiva di attivare forme di incentivazione per la partecipazione all'offerta pubblica di vendita da parte dei dipendenti del gruppo Ferrovie dello Stato, tenuto conto anche della prassi di mercato e di precedenti operazioni di privatizzazione. Tali forme di incentivazione potevano tradursi in: quote dell'offerta riservate, agevolazioni di prezzo e agevolazioni nelle modalità di finanziamento;
    4) infine, lo schema di decreto in parola prevedeva la possibilità di prevedere forme di incentivazione in termini di prezzo, in coerenza con le prassi seguite precedenti operazioni di privatizzazione, per i risparmiatori al fine di favorire l'azionariato diffuso;
   attualmente il Ministero dell'economia e delle finanze detiene il 100 per cento del capitale di Ferrovie dello Stato s.p.a., suddiviso in n. 36.340.432.802 azioni ordinarie del valore nominale di 1 euro;
   come emerge dalla stampa nazionale il Governo ha approvato il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri con i criteri e le modalità per aprire il capitale della società controllata al 100 per cento dal Tesoro, avviando la procedura per portare in borsa l'ex monopolista per il quale si starebbe intanto valutando anche la possibile integrazione con Anas: un'operazione sulla cui fattibilità si deciderà, a quanto si apprende, entro l'estate;
   in particolare, il Ministero dell'economia e delle finanze avrebbe già avviato una fase esplorativa per valutare l'integrazione con ANAS: e che porterebbe alla nascita di un grande gruppo infrastrutturale da 10 miliardi di euro di fatturato;
   l'obiettivo fissato dal Documento di economia e finanza 2016 è di ricavare dalle privatizzazioni lo 0,5 per cento di prodotto interno lordo l'anno, nell'ambito del triennio 2016, 2017 e 2018, ovvero circa 8 miliardi di euro l'anno;
   ad oggi, il Ministero dell'economia e delle finanze non ha ancora presentato alle Camere alcuna relazione che evidenzi in modo puntuale e dettagliato l'impatto economico, industriale e occupazionale derivante dalla privatizzazione nella quale devono essere indicati, come si è detto, i dati finanziari e industriali degli effetti dell'alienazione o dell'eventuale aumento di capitale sulle società interessate e sul bilancio dello Stato; la minore spesa per interessi derivante dall'utilizzo delle risorse incassate dall'alienazione per la riduzione del debito pubblico; i minori dividendi versati al bilancio dello Stato in conseguenza dell'alienazione; e infine, gli effetti dell'alienazione o dell'aumento di capitale riservato al mercato sul piano industriale del gruppo;
   alla luce di quanto sopra evidenziato, non si capisce come si possa varare in via definitiva un decreto, di cui peraltro ad oggi non si conosce ancora il testo e se questo rechi modifiche o integrazioni rispetto a quello inviato alle Camere, con cui definire i criteri di privatizzazione e delle modalità di dismissione della partecipazione detenuta dal Ministero dell'economia e delle finanze nel capitale di Ferrovie dello Stato;
   appare del tutto inspiegabile il motivo per cui si intenda, in controtendenza a quanto accade in altri Paesi europei come la Francia e la Germania, privatizzare una società solida e in crescita come Ferrovie dello Stato, capace di operare sul mercato italiano e di aprirsi ad una competitività nel trasporto ferroviario e alla logistica anche a livello continentale per garantirsi nell'immediato quella che potrebbe risultare una modesta entrata economica, mettendo a repentaglio profitti, livelli occupazionali e qualità professionali;
   nel promuovere l'imminente alienazione di quote di Ferrovie dello Stato italiane non sembra, infatti, siano stati considerati i rischi derivanti da una affrettata privatizzazione soprattutto sotto il profilo della salvaguardia del mantenimento dei diritti e delle tutele per le lavoratrici ed i lavoratori operanti nel comparto ferroviario, che rappresenta il prerequisito per la sicurezza e il buon funzionamento del sistema ferroviario e per servizi di alta qualità nei confronti delle persone. Senza contare che, con l'estensione della concorrenza nel trasporto ferroviario nazionale di passeggeri, del processo di privatizzazione e della possibile pressione finalizzata al taglio dei costi, l'attuale situazione di crisi economica in cui versa il Paese potrebbe ulteriormente aggravarsi, con inevitabili conseguenze sul piano della riduzione del numero dei dipendenti, il maggior ricorso all’outsourcing e al subappalto dei servizi, l'aumento dei contratti atipici, l'incremento dell'utilizzo dei lavoratori in somministrazione, l'intensificazione dei carichi e della pressione sul lavoro, l'aumento degli orari di lavoro flessibili, del frazionamento dei turni di lavoro e del ricorso al lavoro straordinario;
   dalle recenti notizie diffuse in materia, mediante comunicati dalle Presidenza del Consiglio dei ministri secondo i firmatari del presente atto risulta che non si è tenuto minimamente conto dei rischi derivanti da affrettata liberalizzazione e frammentazione del servizio ferroviario italiano oltre che del fatto che le misure che si intendono introdurre potrebbero porsi in palese contrasto con quanto previsto dalla legge di stabilità 2016 –:
   quali siano le ragioni per le quali, stanti le previsioni contenute nel Documento dell'economia e delle finanze 2016, i comunicati diffusi recentemente dal Consiglio dei ministri e le strategie di cui si parla sulla stampa nazionale, il Governo non abbia ancora presentato al Parlamento, come previsto dall'articolo 1, comma 677, della legge di stabilità 201 una relazione che evidenzi in modo puntuale l'impatto economico, industriale e occupazionale derivante dalla privatizzazione nella quale siano indicati in particolare: a) i dati finanziari e industriali degli effetti dell'alienazione o dell'eventuale aumento di capitale sulle società interessate e sul bilancio dello Stato; b) la minore spesa per interessi derivante dall'utilizzo delle risorse incassate dall'alienazione per la riduzione del debito pubblico; c) i minori dividendi versati al bilancio dello Stato in conseguenza dell'alienazione; d) gli effetti dell'alienazione o dell'aumento di capitale riservato al mercato sul piano industriale del gruppo. (4-13415)

INTERNO

Interrogazione a risposta in Commissione:


   RUBINATO, ROTTA, CASELLATO, CRIVELLARI e CASATI. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   l'articolo 5, comma 5, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122, ha previsto che «ferme le incompatibilità previste dalla normativa vigente, nei confronti dei titolari di cariche elettive, lo svolgimento di qualsiasi incarico conferito dalle pubbliche amministrazioni di cui al comma 3 dell'articolo 1 della legge 31 dicembre 2009 n. 196, inclusa la partecipazione ad organi collegiali di qualsiasi tipo, può dar luogo esclusivamente al rimborso delle spese sostenute; eventuali gettoni di presenza non possono superare l'importo di 30 euro a seduta»;
   tale norma, introdotta sulla base della ragionevole necessità di contenimento dei costi della spesa pubblica, ha prodotto in realtà degli effetti assolutamente irragionevoli, compromettendo di fatto la partecipazione attiva alla vita democratica del Paese attraverso l'accesso agli incarichi pubblici dei liberi professionisti che si vedrebbero in tali ipotesi rifiutato il pagamento del compenso relativo alle prestazioni rese alla pubblica amministrazione;
   l'incongruità di tale norma ha peraltro finito per determinare le dimissioni di diversi amministratori locali su tutto il territorio nazionale;
   la sezione di controllo della Corte dei Conti del Veneto aveva rimesso tale questione alla sezione delle autonomie della Corte dei Conti medesima, chiedendo quale dovesse essere l'interpretazione di questa norma alla luce del fatto che in caso di adesione ad un'interpretazione meramente letterale «difficilmente la norma potrebbe superare lo scrutinio di legittimità costituzionale e l'ingiustificata lesione di diritti costituzionali potrebbe rinvenirsi anche nella limitazione del diritto di accedere ad una carica pubblica elettiva atteso che, se il cittadino per accedere a tale carica deve abdicare al proprio diritto a ricevere il compenso per la propria attività professionale, potrebbe essere indotto a rinunciare a ricoprire la carica elettiva»;
   l'interpretazione corretta della norma pare pertanto essere quella suggerita alla Corte veneta e, tra l'altro, fatta propria dal Ministero dell'interno nella nota prot. 10313 del 5 novembre 2015 secondo cui «il divieto di cumulo degli emolumenti, preso atto che la finalità perseguita dal legislatore è la riduzione del costo degli apparati politici, deve ritenersi limitato ai costi e alle spese necessarie per l'esercizio degli incarichi conferiti dall'amministrazione in relazione alla carica elettiva e quindi all'esercizio del munus pubblico (...) esprimendo quindi l'avviso che, fatti salvi eventuali profili di incompatibilità espressamente previsti, sono esclusi dalla portata applicativa della disposizione in esame quegli incarichi, eventualmente conferiti all'amministrazione nell'ambito della sua attività libero professionale, da enti diversi da quello di appartenenza»;
   tuttavia, la sezione delle autonomie della Corte dei Conti, con la deliberazione n. 11 del 31 marzo 2016, ha statuito, confermando l'interpretazione meramente letterale consolidatasi presso alcune sezioni regionali di controllo della medesima Corte, che «la disciplina vincolistica contenuta nell'articolo 5, comma 5, decreto-legge n. 78 del 2010, si riferisce a tutte le ipotesi di incarico, comunque denominato», con la conseguenza che al titolare di carica elettiva cui è conferito qualsivoglia tipologia di incarico da altra pubblica amministrazione non può spettare alcun compenso se non il rimborso delle spese sostenute e un gettone di presenza stabilito al massimo in 30,00 euro a seduta;
   l'interpretazione meramente letterale fornita dalla sezione delle autonomie della Corte dei Conti rischia dunque di determinare per tutti i liberi professionisti come i geometri, gli avvocati, gli architetti, gli ingegneri, l'impossibilità di fatto di svolgere attività libero professionale per altri enti pubblici, se non gratuitamente, così configurando una potenziale lesione di diritti costituzionalmente garantiti, in particolare, dagli articoli 3, 41 e 48 della Costituzione –:
   quale sia l'orientamento del Ministro interrogato sui fatti riportati in premessa e se e quali iniziative, anche normative, intenda adottare al fine di escludere la portata applicativa della disposizione in esame a quegli incarichi eventualmente conferiti all'amministratore, nell'ambito della sua attività libero professionale, da enti diversi da quello di appartenenza. (5-08842)

Interrogazioni a risposta scritta:


   STELLA BIANCHI, ROBERTA AGOSTINI, COSCIA e COCCIA. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   domenica 5 giugno 2016 si è svolto il primo turno delle elezioni amministrative che ha riguardato 1.342 comuni e oltre 13 milioni di elettori. Si è votato, tra gli altri, in ventisei comuni capoluogo di provincia, fra cui Bologna, Cagliari, Milano, Napoli, Roma, Torino e Trieste;
   in numerosi comuni chiamati a rinnovare gli organi amministrativi, ed in particolare nelle grandi città, sono stati segnalati ritardi e problemi di varia natura durante le operazioni di scrutinio. Scrutatori e presidenti di seggio hanno dovuto affrontare una complessa fase di spoglio al termine di una lunghissima giornata di lavoro ai seggi iniziata alle 7:00 del mattino e conclusasi alle 23:00. In molti casi l'impegno del personale ai seggi si è prolungato per oltre 36 ore;
   il computo dei voti per il rinnovo dei consigli comunali e dei consigli municipali dove previsto può risultare particolarmente complesso per l'elevato numero dei candidati e delle liste loro associate e per la possibilità di esprimere preferenze per i candidati nei consigli comunali e municipali;
   si sono registrati in molti casi ritardi anche notevoli nelle operazioni di spoglio, contestazioni ripetute, voti non assegnati e numerose schede annullate, pari ad esempio a Roma a 28.309, il 2,13 per cento dei voti espressi, a Milano 7.924 (1,44 per cento) e a Torino 10.213 (2.56 per cento);
   la complessità e la delicatezza delle operazioni di scrutinio richiede che queste siano affidate come sempre a persone esperte nella conoscenza e nell'applicazione delle norme del caso e che non si protraggano per lunghissime ore come è invece successo, fino ad oltre 36 ore di lavoro ininterrotto nei seggi;
   in alcune situazioni, come ad esempio nel caso delle elezioni il 5 maggio 2016 del sindaco di Londra e della London Assembly, lo spoglio delle schede è iniziato il mattino successivo al giorno del voto –:
   se il Ministro interrogato non ritenga di valutare l'assunzione delle opportune iniziative di competenza per migliorare lo svolgimento delle operazioni di spoglio.
(4-13399)


   GIUDITTA PINI. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   le norme per lo svolgimento dell'elezione del sindaco e del consiglio comunale sono contenute, fondamentalmente:
    a) nel decreto del Presidente della Repubblica 16 maggio 1960, n. 570, recante il testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle amministrazioni comunali;
    b) nella legge 25 marzo 1993, n. 81, recante norme per la elezione diretta del sindaco e del consiglio comunale;
    c) nel decreto del Presidente della Repubblica 28 aprile 1993, n. 132, recante il regolamento di attuazione della legge n. 81 del 1993;
   nel decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, recante il testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, che ha riunito e coordinato tutte le vigenti disposizioni di legge sul sistema elettorale degli organi degli enti locali;
   l'articolo 1, comma 399, della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (legge di stabilità 2014), ha stabilito che: «A decorrere dal 2014 le operazioni di votazione in occasione delle consultazioni elettorali o referendarie si svolgono nella sola giornata della domenica, dalle ore 7 alle ore 23»: per effetto di tale disposizione devono ritenersi implicitamente abrogate quelle contenute in altri testi normativi nella parte in cui fanno riferimento a un diverso arco temporale di svolgimento delle operazioni di votazione;
   il regolamento elettorale pubblicato dal Ministero dell'interno prevede che alle ore 16 del sabato, giorno precedente quello della votazione, il presidente costituisce il seggio chiamando a farne parte il segretario da lui scelto e gli scrutatori, i cui nominativi risultano dall'estratto del verbale di nomina, e al capitolo XIV, paragrafo 50, del regolamento per le elezioni amministrative varato dal Ministero dell'interno per l'anno 2016 si prevede che la ricostituzione del seggio deve avvenire anche prima delle ore 7 di domenica, giorno della votazione;
   lo scrutinio per le elezioni comunali deve svolgersi senza alcuna interruzione subito dopo la chiusura delle operazioni di voto, quindi alle ore 23 e tale scrutinio ha precedenza, eventualmente, rispetto a quello per le elezioni circoscrizionali. Le operazioni di scrutinio per le elezioni comunali devono essere ultimate entro 12 ore dal loro inizio;
   facendo un rapido conteggio il presidente, il segretario e gli scrutatori devono presiedere per ventinove ore consecutivamente il seggio;
   ventinove ore consecutive rischiano di rendere impossibile il corretto svolgimento delle operazioni di scrutinio, per oggettivi motivi fisici e di stanchezza e quindi rischiano o di far requisire il seggio dalla pubblica sicurezza, dopo 12 ore di scrutinio, se non si riescono a scrutinare tutte le schede e calcolare le preferenze (come accaduto in più seggi durante il primo turno delle amministrative appena svolte) o di invalidare i risultati relativi alle preferenze o al voto disgiunto o comunque a rendere più complicato il conteggio dei voti –:
   se il Ministro, nell'ambito delle sue competenze, non ritenga opportuno adottare le iniziative necessarie al fine di consentire un sereno svolgimento degli scrutini, possibilmente rifacendosi alla normativa vigente che consente di rinviare, nel caso di contemporaneo svolgimento delle elezioni comunali con elezioni di livello nazionale (politiche o europee) oppure con le elezioni regionali, le operazioni di scrutinio per le elezioni comunali alle ore 14 del lunedì successivo al giorno di votazione, ovvero modificando la normativa così consentendo le operazioni di scrutinio a partire dalla mattina del giorno seguente quello delle operazioni di voto. (4-13400)


