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XVII LEGISLATURA

Allegato B

Seduta di Lunedì 18 aprile 2016

ATTI DI INDIRIZZO

Mozioni:


   La Camera,
   premesso che:
    la continuità territoriale, intesa come garanzia di libertà di movimento, uguale per ogni cittadino indipendentemente dalla realtà geografica nella quale vive, si inserisce in un quadro più ampio di garanzie dell'eguaglianza sostanziale dei cittadini e di coesione di natura economica e sociale del territorio, promosso e tutelato anche in sede europea;
    il trasporto, infatti, se da un lato si configura come attività di tipo prettamente economico, dall'altro, rappresenta l'elemento costitutivo del «diritto alla mobilità» tutelato sul fronte nazionale in via principale dall'articolo 16 della Costituzione, e più in generale esplicazione del principio di eguaglianza di cui all'articolo 3 della Costituzione;
    sul fronte europeo è il diritto dei Trattati istitutivi a pretendere l'integrale superamento degli ostacoli che si frappongono all'attuazione del diritto alla continuità territoriale anche attraverso il riconoscimento, in presenza di certe condizioni, dello stato di insularità;
    inoltre, l'atto di indirizzo che qui si presenta segue altri di analogo contenuto anche approvati dal Parlamento, ma che ad oggi non hanno prodotto ad avviso dei firmatari del presente atto, un adeguato impegno complessivo del Governo;
    le politiche nazionali volte a ridurre gli effetti negativi derivanti dallo svantaggio territoriale sono sempre risultate del tutto inadeguate, in particolar modo con riguardo alla Sardegna, che è la regione che più di tutte soffre della propria distanza dal continente europeo;
    nonostante l'oggettivo svantaggio dato dalla sua conformazione geografica, ad oggi alla Sardegna non è ancora stato riconosciuto lo «stato di insularità» dall'Unione europea e quindi essa non gode delle prerogative attribuite alle regioni cosiddette «ultra periferiche» e altre realtà insulari di altri Paesi membri;
    inoltre, l'attuale progetto sulla cosiddetta continuità, peraltro contestato anche dalle amministrazioni locali e dal consiglio regionale, appare insufficiente ad assicurare un sistema di trasporti moderno, ampio ed integrato;
    non pare intravedersi alcuna azione risolutiva soprattutto in funzione della attivazione di idonee procedure di allargamento del mercato sardo dei collegamenti aerei a un maggiore numero di compagnie in grado di estendere il numero dei voli e aumentare e diversificare le rotte;
    i collegamenti insufficienti e costosi incidono negativamente per una regione, come la Sardegna, che fonda sul turismo parte rilevante del proprio sviluppo economico e anche sociale;
    la Sardegna vive ormai da tempo in balìa della disorganizzazione più totale dei trasporti, con il rischio di veder aggravata la condizione di crisi con conseguenze particolarmente negative anche sui diritti dei cittadini e delle imprese della regione,

impegna il Governo:

   a rendere note tutte le iniziative che intende assumere, anche in raccordo con la giunta regionale, in materia di collegamenti da e per la Sardegna, e compresi quelli per le isole minori, chiarendo, in particolare se non ritenga di dover agire in funzione di un complessivo rilancio economico e sociale dell'isola, perché il trasporto aereo – persone e merci – sia uno dei segmenti su cui fondare lo sviluppo della Sardegna, anche come spazio logistico per i collegamenti europei ed extra europei, soprattutto avuto riguardo all'intero bacino del Mediterraneo;
   ad affrontare l'emergenza nella quale versano attualmente i collegamenti aerei da e per la Sardegna anche in relazione al mancato riconoscimento del suo stato di insularità, e alle annunciate decisioni di abbandono da parte di compagnie low cost di importanti scali, come quello di Alghero, di assoluto rilievo per la difesa e lo sviluppo della economia e dell'occupazione nell'intero territorio sardo e, in particolare, in quello del centro-nord dell'isola;
   a chiarire, per quanto di competenza, l'andamento della vertenza Meridiana, ed, in particolare, a rendere chiarimenti sull'ipotesi di cessione della compagnia suddetta alla Qatar Airways, anche in relazione alla gestione delle 900 unità di personale, inizialmente dichiarato in esubero, al fine di comprendere quale sia il livello di diretto interessamento da parte del Governo e dei Ministeri competenti (Ministeri dell'infrastrutture e dei trasporti e del lavoro e delle politiche sociali);
   a chiarire quali iniziative di competenza intenda intraprendere per consentire il permanere negli scali sardi del vettore Ryanair o di altre compagnie anche low cost, le quali, in assenza di specifici aiuti o forme adeguate di sostegno, annunciano la cancellazione delle rotte sarde.
(1-01224) «Capelli, Dellai, Tabacci, Baradello, Caruso, Ciracì, Di Gioia, Fauttilli, Fitzgerald Nissoli, Galperti, Santerini, Sberna, Vargiu».


   La Camera,
   premesso che:
    a discussione sul tema delle unioni civili e i recenti fatti di cronaca che hanno riguardato note figure politiche hanno riproposto all'attenzione dell'opinione pubblica la pratica aberrante della maternità surrogata;
    la maternità surrogata rappresenta indubbiamente un tema complesso e delicato e con numerose zone d'ombra;
    oggi, infatti, mediante la surrogazione di maternità, risulta concepibile che una donna esterna alla coppia possa portare nel proprio grembo un bimbo che sarà poi, a tutti gli effetti legali, figlio della coppia committente, sulla base di un «contratto» che può essere a titolo gratuito oppure oneroso. Dunque, la madre surrogata si obbliga a provvedere alla gestazione e al parto di un bambino che sarà poi «consegnato» alla coppia committente, rinunciando così a ogni diritto sul nascituro. Quali che siano le ragioni che spingono coppie e singoli a rivolgersi a questa pratica, resta il fatto che alla base vi è una sovrapposizione non condivisibile tra aspirazioni e diritti, che annulla ogni riferimento alla dimensione comunitaria e confina la maternità ad una prospettiva totalmente individualistica;
    nella maternità surrogata si chiede a una donna di portare in grembo un bambino, per poi darlo via appena nato. Le si chiede anche di mutare il suo comportamento e di rischiare di diventare poi sterile; di accettare le eventuali patologie legate allo stato di gravidanza, potenzialmente anche molto pericolose e talora mortali. La donna deve mettere a disposizione il suo metabolismo per il desiderio di genitorialità di altre persone, dalle quali è usata come un contenitore e un'incubatrice;
    in un mondo occidentale in cui, anche per le difficoltà economiche che gravano sulle famiglie, è sempre più difficile fare figli, la madre perde il diritto anche a essere chiamata mamma, costretta a sottoporsi totalmente alle esigenze del mercato, mentre, per chi può permetterselo, la «produzione» dei figli è appaltata in outsourcing, secondo criteri di convenienza industriale;
    la maternità surrogata o «gestazione per altri» o «utero in affitto» istituisce un contratto che stabilisce la proprietà del bambino come oggetto, di cui risulta molto difficile evitare la mercificazione, anche nel caso si dichiari la scelta libera della madre naturale; la natura commerciale del contratto è provata, in particolare, dall'obbligo di distinguere tra la donna che dona l'ovocita e la donna che effettivamente conduce la gravidanza;
    nella maternità surrogata il bambino, oltre ad essere sottratto alla propria madre biologica, viene espropriato del diritto a conoscere le proprie origini;
    è tempo dunque che i Paesi occidentali, dai quali partono i ricchi compratori, si assumano le loro responsabilità ponendo in atto iniziative e leggi per scoraggiare la domanda;
    la pratica della maternità surrogata si sta infatti diffondendo nel mondo, creando una pericolosa deriva verso quello che potremmo definire «diritto al figlio», senza alcun rispetto per i diritti umani e i principi etici fondamentali. L'Europa, in particolare, deve assumere un ruolo guida nella difesa dei diritti umani, anche e soprattutto in virtù dei suoi motivi fondanti;
    la maternità surrogata o «gestazione per altri» o «utero in affitto» risulta essere in contraddizione con i principi delle stesse istituzioni europee, contro lo sfruttamento del corpo umano, il diritto del bambino ad avere una madre, nonché con la Convenzione su diritti umani e biomedicina (Convenzione d'Oviedo) che prevede: «Il corpo umano e le sue parti non devono essere in quanto tali fonte di profitto» (articolo 21), con il diritto a conoscere le proprie origini o con la Convenzione sulle adozioni che stabilisce che le madri abbiano tempo dopo il parto prima del consenso all'adozione;
    la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, alla quale l'articolo 6 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, come modificato dal Trattato di Lisbona, ha attribuito lo stesso valore giuridico vincolante dei trattati, è sicuramente il punto di riferimento in questo contesto;
    si segnala a questo proposito la condanna da parte del Parlamento europeo della pratica della surrogazione senza distinzione tra «altruistica» e «per profitto», e la richiesta, nella risoluzione adottata il 5 aprile 2011, agli Stati membri di riconoscere il grave problema della surrogazione della maternità, quale sfruttamento del corpo e degli organi produttivi, rilevando, allo stesso tempo, come nella surrogazione di maternità si ravvisi chiaramente il pericolo di considerare donne e bambini quali merci sul mercato internazionale della riproduzione sino a produrre l'effetto di incrementare la tratta di tali soggetti, nonché le adozioni illegali transnazionali;
    il 30 novembre 2015, la «Relazione annuale sui diritti umani e la democrazia nel mondo nel 2014 e sulla politica dell'Unione europea in materia» del Parlamento europeo, al comma 114, nella parte sui diritti delle donne e delle ragazze ha condannato «la pratica della surrogazione, che compromette la dignità umana della donna dal momento che il suo corpo e le sue funzioni riproduttive sono usati come una merce; ritiene che la pratica della gestazione surrogata che prevede lo sfruttamento riproduttivo e l'uso del corpo umano per un ritorno economico o di altro genere, in particolare nel caso delle donne vulnerabili nei Paesi in via di sviluppo, debba essere proibita e trattata come questione urgente negli strumenti per i diritti umani»;
    il 15 marzo 2016 la Commissione questioni sociali e salute del Consiglio d'Europa ha respinto l'adozione di un progetto di risoluzione e di un progetto di raccomandazione su «Diritti umani e questioni etiche relative alla gestazione per altri», in cui si chiedeva di regolare la gestazione per altri, evitando lo sfruttamento a scopo di lucro ma senza incoraggiare gli Stati membri del Consiglio a evitare tale pratica;
    il 2 febbraio 2016 si è costituita presso il Parlamento francese, su iniziativa tra le altre della filosofa Sylvaine Agacinski l'assise mondiale contro la pratica della maternità surrogata, ed è stata firmata la Carta per l'abolizione universale della maternità surrogata che esplicitamente chiede il bando dal mondo intero;
    anche l'Italia, dove la surrogazione di maternità è vietata, è chiamata a fare la sua parte, essendo ipocrita e inaccettabile per i presentatori del presente atto di indirizzo che il divieto di questa pratica sul suolo nazionale possa essere aggirato grazie all'impossibilità di sanzionarlo se la maternità surrogata è eseguita all'estero;
    sta accadendo in questo campo quanto accade già per la vendita di gameti per la fecondazione eterologa – un'altra modalità di commercializzazione del corpo umano e di sfruttamento del corpo delle donne – per la quale il divieto previsto dalla legge italiana è aggirato da alcune regioni con l'acquisto da altri Paesi, nei quali stranamente a differenza dell'Italia le donatrici sembrano abbondare;
    in realtà, nella surrogazione della maternità, come e più che nella «donazione» di gameti, si concretizza una crudele forma di sfruttamento della donna e del suo corpo (e non solo di esso); tali donne risultano vittime, in massima parte inconsapevoli, di un vero e proprio «turismo procreativo» e come tale da condannare e da perseguire al pari secondo i firmatari del presente atto del cosiddetto «turismo sessuale», perpetrato a danno di minori;
    in questo quadro fattuale, così articolato, è evidente come non siano poche le problematiche che sorgono sia dal punto di vista etico, che da quello giuridico. Difatti, sono pochi i Paesi in cui tale pratica risulta legale e molti quelli in cui, al contrario, non è consentita o addirittura non considerata affatto dall'ordinamento giuridico, nel senso che non è regolata da nessuna norma;
    una pratica che la legge n. 40 del 2004 vieta già in Italia, ma per la quale l'entità della pena prevista non consente l'automatica perseguibilità del reato quando questo sia commesso all'estero. Taluni Paesi, infatti, considerano tale pratica illecita, mentre altri, al contrario, ritenendola lecita, la regolamentano mediante apposite leggi;
    in generale, la maggior parte dei sistemi giuridici occidentali è orientata ad evitare gli atti dispositivi del proprio corpo quando cagionino una diminuzione permanente dell'integrità fisica, quando siano altrimenti contrari alla legge, all'ordine pubblico o quando rappresentino forme di possibile sfruttamento di condizioni di bisogno;
    per effetto delle pratiche surrogatorie (in particolar modo di quelle eterologhe), la maternità assume caratteri di sempre più marcata «procedimentalizzazione», che ne intaccano la naturale fisionomia «unitaria», a causa del coinvolgimento di figure diverse (la madre genetica, la madre biologica e la «committente»), tutte potenzialmente idonee a rivendicare un titolo di genitura esclusiva sul nato. Il diritto si muove quindi attualmente in un mare periglioso, essendo chiamato con maggior frequenza a stabilire quale, tra i diversi soggetti che pure hanno dato un contributo causale alla realizzazione di quell'articolato «procedimento medico-legale», in cui si risolve la maternità surrogata, debba essere considerato «genitore» agli effetti legali, con tutto quel che ne deriva in termini di assunzione dei diritti e delle connesse responsabilità sul nato. In particolare, ci si chiede se la prevalenza dovrà essere data in via di principio al fattore naturalistico o a quello volontaristico-sociale e, all'interno dello stesso fattore naturalistico, in caso di conflitto tra la madre genetica e quella uterina, quale sia quella a cui l'ordinamento debba accordare preferenza;
    nel nostro Paese, attualmente, la materia non è disciplinata in modo organico, ovvero con una legge apposita; il quadro di riferimento della normativa vigente è costituito unicamente dalla previsione contenuta al comma 6 dell'articolo 12 delle legge 19 febbraio 2004, n. 40, che punisce con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 ad un milione di euro chi organizza o pubblicizza la surrogazione di maternità;
    il divieto di maternità surrogata posto dalla legge italiana, disposto ai sensi del comma 6 dell'articolo 12 delle legge n. 40 del 2004, benché presidiato da una sanzione penale (reclusione da tre mesi a due anni e multa da 600.000 a un milione di euro) – sanzione applicabile, oltre che alle cliniche e al personale sanitario coinvolto nella procedura, anche ai soggetti che vi ricorrono (coppia committente e madre surrogata) – non risolve i problemi sopra accennati (potendo al massimo contribuire a prevenirli in virtù della forza deterrente della norma incriminante), dato che questi sono destinati a ripresentarsi tutte le volte che la maternità surrogata sia eseguita nonostante e contro il divieto legale;
    la disposizione citata si presta, infatti, ad essere facilmente elusa dal momento che essa non prevede che la surrogazione di maternità realizzata da un cittadino italiano possa essere perseguita anche se effettuata all'estero;
    non risultano infatti casi nel nostro territorio in cui il reato sia stato effettivamente commesso e quindi punito. In vari casi, anzi, i tribunali trascrivono gli atti di nascita di bambini nati all'estero la cui origine non è chiara, nel nome dell'interesse del minore a restare inserito nella coppia che ne ha chiesto l'ingresso in Italia, contestando invece altri tipi di reato come la falsa dichiarazione a pubblico ufficiale;
    né risulta che il Ministro della giustizia sia mai intervenuto per rendere perseguibile il reato commesso all'estero in singoli casi, come pure il codice penale gli avrebbe consentito;
    se, dunque, la legge n. 40 del 2004 ha ritenuto di dover vietare la pratica della surrogazione di maternità commessa in Italia, applicando addirittura ad essa una sanzione penale, è necessario prevedere che, in ossequio ai principi dell'universalità e della personalità della legge penale, tale reato sia punito, altresì, nel momento in cui sia commesso sul suolo estero dal cittadino italiano,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative per mettere in atto tutti gli strumenti necessari per evitare la legittimazione della pratica della maternità surrogata in sede europea ed internazionale, intervenendo in particolare in sede di Onu, di Parlamento europeo e di Consiglio d'Europa, con particolare riferimento alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 2000, alla Convenzione dei diritti del bambino del 1989, con annesso protocollo sulla vendita dei bambini (2000), alla Risoluzione del Parlamento europeo del 5 aprile 2011 con la quale viene condannata la pratica della surrogazione, alla Relazione annuale sui diritti umani e la democrazia nel mondo nel 2014 e sulla politica della Unione europea in materia, adottata dalla planaria del Parlamento europeo il 30 novembre 2015, valutando anche l'opportunità di promuovere l'adozione, in ambito internazionale, di un protocollo aggiuntivo alla Cedaw (Carta contro lo sfruttamento e la schiavitù delle donne) che condanni la pratica della maternità surrogata;
   ad assumere iniziative normative volte a far sì che i fatti previsti dal comma 6 dell'articolo 12, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, limitatamente alla fattispecie della surrogazione di maternità, siano puniti anche quando commessi all'estero da cittadino italiano;
   a valutare l'opportunità di ricorrere, nel frattempo e per il tramite del Ministro di giustizia, al dispositivo dell'articolo 9 del codice penale, secondo il quale il cittadino che commette in territorio estero un reato per il quale è stabilita una pena restrittiva della libertà personale di durata inferiore ai tre anni (come nel caso della maternità surrogata) può essere punito su richiesta del Ministro della giustizia;
   ad assumere iniziative volte a prevedere – in ogni caso – che la trascrizione in Italia dell'atto di nascita dei bambini nati all'estero attraverso le tecniche di maternità surrogata possa avvenire solo fornendo la copia originale del contratto di surroga, da depositare all'anagrafe del nato, dalla quale si evincano con chiarezza sia l'identità della madre surrogata, sia le generalità di eventuali fornitori di gameti, in moda da garantire al bambino la possibilità di conoscere in ogni momento le proprie origini biologiche.
(1-01225) «Dellai, Gigli, Santerini, Fauttilli, Capelli, Piepoli, Sberna, Baradello».


   La Camera,
   premesso che:
    in concomitanza con la discussione sul riconoscimento dei matrimoni omosessuali, (presumibilmente anche con finalità strumentali volte a distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica dal tema principale, ossia la violazione manifesta del riconoscimento della famiglia quale nucleo fondamentale della società ai sensi dell'articolo 29 della Costituzione), è tornata di estrema attualità la questione della pratica disumana della maternità surrogata;
    il legislatore già nel 2004 con l'approvazione della legge n. 40 aveva fissato il divieto della pratica della maternità surrogata. L'articolo 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004 ha sancito che chiunque in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizzata la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro;
    la legge n. 40 che, di fatto, è stata depotenziata a «colpi» di sentenze, anche in relazione al divieto di maternità surrogata non trova piena applicazione. Il divieto e le sanzioni previste dalla legge vigente non sono applicate né alle coppie italiane che fanno ricorso all'utero in affitto all'estero né a chi organizza e pubblicizza in Italia la maternità surrogata, predisponendo il ricorso alla pratica fuori dal nostro Paese;
    fa riflettere ad esempio come personaggi pubblici, noti anche per i loro incarichi di responsabilità politica istituzionale, abbiano reso palese, attraverso i canali mediatici, di aver violato la legge, avallando, così, la tesi di una impunità di fatto;
    appare irragionevole ai firmatari del presente atto di indirizzo come il Parlamento e il Governo, al fine di chiarire l'appartenenza della materia alla sfera tipica della discrezionalità legislativa, non abbiano mai sollevato un conflitto di attribuzione nei confronti di sentenze dove l'autorità giudiziaria ha proceduto all'auto-produzione della disposizione normativa introducendo, di fatto, il riconoscimento della step child adoption anche in casi di ricorso alla maternità surrogata;
    il business della maternità surrogata si è rapidamente esteso ed organizzato. Le aree principali dove opera questa rete sono il Canada, gli Stati Uniti, l'India e l'Ucraina. Negli USA si spendono in media 89 mila euro, in Ucraina 43 mila euro, in India 42 mila euro. In Ucraina può scendere anche a 5-8 mila euro. Alcuni «cataloghi» permettono di scegliere il corredo genetico – colore degli occhi, capelli, e altro – del nascituro. Il punto non è solo la gestational surrogacy, ma anche la cosiddetta third-party reproduction, dove madre e padre legalmente riconosciuti non entrano mai in gioco coi loro corpi e il loro corredo genetico e l'alterità del figlio è integrale. Ogni anno si stima che circa 4.000 coppie italiane si rivolgano a centri ucraini;
    si avverte che sta accadendo qualcosa di poco chiaro, si percepisce che ci sono forze che utilizzano strategie articolate per giungere al proprio obiettivo. L'obbiettivo è quello antico, di scardinare le tradizioni, l'identità culturale, sociale e religiosa del nostro Popolo;
    si tratta di una strategia più volte collaudata che si fonda ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo sulla reiterazione della menzogna, sullo sfruttamento di singoli casi che non possono non colpire la sensibilità umana, sul bombardamento mediatico, sulla imposizione di uno standard culturale;
    questo metodo apologetico, già sperimentato tante volte in passato, ha l'obbiettivo di ottenere una crescente adesione alle tesi di un gruppo inizialmente piccolo usando la leva della emotività anziché quella della ragione;
    l'accelerazione dei fenomeni di degenerazione nell'educazione sfocia, oggi giorno, in un vero e proprio allarme educativo. Sempre più in modo repentino si diffonde un pensiero unico laicista che trova sostegno anche in iniziative legislative, secondo i firmatari del presente atto di indirizzo, irragionevoli; alcune amministrazioni comunali, ad esempio, hanno approvato proposte finalizzate a cancellare dai documenti ufficiali la definizione di padre e madre per sostituirla con espressioni quali genitore 1 e genitore 2, oppure genitore richiedente o altro genitore;
    Chesterton scriveva: «La grande marcia della distruzione culturale proseguirà. Tutto verrà negato. Tutto diventerà un credo. Accenderemo fuochi per testimoniare che due più due fa quattro». Con queste parole Chesterton intendeva dire che ciò che fino ad allora era stata un'affermazione di buon senso e di razionalità – per esempio che tutti nasciamo da un uomo e da una donna – in futuro sarebbe diventata una tesi da bigotti, un dogmatismo da condannare e sanzionare. Sosteneva che ci si doveva preparare alla grande battaglia in difesa del buon senso;
    fa riflettere pensare che coloro che sostengono che sia giusto anteporre la libertà di scelta della donna rispetto alla tutela della vita nascente siano gli stessi che da un lato, si impegnano affinché, ad esempio, si preveda anche per legge che i cuccioli di animale non debbano essere separati dalle proprie madri e, dall'altro lato, vogliono che il desiderio alla genitorialità sia riconosciuto senza alcun limite e che si possa realizzare anche attraverso la compravendita dell'utero di donne disperate;
    alla luce delle considerazioni esposte, fa riflettere come in questi giorni il Consiglio d'Europa abbia accolto un ricorso della Cgil per la mancata applicazione della norma sull'interruzione volontaria di gravidanza e stabilito che nel nostro Paese le pazienti continuano a incontrare «notevoli difficoltà» nell'accesso ai servizi, nonostante quanto previsto dalla legge n. 194. La sentenza ha inoltre sancito che l'Italia discrimina medici e personale sanitario che non hanno optato per l'obiezione di coscienza. Questa decisione del Consiglio d'Europa potrebbe mettere a rischio il diritto all'obiezione di coscienza;
    con l'ampliamento – determinato dal trattato di Maastricht – delle competenze e degli obiettivi comunitari anche al di là di quelli strettamente mercantilistici, sono però apparse evidenti e non più trascurabili le interferenze tra la realizzazione del mercato unico e la disciplina dello status delle persone e dei rapporti di famiglia. Così, pur sempre difettando di una diretta competenza comunitaria a regolare, sul piano sostanziale, tale tipo di rapporti, l'azione delle istituzioni ha assunto una crescente incidenza sul diritto di famiglia, fino a condizionare pesantemente la disciplina al riguardo vigente nei singoli Stati membri;
    ad una prima fase, contrassegnata dall'emanazione di atti non vincolanti, specialmente del Parlamento europeo, quali ad esempio le numerose risoluzioni in materia di tutela dei diritti e delle libertà fondamentali degli individui, tra cui quelle sulla parità dei diritti per gli omosessuali nell'Unione europea, è seguita una seconda fase in cui l'impatto del processo di integrazione europea è andato facendosi sempre più pregnante, sia per la natura degli atti che hanno assunto la forma di strumenti comunitari vincolanti, sia per le finalità perseguite;
    l'incidenza del diritto dell'Unione europea sulla disciplina nazionale si è realizzata anche attraverso la tutela dei diritti fondamentali di cui la Corte del Lussemburgo si è resa principale promotrice;
    oggi, a seguito dell'entrata in vigore della riforma di Lisbona, una codificazione dei diritti fondamentali, per di più con forza giuridica pari a quella dei trattati, esiste anche a livello dell'Unione europea e si identifica, come noto, nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea;
    in questa Europa, dove prevale esclusivamente la ragione economica, una politica interna occasionale e una politica estera ondivaga, la difesa della sovranità nazionale su temi di tale rilevanza politica deve essere considerata una priorità;
    le decisioni prese in Europa non possono condizionare in alcun modo il diritto alla sovranità nazionale di ogni Stato membro di legiferare in piena autonomia in ambiti etici di tale importanza. Notizie che apparentemente possono essere colte come segnali positivi; si pensi al voto contrario espresso dalla Commissione affari sociali del Consiglio d'Europa sul rapporto «Diritti umani ed i problemi etici legati alla surrogacy», presentato dalla deputata belga Petra de Sutter, ginecologa, favorevole da sempre alla regolamentazione della gpa, vanno considerate sempre, a giudizio dei firmatari del presente atto di indirizzo, nel loro complesso, come vere e proprie ingerenze su tematiche che non devono essere affrontate da questa Europa, incapace, ad oggi, di riconoscere le sue stesse radici;
    la pratica disumana della maternità surrogata o utero in affitto che rappresenta la mercificazione dei bambini e lo sfruttamento del corpo delle donne deve essere condannata come un crimine nei confronti dell'umanità;
    in questa occasione bisogna, con coerenza, ricordare che qualsiasi intervento legislativo volto a garantire il rispetto della donne nell'esercizio dei loro diritti, al fine di raggiungere una piena pari opportunità, non è nulla se si contrappone, nei fatti, ad un totale disinteresse delle istituzioni dinnanzi a casi di recrudescenza di una violenza sistematica nei confronti delle donne, umiliate e sfruttate attraverso pratiche orribili come il ricorso alla maternità surrogata;
    è necessario quindi che si promuova a livello internazionale una moratoria per bandire questo crimine,

impegna il Governo:

   a farsi promotore, in tutte le sedi competenti, di una moratoria internazionale della pratica, a giudizio dei firmatari del presente atto di indirizzo disumana, della maternità surrogata;
   ad assumere tutte le iniziative di competenza per far sì che possano essere applicate le sanzioni previste dalla legge n. 40 del 2004 per la surrogazione di maternità;
   a promuovere una maggiore consapevolezza sul tema e ad adottare ogni iniziativa di competenza, in sede europea, affinché si possa diffondere una cultura di tutela dei diritti del nascituro e del minore che sarebbero lesi dal ricorso a pratiche di maternità surrogata.
(1-01226) «Rondini, Saltamartini, Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Busin, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Molteni, Picchi, Gianluca Pini, Simonetti».


   La Camera,
   premesso che:
    «la gestazione per altri (gpa) o maternità surrogata è la pratica attraverso la quale una donna decide di portare avanti una gravidanza per conto di altre persone (single o coppie etero e omosessuali»;
    nel mondo, la regolamentazione delle donatrici di gameti e della gestazione per altri, variano da Paese a Paese, spaziando dal divieto assoluto ai modelli basati sul vincolo del dono o a quelli basati sui rimborsi minimi, fino alla completa assenza di limiti giuridici;
    in Italia, la maternità surrogata è illegale; la legge n. 40 del 2004 prevede espressamente il divieto di pratiche riconducibili al cosiddetto utero in affitto. Recita infatti l'articolo 12, comma 6, della citata legge: «Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro»;
    il divieto e le sanzioni previste dalla legge vigente, sono sistematicamente disattesi. Infatti, le coppie che fanno ricorso all'utero in affitto all'estero (nonostante il reato commesso all'estero sia perseguibile attraverso il ricorso all'articolo 9 del codice penale anche quando la pena prevista sia inferiore ai tre anni), e chi organizza e pubblicizza in Italia la maternità surrogata, fuori dal nostro Paese, non subiscono alcuna restrizione o condanna;
    i tribunali interpellati consentono, invece, alle coppie che hanno fatto ricorso all'utero in affitto all'estero di trascrivere l'atto di nascita dei neonati, riconoscendo le coppie committenti come genitori legali;
    oggi, medicina riproduttiva e medicina rigenerativa hanno aperto nuovi mercati globali, direttamente legati alle potenzialità generative e riproduttive dei corpi. Cresce, infatti, a livello mondiale, la domanda di ovociti, uteri, sperma, placenta, sangue del cordone ombelicale, cellule staminali, embrioni da utilizzare anche nell'industria farmaceutica e nel campo della ricerca. Prolificano cliniche specializzate in fecondazione assistita e maternità sostitutiva e si stanno diffondendo agenzie intermediarie capaci di reperire nel mercato questi materiali in vivo;
    solo per citare alcuni esempi, il prezzo medio di ovociti negli Stati Uniti si aggira intorno ai 10.000 dollari, mentre le madri surrogate sono pagate dai 20.000 a 150.000 dollari circa. I genitori committenti, quasi sempre devono sostenere costi molto elevati per l'aggiunta di procedure cliniche e spese legali;
    in India il contratto più diffuso comprende il pagamento di uno stipendio a intervalli regolari per la donna che si impegna a portare a termine una gravidanza per una coppia committente. Il compenso è fino a 7 volte maggiore del loro reddito annuale medio, per questo le donne acconsentono alla trasformazione del loro utero in una risorsa, capace di proporre rendita;
    la maternità surrogata o di sostituzione (altrimenti detta surrogazione di maternità, in inglese surrogate mother o surrogacy), rispetto alle ordinarie procedure di fecondazione artificiale (omologa o eterologa) richiede la collaborazione di una donna estranea alla coppia (che può essere la stessa donatrice dell'ovulo impiegato per la fecondazione o una donna diversa) che mette a disposizione il proprio utero per condurre la gravidanza e si impegna a consegnare il bambino, una volta nato, alla coppia «committente» (ossia alla coppia che ha manifestato la volontà di assumersi la responsabilità genitoriale nei confronti del nato);
    a seconda che la madre surrogata si limiti ad accogliere in grembo un embrione che le è geneticamente estraneo o contribuisca alla procreazione dello stesso, fornendo ai «committenti» i propri gameti, si distingue tra «surrogazione per sola gestazione» (si parla in tal caso anche di «donazione», se a titolo gratuito, o di «locazione» o «affitto» d'utero, se è pattuito un corrispettivo) e «surrogazione per concepimento e gestazione»;
    la surrogazione per sola gestazione può essere, «omologa» (in questo caso la madre sostituita accoglie un embrione formato dai gameti forniti dai genitori naturali) o «eterologa» (quando l'embrione da impiantare nell'utero della surrogata è il frutto dell'incontro tra il gamete di un membro della coppia richiedente e quello di un terzo donatore di seme o di una ovo donatrice); nella surrogazione «eterologa» i gameti da cui deriva l'embrione impiantato nel grembo della madre sostituta possono essere forniti da terze persone, estranee tanto alla coppia committente quanto alla stessa madre surrogata;
    la surrogazione di maternità porta con sé i limiti di un contratto che potrebbe imporre l'interruzione di gravidanza in caso di malformazioni del feto o la soppressione di uno o più feti nel caso la gravidanza si presenti come gemellare o multipla;
    il contratto di maternità surrogata di solito prevede un compenso che risarcisca per l'impegno assunto e sostenga economicamente fino al parto la mamma surrogata;
    la pratica della maternità surrogata non di rado porta il nascituro ad avere due madri biologiche (una genetica e una gestazionale) ma può accadere che la madre legalmente riconosciuta sia una terza donna, fatto questo che ha implicazioni antropologiche e sociali;
    il legittimo desiderio di avere bambini non è un diritto esigibile;
    la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla lotta contro la tratta degli esseri umani, ritiene lesiva dei diritti «il reclutamento (...) di persone (...) con l'abuso (...) della condizione di vulnerabilità (...) a fini di sfruttamento (che) comprende pratiche simili alla schiavitù e specifica che, in questi casi, il consenso della vittima allo sfruttamento è irrilevante»;
    la surrogazione di maternità è a giudizio dei firmatari del presente atto di sindacato ispettivo in contrasto con la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 che, all'articolo 1, recita: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti», perché i nati da maternità surrogata, a differenza di tutti gli altri bambini del mondo, non cresceranno con la donna che li ha partoriti, cioè la madre, ma con persone che vi hanno stipulato un contratto e l'hanno costretta ad abbandonarlo alla nascita;
    la Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989, all'articolo 8, stabilisce che «Gli Stati parti si impegnano a rispettare il diritto del fanciullo a preservare la propria identità», e all'articolo 32, dispone che «Gli Stati parti riconoscono il diritto del fanciullo di essere protetto contro lo sfruttamento economico»;
    la pratica della maternità surrogata contrasta per i firmatari del presente atto con la cosiddetta Convenzione di Istanbul, in cui, con l'espressione «violenza nei confronti delle donne», si intende designare una violazione dei diritti umani comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica; e con la Convenzione di Oviedo sui diritti umani e la biomedicina (1997), che, all'articolo 21 stabilisce che «Il corpo umano e le sue parti non debbono essere, in quanto tali, fonte di profitto»; principio ribadito dall'articolo 3 della Carta europea dei diritti fondamentali (2000) sul diritto all'integrità della persona, in particolare quando prevede che si rispetti «il divieto di fare del corpo umano e sue parti in quanto tali una fonte di lucro»;
    la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea sancisce, all'articolo 3 il «divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro»;
    la risoluzione del Parlamento europeo del 5 aprile 2011 impegna gli Stati membri a «riconoscere il grave problema della surrogazione di maternità, che costituisce uno sfruttamento del corpo e degli organi riproduttivi femminili»;
    il Parlamento europeo nella risoluzione sulla Relazione annuale sui diritti umani e la democrazia nel mondo nel 2014 «condanna la pratica della surrogazione, che compromette la dignità umana della donna dal momento che il suo corpo e le sue funzioni riproduttive sono usati come una merce; ritiene che la pratica della gestazione surrogata che prevede lo sfruttamento riproduttivo e l'uso del corpo umano per un ritorno economico o di altro genere, in particolare nel caso delle donne vulnerabili nei Paesi in via di sviluppo, debba essere proibita e trattata come questione urgente negli strumenti per i diritti umani»;
    anche il Consiglio d'Europa che sta discutendo il rapporto «Human rights and ethical issues related to surrogacy», dovrebbe pronunciarsi, a quanto consta ai firmatari del presente atto, scoraggiando ogni forma di maternità surrogata per profitto;
    il Comitato nazionale per la bioetica, ha approvato la «mozione su maternità surrogata a titolo oneroso» ritenendo che la maternità surrogata sia un contratto lesivo della dignità della donna e del figlio sottoposto come un oggetto a un atto di cessione e si è espresso contro la mercificazione del corpo umano con le mozioni sulla compravendita di organi a fini di trapianto, del 18 giugno 2004; sulla compravendita di ovociti, del 13 luglio 2007; ha espresso un parere sul traffico illegale di organi umani tra viventi, il 23 maggio 2013; e ritiene che l'ipotesi di commercializzazione e di sfruttamento del corpo della donna nelle sue capacità riproduttive, sotto qualsiasi forma di pagamento, esplicita o surrettizia, sia in netto contrasto con i principi bioetici fondamentali;
    nel diritto internazionale ed europeo, non è comunque prevista alcuna disposizione giuridica che vieti in maniera universale la maternità surrogata,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative, a livello nazionale e internazionale, affinché la surrogazione di maternità sia considerata reato universalmente perseguibile;
   ad attivarsi in tutte le sedi opportune per riconoscere e tutelare in maniera omogenea negli ordinamenti nazionali e internazionali i diritti delle donne e dei bambini oggetto di sfruttamento e di mercificazione nei casi di ricorso a pratiche di maternità surrogata.
(1-01227) «Vezzali, Monchiero».

Risoluzioni in Commissione:


   La XI Commissione,
   premesso che:
    è ancora irrisolta la grave situazione che accompagna ormai da anni i 116 lavoratori della Evraz Palini e Bertoli, società italiana leader nella lavorazione dell'acciaio del gruppo russo di proprietà di Roman Abramovich. L'impianto di San Giorgio di Nogaro, come è noto, era già stato chiuso per due anni a causa della recessione nel mercato delle lamiere, e, attualmente, a soli quattro mesi dalla riapertura, vi è ancora incertezza sul destino dei dipendenti;
    si ricorda che era stato accordato un piano industriale finalizzato alla salvaguardia dei livelli occupazionali esistenti, che prevedeva il rientro, entro la fine del 2015, dei 116 dipendenti dopo il termine della cassa integrazione straordinaria. Tuttavia, l'azienda solo in minima parte ha adempiuto agli accordi previsti; in particolare, a quanto è dato sapere, il rientro è avvenuto solo per pochi lavoratori. Inoltre, la proprietà di Evraz Palini e Bertoli aveva dichiarato che lo stabilimento sarebbe stato rilanciato sul mercato con l'offerta di nuovi servizi e lavorazioni, ma ciò non è avvenuto;
    negli anni si sono succeduti una serie di atti di sindacato ispettivo dell'interrogante, da ultimo l'interrogazione del 23 febbraio 2016 (n. 5/07865), per sollecitare il Ministero del lavoro e delle politiche sociali a porre in essere iniziative a tutela dei dipendenti dello stabilimento di San Giorgio di Nagaro, rilevando la necessità di fare chiarezza sulle reali intenzioni della proprietà, rispetto alle prospettive della Evraz Palini e Bertoli;
    ebbene, ancora oggi, le ricorrenti crisi dell'azienda accompagnate da una condotta della proprietà societaria a giudizio del firmatario del presente atto non trasparente, lasciano i lavoratori in un persistente stato di ansia e disagio economico, considerando che dal mese di giugno 2013 usufruiscono degli ammortizzatori sociali, poi periodicamente prorogati per crisi, ristrutturazione e calo di commesse;
    intanto, presso l'impianto di San Giorgio di Nogaro è attivo un solo forno e, dunque, lavora un solo turno di dipendenti che rappresenta il 30 per cento della forza lavoro; nel mese di maggio 2016 è in scadenza la cassa integrazione e dopo tale periodo non è dato sapere cosa accadrà, poiché i dipendenti non sono a conoscenza delle prospettive dell'azienda e sulla loro sorte continua ad esserci «silenzio» assoluto da parte della proprietà;
    a tale situazione, si aggiunge, in ulteriore pregiudizio per i lavoratori, la perdita degli 80 euro del «bonus» Renzi per il 2016, a causa di un problema tecnico del Ministero del lavoro e delle politiche sociali che ha dato in ritardo l'autorizzazione all'Inps al pagamento del secondo semestre del 2015 della cassa integrazione, determinando il mancato pagamento della cassa nell'anno di competenza. Ciò ha comportato una perdita di 1.400 euro per chi non ha carichi familiari, nell'ipotesi di continuare la cassa integrazione anche per tutto il 2016, mentre la perdita per un operaio con moglie e due figli a carico sarà equivalente a 2.110 euro. Per di più, chi ne aveva diritto per il 2015, non potrà più usufruire di detrazioni per lavori di ristrutturazione edilizia nella propria abitazione. È evidente che queste ulteriori problematiche non sarebbero sopravvenute se la cassa integrazione per ristrutturazione fosse stata interamente anticipata dall'azienda;
    ad oggi, sebbene vi siano state delle richieste di acquisto di Evraz Palini e Bertoli, sembra che non vi sia l'intenzione di vendere l'azienda, ma considerati i seri problemi di operatività della stessa, non è dato sapere quali siano le possibilità di rilancio dello stabilimento e se venga garantito il rientro di tutti i lavoratori;
    tra l'altro, non si comprende questo perenne stato di crisi e di stallo dello stabilimento, che si contrappone ad una più intensa attività e richiesta di commesse sostenute dalle altre aziende del settore,

impegna il Governo

ad adottare urgenti iniziative al fine di salvaguardare i livelli occupazionali della Evraz Palini e Bertoli di San Giorgio di Nogaro, interpellando, a tal fine, la proprietà dell'azienda affinché dichiari definitivamente le proprie concrete intenzioni sul destino e sull'operatività dello stabilimento.
(7-00972) «Rizzetto».


   La XII Commissione,
   premesso che:
    da un articolo di stampa del 12 aprile 2016 pubblicato da Bari.Repubblica.it, si apprende che in Puglia gli obiettori di coscienza sull'aborto siano in aumento e che tra il 2014 e il 2015 l'aumento sia stato in media del 5 per cento e che ormai nove ginecologi e altrettante ostetriche su dieci si rifiutino di praticare le interruzioni volontarie di gravidanza (Ivg), mettendo a serio rischio l'applicazione della legge n. 194 del 1978 e ponendo la Puglia fra le prime cinque regioni in Italia per numero di obiettori;
    inoltre, si sottolinea nell'articolo, che: «Questo aumento degli obiettori negli ospedali pubblici non può che far piacere alle cliniche private convenzionate che dalle Ivg delle donne guadagnano un bel po’ di soldi. Anzi, a dire la verità ormai sono proprio le cliniche private a garantire l'effettiva pratica degli aborti. Si può dire senza timore di smentita che se non ci fossero i privati la legge 194 in Puglia di fatto resterebbe inapplicata.»;
    altro dato sconcertante è che per esempio al SS. Annunziata di Taranto esista un solo non obiettore di coscienza, rendendo la struttura inefficiente in caso di aborti, in particolare per quelli terapeutici, praticati in difesa della salute e della vita delle donne tarantine;
    inoltre, con deliberazione della giunta regionale Puglia n. 161 del 29 febbraio 2016 «Regolamento Regionale: “Riordino Ospedaliero della Regione Puglia ai sensi del decreto ministeriale 70 del 2015 e della Legge di stabilità 28 dicembre 2015, n. 208. Modifiche e integrazione del R.R. n. 14 del 2015”, si è dato il via al nuovo piano di riordino ospedaliero pugliese per il prossimo triennio»;
    la Puglia, con la sua rete ospedaliera, offre al 21 gennaio 2016, 13mila posti letto, distribuiti tra 74 presidi pubblici e privati accreditati che, con il riordino, tali posti letto sono stati ridistribuiti tra ospedali di secondo livello (hub), ospedali di primo livello e ospedali di base;
    dalla riforma Taranto risulta l'unica Asl in Puglia priva di pneumologie pubbliche e il SS Annunziata Moscati è l'unico presidio ospedaliero di II livello in Puglia privo di pneumologia ospedaliera e cardiochirurgia, a differenza di quanto indicato nei piani regionali deliberati sino al 2015. La riforma attribuisce invece 37 posti letto di pneumologia a privati mentre la cardiochirurgia Toracica è assegnata esclusivamente a Foggia, Bari e Lecce;
    da un documento, redatto dal «Dipartimento Area Medica – ASL TA», si evince che «Taranto paga una penalizzazione quantitativa e qualitativa, per errori di valutazione (carichi di lavoro e piante organiche) e per mancata istituzione dei servizi. I piani di riordino prevedevano reparti e U.O. per il pubblico e per il privato; purtroppo il privato li ha realizzati, nel pubblico non sono stati mai avviati: 600 posti letto in meno (standard attuale previsto. Max 3,7 posti letto ogni 1000 abitanti); 2000 (circa) occupati in meno nella Asl di Taranto. Ne consegue un gap per carenza di risorse in termini di assistenza e qualificazione futura con prevedibile impossibilità di rientrare negli standard. In particolare, l'impossibilità di rientrare nei termini previsti dalla legge di stabilità 2016: scostamento tra costi (rilevati nel modello ministeriale CE consuntivo) e Ricavi (determinati come remunerazione dell'attività) pari o superiore al 10 per cento dei ricavi, in valore assoluto, pari ad almeno 10 milioni di euro; economici (legge di Stabilità 2016)»;
    il quadro descritto non lascia adito a dubbi: la riforma varata dal consiglio regionale penalizza, a giudizio degli interroganti, fortemente Taranto e tutta l'area circostante, lasciando da soli ancora una volta i cittadini che giornalmente si trovano a fare i conti con i problemi ormai atavici della città: disoccupazione dilagante; inquinamento ambientale; degrado urbano; aumento delle patologie oncologiche e altro;
    in una precedente mozione sul Mezzogiorno, la n. 1-00766 del 25 marzo 2015, sulla quale il Governo ha espresso parere favorevole, a firma Labriola ed altri, era già stato affrontato il problema della carenza di strutture sanitarie per il Sud facendo riferimento in particolare alle aree più a rischio ambientale impegnando il Governo a: «potenziare le strutture ospedaliere territoriali colmando le insufficienze strutturali e, soprattutto, la carenza di tecnologie avanzate, nell'ottica di un ammodernamento della strumentistica medica e dello sblocco del turnover del personale, con particolare attenzione per quelle zone in cui le evidenze epidemiologiche e scientifiche testimoniano un'elevata presenza di patologie oncologiche e di fronteggiare in maniera realistica ed incisiva l'emergenza ambientale, con particolare riguardo per quelle zone in cui tale allarme sia diretta conseguenza della presenza di realtà produttive di grandi dimensioni, valutando, in riferimento all'area di Taranto e alla presenza dell'Ilva, l'opportunità, di assumere iniziative di carattere legislativo volte ad assicurare un aggiornamento quantomeno trimestrale della valutazione del danno sanitario prevista dall'articolo 1-bis, del decreto-legge n. 207 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 dicembre 2012, n. 231, in modo da avere stime puntuali e dati precisi a fronte di medie annuali,

impegna il Governo:

   ad assumere opportune iniziative normative per un riordino della disciplina riguardante l'obiezione di coscienza e per garantire la giusta assistenza alle donne costrette ad eseguire un aborto terapeutico utile per la salvaguardia della salute e della vita stessa, in particolare per la provincia di Taranto;
   ad adottare le iniziative di competenza volte a garantire i livelli essenziali di assistenza con particolare attenzione a zone come quella di Taranto e provincia in cui è fondamentale garantire un idoneo servizio sanitario di emergenza e lungodegenza legato, alle patologie polmonari e cardiache, per rispondere al crescente fabbisogno locale, per la criticità ambientale che coinvolge l'intera area.
(7-00973) «Borghese, Labriola».

ATTI DI CONTROLLO

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI

Interrogazione a risposta orale:


   CARRESCIA, PREZIOSI, MANZI, GIOVANNA SANNA, ZARDINI, COMINELLI, CAROCCI, TULLO, BRATTI, CARELLA, STELLA BIANCHI e CAPONE. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   l'articolo 35 del decreto legge n. 133 del 2014 (cosiddetto «Sblocca Italia»), convertito con modificazioni dalla legge 11 novembre 2014, n. 164, stabilisce che entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto «il Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, con proprio decreto, individua a livello nazionale la capacità complessiva di trattamento di rifiuti urbani e assimilati degli impianti di incenerimento in esercizio o autorizzati a livello nazionale, con l'indicazione espressa della capacità di ciascun impianto, e gli impianti di incenerimento con recupero energetico di rifiuti urbani e assimilati da realizzare per coprire il fabbisogno residuo, determinato con finalità di progressivo riequilibrio socio-economico fra le aree del territorio nazionale e nel rispetto degli obiettivi di raccolta differenziata e di riciclaggio, tenendo conto della pianificazione regionale. Gli impianti così individuati costituiscono infrastrutture e insediamenti strategici di preminente interesse nazionale, attuano un sistema integrato e moderno di gestione di rifiuti urbani e assimilati, garantiscono la sicurezza nazionale nell'autosufficienza, consentono di superare e prevenire ulteriori procedure di infrazione per mancata attuazione delle norme europee di settore e limitano il conferito di rifiuti in discarica»;
   il testo dello schema del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri previsto dall'articolo 35 è stato trasmesso il 27 aprile 2015 dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare alla Presidenza del Consiglio dei ministri che ha provveduto (nota prot. CSR 000423 P-4 23.2.14 del 29 luglio 2015) ad avviare l’iter per l'acquisizione del previsto parere della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano;
   lo schema reca anche l'individuazione del fabbisogno residuo da coprire mediante la realizzazione di impianti di incenerimento con recupero di rifiuti urbani e assimilabili;
   molte sono le criticità che però a proposta presenta sia dal punto di vista tecnico sia di coerenza con la ratio legis dell'articolo 35 del decreto-legge n. 133 del 2014;
   le informazioni acquisite dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, poste alla base dello schema del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, relativamente alla disponibilità di impianti attivi o autorizzati come impianti di incenerimento riguardano infatti il periodo antecedente agli obblighi di adeguamento derivanti dalla attuazione dell'articolo 35 stesso, in particolare i commi 3 e 5 nonché, in taluni casi, piani regionali di gestione rifiuti da adeguare e non adeguati nei termini previsti dall'articolo 199 del decreto legislativo n. 152 del 2006 (12 dicembre 2013) ovvero, per quelli adeguati, una loro non congrua valutazione;
   le conclusioni relative al fabbisogno impiantistico partono da informazioni e dati che non essendo sempre aggiornati risultano ancora «al netto» dell'intervento normativo dei commi 3 e 5 dell'articolo 35 dello «Sblocca Italia» e della capacità effettivamente trattabile dai singoli impianti;
   lo schema finisce così, ad avviso degli interroganti, per essere in contrasto con la logica degli avvenimenti intercorsi e con la consistente diminuzione del fabbisogno residuo di incenerimento che deriva dall'attuazione dei piani e da una loro più corretta interpretazione;
   il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare ha utilizzato una modalità di calcolo del fabbisogno di smaltimento (rectius, di recupero) finale che talora non ha tenuto conto in modo corretto dello scenario dei piani regionali di gestione dei rifiuti; tipico è il caso della regione Marche il cui PRGR pone l'obiettivo di riduzione della produzione dei rifiuti del 6,2 per cento al 2020 a fronte di una raccolta differenziata almeno del 70 per cento; gli scenari del piano ipotizzano inoltre un 20 per cento circa di materiali di recupero dal flusso dei rifiuti urbani avviati, al trattamento e che vanno perciò sottratti dalla quota dell'incenerimento così come il 30 per cento di CSS-combustibile e altro; sono insomma situazioni che modificano (da 200.000 a circa 85.000 tonnellate l'anno il dato finale ipotizzato dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri); analoghe situazioni si rinvengono anche con riferimento ad altri piani regionali:
   lo schema del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, al fine di individuare il fabbisogno residuo ha assunto come riferimento la produzione di rifiuti urbani indifferenziati e lo ha calcolato sulla base di una raccolta differenziata del 65 per cento che però, ai sensi dell'articolo 205 del decreto legislativo n. 152 del 2006 e delle gerarchie comunitarie di gestione, è solo un «obiettivo minimo» e non «un vincolo da non superare...» tant’è che alcune regioni (per esempio anche il Veneto) hanno programmato soglie più elevate;
   è doveroso ricordare che la Corte Costituzionale, pur quando ha riconosciuto la prevalenza della specifica disciplina statale in presenza di esigenze ambientali incomprimibili, ha comunque ammesso la residua potestà delle regioni di assicurare livelli di tutela maggiori di quelli previsti dallo Stato (sentenza 58 del 2013);
   lo schema del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri computa una necessità di incenerimento del 10 per cento dei rifiuti raccolta differenziata; le percentuali di scarti, nei modelli domiciliari (quelli di riferimento per il conseguimento degli obiettivi nazionali di raccolta differenziata e soprattutto per quelli incrementali ora in discussione nell'ambito del dibattito sulla economia circolare a livello di Unione europea) sono però inferiori, a volte marcatamente inferiori; non tutti gli scarti da attività di riciclaggio sono inceneribili (ad esempio gli scarti da vetrerie) e gran parte degli scarti inceneribili sono invece anche riciclabili (ad esempio le plastiche eterogenee) in modo più coerente con le gerarchie dell'Unione europea di gestione dei rifiuti ed anche traendone un migliore profitto economico;
   gli scenari europei porteranno ad un aumento degli obiettivi di recupero di materia che non potranno coesistere con una situazione di infrastrutturazione «pesante» basata esclusivamente sugli inceneritori, impianti finanziariamente sostenibili solo con un'alimentazione con flussi «certi» di rifiuti urbani per 20-30 anni;
   viene poi assunta una produzione del 65 per cento di CSS dagli impianti di pretrattamento; è un dato che appare decisamente eccessivo rispetto alla realtà degli stessi impianti di produzione e che non tiene neppure conto dei quantitativi di CSS che rispondendo alle condizioni di cui all'articolo 184-ter del T.U.A. sono utilizzabili in cementifici o centrali termoelettriche (14 dicembre 2013) e che vanno dunque sottratti al computo delle necessità complessive di incenerimento come rifiuti;
   lo schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri non sembra aver tenuto in debito conto nemmeno delle politiche regionali che hanno previsto la «riduzione» dei rifiuti urbani prodotti attraverso azioni incisive di prevenzione e riciclo. È assunta solo un’«invarianza del quantitativo di rifiuti urbani», ma non viene valutato l'effetto dei programmi di prevenzione/riduzione del rifiuto resi obbligatori dall'articolo 29 della direttiva 2008/98, del decreto direttoriale del MATTM 7 ottobre 2013 recante «Adozione e approvazione del programma nazionale di prevenzione dei rifiuti»;
   il profilo più rilevante che richiede un atto parlamentare sull'argomento sta nel fatto che la ratio dell'articolo 35 non è quella di voler soddisfare il fabbisogno residuo solo con l'incenerimento. Il richiamo esplicito alle pianificazioni regionali sovente incentrate su soluzioni organizzative (ad esempio massimizzazione del «porta a porta», del riciclo e del recupero) significa che non si sono voluti precludere comunque scenari diversi dalla soluzione «unica» della termodistruzione invece ipotizzata nello schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri;
   in altri termini l'obiettivo non era (e non può divenire ora con un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri «attuativo») quello di ottenere l'autosufficienza nella gestione dei rifiuti urbani mediante la costruzione esclusivamente di inceneritori in ogni «macro Area» e, all'interno di ciascuna di esse, in quasi tutte le regioni;
   il fatto che ogni regione non necessariamente debba essere autosufficiente solo mediante inceneritori è dimostrato dalla possibilità di conferire i rifiuti urbani alla termodistruzione anche fuori quella di produzione (articolo 35, comma 7, decreto-legge 133 del 2014);
   la criticità dello schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri sta nell'avere invece assunto lo scenario dell'incenerimento con recupero di energia come unica soluzione finale mentre la stessa direttiva comunitaria e quella nazionale la pongono solo come «un'opzione» seppur gerarchicamente da preferire allo smaltimento in discarica ma non certo nei termini ultimativi e alternativi ad ogni altra soluzione;
   l'ordine di priorità nella gerarchia delle soluzioni non significa che una esclude tassativamente l'altra, perché se così fosse sarebbe lecito chiedersi perché non si concentrino le risorse e le azioni solo sulla prevenzione, riciclo e recupero;
   ma vi sono anche altre criticità, di carattere tecnico-normativo;
   le tabelle allegate allo schema di decreto riportano i quantitativi trattabili in termini di tonnellate per anno;
   l'introduzione dello scenario dell’«incenerimento dei rifiuti urbani» come unico e vincolante scardinerebbe in molte regioni le politiche virtuose finora realizzate e quelle programmate di prevenzione della produzione di rifiuti, di riciclo e recupero e sarebbe antieconomica e in contraddizione con gli indirizzi di programmazione locale;
   essa comporta anche significative ripercussioni sulla programmazione regionale; vedasi, ad esempio, quella della Lombardia, in particolare sull'autosufficienza riguardante lo smaltimento mediante recupero energetico dei rifiuti indifferenziati e in relazione ad obiettivi strategici come la decommissioning di alcuni impianti per la quale quella regione ha attivato tavoli di lavi o con operatori e amministratori locali per la gestione delle istruttorie di rispettiva competenza;
   inoltre, ai sensi dell'articolo 3 paragrafo 2, lettera a), della Direttiva 2001/42/CE, i piani e i programmi che sono elaborati per il settore della gestione dei rifiuti sono soggetti ad una valutazione ambientale strategica la quale deve precedere «tutti i piani e i programmi che sono elaborati (...) per la valutazione della gestione dei rifiuti» (negli stessi termini dispone l'articolo 6, comma 2, lettera a), dell'attuativo decreto legislativo n. 152 del 2006);
   il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri in questione rientra appieno in questa casistica e non può esimersi dalla valutazione ambientale strategica né il singolo inceneritore potrebbe sottrarsi ai criteri localizzativi dei piani regionali e soprattutto alla idoneità/non idoneità delle aree, al rispetto dei vincoli ambientali e paesaggistici che il decreto legislativo 152 del 2006 ha demandato a regioni e province (si pensi alle aree PAI, ZPS, DOC, DOP, Z.T.B., Rete Natura 2000 – Direttiva Habitat 92/43/CEE, direttiva «uccelli» 79/409/CEE, aree boscate e altro);
   in altri termini: l'articolo 35, del decreto-legge n. 133 del 2014, contempla un vero e proprio programma integrato nazionale per la gestione dei rifiuti urbani e speciali mediante impianti di recupero energetico. La norma stabilisce, infatti, che gli impianti di recupero inseriti nel decreto del Presidente del Consiglio dei ministri di cui al comma 1, sono qualificati come infrastrutture di preminente interesse nazionale, che i medesimi devono essere autorizzati ad operare a saturazione del carico termico, che dovranno rispondere alle caratteristiche degli impianti R1, e che, non sussistendo vincoli di bacino, all'interno degli stessi dovrà essere data priorità al trattamento dei rifiuti urbani provenienti dall'intero territorio nazionale;
   l'articolo 4 della direttiva 2001/42/CE (cosiddetta direttiva VAS), rubricato «Obblighi generali», stabilisce inoltre che «la valutazione ambientale di cui all'articolo 3 deve essere effettuata durante la fase preparatoria del piano o del programma ed anteriormente alla sua adozione o all'avvio della relativa procedura legislativa»;
   ai sensi degli articoli da 5 a 12 della menzionata direttiva, poi, la procedura di valutazione ambientale strategica deve comprendere lo svolgimento di una verifica di assoggettabilità, l'elaborazione del rapporto ambientale, lo svolgimento di consultazioni, la valutazione del piano o del programma, del rapporto e degli esiti delle consultazioni, l'espressione di un parere motivato, l'informazione sulla decisione e il monitoraggio;
   il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri appare dunque in contrasto con i suddetti obblighi della direttiva valutazione ambientale strategica, in quanto adotta un vero e proprio programma nazionale in materia di gestione integrata dei rifiuti, senza aver dato luogo alla necessaria procedura di valutazione strategica ambientale con ciò ponendosi in contrasto con gli scopi perseguiti dal legislatore europeo;
   il mancato assoggettamento alla valutazione ambientale strategica, anche alla luce della necessità di definire criteri univoci per la distribuzione territoriale degli impianti, e per la valutazione degli impatti discendenti dalle scelte localizzative da assumere comporta l'elusione delle finalità perseguite dalla direttiva comunitaria, quali quella di garantire un elevato livello di protezione dell'ambiente e di contribuire all'integrazione delle considerazioni ambientali all'atto dell'elaborazione, dell'adozione e della approvazione dei piani e programmi, assicurando che i medesimi siano coerenti e contribuiscano alle condizioni per uno sviluppo sostenibile;
   la previsione in una «rete nazionale» impiantistica strategica non può però prescindere dal tener conto, in un rapporto di leale collaborazione istituzionale, del potere programmatorio e regolamentare delle regioni, anche in relazione al progressivo passaggio da impianti di smaltimento di rifiuti tramite combustione a veri e propri impianti di recupero energetico ed al fatto che dalla lettura congiunta dell'articolo 182, comma 3, dell'articolo 199 del decreto legislativo 152 del 2006 e dell'articolo 35 del decreto-legge 133 del 2014 così come convertito dalla legge n. 164 del 2014 gli impianti non sono vincolati al trattamento dei soli rifiuti prodotti nel territorio (ATO, regione, macroarea) qualora si tratti di rifiuti speciali, fossero pure derivanti dai rifiuti urbani;
   la ripartizione in macro-aree basata su meri criteri teorici e che non tiene conto della viabilità e della contiguità dei territori, delle relazioni e accordi interregionali intercorsi negli anni e di assetti organizzativi consolidati non sembra poi rispondere ad una logica di razionalizzazione del settore;
   un inceneritore in regioni in cui allo stato attuale della produzione di rifiuti urbani la raccolta differenziata, ha superato (ad esempio Trentino Alto Adige) o è già prossima (ad esempio Marche) all'obiettivo del 65 per cento (ad esempio Marche) e nelle quali vi è ancora disponibilità di discariche autorizzate (quindi «conformi alla legge») e previste dai PRGR adeguati al, decreto legislativo 152 del 2006 determinerebbe la necessità di rivedere tutti i piani di ammortamento finanziaria delle discariche, di quelli per la gestione post-mortem e di ripristino ambientale con oneri che andrebbero a cumularsi a quelli, oltremodo ingenti, per realizzare un impianto di incenerimento, costi che si tradurrebbero in un aumento della tassazione per i cittadini –:
   se il Governo non ritenga opportuno, assumere iniziative per:
    a) riesaminare lo schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri inoltrato alle regioni e province autonome con nota prot. CSR 000423 P-4 23.2.14 del 29 luglio 2015 e riproporne uno che sia più coerente con la ratio legis dell'articolo 35 del decreto-legge 133 del 2014 e che sia basato su un'altra e più aggiornata fase di raccolta delle informazioni per verificare gli effetti, in termini di aumento della capacità operativa degli impianti di incenerimento derivanti dagli adeguamenti e delle verifiche previsti dai commi 3 e 5 del medesimo articolo nonché elaborare una programmazione che tenga conto delle variazioni nel frattempo intervenute o già previste sui territori in attuazione dei piani regionali di gestione dei rifiuti;
    b) non prevedere la realizzazione di inceneritori in quelle regioni che hanno già fissato obiettivi di raccolta differenziata superiori al 65 per cento almeno fino al raggiungimento della percentuale prevista e comunque solo se il quantitativo residuale dovesse infine essere superiore alla «taglia minima» di 100.000 tonnellate/anno. (3-02188)

Interrogazione a risposta scritta:


   SEGONI, ARTINI, BALDASSARRE, BECHIS e TURCO. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   la risoluzione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite del luglio 2010 ha sancito che l'accesso all'acqua potabile e ai servizi igienicosanitari è un diritto umano, universale, indivisibile, imprescrittibile, inalienabile: dunque l'acqua non può essere proprietà di nessuno, ma deve essere in bene comune equamente condiviso;
   nel 2003, che è stato dichiarato dall'Organizzazione delle Nazioni Unite «anno mondiale dell'Acqua», proprio a Firenze si è svolto il Forum mondiale alternativo dell'acqua i cui rappresentanti, ispirandosi al concetto di acqua come bene comune necessario alla vita, hanno dichiarato la propria contrarietà a politiche fondate sulla trasformazione dell'acqua in merce;
   con il referendum del 12 e 13 giugno 2011, la maggioranza assoluta delle italiane e degli italiani ha votato «si» ai due quesiti per l'acqua come bene comune e oltre il 95 per cento dei votanti si è espresso dunque in favore dell'esclusione dell'acqua da una logica di mercato e di profitto. Il combinato disposto dal referendum consegna un quadro normativo che rende necessaria la ripubblicizzazione del servizio idrico integrato. Infatti, così come sancito nella sentenza della Corte costituzionale di ammissibilità del primo quesito (sentenza n. 24 del 2011), l'abrogazione dell'articolo 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 dei 2008, riguarda in tale quesito, rimanda direttamente alla disciplina europea in ordine alla gestione dei servizi pubblici locali, la quale prevede anche la gestione tramite enti di diritto pubblico, quali sono ad esempio in Italia le aziende speciali e le aziende speciali consortili; mentre l'abrogazione del comma 1 dell'articolo 154 del decreto legislativo n. 152 del 2006, relativa all'adeguata remunerazione del capitale investito, richiede nel secondo quesito referendario, ha eliminato la possibilità per il gestore di ottenere profitti garantiti sulla tariffa. Con riferimento a tale quesito la Corte costituzionale (sentenza n. 26 del 2011) ha decretato che la nuova tariffa è immediatamente applicabile e deve prevedere esclusivamente la copertura dei costi a partire dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto del Presidente della Repubblica 18 luglio 2011, n. 116;
   da fonti stampa si apprende che, a partire dalle ultime due settimane del mese di marzo 2016, la Nuove Acque Spa, quale gestore del Servizio idrico integrato su concessione dell'AATO 4 (ora Autorità Idrica Toscana – AIT), per mezzo di suoi dipendenti, si è recata presso le abitazioni di diversi cittadini della provincia di Arezzo per intimare loro il pagamento di una presunta morosità, minacciando la sospensione della fornitura dei servizio, che di lì a poco si è concretizzata, causando enormi disagi a numerose famiglie;
   la morosità in questione è da considerarsi presunta in quanto i cittadini che sono stati oggetto della suddetta misura, aderiscono all'iniziativa denominata «Obbedienza Civile», promossa dal Comitato Acqua Pubblica di Arezzo, che consiste nell'omettere il pagamento della quota relativa alla remunerazione del capitale investito, quota (che varia tra il 10 e il 13 per cento) non più esigibile per effetto dell'esito del referendum del giugno 2011, è stato recepito nel decreto del Presidente della Repubblica n. 116 del 18 luglio 2011, fattore che è stato esplicitamente contestato a Nuove Acque Spa la quale ha comunque, proceduto alla sospensione del servizio;
   la Nuove Acque Spa, pretende di esigere tale quota, nonostante l'Autorità Giudiziaria, i Giudici di Pace di Arezzo e Chiavari, abbiano riconosciuto l'illegittimità di tale pretesa, e nonostante l'esito dall'ordinanza del Consiglio di Stato emessa nel ricorso n. 5890 del 2014 R.G.1;
   in base all'articolo 61 (Disposizioni in materia di morosità nel servizio idrico integrato) della legge 28 dicembre 2015, n. 221 (meglio nota come «collegato ambientale», entrata in vigore il 2 febbraio 2016), viene garantito un «quantitativo minimo vitale di acqua necessario al soddisfacimento dei bisogni fondamentali di fornitura per gli utenti morosi», il quale ammonta a 50 litri/giorno pro capite. Pertanto, la sospensione della fornitura di acqua a diverse famiglie di «obbedienti civili» deve considerarsi per gli interroganti di dubbie legittimità perché violerebbe il diritto, riconosciuto espressamente anche ai morosi, di avere garantito il minimo vitale di acqua necessario al soddisfacimento dei bisogni fondamentali per la sopravvivenza, diritto da ritenersi immediatamente precettivo perché rientrante in quella tutela dei diritti fondamentali dell'uomo garantita e riconosciuta dagli articoli 2 e 36 della Costituzione –:
   se il Governo sia a conoscenza dei gravi fatti esposti in premessa, e quali iniziative intenda adottare, affinché venga garantita l'erogazione di 50 litri per abitante in quanto quantitativo minimo vitale giornaliero. (4-12875)

AFFARI ESTERI E COOPERAZIONE INTERNAZIONALE

Interrogazione a risposta scritta:


   MERLO e BORGHESE. — Al Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale. — Per sapere – premesso che:
   la chiusura dell'ambasciata italiana di Santo Domingo, è stata realizzata con una scarna comunicazione nella quale si è deciso che tutta la struttura svanisse e venisse affidata all'ambasciata di Panama, che deve garantire anche i servizi consolari per altri Paesi di secondario accreditamento, come Haiti, Antigua e Barbuda, Saint Kitts e Nevis;
   è stato pertanto triplicato il lavoro dell'ambasciata di Panama, inoltre, le modalità per accedervi, oltre che le difficoltà economiche del viaggio rendono la burocrazia di una semplice domanda una montagna invalicabile, con costi insostenibili per la popolazione ivi residente;
   la sede dell'ambasciata della Repubblica Dominicana ha sempre avuto una notevole rilevanza, in quanto è stata il riferimento per una numerosa comunità italiana;
   la soppressione di una delle più rilevanti sedi consolari dell'America centrale, a differenza di quelle di Paesi come il Nicaragua (ove risiedono 927 italiani) o El Salvador (1879 italiani residenti), piccoli territori per numero di abitanti e per esigenze burocratiche risulta essere, ad avviso degli interroganti, il frutto di una valutazione organizzativa poco funzionale, in quanto riguarda un territorio ove sono presenti 150.000 cittadini tra italiani residenti e turisti che visitano questo Paese;
   tale disposizione, inoltre, pare agli interroganti porsi in palese contrasto con il criterio dell'invarianza dei servizi, indicato nel decreto-legge n. 95 del 2012 sulla spending review, di cui vorrebbe costituire attuazione; infatti la sede che la sostituisce si trova a 1509 chilometri ed è raggiungibile solo in aereo e con alti costi, e pertanto la scelta appare agli interroganti illogica ed incoerente con le stesse finalità indicate all'interno del relativo decreto –:
   se il Ministro interrogato intenda adottare le opportune iniziative per riaprire l'Ambasciata italiana a Santo Domingo, vista l'importanza della sopracitata sede e in considerazione della sentenza con cui il Tar del Lazio, a giugno 2015 ha annullato il decreto che ha soppresso la sede diplomatica italiana nella Repubblica Dominicana. (4-12861)

AMBIENTE E TUTELA DEL TERRITORIO E DEL MARE

Interrogazioni a risposta orale:


   INCERTI. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   nel maggio 2011 è partito espressamente il progetto «scuole in WIFI» con l'obiettivo – tramite dotazione di un «kit wifi» – di consentire ad un numero crescente di istituzioni scolastiche di realizzare reti di connettività senza fili interne agli edifici per offrire servizi innovativi;
   il successivo 27 maggio 2011 una risoluzione del Consiglio d'Europa (1815) invita i Paesi membri a limitare l'esposizione ai campi elettromagnetici in particolare per «i bambini e i giovani che sembrano essere i più suscettibili ai tumori alla testa»;
   con il decreto-legge n. 179 del 18 ottobre 2012 in particolare all'articolo 14, «interventi per la diffusione delle tecnologie», vengono fissati i valori e i limiti intesi a minimizzare il grado di esposizione, tenuto conto dell'utilità di reti di connessione per lo sviluppo tecnologico degli istituti scolastici ma nello stesso tempo della necessità di applicare il principio di precauzione;
   l'articolo 11 della legge 12 settembre 2013, n. 128, ha inoltre autorizzato la spesa per gli anni 2013 e 2014, rispettivamente di 5 milioni di euro e di 10 milioni di euro, per assicurare alle istituzioni scolastiche la realizzazione e la fruizione della connettività wireless, in modo da consentire agli studenti l'accesso ai materiali didattici ed ai contenuti digitali –:
   se i Ministri interrogati non intendano avviare un monitoraggio sulle condizioni e sul rispetto dei suddetti limiti;
   se si intendano assumere iniziative per rivedere la normativa vigente e in particolare l'articolo 14 del decreto-legge n. 179 del 18 ottobre 2012 che, prevedendo il calcolo dei valori della media di esposizione sulle 24 ore, di fatto, non tiene conto dell'utilizzo effettivo limitato ad un massimo di 12 ore;
   se, altresì, non ritengano opportuno avviare l'utilizzo di diverse modalità, oltre al wifi. (3-02189)


   DIENI. —Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   «L'Assemblea Parlamentare (del Consiglio d'Europa) ha ripetutamente sottolineato l'importanza dell'impegno degli Stati membri a preservare l'ambiente e la salute umana dai rischi ambientali» (Risoluzione dell'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa 1815 del 27 maggio 2011);
   «La telefonia mobile è diventata comune nel mondo. Questa tecnologia wireless (senza fili) che si basa su una rete estesa di antenne fisse, o stazioni base, trasmette l'informazione mediante segnali a radiofrequenza. Nel mondo esistono più di 1.400.000 stazioni base ed il numero sta crescendo significativamente con l'introduzione della tecnologia di terza generazione. Altre reti wireless che consentono accesso e servizi con internet ad alta velocità, come reti wireless locali, sono comunemente in crescita nelle abitazioni, uffici e in molte aree pubbliche (aeroporti, scuole, aree residenziali ed urbane). Man mano che il numero delle stazioni base e delle reti wireless locali aumenta, aumenta anche l'esposizione della popolazione alla radiofrequenza»;
   «[...] determinate onde ad alta frequenza usate nel campo dei radar, telecomunicazioni o telefonia mobile, sembrano avere [...] effetti biologici su piante, insetti e animali come sul corpo umano [...]»;
   con provvedimento del 31 maggio 2011, n. 208, l'Agenzia internazionale per la ricerca sul Cancro dell'organizzazione mondiale della sanità, ha inserito i campi di radiofrequenza elettromagnetica nel «Gruppo 2B», classificandoli come «agenti possibilmente cancerogeni per l'uomo»;
   «Alla luce delle considerazioni di cui sopra, l'Assemblea raccomanda che gli Stati membri del Consiglio d'Europa»: «intraprendano tutte le ragionevoli misure per ridurre l'esposizione ai [campi elettromagnetici]»; «riconsiderino le basi scientifiche per gli attuali standards di esposizione ai [campi elettromagnetici] fissati dall[a Commissione Internazionale per la Protezione dalle Radiazioni Non Ionizzanti]; «fissino soglie preventive per l'esposizione a lungo termine alle microonde e in tutte le zone all'interno (indoor), in accordo con il Principio di Precauzione, che non superino gli 0,6 Volt/metro e nel medio termine ridurre questo valore a 0,2 V/m»;
   ai sensi dell'articolo 3, comma 1, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri dell'8 luglio 2003, i valori massimi di esposizione ai campi elettromagnetici sono di 6 Volt/metro;
   quindi, i limiti di esposizione in Italia sono ben 30 volte superiori ai limiti che l'Europa ci chiede di rispettare; in effetti, questa normativa e la presenza di ponti radio di telefonia mobile in luoghi urbani, fanno sì che il valore di sicurezza sia abbondantemente superato nelle case dei cittadini che disgraziatamente si trovano vicine a queste antenne, con danni sulla salute come espresso dall'OMS;
   secondo il report sulle misure dei campi elettromagnetici in località Ravagnese nel comune di Reggio Calabria, i risultati delle misure effettuate nel corso degli anni 2008 e 2011 presso gli impianti a radiofrequenza nell'area di Ravagnese-Saracinello sono inferiori ai limiti di esposizione italiani, ma di 10 volte superiori a quelli europei –:
   quali iniziative di competenza il Governo intenda assumere, in concorso con gli enti territoriali locali e con le forze sociali, per recepire le raccomandazioni di cui alla risoluzione dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa 1815 del 27 maggio 2011 e adottare ogni altra misura necessaria a prevenire e ridurre il rischio dei possibili effetti nocivi dei campi elettromagnetici sull'ambiente e sulla salute umana, a cominciare dall'abbassamento dei limiti di esposizione a tali campi e dallo spostamento delle antenne fisse dai centri urbani. (3-02190)


   TERZONI, ZOLEZZI, BUSTO, DAGA, DE ROSA, MANNINO, MICILLO e VIGNAROLI. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   al Governo, con l'articolo 35 del decreto-legge n. 133 del 12 settembre 2014 detto «sblocca Italia», convertito dalla legge 11 novembre 2014, n. 164, è stata attribuita la facoltà di predisporre un piano nazionale per l'incenerimento da approvare attraverso un successivo decreto;
   l'articolo 35 del decreto-legge è stato successivamente impugnato davanti alla Corte costituzionale dalla regione Lombardia; l'udienza è prevista per l'autunno inoltrato;
   lo schema di decreto è stato presentato alla Conferenza Stato-regioni a settembre 2015, ricevendo un parere favorevole il 5 febbraio 2016, con il voto sfavorevole di Campania e Lombardia e la richiesta di alcuni emendamenti da parte di altre regioni, in particolare sui contenuti dei piani regionali sui rifiuti;
   il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare ha attivato il 15 marzo 2016 la procedura di assoggettabilità a valutazione ambientale strategica del programma nazionale da approvare con il decreto, pubblicando il rapporto preliminare ambientale relativo al programma nazionale di impianti di incenerimento per rifiuti urbani ed assimilati;
   nel rapporto del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare i redattori interpretano la normativa ritenendo che il piano nazionale sarà sovraordinato ai piani regionali esistenti e a quelli in fase di redazione, che dovranno adeguarsi al quadro tracciato dal Governo. Resterà alle regioni, secondo i funzionari ministeriali, la localizzazione e l’iter amministrativo per la costruzione degli impianti che sulla base del decreto assumeranno la classificazione di «infrastrutture e insediamenti strategici di preminente interesse nazionale»;
   il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare nel rapporto preliminare rivolto alle sole autorità con competenze ambientali, sostiene che il piano debba essere escluso dalla fase pubblica di valutazione ambientale strategica. I redattori del rapporto sostengono, infatti, che non è possibile procedere a valutare gli effetti ambientali del piano essendo questa una fase programmatica;
   se il piano non verrà sottoposto a valutazione ambientale strategica completa verrà meno il confronto con cittadini, associazioni ed enti locali, obbligatorio per la fase completa;
   il piano prevede la costruzione di oltre dieci nuovi impianti per incenerire 1,8 milioni di tonnellate di rifiuti in più all'anno nel Paese;
   da un punto di vista tecnico basterebbe prendere in considerazione le emissioni (di polveri, diossine, metalli pesanti, idrocarburi policiclici aromatici e altro) per tonnellata di rifiuti incenerita in un impianto italiano e moltiplicarlo per le quantità di rifiuti che il Ministero vorrebbe far incenerire per avere un dato certo di inquinamento da cui partire per valutare gli effetti sull'ambiente di questo programma;
   nello scorso inverno l'intero Paese per settimane si è bloccato a causa dell'inquinamento da polveri sottili con gravi conseguenze sanitarie ed economiche;
   l'Italia è altresì sotto procedura d'infrazione proprio perché già ora non rispetta gli standard ambientali per la qualità dell'aria, con conseguenze catastrofiche dal punto di vista della salute dei cittadini e morti a decine di migliaia secondo le massime autorità comunitarie in campo ambientale;
   le ceneri derivanti dall'incenerimento di una così ampia quantità di rifiuti dovranno comunque essere oggetto di smaltimento e di tutto ciò non vi è traccia nel documento ministeriale;
   sul tema è stata presentata l'interrogazione n. 4-12675, a firma dell'onorevole Zolezzi, ancora in attesa di risposta –:
   se il rapporto preliminare ambientale abbia recepito le richieste espresse da diverse regioni in Conferenza Stato-regioni circa la validità dei propri piani, già approvati o in via di aggiornamento, qualora escludano il ricorso all'incenerimento;
   se non ritenga che un piano di così vasta portata debba essere assoggettato ad una valutazione ambientale strategica completa, includendo quindi la fase di confronto con i cittadini e le organizzazioni sociali nonché gli enti locali come i comuni, tenendo conto che l'impatto sulla qualità dell'aria e sulle altre matrici ambientali nonché sulla salute umana è facilmente desumibile. (3-02191)