   AMODDIO. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   con l'arrivo della bella stagione e con il miglioramento delle condizioni meteorologiche, si assiste all'aumento esponenziale dei flussi migratori verso la Sicilia. Viaggi della speranza che spesso si concludono in tragedie nonostante l'intervento costante della Marina militare italiana e della missione europea, come purtroppo dimostrano le cronache di questi giorni. Tra i migranti sbarcati spiccano per numero sempre maggiore i minori stranieri non accompagnati. Sono oltre 3.000 i minori stranieri non accompagnati arrivati in Italia nel 2016 (1.000 di questi sono sbarcati in provincia di Siracusa) e i numeri sono destinati a crescere, perché molti ne stanno arrivando in questi giorni. La Sicilia da sola ospita il 38 per cento di tutti i minori stranieri non accompagnati presenti sul territorio italiano, con evidenti difficoltà e problematiche nell'accoglienza e nella gestione. Nella provincia di Siracusa, secondo i dati forniti dall'associazione AccogliRete onlus e dal garante per l'infanzia del comune di Siracusa, il sistema di accoglienza dei minori stranieri non accompagnati sarebbe al collasso. Le strutture esistenti sono piene e non possono accogliere i nuovi arrivi, molti minori vengono sistemati nei Cas, centri di accoglienza straordinaria per adulti dove non sono seguiti e non possono intraprendere percorsi di scolarizzazione e regolarizzazione. In situazioni di questo tipo, molti di loro scappano senza lasciare più traccia. Secondo diverse questure siciliane ed i rapporti di Save the Children in, altissime percentuali i minori stranieri sarebbero finiti nella rete della prostituzione e del lavoro nero. La prefettura e la guardia di finanza stanno svolgendo un ottimo lavoro sul territorio e per l'enorme lavoro svolto può certamente dirsi che esiste un «caso Siracusa», perché in questa città l'accoglienza è stata straordinaria, soprattutto quando all'inizio degli sbarchi non vi erano assolutamente mezzi a disposizione e tutti gli operatori delle forze dell'ordine hanno agito con grande spirito di sacrificio. Oggi nel campo dei minori esiste un sistema deficitario che rischia di avere ripercussioni sui minori ai quali non si riesce a fornire la protezione prevista dalle normative italiane ed internazionali. Purtroppo, ancora una volta, seppur prevedibili, i flussi estivi hanno messo in evidenza le carenze di un sistema di accoglienza che avrebbe bisogno di una pianificazione maggiore e di tempistiche adeguate proprio per evitare situazioni di caos come queste e quindi garantire efficienza e rispetto delle convenzioni internazionali sui diritti del minore –:
   quali iniziative immediate il Governo intenda adottare al fine di sostenere i comuni siciliani interessati dal fenomeno, di fornire loro strumenti efficaci per fronteggiare al meglio l'emergenza dei minori non accompagnati e di garantire l'accoglienza nel rispetto della legalità e delle convenzioni internazionali sui diritti del minore.
(4-13401)


   COLONNESE, SILVIA GIORDANO, LOREFICE, MANTERO, DI VITA e GRILLO. — Al Ministro dell'interno, al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   in data 28 maggio 2016, tutti i quotidiani regionali e provinciali della Campania riportavano gli esiti di una inchiesta della direzione distrettuale antimafia di Napoli, terminata con l'arresto di esponenti del clan camorristico dei Casalesi;
   nell'ambito di detta inchiesta, si inserivano le dichiarazioni dell'ex capo dei Casalesi, ora collaboratore di giustizia, Antonio Iovine;
   Iovine riferiva ai pubblici ministeri dell'Antimafia napoletana, Catello Maresca e Maurizio Giordano, nonché al procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli, di infiltrazioni camorristiche nella gestione degli appalti dell'ospedale Cardarelli di Napoli e che gli appalti aggiudicati dai Casalesi e, in particolare da Ferdinando Di Lauro e il suo socio Andrea Grieco, risalivano ai primi anni 2000;
   sia Di Lauro che Grieco sono stati arrestati proprio il 28 maggio dai carabinieri di Napoli su richiesta dei sostituti procuratori della Dda, convalidata dal giudice delle indagini preliminari;
   nel 2008, alcuni pentiti avevano già rivelato la gestione dei Casalesi nella costruzioni di alcuni padiglioni dell'ospedale Cardarelli di Napoli per un importo di 600-700 milioni di vecchie lire. Detti pentiti sono stati individuati in Tartarone, Di Caterino e Caterino;
   nell'edizione del 28 maggio 2016, il Corriere del Mezzogiorno, riporta le dichiarazioni del direttore dell'ufficio tecnico del Cardarelli, Ciro Verdoliva; lo stesso Verdoliva dichiara: «nel febbraio 2006 le imprese che facevano capo a Ferdinando Di Lauro, sia per quelle di cui risultava formalmente il titolare sia per quelle che rappresentava di fatto, sono state tutte soggette a rescissione contrattuale perché in capo al signor Di Lauro sussisteva una informativa prefettizia in materia antimafia sin dal 2003-2004 per un'infiltrazione camorristica, alla quale però inspiegabilmente da parte dell'Azienda ospedaliera Cardarelli non vi era stato alcun adempimento consequenziale» –:
   se il Governo sia a conoscenza di quanto dichiarato dai collaboratori di giustizia;
   se e quali iniziative di competenza il Governo intenda intraprendere al fine di contrastare il fenomeno delle infiltrazioni camorristiche negli appalti del Cardarelli;
   se gli appalti aggiudicati in passato dai Casalesi siano stati assegnati ad altra impresa. (4-13407)


   PALAZZOTTO, SCOTTO, COSTANTINO, FAVA, FERRARA, FRATOIANNI e MARCON. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   in data 7 giugno 2016 il tribunale di sorveglianza di Palermo ha rigettato l'istanza presentata dai legali di Luca Casarini con la quale si avanzava la richiesta di affidamento ai servizi sociali come pena sostitutiva a seguito di una condanna a tre mesi di reclusione pronunciata dalla procura della Repubblica di Venezia per occupazione abusiva di immobile;
   il progetto sociale si sarebbe sviluppato presso la «Casa del mirto» a Palermo e prevedeva assistenza ai migranti ospitati presso la struttura;
   nel rigettare la richiesta avanzata per conto di Luca Casarini, il tribunale di sorveglianza si è avvalso di una specifica relazione della questura di Palermo;
   in tale relazione si fa esplicito riferimento all'attività politica di Casarini, in particolare nel periodo precedente il proprio trasferimento nella città di Palermo avvenuto nel 2012;
   la relazione redatta dalla questura cita esplicitamente il rischio di possibili «contatti con la criminalità organizzata»;
   è di tutta evidenza come questa annotazione abbia avuto un ruolo e un peso nella deliberazione del tribunale di Sorveglianza;
   a parere degli interroganti, appare quantomeno eccessivo ipotizzare relazioni tra lo stesso Casarini e la criminalità organizzata così come avviene nella relazione prodotta dalla questura di Palermo;
   la storia personale e pubblica di Luca Casarini, peraltro citata nella relazione di cui sopra, per la natura stessa dell'attività politica svolta, appare in netto contrasto con il rischio evidenziato dalla relazione della questura di Palermo;
   i reati e le condanne di Luca Casarini, infatti, sono tutte di carattere politico e frutto della sua militanza nei movimenti pacifisti, ambientalisti e di sinistra sociale. Gli interroganti non ravvisano, pertanto, il carattere della pericolosità sociale, causa ostativa al riconoscimento delle misure alternative al carcere o alla semplice concessione degli arresti domiciliari;
   appare oltremodo punitiva e, pertanto, contraria al ruolo della pena per come evidenziato nel testo della Costituzione, la non concessione delle misure alternative avanzate per conto di Luca Casarini;
   occorrerebbe comprendere in che modo sia stata ravvisata la pericolosità sociale di Luca Casarini, causa principale della mancata concessione delle misure alternative della pena –:
   se il Governo sia a conoscenza di quali siano gli elementi alla base dell'individuazione, da parte della questura di Palermo, di possibili relazioni tra la criminalità organizzata e l'attività di Luca Casarini, tenendo anche conto del significato che assume tale affermazione nel territorio siciliano e palermitano in particolare e in caso contrario, se intenda acquisire informazioni dalla questura medesima; (4-13419)

ISTRUZIONE, UNIVERSITÀ E RICERCA

Interrogazioni a risposta immediata in Commissione:

VII Commissione:


   D'UVA, LUIGI GALLO, VACCA, SIMONE VALENTE, MARZANA, DI BENEDETTO, BRESCIA, LUIGI DI MAIO, SIBILIA, FICO, DE LORENZIS, DIENI, NESCI, LOREFICE, PARENTELA, LUPO, TOFALO, SILVIA GIORDANO, COLONNESE, CANCELLERI, D'AMBROSIO, PISANO, RIZZO, MANNINO, LIUZZI, VILLAROSA, MICILLO e SCAGLIUSI. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   l'Agenzia per la valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur) sovraintende al sistema pubblico nazionale di valutazione della qualità delle università e degli enti di ricerca, cura la valutazione esterna della qualità delle attività delle Università e degli Enti di Ricerca destinatari di finanziamenti pubblici e indirizza le attività dei Nuclei di valutazione e, infine, valuta l'efficacia e l'efficienza dei programmi pubblici di finanziamento e di incentivazione alle attività di ricerca e innovazione;
   tra i compiti essenziali dell'Agenzia figurano la valutazione della qualità dei processi, i risultati e i prodotti delle attività di gestione, formazione, ricerca, trasferimento tecnologico delle attività delle Università e degli Enti di Ricerca, nonché la definisce i criteri e le metodologie per la valutazione delle sedi e dei corsi di studio, ivi compresi i dottorati di ricerca, i master e le scuole di specializzazione, ai fini dell'accreditamento periodico delle strutture da parte del Ministro;
   tra le funzioni di fondamentale rilievo vi è l'elaborazione, su richiesta del Ministro, dei parametri di riferimento per l'allocazione dei finanziamenti statali, ivi inclusa la determinazione dei livelli essenziali di prestazione e dei costi unitari riferiti a specifiche tipologie di servizi, compito che negli ultimi anni risulta essere essenziale per la determinazione dei finanziamenti da erogare all'università italiane per assicurarne il corretto funzionamento;
   l'importanza dell'Agenzia di valutazione viene determinata con maggiore chiarezza dall'articolo 1, comma 4, della legge 30 dicembre 2010, n. 240, denominata «riforma Gelmini», secondo il quale «Il Ministero, nel rispetto della libertà di insegnamento e dell'autonomia delle università, indica obiettivi e indirizzi strategici per il sistema e le sue componenti e, tramite l'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur) per quanto di sua competenza, ne verifica e valuta i risultati secondo criteri di qualità, trasparenza e promozione del merito»;
   la stessa norma dispone che tale valutazione dovrà essere effettuata, inoltre, «anche sulla base delle migliori esperienze diffuse a livello internazionale, garantendo una distribuzione delle risorse pubbliche coerente con gli obiettivi, gli indirizzi e le attività svolte da ciascun ateneo, nel rispetto del principio della coesione nazionale, nonché con la valutazione dei risultati conseguiti»;
   per il raggiungimento di tali fini andranno utilizzati criteri specifici, quali l'introduzione «di un sistema di valutazione periodica basato su criteri e indicatori stabiliti ex ante, da parte dell'ANVUR, dell'efficienza e dei risultati conseguiti nell'ambito della didattica e della ricerca dalle singole università e dalle loro articolazioni interne, il potenziamento del sistema di autovalutazione della qualità e dell'efficacia delle proprie attività da parte delle università, anche avvalendosi dei propri nuclei di valutazione e dei contributi provenienti dalle commissioni paritetiche»;
   con l'emanazione della legge 30 dicembre 2010, n. 240, nonché i successivi decreti attuativi, il legislatore ha così inteso introdurre per il sistema universitario e della ricerca italiano un modello di valutazioni periodiche affidato alla gestione dell'Agenzia;
   tuttavia, a oggi, risultano rilevanti ed evidenti le distorsioni derivate dall'applicazione materiale di tali precetti normativi, i quali hanno condotto ad uno svilimento della funzione formativa universitaria, nonché ad un progressivo allontanamento qualitativo e funzionale tra gli atenei italiani, i quali beneficiano di finanziamenti «premiali» basati su criteri non evidentemente adeguati a valorizzare il merito, ovvero su attribuzioni economiche direttamente sottratte all'ordinario finanziamento delle università italiane, in quanto parte integrante del Fondo di finanziamento ordinario (FFO);
   domenica 22 maggio 2016 è stato pubblicato su Il Mattino e Il Corriere del Mezzogiorno un manifesto, frutto di una ricerca finanziata da una raccolta fondi tra docenti della Federico II e di altri atenei campani, intitolato «Dieci bugie sull'università». Il citato manifesto, nel denunciare le maggiori inesattezze propagandate sull'università, fa riferimento all'incapacità dell'attuale sistema di valutazione di premiare gli atenei meritevoli. Sottolinea, in proposito, che «l'attuale sistema non prevede risorse aggiuntive per i “meritevoli”; viene solo ridistribuita tra gli atenei una quota dello scarso e decrescente finanziamento ordinario sulla base di criteri che vengono cambiati continuamente (in 6 anni 22 diversi criteri !) e stabiliti a posteriori. Valutazione e merito, valori nei quali crediamo fortemente, sono utilizzati strumentalmente per giustificare una brutale riduzione del finanziamento al sistema universitario pubblico favorendo alcune Università del Nord»;
   già in data 27 luglio 2015 il quotidiano consultabile online « il Sole 24 ore», riportava alcuni dati che ben evidenziavano come i maggiori effetti di tali distorsioni si siano prodotti a danno degli atenei meridionali, dal momento che «accanto a università che si sono viste ridurre l'assegno di quasi un terzo ci sono (pochi) atenei che addirittura poggiano su fondi più robusti del passato. Ai due capi della classifica si incontrano da un lato Messina e Palermo, che nel 2015 hanno ricevuto il 30 per cento abbondante in meno rispetto ai fondi statali su cui avevano potuto contare sette anni prima, e dall'altro Bergamo e il Politecnico di Torino, che possono contare rispettivamente su un +11,4 per cento e su un + 7,3 per cento»;
   la bontà di tali dati, anche se indirettamente, veniva confermata dallo stesso Anvur, il quale in data 18 marzo 2014 l'Anvur presentava il «Rapporto sullo stato dell'università e della ricerca in Italia», dal quale emergeva l'allarmante condizione del sistema universitario nazionale, con significative differenze territoriali e, soprattutto, con un numero degli immatricolati, «in calo del 10 per cento nelle regioni del Nord Italia, del 25 per cento nelle regioni del Sud e, infine, del 30 per cento nel Mezzogiorno»;
   in data 25 aprile 2015 il comitato di selezione dell'agenzia emanava il relativo bando, attuando le disposizioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 1o febbraio 2010, n. 76, in merito alla raccolta delle candidature a membro del consiglio direttivo dell'Anvur, nel quale veniva richiesta ai candidati la produzione di un elaborato scritto in cui illustrare sinteticamente le principali linee d'intervento, indirizzi di gestione, strategie di sviluppo, criteri e metodi di valutazione dell'Agenzia in base ai quali lo stesso candidato intendeva orientare la propria funzione, nel caso in cui avesse assunto il ruolo di componente del consiglio direttivo dell'Anvur;
   l'importanza e l'incidenza dell'agenzia per la valutazione del sistema Universitario e della ricerca (Anvur) in relazione al funzionamento del sistema universitario italiano appaiono, quindi, in tutta la loro evidenza, e sono confermate dallo stesso ministero, dal momento che lo stesso ha inteso selezionare i candidati al Consiglio dell'Anvur attraverso un elaborato che rendesse conoscibili ex ante le principali «linee d'intervento, indirizzi di gestione, strategie di sviluppo» dei consiglieri candidati, così a poter effettuare una selezione che garantisse una parziale conoscenza delle future scelte poste in essere dall'Anvur;
   nel corso delle procedure venivano selezionati per la nomina 15 candidati: Fabio Beltram, Daniele Checchi, Raffaele Di Raimo, Mario Diani, Maria Cristina Marcuzzo, Guido Martinelli, Maria Luisa Meneghetti, Paolo Miccoli, Luigina Mortari, Paolo Rossi, Raffaella Rumiati, Guido Saracco, Giorgio Sesti, Susanna Terracini, Maurizio Vichi;
   in data 6 agosto 2015, il Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca Stefania Giannini, approvava l'avvio della procedura per la nomina di Daniele Checchi, Paolo Miccoli, Raffaella Rumiati e Susanna Terracini quali componenti del consiglio direttivo dell'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca;
   il 16 settembre la VII Commissione del Senato esprimeva parere favorevole sulla nomina di tutti i candidati, evidenziando, tuttavia, un'insufficiente trasparenza in merito ai criteri di scelta dei candidati, non conoscendosi, infatti, le motivazioni che hanno portato alla selezione di queste personalità a fronte di 121 candidati;
   tra questi, in particolare, figurava il professore Paolo Miccoli, indicato dal Ministro Giannini come uno dei quattro nuovi membri del Consiglio Direttivo Anvur, e risultato al centro di numerose polemiche, dal momento che alcune linee programmatiche esposte nell'elaborato propedeutico alla sua selezione, apparivano identiche a passaggi di alcuni testi facilmente reperibili su Diritto.it, alimentando ulteriormente i dubbi sui metodi e sui criteri di valutazione dell'agenzia;
   in data 24 settembre 2015 veniva depositata l'interrogazione a risposta in commissione n. 5/06483 a prima firma D'Uva, attraverso la quale si richiedeva al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca di «assicurare al consiglio direttivo dell'Anvur, anche in considerazione del fondamentale ruolo ricoperto dall'Agenzia, una maggior rappresentatività di tutte le università italiane, assicurando l'adozione di politiche idonee ad arginare il progressivo allontanamento degli atenei»;
   nello stesso atto si richiedeva, in particolare, adeguata trasparenza nella procedura di nomina di quattro consiglieri dell'Agenzia, selezionati a seguito di regolare bando di concorso ma i cui relativi verbali ed elaborati non venivano resi pubblici, e quindi conoscibili, né dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, né dall'Anvur;
   già all'interno della citata interrogazione veniva rilevato «come dei tre consiglieri dell'Anvur già eletti, solo uno risulti essere un possibile riferimento di Atenei del meridione, comportando, per tali motivi, un evidente squilibrio territoriale nella rappresentanza dell'Agenzia, essendo ben 6 i consiglieri certamente legati, per propria estrazione, ad università situate nel settentrione d'Italia»;
   ad avviso degli interroganti la condizione del sistema universitario italiano, all'interno del quale si determinava, e si determina ancora oggi, una evidente sofferenza funzionale degli atenei meridionali strettamente connessa sia ai progressivi tagli di spesa relativi al Fondo di Finanziamento ordinario, nonché alla sottrazione delle risorse da destinare per fini premiali così come evidenziata, avrebbe dovuto condurre ad una maggiore rappresentanza all'interno del Consiglio dell'Agenzia;
   in data 24 novembre 2015 l'Anvur annunciava l'entrata in carica dei quattro nuovi componenti del consiglio direttivo dell'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della Ricerca, il professore Daniele Checchi, ordinario presso l'università Statale di Milano, il professore Paolo Miccoli, ordinario presso l'Università di Pisa, la professoressa Raffaella Rumiati, ordinario presso la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste e la professoressa Susanna Terracini, ordinario presso l'università di Torino;
   i consiglieri sono stati nominati con decreto del Presidente della Repubblica del 19 ottobre 2015, su proposta del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca e sentite le competenti commissioni parlamentari. A partire da tale data decorrono i quattro anni dei rispettivi mandati, ai sensi dell'articolo 22, comma 1, lettera a), del decreto-legge del 12 settembre 2013, n. 104, convertito con modificazioni dalla legge d'ell'8 novembre 2013, n. 128;
   in data 2 maggio 2015 il sito internet consultabile online « Roars.it» pubblicava alcune dichiarazioni di uno dei quattro neo consiglieri dell'Anvur citati in premessa, il professore Daniele Checchi, il quale, pur evidenziando le note difficoltà degli atenei meridionali, proponeva una visione delle possibili cause, nonché delle eventuali soluzioni, certamente preoccupante per il futuro delle università del Sud Italia;
   in tale sede il consigliere dell'Anvur come «il Sud, come ho scritto nel titolo, a mio parere, si è suicidato, non è stato ucciso, allora il problema è che poter creare una base di discussione che sia, tra virgolette, “accettabile” al resto del paese, occorre chiarire i meccanismi di accountability», affermando, inoltre, «al Sud basta facoltà di Giurisprudenza con rispetto ai colleghi eventualmente presenti che siano laureati in Giurisprudenza in università del Sud. Perché è un input produttivo che non serve, non serve a quella regione lì. E quindi uno dice: chiudo dei corsi, li chiudo d'autorità, sposto il personale da altre parti perché invece voglio promuovere degli altri corsi»;
   nel corso della sua analisi il membro del consiglio ha quindi chiarito «le università del Sud, a finanziamenti attuali, non ce la faranno mai a ridiventare competitive con le università del Nord. Però, questo è un problema da discutere politicamente: cioè se il paese vuole o non vuole avere un sistema universitario degno di questo nome al Sud»;
   tuttavia dalle parole apprese dal docente rileva l'attuale condizione degli atenei meridionali sostenendo come prendendo quale «punto di riferimento, il 2008, per cui andiamo a vedere nel corso dei tre anni, qui vedete che sostanzialmente le università del Sud perdono circa due o tre punti percentuali sia su tutto il versante delle entrate sia sul versante delle iscrizioni sia sul versante dei docenti – leggermente meno sul versante dei docenti. Il che ci dice, fondamentalmente, che il fenomeno è un fenomeno di ridimensionamento, di cui è difficile dire che cosa parta per primo: calano i docenti, calano gli iscritti, calano i finanziamenti»;
   «quando si sentono ogni tanto in CRUI i rettori delle università del Sud», concludeva il consigliere «loro invocano la loro funzione sociale nel contenimento del tasso di disoccupazione giovanile. È una terza missione anche questa, se si vuole. Però, diciamolo esplicitamente: allora diciamo che un pezzo della necessità di mantenere alcune università in alcune aree problematiche del paese è svolgere questa cosa qui»;
   dall'analisi del professore Daniele Checchi viene confermato un preoccupante quadro dell'attuale condizione meridionale, con valutazioni che, tuttavia, sollevano forti perplessità sia nel merito, anche in considerazione del fondamentale ruolo ricoperto dallo stesso docente, sia nei possibili profili discriminatori a cui queste potrebbero condurre;
   è bene ricordare come già in data 18 febbraio 2015 il quotidiano consultabile on-line « Il Corriere della Sera» riportava le dichiarazioni del Primo Ministro Matteo Renzi, il quale, pur sostenendo l'idea della «presenza di università di serie A e di serie B», dichiarava di non voler adoperarsi affinché a tutti gli atenei italiani venisse data la possibilità di risultare competitive;
   tali dichiarazioni, ad avviso degli interroganti, in considerazione del ruolo ricoperto dal professor Daniele Checchi, richiedono una urgente valutazione di merito da parte del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, dal momento che Anvur svolge un ruolo determinante sia nell'assegnazione dei finanziamenti agli atenei, sia nel sistema di accreditamento e di valutazione dei corsi universitari –:
   quale sia l'orientamento del Ministro interrogato sulla possibilità di sopprimere alcuni corsi universitari presso gli atenei meridionali, così come proposta dal consigliere dell'Agenzia per la valutazione del sistema universitario e della ricerca, professor Daniele Checchi, e, in caso di parere difforme, quali iniziative intenda assumere per garantire l'imparzialità del sistema di valutazione del sistema universitario.
(5-08853)