   PIRAS, PELLEGRINO, DURANTI, QUARANTA, RICCIATTI, FOLINO, MELILLA e NICCHI. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   il 29 luglio 2015, il Governo ha inviato una bozza di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri alle regioni – attuativa del decreto-legge 133 del 2014 cosiddetto «Sblocca Italia») – sulla realizzazione di nuovi impianti di incenerimento. Nello specifico la bozza prevedeva l'autorizzazione di 12 nuovi inceneritori in dieci diverse regioni: due in Toscana e Sicilia, uno in Piemonte, Liguria, Veneto, Umbria, Marche, Campania, Abruzzo e Puglia;
   anche in seguito alla ferma opposizione da parte dei presidenti di regione interessati dal provvedimento, la bozza di decreto legislativo non ha avuto seguito;
   a quanto si apprende da diversi organi di stampa (fra cui anche « Il Fatto Quotidiano» del 27 dicembre 2015) circolerebbe ad oggi una seconda bozza di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri con la previsione della costruzione di nove (anziché dodici) nuovi inceneritori, questa volta distribuiti in Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Campania, Abruzzo, Sardegna e due in Sicilia;
   diversi studi, fra cui quello epidemiologico Arpa sull'inceneritore di Vercelli, hanno dimostrato come fra la popolazione esposta agli impianti incenerimento la mortalità aumenti del 20 per cento e la comparsa di tumori maligni del 60 per cento;
   per essere economicamente sostenibile, come espresso più volte da diversi esperti del settore, un inceneritore deve avere una durata ventennale, rischiando quindi seriamente di ingessare gli scenari incrementali di raccolta differenziata;
   la direttiva 2008/98/CE introduce, per quanto concerne il ciclo dei rifiuti, il cosiddetto «principio gerarchico delle 4R» (riduzione, riutilizzo, riciclaggio e recupero energetico);
   attualmente le principali tipologie di impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti speciali esistenti in Sardegna sono le seguenti: impianti di incenerimento/coincenerimento; discariche; impianti di stoccaggio; impianti di recupero;
   la regione Sardegna è dotata di un piano di gestione dei rifiuti che ha assunto come linea-guida cardine della propria articolazione, la necessità di strutturare le raccolte dei rifiuti urbani in maniera tale da programmare e gestire con efficienza ed efficacia le successive operazioni di recupero, trattamento e smaltimento;
   suddetto piano, in coerenza con i principi e i vincoli delle norme comunitarie, ha scelto di privilegiare sistemi di raccolta che responsabilizzino i cittadini e li rendano pienamente partecipi di una gestione dei rifiuti ambientalmente corretta. Viene sostituito definitivamente il concetto di raccolta indifferenziata con quello di una raccolta differenziata che garantisca la massima quantità e la migliore qualità dei materiali recuperabili dai rifiuti. Come elemento base, pertanto, va data priorità all'attivazione delle raccolte domiciliari, le uniche intrinsecamente in grado di indurre comportamenti virtuosi;
   nel corso degli anni la regione Sardegna ha avuto un netto incremento nei risultati ottenuti dalla raccolta differenziata: nel 2013 una percentuale del 50,9 per cento, nel 2008 ha raggiunto il 34,7 per cento confermando il trend positivo che dal 19,8 per cento del 2006 era già passato al 27,9 per cento nel 2007;
   tra gli obiettivi ambientali del piano regionale dei rifiuti, si ha la riduzione della produzione di rifiuti e della loro pericolosità, l'implementazione delle raccolte differenziate, l'implementazione del recupero di materia, la valorizzazione energetica del non riciclabile, la riduzione del flusso di rifiuti indifferenziati allo smaltimento in discarica, e soprattutto la minimizzazione della presenza sul territorio regionale di impianti di termovalorizzazione e di discarica;
   il decreto legislativo n. 152 del 2006 incentra i suoi dettati sul rispetto della gerarchia comunitaria della gestione dei rifiuti, che impone di conseguire, nell'ordine: a) la prevenzione della produzione dei rifiuti; b) la preparazione per il riutilizzo; c) il riciclaggio; d) il recupero di altro tipo, per esempio il recupero di energia; e) lo smaltimento;
   in Sardegna, oltre alcune discariche, sono presenti due impianti di incenerimento: quello di Macchiareddu, saturato dalla produzione dei rifiuti urbani delle, province di Cagliari, di Carbonia-Iglesias e di Villacidro-Sanluri, e quello di Tossilo, a servizio delle province di Nuoro, dell'Ogliastra e in parte di Oristano. I rifiuti urbani non riciclabili prodotti nelle province di Olbia-Tempio e di Sassari, benché trattati, vengono invece smaltiti in discarica;
   attualmente l'inceneritore di Tossilo, a servizio dei territori del centro nord Sardegna, gestito dalla «Tossilo S.p.a.» ed in cui conferiscono 52 comuni, presenta uno stato di crisi economica particolarmente acuta: il bilancio consuntivo al 30 settembre scorso presentava infatti una perdita di circa 655 mila euro, con un ovvia previsione di perdita di esercizio ancora maggiore in chiusura di bilancio al 31 dicembre scorso, stimabile intorno a 800 mila euro;
   il disavanzo è dovuto in particolare alle condizioni dell'impianto di termovalorizzazione, ormai vecchio ed obsoleto, oltre che alla situazione della discarica di Monte Muradu, oramai prossima alla saturazione e fonte di un preoccupante impatto ambientale per l'intera area circostante. La «Tossilo Spa», per mantenere l'equilibrio economico finanziario – oltre come unica soluzione possibile al fallimento e quindi alla perdita sia del servizio che di 38 posti di lavoro – dovrà innalzare le tariffe da 199 a 270 euro a tonnellata più, Iva, con evidente ulteriore aggravio per i contribuenti;
   per mantenere l'attuale standard di sicurezza sulle emissioni risulta inoltre necessario fare investimenti che porterebbero la tariffa fino a una cifra stimata di circa 300 euro a tonnellata;
   il cosiddetto «revamping» dell'impianto costerebbe circa 49 milioni di euro ai bilanci pubblici, somma considerevole a fronte dei 11-20 milioni stimati per un investimento che potrebbe riguardare tecnologie ed impianti di lavorazione dei rifiuti differenziati (plastiche, e altro), tecnologie che implementerebbero il ciclo di lavorazione (riuso, riciclo) dei rifiuti, riconvertendolo rispetto alla pratica predominante dell'incenerimento;
   la legge della regione Sardegna n. 6 del 24 aprile 2001 all'articolo 6, comma 19 prevede che: «È fatto divieto di trasportare, stoccare, conferire, trattare o smaltire, nel territorio della Sardegna rifiuti, comunque classificati, di origine extraregionale» –:
   se i Ministri interrogati siano a conoscenza di quanto esposto in premessa e se non intendano render note le intenzioni del Governo;
   se i Ministri interrogati, da to anche quanto esposto in premessa, non ritengano di dover escludere la Sardegna dalle previsioni dello schema di decreto di cui sopra;
   se i Ministri interrogati non ritengano sia di maggiore utilità destinare le medesime risorse economiche alla realizzazione nell'isola di impianti per il potenziamento del servizio della raccolta differenziata, del riuso e del riciclo dei rifiuti. (3-02194)


   ZOLEZZI, VIGNAROLI, TERZONI, DAGA, BUSTO, MICILLO, DE ROSA e MANNINO. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   l'articolo 4 della direttiva 2008/98/CE stabilisce la priorità della prevenzione dei rifiuti rispetto a qualsivoglia operazione di trattamento dei medesimi, da ciò ne consegue per gli Stati membri dell'Unione europea la redazione dei piani nazionali di prevenzione nei quali essi debbono, fra l'altro, stabilire degli obiettivi di riduzione;
   l'articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2003/35/CE sulla partecipazione del pubblico alle decisioni in materia, ambientale stabilisce che il pubblico debba poter esprimere osservazioni quando tutte le opzioni sono aperte;
   la risoluzione doc. XVIII n. 80 approvata al Senato, a prima, firma della senatrice Laura Puppato, afferma fra l'altro la necessità di dirottare gli incentivi economici dalla produzione di energia a quella di materiali;
   la risoluzione n. 9 della regione Lombardia approvata nella seduta del 28 novembre 2013, afferma testualmente che «La stima di sovracapacità impiantistica al 2020 risulta pari a ben 1298003 tonnellate»;
   la risoluzione n. 4886 del 17 dicembre 2013 proposta in regione Emilia Romagna dalla consigliera Barbati e altri afferma testualmente che «dal Documento Preliminare del PRGR risulta che, con riferimento al 2011, il quantitativo complessivo di rifiuti inviato all'incenerimento negli impianti presenti in Emilia-Romagna è pari a 1.104.500 tonnellate annue e constatato che in base agli scenari di piano tracciati nel Documento Preliminare del PRGR tale quantitativo si ridurrà del 43 per cento al 2020, per un ammontare complessivo stimato in 626.930 tonnellate di rifiuti indifferenziati» da ciò si evince un surplus di circa 500000 tonnellate/anno anche per Emilia Romagna;
   nell'interrogazione presentata dal primo firmatario del presente atto n. 5-06513 si rileva come un inceneritore ha una resa energetica reale dell'1,5 per cento (dati ARPAV su inceneritore di Padova) analizzando anche l'energia spesa per la filiera di preparazione all'incenerimento. È inaccettabile che il 46 per cento dell'energia lorda, prodotta da quell'inceneritore sia incentivata contro l'1,5 per cento messo nettamente in rete. Il denaro speso per incentivare l'incenerimento (585 milioni di euro nel 2014, dati GSE) e il percolato da discarica (165 milioni) potrebbe contribuire a gestire meglio la filiera dei rifiuti solidi urbani in un'ottica di recupero di materia. Nella medesima interrogazione si era già rilevato come l'Unione europea, in primis tende a marginalizzare il ruolo degli inceneritori nel processo di gestione dei rifiuti; in tal senso la normativa italiana riconosce anche a questi impianti gli incentivi (CIP6 e certificati verdi), riferiti alla, produzione di energia elettrica prodotta con impianti alimentati da fonti rinnovabili; la perseveranza nelle scelte a favore dell'incenerimento dei rifiuti è data, in primo luogo, proprio dall'incentivazione tariffaria dell'energia prodotta da tale tipo di impianti, che include i termovalorizzatori tra beneficiari di incentivi, senza alcuna distinzione tra fonti organiche e fonti non biodegradabili; l'incenerimento dei rifiuti è la pratica con minima sostenibilità nell'ambito della gerarchia europea dei rifiuti, che privilegia invece il recupero di materia;
   l'articolo 35 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164 dispone che «entro novanta, giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, il Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, con proprio decreto, individua a livello nazionale la capacità complessiva di trattamento di rifiuti urbani e assimilati degli impianti di incenerimento in esercizio o autorizzati a livello nazionale, con l'indicazione espressa della capacità di ciascun impianto, e gli impianti di incenerimento con recupero energetico di rifiuti urbani e assimilati da realizzare per coprire il fabbisogno residuo, determinato con finalità di progressivo riequilibrio socio-economico, fra le aree del territorio nazionale e nel rispetto degli obiettivi di raccolta differenziati e di riciclaggio, tenendo conto della pianificazione regionale. Gli impianti così individuati costituiscono infrastrutture e insediamenti strategici di preminente interesse nazionale, attuano un sistema integrato e moderno di gestione di rifiuti urbani e assimilati, garantiscono la sicurezza nazionale nell'autosufficienza, consentono di superare e prevenire ulteriori procedure di infrazione per mancata attuazione delle norme europee di settore e limitano il conferimento di rifiuti in discarica»;
   il decreto-legge n. 133 in merito all'articolo 35 sta subendo un iter attuativo difficoltoso anche per la opinabilità tecnica dei contenuti. Fra l'altro, si segnala che nella mappatura della capacità di incenerimento non è stata valutata la presenza di inceneritori dedicati ai soli rifiuti speciali (RS), né è stata eseguita alcuna mappatura delle discariche esistenti che sono ovviamente parte della attuale filiera di settore;
   il 16 marzo 2016 è stata avviata la procedura di assoggettabilità a valutazione ambientale strategica del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri da emanarsi ai sensi dell'articolo 35, comma 1, della legge 11 novembre 2014, n. 164, inerente al «Programma recante l'individuazione della capacità complessiva di trattamento degli impianti di incenerimento rifiuti urbani e assimilati in esercizio o autorizzati a livello nazionale, nonché l'individuazione del fabbisogno residuo da coprire mediante la realizzazione di impianti di incenerimento con recupero di rifiuti urbani e assimilati»;
   al momento, con il documento prot. 0004267/RIN del 21 marzo 2016 il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare sta trasmettendo la comunicazione per l'avvio della consultazione ai sensi dell'articolo 12, comma 2, del decreto legislativo n. 152 del 2006 e successive modificazioni e integrazioni concernente la procedura di verifica di assoggettabilità a valutazione ambientale strategica relativa al programma recante «individuazione della capacità complessiva di trattamento degli impianti di incenerimento di rifiuti urbani e assimilati in esercizio o autorizzati a livello nazionale, nonché l'individuazione del fabbisogno residuo da coprire mediante la realizzazione di impianti di incenerimento con recupero di rifiuti urbani e assimilabili» di cui allo schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri da emanarsi ai sensi dell'articolo 35 comma 1, del decreto-legge n. 133 del 2014: in pratica la Conferenza Stato-regioni avrebbe «imposto» al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio del mare Galletti la procedura di VAS, che il Ministro ha dovuto accettare per incassare il «sì» a maggioranza allo schema di decreto. Una VAS veramente pubblica e genuinamente strutturata, dovrà includere anche una analisi delle alternative, e questo metterebbe in crisi l'assunto principale ed irricevibile dell'articolo 35, ovvero che il pretrattamento è uguale a incenerimento, mentre il razionale obiettivo dell'articolo 35 era superare le procedure d'infrazione per mancanza di sistemi di pretrattamento nonostante l'obbligo della direttiva 99/31 sulle discariche;
   il Ministro Galletti, nell'articolo su Repubblica.it riferisce: «sono stato assessore al comune di Bologna e mi vanto di aver contribuito a una grande operazione ambientale: la creazione della multiutility Hera e la sua quotazione in borsa. È la seconda azienda ambientale del Nord». Il bacino di utenza Hera è di circa 3,3 milioni di persone, il record per quanto concerne la gestione dei rifiuti solidi urbani;
   l'Emilia Romagna, secondo i dati dell'Ispra, è la regione con il più elevato costo per la gestione dei rifiuti (227 euro procapite) nonché la regione con la più elevati produzione procapite di rifiuti (oltre 600 chilogrammi a persona), ha la più elevata concentrazione regionale di inceneritori (1 ogni 555.822 abitanti);
   il combinato disposto di questi dati da solo costituisce un giudizio impietoso in merito alla politica governativa in tema di RSU ed economia circolare, oltretutto sanzionata dall'Unione europea nell'ambito delle 18 procedure d'infrazione pendenti in materia ambientale fra cui si segnalano 5 procedure d'infrazione per le quali la Corte di giustizia dell'Unione europea ha emesso una sentenza di condanna nei confronti dell'Italia. La sentenza del 2 dicembre 2014 ha condannato l'Italia a pagare 40 milioni di euro come misura forfettaria in riferimento alla violazione della direttiva rifiuti 75/442/CE (modificata dalla direttiva 91/156/CEE), della direttiva 91/689 CEE e della direttiva 1999/13/CE che riguardano fra l'altro 200 discariche abusive presenti nel territorio italiano, e di una penalità semestrale di 42,8 milioni di euro per la mancata messa a norma delle medesime discariche; altre procedure d'infrazione (procedura n. 2011/4021) riguardano proprio il mancato pretrattamento dei rifiuti;
   lo schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri non considera la possibilità che non esista alcun fabbisogno residuo di incenerimento a livello nazionale, venendo meno agli obblighi di considerare e mettere a disposizione del pubblico tutte le opzioni possibili di cui alla citata direttiva 2003/35/CE. Parimenti lo stesso schema di decreto pianifica gli impianti partendo dal presupposto, a giudizio degli interroganti illegittimo in base alla citata direttiva 2008/98/CE, che la produzione di rifiuti rimanga costante nel tempo anziché considerare che la quantità di rifiuti prodotti attesa nel 2020 dovrà essere necessariamente inferiore –:
   se il Governo non ritenga di assumere iniziative per inserire nella mappatura impiantistica per la gestione dei rifiuti un'analisi di tutti gli impianti di pretrattamento, degli impianti di incenerimento e coincenerimento di rifiuti solidi urbani e rifiuti speciali, nonché di tutte le discariche;
   di quali dati oggettivi e verificabili disponga il Governo per escludere a priori la possibilità che a livello nazionale non esista alcun fabbisogno residuo di incenerimento dei rifiuti;
   se, nell'ambito della procedura di verifica di assoggettabilità a VAS relativa al programma recante «individuazione della capacità complessiva di trattamento degli impianti di incenerimento di rifiuti urbani e assimilati in esercizio o autorizzati a livello nazionale, nonché individuazione del fabbisogno residuo da coprire mediante la realizzazione di impianti di incenerimento con recupero di rifiuti urbani e assimilabili» di cui allo schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri da emanarsi ai sensi dell'articolo 35, comma 1, della legge 11 novembre 2014, n. 164, non si intendano prendere in considerazione prioritariamente alternative allo stesso programma relative all'implementazione del pretrattamento dei rifiuti;
   se nello stesso ambito si intendano prendere in considerazione modalità gestionali dei rifiuti solidi urbani e rifiuti speciali orientati all'economia e in particolare all'economia circolare. (3-02195)


   ZOLEZZI, TERZONI, BUSTO, DE ROSA, VIGNAROLI, DAGA, MICILLO e MANNINO. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   l'articolo 16, comma 1, della direttiva 2008/98/CE relativa ai rifiuti stabilisce l'obbligo per gli Stati membri di adottare le misure appropriate per creare una rete integrata e adeguata di impianti di smaltimento dei rifiuti. Le pratiche di smaltimento comunemente diffuse in Italia sono l'incenerimento con o senza recupero energetico e il sotterramento in discarica controllata;
   in Italia, secondo l'ultimo rapporto Ispra, circa 9,3 milioni di tonnellate, pari al 30 per cento dei rifiuti solidi urbani, sono state smaltite in discarica nel 2014, facendo registrare, rispetto alla rilevazione del 2013, una riduzione di circa il 14 per cento, ovvero quasi 1,6 milioni di tonnellate di rifiuti. Analizzando il dato per macroarea geografica, si osserva una riduzione del 6 per cento dello smaltimento al Nord, del 27 per cento al Centro ed un incremento del 12 per cento al Sud;
   secondo il rapporto Ispra 2015 sui rifiuti speciali (RS) si sta assistendo a una progressiva riduzione della produzione di rifiuti speciali, da 136 milioni di tonnellate nel 2011 a 131 nel 2013;
   lo schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri di cui all'articolo 35 del decreto-legge n. 133 del 2014 (cosiddetto «decreto Sblocca Italia») non contempla la definizione dell'effettivo fabbisogno di discariche, né la realizzazione di alcun piano nazionale finalizzato alla creazione di una rete di cui al citato articolo 6 della direttiva rifiuti;
   da un articolo della Gazzetta di Mantova del 20 ottobre 2015, si apprende dell'ampliamento della discarica di Mariana Mantovana finalizzato all'accoglimento di ulteriori 1.800.000 tonnellate di rifiuti speciali non pericolosi, ottenuto con l'obiettivo dichiarato di ripianare le perdite finanziarie della società TEA Spa, dovute al minor conferimento di rifiuti urbani da parte dei comuni della provincia. Già nel 2014 la stessa discarica era stata oggetto di una variazione nella pianificazione del bacino territoriale e sempre esclusivamente per obiettivi finanziari; l'8 marzo 2016 è stata confermata la notizia dell'assegnazione alla cooperativa CCC di Bologna dell'appalto per l'ampliamento di tale discarica in un'area pesantemente impattata dal punto di vista ambientale e sanitario (tasso di malformazioni congenite fra 750 e 1000 ogni 10mila nati, il più elevato della provincia di Mantova);
   da un articolo apparso su «Bologna Today» si apprende della volontà della società Hera di ampliare la discarica «Tre monti» di Imola, costruendo un ulteriore lotto fra i comuni di Imola e Riolo, nonostante la pianificazione regionale vada in senso opposto e nonostante l'83 per cento dei rifiuti ivi conferiti provenga da fuori regione;
   nel gennaio 2016 di quest'anno si è appreso della richiesta da parte della Belvedere spa di accogliere ulteriori codici CER relativi a rifiuti speciali non pericolosi nella discarica d'interesse regionale di Peccioli (PI). Tale richiesta è stata anch'essa giustificata con argomentazioni di equilibrio economico e finanziario, tenuto conto del fatto che l'ampliamento di tale discarica era stato ottenuto per un flusso previsto di 300.000 tonnellate/anno, mentre a seguito dell'applicazione della precedente circolare Orlando, che impone il divieto di conferimento per i rifiuti indifferenziati tal quali, la discarica di Peccioli riusciva a recuperarne non più di 100.000, dovendo pertanto ricorrere al mercato dei rifiuti speciali per colmare la differenza;
   da fonti di stampa si apprende ancora che è stato richiesto nel gennaio 2016, da parte del gestore «Sogliano Ambiente spa», l'ampliamento della discarica di Sogliano al Rubicone (RN). La richiesta riguarda la realizzazione dell'ampliamento della discarica per il trattamento di rifiuti speciali non pericolosi, con un volume pari a 1.600.000 metri cubi (Ginestreto G4), in località Ginestreto di Sogliano al Rubicone, con opere accessorie nel comune di Poggio Torriana;
   per quanto concerne la discarica di Torretta di Legnago (VR) è stato proposto il conferimento di rifiuti speciali (oltre 50 codici CER) per 14 anni, quando da pianificazione si prevedeva la chiusura nel 2016;
   per la messa in sicurezza della discarica di Cà Filissine di Pescantina (VR) è stato proposto il conferimento di rifiuti speciali per ovviare al lago di percolato profondo 36 metri formatosi, verosimilmente, per il mancato trattamento del percolato stesso che veniva reiniettato nel corpo della discarica secondo quanto appreso dalla commissione parlamentare d'inchiesta sulle attività illecite nel ciclo dei rifiuti, durante la missione in Veneto;
   prassi questa oramai diffusa in tutte le realtà regionali, in particolare dove si è ridotto il conferimento di rifiuti solidi urbani in discarica;
   risulta da notizie di stampa che, dopo la Campania, anche la Basilicata voglia conferire i rifiuti organici (la Frazione organica della raccolta differenziata – Forsu) in impianti di trattamento nel Nord Italia, contribuendo a un turismo inaccettabile della materia; il compost ottenibile dal rifiuto organico è infatti prezioso per i territori dove è prodotto e secondo l'Ersaf potrebbe contribuire a garantire il 90 per cento della fertilizzazione azotata, lasciando una quota residuale alla fertilizzazione chimica, ma è sufficiente un trasporto a lunga distanza per alterare le caratteristiche chimiche della Forsu che, secondo i dati Ispra viene trattata adeguatamente solo in piccoli impianti di compostaggio aerobico di prossimità, riducendo anche i costi di gestione (trasporto, conferimento e smaltimento) e ottenendo un ammendante compostato verde (Acv), che può avere anche un valore di mercato;
   nel rapporto Ispra 2015 sulla gestione dei rifiuti urbani (RSU), a pagina 122, si legge che riguardo allo smaltimento in discarica «non può non evidenziarsi che nonostante l'articolo 182-bis del decreto legislativo n. 152 del 2006, stabilisca il principio dell'autosufficienza per lo smaltimento dei rifiuti urbani non pericolosi e per i rifiuti del loro trattamento a livello di ambito territoriale ottimale, in realtà questi rifiuti, in uscita dagli impianti di trattamento meccanico biologico, vengono di frequente avviati in regioni diverse da quelle in cui sono stati prodotti. Tale pratica è diffusa in tutto il Paese come risulta evidente dall'esame dei dati riguardanti lo smaltimento a livello regionale. Tale assunto è confermato dagli esempi sopra evidenziati, dai quali si evince come, ad oggi, l'obiettivo prevalente dei gestori di discariche non sia tanto la difesa dell'ambiente, quanto il raggiungimento e il mantenimento della sostenibilità economica e del ritorno finanziario del singolo impianto;
   privi di una pianificazione nazionale, gli scenari normativi comunitari aprono in direzione di ulteriori procedure d'infrazione europee, a causa dell'eccessivo conferimento in discarica di rifiuti da parte di alcune regioni;
   il trasporto dei rifiuti contribuisce in maniera sostanziale alle emissioni nel settore dei trasporti, in particolar modo per quanto concerne il trasporto inter-regionale, sia per le emissioni dei mezzi pesanti, che per la cessione di inquinanti dai rifiuti trasportati dai mezzi;
   la situazione ambientale nazionale è caratterizzata da un eccesso di captazione idrica (studio di Steffen pubblicato su «Science» nel 2015), da una progressiva compromissione della qualità delle falde acquifere sia in aree di captazione, che in aree comunque a vocazione agricola, lo stato chimico delle acque superficiali (Scas) è compromesso in particolare nelle aree di pianura, il ciclo dell'azoto è compromesso in maniera importante, con un eccesso di azoto nelle falde e nei sedimenti fluviali, lacustri e marini in particolare in pianura padana dove si stanno moltiplicando le richieste di ampliamento delle discariche esistenti o costruzione di nuove, senza alcuna necessità territoriale;
   i metodi di gestione ambientale nazionale non prevedono per gli interroganti valutazioni adeguate degli impatti cumulativi, né un adeguato piano di riduzione delle emissioni e del recupero di materia –:
   se il Governo non ritenga necessario assumere iniziative per prevedere che la gestione dei rifiuti solidi urbani e dei rifiuti speciali sia fondata su metodi sostenibili, basati sul recupero di materia, la valutazione di tutte le matrici ambientali nelle aree di conferimento, anche in relazione al rilascio di nuove autorizzazioni;
   se per lo smaltimento dei rifiuti non si ritenga necessario monitorare e pubblicare il flusso dei rifiuti solidi urbani e rifiuti speciali esistente e programmato in modo da evitare speculazioni e possibili disastri ambientali, pubblicando la mappa dei rifiuti urbani e speciali, prodotti nelle diverse realtà territoriali, e della filiera di smaltimento, comprensiva di dati economici, per individuare eventuali storture in particolare nell'ambito dei rifiuti speciali a «libero mercato»;
   se il Governo, in relazione allo schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, di cui all'articolo 35 del decreto-legge n. 133 del 2014, non intenda assumere iniziative per la previsione di una pianificazione atta a determinare anche l'effettivo fabbisogno di conferimento in discarica, nonché per la previsione della rete nazionale di tali impianti, finalizzata alla progressiva riduzione e dismissione del «parco discariche» nazionale;
   se il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare non intenda promuovere la realizzazione di un piano nazionale delle discariche nel quale siano comprese non solo la definizione dell'effettivo fabbisogno per gli anni a venire, ma anche la pianificazione dei flussi interregionali di rifiuti derivanti dal trattamento dei rifiuti soldi urbani, nonché dei rifiuti speciali. (3-02196)


   TERZONI, VACCA, DEL GROSSO, COLLETTI, AGOSTINELLI, CECCONI, DAGA, MICILLO, MANNINO, DE ROSA, BUSTO, ZOLEZZI e VIGNAROLI. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, al Ministro dell'interno, al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   nella giornata del 29 marzo 2016 è scoppiato un vasto incendio nei capannoni della Italpannelli di Ancarano, provincia di Teramo, mentre gli operai erano al lavoro;
   l'azienda, nata nel 1993, è specializzata nella progettazione e produzione di pannelli sandwich isolanti con anima isolante in poliuretano espanso e lana di roccia;
   il sindaco di Offida, Valerio Lucciarini, ha lanciato dopo poche ore un appello attraverso il suo profilo facebook: «Allerta nube tossica, comunicazione alla cittadinanza di Offida. Causa incendio presso azienda ItalPannelli, vallata del Tronto, una nube tossica sta procedendo verso il nostro territorio. Comunico di rimanere a casa, chiudendo porte e finestre come da ordine della Prefettura. Attendere fino a nuova comunicazione»;
   il comune di Ancarano ha invece firmato un'ordinanza di evacuazione di tutti gli edifici della strada denominata «Bonifica» in seguito alla quale sono state evacuate tutte le fabbriche presenti nell'area;
   in serata, le prefetture di Teramo e Ascoli Piceno hanno diffuso una nota congiunta con la quale hanno dichiarato che l'incendio era sotto controllo, e hanno inviato ai sindaci dei comuni di Ancarano, Controguerra, Sant'Egidio alla Vibrata (Teramo), Castel di Lama, Colli del Tronto e Spinetoli (Ascoli Piceno), nelle more dell'acquisizione delle campionature sulle matrici ambientali da parte dell'Arta e dello Zooprofilattico di Teramo, «a emettere, in via precauzionale, ordinanze di divieto di utilizzo, per un'area ricadente nel raggio di un chilometro circa dell'incendio, di ortaggi e frutta, di acqua di pozzo per uso irriguo e per alimentazione animale, prodotti commestibili da animali domestici»;
   i prefetti hanno anche raccomandato i cittadini «se presente ancora del fumo a non aprire le finestre e a non azionare i condizionatori dell'aria dall'esterno». La Asl competente ha chiesto che le industrie limitrofe non riprendano le attività produttive, in attesa degli accertamenti ispettivi in programma –:
   se il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare non ritenga necessario verificare, attraverso l'intervento del comando carabinieri per la tutela dell'ambiente, se vi siano rischi di danno ambientale diffuso e persistente anche in relazione alla probabile dispersione e accumulazione della diossina sui terreni e altre sostanze tossiche;
   quali iniziative intenda assumere il Governo, per quanto di competenza, per chiarire quanto accaduto sull'ambiente e sulla salute dei cittadini in relazione ai fatti in premessa;
   se il Governo non ritenga necessario assumere iniziative, anche a livello normativo, al fine di limitare gli effetti dannosi derivanti da incidenti rilevanti prodotti da stabilimenti industriali potenzialmente idonei a produrre forti impatti sull'ambiente e sulla salute dei cittadini, seppur non ricadenti nella disciplina connessa agli incidenti rilevanti e affinché il prefetto competente, d'intesa con le regioni degli enti locali interessati, adotti in ogni caso un piano di emergenza minimo, anche sulla scorta delle informazioni fornite dal gestore di stabilimenti interessati da simili incidenti per fornire tempestivamente alla popolazione informazioni specifiche relative all'incidente e al comportamento da adottare. (3-02197)

Interrogazione a risposta in Commissione:


   COLLETTI. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, al Ministro dell'interno, al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   il Cirsu è un consorzio intercomunale rifiuti solidi urbani, creato fra i comuni di Bellante, Morro D'Oro, Notaresco, Mosciano, Giulianova e Roseto, ma nel cui polo tecnologico di Grasciano, sede dell'impianto di trattamento dei rifiuti, convergono oltre la metà dei comuni del Teramano;
   nato con lo scopo di dare una risposta completa e corretta al problema della gestione unitaria dei rifiuti, il polo tecnologico Cirsu di Grasciano (Teramo) è stato sin dalla sua costituzione, ed a tutt'oggi è, oggetto di vicende amministrative e gestionali complesse che hanno evidenziato la fallimentare e inadeguata gestione che ha portato il tribunale di Teramo a dichiarare il fallimento della CIRSU s.p.a. con sentenza del 10 settembre 2015, proc. n. 234/2013 R. G. Fall.;
   da tale mala gestio sono derivate gravissime conseguenze di carattere economico, sociale ed ambientale che hanno provocato un'imponente e trasversale mobilitazione da parte di organi di stampa, associazione dei cittadini e organi istituzionali (consiglieri comunali, regionali, procura della Repubblica e altri) finalizzata a far luce sulle reali criticità dell'impianto, sulle effettive responsabilità della sua cattiva gestione e, soprattutto, sulle possibili soluzioni da adottare per arginare i gravi danni economici ma anche – e ciò rappresenta l'aspetto più preoccupante della vicenda – gli irreparabili danni all'ambiente e alla salute umana;
   in particolare, la situazione del Cirsu è stata oggetto di una prima interrogazione presentata il 7 agosto 2014 dal consigliere regionale Riccardo Mercante che ha denunciato allarmati criticità nella gestione della discarica fra cui:
    la difformità dell'attività di trattamento e smaltimento dei rifiuti rispetto alle prescrizioni contenute nei provvedimenti di autorizzazione integrata ambientale (aia) le cui disposizioni sono state in parte disattese;
    il mancato ammodernamento ed adeguamento degli impianti secondo le prescrizioni dell'aia;
    il conferimento di rifiuti indifferenziati anche da fuori provincia nonostante l'autorizzazione ad accogliere in entrata solo i rifiuti differenziati;
    le condizioni di scarsa sicurezza di carattere economico e finanziario nonché ambientale del sito di Grasciano a cui si deve aggiungere una grave situazione occupazionale dei dipendenti della ex Sogesa s.p.a. (società di gestione che è stata dichiarata fallita dal tribunale di Teramo il 26 giugno 2012 con sentenza n. 64 del 2012);
   tale denuncia ha sollecitato l'intervento dell'ARTA (Agenzia regionale per la tutela dell'ambiente) del distretto provinciale di Teramo che, all'esito di ben due sopralluoghi presso il polo tecnologico (del 18 settembre e dell'11 dicembre 2015), ha pubblicato il 19 gennaio 2016 una relazione tecnica, prot. 250, corredata da documentazione fotografica, che ha evidenziato il mancato rispetto delle condizioni autorizzate AIA nonché una serie di gravi violazioni del decreto legislativo 152 (con particolare riferimento ai capannoni n.ri. 8, 10 e 30) fra cui:
     mancata separazione dei padiglioni dove vengono depositate le diverse tipologie di rifiuti con apertura delle porte fra un reparto e l'altro che impedisce di mantenerli costantemente in depressione;
     notevole presenza di percolato stagnante all'interno dell'area di ricezione oltre che nelle aie di fermentazione dovuta al fatto che le canalizzazioni poste di fronte le aree di ingresso dei padiglioni, quando presenti, sono risultate prive di griglie e, cinque, chiaramente inadeguate ad un efficiente ed efficace sistema di drenaggio del percolato stesso;
     presenza sul piazzale antistante le aree di fermentazione di rifiuti provenienti dall'impianto di produzione del CDR e la presenza di alcune griglie di protezione completamente ostruite;
     assenza di compartimentazione del capannone n. 30 (denominato di raffinazione) dovuta alla completa apertura ai lati e nella parte superiore che rende impossibile di aspirare le arie esauste e di inviarle utilmente al sistema di aspirazione e depurazione/trattamento costituito dal biofiltro;
     conferimento in discarica di rifiuti non autorizzati;
     presenza di cumuli di rifiuti che raggiungono altezze prossime al tetto del capannone e che impediscono la possibilità di effettuare correttamente le operazioni di insufflazione e di rivoltamento dei cumuli all'interno delle aie di fermentazione, operazione, quest'ultima, resa ancor più complicata in alcuni padiglioni per la presenza dei rifiuti ex Sogesa abbandonati ormai da anni nel sito e che rendono insufficiente lo spazio per le operazioni e, nei casi più gravi, persino difficoltoso il transito all'interno dell'area;
     conferimento di rifiuti non conformi e errata loro classificazione con attribuzione di codici inappropriati che ha consentito alla ditta di eludere le corrette verifiche circa la loro stabilità biologica;
   da quanto si legge nella relazione, tali irregolarità e inadempienze perdurano nonostante le numerose e dettagliate prescrizioni impartite dall'ARTA all'esito del primo sopralluogo che, per ragioni ancora da chiarire, continuano ad essere impunemente disattese dai gestori dell'impianto di Grasciano;
   secondo l'ARTA, le violazioni riscontrate costituiscono la causa sia delle emissioni diffuse non controllate e non autorizzate da cui derivano le esalazioni moleste percepibili da tutta la vallata circostante che dello sversamento di percolato (peraltro già riscontrato nel gennaio 2014) che l'articolo 2, lett. m), del decreto legislativo n. 131 del 2003, n. 36 (in attuazione della direttiva 1999/31/CE relativa alle discariche di rifiuti), definisce «liquido che si origina prevalentemente dall'infiltrazione di acqua nella massa dei rifiuti o dalla decomposizione degli stessi»;
   nella relazione si evidenzia anche il rischio, soprattutto con l'arrivo della stagione estiva e l'aumento delle temperature, del verificarsi di ulteriori incendi, pericolosi per l'incolumità pubblica e la tutela dei luoghi. Tale ultima circostanza desta particolari perplessità se si considera che il CIRSU opera senza un certificato di prevenzione incendi e che ciò rende le condizioni di sicurezza del sito alquanto dubbie considerando che presso l'impianto si sono già verificati due incendi di vaste proporzioni a distanza di pochi mesi l'uno dall'altro (2 maggio e 14 luglio 2014) circa i quali organi di informazione scrivono: «Non si esclude che si possa essere formata una nube di prodotto chimico tossico: sull'area circostante saranno necessarie analisi ambientali»;
   dalla relazione emerge, altresì, che si è proceduto ad una verifica dei livelli di inquinamento atmosferico nel sito in questione attraverso un monitoraggio con la tecnica di campionamento passivo (tecnica che consente di verificare la presenza del principale fattore inquinante di un'area senza l'impiego di un dispositivo per l'aspirazione dell'aria), il cui esito ha segnalato la presenza di valori elevati del parametro ammoniaca (NH3);
   quanto descritto si pone in chiara contraddizione con la normativa in materia ambientale e, più in particolare con quanto dispone l'articolo 177, comma 4, del decreto legislativo n. 152 del 2006 secondo cui «I rifiuti sono gestiti senza pericolo per la salute dell'uomo e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizio all'ambiente e, in particolare: a) senza determinare rischi per l'acqua, l'aria, il suolo, nonché per la fauna e la flora; b) senza causare inconvenienti da rumori o odori; c) senza danneggiare il paesaggio e i siti di particolare interesse, tutelati in base alla normativa vigente»;
   alla pubblicazione della relazione ARTA inviata, tra gli altri, anche alla procura della Repubblica di Teramo e al comando carabinieri nucleo operativo ecologico NOE di Pescara, è seguita una serie di attività quali la presentazione:
    il 28 gennaio 2016, di una interpellanza regionale del consigliere Riccardo Mercante volta a sollecitare nuovamente la regione a trovare una soluzione definitiva alle annose problematiche del polo impiantistico di Grasciano;
    il 9 febbraio e l'11 febbraio 2016 di due un'interrogazioni presentate al comune di Giulianova e Mosciano rispettivamente dai consiglieri Margherita Trifoni e da Pierluigi Filipponi con cui hanno chiesto ai sindaci di fornire una risposta scritta sulla attuale, situazione del Cirsu e, in particolare, di riferire sullo stato della raccolta, sulla gravissima situazione ambientale e sui i costi ulteriori che le inefficienze del consorzio avranno sul bilancio comunale e, dunque, sulle tasche dei cittadini;
    di una petizione popolare «per la chiusura e la risoluzione dei problemi olfattivi e ambientali causati dal trattamento dei rifiuti nel sito C.I.R.S.U. di Grasciano Notaresco (Teramo)» presentata da circa quattrocento cittadini residenti nei comuni della provincia di Teramo che hanno chiesto al presidente della regione Abruzzo, al sindaco del comune di Notaresco, al presidente della provincia di Teramo, al procuratore della Repubblica di Teramo e al presidente dell'ARTA Abruzzo di intervenire per porre rimedio alla «situazione olfattiva diventata insopportabile per la vita quotidiana dei cittadini e per le aziende operanti nelle zone attigue alla zona in oggetto»;
    di una denuncia di danno ambientale presentata anch'essa dall'associazione dei cittadini residenti nei dintorni del consorzio e indirizzata al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, con cui oltre a lamentare un olezzo nauseabondo proveniente dall'area in questione, si è messo in evidenza il rischio di danno ambientale ponendo l'attenzione sulla collocazione geografica della discarica e sulla sua adiacenza ad aree particolarmente sensibili per l'agricoltura. In particolare, nella denuncia si è osservato che «il sito in oggetto è dislocato al centro della vallata del fiume Tordino che collega il mare Adriatico al Gran Sasso e che dista 50 ml. dall'autostrada superstrada Teramo-Roma, principale arteria di collegamento tirreno-adriatico, a 1 Km dall'autostrada A14 Bologna-Bari e a 2 km dai centri cittadini dei comuni di Mosciano Sant'Angelo e Notaresco e da coltivazioni pregiate tra cui la più importante per estensione è rappresentata dal vigneto d.o.c. della cantina Farnese posta al confine della discarica Cirsu e la cui tutela rientra nell'articolo 2, decreto legislativo 228 del 2001»;
   su segnalazione del tribunale fallimentare di Teramo, la procura della Repubblica di Teramo, ha aperto un'indagine che ha già portato all'adozione di ben quattro avvisi di garanzia per i quattro amministratori che in passato hanno gestito il sito [Diego De Carolis, al tempo legale rappresentante del Cirsu s.p.a. (sino al 23 novembre 2013); Angelo Di Matteo, al tempo legale rappresentante dal 23 novembre 2013 del Cirsu s.p.a. e titolare dell'Autorizzazione Integrata Ambientale; Massimo Martinelli, al tempo legale rappresentante sino al 4 aprile 2014 del Consorzio Stabile Ambiente, ente gestore della discarica dal 1o gennaio 2014; Francesca Maria Siciliani, al tempo legale rappresentante, della società GEA srl ente associato a CSA, cogestore dal 1o gennaio 2014 della discarica per rifiuti urbani sita in località Casette di Grasciano e successivamente dal 4 giugno 2014 legale rappresentante di CSA];
   da fonti di informazione è emerso che tutti gli indagati hanno in comune le seguenti ipotesi di reato: «mediante un concorso morale e materiale tra loro, nelle rispettive qualità, nelle attività di gestione della discarica rifiuti urbani a Grasciano, non avrebbero rispettato le prescrizioni dell'AIA;
   non avrebbero provveduto a captare il percolato nella discarica per avviare successivamente a smaltimento; non avrebbero provveduto a rispettare la prescrizione di mantenere il livello del liquido all'interno dei pozzetti di raccolta superiori a 50 cm; non avrebbero provveduto a realizzare interventi di rifacimento dei piazzali dell'impianto, della viabilità interna della discarica e della raccolta delle acque meterotiche; non avrebbero provveduto a captare all'esterno e all'interno dell'impianto le emissioni diffuse ed odorigene prodotte dall'attività delle gestione della discarica, non dotando l'impianto di un sistema idoneo per il recupero del biogas». La medesima fonte rileva che Di Matteo, Martinelli e Siciliani avrebbero inoltre:
     sversato illecitamente rifiuti liquidi costituiti da percolato da discarica, sia sul terreno, sia nelle acque superficiali del fiume Tordino. Fatto accertato Notaresco il 20 gennaio 2014;
     ammesso in discarica tipologie di rifiuti che in discarica era vietato e rifiuti integri che non avevano subito alcun trattamento. Pneumatici, materassi, parti di arredo, lo schermo di un televisore etc. Fatto accertato Notaresco 29 gennaio 2014;
     superato, nell'effettuare lo scarico di acque reflue industriali nelle acque superficiali del fiume Tordino, la soglia massima di Zinco. Fatto accertato Notaresco 20 gennaio 2015;
     autorizzato un deposito incontrollato di rifiuti urbani e speciali non pericolosi. Non avrebbero a rendere impermeabili i piazzali e tutte le superfici dell'impianto interessato dalla presenza dei rifiuti. Avrebbero gestito la discarica senza richiedere il rilascio e il rinnovo del certificato di prevenzione incendi. Tutto ancora in atto»;
   dalla descrizione emerge con chiara evidenza che la gestione del polo tecnologico di Grasciano sia stata condotta contravvenendo a tutte le normative poste a tutela della salubrità dell'ambiente e della salute umana dal momento che appare visibile ad occhio nudo, oltre che attraverso i numerosi riscontri fotografici prodotti dalla stampa locale e inseriti nella relazione ARTA, che la presenza di scarichi incontrollati su tutta l'area hanno provocato una sconsiderata elevazione della vecchia discarica con pendenze talmente ripide che, anche se nella migliore delle ipotesi non dovesse dar luogo a crolli o scivolamenti disordinati dei rifiuti, comunque non consente una regolare chiusura della discarica stessa con tutto ciò che ne consegue in termini di emissione di cattivi odori nell'area e nelle zone circostanti;
   la presenza di enormi cumuli di rifiuti è stata riscontrata sia all'interno, con evidente rischio del verificarsi di ulteriori incendi, che nelle aree scoperte del sito che, in quanto direttamente esposte alle piogge, sono maggiormente a rischio di produzione di liquami dal cui riversamento incontrollato sul terreno, peraltro già acclarato dalle autorità competenti, potrebbe derivare un irreversibile danno a tutta l'area interessata nonché all'ambiente circostante;
   ciò in parte è avvenuto in quanto il sito risulta essere già stato oggetto di periodici sversamenti incontrollati di percolato dalla discarica che hanno interessato il fiume Tordino e per i quali non è stato escluso che al deposito dei liquami sul suolo non sia seguita anche un'infiltrazione del sottosuolo con conseguente inquinamento della falda acquifera;
   sui danni all'ambiente generati dallo sversamento di percolato si è pronunciata ripetutamente anche la Corte di Cassazione stabilendo che «integra il reato previsto dall'articolo 137 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 la condotta consistente nello sversamento di percolato da un impianto di smaltimento di rifiuti solidi urbani in un corso d'acqua superficiale, sussistendo un nesso funzionale e diretto del refluo con il corpo idrico recettore» (...) «il reato previsto dall'articolo 181 del decreto Urbani (decreto legislativo n. 42 del 2004) punisce qualsiasi alterazione dell'assetto territoriale senza autorizzazione attuata con «interventi di qualsiasi genere», rientrando in tale nozione anche il caso dell'effettiva compromissione dei valori paesaggistici indotta dall'insudiciamento evidente delle acque di un torrente e dell'invaso di una diga» (cfr. Cass. Pen., Sez. III, 25 febbraio 2011, n. 7214);
   vi è, inoltre, il concreto pericolo che il deposito delle polveri, dei fumi e delle diossine sprigionate quotidianamente dall'impianto e occasionalmente durante gli incendi che nel corso degli anni si sono susseguiti (e che nulla esclude che possano riproporsi, soprattutto nei prossimi mesi quando l'aumento delle temperature ne eleverà il rischio), abbiano compromesso le coltivazioni esistenti in quei territori e i prodotti agricoli derivanti, con evidenti danni per i produttori nonché per i consumatori finali dei prodotti stessi;
   infine, il Testo unico ambientale, dopo aver stabilito che «la gestione dei rifiuti costituisce attività di pubblico interesse» (articolo 177, comma 2, del decreto legislativo 152 del 2006), impone che tale gestione sia effettuata conformemente «ai principi di precauzione, di prevenzione, di sostenibilità, di proporzionalità, di responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione, nell'utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i rifiuti, nonché del principio chi inquina paga» e «secondo criteri di efficacia, efficienza, economicità, trasparenza, fattibilità tecnica ed economica, nonché nel rispetto delle norme vigenti in materia di partecipazione e di accesso alle informazioni ambientali» (articolo 178, del decreto legislativo 152 del 2006);
   appare all'interrogante non tollerabile che il presidente della regione e la sua giunta seguitino a non dare risposte chiare e a non prospettare soluzioni definitive, tenuto conto che il piano regionale di gestione dei rifiuti definisce l'area in questione «sito strategico ed unica piattaforma complessa di lavorazione dei rifiuti urbani in Provincia di Teramo» –:
   se i Ministri interrogati siano a conoscenza dei gravi fatti relativi alla gestione del polo tecnologico di Grasciano e ai gravi rischi di danno ambientale che la sua cattiva gestione sta provocando ai territori e alla popolazione dell'area interessata;
   se non si intenda, disporre, per il tramite del comando carabinieri per la tutela dell'ambiente, un'ispezione volta far luce sullo stato dei luoghi e sul livello di inquinamento, aggravato ad avviso dell'interrogante dal comportamento dei sindaci consorziati e della stessa regione che, mostrandosi pressoché indifferenti alle molteplici segnalazioni, parrebbe nulla abbiano fatto per consentire che gli impianti di Grasciano operassero nel pieno rispetto delle norme e delle prescrizioni dell'AIA, né per evitare che la gestione del sito sia affidata nuovamente a quegli stessi soggetti che ne hanno segnato, fino ad oggi, il declino; 
   se e quali iniziative di competenza intendano intraprendere per prevenire e controllare la diffusione delle malattie infettive nella popolazione e i fattori di rischio presenti negli ambienti di vita;
   se e quali iniziative di competenza ritengano opportuno adottare nel breve periodo per monitorare la corretta operatività del polo tecnologico di Grasciano, e fronteggiare il danno ambientale, nel quadro del ripristino di un servizio pubblico efficiente che possa essere di utilità per i cittadini della provincia teramana e dell'intera regione. (5-08413)