   VEZZALI. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   quando gli istituti sono sottodimensionati non hanno né un dirigente scolastico né un direttore amministrativo titolari, bensì in reggenza a metà servizio con altri istituti;
   per il dirigente scolastico è previsto un automatismo per il riconoscimento dell'indennità di reggenza, altrettanto non succede per i direttori amministrativi e si arriva all'assurdo che a tutt'oggi i direttori amministrativi, reggenti dal 1o settembre 2015, non abbiano ancora riconosciuto dopo dieci mesi, il diritto all'indennità –:
   se non ritenga necessario assumere iniziative per prevedere, come già avviene per i dirigenti scolastici, un automatismo per l'assegnazione dell'indennità di reggenza anche per i direttori amministrativi, tenendo anche conto della gravosa mole di lavoro che questi hanno sulle spalle e per il raddoppio delle responsabilità che assumono durante la reggenza. (5-08854)


   PANNARALE, GIANCARLO GIORDANO e CARLO GALLI. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   con i decreti ministeriali nn. 902 e 904 del 5 novembre 2013, il Ministro pro tempore Maria Chiara Carrozza ha avviato la sperimentazione dell'abbreviazione del percorso di studi della scuola secondaria, autorizzando quattro scuole statali (il liceo ginnasio statale «Quinto Orazio Flacco» di Bari, l'istituto di istruzione superiore Majorana di Brindisi, l'istituto tecnico economico Tosi di Busto Arsizio, l'IS Anti di Verona), ad attivare in rete un progetto di innovazione metodologico-didattica che prevede l'abbreviazione del percorso di studi da cinque a quattro annualità a decorrere dall'anno scolastico 2014-2015, autorizzazione successivamente estesa anche a tre istituti paritari (il liceo Guido Carli di Brescia, il collegio San Carlo di Milano e l'istituto Olga Fiorini di Busto Arsizio);
   la sperimentazione trovava fondamento giuridico all'articolo 11 del decreto del Presidente della Repubblica n. 275 del 1999 (regolamento recante norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche), che autorizza la promozione di nuovi progetti e di iniziative innovative delle singole istituzioni scolastiche riguardanti gli ordinamenti degli studi, la loro articolazione e durata, l'integrazione fra sistemi formativi, i processi di continuità e orientamento;
   la suddetta sperimentazione giungeva dopo che il Ministro pro tempore Profumo nel suo atto di indirizzo finale, aveva indicato tra le priorità quello dell'adeguamento della durata dei percorsi di istruzione agli standard europei, superando la maggiore durata degli studi italiani attraverso la riduzione degli anni totali di scuola dagli attuali 13 a 12, con il ricorso alla «quadriennalizzazione» delle medie superiori senza tuttavia passare per una riforma complessiva dei cicli scolastici;
   il ministro interrogato, che nel frattempo aveva autorizzato altri quattro istituti italiani a sperimentare il suddetto percorso di studi abbreviato e precisamente due licei statali (il «Garibaldi» di Napoli ed il «Telesi» di Telese Terme) e due paritari (l’«Esedra» di Lucca ed il «Galeazzo Visconti» di Roma), in una intervista rilasciata nel 2014 aveva dichiarato di voler portare doverosamente a compimento la sperimentazione avviata dai suoi due predecessori, ma che un'eventuale ingresso più precoce dei nostri ragazzi nel mondo del lavoro non potesse prescindere da una rivisitazione complessiva del secondo ciclo d'istruzione;
   già con la «riforma Gelmini» era stato sensibilmente ridotto il tempo delle attività scolastiche in tutti gli ordini di scuola: nella scuola primaria si è passati da 32 a 27 ore obbligatorie; nella scuola secondaria di primo grado da 33 a 30 ore obbligatorie; nei licei da 30/35 a 27 ore nel primo biennio e 30 ore nel secondo biennio e al quinto anno, negli istituti tecnici da 35/36 a 32 ore per l'intero percorso, negli istituti professionali da 40/36 a 32 ore;
   il richiamato articolo 11 del decreto del Presidente della Repubblica n. 275 del 1999 stabilisce che i progetti sperimentali devono avere una durata predefinita e che, una volta attuati, devono essere sottoposti a valutazione dei risultati, sulla base dei quali possono essere definiti nuovi curricula e nuove scansioni degli ordinamenti degli studi;
   è difficile immaginare che la riduzione dell'orario scolastico, nel lungo periodo, possa comportare effetti virtuosi sulla formazione sociale, culturale e relazionale dei giovani, così come rimane misterioso quale rapporto possa intercorrere tra la lotta alla dispersione scolastica ed il taglio di un anno di frequenza della scuola;
   appare alto il rischio che comprimere i tempi di apprendimento significhi abbandonare l'idea del «crescere apprendendo» per passare a saperi nozionistici e ad una conseguente scarsa possibilità di costruire pensiero critico e capacità di elaborazione;
   tutte le riforme che negli ultimi anni hanno coinvolto il sistema dell'istruzione, dall'infanzia all'università, hanno dimostrato di avere come unico denominatore comune il risparmio e la riduzione delle ore curriculari, con la conseguenza che meno tempo dedicato alla scuola equivale a meno formazione, a meno garanzie sulla qualità della didattica ed a perdita di occupazione;
   non c’è ad esempio alcuna chiarezza su come verranno ripartite in quattro anni le 1023 ore del 5o anno del liceo classico, quali curricula verranno implementati e quale didattica verrà consigliata per consentire ai ragazzi di raggiungere preparazione e competenze paragonabili ed assimilabili a quelle attuali;
   nell'ambito di una risposta espressa giovedì 24 aprile 2014 presso la commissione cultura all'atto n. 5-02500, il Ministro aveva dichiarato che la sperimentazione deve garantire agli alunni, anche mediante il ricorso alla flessibilità didattica e organizzativa consentita dall'autonomia scolastica, il raggiungimento degli obiettivi specifici di apprendimento e delle competenze previsti per il quinto anno della scuola secondaria superiore, e che era già in corso la fase istruttoria di valutazione di ulteriori ed analoghe proposte presentate da altre istituzioni scolastiche, sia statali sia paritarie;
   contemporaneamente la federazione dei lavoratori della conoscenza Cgil impugnava decreti ministeriali n. 902 e n. 904 del 5 novembre 2013 con i quali era stata autorizzata la sperimentazione, ritenendo quest'ultima una scelta non fondata sul piano metodologico-didattico, poiché consistente in mera abbreviazione del corso di studi al di fuori di un valido progetto formativo e di istruzione in grado di compensare adeguatamente il taglio di un anno e di coniugare autonomia delle istituzioni scolastiche e bisogni del territorio, e un'operazione illegittima sul piano procedurale poiché priva del parere obbligatorio del Consiglio nazionale della pubblica istruzione. Inoltre, considerate le evidenti ricadute sia sul piano ordinamentale sia su quello occupazionale, la stessa federazione dei lavoratori delle conoscenze Cgil, chiedeva al Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca di interrompere le sperimentazioni e di aprire una fase di ascolto in grado di coinvolgere il mondo della scuola e le sue rappresentanze sindacali, professionali e studentesche;
   con sentenza del 16 settembre 2014 la sezione III bis del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, riconoscendo l'illegittimità formale dell'operazione–in assenza del prescritto parere del CNPI e ritenendo fondato il timore rappresentato dalla Federazione dei lavoratori della conoscenza Cgil per una evidente disparità di trattamento con coloro che effettuano il corso di studi quinquennale, ha accolto il suddetto ricorso dichiarando illegittima la sperimentazione avviata dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca in alcune scuole del territorio nazionale con i decreti ministeriali n. 902 e n. 904 del 5 novembre 2013;
   a seguito dell'appello dell'Avvocatura di Stato al suddetto pronunciamento, cui si era aggiunta la « class action» di 42 genitori di altrettanti ragazzi del liceo Flacco di Bari a sostegno della linea ministeriale, il Consiglio di Stato con la sentenza n. 832 del 18 febbraio 2015, ha ribaltato la decisione del Tribunale amministrativo regionale dichiarando legittima la sperimentazione;
   già nel mese di maggio del 2014, in una intervista rilasciata al quotidiano «Corriere della sera», il Ministro interrogato aveva manifestato dubbi sul percorso abbreviato e perplessità sulla possibilità di estendere le sperimentazioni a tutte le scuole secondarie superiori di secondo grado, tanto da dichiarare nell'ambito della stessa intervista: «Il liceo quadriennale ? E una possibilità, ma deve essere pensato all'interno di un riordino complessivo delle scuole superiori. Perché se l'obiettivo è solo quello di far iscrivere i ragazzi all'università un anno prima, allora perché non mandarli alle elementari all'età di 5 anni ?»;
   i decreti ministeriali nn. 902 e 903 prevedono, all'articolo 4, che i direttori generali degli uffici scolastici regionali per la Lombardia, il Veneto e la Puglia costituiscano un Comitato scientifico con funzioni consultive e di proposta per l'organizzazione e l'utilizzazione degli spazi di autonomia e flessibilità presso gli istituti, con particolare riguardo al coinvolgimento di tutte le discipline e di tutti gli insegnamenti nel progetto di innovazione, nonché la predisposizione di una relazione annuale su sviluppi ed esiti del progetto;
   risulta agli interroganti che i suddetti comitati scientifici siano stati istituiti dai soli USR di Lombardia e Puglia, con atti peraltro di difficile reperimento non essendo pubblicati sulle piattaforme istituzionali del Ministero dell'istruzione, e dell'università e della ricerca, ne su quelle dei relativi USR. Gli stessi docenti del liceo «Flacco» di Bari lamentano l'assenza di qualunque tipo di intervento e controllo da parte del comitato;
   nonostante siano trascorsi due anni e mezzo dall'avvio della sperimentazione, l'esperienza sembra essersi arenata, e venti richieste di adesione da parte di altrettante scuole al progetto sono state respinte dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, il quale ha rimandato ogni successiva scelta ad un bando nazionale che avrebbe dovuto essere varato, con criteri più stringenti, lo scorso mese di marzo 2016. Secondo le valutazioni del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca gli standard offerti dalle scuole ricorrenti, soprattutto quelle non statali, sarebbero ancora bassi –:
   per quali ragioni, a distanza di due anni e mezzo dall'avvio della sperimentazione in premessa, questa non sia stata estesa ad altre realtà scolastiche, quali siano le linee guida, i criteri, i vincoli e le garanzie che la governano, se sia in possesso dei risultati e delle verifiche annuali effettuate fino ad oggi dall'organo all'uopo preposto e se non ritenga di dover piuttosto istituire una commissione ministeriale che effettui dei controlli periodici sullo stato di attuazione e sui risultati della sperimentazione e che avvii una valutazione sul valore effettivamente formativo ed educativo della stessa. (5-08855)


   PALMIERI. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   con il riconoscimento della parità scolastica ai sensi della legge n. 62 del 10 marzo 2000 le scuole paritarie sono diventate parte integrante del sistema nazionale di istruzione; le norme in materia definiscono diritti e doveri che impegnano le scuole paritarie che in tal modo svolgono un servizio pubblico e contribuiscono alla realizzazione delle finalità di istruzione che la Costituzione attribuisce al sistema scolastico;
   ciò nonostante le scuole paritarie subiscono una disparità di trattamento in merito alla partecipazione al piano per la scuola digitale previsto dalla legge n. 107 del 2015 per l'attuazione del quale si destinano risorse esclusivamente alle scuole statali;
   come esplicitato dal sottosegretario all'istruzione, università e ricerca, Angela D'Onghia, in sede di risposta all'interrogazione n. 5-8337 infatti le risorse destinate all'attuazione del piano nazionale per la scuola digitale sono vincolate ad essere destinate in favore delle istituzioni scolastiche statali in quanto provenienti dal Fondo per il funzionamento delle istituzioni scolastiche rivolto in via esclusiva a queste ultime;
   la partecipazione delle scuole paritarie ai progetti attuativi del piano per la scuola digitale può avvenire solo se queste si costituiscono in rete con istituzioni scolastiche statali, assumendo di fatto un ruolo passivo nei confronti della definizione di contenuti e modalità organizzative dei progetti stessi;
   il piano per la scuola digitale, che è stato definito quale passo fondamentale per dare agli studenti e agli insegnanti le competenze necessarie per studiare e lavorare nell'era digitale, nel concreto estromette oltre un milione di alunni delle scuole paritarie e i loro docenti nonostante il sapere digitale rappresenti un tema di bene comune –:
   se il Ministro interrogato non ritenga necessario assumere iniziative nel breve termine per modificare la normativa in materia al fine di prevedere una fonte di finanziamento che permetta alle scuole paritarie di partecipare al piano nazionale per la scuola digitale a parità di condizioni e in maniera autonoma rispetto alle istituzioni scolastiche statali. (5-08856)


   COSCIA, CAROCCI, ROCCHI, SGAMBATO, MALPEZZI, ASCANI, D'OTTAVIO, GHIZZONI, BLAZINA, PES, IORI, VENTRICELLI, DALLAI, COCCIA, MANZI, BONACCORSI, RAMPI, MALISANI e NARDUOLO. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   vi è grande preoccupazione per la tempistica, relativa alla pubblicazione del bando per il nuovo concorso per dirigenti scolastici;
   infatti, il prossimo anno scolastico si prevede all'insegna dell'emergenza: ai 1.200 istituti oggi già in reggenza, su 8.500 totali, se ne aggiungeranno circa altri 1.000 a causa dei pensionamenti;
   si ricorda che, in origine, la pubblicazione del decreto era prevista per dicembre 2014, data già rinviata al 31 marzo del 2015. A ciò si aggiunge che i tempi per lo svolgimento di tutte le prove è di circa 12 mesi, cui bisognerà aggiungere 4 mesi di corso e 4 di tirocinio;
   l'articolo 17 della legge n. 128 del 2013 stabilisce che il prossimo concorso debba essere nazionale, bandito annualmente e affidato alla Scuola nazionale dell'amministrazione che emana il bando, in base ad un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri su proposta del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca di concerto con il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione e con il Ministero dell'economia e delle finanze;
   il decreto-legge n. 58 del 2014, convertito nella legge n. 87 del 2014 è intervenuto sui tempi di emanazione e all'articolo 1, comma 2-ter, ha stabilito che, entro il 31 dicembre 2014, sarebbe stato bandito il primo concorso;
   tuttavia, con la legge n. 11 del 2015 la scadenza dell'emanazione del bando è stata prorogata dal 31 dicembre 2014 al 31 marzo 2015;
   inoltre, con il comma 202 della legge n. 107 del 2015 è stata prevista l'assegnazione di 1 milione di euro alla SNA per le procedure concorsuali;
   la legge n. 208 del 2015 con i commi 217 e 218, modifica parte dell'articolo 17 del decreto-legge n. 104 del 2013 e l'articolo 29 del decreto legislativo n. 165 del 2001; in tale senso, si prevede il ritorno dalla Scuola nazionale dell'amministrazione al Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca della regia del concorso nazionale e dei relativi fondi necessari allo svolgimento delle procedure concorsuali;
   per il resto è confermato quanto previsto dall'articolo 17 del decreto-legge n. 104 del 2013: requisiti per partecipare, prova preselettiva, una o più prove scritte, prova orale, svolgimento del corso-concorso in giorni ed orari e con metodi didattici compatibili con l'attività didattica svolta dai partecipanti con eventuale riduzione del loro carico didattico, spese di viaggio e alloggio a carico partecipanti;
   tuttavia, ad oggi – nonostante questa vasta produzione legislativa – non è stata stabilita alcune data per l'emanazione del bando e per lo svolgimento delle prove concorsuali;
   appare evidente come un ulteriore rinvio renderebbe assai complessa la gestione delle scuole;
   è, dunque, necessario che siano avviati tempestivamente tutti gli adempimenti che servono per procedere alla rapida assunzione del numero necessario di dirigenti scolastici;
   sull'argomento è stata già presentata l'interrogazione a risposta in Commissione n. 5-07762 alla quale il Governo ha risposto in data 21 aprile 2016, precisando, tra l'altro, che, una volta terminato l’iter di definizione del decreto ministeriale relativo alle modalità di svolgimento delle procedure concorsuali, si sarebbe proceduto tempestivamente a indire il concorso –:
   quale sia la data prevista per la pubblicazione del bando e se l'espletamento della procedura concorsuale consentirà la copertura di posti vacanti e conseguentemente la riduzione delle reggenze, già con l'avvio del prossimo anno scolastico. (5-08857)

Interrogazioni a risposta in Commissione:


   VEZZALI. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   gli istituti comprensivi e gli istituti di istruzione superiore hanno incrementato negli ultimi anni le loro dotazioni tecnologiche ma a parte gli istituti superiori che hanno la figura dell'assistente tecnico, nei comprensivi questa figura manca;
   gli istituti comprensivi sono costretti, per sopperire a questa carenza, a ricorrere a contratti di assistenza con privati (sovente molto onerosi) per garantire l'efficienza e il funzionamento delle numerose dotazioni informatiche presenti nelle loro sedi;
   gli assistenti amministrativi degli istituti scolastici non possono essere sostituiti attraverso nomine di supplenti se nell'istituto il numero degli assistenti non si riduce per malattia e permessi fino ad arrivare al numero di due unità. Questa norma crea pesantissimi disservizi nella scuola, oltre a non riconoscere la professionalità dei dipendenti e penalizzare le segreterie scolastiche –:
   se il Ministro interrogato non ritenga utile assumere iniziative per prevedere l'assunzione di assistenti tecnici (magari in numero di uno per ogni tre istituti) per assicurare anche agli istituti comprensivi il supporto tecnico per le apparecchiature evitando loro il ricorso ai contratti di assistenza con i privati e rendendo più funzionale l'organizzazione scolastica;
   se non ritenga di dover assumere iniziative per rivedere la norma che di fatto impedisce la nomina di supplenti di assistenti amministrativi per l'ordinario funzionamento della scuola e non permette servizi efficienti, condizione insostenibile quando trattasi di istituto scolastico in reggenza. (5-08840)


   CHIMIENTI, CASTELLI, DELLA VALLE, VACCA, BRESCIA, D'UVA, MARZANA, SIMONE VALENTE, DI BENEDETTO e LUIGI GALLO. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   la campagna elettorale è disciplinata dalle leggi n. 212 del 4 aprile 1956, n. 515 del 10 dicembre 1993 e n. 28 del 22 febbraio 2000;
   per la campagna elettorale delle amministrative di Torino il sindaco uscente Piero Fassino ha arruolato più di 350 volontari reclutati attraverso una registrazione sul portale del sindaco (www.pierofassino2016.it/diventa-anche-tuvolontario-di-noi-siamo-torino), tra cui figurano studenti e neolaureati del corso di laurea in comunicazione pubblica e politica dell'università degli studi di Torino;
   alcuni studenti hanno aderito al progetto di ricerca del professor Cristopher Cepernich, docente del corso di laurea magistrale in comunicazione pubblica e politica di Torino, per conto del comitato «Noi siamo Torino» in cui opera lo stesso docente;
   il progetto di ricerca è stato pubblicizzato sulla bacheca Facebook del corso di laurea in comunicazione pubblica e politica il 18 dicembre 2015, con un annuncio riportante le seguenti indicazioni: «Stiamo organizzando occasioni di stage, ricerca sul campo per tesi di laurea e attività di laboratorio su community management, grassroots campaigning "alla Obama", analisi dati, social media management, storytelling politico», come riporta un articolo pubblicato sul «Fatto Quotidiano» in data 1o giugno 2016;
   come riportato nel suddetto articolo gli studenti, alcuni dei quali hanno ricevuto per questa campagna elettorale un bonifico di 2500 euro, hanno anche dovuto presenziare, per fare numero, alle interviste pubbliche ed ai vari incontri pubblici del sindaco uscente oltre a controbilanciare tramite i loro account i post negativi apparsi sui profili Facebook del sindaco uscente;
   gli studenti reclutati dal professor Cristopher Cepernich attraverso i canali ufficiali del corso di laurea, hanno tenuto le riunioni nelle aule universitarie e non presso il comitato elettorale di Fassino in via Pavia 18 a Torino e si sono recati in diversi quartieri torinesi per indossando pettorine rosse con scritte riportanti il nome del candidato sindaco Fassino;
   come riportato dal quotidiano «La Repubblica», in un articolo pubblicato in data 1o giugno 2016, la partecipazione alla campagna elettorale a sostegno del sindaco uscente e promossa dall'università di Torino è stata proposta agli studenti in cambio di crediti formativi e della possibilità di sostenere la tesi di laurea;
   il progetto di ricerca del professor Cristopher Cepernich non è stato proposto a sostegno di nessun altro candidato sindaco per le amministrative di Torino ma solamente al sindaco Piero Fassino;
   dall’account di posta facente riferimento alla associazione OCCP (Osservatorio sulla comunicazione politica e pubblica) costituita in seno all'università degli studi di Torino e facente riferimento al professor Cepernich, sono partite una serie di mail in cui si chiedeva ai destinatari di esprimere le proprie intenzioni di voto alle elezioni comunali del 5 giugno 2016, come dimostrato da un post pubblicato sul profilo Facebook della prima firmataria del presente atto, in data 2 giugno 2016;
   tale richiesta agli interroganti sembra a tutti gli effetti configurare gli estremi di un sondaggio elettorale, cui esiti potrebbero essere spesi a favore del medesimo comitato «Noi siamo Torino» e dunque indirettamente fornire informazioni al candidato sindaco Piero Fassino –:
   se il Ministero interrogato sia a conoscenza dell'utilizzo degli studenti dell'università di Torino per fare propaganda e campagna elettorale per il sindaco uscente Piero Fassino, considerato che tale progetto di ricerca appare agli interroganti non opportuno in ambito universitario;
   quali urgenti iniziative, anche normative, intenda intraprendere per evitare episodi come quello descritto escludendo che vi possa essere l'utilizzo di fondi universitari e statali per finalità politiche ed elettorali a vantaggio di una sola parte politica. (5-08844)


   PILOZZI e MALPEZZI. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   il 28 maggio 2016, presso l'aula magna del liceo linguistico di Anagni (FR), si è tenuta una iniziativa politica organizzata dal Movimento 5 Stelle – Meetup di Anagni – dal titolo «Incontro con la scuola»;
   l'incontro dibattito, moderato dal professor Mauro Meazza, si è tenuto all'interno dei locali scolastici – in particolare nell'Aula magna dell'Istituto – alla presenza della senatrice Enza Blundo, portavoce M5S al Senato;
   lo svolgimento di una iniziativa pubblica da parte di movimento politico all'interno dei locali di un istituto scolastico pubblico, costituisce per gli interroganti una gravissima violazione delle norme a disciplina della gestione degli istituti scolastici pubblici, nonché un pericoloso precedente di aperta propaganda politica;
   l'episodio risulta ancor più deprecabile per il fatto che il dibattito non è stato realizzato alla presenza di tutte le forze politiche, libere di avere una propria posizione sul tema della riforma della scuola in un libero confronto tra diverse posizioni, ma alla presenza di un solo gruppo politico, il M5S, in palese contrasto altresì con i principi di cui al decreto del Presidente della Repubblica 24 giugno 1998, n. 249;
   proprio la mancanza di un libero confronto tra le diverse posizioni circa il tema della riforma scolastica, conferma che l'iniziativa politica citata è stata realizzata in chiara e aperta violazione delle norme e dei principi che governano la gestione degli istituti scolastici pubblici, improntata, tra le altre cose, sulla trasparenza, il libero confronto tra le diverse posizioni, il dibattito –:
   se sia a conoscenza dell'episodio citato in premessa e se non ritenga opportuno intervenire, tramite le strutture ministeriali competenti, al fine di verificare eventuali violazioni delle norme che disciplinano la gestione degli istituti scolastici pubblici e del codice di comportamento dei dirigenti scolastici con conseguente assunzione di eventuali iniziative disciplinari. (5-08845)

Interrogazioni a risposta scritta:


   ANDREA MAESTRI. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   è dalla primavera del 2013 che l'Istituto superiore di studi musicali (ISSM) «G. Verdi» di Ravenna, si rivolge all'Amministrazione comunale affinché si attivi urgentemente per chiedere ed ottenere dal Ministero compete la statizzazione dell'istituto, come previsto dalla legge n. 508 del 1999;
   in conformità con l'esplicita richiesta del consiglio accademico, del collegio dei docenti e della consulta degli studenti dell'istituto Verdi, nella seduta del 31 ottobre 2013 il consiglio comunale di Ravenna ha approvato all'unanimità una mozione impegnandosi ad attivarsi «con la massima urgenza e determinazione presso tutte le sedi competenti, politiche e amministrative, per rilanciare il processo di statizzazione dell'Istituto Giuseppe Verdi»;
   si è al termine della consiliatura che si è assunta quell'impegno e, a tutt'oggi, la statizzazione del Verdi, prevista dalla Legge 508 del 1999 rimane inattuata, una mera promessa del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca per il 2017;
   l'istituto Verdi, le cui origini risalgono al 1826, rappresenta un'eccellenza formativa e culturale di Ravenna. Nonostante i suoi soli 25 insegnanti e 2 impiegati amministrativi, accoglie oggi circa 250 allievi, assolvendo al suo compito non soltanto per gli utenti della città di Ravenna, ma di tutta la provincia;
   un'eccellenza che, però, secondo l'interrogante è trattata come una «Cenerentola» e con superficialità dalla stessa amministrazione comunale: poche aule e di dimensioni inadeguate e assenza di un auditorium dove fare esercitazione e produzione musicale, di una sala studio e di un'aula informatica. Tante sono state le ipotesi avanzate, ma il risultato finale è che ad oggi l'istituto Verdi non può dispone di una sede idonea: condizione imprescindibile per il buon esito della procedura di statizzazione;
   a questo proposito si ricorda che il comune nel febbraio 2014 ha già avanzato una richiesta di statizzazione, ma secondo il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca sbagliando la modalità di inoltro, poiché il passaggio sotto lo Stato può avvenire solo per via legislativa;
   da tutto ciò si deduce che l'istituto Verdi non è tra le priorità dell'amministrazione comunale se si aggiunge anche la dimenticanza di inserirlo tra le eccellenze della città di Ravenna nel progetto per la candidatura a Capitale europea della cultura 2019, al contrario ad esempio della città di Matera, che nel suo progetto ha inserito il suo conservatorio e la sua banda, conquistando punteggio utile per il raggiungimento dell'obiettivo. Nonostante il Verdi stia formando musicalmente 250 giovani e rilasci diplomi accademici di primo e secondo livello (triennio e biennio), il comune continua a non avere nei suoi riguardi una capacità progettuale e un'alternativa praticabile, nel caso fallisse l'obiettivo di statizzazione, come iscriverlo alla competenza dell'assessorato all'università o inserirlo, nel progetto di un polo culturale (come ha fatto la città di Reggio Emilia). Il Ministero dell'Istruzione, dell'università e della ricerca se ne dovrebbe far carico e intervenire laddove le inadempienze delle amministrazioni locali rischiano di depauperare il territorio di eccellenze e patrimoni della collettività;
   lo stesso Ministero a quanto consta all'interrogante avrebbe finora ignorato le richieste avanzate in merito all'istituto «Verdi»;
   se il Governo sia a conoscenza dei fatti finora descritti e come intenda intervenire, nell'ambito delle sue competenze, per valorizzare il prezioso patrimonio di competenze dell'istituto superiore di studi musicali (ISSM) «G. Verdi» di Ravenna e se non ritenga opportuno impegnarsi ufficialmente, stabilendo tempi e modalità per la concessione della statizzazione dell'istituto, come previsto dalla legge n. 508 del 1999. (4-13404)