Interrogazioni a risposta scritta:


   VACCA. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   ai sensi dell'articolo 9 della legge 6 dicembre 1991, n. 394, l'Ente parco ha personalità di diritto pubblico, sede legale e amministrativa nel territorio del parco ed è sottoposto alla vigilanza del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. Sono organi dell'Ente:
    a) il Presidente;
    b) il Consiglio direttivo;
    c) la Giunta esecutiva;
    d) il Collegio dei revisori dei conti;
    e) la Comunità del parco:
   il consiglio direttivo è formato dal presidente e da otto componenti nominati con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare entro 30 giorni dalla comunicazione della rispettiva designazione;
   quattro componenti del consiglio direttivo sono designati dalle comunità del parco;
   ai sensi dell'articolo 6 dello statuto dell'Ente Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga istituito con decreto del Presidente della Repubblica 5 giugno 1995, il presidente è nominato con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, di intesa con i presidenti delle regioni Abruzzo, Lazio e Marche, e dura in carica cinque anni;
   ai sensi dell'articolo 4 del decreto legislativo 8 aprile 2013, n. 39, a coloro che, nei due anni precedenti, abbiano svolto incarichi e ricoperto cariche in enti di diritto privato o finanziati dall'amministrazione o dall'ente pubblico che conferisce l'incarico ovvero abbiano svolto in proprio attività professionali, se queste sono regolate, finanziate o comunque retribuite dall'amministrazione o ente che conferisce l'incarico, non possono essere conferiti:
    a) gli incarichi amministrativi di vertice nelle amministrazioni statali, regionali e locali;
    b) gli incarichi di amministratore di ente pubblico, di livello nazionale, regionale e locale;
    c) gli incarichi dirigenziali esterni, comunque denominati, nelle pubbliche amministrazioni, negli enti pubblici che siano relativi allo specifico settore o ufficio dell'amministrazione che esercita i poteri di regolazione e finanziamento;
   con determina n. AFIS/223/2014 del 18 dicembre 2014, è stata aggiudicata in via definitiva condizionata, ex articolo 11, comma 8, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, il servizio di consulenza e patrocinio legale per la durata di anni uno – CIG ZF411ADE8E – in favore dell'avvocato Tommaso Navarra dello studio legale Navarra in Teramo per un importo pari a 3.600,00, oltre IVA;
   da articoli della stampa locale abruzzese si apprende che l'avvocato Tommaso Navarra è stato designato dal Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, Gian Luca Galletti, alla presidenza del Parco Gran Sasso Monti della Laga –:
   se sia stata valutata la sussistenza di profili di incompatibilità, ai sensi della normativa vigente, relativamente alla nomina di Tommaso Navarra a presidente dell'Ente parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga. (4-12859)


   MANNINO, BUSTO, DAGA, DE ROSA, MICILLO, TERZONI, ZOLEZZI e VIGNAROLI. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   l'articolo 35, del decreto-legge 12 settembre 2014, n.133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n.164, ha come intestazione: «misure urgenti per la realizzazione su scala nazionale di un sistema adeguato e integrato di gestione dei rifiuti urbani e per conseguire gli obiettivi di raccolta differenziata e di riciclaggio. Misure urgenti per la gestione e per la tracciabilità dei rifiuti nonché per il recupero dei beni in polietilene»;
   l'articolo 35, comma 1, del citato decreto-legge prevede che: «entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, il Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, con proprio decreto, individua a livello nazionale la capacità complessiva di trattamento di rifiuti urbani e assimilati degli impianti di incenerimento in esercizio o autorizzati a livello nazionale, con l'indicazione espressa della capacità di ciascun impianto, e gli impianti di incenerimento con recupero energetico di rifiuti urbani e assimilati da realizzare per coprire il fabbisogno residuo, determinato con finalità di progressivo riequilibrio socio-economico fra le aree del territorio nazionale e nel rispetto degli obiettivi di raccolta differenziata e di riciclaggio, tenendo conto della pianificazione regionale. Gli impianti così individuati costituiscono infrastrutture e insediamenti strategici di preminente interesse nazionale, attuano un sistema integrato e moderno di gestione di rifiuti urbani e assimilati, garantiscono la sicurezza nazionale nell'autosufficienza, consentono di superare e prevenire ulteriori procedure di infrazione per mancata attuazione delle norme europee di settore e limitano il conferimento di rifiuti in discarica»;
   il Presidente del Consiglio dei ministri ha predisposto uno schema di decreto che è stato redatto sulla scorta delle previsioni di legge sopra riportate e conseguentemente all'esito dell'analisi istruttoria compiuta dai competenti Uffici del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare; in particolare, per quanto riguarda l'articolo 5, si individuano gli impianti di incenerimento da realizzare o da potenziare per soddisfare il fabbisogno residuo nazionale di incenerimento con recupero energetico dei rifiuti urbani ed assimilati;
   nella seduta del 4 febbraio 2016 è stato espresso il parere rep.15/CSR della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato e le regioni le province autonome di Trento e di Bolzano sul suddetto schema di decreto;
   una nuova stesura dello schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri redatto dalla direzione generale per i rifiuti e l'inquinamento del suddetto Ministero, tiene conto delle proposte emendative avanzate dalle regioni e province autonome, è stato sottoposto alla valutazione del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare con nota Prot. 2829/RIN del 24 febbraio 2016;
   l'articolo 5 dello schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri predispone la necessità di attivare la procedura di verifica di assoggettabilità a valutazione ambientale strategica delle misure di pianificazione contenute nello schema di decreto;
   sul sito del Ministero dell'Ambiente e della tutela del territorio e del mare sono stati inseriti documenti relativi alla procedura di verifica di assoggettabilità a VAS avviata in data 16 marzo 2016;
   tra questi c’è il rapporto preliminare sul programma recante: «individuazione della capacità complessiva di trattamento degli impianti di incenerimento di rifiuti urbani e assimilati in esercizio o autorizzati a livello nazionale, nonché l'individuazione del fabbisogno residuo da coprire mediante la realizzazione di impianti di incenerimento con recupero di rifiuti urbani e assimilabili» di cui allo schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri da emanarsi ai sensi dell'articolo 35 comma 1 della legge 11 novembre 2014, n. 164 (verifica di assoggettabilità a valutazione ambientale strategica, ai sensi dell'articolo 12 del decreto legislativo n. 152 del 2006);
   il rapporto preliminare per quanto riguarda l'attuazione dello schema di decreto ovvero per quanto attiene alla localizzazione dei nuovi impianti, tra le altre cose, riporta: A) che, a norma dell'articolo 196 del decreto legislativo n. 152 del 2006, rimane incardinato in capo alle regioni il compito di declinare ulteriormente a livello territoriale, in tutte le loro specificazioni localizzative e operative, le scelte strategiche che il legislatore nazionale ha effettuato nell'articolo 35 comma 1, del decreto-legge n. 133 del 2014, di cui allo schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri rappresenta, come sopradetto, solo un primo strumento di attuazione operativa; B) che la concreta realizzazione delle nuove infrastrutture di incenerimento sarà pertanto il risultato delle attività di verifica e coordinamento a livello regionale, provinciale e locale svolte dalle regioni competenti in sede di aggiornamento degli strumenti di pianificazione esistenti e sarà soggetta alle ulteriori, puntuali, valutazioni ambientali di cui alla parte II del decreto legislativo n. 52 del 2006, C) che la natura programmatoria delle disposizioni dello schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri costituisce il quadro di riferimento per i piani regionali di gestione dei rifiuti e dei relativi adeguamenti ai sensi dell'articolo 199 del decreto legislativo n. 152 del 2006 relativamente agli interventi di infrastrutturazione di impianti di incenerimento dei rifiuti urbani e assimilati; D) che l'ubicazione puntuale dell'impiantistica e delle infrastrutture ad essa connessa è dunque formulata esclusivamente in ambito regionale ed è demandata alle singole regioni oggetto di intervento, attraverso l'attuazione dei relativi strumenti programmatori e di pianificazione, ovvero mediante le procedure tecniche ed amministrative necessarie per l'autorizzazione di tali interventi –:
   quali iniziative di competenza a normativa vigente siano da attendersi nel caso in cui le regioni ovvero gli enti locali non si adoperino alla realizzazione delle nuove infrastrutture di incenerimento individuate dallo schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri di cui all'articolo 35, comma 1, del decreto-legge n. 133 del 2014. (4-12863)


   PARENTELA. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:
   il bosco di Condrò, meglio noto come Faggeta di Condrò benché nel complesso forestale non vi siano solo faggi – nel gruppo del Reventino-Mancuso, situato nella provincia di Catanzaro, corre un grave pericolo: due tecnici incaricati da uno dei comuni proprietari del bosco, Feroleto Antico – gli altri due comuni proprietari sono Platania e Serrastretta – hanno predisposto un «piano pluriennale di tagli» nelle proprietà comunali. Si tratta di terreni forestali che si estendono per ben 76 ettari;
   gran parte dell'area interessata al taglio ricade proprio nella Faggeta di Condrò, bosco noto per essere una delle più belle faggete italiane, con alberi di considerevole età e di grandi proporzioni, i cui tronchi argentei svettano alti e slanciati. Botanici e zoologi hanno ripetutamente segnalato la Faggeta di Condrò come bosco di alto valore ecologico tant’è che in essa è stata individuato un rito di interesse comunitario (SIC), il n. IT9330124 dell'elenco;
   l'area interessata al progetto di taglio viene indicata dai tecnici come bosco ceduo, ossia bosco formato da ceppaie dalle quali spunta una corona di alberelli e che, per essere così divenuto a seguito del taglio degli alberi d'alto fusto, può essere assoggettato a tagli periodici con rilascio di singole matricine (esili polloni che spuntano dalle ceppaie) distanziate fra loro di alcuni metri. I boschi cedui così ridotti vengono definiti dai botanici e dai forestali più avveduti, fra cui il professor Franco Tassi, «boschi stecchino», per il loro aspetto desolato ed esiguo. Si vorrebbe far credere, così, che non sarebbe di fronte ad un bosco d'alto fusto come nella parte alta della faggeta (vedasi foto grande) e quindi di non particolare importanza. Viceversa, il vecchio bosco ceduo, proprio perché non tagliato da diversi decenni si sta spontaneamente riconvertendo in alto fusto, somigliando in tutto e per tutto alla parte più antica e matura della faggeta;
   dalla relazione redatta dai tecnici e dai segni lasciati sugli alberi, si intuisce perfettamente che l'intenzione è proprio quella di tagliare gli alberi più grandi e più sani. Il bosco si depaupererebbe, così, assai gravemente;
   l'effettuazione dei tagli per favorire la rinnovazione del faggio richiede particolare cautela e presuppone conoscenze bioecologiche della specie e della comunità –:
   se il Governo sia a conoscenza dei fatti narrati e quali iniziative, per quanto di competenza, intenda adottare per la conservazione e la tutela integrale di questo particolare ecosistema così unico, delicato e insostituibile;
   se il Governo non intenda promuovere le iniziative utili per favorire l'inserimento di questa particolare riserva naturale fra i siti del patrimonio mondiale dell'UNESCO e/o nell'elenco delle faggete vetuste d'Europa per le sue uniche caratteristiche biologiche e strutturali già riconosciute alle faggete vetuste ucraine, slovacche e tedesche, con l'impegno affidato dall'UNESCO a Germania, Ucraina e Slovacchia di estendere il nucleo originario in modo da creare una rete di faggete a livello europeo entro il 2015/16. (4-12867)


   PASTORELLI. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   il 12 aprile 2016, presso la prefettura di Viterbo, si è tenuta l'ennesima conferenza di servizi per avviare la bonifica dei terreni contaminati dall'interramento illecito di rifiuti speciali in località Pascolaro, Campo delle Noci e Bivio del Pellegrino a Graffignano (Viterbo). All'incontro erano presenti i rappresentanti del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, della regione Lazio, del Comando del Corpo forestale dello Stato, dell'Asl di Viterbo, dell'Arpa Lazio e il sindaco di Graffignano;
   la vicenda dell'interramento dei rifiuti risale ad almeno dieci anni fa quando le unità del Corpo forestale dello Stato, impegnate nell'operazione denominata «Girotondo», dopo lunghe indagini, portarono alla luce un imponente traffico illegale di rifiuti speciali interrati in prossimità del fiume Tevere nel comune di Graffignano (Viterbo);
   l'area interessata è di circa 50 ettari, tutta zona di ex cave, su cui bisogna effettuare ulteriori analisi dettagliate, a causa delle oltre 20 mila tonnellate di rifiuti tossici sversati, contenenti idrocarburi, oli pesanti, cadmio, cromo, cobalto, stagno e persino diossina (quest'ultima in valore 7 sette volte a quello massimo consentito). Una vera e propria bomba ecologica che impatta con le falde acquifere nelle immediate vicinanze del fiume Tevere;
   da analisi effettuate sui terreni limitrofi, a quelli posti sotto sequestro, coltivati a grano e ove insiste anche un'azienda agro-turistica-venatoria, sembrerebbe che gli agenti inquinanti abbiano già contaminato una vasta area;
   intanto, da dieci anni, gli abitanti di Graffignano attendono l'inizio delle operazioni di bonifica, con il rischio reale che i veleni siano già entrati nella catena alimentare animale e umana, con gravissimi effetti sulla salute dei cittadini. Di grande impatto è stato il documentario mandato in onda da SKYTG 24, su quest'ennesima terra dei fuochi ove speculatori e criminali, per tornaconto personali, hanno messo a serio rischio sia la salute di ignari cittadini, che l'integrità del territorio e delle risorse naturali –:
   quali iniziative urgenti, per quanto di competenza, il Governo intenda adottare al fine di monitorare, anche per il tramite del comando carabinieri per la tutela dell'ambiente, lo stato dei luoghi in vista della messa in sicurezza del territorio di cui in premessa;
   se, alla luce di quanto esposto in premessa, non ritenga, il Ministro della salute, avviare un monitoraggio epidemiologico, anche per il tramite dell'Istituto superiore di sanità, atto a verificare l'impatto sulla salute dei cittadini di Graffignano soprattutto in relazione alla presenza di rifiuti e sostanze particolarmente tossici. (4-12880)


   BERRETTA. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, al Ministro della salute, al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   la nuova disciplina degli ecoreati, approvata nel maggio 2015, istituisce il reato di inquinamento ambientale e il nuovo articolo 452-bis del codice penale punisce l'inquinamento ambientale con la reclusione da 2 a 6 anni e con la multa da 10.000 a 100.000 euro chiunque abusivamente cagioni una compromissione o un deterioramento «significativi e misurabili» dello stato preesistente «delle acque o dell'aria, o di porzioni estese o significative del suolo e del sottosuolo» o «di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna»;
   nel territorio di Pozzillo, frazione del comune di Acireale nella provincia di Catania, risulta la presenza di uno stabilimento industriale dismesso che è stato riconosciuto come inquinante e pericoloso per la salute dei cittadini per la presenza di amianto;
   la società proprietaria dello stabilimento, la «Sidoti Acque», ha ricevuto ordine di bonificare il sito smaltendo i materiali pericolosi;
   avverso tale ordine è stato proposto ricorso dinanzi al giudice amministrativo, ricorso rigettato dal Consiglio di giustizia amministrativa, giusta ordinanza n. 394/ 2014;
   giornali e siti di informazione locali hanno rimarcato tale situazione negli articoli del « Quotidiano di Sicilia» del 16 ottobre 2014 e sul sito « FanCity» il 15 maggio 2015;
   la regione siciliana, con la legge n. 381 del 2013, ha dettato norme «per la tutela della salute e del territorio dai rischi derivanti dall'amianto» e per la conseguente rimozione e bonifica dei siti coinvolti con un fondo regionale apposito come riportato dal sito di informazione Ctzen il 17 maggio 2013 –:
   quali iniziative, per quanto di competenza, intenda intraprendere per:
    a) verificare, anche attraverso l'Istituto superiore di sanità, le condizioni di salute degli abitanti della frazione attraverso un monitoraggio dell'incidenza di tumori sulla popolazione;
    b) verificare, anche attraverso il comando carabinieri per la tutela dell'ambiente, quali siano le condizioni del territorio a seguito della perdurante presenza dell'amianto. (4-12881)

BENI E ATTIVITÀ CULTURALI E TURISMO

Interrogazioni a risposta scritta:


   PRODANI e MUCCI. — Al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo. — Per sapere – premesso che:
   il castello di Miramare, sito turistico di primo piano per la città di Trieste e meta tra le più visitate del Friuli Venezia Giulia, già dimora di Massimiliano d'Asburgo, è circondato da un parco storico di 22 ettari da anni in uno stato di abbandono e degrado;
   il castello ed il parco, essendo beni di interesse pubblico, sono soggetti al regime di tutela dei beni culturali ai sensi degli articoli 10, 11 e 12 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, recante il «Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137», in consegna al polo museale del Friuli Venezia Giulia;
   le preoccupanti condizioni dei giardini sono, da qualche anno, costantemente oggetto di attenzione da parte dei cittadini attraverso i social network, oltre che dagli organi di informazione. Nel mese di agosto 2015, una mostra intitolata «Il Parco di Miramare e le condizioni di degrado», organizzata dalla sede di Trieste di Italia Nostra e dall'Associazione Orticola del Friuli Venezia Giulia e curata dall'ingegner Stefania Musco, con un'accurata ricerca storica, ha evidenziato lo stato del parco;
   a seguito della suddetta mostra e grazie all'interessamento di Italia Nostra, una troupe del TG1 ha realizzato un servizio televisivo sullo stato di reale abbandono ed incuria in cui versano il « parterre» e l'intero parco di Miramare: degrado evidente malgrado i lavori di recupero realizzati dalla soprintendenza;
   dagli articoli de Il Piccolo del 23 agosto 2015 e del 9 ottobre 2015, le commissioni consiliari (terza e quarta) del comune di Trieste hanno, già dal 2014 ed in diverse occasioni, cercato un dialogo con la soprintendenza, in particolare con il dottor Caburlotto, direttore del polo museale del Friuli Venezia Giulia, senza raggiungere l'obiettivo. Questo stato conflittuale tra organi amministrativi ha avuto uno strascico di polemiche, comparse anche sui mezzi di informazione;
   il dottor Caburlotto, in un'intervista pubblicata da Il Piccolo del 30 ottobre 2015, afferma che: «Posso parlare della situazione del Parco, degli elementi di criticità, dei progetti in cantiere e di quelli di futura realizzazione, ma non mi muoverò mai per parlare del preteso degrado, semplicemente perché un degrado di Miramare non esiste»;
   in merito ai rapporti con il consiglio comunale, il quotidiano riporta che «sull'invito disatteso da oltre otto mesi della commissione comunale che si è persino recata a Miramare per incontrare Caburlotto, questi avrebbe dichiarato: «Io posso essere chiamato al ministero per un'audizione, ma non ho alcun obbligo di presentarmi su richiesta di un Consiglio comunale, se non come atto di cortesia istituzionale»»;
   appare, dunque, evidente, per gli interroganti, la necessità di un intervento del Ministro interrogato affinché possa promuovere una ripresa, con la dovuta regolarità, dei rapporti degli organi periferici del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo con le istituzioni territoriali, anche alla luce di quanto previsto dalla legge 23 giugno 2014, n. 89;
   nell'ambito delle diverse iniziative riguardanti il Parco Miramare, in data 10 aprile 2016, si è tenuta l'iniziativa «Miramare chiama, Trieste risponde», promossa da alcuni gruppi di social network locali. L'iniziativa, preannunciata con una mail alla direzione del polo museale, ha visto la partecipazione di moltissime persone che, con il loro gesto, hanno voluto contribuire, con spirito pacifico e costruttivo, alla rinascita del parco, portando, in regalo, come simbolo, una pianta di begonia: trecentosessanta piante di begonia sono state depositate nei pressi della fontana principale del parterre all'interno del Parco di Miramare in un'atmosfera festosa;
   in data 11 aprile 2016, le versioni on line de Il Piccolo e di TriestePrima hanno pubblicato delle fotografie nelle quali si denunciava la «sparizione delle numerose begonie dal luogo dove erano state deposte», scatenando la reazione indignata degli utenti;
   nel pomeriggio dell'11 aprile 2016, dopo numerose chiamate senza esito, il primo firmatario del presente atto ha inviato una e-mail al dottor Luca Caburlotto, con la quale si richiedevano dei chiarimenti e, soprattutto, se avesse predisposto la piantumazione delle citate begonie in un'area adatta. Alla e-mail inviata non è pervenuta alcuna risposta;
   in data 12 aprile 2016, sul quotidiano Il Piccolo, sono riportate le dichiarazioni di una cittadina, sbigottita per la rimozione delle begonie e in merito alla conversazione avuta da questa con il dottor Caburlotto: «Mi ha detto che chi ha portato quelle piante può tornare a riprendersele. Mi ha anche detto che non sono piante decorose, che non sono belle per Miramare» e in ultimo «ha aggiunto che avrebbe potuto denunciare i triestini che domenica hanno sistemato le begonie perché hanno oltrepassato una cordicella che delimitava un'area riservata a cantiere. E infine ha precisato che, se nessuno andrà a riprendersele, le farà buttare via»;
   dal medesimo articolo si apprende che, in serata, dalla direzione del polo museale, sono arrivate alcune precisazioni: «Ringraziamo i concittadini per il pensiero, ma abbiamo dovuto rimuovere le piantine per ragioni di sicurezza» e «le begonie, peraltro non compatibili con il piano di valorizzazione del parco, che vedrà a brevissimo la piantumazione di migliaia di piante, sono ora custodite nella nostra area lavori a disposizione dei triestini che volessero riprendersele»;
   in data 12 aprile 2016 dal quotidiano Trieste Prima si evince come «alcune begonie portate domenica dai triestini sono state piantate nell'area antistante il castello. Delle altre al momento non si ha notizia», ossia non si conosce l'esito delle restanti begonie, portate dai cittadini triestini in dono al Parco Miramare e rimosse dai vertici del polo museale;
   da Il Piccolo del 13 aprile 2016, dopo l'ondata di polemiche, è giunto, da parte della direzione un invito agli organizzatori dell'iniziativa, a partecipare ad una visita guidata del parco, seguita da una precisazione con la quale «si comunica innanzitutto che i fiori depositati domenica sono stati prontamente ricoverati e custoditi in luogo idoneo all'interno del parco. La loro rimozione è stata necessaria in quanto invadenti il percorso principale di visita, al punto che, anche nel breve periodo della permanenza, dello scrivente alcune persone hanno rischiato di inciampare. Inoltre, le piante erano in numero tale da non consentirne una efficace messa a dimora nel parterre appena restaurato, e non conoscendosene la provenienza e lo stato fitosanitario, si incorreva nel grave pericolo che infettassero i 770 metri lineari di bosso appena piantumato. Sono stati quindi individuati luoghi alternativi per mettere sollecitamente a dimora le piantine offerte»;
   «a parere degli interroganti, nonostante il cambio di atteggiamento, se il direttore del polo museale del Friuli Venezia Giulia avesse da subito accolto in maniera positiva l'iniziativa «Miramare chiama, Trieste risponde» avrebbe certamente evitato la logica reazione negativa da parte dell'opinione pubblica e le ulteriori critiche, giunte copiose, sulla gestione del parco;
   il 19 gennaio 2016, il Ministro Franceschini, nel corso di una riunione congiunta delle Commissioni cultura di Camera e Senato, ha esposto il progetto di completamento della riorganizzazione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, secondo il quale il Ministero viene ridisegnato a livello territoriale per rafforzare i presidi di tutela e semplificare il rapporto tra cittadini e amministrazione. Oltre alla ridefinizione delle soprintendenze, la riorganizzazione prevede l'istituzione di dieci nuovi musei e parchi archeologici autonomi retti da direttori selezionati con bando internazionale. Nella lista dei dieci nuovi istituti autonomi figura anche il «Museo storico e il Parco del Castello di Miramare» a Trieste;
   il decreto ministeriale 23 dicembre 2014 del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo recante «Organizzazione e funzionamento dei musei statali» e successive modifiche, prevede, per i musei dotati di autonomia speciale, una struttura gestionale particolare, attribuita ad un direttore individuato attraverso un bando internazionale, un consiglio di amministrazione e da un comitato scientifico con funzione consultiva –:
   se il Ministro interrogato sia al corrente di quanto espresso in premessa;
   se ritenga di assumere iniziative di competenza affinché siano ripristinati i dovuti rapporti istituzionali tra le amministrazioni territoriali del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e gli organi amministrativi comunali;
   se intenda intervenire per riportare gli organi periferici del Ministero ai dovuti livelli di efficienza e di autorevolezza ed in quali modalità;
   se non ritenga opportuno, alla luce di quanto ha evidenziato nella riunione congiunta delle Commissioni di cultura di Camera e Senato in data 19 gennaio 2016, velocizzare l’iter per la riorganizzazione dei musei e parchi autonomi, tra cui figurano il museo storico e il parco del castello di Miramare. (4-12877)


   PASTORELLI e LOCATELLI. — Al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   la Fondazione Giuseppe Emanuele e Vera Modigliani, fondata nel 1949 come ESSMOI (Ente per la storia del socialismo e del movimento operaio italiano) e riconosciuta legalmente con decreto del Presidente della Repubblica del 21 novembre 1987, è proprietaria di un'imponente biblioteca di oltre 3.500 volumi specializzati in storia del socialismo e del movimento operaio italiano, ed è aperta al pubblico per 26 ore al mese;
   i volumi, valutati con perizia giurata del 2014 per un totale di euro 288.750,00, e di un archivio valutato con altra perizia giurata del 2014 per euro 160.000,00, è dichiarato «di notevole interesse storico» dalla Soprintendenza archivistica per il Lazio l'11 giugno 2001;
   tale valutazione comporta dei conseguenti obblighi per la Fondazione di conservazione, in maniera adeguata, della documentazione e di «richiedere l'autorizzazione di questa Soprintendenza qualora si intenda rimuovere l'archivio dalla propria sede». La sede è inserita nella tabella nazionale degli istituti culturali del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e in quella della regione Lazio, concessionaria dall'ottobre 2002 dell'immobile di proprietà comunale sito in via Arco del Monte, n. 99/A;
   in data 29 ottobre 2015 la Fondazione ha ricevuto un sopralluogo dei tecnici della società pubblica Risorse per Roma spa i quali, verificato il funzionamento di biblioteca e archivio e dell'attività culturale e editoriale della Fondazione, dichiaravano che «lo stato conservativo dell'insieme è più che buono»;
   con determinazione dirigenziale 22 dicembre 2015, n. 1096, il dipartimento patrimonio di Roma Capitale stabiliva la «riacquisizione del bene di proprietà Capitolina, sito in via dell'Arco del Monte 99/A composto da due locali al piano terra, oltre soppalco (...) utilizzato senza titolo dalla ESSMOI Fondazione Giuseppe Emanuele e Vera Modigliani con contestuale rilascio dello stesso da parte della Fondazione stessa», avvertendo «che, non ottemperando entro il termine di 30 gg. dalla notifica del presente provvedimento si procederà allo sgombero forzoso»;
   in data 30 marzo 2016, durante le festività pasquali quando la biblioteca non era aperta al pubblico, è stato effettuato il predetto sgombero forzoso, con tanto di sfondamento della porta, da parte di una squadra di operatori di Roma Capitale;
   risulta inoltre che della determinazione dirigenziale del 22 dicembre 2015 non siano stati avvertiti i competenti organi del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, e che anzi il direttore della Soprintendenza archivistica del Lazio abbia inviato, il 21 marzo 2016, quando ormai la determinazione era stata divulgata, al direttore del dipartimento patrimonio di Roma Capitale una lettera dove sottolineava le estreme difficoltà logistiche in cui si sarebbe trovata la Fondazione nel proseguimento della sua attività di conservazione degli archivi e della biblioteca, ove si fosse proceduto allo sgombero forzoso dei locali;
   per quanto si ritenga giusto e opportuno intervenire sulla situazione scandalosa del patrimonio edilizio de comune di Roma e che quest'ultimo debba tornare quanto prima in possesso delle migliaia di immobili dati in affitto per pochi euro o addirittura occupati abusivamente, risulta agli interroganti decisamente eccessivo l'intervento consumato ai danni della Fondazione Modigliani e di un archivio di grande valore per la storia e la memoria del socialismo italiano –:
   se il Governo sia a conoscenza di quanto sopra esposto e se non ritenga che tale sgombero forzoso, ove non venisse revocato, arrecherebbe un danno irreparabile a beni dichiarati dai competenti organi del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo «di notevole interesse storico», e perciò oggetto di obblighi di adeguata conservazione in capo alla Fondazione Modigliani. (4-12878)

DIFESA

Interrogazione a risposta scritta:


   PRODANI e MUCCI. — Al Ministro della difesa, al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo. — Per sapere – premesso che:
   nel corso della presente legislatura, in data 21 maggio 2015, è stata votata in prima lettura, alla Camera dei deputati, la proposta di legge recante «Disposizioni concernenti i militari italiani ai quali è stata irrogata la pena capitale durante la prima Guerra mondiale» (A.C. 2741). Il testo, che ha l'obiettivo la riabilitazione del personale militare italiano condannato alla pena capitale nel corso della prima guerra mondiale per la violazione di talune disposizioni previste dell'allora codice penale militare, è stato assegnato alla IV commissione difesa del Senato che, il 9 dicembre 2015, ha stabilito l'organizzazione di una serie di audizioni;
   durante la seduta n. 432 del 21 maggio 2015, l'interrogante ha depositato l'ordine del giorno n. 9/2741-A/1 accolto come raccomandazione dal rappresentante del Governo Domenico Rossi, Sottosegretario di Stato alla difesa, che impegna il Governo, in occasione delle celebrazioni per il centenario della Grande Guerra, ad onorare la memoria di tutti i caduti in guerra a prescindere dall'epoca e dalla divisa indossata. In particolare, restituendo alla verità anche vicende completamente dimenticate dalla storia e oscurate dalla propaganda, come la morte dei circa 30mila nativi del Tirolo, del Litorale e della Valcanale (attuali Trentino Alto Adige – Südtirol e Friuli Venezia Giulia), allora appartenenti all'Austria, che combatterono dal luglio 1914 con le divise delle forze armate austriache ed austro ungariche;
   la storia e le storie di questi soldati, per buona parte avi dei cittadini italiani attualmente residenti nei citati territori, è stata tenuta in sordina e nascosta dalla propaganda politica, già dall'Italia parlamentare del 1918, ma ancora di più dal successivo regime fascista, che del mito della «Vittoria mutilata» e di Vittorio Veneto fece dei cavalli di battaglia ideologici, ommettendo volutamente il racconto di questi avvenimenti. Successivamente, la storiografia ufficiale italiana ha proseguito la narrazione classica, restando legata ad una visione «patriottica» e «liberatrice», spesso trascesa in un vero e proprio nazionalismo assimilatore, atta ad esaltare l'epopea dell'esercito italiano durante la Prima guerra mondiale e continuando a trasmetterne i miti. Solo negli ultimi anni si è assistito ad un approfondimento delle «storie nascoste» grazie ad una maggior attenzione ed una diversa sensibilità di ricerche storiche e pubblicazioni, quasi tutte ad opera di eredi di quei 100.000 uomini che risposero alla chiamata dell'Imperatore Francesco Giuseppe e condannati alla «damnatio memoriae»;
   il primo firmatario del presente atto, in data 23 ottobre 2015, ha depositato l'interrogazione n. 4-10859 al Ministro della difesa ed al Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo con la quale ha richiesto al Governo di adottare dei provvedimenti, di concerto con le regioni Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige/Südtirol, per incentivare lo studio e le ricerche dei documenti relativi ai fatti accaduti nei territori divenuti italiani, al fine di iniziare un processo che miri a riportare la dovuta dignità a tutti i reduci ed i caduti della prima guerra mondiale, senza i filtri di verità nascoste;
   risulta evidente come il centenario dal primo conflitto rappresenti una grande occasione per infrangere il muro di silenzio e di omissioni che per troppi anni ha relegato il ricordo di quegli avvenimenti prevalentemente agli ambiti familiari, negando la possibilità di un riconoscimento ufficiale;
   il 24 maggio 2015, presso il Sacrario di Redipuglia (Go), in occasione del Centenario dell'ingresso dell'Italia nella Grande Guerra, sono stati ricordati i caduti con la lettura dell'Albo d'Oro e con la consegna di una Medaglia ai familiari dei caduti che ne hanno fatto richiesta;
   come indicato dal sito www.albodorograndeguerra.it, le occasioni di commemorazione nominativa dei Caduti si sviluppa nell'arco temporale dal 24 maggio 2014 al 4 novembre 2018, con la consegna ai familiari della Medaglia Ricordo in ferro raffigurante, da un lato, il logo del Governo per il Centenario della Grande Guerra, e, dall'altra, la statua presente nel cimitero degli eroi di Aquileia, su cui viene inciso il grado, cognome e nome del caduto. L'Albo d'Oro e la medaglia come comunicato sul sito internet della regione Friuli Venezia Giulia sono iniziative patrocinate dalla regione autonoma Friuli Venezia Giulia e dal Ministero della difesa, con le associazioni d'arma e con il Military Historical Center (MHC) di Udine;
   il citato sito riporta che «l'Evento di ricordare ogni Caduto della Grande Guerra nella Regione Friuli Venezia Giulia nasce dalla consapevolezza che il nostro territorio è legato alla memoria nazionale dell'Unità d'Italia. Nel Centenario della Grande Guerra 2014-2018, nelle Cerimonie delle Associazioni d'Arma, verranno citando tutti gli iscritti nell'Albo d'Oro, 529.025 Caduti, dando una prova di riconoscenza verso le Forze Armate e verso di contributo di sangue dato da tutte le famiglie italiane sulla nostra terra per l'unificazione della Patria. La Commemorazione del luogo della Memoria di ogni singolo Soldato Caduto è la testimonianza storica della loro vita che appartiene ad ogni Famiglia come percezione tangibile che la loro storia è nella storia dell'Unità d'Italia»;
   la legge della regione Friuli Venezia Giulia 4 ottobre 2013, n. 11 «Valorizzazione del patrimonio storico-culturale della Prima Guerra mondiale e interventi per la promozione delle commemorazioni del centenario dell'inizio del conflitto, nonché norme urgenti in materia di cultura», all'articolo 1 recita: «Al fine di sostenere la crescita di una cultura della pace e della pacifica convivenza tra i popoli la Regione promuove la valorizzazione e la conoscenza del patrimonio storico culturale e ambientale attinente ai fatti della Prima guerra mondiale, ricordando e onorando le vittime militari e civili di ogni schieramento e nazionalità». A parere degli interroganti, i testi riportati dall’home page del sito www.albodorograndeguerra.it non risultano centrare gli obiettivi della legge regionale: più che sostenere la crescita della pace e della convivenza sembrerebbe che la comunicazione resti nell'alveo della storiografia tradizionale, esaltando i concetti di “patria” e unità nazionale»;
   una mail inviata nelle settimane scorse dal Coordinamento Albo d'Oro, nell'informare di un evento organizzato in collaborazione con la regione Friuli Venezia Giulia previsto a Trieste per il 16 aprile 2016, comunica che, durante l'appuntamento, «saranno consegnate le Medaglie Commemorative dalle Autorità Istituzionali alle famiglie dei Caduti sia con il Regio Esercito sia con l'Esercito Austro-Ungarico»;
   nei giorni scorsi, il primo firmatario del presente atto ha rivolto una serie di richieste di chiarimenti alle parti promotrici dell'iniziativa;
   l'associazione Albo d'Oro, per quanto riguarda le informazioni da riprodurre sulle medaglie, ha confermato l'impossibilità di verificare dati forniti dai famigliari delle vittime con divisa austriaca ed austroungarica in quanto gli elenchi dei caduti austriaci non sono nella disponibilità italiana; mentre, in merito alla medaglia, alla domanda se si fosse prevista, oltre al logo governativo ufficiale stabilito per le celebrazioni del Centenario, un'immagine differente dall'attuale, sull'altra faccia, (che attualmente riproduce la statua del Cimitero degli Eroi di Aquileia), adatta all'occasione di cui sopra, visto che verrebbe consegnata ai parenti di soldati caduti con una uniforme diversa dall'italiana combattendo per il proprio Paese (un simbolo di pacificazione, che potesse accomunare le diverse storie senza prevaricare o forzare le memorie, sarebbe stato, a parere dell'interrogante, opportuno), l'associazione ha confermato che non sono state previste differenziazioni e coloro i quali desiderassero ricevere la medaglia possono farne richiesta, mentre coloro che non reputassero la medaglia adatta a commemorare i propri caduti, possono esimersi dal richiederla;
   successivamente al colloquio intercorso, durante il quale il primo firmatario del presente atto ha fatto osservare come i testi proposti dal sito www.albodorograndeguerra.it non fossero proprio corrispondenti alla finalità della legge regionale di riferimento e fosse assente un rimando alla possibilità di richiedere la medaglia commemorativa anche per i caduti con la uniforme austro ungarica, è stata inserita la seguente dicitura «La Medaglia Commemorativa è anche per i Caduti Austriaci di lingua Italiana che hanno perso la vita con il “Kaiserlich und Königlich” per ricordare alle loro Famiglie il loro sacrificio in una visione di Europa Unita e per un messaggio di Pace tra i Popoli». Il primo firmatario del presente atto si rammarica far notare che, nonostante le osservazioni siano state prese in considerazione, il testo inserito riporti delle gravi inesattezze alle quali sarebbe necessario porre rimedio;
   una lettera in merito è stata inviata il 7 aprile 2016, anche all'assessore alla cultura, sport e solidarietà della regione Friuli Venezia Giulia, Gianni Torrenti ed alla presidente della regione Debora Serracchiani, per la quale si è in attesa di risposti;
   la complessità degli eventi storici che hanno attraversato in particolare alcuni territori imporrebbe a giudizio dell'interrogante, di dover tenere conto di sensibilità che potrebbero addirittura non essere comprese agli occhi di chi ne ignori le dinamiche. Ma proprio dalla regione Friuli Venezia Giulia, in accordo con tutte le istituzioni interessate, dovrebbe partire un'opera di riconoscimento della realtà storica che restituisca dignità a tutti i protagonisti del nostro passato: onorare la memoria di tutti i caduti nella Grande Guerra, attraverso un riconoscimento simbolico e la partecipazione delle famiglie, soprattutto, dei giovani, che hanno avuto un proprio congiunto tra i soldati morti nella carneficina della Prima guerra mondiale; si tratta di un segno importante e doveroso nei confronti di chi ha perso la vita per il proprio Paese, prescindendo dal colore della propria uniforme –:
   se il Ministro interrogato sia a conoscenza di quanto esposto in premessa;
   se il Ministro interrogato, in occasione delle celebrazioni per il Centenario, intenda assumere iniziative per dar luogo al contenuto dell'ordine del giorno accolto 9/2741-A/1, in particolare nei territori passati al Regno d'Italia al termine della Prima guerra mondiale;
   se il Ministro interrogato, considerato che il Ministero della difesa è soggetto patrocinante le iniziative proposte dal Comitato Albo d'Oro, intenda promuovere, di concerto con la regione Friuli Venezia Giulia, la proposizione di un riconoscimento per i discendenti delle vittime della Prima guerra mondiale che abbia l'obiettivo di unificare le diverse sensibilità e le diverse memorie, onorando tutti i caduti, senza distinzione di divisa;
   se i Ministri interrogati, per quanto di competenza, intendono promuovere, di concerto con le istituzioni interessate, delle iniziative finalizzate ad incentivare lo studio e le ricerche dei documenti relativi ai fatti accaduti nei territori divenuti italiani, al fine di iniziare un processo che miri a riportare la dovuta dignità a tutti i reduci ed i caduti della prima guerra mondiale, in particolare a quanti, nativi e residenti del Litorale, del Tirolo e del Val Canale, combatterono e perirono indossando la divisa del proprio Paese.
(4-12862)

ECONOMIA E FINANZE

Interrogazioni a risposta scritta:


   D'ALIA. — Al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   l'articolo 52, comma 5, lettera b), del decreto legislativo n. 446 del 1997 in materia di potestà regolamentare generale delle province e dei comuni in materia di riscossione delle entrate proprie, come modificato dalla legge n. 244 del 2007, elenca i soggetti abilitati a svolgere le attività di accertamento e riscossione:
    1) i soggetti iscritti nell'albo di cui all'articolo 53, comma 1;
    2) gli operatori degli Stati membri stabiliti in un Paese dell'Unione europea che esercitano le menzionate attività, i quali devono presentare una certificazione rilasciata dalla competente autorità del loro Stato di stabilimento dalla quale deve risultare la sussistenza di requisiti equivalenti a quelli previsti dalla normativa italiana di settore;
    3) le società a capitale interamente pubblico, di cui all'articolo 113, comma 5, lettera c), del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267;
    4) le società miste, iscritte nell'albo di cui all'articolo 53, comma 1, dello stesso decreto, i cui soci privati siano scelti, nel rispetto della disciplina e dei principi comunitari, tra i soggetti di cui ai numeri 1) e 2), a condizione che l'affidamento dei servizi di accertamento e di riscossione dei tributi e delle entrate avvenga sulla base di procedure ad evidenza pubblica;
   il citato articolo 52 del decreto legislativo n. 446 del 1997 è norma speciale che disciplina un particolare servizio pubblico, e in quanto tale contiene disposizioni più stringenti e particolari rispetto alla norma generale dell'articolo 113, comma 5, del decreto legislativo n. 267 del 2000;
   ne consegue che le società miste a capitale pubblico-privato devono necessariamente o trasformarsi a capitale interamente pubblico o provvedere all'adeguamento previsto dalla nuova normativa ossia iscriversi all'albo, anche a nome proprio, rispettare la disciplina ed i principi comunitari per la scelta dei soggetti privati che deve avvenire tra i soggetti iscritti all'albo suddetto e osservare l'esperimento di una «procedura ad evidenza pubblica» per l'affidamento del servizio;
   tali prescrizioni non appaiono rispettate da Parma Gestione Entrate spa: si tratta infatti di una società a capitale misto pubblico-privato con un capitale sociale di soli 300.000 euro; né può avere rilievo, ad avviso dell'interrogante, il fatto che il socio privato di minoranza ICA Imposte comunali e affini srl, con sede a La Spezia, sia iscritto all'albo dei riscossori;
   inoltre, avendo un capitale sociale di soli euro 300.000, Parma Gestione Entrate spa, non dispone nemmeno dei requisiti finanziari per esercitare la sua attività; l'articolo 3-bis del decreto-legge n. 40 del 2010 prevede infatti che nei comuni tra 100.000 e 200.000 abitanti (Parma ha 190.000 abitanti), il capitale della società di riscossione debba essere di almeno 5 milioni di euro interamente versati;
   pertanto, Parma Gestione Entrate spa, non appare all'interrogante avere i requisiti e le condizioni di legge per essere soggetto legittimato alla riscossione delle entrate patrimoniali ed alla conseguente adozione di ingiunzioni fiscali;
   nonostante la dubbia possibilità di iscrizione all'Albo di cui all'articolo 53 del decreto legislativo n. 446 del 1997 e la apparente mancanza dei requisiti di solvibilità di cui all'articolo 3-bis del decreto-legge n. 40 del 2010, Parma Gestione Entrate spa risulta iscritta all'Albo dei soggetti abilitati ad effettuare attività di liquidazione e accertamento dei tributi a far tempo dal 6 novembre 2015;
   in una conferenza stampa in municipio l'assessore Marco Ferretti, il presidente di PGE Enrico Tosi e l'amministratore delegato Oscar Giannoni, hanno dichiarato: «Abbiamo indetto questa conferenza – ha esordito l'assessore – per dissipare i dubbi dei cittadini. L'iscrizione all'albo ministeriale non è altro che una conferma dei requisiti societari di idoneità finanziaria, tecnica ed organizzativa che saranno soggetti a verifica annuale da parte del Ministero» –:
   per quali motivi e in base a quale autorizzazione Parma Gestione Entrate spa, pur non rispettando, a quanto risulta all'interrogante, i requisiti di cui all'articolo 52, comma 5, lettera b), del decreto legislativo n. 446 del 1997 e dell'articolo 3-bis del decreto-legge n. 40 del 2010, sia abilitata ad esercitare la riscossione delle entrate proprie del comune di Parma.
(4-12860)


   SORIAL. — Al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   in una recente puntata del programma televisivo Striscia la notizia il signor Luciano Dissegna, che per 30 anni sarebbe stato dirigente e funzionario dell'Agenzia delle entrate, avrebbe spiegato che i cittadini più colpiti dagli accertamenti sono i piccoli imprenditori e dichiarato che «Arriva un avviso d'accertamento da 100 mila euro e, davanti alla proposta di pagarne metà, ci si trova costretti a pagare. Questa costrizione io la trovo inaccettabile. Questa è, dal mio punto di vista e in buona fede, la più grande estorsione di tutti i tempi. È una situazione di potere provocata da accertamenti presuntivi e discrezionali: dietro la discrezionalità c’è la corruzione. Sono andato via perché non potevo accettare questa situazione e anche perché rischiavo molto grosso. Mettersi contro l'amministrazione è pericoloso»;
   l'ex dirigente Dissegna ha sottolineato che «I dirigenti hanno sempre fatto carriera in base al cosiddetto obiettivo monetario», e che «più soldi si incassano più il dirigente fa carriera e anche soldi. Credo che, a fine anno, i dirigenti più grossi portino a casa anche 70-80 mila euro in più»;
   se il Ministro interrogato non intenda chiarire se quanto dichiarato dall'ex-dirigente dell'Agenzia delle entrate di cui in premessa sia veritiero e, in tal caso, quale sia l'orientamento del Governo in merito alla condotta, assunta da alcuni elementi dell'amministrazione finanziaria, che appare all'interrogante tanto più ingiustificata alla luce del delicato compito cui essa è preposta;
   se non si ritenga doveroso intervenire urgentemente, anche assumendo iniziative di natura disciplinare nei confronti dei dirigenti le cui responsabilità fossero accertate, qualora ci fossero i presupposti, adottando ogni misura volta a tutelare i cittadini da un eventuale funzionamento distorto dell'Agenzia delle entrate.
(4-12866)


   SORIAL. — Al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   scrive di recente Vittorio Malagutti sull’Espresso, circa la questione dei Panama Papers: «Per Ubi la piattaforma d'operazioni per gli affari offshore si trovava in Lussemburgo. (...) Nelle carte compaiono i nomi di 40 sigle offshore, registrate a Panama e alle isole Seychelles, che appaiono legate a Ubi. (...) Gli azionisti delle offshore sono da ricercare tra i clienti di Ubi, che via granducato e con l'assistenza dello studio panamense sono così riusciti a sbarcare in un paradiso fiscale»;
   i Panama Papers sono dei documenti trapelati da una delle più importanti società del mondo che si occupa di creazione e gestione di società off shore e studiati nel corso di una lunga inchiesta giornalistica che ha coinvolto decine di quotidiani internazionali e che riguardano le attività di centinaia di migliaia di società, alcune controllate da politici, Capi di Stato e banche di tutto il mondo, diffusi alcuni giorni fa da diversi giornali e siti di news;
   il presidente dell'Adusbef, Elio Lannutti e il presidente dell'Associazione piccoli azionisti Ubi Banca, Giorgio Jannone hanno presentato un esposto alla procura della Repubblica di Milano nel quale, secondo fonti di stampa, chiedono ai magistrati di spiegare a che cosa servano due consociate in Cina, tre a Singapore, 16 in Lussemburgo e 8 nello stato americano del Delaware;
   con l'esposto di Lannutti e Jannone si chiede di spiegare anche il ruolo di Gregorio Gitti, genero di Bazoli in quanto marito della neo-consigliera Francesca Bazoli, al centro di un sistema di società di diritto olandese usate per «cartolarizzare» le sofferenze, società che si chiamerebbero tutte Ubi-qualcosa ma non sarebbero dell'Ubi, risultando, secondo le accuse, quasi tutte controllate da misteriose fondazioni olandesi «il cui oggetto sociale parrebbe ad una prima analisi lontano dall'attività di recupero crediti bancari»;
   sembra che dopo le prime denunce di Jannone, diverse di queste società siano state poste in liquidazione e su questo problema pare che la vigilanza, della Banca d'Italia prima e della Bce poi, non abbia nulla da dire;
   circa due mesi fa Deutsche Bank ha diffuso un report intitolato Headwinds on capital («Venti contrari sul capitale»), rilevando come, nell'ultimo trimestre del 2015, il Cet1 ratio (indicatore della solidità patrimoniale) sia sceso dal 12,56 all'11,62 per cento. Un anno fa il colosso tedesco assegnava a Ubi un obiettivo di prezzo di 7,2 euro per azione, oggi la stima è scesa a 5, inoltre, in questi giorni, la banca bergamasca ha perso in borsa il 6 per cento, arrivando a chiudere la giornata a 3,04 euro –:
   se il Ministro interrogato sia al corrente dei fatti esposti in premessa e quale sia, per quanto di competenza, l'orientamento del Governo in merito;
   se il Governo non consideri necessario assumere le iniziative di competenza per contribuire a fare luce sul ruolo di queste società, 40 sigle offshore, registrate a Panama e alle isole Seychelles, che appaiono legate a Ubi banca e sui relativi azionisti, che con l'assistenza dello studio panamense potrebbero essere riusciti a eludere il fisco. (4-12872)

GIUSTIZIA

Interrogazione a risposta in Commissione:


   BECHIS. — Al Ministro della giustizia. — Per sapere – premesso che:
   secondo il documento «Linee guida per la regolazione dei processi di sostegno e allontanamento del minore», redatto dal Consiglio nazionale degli assistenti sociali nel 2010, il ricorso all'articolo 403 del codice civile deve avvenire solo quando sia esclusa la possibilità di altre soluzioni e sia accertata la condizione di assoluta urgenza e di grave rischio per il minore, che richieda un intervento immediato di protezione e nella relazione indirizzata alla procura minorile o al tribunale per i minorenni debbano essere esposti in maniera distinta gli elementi descrittivi da quelli valutativi e siano indicati gli interventi che sono stati posti in essere, ove possibile, per evitare l'allontanamento;
   esponendo cronologicamente i fatti giudiziari di un caso emblematico di una bambina allontanata dalla propria famiglia, è evidente il vuoto normativo relativo all'applicazione dell'articolo 403 del codice civile e l'eccessivo potere di deroga introdotto con l'articolo 2, comma 3, della legge n. 184 del 1993;
   in ottemperanza all'articolo 403, in data 19 marzo 2012, i carabinieri della stazione del comune di Marcellina hanno accompagnato l'assistente sociale, dottoressa Rossi Rita al fine di verificare le condizioni di vita e ambientali di una minore, nata a novembre del 2003, la quale non risultava a tale data iscritta a scuola;
   nella comunicazione del 20 marzo 2012 redatta dalla suddetta dottoressa Rossi, recante oggetto «comunicazione rif. Fascicolo n. 721/2012», Prot. 1982/2012» indirizzata alla procura della Repubblica e posta alla cortese attenzione del dottor Paolella Carlo, viene resocontato l'esito della visita effettuata il giorno precedente: «Accompagnata quindi dai carabinieri della Stazione del Comune di Marcellina il Servizio sociale ha potuto riscontrare che la bambina vive in (indirizzo) ma con certezza il proprietario dell'appartamento che abita sopra riferiva che il padre della bambina era al lavoro che la mamma e la minore erano in casa. La donna però non ha aperto la porta né ai carabinieri e né alla scrivente. I vicini di casa riferiscono che la bambina esce con difficoltà dall'abitazione perché sostengono che la signora ha paura che possono portargliela via che possa essere rapita che le possa succedere qualche cosa che la donna ha paura di ogni piccolo insetto o animale quindi non apre mai le imposte dell'abitazione e quindi la bambina vive maggiormente all'interno della propria abitazione si presume al buio»;
   in data 18 aprile 2012 uno dei vicini di casa della famiglia, venuto a conoscenza di quanto riportato dalla dottoressa Rossi Rita nella suddetta comunicazione del 20 marzo, con propria dichiarazione autografa ha affermato che né lui né la moglie hanno mai detto alla dottoressa Rossi quanto affermato nella relazione del 20 marzo 2012;
   in data 20 marzo 2012, il pubblico ministero dottor Paolella Carlo, sulla base di un'informativa della stazione del Comando dei carabinieri di Castel Madama in Vicovaro del 30 dicembre 2011 e della sopracitata comunicazione, chiese al presidente del tribunale l'apertura di un procedimento a tutela dei minori con verifica della potestà genitoriale di entrambi i genitori, e l'adozione di provvedimenti urgenti;
   in data 27 marzo 2012 venne stilata dalla dottoressa Rossi Rita la «Relazione di aggiornamento Fascicolo n. 721/2012», prot. 2163/12, in cui si attesta che in data 20 marzo 2012 della stessa si recò nuovamente presso l'abitazione della minore con i carabinieri del Comando di Marcellina, rilevando che la madre della minore dichiarava di non essere stata in casa il giorno prima poiché era andata a Roma e ha raccolto la volontà della madre della minore di rendersi disponibile a recarsi subito a scuola al fine di iscrivere la figlia. Al termine della visita effettuata insieme ai carabinieri nella relazione risulta che, tornata in ufficio, la dottoressa Rossi era stata contattata dalla procura dei minorenni alla quale ha ribadito che era dovere del servizio sociale prelevare la bambina dalla propria abitazione per evitare che potessero di nuovo cambiare domicilio e non essere rintracciati e, in seguito a tale telefonata la dottoressa Rossi si era recata nuovamente presso l'abitazione della minore accompagnata da due vigilesse e ha proceduto, applicando l'articolo 403 del codice civile, all'allontanamento della stessa;
   in data 30 marzo 2012, presso il tribunale per i minorenni di Roma, il collegio composto da dottoressa Carmela Cavallo (presidente), dottoressa Angela Rivellese (giudice), dottoressa Sabrina Avakian (giudice onorario) e il dottor Aurelio Proietti (giudice onorario), sulla base dei documenti sopra esposti, ha disposto la sospensione della potestà genitoriale di entrambi i genitori della minore, oltre all'immediato allontanamento della stessa e il suo collocamento in idonea struttura;
   è potenzialmente dannoso per il benessere dei minori che l'attuale procedura di allontanamento permetta di giungere a decisioni tanto gravi senza aver avviato adeguati interventi di sostegno alla famiglia, e soprattutto per cause imputabili a quelle che potrebbe rivelarsi per l'interrogante scarsa professionalità ed etica deontologica da parte di alcuni assistenti sociali che compilano relazioni in cui vengono riportate dichiarazioni non verificabili o per evitare un cambio di domicilio da parte di genitori sottoposti a verifica della potestà genitoriale –:
   se il Ministro interrogato non ritenga opportuno valutare l'eventualità di intraprendere immediate iniziative di carattere normativo, al fine di garantire il benessere dei minori e nello specifico di definire delle linee guida per la regolazione dei processi di sostegno e allontanamento dei minori che siano maggiormente vincolanti. (5-08406)

Interrogazioni a risposta scritta:


   GREGORIO FONTANA. — Al Ministro della giustizia. — Per sapere – premesso che:
   fino al 1o settembre 2015 il comune di Bergamo ha anticipato, per a i, il canone di locazione della procura e del tribunale di Bergamo, che doveva essere successivamente rimborsato dal Ministero della giustizia. Dalla metà del 2012 al 1o settembre 2015 il comune di Bergamo ha maturato un credito di oltre tre milioni duro nei confronti del Ministero della giustizia;
   dal 1o settembre 2015 i costi di funzionamento degli uffici giudiziari, comprensivi dei costi di affitto degli immobili, sono direttamente a carico dei Ministero;
   i tempi di rimborso dei canoni di locazione anticipati dal comune da parte del Ministero sono a giudizio dell'interrogante esageratamente lunghi, mettendo a dura prova il bilancio del comune di Bergamo;
   in quali tempi il Ministero della giustizia provvederà a rifondere al comune di Bergamo l'intera somma anticipata per il canone di locazione del tribunale, anche in considerazione delle ristrettezze e dei vincoli di bilancio dei comuni e della diversa destinazione di impiego di queste risorse in opere direttamente di competenza del comune. (4-12865)


   NARDI. — Al Ministro della giustizia. — Per sapere – premesso che:
   l'organico del personale di polizia penitenziaria della casa di reclusione di Massa è stato fissato con decreto ministeriale del 2001 in 159 unità, poi modificato con decreto ministeriale del 2014 in 149 unità;
   a causa di riforme dal servizio, collocamenti a riposo per pensionamenti e assenze per malattia di lungo periodo le unità effettivamente in servizio presso la casa di reclusione di Massa sono circa 120;
   a fine 2015 la casa di reclusione di Massa è stata ampliata con l'apertura della sezione B che ha comportato un aumento dei posti di servizio e dei carichi di lavoro per il personale di polizia penitenziaria;
   nell'occasione dell'apertura della sezione B sono state inviate in missione presso la casa di reclusione di Massa 10 unità di personale di polizia penitenziaria provenienti da altri istituti della regione al fine di consentire la funzionalità della struttura;
   dal 15 gennaio 2016 sono terminati i provvedimenti di missione coi conseguenze negative sulla gestione complessiva dell'istituto: accorpamenti dei posti di servizio e turni di 8 ore per mantenere livelli di sicurezza che talvolta si attestano sotto i livelli minimi, considerato che le attività trattamentali e scolastiche si svolgono a prescindere dalla sorveglianza per non pregiudicare la caratteristica trattamentale dell'istituto;
   l'organico dell'istituto di Massa è carente anche di altre figure professionali di etti le sigle sindacali e la direzione hanno fatto più e più volte richiesta al provveditorato regionale: occorrono 2 contabili, il rientro alla sede di Massa di 4 tecnici amministrativi attualmente distaccati all'istituto minorile di Pontremoli e 2 funzionari pedagogici;
   sono già state richieste con urgenza le seguenti sostituzioni: un educatore distaccato a Secondigliano e un contabile addetto alla cassa dell'istituto (assente per problemi di salute) –:
   se il Ministro sia a conoscenza della situazione, se intenda valutare la possibilità di far proseguire i servizi di missione di 10 unità operative come nel 2015 e se sia possibile avviare i lavori di ripristino dell'impianto anti-scavalcamento del muro di cinta e della sala regia per i quali risultano già impegnati specifici finanziamenti, dato che il ripristino di tali sistemi di sicurezza consentirebbe un utilizzo più flessibile del personale di polizia penitenziaria con possibilità di ottimizzazione delle risorse a disposizione. (4-12868)


   ROSTAN. — Al Ministro della giustizia. — Per sapere – premesso che:
   sul web e, precisamente, sul noto social network denominato « Facebook», è da tempo pubblica una pagina dedicata all'apologia del sistema camorristico;
   attraverso tale pagina, denominata «O sistema», soggetti ignoti inneggiano sistematicamente ai riti ed alle modalità di funzionamento della vita sociale di clan camorristici ed in generale della criminalità organizzata, descrivendo e normalizzando gli stessi, al punto da diffondere idee e valori deplorevoli, sprezzanti del diritto e della legalità e diseducativi per il pubblico potenzialmente illimitato raggiungibile attraverso Facebook, composto in larga parte anche da minorenni;
   altrettanto inquietante è, inoltre quanto evidenziato dal Corriere del Mezzogiorno in un articolo pubblicato il 12 aprile 2014;
   la testata ha avuto modo di rilevare come il contenuto della pagina Facebook venga posto alla base di ulteriori portali online, facenti informazione circa l'andamento dei lavori parlamentari aventi ad oggetto le norme in discussione in Commissione giustizia per la riforma dell'indulto e dell'amnistia;
   minacce ed insulti, inoltre, vengono su questa pagina riservati ai «collaboratori di giustizia», mentre vengono idolatrati detenuti e detenute che vengono esortati alla più assoluta omertà;
   la pagina Facebook in questione non ha alcuna finalità sociale o ricreativa, e sembrerebbe rispondere a ben altre censurabili ed illegali esigenze –:
   se il Ministro interrogato sia a conoscenza dei fatti di cui in premessa ed in caso affermativo, se non sia il caso di valutare l'ipotesi di assumere le iniziative di competenza per l'immediato oscuramento della pagina;
   se non sia il caso di verificare che, attraverso l'apertura della pagina ed in considerazione dei contenuti della stessa, non si siano perpetrate attività che possano danneggiare direttamente o indirettamente, l'efficacia delle iniziative intraprese dal Ministero nell'ambito della lotta alla criminalità organizzata di stampo camorristico e mafioso. (4-12870)

INFRASTRUTTURE E TRASPORTI

Interrogazione a risposta orale:


   LATRONICO. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   il sistema infrastrutturale lucano presenta molte carenze sul piano viario, della sicurezza e della manutenzione, specie per quanto riguarda le principali arterie che collegano i principali punti di interesse della regione Basilicata;
   è ormai noto che alla Basilicata non è stata ancora assicurata una viabilità adeguata e sicura, nonostante gli ingenti finanziamenti pervenuti sul territorio. Esempi lampanti sono la strada statale 95 Tito – Brienza, la strada statale 407 Basentana e la strada statale 655 Bradanica, il raccordo autostradale Sicignallo – Potenza, strade a tutt'oggi incomplete. Lo stato delle strade appena citate non fa eccezione rispetto a molte altre vie di comunicazione della Basilicata che presentano queste caratteristiche. Tale stato di cose rappresenta un forte disagio non solo per i singoli utenti, ma anche e soprattutto per le aziende di tutti i settori che non trovano competitivo investire sul territorio lucano a causa dell'inadeguatezza delle sue infrastrutture;
   la designazione di Matera capitale europea della cultura 2019 ha riacceso i fari su una città già patrimonio dell'UNESCO che ha posto in evidenza le numerose carenze sui collegamenti infrastrutturali e di trasporto, determinando un vero isolamento verso le direttrici più vicine;
   nei mesi scorsi presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, alla presenza del Vice Ministro Riccardo Nencini, ci sono stati una serie di incontri con il sindaco di Matera per definire un piano di interventi per i collegamenti strategici di Matera, capitale della cultura 2019. In particolare, il collegamento tra la strada statale 407 Basentana alla autostrada A14, il collegamento mediano Murgia-Pollino che venne dichiarato strategico e di preminente interesse nazionale con delibera del Cipe n. 121 del 2001 e venne inserito tra gli interventi previsti dalla delibera del Cipe n. 130 del 6 aprile 2006;
   in forza di tale riconosciuta priorità venne redatto uno studio di fattibilità che consentì all'Anas di predisporre il progetto preliminare, corredato dallo studio di impatto ambientale, relativo al collegamento Gioia del Colle-Matera-Ferrandina-Pisticci-Montalbano-Valsinni-Lauria. Dopo tale impennata di interesse, certificato dall'approvazione in linea tecnica del progetto da parte del consiglio di amministrazione dell'Anas nel 2008, la questione è rimasta inspiegabilmente ferma e insoluta;
   una nota ufficiale dell'Anas del 17 marzo 2016 ha confermato il progetto preliminare del collegamento mediano Murgia Pollino-Gioia del Colle-Matera-Ferrandina-Pisticci. Questo tratto collegherà le aree industriali di Jesce, Venusio, Matera alla Valbasento, aprendo un varco ad un'arteria strategica fondamentale per l'incremento del traffico turistico e commerciale tra la Basilicata e la Puglia;
   secondo i dati dell'ANAS la regione Basilicata è interessata da 26 lavori in corso di cui 2 cantieri per nuove costruzioni e 24 cantieri di manutenzione straordinaria per un importo totale di 134.335.126,04 euro (Iva esclusa). In tutte le arterie principali della regione sono presenti lavori di manutenzione e di costruzione;
   la strada statale Bradanica 655 è un collegamento viario fondamentale che si snoda tra la Puglia e la Basilicata e ha una lunghezza complessiva di 112 chilometri. È un importante via di comunicazione per la città di Matera, capitale della cultura 2019 che risente di una rete infrastrutturale fragile e disarticolata ed è un'infrastruttura di straordinaria rilevanza per collegare Matera a Melfi e Foggia, passando per lo snodo autostradale di Candela A16;
   il completamento della strada statale 95 Tito – Brienza e la messa in sicurezza dell'intero tracciato compresi gli svincoli di Tito e di Satriano di Lucania sono diventati un'odissea. Si tratta di un'opera già appaltata e per la quale ci sono fondi a disposizione: 621,3 milioni di euro (dei quali 202,7 già disponibili) distribuiti su 16 interventi per «infrastrutture e trasporto» di cui alla delibera 62/2012;
   il tratto viario strada statale 95 rischia di non essere mai inaugurato a causa della maxi operazione denominata «Dama Nera» a seguito della quale sono stati sottoposti a misure restrittive 19 funzionari dell'ANAS e imprenditori e il ritardo nell'avvio dei lavori rischia la perdita del finanziamento;
   la stessa situazione si estende anche al raccordo, autostradale Sicignano – Potenza che è parte della strada europea E847, dorsale nord sud che collega Sicignano con Metaponto, dove una parte di lavori erano già stati avviati, ma non si ha un'idea precisa di come potranno proseguire. I cantieri lucani rimangono fermi e si attendono risposte chiarificatrici. Il numero della crisi che investe il settore edile è spaventoso, 6 mila posti di lavori in meno, 500 milioni di euro di opere appaltate che restano ferme e i lavoratori a casa;
   quotidianamente si segnalano gravi disagi, criticità e livelli di inquinamento per le comunità dei centri del Melando, Brienza, Satriano e Sasso di Castalda che da decenni assorbono un carico di traffico sia leggero che pesante sempre in crescita. I cittadini di Brienza soffrono da anni il fatto che la strada che attraversa il paesino sia diventata una stazione di servizio per viaggiatori; il tratto viario utilizzato è stato costruito per sostenere un peso della circolazione che non è quello di oggi;
   le situazioni descritte, a giudizio dell'interrogante, stanno ingenerando una serie di ritardi che rischiano di compromettere i tempi di realizzazione di opere infrastrutturali attese da anni da parte delle comunità interessate –:
   se e quali iniziative il Governo intenda assumere per intervenire al più presto sulla situazione delle strade menzionate in premessa e, in particolare, per porre fine a una realtà non solo di disagio ma di effettivo rischio per l'utenza;
   se il Ministro possa fornire informazioni in merito alla programmazione già finanziata e non ancora attuata e se siano, in particolare, effettivamente previsti investimenti per lo sviluppo della rete viaria lucana;
   quali iniziative di competenza intenda intraprendere per attribuire carattere prioritario alla ricerca e allo stanziamento di risorse per il completamento delle opere citate in premessa quali arterie viarie di comunicazione fondamentali per la mobilità della regione Basilicata e per Matera. (3-02192)

Interrogazioni a risposta in Commissione:


   DE LORENZIS. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   alle autorità portuali, secondo giurisprudenza ormai pacifica sul punto, è attribuita natura giuridica di «enti pubblici non economici»;
   ne discende, a mente della normativa vigente nell'ambito del reclutamento del personale, l'immanenza dei principi di pubblicità della selezione, oltre che uno svolgimento secondo modalità atte a garantire imparzialità ed economicità, nonché meccanismi oggettivi e trasparenti al fine di verificare il possesso dei requisiti attitudinali e professionali richiesti in relazione alla posizione da ricoprire;
   ne discende altresì l'applicabilità delle disposizioni tese ad assicurare una migliore organizzazione del lavoro, nel rispetto della legge e della contrattazione collettiva, con elevati standard qualitativi ed economici delle funzioni e dei servizi, incentivazione della qualità della prestazione lavorativa, selettività e concorsualità, riconoscimenti di meriti e demeriti, valorizzazione delle capacità e dei risultati;
   con particolare riferimento alla valutazione della performance, al merito e ai premi, la normativa vigente prevede strumenti di controllo, garanzia e valorizzazione secondo logiche meritocratiche. Viene altresì vietata la distribuzione in maniera indifferenziata o sulla base di meccanismi di automatismi di incentivi e premi collegati alla performance in assenza di verifiche;
   si apprende da organi di stampa che, con riferimento all'autorità portuale di Brindisi, vi è stata l'approvazione a maggioranza da parte del comitato portuale della contrattazione di secondo livello e sono emerse forti critiche su recenti assunzioni e promozioni. Inoltre, si apprende che si stia provvedendo a portare la pianta organica da 30 a 40 unità, con passaggi di livello a volontà;
   in particolare, dalla delibera n. 7 del 2016 del comitato portuale si rinviene una riorganizzazione e rimodulazione della dotazione organica in cui, tuttavia, ad avviso dell'interrogante, vengono meramente richiamati in astratto i dettami normativi recanti i principi in materia senza che sia possibile verificare in concreto che si provveda ad un adeguamento funzionale compatibile con le esigenze di risparmio e rispondente anche al volume di traffico e alla attività connesse alla movimentazione delle merci e dei passeggeri;
   dalle notizie emerge altresì la previsione di una pluralità di indennità e premi, ma a giudizio dell'interrogante non se ne rinviene trasparenza in ordine alle modalità ed ai criteri di riferimento, essendo solo genericamente affermata l'eliminazione del premio fisso di produzione e del premio di presenza giornaliera, secondo le indicazioni del collegio dei revisori e del Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, senza espresso riferimento al doveroso raggiungimento da parte dei dipendenti delle performance dagli stessi conseguite;
   l'autorità portuale di Brindisi resta in ogni caso obbligata a provvedere agli oneri di pubblicità imposti dal decreto legislativo n. 33 del 2013, recante il «Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni», rispetto ai quali, tuttavia, alla luce della consultazione del sito, la sezione amministrazione trasparente risulta in fase di aggiornamento, specie con riferimento ai dati della performance e dell'ammontare complessivo dei premi –:
   se il Ministro interrogato sia a conoscenza dei fatti indicati in premessa e se intenda, nell'ambito delle proprie competenze, esercitare il potere di vigilanza sull'attività di programmazione della dotazione organica e di previsione dei meriti e delle indennità, posta in essere dall'autorità portuale, al fine di verificarne la legittimità, valutando se emanare precise prescrizioni al riguardo per conformare le determinazioni alle disposizioni normative richiamate in premessa, garantendo in ogni caso la salvaguardia dei diritti maturati dai lavoratori;
   se il Ministro interrogato intenda procedere ad una verifica del rispetto, da parte dell'autorità portuale di Brindisi, degli obblighi di pubblicazione imposti dal decreto legislativo n. 33 del 2013, recante il «Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni». (5-08401)


   MARTELLA. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   in data 13 aprile 2016, intorno alle ore 8:40 presso il binario 6 della stazione Santa Lucia di Venezia si è registrata una aggressione ai danni di un addetto Trenitalia nell'ambito dei controlli antiabusivismo;
   il dipendente delle Ferrovie ha tentato di allontanare dal Frecciabianca 9712 diretto a Torino un facchino abusivo che ha reagito colpendolo con una testata e diversi calci;
   l'abusivo era già stato più volte segnalato e allontanato dalla stazione, ma ha continuato a perseverare nell'esercizio abusivo della sua attività cercando di intercettare i turisti meno avveduti;
   il dipendente delle Ferrovie e stato medicato con una prognosi per fortuna di lieve entità; resta comunque il fatto che dall'inizio dell'anno questa è l'ottava aggressione ad un operatore di Trenitalia;
   il ferroviere aggredito presenterà denuncia e sarà assistito dalla tutela legale che il gruppo Ferrovie dello Stato italiane mette a disposizione dei propri dipendenti vittime di aggressione e violenze; sono in corso indagini da parte della Polfer;
   è del tutto inaccettabile che si verifichino episodi di questo genere per la sicurezza degli addetti in servizio e per i turisti e i viaggiatori che quotidianamente si trovano in stazione –:
   quali iniziative il Governo intenda promuovere al fine di rafforzare la sicurezza presso la stazione Santa Lucia di Venezia al fine di garantire agli operatori di Trenitalia di poter svolgere il proprio lavoro e affinché le segnalazioni e gli allontanamenti vengano effettivamente resi operativi considerato il caso riportato in premessa, anche perché la stazione è il primo «biglietto da visita» di una delle più visitate città al mondo. (5-08411)