   CIRACÌ, MARTI, CHIARELLI, LATRONICO, DISTASO, PALESE, ALTIERI e FUCCI. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   l'articolo 10 del decreto legislativo n. 33 del 2013 sancisce l'obbligo per, tutte le amministrazioni pubbliche, di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 165 del 2001, di adottare il programma triennale per la trasparenza e l'integrità (PTTI) dando attuazione al principio della trasparenza inteso come «accessibilità totale delle informazioni concernenti l'organizzazione e l'attività delle pubbliche amministrazioni, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche (articolo 1, comma 1, del decreto legislativo 33 del 2013)»;
   anche le scuole sono destinatarie delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza previste dalla legge n. 190 del 2012, dai decreti attuativi, dal piano nazionale anticorruzione approvato dall'Autorità con delibera n. 72 del 11 settembre 2013 (PNA) e dal suo aggiornamento, approvato con determinazione ANAC n. 12 del 28 ottobre 2015 (aggiornamento 2015);
   in considerazione della contestuale entrata in vigore della normativa sulla cosiddetta «Buona scuola» nell'anno scolastico 2015/2016, si è reso necessario, su richiesta dello stesso Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca un ulteriore approfondimento volto a calibrare l'intervento regolatorio rispetto all'impatto che avrebbe avuto sull'intero sistema scolastico;
   l'ANAC con delibera n. 430 del 13 aprile 2016 ha fissato appositamente per le scuole il termine ultimo per adottare il programma triennale per la trasparenza e l'integrità entro il 30 maggio 2016, secondo le indicazioni riportate al paragrafo 3 delle stesse linee guida ANAC;
   il 16 maggio 2016, dopo appena un mese dalla pubblicazione della delibera ANAC n. 430 del 13 aprile 2016, si è appreso di un nuovo decreto legislativo approvato dal Consiglio dei ministri che apporterebbe numerose modifiche al decreto legislativo n. 33 del 2013, fra le altre abolendo il programma triennale per la trasparenza e l'integrità, per le pubbliche amministrazioni;
   tale decreto legislativo, denominato FOIA, alla data del 30 maggio 2016 – data entro cui le scuole avrebbero dovuto adottare il PTTI – non era stato ancora pubblicato in Gazzetta Ufficiale, ne attualmente è possibile conoscere quando e se tale decreto produrrà i sui effetti;
   il 27 maggio 2016, tuttavia, con nota del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca n. 1708, i capi dipartimento (per la programmazione e gestione delle risorse umane, finanziarie e strumentali e per il sistema educativo di istruzione formazione) hanno comunicato agli uffici territoriali la conseguente sospensione dell'adozione del programma triennale per la trasparenza a l'integrità da parte delle istituzioni scolastiche, annullando di fatto il termine del 30 maggio e lasciando la scadenza in sospeso –:
   se il Ministro sia a conoscenza dei fatti;
   se intenda chiarire in base a quali presupposti sia possibile che, prima ancora che un decreto legislativo produca i suoi effetti con l'abrogazione alcuni articoli del decreto legislativo n. 33 del 2013, i capi dipartimento del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca possano comunicare la sospensione dell'adozione del programma triennale per la trasparenza a l'integrità;
   come intenda intervenire per chiarire, entro breve tempo, in che modo le scuole, che già avessero ottemperato ad adottare il programma triennale per la trasparenza a l'integrità entro il termine, debbano operare. (4-13408)


   ASCANI. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   il 28 maggio 2016, dalle ore 10:00, presso Aula Magna del liceo linguistico statale «Regina Margherita», di Anagni (Fr), si è tenuto l'evento dal movimento 5stelle di Anagni, denominato: «meetup Anagni 5stelle, incontro con la scuola». Alla presenza di un unico relatore, la portavoce del movimento 5stelle al Senato della Repubblica, Senatrice Enza Blundo, e moderato da un docente dell'istituto scolastico; l'incontro ha avuto ad oggetto il tema della scuola, in generale, e delle recenti riforme del sistema scolastico, in particolare. Come si evince dalle numerose locandine affisse per le strade della città, tutte riportanti il simbolo del movimento politico, nonché dalle informazioni divulgate sui social network e sugli altri canali di comunicazione del Movimento 5stelle di Anagni, l'incontro è stato organizzato, gestito e diretto interamente del movimento politico ed ha coinvolto gli studenti e il corpo docenti della scuola statale, rimanendo anche aperto agli esterni, essendo a partecipazione libera;
   l'evento che si è descritto, chiaramente ha avuto matrice politica, nonostante il tema trattato potesse essere di interesse trasversale: dall'organizzazione interamente devoluta al Movimento 5 stelle, all'apposizione del suo simbolo sui manifesti alla scelta di un unico relatore suo esponente e portavoce. A fronte di questa evidenza non si comprende come sia stato possibile prestare dei locali di un ente pubblico statale, peraltro durante il periodo di campagna elettorale (che sebbene non coinvolga direttamente la città di Anagni, coinvolge invece le città limitrofe); ma, ancor di più non si comprende come sia stato possibile interrompere l'erogazione di un servizio pubblico (visto che l'evento si è tenuto il sabato mattina nell'ordinario orario scolastico), pretendendo di coinvolgere il corpo studenti e docenti, e lasciando aperti i locali scolasti a soggetti terzi, senza garanzia delle consuete procedure di controllo all'ingresso;
   orbene, quanto accaduto appare all'interrogante non solo irrispettoso dell'istituzione scolastica, degli studenti che la frequentano e dei docenti che vi prestano servizio, ma anche risulta contrario ai più elementari principi di pluralismo informativo e di libertà di autodeterminazione del pensiero e delle convinzioni politiche (specialmente se in età di formazione) –:
   se il Ministro interrogato sia a conoscenza di quanto esposto in premessa e quali siano le iniziative che intende adottare affinché non si ripeta ciò che è accaduto. (4-13416)


   PALESE. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   con la legge del 13 luglio 2015, n. 107, avente per oggetto «la riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e la delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti», il legislatore ha inteso favorire la costruzione di scuole innovative dal punto di vista architettonico, impiantistico, tecnologico, dell'efficienza energetica e della sicurezza strutturale ed antisismica, al fine di migliorare l'offerta formativa e scolastica;
   il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, con decreto del 7 agosto 2015, in attuazione della medesima legge, ha ripartito le risorse finanziarie disponibili tra le varie regioni ed ha stabilito i criteri da seguire per la costruzione delle scuole innovative, assegnando alla regione Puglia un plafond pari ad euro 21.633.515,50;
   la regione Puglia, in adempimento di quanto previsto dall'articolo 2 del citato decreto ministeriale, con delibera di giunta regionale n. 1639 del 18 settembre 2015 ha disposto l'avvio di apposita procedura di evidenza pubblica per acquisire le manifestazioni di interesse alla costruzione di scuole innovative da parte degli enti interessati ed ha individuato i criteri per la selezione delle stesse; indi, con determina a firma del dirigente del servizio scuola, università e ricerca n. 33 del 21 settembre 2015, è stato approvato il relativo avviso pubblico in conformità ai criteri di cui alla citata delibera di giunta regionale n. 1639 del 18 settembre 2015;
   con determina dirigenziale del 12 ottobre 2015 n. 37 (pubblicata sul Bollettino Ufficiale della regione Puglia n. 138 del 22 ottobre 2015) l'Amministrazione regionale ha approvato la graduatoria unica delle manifestazioni di interesse acquisite e ritenute ammissibili per la costruzione di scuole innovative, e nell'ambito della stessa al primo posto risultava posizionato (punteggio 164) il comune di Bari con un intervento stimato pari ad euro 9.500.000 (nove milioni e cinquecento euro), ed al secondo posto si classificava la provincia di Lecce con un intervento stimato pari a euro 12.000.000 (dodici milioni di euro) destinato alla demolizione e ricostruzione dell'istituto tecnico nautico nella città di Gallipoli;
   secondo l'ordine della graduatoria i due interventi sommati esaurivano la disponibilità delle risorse finanziarie assegnate dal Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca alla regione Puglia e pari ad euro 21.633.515,50;
   la provincia di Lecce, sulla scorta della determina dirigenziale n. 37 del 12 ottobre 2015 di approvazione della graduatoria degli interventi ammissibili proposti dagli enti locali, ha ragionevolmente confidato nella erogazione del finanziamento e con stupore e disappunto ha appreso soltanto di recente il contenuto della nota del 3 maggio 2016, con la quale il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca comunicava che «in considerazione delle risorse previste per la regione Puglia dal decreto del MIUR 7/08/2015 n. 593, è possibile ammettere al concorso di idee il solo comune di Bari in ragione delle variazione dell'importo comunicato»;
   in seguito alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del concorso di idee per la realizzazione di scuole innovative indetto dal Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca si apprendeva che per la regione Puglia, l'unica scuola interessata al concorso di idee e per la quale si dovranno esaminare le proposte progettuali dei concorrenti, è quella del comune di Bari, intervento per il quale si prevede un costo complessivo di euro 18.000.000, che sostanzialmente esaurisce le disponibilità assegnate alla regione Puglia e comunque preclude alla provincia di Lecce di soddisfare la propria domanda di finanziamento;
   successivamente la regione Puglia prendendo atto della rideterminazione del costo dell'intervento, confermava esclusivamente l'intervento relativo al comune di Bari e rappresentava comunque al Ministero «la necessità di assicurare il finanziamento anche dell'intervento della provincia di Lecce, in considerazione del fatto che trattasi di Istituto ad indirizzo nautico unico e di peculiare importanza per il territorio provinciale, che soffre da anni di una situazione logistica precaria e, in assenza degli interventi necessari, rischierebbe la chiusura dell'istituto»;
   in base a quanto sin qui esposto, la provincia di Lecce ha presentato ricorso al Tar sia contro la decisione del Ministero, sia contro quella della regione, vedendo pregiudicato il proprio diritto acquisito a beneficiare dei fondi così come previsto nella graduatoria iniziale;
   appare all'interrogante censurabile il comportamento della regione Puglia che prima ha ammesso a finanziamento l'intervento sul Nautico di Gallipoli, poi l'ha inopinatamente escluso esclusivamente sulla base del fatto che sono raddoppiati i costi dell'intervento su Bari;
   la condotta della regione risulta profondamente ingiusta e in contrasto con un diritto ormai acquisito da parte della provincia di Lecce a vedersi riconoscere il finanziamento –:
   sulla base di quali presupposti il Ministero dell'università, e della ricerca abbia consentito che, dopo il provvedimento di approvazione della graduatoria, uno degli enti concorrenti, ossia il comune di Bari, rinegoziasse con la regione Puglia, al di fuori di ogni forma di evidenza pubblica e delle condizioni fissate nel bando, il contenuto del proprio progetto, modificandolo in maniera così significativa tanto da raddoppiare il costo dell'intervento, che è passato da 9 milioni di euro a 18 milioni di euro;
   se il Ministro interrogato non ritenga di dover comunque garantire il finanziamento di 12 milioni di euro al progetto di ricostruzione del Nautico di Gallipoli, per ristabilire trasparenza e legittimità nell'intera procedura, per rispettare l'impegno che lo Stato ha assunto con la provincia di Lecce e per evitare di aggiungere al danno del mancato finanziamento del progetto destinato ai giovani di Gallipoli, anche la beffa di un contenzioso che farebbe perdere tempo e fondi sia allo Stato sia alla provincia, quindi ai cittadini. (4-13418)