Interrogazioni a risposta scritta:


   PRESTIGIACOMO. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   da recenti notizie di stampa si apprende che Trenitalia e Rete ferroviaria italiana vogliano chiudere per un periodo dai tre ai sei mesi la tratta ferroviaria da Siracusa a Catania;
   il motivo di tale chiusura sarebbe quello di consentire l'effettuazione di lavori di velocizzazione della tratta ferroviaria;
   è impensabile, che per ottenere una riduzione di tempi di percorrenza solamente di circa il 10 per cento, si chiuda per intero una tratta ferroviaria così nevralgica per tutta la Sicilia Sud-orientale;
   la chiusura della tratta ferroviaria Siracusa-Catania potrebbe avere delle conseguenze devastanti per il sistema dei trasporti e per tutto il tessuto produttivo siciliano, in particolare per le province di Siracusa e Ragusa;
   la chiusura della tratta ferroviaria interesserebbe tutto il periodo estivo, con conseguenze drammatiche inevitabili per il turismo;
   si potrebbero trovare soluzioni alternative al blocco totale della tratta; è comunque fondamentale intraprendere la strada di una mobilità sostenibile anche in Sicilia; infatti, considerando le precarie condizioni di viabilità a causa di continue frane, cedimenti e crolli, viaggiare in treno diventa spesso una scelta obbligata;
   in caso di chiusura della tratta sarebbe stata opportuna una consultazione sia dei sindacati, sia degli amministratori locali;
   un'eventuale chiusura comporterebbe modifiche organizzative e lavorative per circa 400 addetti tra ferrovieri, personale addetto alla manutenzione, alla manovra e alla logistica;
   sono risultati vani i tentativi di richiedere maggior attenzione per il delicato tema delle infrastrutture per il Mezzogiorno, in quanto il Governo non ha accolto le richieste volte all'erogazione di specifici finanziamenti per l'alta velocità e per lo sviluppo della rete ferroviaria e infrastrutturale di tutto il «Mezzogiorno»;
   non è arrivata alcuna smentita da parte del Governo riguardo alla chiusura della tratta Siracusa-Catania;
   il Governo continua ad ignorare la drammatica situazione economica e sociale in cui versa il «Mezzogiorno», limitandosi come accaduto nella legge di stabilità ad apportare delle iniziative ad avviso dell'interrogante alquanto irrilevanti e inefficaci –:
   se il Ministro sia a conoscenza di un piano di chiusura della tratta ferroviaria Siracusa-Catania e, in tal caso, quali provvedimenti intenda adottare per scongiurare tale eventualità, che avrebbe conseguenze drammatiche sia per la mobilità che per il tessuto produttivo della regione Sicilia;
   quali iniziative intenda adottare il Governo, per avviare quanto prima un grande piano per lo sviluppo delle reti infrastrutturali del Mezzogiorno, volto in particolare ad estendere e potenziare, anche attraverso lo sviluppo della rete ad alta velocità, la rete ferroviaria meridionale. (4-12850)


   CAON. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   la strada regionale Pontina, ex strada statale 148, realizzata negli anni ’30, risulta essere una delle arterie più pericolose d'Italia, sulla quale si verificano in media 2,57 incidenti per chilometro;
   grazie a questo dato preoccupante la Pontina, da anni, è al centro del programma «Adotta una strada», promosso dalla fondazione Ania e dall'Arma dei carabinieri, che prevede la presenza giornaliera di numerosi posti di blocco e di controllo, con l'obiettivo di costituire un deterrente nei confronti degli automobilisti che disattendono alle disposizioni del codice della strada, come l'alta velocità, il mancato utilizzo delle cinture di sicurezza, guida sotto l'effetto dell'alcool o di sostanze stupefacenti, uso scorretto del telefonino e altro;
   la Pontina, seppur oggetto di diversi progetti uno su tutti la trasformazione in autostrada, negli ultimi decenni è stata più volte oggetto di declassamento. Inizialmente da «superstrada» a semplice «strada statale», a causa dei numerosi innesti ed uscite giudicate fuori norma, con conseguente riduzione del limite di velocità da 110 chilometri orari a 90 nel tratto compreso tra Torvaianica e Latina nord. Nel tratto tra Torvaianica e Spinaceto-Roma tale limite è stato ulteriormente abbassato a 80 chilometri orari;
   recentemente, anche se i limiti di velocità sono rimasti invariati, ha subito un ulteriore declassamento a «strada regionale»;
   le condizioni di grave dissesto e la totale mancanza di manutenzione, nonostante sia stato approvato nei mesi scorsi dal consiglio regionale del Lazio un progetto di messa in sicurezza, gravano pesantemente sull'incidentalità di questa arteria soprattutto quando le condizioni meteorologiche sono avverse: in caso di pioggia per gli automobilisti diventa praticamente impossibile valutare il reale stato dell'asfalto. Purtroppo, la Pontina è caratterizzata dalla costante presenza di buche profonde, avvallamenti, carenza di segnaletica verticale ed orizzontale e l'asfalto rattoppato, che si sfalda sotto il peso dei mezzi pesanti e provoca spesso «piogge» di detriti che, oltre a danneggiare le auto, mettono in serio pericolo la vita dei tanti motociclisti e automobilisti che la percorrono;
   tutti queste problematiche sono ampiamente conosciute e denunciate sia dagli utenti che dagli amministratori locali e fatte proprie da tutte le autorità competenti in materia sia regionali che nazionali, ma il livello di pericolosità e di incidentalità, spesso anche mortale, non sembra affatto migliorato, anzi sembra peggiorare di giorno in giorno;
   la Pontina, nel lontano 2001, è stata oggetto di una delibera del Cipe n. 121, riguardante il primo programma delle opere strategiche da realizzarsi ai sensi della legge n. 443 del 2001 «legge obiettivo», che prevedeva la costruzione del collegamento autostradale A12 Pontina Appia e della bretella Cisterna-Valmontone;
   ora sembra che l'Anas abbia recentemente ripreso le procedure di gara per l'affidamento in concessione delle attività di progettazione, realizzazione e gestione del «Corridoio intermodale Roma-Latina» e del collegamento «Cisterna-Valmontone»; il costo complessivo dell'opera, che verrà realizzata in partenariato pubblico-privato, è pari a 2,8 miliardi di euro;
   tra poco, inizierà la stagione estiva e la Pontina, oltre al normale traffico, dovrà far fronte alle decina di migliaia di utenti che giornalmente raggiungono il litorale romano e quello della provincia di Latina. Tutto ciò avverrà, ancora una volta, se non si prendono provvedimenti urgenti e non si mette in sicurezza tale importante arteria, sulla pelle degli utenti e dei cittadini –:
   quali iniziative urgenti, per quanto di competenza, il Ministro interrogato intenda adottare, anche nell'ambito del progetto deliberato dal Cipe, per garantire la sicurezza e l'incolumità degli utenti della via Pontina, al fine di evitare ennesimi drammi e di mitigare gli inevitabili disagi provocati dall'imminente stagione estiva. (4-12857)


   FRANCO BORDO. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   i nuovi treni Swing, acquistati in sostituzione dei vecchi convogli regionali, si presentano con caratteristiche innovative: 161 posti a sedere, spazio per le biciclette, due posti per viaggiatori dalla ridotta capacità motoria, open space, grandi finestre, aria condizionata e prese per ricaricare telefono, tablet e computer a disposizione sotto ogni seggiolino. Un treno da tre vetture lungo cinquantacinque metri, raddoppiabile, dedicato ai pendolari ma anche ai turisti, capace di raggiungere i 130 chilometri orari, insomma un mezzo di tutto rispetto;
   Trenitalia ha comunicato che in alcune regioni italiane, e anche europee, si è reso necessario fare accertamenti sui carrelli dei treni Atr220tr-Swing, perché l'agenzia di sicurezza polacca ha segnalato all'equivalente italiana, l'Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie (Ansf), che a sua volta ha emesso un safety alert destinato alle aziende di trasporto, possibili difetti che interesserebbero i telai dei carrelli. L'autorità nazionale per la sicurezza del paese baltico ha infatti inviato una informativa all'Italia nella quale si parla espressamente di 14 casi di «rottura del telaio» registrati in Polonia, dove i treni Swing fabbricati dal colosso Pesa, sono stati bloccati e messi fuori servizio, per «rischio di deragliamenti», secondo quanto riportato da diverse testate giornalistiche;
   nell'ottobre 2015 guasti ai sistemi di bordo provocarono disagi su alcune linee toscane, e da qualche giorno tutti e 13 gli Swing in uso in Toscana sono stati fermati e ritirati dalla circolazione, sostituiti dai vecchi convogli;
   treni dello stesso tipo risultano essere in servizio anche nelle Marche, in Emilia Romagna, Veneto, Abruzzo, Basilicata e Calabria;
   in totale il colosso Pesa avrebbe ottenuto dall'Italia una commessa di oltre 150 milioni di euro, finanziata in parte dalle regioni, in parte da Trenitalia stessa –:
   se i treni Atr220tr-Swing siano stati sottoposti a preventivi controlli di omologazione e sicurezza da parte dell'Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie prima del loro impiego sul territorio nazionale;
   in quali regioni e su quali linee vengano utilizzati tali convogli;
   quanti siano complessivamente gli Atr220tr-Swing acquistati da Trenitalia e se risulti il numero di quelli acquistati dalle regioni Italiane;
   quali iniziative intenda mettere in atto il Ministro affinché Trenitalia risponda prontamente all'esigenza di accurati controlli tecnici;
   quali iniziative intenda intraprendere il Ministro affinché Trenitalia faccia luce sulla quantità di denaro speso per i nuovi convogli Swing;
   che cosa intenda fare il Ministro affinché Trenitalia garantisca il servizio ai pendolari, con mezzi idonei e sicuri.
(4-12858)

INTERNO

Interpellanza:


   I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro dell'interno, per sapere – premesso che:
   la Costituzione sancisce all'articolo 19, tra i diritti fondamentali dei cittadini, la libertà di professare «la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto» e, all'articolo 20, stabilisce che le associazioni religiose «non possono essere causa di speciali limitazioni legislative»;
   la Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni Unite all'articolo 18 indica come fondamentale la «libertà di religione» e tutela «la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell'insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell'osservanza dei riti»;
   il consiglio regionale Veneto, nella seduta del 4 aprile 2016, ha approvato modifiche alla legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 (Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio) introducendo l'articolo 31-bis «Edifici e attrezzature di interesse comune per servi-religiosi» e l'articolo 31-ter «Realizzazione e pianificazione delle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi»;
   in particolare, si prevede che le nuove strutture religiose o di preghiera possono sorgere solo «nelle zone territoriali omogenee F» (comma 4, capoverso b), articolo 31ter), classificate per infrastrutture e impianti di interesse pubblico, nella maggior parte dei comuni previste solo in periferia, e a patto che dispongano (comma 1, dell'articolo 31-ter) di «strade di collegamento, parcheggi e opere di urbanizzazione primaria, servizi igienici adeguati», e che «se assenti o inadeguate, ne prevede l'esecuzione o l'adeguamento con onere a carico dei richiedenti»;
   si applicano tali norme anche per (comma 2 articolo 31-ter) «le aree scoperte destinate o utilizzate per il culto, ancorché saltuario»;
   inoltre (comma 3 dell'articolo 31-ter) «il richiedente sottoscrive con il comune una convenzione contenente anche un impegno fideiussorio adeguato a copertura degli impegni assunti. Nella convenzione può, altresì, essere previsto l'impegno ad utilizzare la lingua italiana per tutte le attività svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, che non siano strettamente connesse alle pratiche rituali di culto»;
   queste richieste di natura urbanistica si configurano chiaramente come una «speciale limitazione legislativa» alla libertà di culto; la norma rende di fatto irrealizzabile la previsione di nuovi luoghi di culto in grandi città densamente urbanizzate quali Verona, Vicenza, Padova, Venezia ove più forte si sente la necessità degli stessi; si scarica sui richiedenti l'obbligo di sostenere direttamente ed in toto a proprio onere opere di urbanizzazione a servizio dell'intera comunità; si prevede l'obbligo di sottoscrizione di una fidejussione anche per l'utilizzo saltuario di aree scoperte;
   ad avviso degli interpellanti, non si può declassare una questione rilevante come la sfera religiosa delle persone a norma urbanistica. Non è corretto assimilare il luogo di culto a un centro commerciale o a un distributore di benzina. La religione si deve poter esprimere pubblicamente e la politica non può artificiosamente separare la vita della comunità religiosa dalle strutture di cui si serve;
   la nuova legge, tra l'altro, introduce, secondo gli interpellanti, una inaccettabile discriminazione tra i centri di culto cattolici e quelli delle altre confessioni. Infatti, le norme (articolo 31) «non si applicano» agli edifici e alle attrezzature «esistenti alla data di entrata in vigore della presente legge», «nonché agli interventi di ampliamento delle predette attrezzature qualora lo stesso non superi il 30 per cento del volume o della superficie esistente». Riguarda gli edifici di culto comprese (comma 2 dell'articolo 31-bis) «l'area destinata a sagrato» delle chiese, le abitazioni dei ministri del culto o del personale di servizio, strutture adibite ad attività educative, culturali, sociali e ricreative. Insomma, le scuole paritarie e gli oratori;
   non possono godere della deroga (comma 2, lettera d), dell'articolo 31-bis) «gli immobili destinati a sedi di associazioni, società o comunità di persone, in qualsiasi forma costituite, le cui finalità statutarie o aggregative siano da ricondurre alla religione, all'esercizio del culto o alla professione religiosa quali sale di preghiera, scuole di religione o centri culturali». Cioè le moschee che oggi, tra i divieti dei comuni, proliferano improvvisate in capannoni dismessi, sottoscala di condominio, garage riattati. E per lo stesso motivo sono state escluse le aree D (zone industriali) dall'ambito di applicazione della legge;
   per ultimo, non certo per importanza, viene introdotta (comma 2, dell'articolo 31-ter) «la facoltà per i Comuni di indire referendum nel rispetto delle previsioni statutarie e dell'ordinamento statale». Cioè si sottopone, ad avviso degli interpellanti incredibilmente, il diritto di esercitare la libertà di culto in luoghi adeguati sancita dalla Costituzione, alla volontà di consultazioni popolari;
   la disciplina urbanistica, come modificata, anziché favorire l'esercizio di un diritto fondamentale dei cittadini, quale la professione pubblica del proprio culto e l'osservanza dei riti, sembra porre delle sostanziali limitazioni allo stesso, ad avviso degli interpellanti senza che se ne ravvisi una reale necessità;
   in Veneto esiste una forte necessità di nuovi edifici da adibire al culto, in quanto molte sono le realtà religiose presenti sul territorio che attualmente celebrano i propri riti in sistemazioni necessariamente precarie, proprio in attesa di poter costruire adeguati luoghi di culto;
   il fanatismo religioso trova terreno fertile proprio nelle divisioni, nella strumentalizzazione, nelle contrapposizioni ideologiche e nelle situazioni irregolari, mentre lo strumento migliore per contrastarlo, a giudizio degli interpellanti, risiede certamente nel dialogo, nel confronto e nella convivenza civile;
   il Veneto è caratterizzato da una società fortemente multiculturale e multireligiosa, sia per motivazioni storiche, sia per la forte attrattiva migratoria nonché per le mutate sensibilità della popolazione autoctona –:
   in ragione degli elementi riportati in premessa, se il Governo ritenga che sussistano i presupposti per impugnare la legge n. ... del ... della regione Veneto che ha apportato modificazioni alla legge regionale 23 aprile 2004, n. 11, per salvaguardare concretamente il diritto di libertà di religione e di culto sul territorio veneto, come sancito dagli articoli 19 e 29 della Costituzione e dalla Dichiarazione universale dei diritti umani dell'Onu;
   quali politiche intenda porre in essere per promuovere il dialogo inter-religioso, unico e vero antidoto ad un fanatico e violento estremismo religioso.
(2-01343) «Lacquaniti, Chaouki».

Interrogazione a risposta orale:


   CINZIA MARIA FONTANA e VILLECCO CALIPARI. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   da recenti notizie di stampa emergerebbe come l'area di Crema sia individuabile come zona particolarmente a rischio per la minaccia terroristica con forte presenza di nuclei sospetti;
   la notizia appare tanto più allarmante in quanto sembra provenire da fonti autorevoli, considerato che sembra far riferimento a fonti dei servizi segreti e investigative;
   risulta peraltro agli interroganti che i sindaci dell'area cremasca non abbiano ricevuto alcuna evidenza ufficiale in merito;
   a seguito di quanto riportato dalla stampa, la popolazione locale, le istituzioni e tutto il territorio stanno vivendo ore di forte apprensione e angoscia e pertanto appare urgente fare chiarezza sulla reale situazione –:
   se corrisponda al vero la notizia di una minaccia terroristica specifica individuata nell'area di Crema, come riportata da fonti di stampa, o se invece l'allarme non rientri nel più generale — seppur grave e da non sottovalutare — livello di allerta nazionale;
   quali iniziative speciali il Governo abbia intrapreso o intenda intraprendere per coinvolgere le istituzioni locali e garantire il massimo livello di sicurezza del territorio cremasco, in caso di conferma di un allarme specifico sull'area di Crema.
(3-02193)

Interrogazioni a risposta in Commissione:


   ASCANI. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   l'articolo 10-bis, comma 1, del decreto-legge 12 settembre 2013, n. 104, convertito con modificazioni dalla legge 8 novembre 2013, n. 128, e recante «misure urgenti in materia di istruzione, università e ricerca», impone l'attuazione delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di prevenzione degli incendi per l'edilizia scolastica con decreto del Ministro dell'interno, da emanarsi ai sensi dell'articolo 15 del decreto legislativo 8 marzo 2006, n. 139, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione»;
   nonostante i termini per l'adeguamento delle strutture adibite a servizi scolastici a tali disposizioni siano stati prorogati per il tramite dell'articolo 4, comma 2, del decreto-legge 30 dicembre 2015, n. 210, convertito con modificazioni, dalla legge 24 febbraio 2016, n. 21, ad oggi non risulta ancora emanato il decreto ministeriale col quale definire e articolare, con scadenze differenziate, le prescrizioni in materia di prevenzione degli incendi per l'edilizia scolastica. In tal senso rimane inottemperato anche l'ordine del giorno 9/03513-A/001 — Ascani, accolto nella seduta n. 566 del 10 febbraio 2016 –:
   se il Ministro interrogato sia a conoscenza di quanto esposto in premessa e quali siano le iniziative che intende adottare. (5-08407)


   DURANTI. — Al Ministro dell'interno, al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   con la legge 28 dicembre 2015, n. 208 – disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (stabilità 2016), al comma 754 dell'articolo si stabiliva che: «Alle province e alle città metropolitane delle regioni a statuto ordinario è attribuito un contributo complessivo di 495 milioni di euro nell'anno 2016, 470 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2017 al 2020 e 400 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2021, di cui 245 milioni di euro per l'anno 2016, 220 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2017 al 2020 e 150 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2021 a favore delle province e 250 milioni di euro a favore delle città metropolitane, finalizzato al finanziamento delle spese connesse alle funzioni relative alla viabilità e all'edilizia scolastica. Con decreto del Ministro dell'interno, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze e il Ministro delegato per gli affari regionali e le autonomie, da adottare entro il 28 febbraio 2016, sentita la Conferenza Stato-città ed autonomie locali, è stabilito il riparto del contributo di cui al periodo precedente, tenendo anche conto degli impegni desunti dagli ultimi tre rendiconti disponibili relativi alle voci di spesa di cui al primo periodo»;
   come si evince dall'ultimo periodo del predetto comma, il riparto del contributo si sarebbe dovuto stabilire con decreto del Ministero dell'interno, di concerto con il Ministero dell'economia e delle finanze da adottare entro il 28 febbraio 2016;
   per a quanto a conoscenza dell'interrogante — sentita anche la segreteria del capo di gabinetto del Ministero dell'economia e del finanze — al 7 aprile 2016 suddetto decreto non è stato ancora emanato –:
   se i Ministri interrogati siano a conoscenza di quanto esposto in premessa;
   se i Ministri interrogati, per quanto di competenza, non intendano dare tempestivamente seguito a quanto previsto dal comma 754 dell'articolo 1 della legge di stabilità 2016. (5-08412)

Interrogazioni a risposta scritta:


   CIRIELLI. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   l'adeguatezza degli organici delle forze dell'ordine e la loro articolata e diffusa presenza sul territorio costituiscono un fondamentale ed ineludibile aspetto di qualsiasi strategia di contrasto alla criminalità, di tutela della sicurezza pubblica e di garanzia di concreta legalità;
   in particolare, la polizia postale e delle comunicazioni svolge, sotto questo profilo, un ruolo decisivo e sempre più importante, intervenendo in campi contrassegnati da crimini particolarmente odiosi, come nel caso del contrasto di reati di cui possono essere vittime i minori, oppure tali da minare le regole e gli stessi canali di scambio propri della e-economy;
   la stessa Unione europea ha sottolineato con forza l'esigenza di assicurare condizioni di facile e sicura agibilità dell’e-commerce, come pilastro della democrazia economica e delle prospettive di crescita delle nostre comunità;
   contrasterebbe con questa evidente e diffusa esigenza, se attuato, il progetto, all'esame del Ministero dell'interno, di soppressione delle sezioni provinciali di polizia postale, con il trasferimento del personale specializzato presso le questure per svolgere compiti ordinari di ordine pubblico e sicurezza e il mantenimento di un suo autonomo presidio solo nei capoluoghi di regione;
   tale progetto di riforma, di fatto, prevede la riduzione della presenza territoriale e, conseguentemente, l'indebolimento della possibilità d'azione della polizia postale, oggi in prima fila nel combattere le nuove frontiere dell'illegalità;
   la polizia postale, inoltre, è una struttura con funzioni e specificità uniche, non duplicate nelle altre forze di polizia;
   come se ciò non bastasse, la riduzione numerica e la chiusura delle sezioni di polizia postale non apporterebbe alcun reale risparmio economico, considerato che i costi di logistica e delle strumentazioni rimarrebbero a carico di Poste Italiane spa;
   paradossalmente, proprio la chiusura graverebbe le questure di ulteriori spese per dotare il personale trasferito di attrezzature tecnologiche, consumi di energia, affitti e altro;
   il lavoro della polizia postale risulta strategico anche per l'attività dell'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza impegnato nel dare piena attuazione ai diritti dei bambini e dei ragazzi, frequenti vittime di reati per i quali l'azione della «Postale» è fondamentale;
   i cittadini hanno il «diritto» di pretendere dallo Stato un livello di sicurezza adeguato ed uniforme senza discriminazioni di territorio, e tale protezione, in termini di prevenzione e di repressione, può essere efficacemente garantita solo da agenti specializzati operanti sul territorio –:
   se il Ministro interrogato sia a conoscenza dei fatti esposti in premessa e quali iniziative ritenga opportuno adottare per affrontare, nell'ambito delle relazioni con le competenti strutture dello Stato, il tema della necessaria capillare presenza di personale specializzato della polizia postale in tutte le province, scongiurandone l'azzeramento;
   se, atteso il costante ed inesorabile aumento del carico di lavoro di tale specialità sul territorio, sia sotto l'aspetto qualitativo che quantitativo, intenda garantire un congruo numero di personale specializzato di rinforzo in ogni attuale ufficio territoriale provinciale della polizia postale e, in particolare, un'aliquota di agenti riservati alla prevenzione dei reati di cyberbullismo nelle scuole. (4-12849)


   CIRIELLI. — Al Ministro dell'interno, al Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione. — Per sapere – premesso che:
   gravi fatti stanno avvelenando il clima politico dei comuni di Casavatore e Afragola, in provincia di Napoli;
   come si apprende da fonti giornalistiche locali, Antonio Piricelli, il comandante della polizia municipale di Casavatore, che sarebbe stato scelto dal prefetto, Gerarda Pantalone, alla guida dei caschi bianchi anche di Afragola, è stato indagato per voto di scambio;
   Piricelli, che è anche consigliere comunale a Ischia, avrebbe dovuto coordinare le attività dei vigili urbani di Afragola, da 15 mesi privi di un comandante;
   secondo i magistrati della direzione distrettuale antimafia il comandante della polizia municipale avrebbe in tutti i modi favorito non solo il candidato sindaco del Pd, Salvatore Silvestri, a ricoprire la carica di primo cittadino, ma anche alcuni consiglieri comunali uscenti e candidati;
   il consigliere comunale di Ischia dovrebbe, inoltre, rispondere di omessa denuncia di un reato all'autorità giudiziaria, secondo la procura per non creare problemi a personaggi legati al gruppo dell'attuale sindaco di Casavatore;
   emerge dagli atti dell'inchiesta che Piricelli sosteneva anche Mauro Ramaglia, descritto dai carabinieri: «Personaggio ritenuto attiguo alla criminalità organizzata. Lo testimoniano oltre che il rinvenimento del citato biglietto (un suo bigliettino elettorale venne trovato in tasca a Ciro Cortese, pregiudicato dei «girati» ucciso il 27 aprile 2015, poche settimane prima delle elezioni), anche i frequenti contatti che intrattiene con personaggi vicini ai clan Amato-Pagano e Vanella Grassi, e con lo stesso Cortese»;
   come è emerso chiaramente dalle indagini, Ramaglia «intratteneva rapporti quotidiani con il comandante della polizia locale di Casavatore, il quale durante l'intera campagna elettorale forniva totale appoggio a lui e al candidato sindaco del Pd Salvatore Silvestri, procacciando voti e autorizzando tacitamente l'utilizzo di mezzi del comune (auto spurgo e disinfestazione) adoperati per effettuare disinfestazioni e spurgo fogne» –:
   se il Governo sia a conoscenza dei fatti esposti in premessa e, alla luce di quanto riportato dalla stampa, se possa chiarire a che titolo e sulla base di quali presupposti, verifiche e valutazioni il prefetto Pantalone abbia proceduto alla designazione del comandante della polizia municipale di Afragola. (4-12851)


   FRACCARO. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   la legge 21 marzo 1990, n. 53 all'articolo 14, indica tra gli autenticatori nei procedimenti elettorali e in quelli referendari, i funzionari incaricati dal sindaco e dal presidente della provincia. La ratio della norma è quella di favorire l'attività delle forze politiche e dei comitati promotori di referendum e iniziative legislative popolari negli adempimenti formali preparatori dei procedimenti connessi alla raccolta delle sottoscrizioni;
   gli adempimenti a carico dei sindaci e dei presidenti di provincia sono essenziali in quanto strettamente funzionali non soltanto alla garanzia del diritto costituzionale all'esercizio dell'iniziativa referendaria nella fase della raccolta delle sottoscrizioni per la richiesta dell'iniziativa popolare e dei referendum, rispettivamente previsti dall'articolo 71 e dagli articoli 75, 121, 132, 133 e 138 della Costituzione, ma anche e soprattutto ad assicurare il rispetto delle manifestazioni di volontà espresse dagli elettori sottoscrittori;
   con circolare n. 50 del 2013 della direzione centrale dei servizi elettorali del Ministero dell'interno indirizzata ai prefetti della Repubblica e ai commissari del Governo nelle province autonome di Trento e di Bolzano, avente per oggetto «Referendum abrogativi nazionali. Raccolta sottoscrizioni si segnalava la necessità di garantire il pieno e corretto svolgimento della raccolta delle sottoscrizioni delle richieste referendarie, occorrenti ai fini dell'esercizio del diritto di voto previsto dall'articolo 75 della Costituzione, attraverso un'azione di sensibilizza in tempi estremamente brevi nei confronti dei sindaci dei rispettivi comuni affinché ponessero in essere ogni misura organizzativa idonea a garantire un efficace servizio di autenticazione delle sottoscrizioni;
   in particolare, con la predetta circolare si richiamava l'attenzione sulla necessità che i sindaci, previa attenta verifica della disponibilità dei dipendenti comunali a svolgere tale funzione autenticante, incaricassero – durante tutto il periodo estivo – il maggior numero possibile di funzionari all'effettuazione delle autentiche, attività che, beninteso, può essere svolta anche al di fuori dei locali comunali e cioè in luogo pubblico o aperto al pubblico, purché all'interno del territorio comunale; si invitavano, altresì, i sindaci a pubblicizzare sul sito istituzionale del comune i luoghi e gli orari di apertura dei locali comunali in cui si potevano sottoscrivere le richieste referendarie; si sottolineava infine) come l'efficiente organizzazione del servizio di autenticazione risulti essenziale al fine di rendere effettivo il diritto costituzionale all'esercizio dell'iniziativa referendaria confidando nel puntuale assolvimento degli adempimenti rimessi alla responsabilità dei prefetti e dei commissari del Governo di Trento e di Bolzano;
   è evidente, a parere dell'interrogante che il Ministero dell'interno abbia inteso sollecitare non solo i sindaci, ma anche i presidenti di provincia, ricompresi nel medesimo ambito normativo delineato dalla legge sopra citata, allo scopo di mettere a disposizione quanti più funzionari possibile per garantire che il procedimento referendario non fosse falsato dalla mancanza di soggetti autenticatori –:
   se ai prefetti o ai commissari del Governo delle province di Trento e di Bolzano siano giunte segnalazioni e richieste da parte di funzionari disponibili a svolgere la funzione di autenticatore nei procedimenti elettorali e referendari e se i presidenti di provincia o i sindaci abbiano negato tale possibilità o ritardato il rilascio della relativa autorizzazione;
   quali eventuali iniziative di competenza il Governo intenda assumere al fine di garantire al meglio lo svolgimento della funzione di autenticatore, disciplinando modalità, criteri e tempi certi di rilascio delle autorizzazioni da applicarsi in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale. (4-12864)


   FEDRIGA. — Al Ministro dell'interno, al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   con atto di sindacato ispettivo n. 4-09638 l'interrogante richiamava l'attenzione dei Ministri interrogati in merito all'istituzione, nella città di Trieste, di un servizio taxi-sanitario per il trasporto di immigrati non concernente le urgenze, bensì qualunque spostamento dai centri di accoglienza alle strutture sanitarie locali;
   in particolare, l'interrogante, nell'evidenziare che un simile servizio non è offerto ai cittadini italiani (i quali, invero, possono usufruirne a condizioni molto restrittive, come la minore età, un'invalidità fisico-motoria totale, l'impossibilità a deambulare senza l'aiuto di un accompagnatore, e altro), presumeva che una tale istituzione avrebbe comportato di certo un taglio ad altre spese sanitarie;
   nella risposta datata 22 dicembre 2015, il Sottosegretario all'interno Domenico Manzione, dichiara che «il servizio non comporta esborsi di denaro aggiuntivi, essendo realizzabile con le risorse previste dal normale assetto operativo del sistema sanitario 118 e all'Azienda per l'assistenza sanitaria n. 1 – Triestina» né «ha causato alcun tipo di depotenziamento dei servizi essenziali, che continuano ad essere garantiti con mezzi riservati all'attività di soccorso d'emergenza, né tanto meno ha determinato disfunzioni di sorta nell'attività ordinaria», sul quale l'interrogante esprime forti dubbi perché, delle due, l'una: o prima della sua istituzione l'Asl triestina godeva di un avanzo di risorse o realmente tali somme sono state distolte per garantire il trasporto gratuito dei migranti;
   l'interrogante propende per la seconda opzione, peraltro avvalorata da quanto pubblicato a mezzo stampa su Il Piccolo, cronaca di Trieste, il 14 aprile 2016, che denunciava la grave mancanza di lettighe al pronto soccorso di Cattinara, tanto da creare una serie di ambulanze in fila all'imbocco del garage in attesa di riavere le barelle prestate alla struttura per il trasporto del paziente all'interno, senza le quali le stesse ambulanze non possono ripartire e rimettersi nel circolo di emergenza;
   ancor più preoccupante, a giudizio dell'interrogante, è quanto risposto dal Sottosegretario con riguardo alla necessità ed utilità del servizio di trasporto gratuito dei migranti presso le strutture ospedaliere, in quanto «sia per il fatto di provenire da territori ove sono diffuse particolari patologie anche contagiose, sia per le condizioni precarie in cui affrontano i lunghi viaggi che li portano a varcare i confini del nostro Paese, risultano potenziali portatori di malattie che, se non diagnosticate, arginate e curate in tempo dai competenti servizi sanitari, potrebbero diffondersi con conseguenze pericolose per la cittadinanza;
   nella motivazione fornita con la risposta del Sottosegretario all'interno Domenico Manzione, richiamata in premessa, circa la necessità del servizio di trasporto dei migranti, stante che il controllo ed il contenimento dei rischi sanitari per la popolazione cittadina a causa del notevole flusso di migranti a parere dell'interrogante appare inesatta all'interrogante dovrebbe essere garantito da uno screening medico d'ingresso e da un primo soccorso sanitario espletato in apposito presidio medico allestito all'interno della struttura di accoglienza;
   ad avviso dell'interrogante è ravvisabile nell'erogazione del servizio oggetto del presente atto di sindacato ispettivo una non conformità al principio costituzionale, di cui all'articolo 3 della Costituzione, posto che il cittadino italiano, a parità di condizioni e patologie, non benefica del medesimo trattamento riservato ai migranti –:
   se sia opportuno e compatibile con la scarsità di risorse del servizio sanitario nazionale assicurare, come indicato nella risposta del sottosegretario citata in premessa, la gratuità del servizio di trasporto dei migranti alle strutture sanitarie, alla luce della situazione esistente caratterizzata da episodi di disservizi come quello richiamato;
   per quali finalità fossero utilizzate le risorse già disponibili, poi utilizzate per il servizio di cui in premessa, considerato che l'attuazione di uno specifico protocollo sanitario per i migranti non ha comportato esborsi di denaro aggiuntivi, ovvero, qualora tali risorse non fossero state utilizzate affatto, se ci siano stati rilievi da parte della Corte dei Conti in merito.
(4-12871)


   TONINELLI. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   da recenti dichiarazioni da parte del prefetto di Lodi Patrizia Palmisano (riportate dalla stampa nell'articolo sul quotidiano Il Cittadino di Lodi del 13 aprile 2016, intitolato «Mafia nel Lodigiano: alcune imprese sarebbero a rischio di infiltrazioni») emerge che dallo stesso sarebbe stata respinta la richiesta di alcune aziende che nel corso dell'ultimo anno avevano fatto richiesta di essere inserite nell'elenco dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativi di infiltrazione mafiosa operanti nei settori esposti maggiormente a rischio (la cosiddetta « white list») istituito presso le prefetture con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 18 aprile 2013 in attuazione dell'articolo 1 della legge 6 novembre 2012, n. 190;
   la circostanza merita attenzione, in quanto, come è noto, l'iscrizione delle aziende a tale elenco avviene su base volontaria, il che implica che, anche quando, come in questo caso, le richieste di iscrizione rigettate per mancanza dei requisiti sono di numero relativamente contenuto, essa deve essere comunque indicativa in quanto indice di una diffusione di mancanza di questi requisiti potenzialmente molto maggiore;
   si ricorda, infatti, che la mancanza di requisiti in questione può corrispondere in capo alle aziende alla presenza di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all'articolo 67 del Codice antimafia, all'assenza di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi dell'impresa, di cui all'articolo 84, comma 3, del Codice antimafia o ad altri segnali che possono indurre a corruzione e pratiche illegali, come i cosiddetti «reati spia»;
   queste notizie, infatti, devono essere lette anche alla luce degli studi fatti sull'estensione e la ramificazione dei fenomeni mafiosi nel Nord Italia, e in particolare in prossimità di grandi centri di interessi economici, come sono appunto la regione Lombardia in generale e l'area del milanese in particolare, nei quali emergono segnali che inducono a ritenere il lodigiano un’«area di avvicinamento all'hinterland milanese» da parte della criminalità organizzata mafiosa (così, nel «Primo rapporto trimestrale sulle aree settentrionali per la presidenza della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno mafioso»). Proprio la natura di apparente «isola felice» della zona rispetto al fenomeno mafioso potrebbe indurre infatti pericolose sottovalutazioni che renderebbero la zona un polo di attrazione a causa dello scarso controllo indotto da questa situazione, come è proprio delle dinamiche dello sviluppo del fenomeno mafioso, e di segnali quali quelli emergenti dalla prefettura di cui si è detto; con ciò potrebbe essere confermata l'esistenza di «una strategia di alcuni gruppi di “occupare” una zona ritenuta a lungo al di fuori dei grandi interessi mafiosi» (così, sempre il citato rapporto trimestrale, a proposito di Lodi) –:
   quali iniziative di competenza intenda assumere il Ministro interrogato in merito alla questione di cui alla premessa e per il controllo e la prevenzione del fenomeno mafioso nel lodigiano. (4-12879)

ISTRUZIONE, UNIVERSITÀ E RICERCA

Interrogazione a risposta in Commissione:


   VEZZALI. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   quella relativa agli abilitati in «Strumento musicale nella scuola secondaria di I grado» (classe di concorso A056, ex A077) è l'unica classe di concorso, per cui, ad oggi, è stato attivato il percorso di tirocinio formativo attivo (Tfa) come voluto dall'allora Ministro Gelmini (previsto con decreto ministeriale n. 249 del 2010, articolo 3, commi 2 e 3) in regime ordinario e non transitorio;
   dopo aver svolto prove selettive analoghe a quelle svolte dagli altri colleghi «tieffini», i docenti di strumento musicale hanno dovuto formarsi attraverso un percorso triennale articolato in un biennio specialistico ad indirizzo didattico e in un successivo anno di tirocinio formativo attivo;
   questo accade nonostante il diploma vecchio ordinamento di conservatorio (percorso di studi della durata compresa tra i 7 e i 10 anni) sia un titolo equipollente a qualsiasi altra laurea magistrale;
   un percorso, quindi, abilitante in linea con il programma del Governo, in materia di abilitazione all'insegnamento (si veda a proposito la legge cosiddetta «La Buona Scuola»), in virtù della durata triennale del percorso e della selettività delle prove di ammissione ai corsi;
   comunque, un periodo di formazione superiore, in termini di impegno orario ed esami sostenuti, persino a quello dei precedenti bienni formativi, con i quali si sono abilitati i docenti recentemente assunti in ruolo attraverso il piano straordinario voluto dal Governo e comunque iscritti nelle graduatorie ad esaurimento;
   per poter insegnare, questi ultimi, hanno operato una scelta «di campo», investendo migliaia di euro per il pagamento delle tasse di iscrizione ai corsi e spese logistiche a causa del fatto che il biennio di II livello ad indirizzo didattico sia stato istituito in pochissimi conservatori d'Italia;
   nel 2013, cioè un anno dopo l'emanazione del decreto ministeriale n. 192 del 2012, decreto che aveva dato avvio ai percorsi abilitanti ordinari per la classe A077, vennero banditi dal Governo i percorsi abilitanti speciali (Pas) anche per la classe di concorso A077;
   percorsi che non erano inizialmente previsti per la classe di concorso di strumento musicale, in quanto non ricompresa nel decreto ministeriale n. 22 del 2005, richiamata dal novellato articolo 15 del decreto ministeriale n. 249 del 2010 istitutivo dei suddetti percorsi abilitativi speciali; gli ultimi bienni formativi abilitanti si erano tenuti nel biennio 2009/2011;
   il fabbisogno calcolato per l'accesso all'insegnamento risulta a quanto consta all'interrogante stravolto: per alcune specialità strumentali in maniera assolutamente devastante (in alcune sottoclassi, il numero degli abilitati Pas supera più di 10 volte quello degli omologhi colleghi abilitati Tfa);
   il decreto ministeriale n. 353 del 2014 istituisce, con la tabella A ad esso allegata, il cosiddetto «Bonus TFA»: una sorta di «risarcimento» per i docenti abilitati con Tfa, che si erano visti stravolgere il fabbisogno regionale sulla base del quale erano stati calcolati posti per i quali avevano concorso ed erano stati selezionati;
   quantificato in 42 punti per gli abilitati ai sensi dell'articolo 15, comma 1, del decreto ministeriale n. 249 del 2010 (ossia per tutti gli abilitati con Tfa che hanno seguito il percorso transitorio avviato dalle università) e in 66 punti per gli abilitati ai sensi dell'articolo 3, comma 3, del medesimo decreto;
   il decreto n. 353 del 2014 esclude i docenti di strumento musicale dall'applicazione della nuova tabella A, rimandando ad un vecchio allegato 3, obsoleto, che prevede persino la valutazione del diploma di maturità come titolo di studio;
   a centinaia di giovani, docenti o aspiranti tali, abilitati negli anni accademici 2014/2015 e 2015/2016 nella ex classe di concorso A077, oggi viene chiesto di partecipare al concorso –:
   l'esame sostenuto, (previsto dal decreto ministeriale n. 194 del'11 novembre 2011), è articolato in una prova scritta, una prova pratica, una orale di analisi formale-storico-musicale, oltre alla valutazione di titoli artistici, culturali e di servizio;
   legittimo affidamento derivante dalla relazione tra i posti banditi nei conservatori per l'ammissione al biennio ad indirizzo didattico per la classe di concorso A077 e il fabbisogno di docenti a livello regionale (decreto ministeriale n. 249 del 2010, articolo 5, comma 2, e successivo decreto ministeriale n. 192 del 2012);
   si rilevano il valore formativo di tre anni di studio caratterizzati da corsi, esami, tesi di laurea, tirocinio, relazione finale, esame finale, dispiego di energie fisiche, intellettuali, ed economiche, parallelamente alla rinuncia di qualsiasi altra prospettiva universitaria e di alta formazione artistica e musicale (causa incompatibilità con qualsiasi altro corso universitario, decreto ministeriale n. 249 del 2010, articolo 3, comma 6) –:
   se non ritenga necessario istituire un doppio canale di assunzione che riconosca il valore concorsuale dell'esame per l'ammissione ai suddetti corsi, alla luce di quanto esposto in premessa. (5-08414)

Interrogazioni a risposta scritta:


   CIRACÌ, PALESE, FUCCI, MARTI, DISTASO, ALTIERI, CHIARELLI e LATRONICO. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   il decreto ministeriale n. 249 del 10 settembre 2010 ha istituito il tirocinio formativo attivo (Tfa), percorso di durata annuale per la formazione degli insegnanti, nato allo scopo di sostituire le scuole di specializzazione all'insegnamento secondario (SSIS), chiuse nel 2008;
   l'accesso a tale percorso, ad oggi unica via possibile per l'abilitazione alla professione di insegnante, è calcolato sulla base dei fabbisogno regionale di docenti per ogni classe di concorso, determinato sulla base della previsione dei pensionamenti;
   il decreto ministeriale 25 marzo 2013, n. 81, ha istituito i percorsi abilitanti speciali (Pas) canale abilitativo straordinario che consentiva il conseguimento dell'abilitazione, previa frequentazione di un corso, a chiunque avesse maturato tre anni di servizio, di cui uno soltanto specifico sulla classe di concorso per cui richiedeva l'abilitazione, in un arco di tempo (1999-2013) in cui era possibile conseguire la stessa attraverso un percorso abilitante ordinario;
   l'istituzione dei predetti Pas ha generato 40.000 nuovi abilitati, numero quasi 4 volte superiore a quello degli abilitati Tfa, e ha di fatto svilito quasi totalmente il valore di un titolo faticosamente acquisito;
   la legge 13 luglio 2015, n. 107, all'articolo 1, comma 114, prevede un nuovo concorso per l'assunzione a tempo indeterminato in cui viene riconosciuta, fra i criteri valutabili in termini di maggior punteggio, la natura selettiva del titolo Tfa, ma al contempo viene per la prima volta valorizzato anche «il servizio prestato a tempo determinato per un periodo continuativo non inferiore a centottanta giorni nelle istituzioni scolastiche ed educative di ogni ordine e grado»;
   l'articolo 1, comma 96, lettere a) e b), della suddetta legge ha altamente inficiato, secondo gli interroganti, il criterio del fabbisogno sulla base del quale sono stati banditi i due cicli Tfa già conclusi, al punto che il concorso suddetto prevede, per alcune classi di concorso, un numero di cattedre inferiore al numero complessivo degli abilitati Tfa e per altre cattedre non ne prevede affatto, privando i docenti appositamente selezionati di un qualsiasi canale di reclutamento;
   nel caso dei posti per il sostegno, si registra una notevole eterogeneità nella ripartizione dei candidati al punto che, in alcune regioni, il numero delle domande di partecipazione è inferiore al numero dei posti, mentre, in altre, risulta esserci un consistente surplus. Ciò porterebbe per gli interroganti ad un consistente spreco di risorse in termini di personale specializzato, a fronte di un fabbisogno reale ben superiore al numero dei posti banditi;
   il concorso recentemente bandito prevede la partecipazione allo stesso esclusivamente di personale abilitato, ma, allo stato attuale, pendono al Tar del Lazio migliaia di ricorsi per la partecipazione senza requisiti; molti dei candidati che hanno presentato ricorso, in virtù di precedenti sentenze o di motivi giurisprudenziali, ad oggi non risulterebbero certo escludibili; tali motivi potrebbero garantire la partecipazione, a pieno titolo, a tale concorso di migliaia di semplici laureati o dottori di ricerca;
   si calcola che i ricorrenti ascendano a oltre 30.000 unità, cifra che, rapportata a un numero complessivo di 60.000 cattedre a concorso, svilisce secondo gli interroganti nei fatti l'abilitazione, riducendola al livello di una laurea magistrale o diploma –:
   se e come, alla luce di questi ultimi sviluppi, il Ministero interrogato intenda tutelare il già inficiato valore del titolo selettivo a numero chiuso del Tfa, e se ritenga ancora sufficiente il canale concorsuale come unica prospettiva di reclutamento per gli abilitati in questione. (4-12848)


   CIRACÌ, PALESE, FUCCI, MARTI, DISTASO, ALTIERI, CHIARELLI e LATRONICO. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   ai sensi dell'articolo 3, comma 2 e comma 3, del decreto ministeriale n. 249 del 2010 in regime ordinario e non transitorio è stato attivato il percorso di tirocinio formativo attivo (Tfa) per gli abilitati in «Strumento musicale nella scuola secondaria di I grado» (classe di concorso A056, ex A077);
   i docenti di strumento musicale, dopo aver svolto prove selettive analoghe a quelle svolte dagli altri colleghi del Tfa, si sono formati attraverso un percorso triennale articolato in un biennio specialistico ad indirizzo didattico e in un successivo anno di tirocinio formativo attivo, il tutto nonostante fossero in possesso del diploma di conservatorio vecchio ordinamento, titolo a tutti gli effetti equipollente a qualsiasi altra laurea magistrale;
   è evidente che tale percorso abilitante sia idealmente in linea con il programma del Governo, in materia di abilitazione all'insegnamento (si veda la legge cosiddetta «La Buona Scuola»), in virtù della durata triennale del percorso e della selettività delle prove di ammissione ai corsi; è previsto, in ogni caso, un periodo di formazione superiore, in termini di impegno orario ed esami sostenuti, persino a quello dei precedenti bienni per la formazione docenti, con i quali si sono abilitati i docenti recentemente assunti in ruolo attraverso il piano straordinario voluto dal Governo e comunque iscritti nelle graduatorie ad esaurimento;
   nel 2013, un anno dopo l'emanazione del decreto ministeriale n. 192 del 2012, che aveva dato avvio ai percorsi abilitanti ordinari per la classe A077, vennero istituiti dal Governo i percorsi abilitanti speciali (Pas), percorsi che inizialmente non erano previsti per la classe di concorso di strumento musicale, in quanto non ricompresa nel decreto ministeriale n. 22 del 2005 richiamata dal novellato articolo 15 del decreto ministeriale n. 249 del 2010 istitutivo dei suddetti percorsi abilitativi speciali. D'altra parte, gli ultimi bienni per la formazione docenti si erano tenuti nel biennio 2009/2011 e solo due anni erano passati da allora senza che vi fosse stata l'attivazione di ulteriori corsi abilitanti. Tuttavia, ciò premesso, nell'anno accademico 2013/2014 vennero attivati i Pas anche per la classe di concorso A077. Il risultato di tale scelta fu quello di alterare il fabbisogno calcolato per l'accesso all'insegnamento, con abilitati con percorsi abilitanti speciali (Pas) il cui numero superava, in alcun i casi, di dieci volte quello degli omologhi colleghi abilitati con tirocinio formativo attivo;
   il decreto ministeriale n. 353 del 2014 istituiva, con la tabella A ad esso allegata, il cosiddetto «Bonus TFA»: una sorta di «risarcimento» per i docenti abilitati con Tfa che avevano visto alterare il fabbisogno regionale sulla base del quale erano stati calcolati i posti per i quali avevano concorso ed erano stati selezionati. Esso è stato quantificato in 42 punti per gli abilitati ai sensi dell'articolo 15, comma 1, del decreto ministeriale n. 249 del 2010 (ossia per tutti gli abilitati Tfa che hanno seguito il percorso transitorio avviato dalle università) e in 66 punti per gli abilitati ai sensi dell'articolo 3, comma 3, del medesimo decreto. Provvedimento che avrebbe reso possibile l'equiparazione, ai fini delle graduatorie dell'istituto, degli abilitati con Tfa con i Pas dotati di meno anni di servizio;
   all'interno del decreto ministeriale n. 353 del 2014 però, nell'articolo 5, comma 1, – primo e secondo capoverso –, dapprima si includono gli abilitati in strumenti musicale nell'applicazione della tabella A dappoi, all'interno dello stesso comma – terzo capoverso –, si escludono dalla suddetta applicazione, rimandando all'utilizzo di un allegato 3 talmente obsoleto da prevedere persino la valutazione del diploma di maturità come titolo di studio;
   l'esame sostenuto, previsto dal decreto ministeriale n. 194 dell'11 novembre 2011, è articolato in una prova scritta, una prova pratica, una orale di analisi formale-storico-musicale, oltre alla valutazione di titoli, artistici, culturali e di servizio;
   il legittimo affidamento derivante dalla relazione tra i posti banditi nei conservatori per l'ammissione al biennio ad indirizzo didattico per la classe di concorso A077 e il fabbisogno di docenti a livello regionale (decreto ministeriale n. 249 del 2010, articolo 5, comma 2, e successivo decreto ministeriale n. 192 del 2012);
   vanno considerati il valore formativo di tre anni di studio caratterizzati da corsi, esami, tesi di laurea, tirocinio, relazione finale, esame finale, il dispiego di energie fisiche, intellettuali ed economiche, parallelamente alla rinuncia di qualsiasi altra prospettiva universitaria e di alta formazione artistica e musicale (causa incompatibilità ceti qualsiasi altro corso universitario, decreto ministeriale n. 249 del 2010, articolo 3, comma 6) –:
   se e quali iniziative il Ministro interrogato intenda assumere per istituire un doppio canale di assunzione che riconosca il valore concorsuale dell'esame per l'ammissione ai suddetti corsi, a tutela della posizione di centinaia di giovani, docenti o aspiranti tali, abilitati negli anni accademici 2014/2015 e 2015/2016 nella classe di concorso A077. (4-12852)


   LO MONTE. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   chi ha partecipato alla procedura di «abilitazione scientifica nazionale» per il conseguimento dell'idoneità alla funzione di professore universitario di prima e seconda fascia (per i settori concorsuali di rispettivo interesse) nelle tornate 2012 e 2013, pur avendo riportato 3 giudizi favorevoli su 5, è stato dichiarato non idoneo in applicazione di una norma (articolo 8, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica n. 222 del 2011) che così disponeva: «la commissione delibera a maggioranza dei quattro quinti dei componenti»;
   le norme che hanno regolato la procedura di abilitazione sono state previste dal decreto del Presidente della Repubblica 14 settembre 2011, n. 222, che ha disciplinato la procedura di abilitazione scientifica nazionale sulla scorta delle indicazioni fornite dall'articolo 16 della legge n. 240 del 2010, che ha demandato a successivi regolamenti le modalità di espletamento delle procedure finalizzate al conseguimento dell'abilitazione;
   l'articolo 8 del decreto del Presidente della Repubblica citato, infatti, nel regolamentare i lavori delle commissioni, ha stabilito, al comma 4, che «la commissione attribuisce l'abilitazione con motivato giudizio espresso sulla base di criteri e parametri differenziati per funzioni e per area disciplinare, definiti ai sensi dell'articolo 4, comma 1, e fondato sulla valutazione analitica dei titoli e delle pubblicazioni scientifiche presentati da ciascun candidato, previa sintetica descrizione del contributo individuale alle attività di ricerca e sviluppo svolte»;
   il successivo comma 5, inoltre, ha previsto che «la commissione delibera a maggioranza dei quattro quinti dei componenti»;
   con la sentenza n. 470 del 5 febbraio 2016, tuttavia, il Consiglio di Stato, sezione VI, ha confermato la recentissima sentenza del Tar del Lazio, sezione III-bis, n. 13121 del 20 novembre 2015, con la quale era stato dichiarato «illegittimo l'articolo 8, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica n. 222 del 2011, nella parte in cui la Commissione delibera a maggioranza dei quattro quinti dei componenti, anziché a maggioranza dei componenti»;
   pertanto, secondo i giudici amministrativi, «il giudizio reso collegialmente non può che considerarsi favorevole, con conseguente conseguimento dell'abilitazione a professore di prima fascia da parte dell'interessato»;
   il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, acquisito il parere dell'Avvocatura generale dello Stato, pur convenendo sul fatto che l'annullamento della norma regolamentare in questione da parte del Consiglio di Stato non possa essere limitato alle sole fattispecie particolari, ma abbia efficacia per tutti, ritiene che tale efficacia non riguardi i provvedimenti antecedenti all'annullamento, in particolare per quel che riguarda quei candidati che non abbiano presentato ricorso in tempo utile;
   al contrario, in esito all'annullamento della citata disposizione, il Ministero dovrà conformarsi al principio per cui è necessaria, ai fini del conseguimento dell'abilitazione, la maggioranza dei voti favorevoli (tre su cinque), invitando la commissione per l'abilitazione scientifica nazionale, in autotutela, a rivedere il provvedimento negativo e, conseguentemente, dichiarare abilitati anche i partecipanti che hanno ottenuto il giudizio favorevole di tre commissari che non hanno proposto ricorso;
   in tal caso, infatti, non risulta applicabile la disposizione (articolo 41, comma 6, del decreto-legge 30 dicembre 2008, n. 207) che prevede il divieto di estensione soggettiva del giudicato in materia di pubblico impiego;
   secondo il costante orientamento dei giudici amministrativi, infatti, tale divieto non impedisce alla pubblica amministrazione, nel caso di mancanza di danno economico, l'adozione di atti amministrativi di autotutela per garantire il rispetto di principi fondamentali dell'ordinamento quali la par condicio e il favor partecipationis;
   la ratio preminente del divieto legislativo di estensione di giudicato consiste, invero, nel contenimento della spesa in relazione a decisioni idonee a riconoscere la fondatezza di spettanze di carattere patrimoniale;
   il Consiglio di Stato, con sentenza del 24 aprile 2012 n. 2409, infatti, ha statuito che la finalità che informa il divieto di estensione soggettiva non può essere estesa anche «alle ipotesi in cui l'estensione degli effetti delle pronunce cautelari non risultava in alcun modo idonea a determinare pregiudizi finanziari a carico dell'amministrazione ma, al contrario, a consentire l'esplicazione dei principi, riconducibili all'imparzialità e buon andamento, di par condicio e favor partecipationis»;
   inoltre, è stato rimarcato che l'amministrazione è comunque tenuta ad operare un «bilanciamento fra – da un lato – l'esigenza di salvaguardare l'equilibrio finanziario delle amministrazioni pubbliche e – dall'altro – l'esigenza di non sacrificare oltre quanto ragionevole e necessario il perseguimento di finalità di pari livello costituzionale, quali i richiamati principi del favor partecipationis e della par condicio (ambedue riferibili ai canoni di buon andamento ed imparzialità di cui all'articolo 97 Costituzione)»;
   comunque, l'annullamento in autotutela non pregiudicherebbe alcuna posizione di terzi, trattandosi di una procedura non concorsuale ma di mera abilitazione –:
   quali urgenti iniziative di competenza intenda intraprendere, il Ministro interrogato per ristabilire i principi di par condicio e favor partecipationis, ben potendo essa procedere, ad avviso dell'interrogante, all'adozione di provvedimenti di autotutela, stante l'illegittimità degli atti adottati e l'esistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale al ripristino di un quadro di regole conformi al diritto, e, comunque, intenda rendere note le ragioni per cui non ritiene di dover consentire l'estensione soggettiva del giudicato in materia di pubblico impiego, avuto riguardo al fatto che tale provvedimento non determinerebbe spettanze di carattere patrimoniale. (4-12856)


   DADONE, BRESCIA, DI BENEDETTO, VACCA e LUIGI GALLO. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   avvalersi o meno dell'insegnamento della religione cattolica è decisione attualmente rimessa alla volontà delle famiglie o degli alunni maggiorenni, da esprimersi per iscritto all'atto dell'iscrizione nelle scuole pubbliche italiane;
   un recente articolo di stampa ha posto in rilievo i dati del territorio nazionale in ordine al numero di alunni che si avvalgono della cosiddetta «ora di religione», che risulta in forte riduzione, in moltissimi casi si tratta di pochi alunni per classe, in alcuni casi, pur isolati, anche di un unico alunno; in sostanza, l'insegnamento della religione avverrebbe, effettivamente, in «aule semivuote»;
   in epoca di sofferenza del comparto dell'istruzione, di necessità di risparmi, in presenza dei tagli che si sono perpetrati negli anni recenti, a fronte degli accorpamenti delle classi adottati nel caso di riduzione o non raggiungimento del necessario numero di alunni, che ha intaccato, in alcuni casi, anche il diritto alle classi a tempo pieno o al cosiddetto sistema del «modulo», almeno nella scuola elementare, la notizia relativa all'insegnamento della religione colpisce in modo particolare;
   preme agli interroganti segnalare che la disciplina vigente a questo riguardo è data dalla legge 25 marzo 1985, n. 121, di ratifica del Concordato modificato nel medesimo anno, e dalla circolare ministeriale 20 dicembre 1985, n. 368, applicativa dell'intesa tra CEI e Ministero dell'istruzione;
   la legge n. 121 del 1985 dispone in ordine all'insegnamento della religione cattolica nelle scuole materne, elementari, medie e superiori, lasciando alle famiglie la facoltà di avvalersene o meno; è stabilito specificamente che: «avvalersi o non avvalersi dell'insegnamento della religione cattolica non deve dar luogo a nessuna forma diretta o indiretta di discriminazione»;
   nella circolare n. 368 viene aggiunto che: «La scelta in ordine all'insegnamento della religione cattolica non deve in alcun modo interferire o condizionare, o costituire comunque criterio per la composizione delle classi»;
   è stata altresì riportata dalla stampa la dichiarazione delle diocesi competenti: «Accorpare le classi per formare gruppi di studenti più numerosi è vietato. Sarebbe considerato discriminatorio»;
   non sembrerebbe trovarsi rispondenza tra la suddetta dichiarazione, il dettato normativo ed il testo della circolare, anche perché, nel caso di specie, non si tratterebbe di accorpare «classi», bensì alunni; la situazione sembrerebbe, al contrario, produrre una discriminazione rispetto all'insegnamento delle altre materie –:
   quale sia l'orientamento del Ministro in ordine ai fatti esposti in premessa e se non ravveda in essi motivi e cause di discriminazione. (4-12869)

LAVORO E POLITICHE SOCIALI

Interrogazioni a risposta in Commissione:


   DI VITA, GRILLO, LOREFICE, COLONNESE, SILVIA GIORDANO, MANTERO, BARONI e DALL'OSSO. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   l'articolo 33 della Convenzione delle Nazioni Unite del 2007 sui diritti delle persone con disabilità stabilisce alcuni obblighi delle Parti contraenti relativi alla sua applicazione e monitoraggio nell'ambito degli ordinamenti nazionali;
   in particolare, ai sensi dell'articolo 33, paragrafo 1, gli Stati contraenti hanno l'obbligo di designare una cosiddetta «struttura di coordinamento» al fine di facilitare l'applicazione della Convenzione a livello interno;
   rientra in tale ambito l'Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità, istituito dall'articolo 3 della legge n. 18 del 3 marzo 2009 di ratifica ed esecuzione della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, preposto essenzialmente alla promozione ed al monitoraggio della Convenzione;
   tuttavia, tale organismo dà attuazione soltanto in parte all'articolo 33;
   l'articolo 33, paragrafo 2, della Convenzione richiede, infatti, alle Parti contraenti di predispone un'ulteriore «struttura» che risponda ai criteri relativi allo status e al funzionamento delle istituzioni nazionali per la protezione e la promozione dei diritti umani, indicati dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite nella risoluzione 48/134 del 20 dicembre 1993 (comunemente noti come «Principi di Parigi»);
   la piena conformità alla Convenzione richiede pertanto l'istituzione in Italia di un'ulteriore «struttura» che, alla luce dei citati Principi di Parigi, dovrà presentare i seguenti caratteri:
    a) garantire la rappresentanza della società civile;
    b) essere indipendente dal Governo e prevedere la partecipazione dei rappresentanti dei Ministeri a titolo consultivo;
    c) disporre di una dotazione finanziaria sufficiente per lo svolgimento delle propria attività in modo autonomo;
   in base ai Principi di Parigi, tra le funzioni che potrebbero essere affidate alla «struttura» figurano:
    a) la promozione, la protezione e il monitoraggio della Convenzione nell'ordinamento interno;
    b) l'indirizzo di raccomandazioni alle autorità competenti e l'elaborazione di proposte di legge in materia di disabilità;
    c) lo svolgimento di inchieste;
    d) eventualmente, l'esame di «ricorsi» da parte delle persone con disabilità o delle organizzazioni che le rappresentano –:
   se sia al corrente di quanto esposto in premessa;
   se e quale struttura di monitoraggio, in conformità all'articolo 33, paragrafo 2, della Convenzione Onu e ulteriore rispetto all'Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità, sia stata istituita nell'ordinamento nazionale, e con quali caratteristiche e funzioni. (5-08402)


   BURTONE, CUOMO e BATTAGLIA. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   le abbondanti precipitazioni piovose che hanno investito la Basilicata ed in particolare il metapontino hanno riproposto nuovamente la necessità di una migliore e più attenta manutenzione dei canali e dei corsi d'acqua in particolare lungo l'asse basentano;
   le piene hanno trascinato a mare legname e detriti di ogni genere;
   con il calare della piena lungo gli argini nei tratto che va da Grassano a Metaponto ci sono arbusti tronchi e rifiuti;
   occorrerebbe per tempo una migliore manutenzione dell'alveo del fiume ed una sistematica pulizia del letto del Basento, dei torrenti che vi affluiscono e dei canali;
   si pone ora un problema di ripristino ambientale che presenta anche oneri economici non semplici da affrontare per i comuni;
   nel territorio in questione vi sono numerosi lavoratori appartenenti alla platea della mobilità in deroga e ex mobilità in deroga che ai sensi del decreto ministeriale n. 33473, hanno cessato di beneficiare del sostegno che potrebbero essere impiegati in progetti di pubblica utilità per la manutenzione ambientale del territorio a partire dalla pulizia del fiume;
   quali iniziative di competenza il Governo intenda assumere, anche attraverso l'istituzione di un tavolo di confronto con gli enti locali e gli organi preposti alla manutenzione del fiume di cui in premessa, al fine di monitorare il dissesto idro-geologico e di garantire l'incolumità della popolazione interessata, anche valutando l'opportunità di avvalersi di lavoratori in mobilità in deroga. (5-08403)


   SIMONETTI. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   l'articolo 35 del decreto-legge 3 dicembre 2008, n. 207, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 febbraio 2009, n. 14, disciplina le modalità di verifica delle situazioni reddituali incidenti sul diritto e sulla misura delle prestazioni collegate al reddito;
   in materia, l'Inps ha fornito istruzioni con le circolari n. 62 del 22 aprile 2009, n. 126 del 24 settembre 2010 e con i messaggi n. 21172 del 12 agosto 2010 e n. 30013 del 29 novembre 2010, e da ultimo il messaggio n. 5178 del 5 agosto 2015;
   nel predetto messaggio, l'Inps ricorda che, su richiesta dell'Istituto medesimo, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, con nota prot. 29/0000076/P del 12 gennaio 2015, ha chiarito che «... l'articolo 35, comma 8, del decreto-legge n. 207 del 2008 è finalizzato ad evitare il riconoscimento di prestazioni previdenziali legate al reddito non dovute o dovute in misura inferiore, prendendo come riferimento dati reddituali certi e non presuntivi...In altre parole, il comma 8 si limita a stabilire quale sia il parametro reddituale da prendere in considerazione ai fini del calcolo delle prestazioni legate al reddito a seconda della natura dei redditi percepiti dal beneficiario... Da tale previsione procedurale non può derivare che ai fini della determinazione della prestazione legata al reddito debbano essere sommati i redditi dell'anno precedente con i redditi dell'anno in corso, in quanto ciò porterebbe ad un artificioso incremento dei redditi non giustificato dal tenore letterale della disposizione in esame»;
   l'Inps, dunque, nel ribadire che «il comma 8 del suddetto articolo  (35), come da ultimo modificato dall'articolo 13, comma 6, lettera a) e b), del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, disciplina i criteri in base ai quali verificare le situazioni reddituali incidenti sulle prestazioni pensionistiche collegate al reddito già in godimento» e che «la verifica del diritto e della misura delle prestazioni collegate al reddito in godimento viene effettuata, a decorrere dal 1o gennaio di ciascun anno (e fino al 31 dicembre del medesimo anno), tenendo conto dei redditi per prestazioni, per le quali sussiste l'obbligo di comunicazione al Casellario centrale dei pensionati di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 31 dicembre 1971, n. 1388 e successive modificazioni e integrazioni (di seguito denominato Casellario centrale dei pensionati), conseguiti nello stesso anno e dei redditi diversi da quelli di cui al punto precedente conseguiti nell'anno precedente», chiarisce che, nel recepire l'indicazione ministeriale, ai fini della liquidazione o della ricostituzione delle prestazioni previdenziali collegate al reddito già in godimento, in applicazione del citato comma 8 dell'articolo 35, rileva il maggiore tra il reddito da lavoro dipendente percepito dal beneficiario e/o dal coniuge nell'anno precedente quello di decorrenza della pensione ed il reddito da pensione – liquidata a seguito della cessazione dell'attività di lavoro dipendente o del decesso del coniuge – dell'anno in corso. Tale criterio, precisa l'Inps, si applica alle pensioni aventi decorrenza da gennaio 2016;
   in altri termini, l'istituto, precedentemente al parere ministeriale da esso stesso richiesto, ha interpretato ed applicato la richiamata disposizione di cui all'articolo 35, comma 8, in maniera condizionante e fortemente penalizzante per gli assicurati ai fini del riconoscimento e della corresponsione del trattamento legato al reddito (pensione ai superstiti), ponendo in essere un sistema di determinazione dei redditi basato sulla somma dei redditi percepiti in due anni: il reddito dell'anno antecedente alla richiesta della prestazione e il reddito di prestazione nell'anno prima della liquidazione della prestazione stessa; 
   tale interpretazione ha prodotto per i titolari di pensione ai superstiti a giudizio dell'interrogante una incongrua applicazione della tabella F, di cui all'articolo 1, comma 41, della legge n. 335 del 1995, con rilevanti perdite per gli aventi diritto;
   risulta all'interrogante che sono stati presentati, per il tramite dell'Enapa, ricorsi all'Inps ad oggi giacenti –:
   se il Ministro interrogato non ritenga di dover rapidamente intervenire, per quanto di competenza, affinché l'Inps, ente vigilato dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, si attenga al chiarimento del Ministero, citato in premessa e provveda, di conseguenza, a riconoscere le somme impropriamente trattenute in ragione della medesima indicazione ministeriale. (5-08408)


   MARTELLI, NICCHI, GREGORI, AIRAUDO e PLACIDO. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   la violenza colpisce una donna su tre, in Italia sono 6,7 milioni le donne che almeno una volta nella vita sono state vittime di una violenza fisica o sessuale un dramma dal quale si esce con un lungo percorso;
   il decreto attuativo del Jobs Act sui temi di conciliazione lavoro-famiglia ha introdotto il congedo per le donne vittime di violenza di genere che intraprendono percorsi di protezione;
   in particolare, le lavoratrici dipendenti del pubblico e del privato che subiscono violenza, per motivi legati allo svolgimento di tali percorsi, hanno diritto ad astenersi dal lavoro per un periodo di tre mesi, anche non continuativo, interamente retribuito;
   è altresì, prevista la possibilità di trasformare il rapporto di lavoro da tempo pieno a part-time, nonché l'opportunità di essere nuovamente trasformato, a seconda delle esigenze della lavoratrice, in rapporto di lavoro a tempo pieno. Il decreto dà altresì la facoltà alle collaboratrici a progetto di sospendere il rapporto contrattuale per motivi connessi allo svolgimento dei suddetti percorsi di protezione;
   la norma quindi si prefigge l'obiettivo di sostenere le donne non soltanto in termini di sicurezza individuale, ma anche sotto il profilo dell'indipendenza economica, riconoscendo il diritto a tre mesi di astensione retribuita dal lavoro;
   il decreto legislativo è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 24 giugno 2015 con entrata in vigore il giorno successivo;
   a distanza di circa dieci mesi il provvedimento è di fatto, inattuato, in quanto non è stata emanata la circolare applicativa dell'Inps, senza la quale le aziende non danno seguito alle richieste delle dipendenti interessate;
   appare inspiegabile e grave il ritardo nella emanazione della circolare applicativa da parte dell'Inps, in quanto si tratta di un ritardo secondo gli interroganti inammissibile, frutto di motivi che l'Inps non si è premunita di far conoscere;
   in relazione al ritardo nell'emanazione della circolare dell'Inps in materia di congedo per le donne vittime di violenza, si registra tra le altre la presa di posizione della CGIL che ha chiesto all'Inps di emanare subito la circolare, in quanto si tratta di un diritto ora previsto dalla normativa ma che non è esigibile;
   la norma si prefigge l'obiettivo di sostenere le donne non soltanto in termini di sicurezza individuale, ma anche sotto il profilo dell'indipendenza economica, riconoscendo il diritto a tre mesi di astensione retribuita dal lavoro. Senza dimenticare che il decreto prevede anche la possibilità di trasformare il rapporto di lavoro da tempo pieno a part-time fino a quando necessario –:
   quali siano i motivi del ritardo da parte dell'Inps nell'emanare la circolare applicativa in materia di congedo per le donne vittime di violenza di genere che intraprendono percorsi di protezione e se siano state individuate, per quanto di competenza, eventuali responsabilità relativamente alla mancata emanazione della citata circolare;
   quali iniziative abbia intrapreso o intenda intraprendere affinché la circolare applicativa in materia di congedo per le donne vittime di violenza di genere sia emanata in tempi rapidi, consentendo alle donne lavoratrici di avviare o proseguire il percorso di protezione;
   se il Ministro interrogato sia in grado di comunicare il numero di domande di congedo presentate da dipendenti vittime di violenza di genere che sono rimaste inevase a causa della mancata emanazione della circolare da parte dell'Inps.
(5-08409)

Interrogazione a risposta scritta:


   NICCHI, AIRAUDO, MARTELLI e PLACIDO. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   il 14 aprile 2016 un gravissimo incidente sul lavoro è avvenuto a Massa Carrara all'interno della cava di marmo gestita dall'azienda Fratelli Antonioli nel bacino di Colonnata;
   due lavoratori sono morti intrappolati sotto le macerie di una frana da circa duemila tonnellate di marmo, mentre un terzo lavoratore si è salvato per miracolo;
   si tratta solo dell'ultimo incidente di una lunga serie avvenuta nelle cave della provincia di Massa Carrara; infatti, in questa provincia, solo nel periodo dal 2014 ad oggi sono sei i lavoratori morti nelle cave, tre dei quali sono a fine 2015, e con l'incidente del 14 aprile 2016 si arriva a otto lavoratori morti;
   in Toscana si è assistito a una crescita vertiginosa delle morti sul lavoro, che sono passate dai 76 decessi registrati nel 2014 a 109, con una variazione quindi del 43 per cento. In questo contesto, particolare attenzione merita il comparto estrattivo del marmo, dove storicamente si verificano episodi drammatici simili a quelli accaduti lo scorso 14 aprile 2016;
   la Fillea Cgil con un duro comunicato parla di «tragedia annunciata che non si riferisce» ad un caso isolato, e di un'inaccettabile episodio di una mattanza che negli ultimi mesi è ripresa nelle cave italiane;
   è necessario fare piena luce e accertare eventuali inadempienze o carenze legate rispetto alla normativa in materia di sicurezza sui posti di lavoro e la sua corretta applicazione;
   alla tragica morte dei due lavoratori della cava di Massa Carrara si deve rispondere con un maggiore impegno nella prevenzione degli infortuni, con maggiori controlli e con il richiamo al rispetto assoluto delle norme di sicurezza, in particolare nelle attività estrattive –:
   se siano state accertate eventuali inadempienze e carenze rispetto alla normativa vigente in materia di sicurezza nel settore delle attività estrattive, da parte dell'azienda Fratelli Antonioli, in relazione al gravissimo incidente avvenuto a Massa Carrara nella cava di marmo nel bacino di Colonnata;
   se non ritenga necessario intensificare i controlli al fine di garantire l'integrale applicazione delle norme in materia di sicurezza sul lavoro, in particolare nei settori ad elevata rischiosità come quello delle attività estrattive;
   quali iniziative, per quanto di competenza, intenda intraprendere al fine di garantire la sicurezza dei lavoratori delle cave, tenuto conto della necessità dell'aggiornamento continuo dei metodi di lavorazione e del conseguente periodico aggiornamento delle regole e della formazione, affinché i lavoratori possano operare in sicurezza. (4-12873)

POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI

Interrogazioni a risposta orale:


   SIMONETTI. — Al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   negli ultimi tre mesi la regione Piemonte subisce un periodo di siccità a causa di scarse precipitazioni sia nevose che piovose;
   sono, infatti, passati quasi 100 giorni senza che si registrino precipitazioni di rilievo, — i fiumi e i laghi sono quasi in secca — e questo ha destato allarme soprattutto negli agricoltori piemontesi;
   il mese di dicembre 2015 è stato il meno piovoso degli ultimi 215 anni, ed il mese di gennaio 2016 ha registrato il record negativo della media delle precipitazioni (-65 per cento);
   le alte temperature di questo periodo, sono un fenomeno anomalo, che sta causando danni alle coltivazioni, soprattutto di quelle foraggere, che non stanno beneficiando dell'apporto idrico necessario per il loro sviluppo, derivante soprattutto dalle precipitazioni nevose;
   a preoccupare non è solo la situazione attuale, ma, soprattutto, le ricadute per il futuro. Se le condizioni meteo migliorassero, con un febbraio e un marzo nella norma, in particolare per quanto riguarda le precipitazioni nevose, queste determinerebbero accumuli di neve destinati a sciogliersi rapidamente in primavera con conseguenti deficit idrici per l'inizio dell'estate. Verrebbe, così, impedito lo stoccaggio di acqua, portando gli invasi ad essere semivuoti e quindi rendere impossibile il rilascio dei flussi, importanti sia per l'agricoltura che per l'uso di acqua potabile da parte della popolazione. Se persisterà lo stato delle cose, in alcune zone della regione Piemonte potrebbe essere addirittura ridotta la fornitura idrica;
   questo inverno «anomalo» ha portato ad una fioritura anticipata delle piante, quali il nocciolo, soprattutto nelle zone del basso Albese e dell'Alta Langa. Il problema è che se le condizioni meteorologiche dovessero cambiare con l'arrivo di improvvise gelate, le gemme e i raccolti che hanno già iniziato il loro ciclo vegetale, potrebbero andare distrutti con ingenti danni alle coltivazioni;
   le colture che da questa situazione sicuramente soffriranno sono quella del riso, la quale dovrà essere irrigata già a partire dal prossimo mese di marzo, e quella del mais. Colture queste che hanno bisogno di un importante apporto idrico. In Piemonte le province di Vercelli, Biella e Novara, con Pavia, da sole, producono il 92 per cento del riso nazionale e la superficie coltivata è di 70 mila ettari con oltre mille le aziende sul territorio. La produzione complessiva è di oltre 5 milioni di quintali e quella lorda vendibile ammonta a 200 milioni di euro;
   esistono anche altri problemi a seguito di questo sconvolgimento climatico, che potrebbero portare ad un aggravio della situazione già molto critica. Infatti, la processionaria, un bruco che si nutre di aghi di pino, sta invadendo le conifere; la diffusione della varroa, un acaro parassita che attacca gli alveari delle api, con conseguente danneggiamento, se non addirittura distruzione degli stessi, che si va ad aggiungere, però indipendente dal caldo anomalo di questo periodo, a quello già presente della vespa velutina, un calabrone asiatico, che si nutre di api in prossimità degli alveari, che crea danno al danno. Nella zona della provincia di Cuneo sono presenti circa 30 mila alveari con una produzione annuale di circa 1.500 tonnellate di miele –:
   quali iniziative intendano adottare, per quanto di competenza, anche di tipo economico-finanziario, al fine di sostenere le aziende agricole piemontesi che sono state colpite, negli ultimi mesi, dal fenomeno della siccità, dando, così, impulso ad un settore già fortemente in crisi;
   se non ritengano di dover attivare con urgenza un tavolo tecnico di coordinamento con quelli attivati a livello regionale, per condividere le scelte concernenti la risoluzione delle criticità e monitorare la situazione delle riserve idriche delle regioni. (3-02186)


   RIZZETTO, BARBANTI, ROSTELLATO, BALDASSARRE, ARTINI, PRODANI, SEGONI, TURCO, BECHIS e MUCCI. — Al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:
   si è appreso della protesta delle aziende del comparto della viticoltura del Friuli Venezia Giulia rispetto al progetto di organizzare – nei territori del Friuli Venezia Giulia, Veneto e Trentino – una doc interregionale Pinot grigio che dovrebbe essere chiamata «Delle Venezie»;
   la proposta di realizzare un doc unica tra le più importanti aree di produzione del Pinot grigio (300 milioni di bottiglie l'anno vendute principalmente negli Stati Uniti, in Germania e Inghilterra) è stata avanzata dal Veneto, sembra con l'intento di tutelare il Pinot grigio, evitando imitazioni e un calo del prezzo;
   il Comitato promotore per la difesa del vino friulano ha espresso la propria contrarietà all'iniziativa veneta, precisando per l'appunto che non c’è assolutamente la volontà di costituire una doc con il Veneto e che contro l'eventuale attuazione di questo progetto saranno proposti ricorsi giudiziari per tutelare la produzione di Pinot grigio del Friuli Venezia Giulia;
   il progetto prevede la cancellazione di tutte le storiche Igt friulane utilizzate e valorizzate da decenni e, inevitabilmente, metterebbe a rischio anche l'esistenza delle storiche denominazioni a origine controllata del Friuli Venezia Giulia;
   a quanto è dato sapere, i dirigenti dell'assessorato all'agricoltura del Friuli hanno espresso parere favorevole all'iniziativa. Tuttavia, al riguardo, non sono stati interpellati i produttori friulani, i quali si oppongono al progetto che danneggerebbe il Pinot grigio friulano;
   il Veneto e le sue istituzioni sono i principali sponsor del progetto Pinot grigio doc delle Venezie e per oggettive motivazioni legate alla dimensioni di questa regione ne diverrebbero anche il motore dirigenziale, dunque, la produzione del Friuli Venezia Giulia – con la propria storia, cultura e identità – sarebbe inevitabilmente danneggiata;
   è assurdo a giudizio dell'interrogante che i responsabili regionali del Friuli Venezia Giulia abbiano espresso la volontà di aderire al progetto senza consultare gli imprenditori del comparto in questione. Altre regioni come l'Alto Adige, che, come il Friuli Venezia Giulia ha una forte identità produttiva, hanno immediatamente espresso il loro dissenso all'iniziativa;
   l'iniziativa porterebbe ad una doc di nuova costituzione, per cui la sua presentazione dovrebbe essere accompagnata anche dall'adesione di un consistente numero di produttori regionali, come è avvenuto per la doc Friuli Venezia Giulia. Sicché, in mancanza dell'adesione dei produttori l'iniziativa non può essere realizzata;
   è bene evidenziare che un prodotto come il vino e indissolubilmente legato al territorio, pertanto, per il buon andamento del comparto è necessario tutelare il prodotto regionale. Inoltre, proprio per il legame al territorio, si esclude che una doc dalle caratteristiche assolutamente non omogenee per terreno, clima, potrebbe superare l'approvazione del comitato nazionale delle doc –:
   quali siano gli orientamenti del Ministro interrogato in merito ai fatti premessi;
   se e quali iniziative di competenza intenda intraprendere il Ministro per tutelare il prodotto Pinot Grigio del Friuli Venezia Giulia, le aziende produttrici sarebbero irrimediabilmente pregiudicate con danno all'economia della regione, qualora sia costituita la doc interregionale come esposto in premessa. (3-02187)