   DIENI. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   l'accademia di belle arti di Reggio Calabria, la prima in ordine di istituzione in Calabria e la terza nell'Italia Meridionale, rappresenta una delle istituzioni di alta formazione artistica più importanti della città calabrese, riuscendo a porsi come strumento formativo, ma anche come ente promotore di ragguardevoli iniziative sul piano artistico, che danno lustro al territorio;
   purtroppo nell'ultimo anno quest'attività feconda dal punto di vista formativo e culturale è stata offuscata da fenomeni commendevoli, che sembrano pregiudicare il futuro dell'Accademia, almeno guardando alla sua conduzione amministrativa;
   è apparsa sulla stampa locale, infatti, la notizia di una protesta degli studenti, appoggiata dai docenti, in cui si lamentavano «disagi di natura didattica ed economica ovvero: mancanza di materiale didattico; offerta formativa non garantita; mancanza di assicurazione; mancanza di trasparenza amministrativa»;
   è ovviamente intollerabile che un'istituzione pubblica, specie se svolge attività di alta formazione, con predominanza laboratoriale, non garantisca la copertura assicurativa;
   la situazione di stallo in seno al consiglio di amministrazione, ha portato peraltro all'esercizio provvisorio che, subitaneamente revocato, avrebbe impedito la possibilità di sostenere nuove spese, tra le quali quella per il rinnovo della polizza, fatto che avrebbe condotto, a unto emerge dal carteggio tra il direttore ed il direttore amministrativo, già in possesso del direttore generale per la programmazione, coordinamento e finanziamento delle istituzioni della formazione superiore, all'impossibilità di garantire una copertura assicurativa anche agli studenti del Progetto Erasmus, fatto che avrebbe in effetti impedito, agli studenti di accedervi;
   che sostanziali criticità nella condizione del consiglio di Amministrazione e del ruolo del presidente Cosimo Carmelo Caridi siano risalenti e continue lo dimostra anche una deliberazione del consiglio accademico dell'11 settembre 2015 che esprime «un voto di netta sfiducia nei confronti del Presidente, inviata al On. Sig. Ministro in data 14 settembre 2015;
   occorrerebbe conoscere le motivazioni che ad oggi, nonostante il voluminoso carteggio in possesso del Mistero, unitamente alla relazione ispettiva già di alcuni mesi fa, hanno indotto lo stesso a non revocare con indifferibile urgenza il proprio provvedimento prot. n. 931 del 22 dicembre 2014, col quale nominava presidente dell'Accademia di belle arti di Reggio Calabria, Caridi Cosimo Carmelo, ormai sin da settembre 2015 sfiduciato da parte del consiglio accademico, dal corpo docente, dalla consulta degli studenti e, di fatto, dai componenti il consiglio di amministrazione, dimessisi per protesta contro la insistente presenza del prefato;
   lo stesso, oltre a quanto sopra detto, si sarebbe reso artefice, secondo quanto comunicato all'interrogante da parte della direttrice dell'Accademia, di comportamenti gravissimi e contrari ai doveri del suo mandato riportati di seguito:
    a) avrebbe ostentatamente e dichiaratamente posto in essere atteggiamenti non consoni al suo ruolo nei confronti del Direttore, del personale Docente ed ATA, delle RSU e delle Organizzazioni Sindacali, come ripetutamente evidenziato attraverso i media;
    b) avrebbe minacciato le stesse Rsu ed Organizzazioni Sindacali di denuncia per aver sollecitato pubblicamente, contraddicendolo, la liquidazione degli emolumenti relativi alle attività aggiuntive del personale docente ed ATA, già determinate in sede di contrattazione integrativa e ad oggi non ancora liquidate, ivi chiedendo, al Direttore, arbitrari ed immotivati procedimenti disciplinari in danno dei docenti RSU; chiedendo, inoltre, con i formale nota scritta indirizzata al Ministero, illegittime iniziative disciplinari addirittura nei confronti del Direttore, per non aver ritenuto questi, di procedere, nel rispetto delle libertà sindacali, nei confronti dei predetti docenti RSU;
    c) si sarebbe contrapposto ai docenti che non hanno sostenuto l'elezione della di lui moglie, docente in servizio presso la stessa Accademia, alla carica di Coordinatore di Dipartimento e che lo hanno contraddetto in sede di Collegio dei Professori ed in altre occasioni esplicito abuso da parte dello stesso presidente;
    d) avrebbe determinato, col suo atteggiamento, le dimissioni dei componenti del Consiglio di Amministrazione, paralizzando ed imbavagliando così l'attività accademica;
    e) avrebbe costretto, in ciò supportato dal direttore amministrativo, i cui indirizzi e pareri sono stati costantemente bocciati dal Superiore Ministero con atti ufficiali, docenti e studenti ad anticipare di tasca propria i fondi necessari per l'acquisto di materiale didattico e per viaggi di formazione e mobilità Erasmus, avendo tardato nella conclusione delle procedure per l'approvazione del bilancio di previsione, prima adducendo all'assenza dei rappresentanti docenti e studenti quali componenti del CdA; designati i quali, si è concesso l'arbitrio di dichiarare gli stessi illegittimi poiché designati da un organo incompleto, essendo, a parere suo e del direttore amministrativo, i rappresentanti degli studenti decaduti perché in ritardo con il pagamento dei contributi, motivazione respinta dal superiore Ministero;
    f) avrebbe richiesto una procedura non prevista per sanare la mancanza di numero legale per assenza dell'esperto esterno a seguito di un incidente stradale, tentativo immediatamente respinto dal predetto esperto esterno e bocciato dal Miur;
    g) non avrebbe promosso, così come da Statuto, alcuna azione orientata al potenziamento delle dotazioni finanziarie dell'Accademia nè sviluppato iniziative di apertura al territorio con eccezione di un evento al quale ha partecipato in questi giorni la moglie, quale referente dell'Accademia, senza autorizzazione del Consiglio Accademico organo di indirizzo;
    h) avrebbe occultato provvedimenti dell'autorità giudiziaria indirizzati all'Accademia e relativi ad aspetti disciplinari di pertinenza del direttore, unico titolare della conseguente potestà nelle Istituzioni AFAM, usurpando illegittimamente il potere di questo;
    i) avrebbe esercitato, grazie alla carica che ricopre, un'impropria influenza nei confronti del personale tutto e degli studenti;
    l) avrebbe tenuto un comportamento formalmente e manifestamente denigratorio nei confronti del direttore il quale da statuto risulta avere la rappresentanza legale dell'istituzione, arrogandosi la titolarità esclusiva di questa anche all'esterno dell'Accademia, provocando così un distacco dalla città e dai vari enti di gestione, definendo la legale rappresentanza in capo al direttore, soltanto «residuale»;
    m) avrebbe immotivatamente revocato l'esercizio provvisorio finanziario dell'anno 2015/2016, decretato soltanto in data 27 gennaio 2016, con l'unico intento di paralizzare qualsiasi attività dell'Accademia ingenerando malcontento tra studenti, famiglie e docenti;
    n) avrebbe ignorato spudoratamente l'assenza di copertura assicurativa a seguito di revoca da parte dell'agenzia, già dal mese di ottobre 2015, fatto, questo di piena conoscenza del direttore amministrativo, nell'immediatezza della circostanza verificatasi;
    o) avrebbe impedito, in accordo col direttore amministrativo, che si concludessero le procedure di selezione indette in data 12 dicembre 2015, per la formulazione delle graduatorie d'istituto per i settori artistico-disciplinari di: design, estetica, tecniche grafiche speciali, non coperte con le procedure della legge 128, adducendo alla incompletezza del consiglio di amministrazione e causando un parziale slittamento dell'avvio dei relativi corsi al prossimo anno accademico con tifi notevole aggravio di spesa per l'Accademia che deve, comunque, garantire i corsi agli studenti diplomandi;
    p) avrebbe, immotivatamente e strumentalmente, con decreto arbitrario, chiuso l'accesso all'istituzione a chiunque degli studenti e dei docenti non avesse lezione in calendario limitando l'accesso stesso ai visitatori solo se in presenza di preventivo avviso di ricevimento e comunque previa motivazione scritta e senza possibilità di rivolgersi ad altri impiegati diversi da quelli ufficializzati presso la portineria;
    q) avrebbe definitivamente chiuso l'accesso ai laboratori agli studenti, in spregio al diritto allo studio, al diritto di accedere alle strutture per svolgere attività didattiche e culturali, al diritto alla frequenza a tutti i servizi ed assistenza previsti, al diritto di organizzare associazioni e cooperative per l'autogestione di attività per il tempo libero e per la cultura previsti dall'articolo 5, punto 1, lettera e, nonché dell'articolo 6, punto 2 e 3 dello Statuto; ancor più in prossimità degli esami, dovendo portare a termine la ricerca laboratoriale, gli studenti chiederebbero al direttore di accedere agli stessi dove sono custoditi gli elaborati;
    r) avrebbe posto divieto con decreto che la posta cartacea fosse, come da prassi, consegnata al direttore dell'Accademia, privilegiando invece l'assistente amministrativo signor Varrà, che dopo averla vagliata sarebbe tenuto a trasmetterla alla moglie dottoressa Maggio Addolorata, direttore amministrativo, la quale, da dipendente subordinato, dovrebbe discrezionalmente valutare quale ricade nella competenza del direttore e/o del presidente: da allora al direttore non è giunta più posta se non una missiva allo stesso indirizzata, già aperta;
    s) avrebbe autorizzato il signor Varrà responsabile anche della pec ufficiale, oltre che del protocollo, a scaricare la posta in partenza sul proprio dispositivo incurante che ciò non fosse in linea col principio della trasparenza, cosa che ha determinato l'occultamento, per mesi, di tutta la posta in uscita dagli uffici amministrativi, mentre risultava visibile a tutti solamente quella del Direttore;
    t) non avrebbe ancora espletato le procedure del bando per la nomina del responsabile per la sicurezza già indetto nel mese di luglio 2015, rinominando invece il precedente, ingegner Carmina che non ha partecipato al bando, nonostante il CDA avesse nella seduta del 4 aprile 2016 deliberato il termine di 15 giorni per la conclusione delle procedure e la nomina del nuovo responsabile;
    u) avrebbero, infine, il presidente ed il direttore amministrativo, tentato di estromettere il direttore con arbitraria esecuzione di sentenza del Tar con cui veniva annullato il bando per l'elezione del direttore per il triennio 2013/2016;
    v) nello specifico il presidente, a seguito della sentenza avrebbe diffidato illegittimamente il Direttore «con effetto immediato dal far uso del titolo di Direttore di questa Accademia e dall'esercitarne le funzioni», con lettera del 19 maggio 2016, recapita direttamente dal direttore amministrativo, nonostante quest'azione si ponga in contrasto con l'articolo 92 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, dal quale si evince che tale sentenza non poteva risultare quindi ancora definitiva non essendo ancora esperiti i tempi per un ricorso;
    z) il presidente Caridi avrebbe quindi ostacolato il direttore ancora in carica e il suo vicario all'esercizio delle sue funzioni, frapponendosi anche fisicamente all'accesso nei suoi uffici alla presenza di studenti, docenti e coadiutori come constatato dagli agenti di polizia che sono intervenuti, fatti che sarebbero oggetto di denuncia penale;
    aa) avrebbe nominato senza averne potere due docenti quali reggenti, senza alcun riferimento normativo e statutario, affidando loro la direzione e la vicedirezione dell'Accademia;
   alla luce dei fatti esposti, denunciati all'interrogante da parte della direttrice, che ai termini di legge è di fatto ancora in carica, appare all'interrogante lesivo del diritto allo studio degli studenti, del diritto all'insegnamento dei docenti nonché dell'immagine dell'istituzione, che il Ministro dell'istruzione ad oggi non abbia inteso prendere alcun provvedimento per risolvere le molte criticità di tipo organizzativa in cui è incorsa l'Accademia di belle arti di Reggio Calabria, specie a causa dei comportamenti del presidente Cosimo Carmelo Caridi, e le ricadute sulla didattica, che stanno provocando disagi di natura oggettiva alla struttura, come segnalato anche sulla stampa locale;
   ciò che all'interrogante specialmente preme sottolineare è la preoccupazione per il fatto che un'istituzione pubblica, specie se svolge attività scolastica, non garantisca la copertura assicurativa;
   è inoltre evidente che nel caso dell'Accademia di Reggio Calabria, oltre a problemi derivanti dall'applicazione di norme statutarie, alcune difficoltà sono dovute dalla mancata applicazione dell'articolo 1, comma 5, lettera b), della legge 6 novembre 2012, n. 190, per quanto riguarda la mancata rotazione dei dirigenti, essendo il direttore amministrativo in carica da quasi 30 anni –:
   sia a conoscenza dei fatti esposti in premessa e se, alla luce di quanto sopra esposto, non intenda intervenire con le iniziative di competenza per sanare le problematiche interne all'Accademia di belle arti di Reggio Calabria, specie per ciò che attiene ai profili più urgenti, come l'assenza di copertura assicurativa dell'Istituto;
   come si intenda risolvere lo stato di conflitto tra gli organi dell'Accademia e gli abusi esposti in premessa, che stanno provocando disservizi, con ripercussioni sull'offerta formativa, così come rilevato dagli studenti. (4-13421)

LAVORO E POLITICHE SOCIALI

Interrogazione a risposta in Commissione:


   CIPRINI, TRIPIEDI, CHIMIENTI, COMINARDI, DALL'OSSO e LOMBARDI. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   secondo l'Istat ad aprile 2016 si registrano 51 mila persone al lavoro in più (pari a + 0,2 per cento). Ma in risalita è pure il tasso di disoccupazione che si attesta all'11,7 per cento (+ 0,1 punti su marzo);
   in un mese il numero di disoccupati aumenta di 50 mila unità, essenzialmente donne; ma sempre in aprile c’è un forte calo degli inattivi, – 113 mila persone;
   per il Governo si tratta del secondo aumento consecutivo mensile del numero di occupati e la forte riduzione degli inattivi e segnale «positivo», e che il « Job act funziona» (IlSole24Ore del 1o giugno 2016); il Presidente del Consiglio dei ministri ha commentato: «I dati sul lavoro sono i più alti negli ultimi 4 anni, ma noi vogliamo fare di più» (Corriere della Sera del 1o giugno 2016);
   eppure secondo quanto pubblicato su www.tgcom24.mediaset.it del 1o giugno 2016, l'Istat @istat_it – rispondendo ad un twitter che chiedeva all'Istituto come venissero effettuate le statistiche e se fossero compresi o meno tra gli occupati anche i lavoratori con voucher da 8 ore al mese affermava che in base al glossario della statistica Istat «è considerato occupato se nella settimana di riferimento dell'indagine ha lavorato almeno un'ora. Cfr. Glossario»;
   dunque secondo il metodo di rilevazione statistico dell'Istat si considera «occupato» anche colui che «lavora» con un'ora con il voucher;
   eppure proprio il 31 maggio 2016 il Consiglio dei ministri ha perso l'ennesima occasione per intervenire sui voucher facendo slittare l'esame preliminare dello schema di decreto legislativo che avrebbe dovuto attuare una «stretta» sulla tracciabilità dei voucher che – con 115 milioni di voucher venduti nel 2015 e con un + 45,6 per cento, nel primo trimestre del 2016 rispetto al trimestre del 2015 – stanno diventando la forma di precariato più diffusa e, a parere degli interroganti, abusata –:
   se il Governo sia a conoscenza criteri adottati dall'Istat per rilevare i dati occupazionali e se trovi conferma che secondo tali criteri è considerata «occupata» anche la persona titolare di un semplice voucher;
   quale sia il numero degli occupati tra i «51 mila occupati in più» che in base alla rilevazione Istat sono risultati titolari di mero voucher;
   quali iniziative intenda assumere per garantire una più completa informazione e/o comunicazione dei dati e dei criteri adottati per le statistiche occupazionali.
(5-08841)

Interrogazione a risposta scritta:


   BALDASSARRE, ARTINI, BECHIS, SEGONI e TURCO. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   fonti di stampa informano che molti contribuenti dovranno, in sede di dichiarazione dei redditi, restituire totalmente o parzialmente il bonus Irpef. Il bonus è un credito di imposta erogato a chi percepisce almeno un reddito da lavoro dipendente, sempre che l'imposta lorda sia superiore alla detrazione per lavoro dipendente e che il reddito sia inferiore a 26 mila euro;
   nel caso di un dipendente occupato per tutto l'anno con solo reddito da lavoro e senza familiari a carico, la soglia di reddito per iniziare a percepire il bonus è 8.145 euro. Se si lavora meno di dodici mesi, nel rispetto delle condizioni prima ricordate, il reddito minimo per percepirlo è minore. Il bonus è costante e pari a 960 euro annui nella fascia compresa tra gli 8.145 ed i 24 mila euro, per poi decresce repentinamente, comportando un'aliquota marginale effettiva dell'80 per cento, per le fasce comprese tra i tra 24 e i 26 mila euro;
   vi è stato però un problema nella definizione di reddito. Il reddito complessivo, e l'imposta netta definitivi, si determinano al momento della dichiarazione dei redditi, che serve proprio a raccordare la situazione complessiva del contribuente rispetto ai redditi percepiti e alle imposte già pagate nel corso dell'anno precedente;
   ai fini del bonus, Il reddito da considerarsi è pari a quello complessivo Irpef maggiorato dei redditi da canone di locazione soggetti a cedolare secca e diminuito dalla deduzione per l'abitazione principale. Pertanto, non è pari al solo salario. Casi di irregolare percezione del bonus sono quindi possibili, perché per evitarli bisognerebbe che tutti sapessero stimare i propri redditi annui con grande precisione. Le conseguenze possono essere dolorose, perché il bonus si riceve mensilmente, ma l'eventuale restituzione deve avvenire in un'unica soluzione in sede di compilazione della dichiarazione, anche se con possibilità di richiedere il pagamento rateale;
   in totale sono circa 1,45 milioni i contribuenti che dovranno restituire il bonus ricevuto, pari ad un valore medio pro capite pari a 221 euro;
   la grande maggioranza di essi sembra avere un reddito superiore al limite minimo fissato in 8.145 euro e per essi si può ipotizzare che non si tratti di un problema insormontabile. Più grave è invece la situazione dei dipendenti che percepiscono redditi più bassi. I casi possibili sono numerosi. Ad esempio, si consideri un lavoratore dipendente con reddito lordo mensile di 800 euro che, dopo i primi sei mesi, viene licenziato e trova occupazione per i restanti sei mesi a un reddito lordo mensile di 500 euro, oppure riceve per sei mesi una Nuova prestazione di assicurazione sociale per l'impiego (Naspi) di 500 euro. In questo caso il reddito complessivo è pari a 7.800 euro, mentre la detrazione per lavoro è maggiore dell'imposta lorda. Il bonus non spetta, ma magari è stato totalmente o parzialmente ricevuto e quindi deve essere restituito;
   risulta che sono 10,13 milioni i contribuenti che percepiscono fino a 7.500 euro di reddito complessivo, tra i quali 340 mila hanno ottenuto un bonus che deve essere restituito. In media il bonus percepito da ognuno di essi è pari al valore di 161 euro;
   la consistente precarietà presente nel mercato del lavoro rende molto diversificati i possibili casi di lavoratori con reddito basso che devono restituire il bonus. Può capitare se ad esempio si cambia spesso lavoro, se l'azienda dopo qualche mese va in crisi e smette di pagare lo stipendio, ma anche se sono presenti errori nei dati inseriti nelle certificazioni dei datori di lavoro, oppure se si ricevono anche poche migliaia di euro per canoni di locazione soggetti a cedolare secca. La situazione può persino ribaltarsi, se il lavoratore ha diritto al bonus, ma non è stato erogato dal datore di lavoro. In tal caso si ha diritto a chiedere il rimborso, sempre con la dichiarazione dei redditi. In questa condizione versano circa 1,62 milioni di persone;
   i problemi nel calcolo del bonus sono così rilevanti che, ad avviso degli interroganti, sarebbe preferibile sopprimerlo e sostituirlo, ad esempio con un aumento della detrazione da lavoro dipendente;
   si ricorda brevemente la sua origine. All'inizio del 2014 il Governo si era impegnato a garantire un incremento di reddito disponibile di mille euro per un numero non piccolo di contribuenti. Siccome la misura è costosa, tanto che oggi vale circa 9 miliardi di euro all'anno, pari a circa il 6 per cento del gettito Irpef, la platea dei beneficiari è stata poi ridotta poiché i principali soggetti esclusi sono stati i lavoratori dipendenti incapienti, oltre ad autonomi e pensionati. Inoltre, poiché dal punto di vista politico si doveva garantire un maggior reddito disponibile pari a circa mille euro, si è deciso di utilizzare questo strumento, che dal punto di vista applicativo esula dalla struttura Irpef, rispetto alla rimodulazione della detrazione per lavoro dipendente. Pertanto la misura è più propriamente una maggiore spesa pubblica rispetto a una minore entrata, e come tale è stata considerata dall'Istat;
   se il bonus venisse sostituito con una maggiore detrazione, il contribuente non potrebbe più avere un reddito netto superiore all'imponibile in alcun intervallo di reddito;
   appare però difficile realizzare con un unico strumento, ovvero l'imposta sul reddito, obiettivi così diversi, anzi, quasi opposti, come raccogliere gettito e sostenere i redditi bassi. Il bonus è una misura a parere degli interroganti confusa perché nato come strumento per ridurre il costo del lavoro, ma è stato anche presentato come mezzo per trasferimento a favore dei lavoratori più poveri, mentre in effetti è indirizzato soprattutto alle famiglie a reddito medio, come dimostrato dall'Istat nel corso dell'audizione tenuta innanzi alle commissioni bilancio riunite di Camera dei deputati e Senato della Repubblica il 13 ottobre 2014;
   appare quindi opportuno rivedere i provvedimenti legislativi che consentono i trasferimenti monetari ai nuclei a basso reddito. Ciò contribuirebbe anche a ridurre la povertà tra i minori, molto cresciuta durante la crisi;
   un secondo problema è rappresentato da un ulteriore aumento del numero degli incapienti, già in forte espansione negli ultimi 15 anni. Di conseguenza, diventerebbero meno appetibili tutte le altre detrazioni, da quelle per carichi familiari a quelle per spese mediche o ristrutturazioni –:
   quali iniziative intendano assumere per dare soluzione ai problemi narrati, a partire dalle proposte contenute in premessa. (4-13413)

POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI

Interrogazione a risposta in Commissione:


   FIORIO. — Al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:
   il settore vitivinicolo (con un fatturato complessivo nel 2015 di 9,7 miliardi di euro e 1 milione e 300 mila addetti considerando anche la filiera) riveste un ruolo strategico dal punto di vista economico ed occupazionale in vaste zone d'Italia;
   il regolamento (UE) n. 1308/2013 ha previsto l'avvio, dal 1o gennaio 2016, del nuovo sistema di «auto autorizzazioni» per gli impianti viticoli che prevede il rilascio, previa richiesta, di concessioni per l'impianto di nuovi vigneti nel limite massimo annuo dell'1 per cento della superficie vitata nazionale;
   con il nuovo sistema un'azienda che abbia in programma di accrescere la propria superficie vitata lo potrà fare solo se detiene una autorizzazione assegnata dalla pubblica amministrazione. Le autorizzazioni all'impianto saranno rilasciate in quattro casi:
    a) a seguito della partecipazione del richiedente ad un bando pubblico annuale per l'assegnazione di nuovi impianti;
    b) nel caso di «conversione di diritti di impianto» (acquisiti prima del 31 dicembre 2015);
    c) in caso di reimpianto a seguito di estirpo;
    d) in caso di reimpianto anticipato;
   il diritto al reimpianto, con la nuova normativa, non potrà quindi essere trasferito da un'azienda all'altra o da una regione ad un'altra. Coloro che hanno dei diritti al reimpianto non ancora utilizzati dovranno presentare alla regione, per via telematica, istanza di conversione del diritto in autorizzazione;
   l'Agea, l'Agenzia per le erogazioni in agricoltura, con circolare n. 2016.49, ha impartito le nuove disposizioni riguardanti il rilascio deve autorizzazioni per la realizzazione dei vigneti per le uve da vino. Tutte le istanze verranno presentate per via telematica nell'ambito delle applicazioni disponibili sul portale Sian, il sistema informativo unificato di servizi del comparto agricolo, agroalimentare e forestale messo a disposizione dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali. Per realizzare un nuovo impianto di vigneto si dovrà presentare istanza direttamente al Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, attraverso il portale Sian, sino al 31 marzo di ogni anno;
   il passaggio dai diritti di impianto al sistema delle autorizzazioni avrà un grande impatto sul potenziale viticolo nazionale. Il diritto rappresentava, infatti, una sorta di paracadute per il vigneto: consentiva a chi intendeva smettere l'attività produttiva di cederlo ad altri soggetti intenzionati invece a espandere il proprio vigneto. Questo sistema non faceva crescere il potenziale produttivo, ma ne limitava il depauperamento;
   i diritti di impianto sono, inoltre, una garanzia della viticoltura di qualità legata al territorio, che ha accompagnato l'espansione delle vendite di vino, con una crescita regolare del vigneto che ha contribuito a mantenere l'equilibrio tra offerta e domanda. L'abolizione dei diritti d'impianto potrebbe quindi generare conseguenze economiche e sociali gravi per il nostro Paese con rischi di eccedenze di produzione e di delocalizzazione in zone a più alta resa per ettaro;
   la gestione degli impianti è infatti importante per tutte le tipologie di vino, sia dop e igp che quelle senza indicazione geografica; anzi, le criticità della liberalizzazione sono ancora più marcate per i vini senza indicazione, in particolare quelli varietali, ai quali non è possibile applicare strumenti aggiuntivi di regolamentazione;
   va aggiunto in questo contesto che si è registrato in Italia, negli ultimi anni, un costante arretramento della superficie agricola di vite da vino: i vigneti che attualmente si estendono su 650 mila ettari, hanno subito una riduzione del 15 per cento (circa 120 mila ettari) dal 2000;
   il Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, con nota prot. 3246 del 17 maggio 2016, ha trasmesso alle regioni i dati relativi alle superfici assegnate alle aziende che ne hanno fatto richiesta per l'annualità 2016;
   per il 2016 la superficie messa a disposizione per le richieste di autorizzazioni per nuovi impianti è pari a 6417,43 ettari (corrispondente all’ 1 per cento della superficie potenziale italiana dichiarata al 31 luglio 2015);
   secondo i dati resi noti dall'Unione italiana vini a inizio 2016 sono state presentate in Italia 12.528 istanze per realizzare complessivamente 66.197 nuovi ettari di vigneti;
   le richieste sono quindi il doppio rispetto al plafond disponibile per il 2016; solamente in Piemonte e nel Lazio le domande sono state inferiori alla disponibilità;
   appare quindi evidente che il plafond dell'1 per cento sia insufficiente rispetto alle richieste del settore –:
   quali iniziative intenda assumere il Ministro interrogato affinché nella ripartizione delle autorizzazioni vengano adeguatamente prese in considerazione quelle aree vocate alle produzioni viticole, che sanno esprimere al meglio le potenzialità delle viticulture autoctone che hanno ottenuto, in questi anni, vasti riconoscimenti commerciali nei mercati internazionali. (5-08832)

SALUTE

Interrogazioni a risposta in Commissione:


   FRACCARO, DI VITA, SILVIA GIORDANO, LOREFICE e COLONNESE. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   a seguito dell'intesa raggiunta nella Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano il 16 dicembre 2010 concernente le Linee di indirizzo per la sicurezza del percorso nascita e per la riduzione del taglio cesareo è stata avviata una riorganizzazione della rete dei punti nascita su tutto il territorio nazionale volta a ridurre le caratteristiche di capillarità e di prossimità dei servizi di assistenza ginecologica, assistenza anestesiologica e assistenza pediatrica, accentrare le funzioni in grosse strutture ospedaliere e aumentare il volume di parti per ogni singolo punto nascita fissando il numero di almeno 1000 parti/anno quale parametro a cui tendere. Nell'intesa, si prevede di rimediare alla soppressione dei punti nascita con l'attivazione del sistema di trasporto assistito materno (STAM) e del sistema di trasporto in emergenza del neonato (STEN);
   indipendentemente dalla qualità del servizio erogato e dalla performance garantita fino al 2010 dai punti nascita periferici, con l'approvazione dei nuovi indirizzi, nella Conferenza Stato-regioni è stato stabilito che i presidi con un volume di attività inferiore a 500 parti/anno non possono garantire la sicurezza per la madre e per il neonato. È stata tuttavia prevista una deroga per i presidi localizzati in aree geografiche notevolmente disagiate;
   nella risposta all'interrogazione 5-05952 discussa nella seduta della XII Commissione (Affari sociali) della Camera dei deputati del 2 luglio 2015, il Ministro della salute ha confermato la possibilità di mantenere operative le strutture ospedaliere in aree disagiate nonostante non sia raggiunto il volume minimo di 500 parti/anno purché siano garantiti gli standard qualitativi, di efficienza ed appropriatezza, nonché gli standard organizzativi, tecnologici e di sicurezza previsti dall'Accordo, al fine di permettere il parto in condizioni di ottimali;
   la serie di provvedimenti che si è succeduta a partire dal 2010 ha compromesso definitivamente la piena operatività di numerosi punti nascita di montagna che, per decenni, erano stati sicuri punti di riferimento delle comunità locali tanto da prevenire il fenomeno dello spopolamento che aveva invece caratterizzato le aree montane che ne erano sprovviste;
   gli abitanti delle zone montane delle valli alpine ed appenniniche che, a causa delle conformazione orografica del territorio, vivono in condizioni di difficoltà logistiche di trasporto o climatiche, hanno subito inesorabilmente il graduale taglio di risorse ai punti nascita periferici, il rallentamento delle procedure di assunzione di personale, il conseguente incremento dei disservizi, l'apertura dei punti nascita nelle sole ore diurne (dalle 8 alle 18) fino alla chiusura definitiva dei punti nascita;
   negli ultimi mesi del 2015, nella provincia autonoma di Trento, il malcontento popolare nelle valli più distanti dalle aree urbane che godono di assistenza sanitaria 24H è cresciuto considerevolmente poiché il depotenziamento dell'area maternoinfantile è stato accompagnato dall'erogazione a singhiozzo di altri servizi sanitari come ad esempio la presenza di anestesisti nelle sole ore diurne. Centinaia di cittadini, inclusi numerosi sindaci assessori e consiglieri comunali, hanno manifestato davanti ai presidi ospedalieri di Tione di Trento, Cavalese e Arco per difendere il diritto alla salute delle comunità locali ed in particolare il diritto alle cure urgenti e al parto ventiquattro ore su ventiquattro e sette giorni su sette;
   con il comunicato n. 148 del 1o febbraio 2016, il presidente e l'assessore alla salute della provincia di Trento hanno riferito di aver sottoposto all'attenzione del Ministero della salute, del Tavolo di monitoraggio di cui al decreto ministeriale del 29 luglio 2015, e del comitato percorso nascita nazionale una richiesta di parere su una proposta di modello flessibile che preveda la presenza di ginecologo, anestesista e pediatra h24 presso i presidi ospedalieri «sotto soglia» di Tione, Arco, Cavalese e Cles, anche attraverso meccanismi di rotazione del personale o con pronta disponibilità in caso di travaglio in corso. L'impegno della giunta provinciale è di decidere l'assetto definitivo dell'area maternoinfantile e della rete dei punti nascita provinciale sulla base del parere prodotto dal Ministero della salute;
   la richiesta di parere da parte della provincia di Trento non è ancora stata soddisfatta mentre, nel frattempo, in data 26 aprile 2016, gli amministratori della comunità delle Valli Giudicarie ha o preso atto dell'evoluzione delle politiche sanitarie siglando un protocollo d'intesa con il quale è stata accettata la chiusura del punto nascita presso l'ospedale di Tione di Trento in cambio del finanziamento degli altri servizi sanitari essenziali. Tale protocollo di intesa è stato formalizzato con la delibera di giunta provinciale n. 694 del 29 aprile 2016;
   la crescente percezione di insicurezza e il clima di sfiducia derivanti dalla mancanza di soluzioni definitive in ordine all'organizzazione della rete dei punti nascita hanno determinato un sostanziale calo delle nascite anche presso le strutture di Arco e di Cavalese, presidi ospedalieri che in questa fase garantiscono l'apertura dei punti nascita solo nelle ore diurne. È pertanto da ritenersi improrogabile la formulazione del parere richiesto al Ministero della salute per poter definire in forma organica e coerente l'assetto organizzativo dei punti nascita e per rispondere prontamente alle esigenze delle comunità locali della provincia di Trento –:
   se il tavolo di monitoraggio di cui al decreto ministeriale 29 luglio 2015 e il comitato percorso nascita nazionale si siano espressi in merito alla richiesta della provincia di Trento di cui in premessa e quali ne siano gli orientamenti in ordine al modello di mantenimento di singoli punti nascita di Tione di Tento, Cavalese, Arco e Cles richiesto dalla provincia autonoma di Trento;
   se e quanto il parere di cui in premessa risulti vincolante. (5-08836)


   SILVIA GIORDANO, MANTERO, LOREFICE, DI VITA, GAGNARLI, GRILLO, BARONI e COLONNESE. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   il 29 maggio 2016 è andata in onda su Rai tre la puntata di Report sui batteri resistenti agli antibiotici; nel corso dell'inchiesta sono state mostrate le condizioni di vita degli animali allevati all'intero dello stabilimento emiliano del noto produttore di carni Amadori;
   le telecamere della trasmissione hanno ripreso dei suini reclusi in spazi ridottissimi, agonizzanti, pieni di piaghe ed escoriazioni gravi calpestati dai topi, che circolano senza problemi tra gli animali. Polli e maiali allevati in condizioni igienico-sanitarie inaccettabili ai limiti della tortura. Nel contenitore dei rifiuti sembra che ci fossero massicce dosi di farmaci destinate agli animali;
   negli allevamenti intensivi, in generale, è molto diffuso l'uso di antibiotici somministrati agli animali per sopperire alle condizioni igieniche precarie e alle infezioni causate dal sovraffollamento, infatti il 70 per cento degli antibiotici prodotti in tutto il mondo verrebbe impiegato proprio negli allevamenti intensivi;
   secondo i dati forniti da Report, in Italia, sono allevati intensivamente 30 milioni di animali, per un consumo totale di 1300 tonnellate di antibiotici;
   il sovradosaggio e la diffusione degli antibiotici negli allevamenti intensivi sembra che stia causando la formazione di batteri sempre più pericolosi e aggressivi, resistenti a tutti i farmaci esistenti;
   l'Unione europea, infatti, ha commissionato uno studio sugli intestini degli avicoli al macello provenienti dagli allevamenti intensivi e ha trovato percentuali di batteri resistenti preoccupanti. Batteri che si ritrovano nel piatto perché le linee di macellazione non proteggono integralmente dalla contaminazione;
   negli Stati Uniti gli scienziati hanno individuato il primo caso di «batterio» che resiste a tutti gli antibiotici e che non può essere sconfitto nemmeno dai medicinali di ultima generazione. Un caso che può non essere isolato e che alimenta il rischio di una pandemia;
   la trasmissione Report ha commissionato al laboratorio di microbiologia dell'università di Catania l'analisi di 30 confezioni di carne acquistate in vari supermercati, i risultati hanno rilevato la presenza del batterio MRSA-CC 398 delle confezioni, e la carne contaminata proveniva da un animale allevato in Italia;
   nel nostro Paese si registrano 5000 morti l'anno, perché l'antibiotico risulta inefficace;
   in un rapporto commissionato dal Governo inglese l'economista J. ÒNeill e l'infettivologo J.Farrar prefigurano una possibile pandemia che nel 2050 potrebbe essere la prima causa di morte al mondo; tra gli interventi urgenti suggeriti nel rapporto c’è la riduzione degli antibiotici utilizzati nell'allevamento –:
   se, alla luce delle immagini trasmesse da Report, intenda avviare, per quanto di competenza, un'ispezione ministeriale presso lo stabilimento Amadori, al fine di verificare le condizioni igienico sanitarie degli animali allevati;
   quali misure intenda promuovere, anche attraverso un'iniziativa normativa, al fine di ridurre la presenza di antibiotici negli alimenti;
   se non ritenga opportuno assumere iniziative per introdurre l'obbligo della ricetta elettronica allo scopo di tracciare i farmaci veterinari;
   quali iniziative intenda adottare, con il coordinamento dell'Istituto superiore di sanità, al fine di migliorare le tutele per la sicurezza e per la salute dei consumatori e degli animali stessi;
   se non ritenga opportuno avviare un'indagine ministeriale sulla diffusione dei batteri resistenti agli antibiotici in Italia. (5-08839)

Interrogazioni a risposta scritta:


   SORIAL. — Al Ministro della salute, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   l'impianto produttivo della società «Val Ferro srl» di Prevalle, in provincia di Brescia, è stato sottoposto in questi giorni a sequestro preventivo dai carabinieri del Ros, in esecuzione di un provvedimento richiesto dalla procura distrettuale antimafia di Brescia, poiché, secondo l'accusa, avrebbe smaltito, insieme ai materiali ferrosi, significativi quantitativi di scorie contenenti policlorobifenili (PCB), sostanza altamente inquinante;
   il giudice avrebbe anche disposto la nomina di un amministratore giudiziario e la misura interdittiva del divieto temporaneo di esercitare gli uffici di persone giuridiche e imprese nei confronti del proprietario della società e del figlio, indagati, insieme ad altre 15 persone, per associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti speciali pericolosi;
   secondo l'indagine del Ros, e come affermato dai carabinieri, «la Val Ferro, attiva nel settore della raccolta di materiali ferrosi, smaltiva ingenti quantitativi di scorie contenenti PCB, occultandoli tra i carichi destinati al conferimento presso le acciaierie, con il conseguente abbattimento dei costi di smaltimento previsti per i rifiuti speciali pericolosi»;
   alcune riprese effettuate all'esterno dell'azienda confermerebbero i sospetti alla base dell'inchiesta avviata nel dicembre 2014, mostrando in che modo sarebbe avvenuta la ricezione di rottami, lo smistamento a cielo aperto e il successivo carico su camion, fino alla consegna poi in altre aziende;
   la pericolosità dei PCB e le loro potenzialità tossiche sono tristemente note dagli anni settanta: l'esposizione ai PCB al di sopra dei limiti evidenziati dalla ricerca medico-scientifica e definiti dal legislatore, avrebbe effetti patogeni di vario tipo: alterazioni al funzionamento di fegato e pancreas, alterazioni a carico del sistema immunitario, fino al loro grave e riconosciuto effetto cancerogeno (IARC 2013); la valutazione della IARC associa certamente melanoma e probabilmente tumore della mammella e infomi non-Hodgkin con i PCB;
   il nuovo rapporto «Sentieri» dell'Istituto superiore di sanità e dell'Airtum (Associazione italiana registri tumori), che ha indagato il rapporto tra malattie e inquinamento in 44 siti di interesse nazionale, conferma l'ipotesi di un contributo dell'esposizione a PCB all'eziologia di queste patologie –:
   se non considerino necessario attivarsi, per quanto di competenza, per chiarire quali interventi siano già stati effettuati e quali siano previsti per monitorare il percorso compiuto da tali sostanze cancerogene e il danno ambientale avvenuto a causa dell'attività criminale di cui in premessa, nonché gli ulteriori interventi previsti per la messa in sicurezza delle zone conseguentemente contaminate, affinché si possa tutelare la salute dei cittadini coinvolti. (4-13411)


   GULLO. — Al Ministro della salute, al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   in data 23 dicembre 2003 la regione Sicilia ha sottoscritto con i Ministeri della salute e dell'economia e delle finanze, l'accordo di programma quadro per la realizzazione del centro oncologico di eccellenza presso l'ospedale Papardo di Messina, mediante l'utilizzo di fondi comunitari;
   la legge regionale n. 9 del 2009, tuttora in vigore, al comma 2 dell'articolo 23, recita che «il centro oncologico di eccellenza deve comunque essere realizzato a Messina»;
   in contrasto con quanto previsto da accordi di programma, leggi regionali, nazionali e comunitarie, in data 9 giugno del 2010, l'assessorato alla salute della regione Sicilia, ha deciso in piena autonomia, senza darne preventiva comunicazioni al Ministero della salute e dell'economia e delle finanze, né tanto meno alla Commissione europea, che i posti letto per l'oncologia sono previsti esclusivamente presso il policlinico universitario di Messina;
   le risorse finanziarie previste per la realizzazione del polo oncologico sono state destinate per la creazione delle condizioni logistiche atte a consentire l'accorpamento presso ospedale Papardo delle omologhe strutture operanti al Piemonte;
   alcune associazioni di tutela dei diritti del malato hanno segnalato la questione al Ministero della salute;
   il direttore generale dell'azienda ospedaliera Papardo-Piemonte, dottor Michele Vullo, ha confermato la vicenda e dice di avere segnalato la questione alla Corte dei Conti e inviato una nota alla procura della Repubblica di Messina –:
   quali iniziative di competenza il Governo intenda assumere perché sia realizzato il polo oncologico presso l'Ospedale Papardo di Messina;
   se si intenda verificare quale destinazione abbiano avuto le risorse di cui sopra se il «dirottamento» dei fondi comunitari sia avvenuto nel pieno rispetto della legge. (4-13417)

SVILUPPO ECONOMICO

Interrogazioni a risposta scritta:


   AMODDIO. — Al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   Poste Italiane s.p.a. ha previsto su buona parte del territorio nazionale l'invio e la consegna della posta a giorni alterni. Nella provincia di Siracusa questa metodologia sta creando notevoli disagi che si sommano alla chiusura e alla razionalizzazione di numerosi uffici postali. La consegna della posta a giorni alterni che ha già intasato i magazzini, impedisce agli addetti di sfoltire gli arretrati con conseguenti disagi che stanno colpendo l'utenza. Anche la posta così detta veloce, giornali in abbonamento, atti giudiziari e bollette, risente di queste difficoltà di smaltimento. Poste italiane, gestendo i servizi postali in una condizione di sostanziale monopolio, deve garantire l'espletamento del servizio universale sulla base di obiettivi definiti dagli accordi con lo Stato. Inoltre, si apprende dalla stampa che il Tar del Lazio, interpellato da 41 comuni piemontesi in merito al piano di Poste Italiane, abbia sospeso il giudizio e trasmesso i documenti alla Corte di giustizia europea in quanto emergerebbe un contrasto con le direttive europee che sanciscono in materia un servizio universale e una consegna della posta garantita almeno 5 giorni alla settimana –:
   se il Ministro sia a conoscenza di questa situazione;
   se intenda accertare, per quanto di competenza, se vengano garantiti gli standard minimi di qualità per il «servizio universale» che Poste Italiane s.p.a. deve offrire;
   quali iniziative il Ministro interrogato intenda assumere per ripristinare la consegna giornaliera degli invii postali e garantire gli utenti. (4-13402)


   BORGHI. — Al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   negli ultimi mesi, a seguito del processo di riorganizzazione e di razionalizzazione di Poste Italiane sul territorio nazionale si sono venute a creare numerose situazioni di disagio per le comunità dei piccoli comuni periferici e di montagna soprattutto per quanto riguarda l'introduzione della consegna della corrispondenza a giorni alterni;
   con la direttiva Europea n. 2008/6/CE l'Unione europea ha chiesto agli Stati membri di abolire qualunque forma di monopolio, di riserva e di diritti speciali nel settore postale e di adottare tutte le misure necessarie alla completa apertura del mercato (regolamentazione del servizio universale, accesso alle infrastrutture postali, determinazione dei prezzi e delle tariffe dei servizi postali);
   in Italia la liberalizzazione dei servizi postali si fonda, dal punto di vista normativo, sulla direttiva comunitaria 97/67/CE (recepita con decreto legislativo n. 261 del 1999) e sulle direttive comunitarie 2002/39/CE e 2008/&/CE (recepite con decreto legislativo n. 58 del 2011);
   grazie a tale liberalizzazione in pochi anni ben 3932 società hanno richiesto e ottenuto dal Ministero dello sviluppo economico una licenza per operare nel comparto del trasporto e consegna della corrispondenza;
   l'elenco rilasciato dal Ministero dello sviluppo economico non prevede una sostanziale categorizzazione degli operatori postali operanti in Italia;
   da tale elenco si può evincere solamente che la maggior parte degli operatori si dedica al trasporto e consegna della corrispondenza in città (cosiddetti recapitisti con modalità non meglio specificate), mentre non risulta essere assolutamente specificato quali siano gli operatori retail che operano nel mercato postale nazionale attraverso la vendita di speciali etichette ed attraverso una propria rete di cassette di impostazione alternativa a quelle di poste italiane;
   con riferimento alla consultazione pubblica dell'Agcom sullo «Schema di regolamento licenze e autorizzazioni» tenutasi 17 novembre 2014, la stessa Autorità afferma che in ambito retail «la differenziazione territoriale costituisce una proposta interessante sebbene non sia stata espressamente prevista dalla normativa nazionale». «L'autorità si appresta a sostituire una regolamentazione che è in vigore dal 2000 e che vede oggi un numero di titoli abilitativi che non ha eguali in Europa»;
   attualmente Poste Italiane riconosce un'unica normativa contrattuale, sicuramente ottimale per la regolamentazione dei rapporti con operatori postali privati eroganti servizi di corriere espresso e servizi business rivolti alle aziende, ma del tutto inadatta se applicata ad operatori postali differenti dai primi che, a questo punto, risultano essere gli unici operatori tutelati normativamente dai contratti predisposti dall'ex monopolista;
   il mancato riconoscimento del servizio postale di tipo retail, in qualità di servizio differente e distinto dai servizi postali di tipo business o di corriere espresso, ostacola quindi lo sviluppo di una sana concorrenza in questo importante ramo del mercato postale;
   l'impossibilità di raggiungere un accordo differente e specifico con Poste Italiane pone gli operatori postali retail nella condizione di insostenibilità dei costi richiesti con ricadute negative sulle loro attività, sul servizio offerto alla loro clientela e, nei casi più estremi, essi possono essere indotti alla cessazione dell'attività di impresa;
   ad oggi il mercato postale retail in Italia non risulta ancora pronto ad ospitare una sana e crescente liberalizzazione, non esistendo, per le motivazioni sopraesposte, soggetti postali adeguatamente regolamentati e, pertanto, riconosciuti come fornitori di un servizio postale di tipo retail alternativo a quello tradizionale;
   a differenza di quanto accade in altri Paesi europei, in Italia molti operatori postali privati tendono a non effettuare nuovi investimenti nel mercato postale causando una mancata crescita del servizio con conseguente beneficio in termini anche occupazionali;
   risulta evidente, a fronte di quanto sopra detto, che una maggiore regolamentazione del settore postale nazionale sia necessaria e non più rinviabile –:
   come intenda procedere il Ministro interrogato per garantire la possibilità agli operatori postali privati di tipo retail di stipulare specifici accordi con poste italiane o altri operatori postali di tipo privato appartenenti alla medesima categoria, dal momento che alle attuali condizioni di mercato si sono dimostrati addirittura capaci di ripristinare un efficiente servizio postale tradizionale anche nei territori più svantaggiati del Paese dimostrando una particolare sensibilità alle esigenze territoriali e dei cittadini;
   quali iniziative intenda assumere per regolamentare e gestire la comprovata nascita di una sana concorrenza nel settore postale del retail dal momento che sempre più aziende private stanno investendo e rivolgendo la loro attenzione a questo specifico mercato, senza essere oggetto di alcuna direttiva ministeriale capace di tutelare la qualità offerta al consumatore finale ed in grado di assoggettare tutti questi operatori al rispetto di una medesima normativa infrastrutturale, fiscale e di reciprocità contrattuale, data anche l'inerzia dell'ex monopolista che non riconosce a questi operatori una distinta tutela contrattuale orientata al costo di mercato ed ai costi emergenti;
   se non ritenga, per poter raggiungere questo obbiettivo, di dover assumere iniziative per procedere ad un riconoscimento della categoria di operatori postali privati di tipo retail. (4-13405)


   REALACCI. — Al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   entro il 31 dicembre 2014, cioè oltre un anno e 5 mesi fa, doveva essere emanato il decreto con i nuovi incentivi alle rinnovabili elettriche non fotovoltaiche. Tra svariate bozze, passaggi in Conferenza Stato-regioni e in Commissione europea, ad oggi ancora non si è giunti alla stesura finale;
   circa un mese fa dopo il via libera della Commissione europea, si sottolinea, Si era arrivati a un testo che si diceva pronto per la firma dei ministri competenti, del quale erano conosciuti i contenuti. Ma anche questa bozza adesso pare in stallo;
   questo ritardo ovviamente sta mettendo a rischio la stessa sopravvivenza degli operatori del settore;
   dalla lettura di un articolo pubblicato, il 6 giugno 2016, sulla rivista online «QualEnergia.it» Si è venuti a conoscenza che esisterebbe una lettera formale della direzione generale «concorrenza» della Commissione europea che chiede al Governo chiarimenti sugli incentivi alle biomasse elettriche, ex certificati verdi, presenti all'articolo 32 del decreto sulle fonti rinnovabili non fotovoltaiche visto che, si spiega, potrebbero essere la causa di una distorsione nel mercato di approvvigionamento dei combustibili legnosi;
   quindi potrebbe essere questa una causa per cui il decreto, rinviato dalla Commissione ai Ministeri competenti il 29 aprile, non è stato ancora pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale a distanza di oltre un mese dalla sua stesura;
   anche a seguito di tutto questo il nuovo Ministro dello sviluppo economico sembra che abbia voluto approfondire il riesame del decreto;
   il Presidente del Consiglio, nelle scorse settimane, aveva più volte affermato, di voler raggiungere nel 2018 la quota del 50 per cento di rinnovabili per la produzione di energia elettrica;
   proprio alla luce di queste dichiarazioni non bisogna lasciare un settore che si considera così strategico in questo stato di limbo normativo;
   il provvedimento, come è noto, cesserebbe i suoi effetti a fine anno, anche se venisse firmato oggi, con la conseguenza che i tempi sarebbero più che risicati per consentire agli operatori di settore di programmare gli investimenti;
   solo come esempi esplicativi, Si evidenzia che per la consegna di una turbina mini eolica ci vogliono almeno 4-5 mesi; pertanto l'accesso diretto agli incentivi sarebbe di fatto questi precluso, mentre, per quanto riguarda i registri che permettono di prenotare il diritto all'incentivo, questi sono già in overbooking e chiusi a tutti i nuovi progetti, dato che il criterio di precedenza è l'anteriorità nei titoli autorizzativi;
   una delle conseguenze finanziarie per gli operatori del settore è sotto gli occhi di tutti: basta pensare a quale banca scommetterebbe in nuovi progetti nelle rinnovabili elettriche in questo contesto;
   in Italia le rinnovabili (non fotovoltaiche) sono «al palo»: il know-how e i capitali che potrebbero essere valorizzati in Italia Si stanno riversando all'estero, in Paesi che hanno definito un percorso più chiaro per lo sviluppo delle rinnovabili, come emerge dall'ultimo Irex Report di Althesys. Tutto questo per il fatto di non essere riusciti, in oltre due anni di lavoro, a creare un quadro normativo stabile –:
   quali siano i motivi di questo ritardo nell'emanazione del decreto sugli incentivi;
   se tali motivi fossero da far risalire ai dubbi della Commissione europea sull'articolo 32, se non si debba procedere rispondendo urgentemente alla Commissione medesima che non si tratta di aiuti di Stato, o, se il Ministro interrogato condivida quei dubbi, se non ritenga opportuno semplicemente eliminare quel comma dalla versione finale del decreto;
   se non ritenga urgente, per non incappare negli stessi errori ma soprattutto per rimediare al danno subito dagli operatori del settore, assumere iniziative affinché venga predisposto ed emanato per tempo, anche attraverso un'ampia consultazione delle associazioni degli operatori del settore, il prossimo decreto, quello che dovrà definire i meccanismi incentivanti dal 2017 con un orizzonte almeno triennale affinché si possa guardare al futuro con più certezza e sicurezza. (4-13409)

Apposizione di firme a mozioni.

  La mozione Locatelli e altri n. 1-01291, pubblicata nell'allegato B ai resoconti della seduta del 25 maggio 2016, deve intendersi sottoscritta anche dai deputati: Roberta Agostini, Carloni, Cinzia Maria Fontana, Giacobbe, Romanini, Gribaudo, Iacono, Patrizia Maestri, Quartapelle Procopio, Schirò.

  La mozione Ghizzoni e altri n. 1-01294, pubblicata nell'allegato B ai resoconti della seduta del 7 giugno 2016, deve intendersi sottoscritta anche dal deputato Vico.

Apposizione di una firma ad una interrogazione.

  L'interrogazione a risposta scritta Andrea Maestri e altri n. 4-13380, pubblicata nell'allegato B ai resoconti della seduta del 7 giugno 2016, deve intendersi sottoscritta anche dal deputato Turco.

Ritiro di documenti del sindacato ispettivo.

  I seguenti documenti dono stati ritirati dai presentatori:
   interrogazione a risposta scritta Palazzotto n. 4-11563 del 22 dicembre 2015;
   interrogazione a risposta in Commissione Fassina n. 5-08562 del 3 maggio 2016;
   interrogazione a risposta scritta Sibilia n. 4-13134 del 10 maggio 2016;
   interrogazione a risposta in Commissione D'Uva n. 5-08817 del 7 giugno 2016.

Trasformazione di un documento del sindacato ispettivo.

  Il seguente documento è stato così trasformato su richiesta del presentatore: interrogazione a risposta scritta Marco Di Stefano n. 4-13282 del 23 maggio 2016 in interrogazione a risposta in Commissione n. 5-08838.

ERRATA CORRIGE.

  Nell'Allegato B ai resoconti della seduta del 20 aprile 2016, alla pagina 36843, seconda colonna, le righe dalla trentasettesima alla trentottesima si intendono soppresse.