Interrogazione a risposta in Commissione:


   FIORIO, DALLAI e CENNI. — Al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   la tematica relativa ai danni causati dalla fauna selvatica e inselvatichita è una problematica che ha acquistato negli ultimi anni una dimensione insostenibile ed i suoi risvolti hanno raggiunto un impatto catastrofico, in particolar modo, sulle imprese agricole, zootecniche e sulla sicurezza delle persone e della viabilità stradale;
   le specie responsabili sono in particolare i cinghiali anche se problematiche analoghe sono causate da cervidi, nutrie, lupi e canidi, oltre ad alcune varietà di uccelli;
   nonostante i danni interessino tutto il territorio nazionale, il fenomeno ha colpito e colpisce in particolare rilevanza alcune regioni, ed in particolare Toscana, Piemonte, Liguria;
   il fenomeno dei danni provocati dalla fauna selvatica alle produzioni agricole e zootecniche continua ad avere quindi i connotati di una vera e propria emergenza, che sollecita l'avvio urgente di iniziative da parte delle istituzioni pubbliche, volte a prevedere un sistema adeguato di efficaci misure preventive e di contrasto;
   secondo le stime, le perdite economiche causate dalla fauna selvatica alle colture, la maggior parte delle quali riconducibili ai cinghiali, sono indicate, da alcune associazioni di categoria, in oltre 70 milioni di euro annui (in molti casi rimborsati solo parzialmente);
   i cinghiali nel nostro Paese superano attualmente il milione di unità; tale proliferazione è stata causata anche dall'irrazionale introduzione a scopo venatorio di esemplari provenienti dal centro-Europa che hanno pressoché soppiantato o contaminato incrociandosi, le specie autoctone quali la Sus scrofa majori in Maremma ed il Sus scrofa meridionalis in Sardegna, che morfologicamente ed etologicamente risultavano essere perfettamente integrate e in equilibrio con l'ambiente;
   a differenza di quanto si è erroneamente ritenuto fino ad oggi, l'ordinaria attività venatoria, così come viene organizzata e gestita in Italia, non rappresenta una forma di controllo delle popolazioni di cinghiale, tantomeno può rappresentarlo un'estensione del periodo di prelievo (deregulation dei calendari venatori) o la concessione del prelievo in aree altrimenti protette. Altresì, l'attività venatoria ha determinato negli anni una destrutturazione della piramide delle classi di età, agevolando la riproduzione degli esemplari più giovani, abbattendo i capi adulti con più di due anni di età;
   in data 29 ottobre 2014, la Commissione agricoltura della Camera dei deputati ha approvato la risoluzione n. 8-00085 e denominata «Interventi in materia di danni all'agricoltura provocati dalla fauna selvatica». Tale atto impegna il Governo:
    «1. ad intraprendere urgentemente, secondo il principio che la tutela ambientale debba comunque conciliarsi con l'esercizio dell'attività d'impresa, tutte le iniziative tecniche, organizzative e normative, sia in sede nazionale che in sede comunitaria, per contrastare e prevenire con efficacia il problema dei danni alle colture causati dalla fauna selvatica e in particolare i danni dovuti alla proliferazione dei suidi prevedendo una maggiore sinergia con le regioni e le province autonome e con l'Ispra;
    2. ad istituire, mediante il concerto tra i Ministeri competenti, Ispra, le regioni e le province autonome, un osservatorio permanente in grado di censire con puntualità, certezza e per mezzo di comprovati parametri tecnici e scientifici, i danni provocati dalla fauna selvatica su tutto il territorio nazionale e ad avviare, nell'ambito delle proprie competenze e di intesa con le regioni e le province autonome, un monitoraggio nazionale sull'applicazione dell'articolo 10 della legge n. 157 del 1992, e in particolare del comma 8, lettera f), al fine di valutare oggettivamente se siano state messe in atto tutte le misure previste dalla legislazione nazionale in materia di risarcimento dei danni da fauna selvatica agli agricoltori e di assicurarsi che si raggiungano dei risultati omogenei sul territorio nazionale così da garantire, al contempo, la tutela della fauna selvatica e il diritto degli agricoltori di essere risarciti in tempi rapidi e certi;
    3. a verificare l'attuazione e la dotazione del fondo presso il Ministero dell'economia e delle finanze ai sensi dell'articolo 24 della legge n. 157 del 1992 e a constatare se siano stati istituiti fondi regionali per il risarcimento dei danni prodotti dalla fauna selvatica e dall'attività venatoria, come previsto dall'articolo 26, cagionati delle specie animali indicate negli articoli 2 e 18 e a reperire risorse adeguate per risarcire gli agricoltori dai danni causati dalla fauna selvatica a partire dalla completa attuazione alle disposizioni contenute all'articolo 66, comma 14, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, citata in premessa;
    4. ad assumere ogni possibile iniziativa normativa per scorporare il risarcimento o l'indennizzo per i danni di alcune specie selvatiche o inselvatichite e in particolare dei suidi, dalla quota massima (nell'arco di tre esercizi fiscali) prevista per gli aiuti delle aziende agricole rientranti nel regolamento de minimis;
    5. a valutare la possibilità di promuovere bandi per la realizzazione e la manutenzione di strumenti di prevenzione a difesa dei comprensori o di singole proprietà, con le caratteristiche stabilite dall'Ispra o dagli enti di ricerca preposti e l'applicazione dei metodi non cruenti per il controllo della fertilità nonché ad attivare strumenti e risorse finanziarie per promuovere, da parte dei soggetti pubblici e privati interessati, una reale ed efficace azione di prevenzione e la promozione di azioni sperimentali;
    6. a convocare quindi in tempi brevi un tavolo tematico di concertazione con le regioni e le province autonome sul problema dei danni causati dalla fauna selvatica;
    7. ad assumere iniziative per vietare ogni ulteriore introduzione per fini venatori di esemplari di cinghiali su tutto il territorio nazionale, attuando o promuovendo azioni concrete per il recupero e la successiva reintroduzione, al termine dell'emergenza, dei suidi autoctoni italiani quali il Sus scrofa majori ed il Sus scrofa meridionalis;
    8. ad adottare e promuovere, per quanto di competenza, tutte le misure necessarie per prevenire l'ibridazione con i suini allevati al pascolo e quindi iniziative per la regolamentazione di queste forme di allevamento;
    9. a valutare la possibilità di assumere iniziative normative, compatibilmente con le esigenze di finanza pubblica, volte ad introdurre una moratoria nei confronti dei debiti che i conduttori dei fondi hanno contratto nei riguardi della pubblica amministrazione e di tutti gli atti di pignoramento conseguenti, maturati a seguito del mancato reddito causato dal danneggiamento alle colture e ai ritardi degli indennizzi e risarcimenti dovuti;
    10. ad assumere le opportune iniziative in sede europea al fine di riconoscere possibili indennizzi per i danni provocati all'agricoltura dalle specie selvatiche» –:
   quali degli impegni citati in premessa, di cui alla risoluzione n. 8-00085, siano stati ad oggi rispettati e con quale modalità attuativa; con quale tempistica preveda che possano essere attuati gli impegni ancora non assolti. (5-08405)

Interrogazione a risposta scritta:


   CATANIA. — Al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:
   il settore sementiero è fondamentale per l'economia agricola in qualunque contesto produttivo. In Italia il comparto ha, secondo dati ISTAT, un fatturato complessivo di circa 700 milioni di euro, dei quali circa 360 milioni di euro risultano essere relativi alle importazioni;
   nonostante la vocazione, le condizioni pedo-climatiche favorevoli e la tradizione eccellente della attività di ricerca nazionale e della produzione di seme certificato e controllato ufficialmente, la produzione sementiera italiana non riesce a coprire il fabbisogno nazionale;
   i produttori nazionali di semente lamentano che la fine del regime di sostegno comunitario (previsto dall'articolo 87 del Regolamento (CE) n. 73/2009, che prevedeva la concessione dell'aiuto fino al raccolto 2011) alle imprese moltiplicatrici di semente ha acuito ulteriormente la situazione di crisi in cui versa, da alcuni anni, il settore sementiero nazionale;
   l'Associazione sementieri mediterranei (As.se.me.), impegnata a sostenere la produzione di semente tradizionale, ha prospettato più volte problemi relativi al degrado della qualità delle sementi convenzionali utilizzate dai nostri agricoltori. Degrado che sarebbe favorito dall'uso di seme non certificato dalle imprese agricole (attraverso la tecnica del reimpiego aziendale);
   l'Associazione sopramenzionata manifesta forte preoccupazione, inoltre, per la drastica riduzione della superficie a moltiplicazione delle sementi delle due più importanti colture tipiche italiane, riso e grano duro, riduzione del 30 per cento e del 45 per cento rispettivamente negli ultimi 4-5 anni;
   alcuni esperti denunciano che il reimpiego aziendale favorirebbe la diffusione di organismi nocivi che comprometterebbero la produzione di ogni tipo di semente, compresa quella del riso colpita, in questi ultimi due anni, dal nematode Aphellencoides bessey, e quella del grano duro colpito a sua volta da fitopatie persistenti –:
   quali opportune iniziative il Governo intenda sviluppare per sostenere il settore sementiero nazionale e garantire e mantenere l'integrità fito-sanitaria e la qualità dei prodotti agricoli;
   se non ritenga utile promuovere, a questo proposito, una politica nazionale stabile, adottando un piano nazionale per l'impiego e la produzione di sementi certificate che abbia come interlocutori tutti i soggetti della filiera agro-alimentare, con il fine di tutelare e valorizzare le produzioni del made in Italy;
   come intenda promuovere la produzione di sementi in Italia al fine di aumentare sia l'auto-approvvigionamento che la qualificazione delle stesse;
   se non ritenga utile sviluppare sistemi atti a favorire l'uso di semente certificata convenzionale, per mantenere elevata la qualità del prodotto agricolo finale. (4-12847)

SALUTE

Interrogazioni a risposta scritta:


   GAGNARLI, LUPO, GALLINELLA, L'ABBATE, BENEDETTI e MASSIMILIANO BERNINI. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   il decreto interministeriale 22 gennaio 2014, di adozione del piano di azione nazionale per l'uso sostenibile dei prodotti fitosanitari, previsto dall'articolo 6 del decreto legislativo 14 agosto 2012, n. 150, di attuazione della direttiva 2009/128/CE, ha aggiornato la normativa in merito all'utilizzo sostenibile dei prodotti fitosanitari, abrogando parte del decreto del Presidente della Repubblica 23 aprile 2001, n. 290, regolamento di semplificazione dei procedimenti di autorizzazione alla produzione, alla immissione in commercio e alla vendita di prodotti fitosanitari e relativi coadiuvanti;
   l'allegato VI del decreto interministeriale 22 gennaio 2014 contiene alcune disposizioni circa lo stoccaggio dei prodotti fitosanitari, fatte salve le disposizioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica n. 290 del 23 aprile 2001 e successive modificazioni e le disposizioni previste dal decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro. In particolare, stabilisce che il deposito dei prodotti fitosanitari deve essere chiuso e ad uso esclusivo, che non possono esservi stoccati altri prodotti o attrezzature, se non direttamente collegati all'uso dei prodotti fitosanitari, e che lo stesso deposito può anche essere costituito da un'area specifica all'interno di un magazzino, mediante delimitazione con pareti o rete metallica, o da appositi armadi, se i quantitativi da conservare sono ridotti;
   l'articolo 24 comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 23 aprile 2001 n. 290, rimasto in vigore, stabilisce che «i prodotti fitosanitari ed i loro coadiuvanti, se classificati molto tossici, tossici o nocivi, sono conservati in appositi locali o in appositi armadi, ambedue da tenere chiusi a chiave», escludendo la segregazione in appositi locali o in appositi armadi dei prodotti fitosanitari classificati irritanti, come ad esempio quelli a base di zolfo;
   la classificazione di tossicità dei prodotti fitosanitari che prevedeva la distinzione tra prodotti, molto tossici, tossici, nocivi, irritanti e non classificati, tuttavia, è stata abrogata a far data dal 1o giugno 2015 dal Regolamento (UE) n. 1272/2008 (CLP – classification, labeling and packaging), nuovo regolamento europeo relativo alla classificazione, all'etichettatura e all'imballaggio delle sostanze e delle miscele pericolose;
   l'applicazione della riclassificazione prevista dal Regolamento (UE) n. 1272/2008 in Italia è obbligatoria dal 1o giugno 2015, anche se è possibile lo smaltimento scorte per prodotti immessi in commercio prima del 1o giugno 2015, fino al 31 maggio 2017;
   sia l'associazione dei produttori italiani di zolfo, sia i rivenditori, sia gli utilizzatori professionali temono che gli organi preposti al controllo, in tale situazione di non completa applicazione della nuova riclassificazione dei prodotti fitosanitari, possano irrogare sanzioni per il presunto non corretto stoccaggio dei prodotti a base di zolfo –:
   se il Governo non ritenga opportuno ed urgente un chiarimento formale circa la modalità di stoccaggio dei prodotti fitosanitari a base di zolfo, precedentemente classificati tra gli irritanti, ovvero adottare un'iniziativa di coordinamento normativo tra discipline precedenti e successive con espresse abrogazioni, anche in considerazione dell'imminente inizio della campagna di vendita di tale prodotto chimico. (4-12846)


   SCOTTO. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   la delibera n. 115 del 26 febbraio 2016 a firma del commissario straordinario dell'Asl Na 3 sud, in attuazione del decreto regionale n. 70 e dell'accordo Stato-regioni del 2010, ha disposto la chiusura del reparto di ginecologia e ostetricia dell'Ospedale «S. Anna e Maria SS. della Neve» di Boscotrecase a partire dal 20 aprile 2016;
   la disattivazione di questo punto nascita scaturisce dal piano di rientro dal disavanzo che la regione Campania approvò nel 2007, con cui si era prevista la chiusura di tutti i punti nascita con un numero di parti annui inferiore ai 500;
   si parla tuttavia, di un reparto che fa venire alla luce tra i 300 ed i 400 neonati ogni anno;
   si tratta di una cifra molto alta se si pensa al fatto che i posti letto disponibili nel reparto siano solo 9;
   considerata l'ampiezza del territorio ed il numero di abitanti che afferisce al reparto in questione dell'ospedale di Boscotrecase, basterebbe un aumento dei posti letto disponibili per superare lo scoglio delle 500 nascite annue;
   al punto nascita in questione afferiscono, infatti, alcuni dei più importanti comuni della provincia napoletana, come ad esempio Ercolano, Torre Annunziata e Torre del Greco;
   privare questi territori di un punto nascita rischia di tradursi in una grave lesione del diritto alla salute della cittadinanza –:
   se non ritenga, per quanto di competenza, di dover intervenire, anche per il tramite del Commissario ad acta per l'attuazione del piano di rientro dai disavanzi sanitari, per garantire il rispetto dei livelli essenziali di assistenza del diritto alla salute delle donne dell'area interessata, evitando la chiusura del reparto di ginecologia ed ostetricia dell'ospedale di Boscotrecase e valutando anzi, la necessità di un aumento dei posti letto ivi disponibili. (4-12855)


   ARTINI, BALDASSARRE, BECHIS, SEGONI e TURCO. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   il 13 aprile 2016 il Sottosegretario alla salute, ed ex governatore lucano, Vito De Filippo è stato iscritto, con il presunto reato di «induzione indebita», tra gli indagati dell'inchiesta dei pubblico ministero di Potenza: una lunga e complessa inchiesta della procura di Potenza su petrolio e lobby, che ha posto sotto l'attenzione di tutti la gestione delle attività estrattive del petrolio lucano, travolgendo la Ministra pro tempore Guidi nello scandalo ormai noto;
   i fronti dell'indagine sono due: da un lato le emissioni in atmosfera e lo smaltimento dei rifiuti del Centro Olio di Viggiano (PZ) – con gravi reati ambientali causati dal management dell'Eni – e dall'altro, le opere per la realizzazione del Centro Olio «Tempa Rossa» della Total, nell'area di Corleto Perticara (PZ) e gli episodi di corruzione che hanno coinvolto amministratori e imprenditori;
   gli investigatori sostengono che i dirigenti dell'Eni fossero consapevoli del numero di sforamenti dei limiti imposti dalla legge per gli agenti inquinanti, ma agli enti pubblici preposti ai controlli ambientali venivano consegnati «dati non corrispondenti al vero, parziali o diversi da quelli effettivi»;
   dopo due anni d'indagini di carabinieri e polizia – coordinati dai pubblico ministero di Potenza – sei persone sono finite agli arresti domiciliari: l'ex sindaco di Corleto Perticara, Rosaria Vicino (PD) e cinque dipendenti Eni;
   insieme a Vito De Filippo è rientrata nell'inchiesta anche la sua segretaria Mariachiara Montemurro, consigliera comunale del Partito Democratico di Gallicchio (PZ), per un presunto scambio di favori «a fini elettorali» proprio con l'ex sindaco Rosaria Vicino;
   secondo le intercettazioni in cambio dell'appoggio politico alla sua corrente, il sottosegretario De Filippo avrebbe caldeggiato l'assunzione all'Eni del figlio di Rosaria Vicino;
   il nome di De Filippo era comparso già più volte nell'ordinanza di misure cautelari eseguite due settimane fa, in relazione alle pressioni dell'ex sindaco di Corleto;
   non è ancora chiaro il ruolo che potrebbe aver avuto De Filippo nella vicenda, né quale sia lo stato di salute degli animali allevati in quell'area a causa dei danni ambientali creati dalle compagnie sopraddette;
   è, però, impensabile, che Vito De Filippo, titolare di deleghe come la sanità pubblica veterinaria, che dovrebbe quindi vigilare su sanità animale e valutazione del rischio nella catena alimentare, possa essere coinvolto in un'indagine con tali risvolti sulla salute alimentare degli italiani –:
   se il Ministro interrogato sia a conoscenza dei fatti riportati in premessa e se non reputi urgente e opportuno revocare le deleghe di sanità pubblica veterinaria al sottosegretario De Filippo. (4-12876)

SVILUPPO ECONOMICO

Interrogazioni a risposta in Commissione:


   GALGANO, QUINTARELLI, D'ALIA, CAPARINI, CRISTIAN IANNUZZI, SBERNA, POLIDORI, PALLADINO, GIGLI, FITZGERALD NISSOLI, ABRIGNANI, GALLINELLA, BARADELLO, SOTTANELLI, ALLASIA, OLIARO, GIAMMANCO, VARGIU, VECCHIO, MUCCI, MATARRESE e CAPUA. — Al Ministro dello sviluppo economico, al Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale. — Per sapere – premesso che:
   «Hacking Team» è una società di information technology con sede a Milano che vende servizi di intrusione offensiva e sorveglianza a Governi, organi di polizia e servizi segreti di tutto il mondo: sono stati costruiti rapporti e relazioni anche a diretto riporto del Presidente degli Stati Uniti d'America, lavorando con NSA, CIA e FBI;
   i suoi sistemi di controllo remoto (RCS Galileo) permettono di monitorare le comunicazioni degli utenti di internet, decifrare i loro file e le loro e-mail criptati, registrare le conversazioni telefoniche, Skype e altre comunicazioni Voice over IP, attivare a distanza microfoni e videocamere sui computer presi di mira, tenere sotto controllo telefoni cellulari (telefonate, rubriche, sms, spostamenti, calendari eccetera), leggere e rilevare anomalie nel mondo dei social network;
   la società è stata criticata per aver fornito tali servizi a Governi scarsamente rispettosi dei diritti umani;
   sin dal 2012 gli strumenti di Hacking team sono stati associati a numerosi attacchi a dissidenti politici, giornalisti e difensori dei diritti umani, in almeno 21 Paesi;
   Hacking team dichiara di essere in grado di disabilitare i software distribuiti in caso di uso non etico, tuttavia la società, posta dinanzi a prove stringenti che dimostravano l'utilizzo dei suoi strumenti da parte di Governi accusati di sistematiche violazioni dei diritti umani, ha sostanzialmente deciso di non confermare o negare le accuse;
   secondo il report pubblicato da « Privacy international» del febbraio 2016, Hacking team avrebbe venduto sofisticati strumenti di controllo remoto alla Technical Research Department (TRD), un'unità segreta legata al servizio generale di intelligence egiziano;
   in tale report Hacking team sostiene di avere l'autorizzazione delle autorità italiane alle vendite in Egitto;
   per prodotti «dual use» si intendono quei beni, anche a carattere immateriale (quali il software e le tecnologie), suscettibili di essere utilizzati per fini sia civili che militari;
   l'esportazione dei beni e delle tecnologie duali è disciplinata da una varietà di norme, criteri e procedure applicative che rispondono alle esigenze di sicurezza nazionale ed internazionale;
   rileva in particolare il regolamento (CE) n. 428/2009, successivamente modificato dal regolamento (UE) n. 388/2012, il quale istituisce un regime comunitario di controllo delle esportazioni di prodotti e tecnologie a duplice uso che figurano nell'allegato I;
   in Italia le disposizioni del regolamento (CE) n. 428/2009 sono state recepite con il decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 96, recante «Attuazione di talune disposizioni del regolamento n. 1334/2000/CE che istituisce un regime comunitario di controllo delle esportazioni di prodotti e tecnologie a duplice uso, nonché dell'assistenza tecnica destinata a fini militari, a norma dell'articolo 50 della legge 1o marzo 2002, n. 39»;
   essendo prodotti e tecnologie ad elevato valore strategico sono assoggettati ad alcuni accorgimenti relativi al loro trasferimento internazionale;
   tali accorgimenti, di fatto, si traducono nel rilascio di un'apposita autorizzazione preventiva (la quale può essere di diverso tipo, ad esempio specifica-individuale, globale-individuale o nazionale-generale) per la loro esportazione e nell'adozione di una serie di procedure particolarmente restrittive nella loro circolazione (ad esempio tenuta di dettagliati registri commerciali o di una documentazione dettagliata delle loro esportazioni conformemente al diritto nazionale o secondo la prassi in vigore nel rispettivo Stato membro, come fatture, manifesti, documenti di trasporto o altri documenti di spedizione);
   nell'ordinamento italiano l'autorità competente per l'esportazione dei prodotti e delle tecnologie a duplice uso è il Ministero dello sviluppo economico, divisione IV della direzione generale per la politica commerciale;
   secondo notizie apparse sugli organi di stampa, il 31 marzo 2016 la direzione generale per la politica commerciale internazionale (Autorità per l'esportazione beni a duplice uso), che fa capo al dicastero dello sviluppo economico, ha deciso di revocare «con decorrenza immediata», due anni prima della scadenza fissata al 30 aprile 2018, l'autorizzazione globale concessa solo dodici mesi fa all'azienda milanese Hacking Team alla commercializzazione del Remote control system «Galileo», il sistema che consente di spiare a distanza dati e informazioni che transitano su computer e smartphone. A seguito di tale revoca l'azienda dovrà ora richiedere un visto per ogni singola operazione commerciale per il sistema Galileo;
   nella lista dei 46 Stati verso i quali la società italiana Hacking Team (che nel luglio scorso ha subito l'intrusione illegittima e la divulgazione di 400 gigabyte di file riservatissimi) aveva ottenuto, il 3 aprile 2015, il via libera alla commercializzazione del software figura anche l'Egitto, da due mesi teatro di un durissimo braccio di ferro con l'Italia che pretende chiarimenti sull'omicidio del giovane ricercatore friulano Giulio Regeni;
   Giulio Regeni è stato trovato morto mercoledì 3 febbraio 2016 ai margini dell'autostrada tra El Cairo e Alessandria, nella periferia della capitale egiziana, dopo che si erano perse le sue tracce dal 25 gennaio, giorno dell'anniversario della rivoluzione anti Mubarak;
   due autopsie hanno confermato che Regeni è stato brutalmente torturato;
   le circostanze della morte sono tuttora da chiarire e le versioni non coincidenti che provengono dalle autorità egiziane non fanno che indurre sospetti ed inquietudine nel nostro Paese. Si affaccia l'ipotesi dell'omicidio politico legato all'attività del giovane, che lo portava a contatto con i sindacati indipendenti egiziani ed a collaborare in Italia con il quotidiano Il Manifesto, testata giornalistica nella quale avrebbe, in periodi recenti, firmato articoli con pseudonimi, temendo per la propria incolumità;
   di particolare rilievo in merito è il lavoro che Giulio Regeni faceva da tempo come studente della Cambridge University a Oxford e, al Cairo, come dottorando dell'American University; difatti, uno degli ambiti di ricerca riguardava le «Indagini sull'uso delle piattaforme digitali e gli strumenti di mobilitazione in Rete nei movimenti per il cambiamento politico in Medio Oriente, al fine di creare “sfere di dissidenza” e “nuove culture di attivismo”»;
   secondo numerose fonti giornalistiche, a determinare il sequestro e l'uccisione dello studente sarebbero stati i contatti e i numeri di cellulare presenti sul cellulare di Regeni che, oltretutto, non è mai stato ritrovato –:
   quali approfondimenti ed elementi di valutazione del rispetto dei diritti umani vengono considerati nell'autorizzazione all'export delle dual use technology da parte del Ministero dello sviluppo economico;
   se il Ministero abbia approfondito a quale organizzazione governativa egiziana fosse destinato il software;
   se esistano elementi per escludere che esso sia stato usato, in qualche modo, contro Regeni;
   se sia vero, che sia stata revocata alla società «Hacking Team» l'autorizzazione globale alla commercializzazione e per quali motivi ciò sia avvenuto. (5-08404)


   TARICCO, BONOMO, CARRESCIA, GALPERTI, DELL'ARINGA, GIACOBBE, PATRIZIA MAESTRI, ROMANINI, ALBANELLA, PREZIOSI, PRINA, CENSORE, BECATTINI e CAPOZZOLO. — Al Ministro dello sviluppo economico, al Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   la legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, all'articolo 10, prevede la delega per la riforma dell'organizzazione, delle funzioni e del finanziamento delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, anche mediante la modifica e il riordino delle disposizioni legislative che attualmente regolano la materia;
   al riguardo, il comma 1 individua i principi e criteri direttivi per l'adozione, entro 12 mesi dalla data di entrata in vigore della legge in questione, di un decreto legislativo da parte del Governo, su proposta del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro delegato per la semplificazione e la pubblica amministrazione e con il Ministro dell'economia e delle finanze, previa acquisizione del parere della Conferenza unificata, e del parere del Consiglio di Stato, anche riguardo alla determinazione, ai sensi della lettera a) del medesimo comma, del diritto annuale a carico delle imprese, tenendo conto della sua riduzione, disposta dall'articolo 28 del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114;
   il citato articolo 28, nelle more del riordino del sistema delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, riduce l'importo del diritto annuale di cui all'articolo 18 della legge 29 dicembre 1993, n. 580, sulla base di quanto determinato per l'anno 2014 delle seguenti percentuali: per l'anno 2015, del 35 per cento, per l'anno 2016, del 40 per cento e, a decorrere dall'anno 2017, del 50 per cento, con una riduzione a regime di 400 milioni di euro circa delle entrate previste per gli enti post-riordino;
   ai sensi del comma 2 del citato articolo 28, le tariffe ed i diritti camerali sono fissati sulla base di costi standard definiti dal Ministero dello sviluppo economico, sentite la Società per gli studi di settore (SOSE) spa e l'Unioncamere, secondo criteri di efficienza da conseguire anche attraverso l'accorpamento degli enti e degli organismi del sistema camerale e lo svolgimento delle funzioni in forma associata;
   la nuova geografia della rete camerale definita dal citato articolo 10 della legge delega in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche prevede, al comma 1, lettera b) 1a ridefinizione delle circoscrizioni territoriali, con riduzione del numero dalle attuali 105 a non più di 60 mediante accorpamento di due o più camere di commercio, e la possibilità per singoli enti di non essere accorpati nel caso in cui siano contraddistinti da numeri superiori alla soglia dimensionale minima prevista di 75.000 imprese iscritte nel registro delle imprese;
   il diritto annuale costituisce un'entrata attraverso la quale viene assicurata gran parte della dotazione finanziaria necessaria all'espletamento delle funzioni demandate al sistema camerale; pertanto, gli effetti derivanti da una riduzione del suddetto diritto, rischiano di produrre ricadute significative sulla tenuta occupazionale degli enti del sistema camerale;
   appare opportuno accompagnare tale processo di razionalizzazione con un percorso di revisione e di efficientamento del modello organizzativo camerale, che faccia leva sulla metodologia dei costi standard;
   dall'analisi sviluppata da Unioncamere relativa ai dati sul diritto annuale effettivamente riscosso nel 2013, risulterebbe che il risparmio medio nominale per ciascuna impresa pagante, a seguito della riduzione al 50 per cento, sarebbe pari a 94 euro ed il risparmio medio effettivo (tenendo conto della deducibilità fiscale del diritto) sarebbe quindi pari ad effettivi 63 euro;
   tra le azioni da mettere in pratica, oltre al citato accorpamento, è prevista, ai sensi del citato articolo 10, la ridefinizione di compiti e funzioni delle nuove camere di commercio, che non dovranno in nessun caso sovrapporsi ad altre funzioni pubbliche e che saranno vagliate dal Ministero dello sviluppo economico sulla base di definiti «standard nazionali di qualità dei servizi», prevedendo inoltre che il perimetro di funzioni e servizi debba poi definire i criteri di gestione della transizione al nuovo, compreso il trattamento del personale dipendente, che è di circa 7 mila addetti cui si aggiungono i 3 mila delle aziende speciali controllate (le quali ultime verranno invece riordinate con l'applicazione del nuovo testo unico sulle società partecipate);
   da agenzie di stampa si apprende l'ipotesi di un taglio all'organico attuale del 15 per cento, che riguarderebbe nella sostanza 1000 figure professionali, visto che il personale alle dirette dipendenze del sistema camerale è di circa 7 mila persone;
   questa riduzione degli organici che dovrebbe portare a risparmi di spesa grazie alla razionalizzazione degli uffici che svolgono funzioni di supporto e strumentali o che, a seguito della riforma, rappresenterebbero duplicazioni o sovrapposizioni di compiti, rischia di provocare una dispersione di profili altamente professionali;
   le camere di commercio sono state un riferimento importante per le imprese, contribuendo al perseguimento di obiettivi di qualità e competitività ed al tempo stesso di trasparenza e legalità del sistema delle imprese stesse, oltre a svolgere importanti funzioni giuridico-amministrative;
   è importante che la riduzione del diritto annuale sia comunque gestita in modo tale da assicurare, tra l'altro, il funzionamento del registro delle imprese mantenendo gli standard di qualità, in ogni camera di commercio d'Italia –:
   se il Governo non ritenga necessario istituire un tavolo di confronto per valutare la possibilità di definire in accordo con Unioncamere specifiche priorità cui indirizzare risorse ed attività, individuate con il coinvolgimento dei mondi economici ed istituzionali;
   se non ritenga necessario assumere iniziative ulteriori per tutelare i profili attualmente attivi nelle camere di Commercio, al fine di evitare la dispersione di professionalità con conseguente rischio di minore sostegno alle imprese. (5-08410)

Interrogazioni a risposta scritta:


   GIANLUCA PINI. — Al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   ai sensi dell'articolo 3, comma 7, del decreto legislativo n. 261 del 1999, come modificato dall'articolo 1, comma 276, della legge 23 dicembre 2014, n.190, e della delibera dell'Agcom 395/15/CONS, in un'ottica di ottimizzazione dei processi di lavorazione della corrispondenza, a partire dal corrente mese è in corso l'implementazione progressiva in ulteriori aree del territorio nazionale della cosiddetta fase II del nuovo modello di recapito della posta a giorni alterni, già avviato in alcune località a partire dallo scorso mese di ottobre (fase I);
   nello specifico, in 86 comuni dell'Emilia Romagna la consegna della corrispondenza dovrà avvenire a giorni lavorativi alterni, dal lunedì al venerdì su base bisettimanale (lunedì, mercoledì e venerdì in una settimana – martedì e giovedì in quella successiva);
   secondo quando riportato dalla stampa locale e denunciato dai sindacati, questo nuovo modello di gestione e recapito degli invii postali ha prodotto «centocinquanta quintali di lettere in giacenza in tutta l'Emilia Romagna» (il Resto del Carlino, 13 aprile 2016), depositi saturi, ritardi nelle consegne e centri di smistamento invasi da migliaia di lettere. Nelle città di Parma, Piacenza e Rimini si riscontrerebbero le maggiori criticità con cinquanta quintali di posta in giacenza nei due capoluoghi emiliani e nove in quello romagnolo;
   questi rallentamenti nelle consegne, sommati alla disposizione secondo cui tutta la corrispondenza deve passare nel capoluogo prima di essere smistata altrove (anche se la città di partenza e di destinazione coincidono), mettono in atto situazioni paradossali in cui una lettera viene consegnata a pochi chilometri di distanza anche 20 giorni dopo la spedizione;
   il provvedimento, adottato in un primo momento in fase sperimentale e poi esteso a decine di comuni emiliano-romagnoli, non è stato adeguatamente reso noto nei modi e nei tempi opportuni affinché cittadini, aziende ed enti locali ne fossero preventivamente a conoscenza e si adoperassero per adeguarsi e per limitare le ripercussioni negative sull'economia dei territori coinvolti;
   questa decisione di Poste Italiane, aggiunta alle altre che negli ultimi anni sono state assunte dalla società, conferma l'orientamento volto ad una logica del guadagno che punta su assicurazioni, Carte di credito, telefonia mobile e servizi finanziari in genere a scapito delle esigenze della collettività;
   l'impatto di questo nuovo modello di gestione potrebbe rivelarsi ancor più negativo in quei comuni montanti, situati in aree disagiate e in zone appenniniche lontane dai capoluoghi e scarsamente coperti dalla rete telematica per i quali il servizio di corrispondenza postale risulta essere di fondamentale importanza per i cittadini, soprattutto per le persone più anziane, e le aziende di queste comunità –:
   se non ritenga urgente farsi promotore di una momentanea sospensione del nuovo modello di gestione e recapito a giorni alterni portato avanti da Poste Italiane nei comuni dell'Emilia Romagna, in attesa di una concertazione fra la società e le parti coinvolte, così da poter valutare la portata dei disagi arrecati all'utenza, anche alla luce delle denunce sindacali e delle diffuse proteste sollevate da cittadini, aziende e addetti ai lavori. (4-12853)


   SCOTTO. — Al Ministro dello sviluppo economico, al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   l'articolo 24-bis del decreto-legge n. 83 del 2012, cosiddetto «decreto sviluppo», convertito dalla legge n. 134 del 2012, prevede che il cittadino che chiami un call center debba essere preventivamente informato sul Paese estero in cui l'operatore è fisicamente collocato e che venga messo nelle condizioni di poter scegliere che il servizio richiesto sia reso tramite un operatore collocato nel territorio nazionale;
   lo stesso articolo prevede anche che laddove sia un call center a contattare un cittadino, quest'ultimo venga preventivamente informato del Paese estero in cui l'operatore è fisicamente collocato;
   tali misure sono finalizzate da un lato alla protezione dei dati personali dell'utente, dall'altro alla tutela della concorrenza e dell'occupazione nelle attività svolte da call center;
   è cosa ormai risaputa e fatto notorio come i call center tendano ad eludere questa normativa limitandosi solo, e anche abbastanza di rado, ad informare con un messaggio preregistrato che la chiamata potrebbe essere inoltrata ad un operatore fisicamente collocato all'estero;
   non vi è chiarezza sulla precisa ubicazione dell'operatore e, soprattutto, non vi è alcuna possibilità di scelta per l'utente;
   come si può facilmente intuire, ciò comporta una distorsione del legale regime di leale concorrenza: delocalizzare il servizio implica un abbattimento dei costi e, dunque, un enorme vantaggio nella partecipazione alle gare a massimo ribasso rispetto a chi mantiene i propri call center aperti sul territorio italiano;
   in questo modo diventa preferibile per una qualsiasi azienda la delocalizzazione all'estero, poiché chi non delocalizza rischia di perdere occasioni di lavoro e, di conseguenza, di fallire;
   vittime sacrificali di tale dinamica sono, come troppo spesso accade, i lavoratori e le lavoratrici, costretti a perdere il lavoro per il ridimensionamento delle aziende in cui lavorano o per la delocalizzazione dei call center;
   i casi di procedure di mobilità per i lavoratori di call center sono sempre più numerosi e clamorosi: basti pensare alla vicenda relativa ad Almaviva Contact –:
   quali iniziative intendano assumere per quanto di competenza, al fine di garantire il rispetto dell'articolo 24, comma 4 e comma 5, della legge n. 132 del 2012 necessario a garantire il giusto regime di concorrenza previsto dall'ordinamento;
   quali iniziative intendano assumere, per quanto di competenza, per garantire la tutela dei diritti dei lavoratori dei call center. (4-12854)


   MINARDO. — Al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   il decreto-legge n. 223 del 4 luglio 2006, all'articolo 3, prevede disposizioni in materia di tutela della concorrenza nel settore della distribuzione commerciale. In particolare, il decreto-legge prevede che l'apertura degli esercizi commerciali possa avvenire senza alcuni limiti e prescrizioni tra cui quello relativo al rispetto degli orari di apertura e di chiusura, l'obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonché quello della mezza giornata di chiusura infrasettimanale;
   è opportuno che la chiusura degli esercizi commerciali possa avvenire, anche per coloro che esercitano la grande distribuzione di prodotti, nelle festività religiose al fine di tutelare la libertà di culto dei cittadini e quindi anche degli operatori commerciali garantita dall'articolo 19 della Costituzione italiana –:
   quali iniziative normative di competenza intenda adottare al fine di prevedere la chiusura degli esercizi commerciali, anche di quelli relativi alla grande distribuzione di prodotti, nelle festività religiose al fine di tutelare la libertà di culto dei cittadini e quindi anche degli operatori commerciali prevista dall'articolo 19 della nostra Costituzione. (4-12874)

Apposizione di una firma ad una interrogazione.

  L'interrogazione a risposta scritta Bruno Bossio e altri n. 4-12767, pubblicata nell'allegato B ai resoconti della seduta dell'8 aprile 2016; deve intendersi sottoscritta anche dal deputato Valiante.

Ritiro di una firma da una interrogazione.

  L'interrogazione a risposta scritta Villarosa e altri n. 4-12804, pubblicata nell'allegato B ai resoconti della seduta dell'11 aprile 2016; è stata ritirata la firma della deputata Grillo.

Trasformazione di documenti del sindacato ispettivo.

  I seguenti documenti sono stati così trasformati su richiesta dei presentatori:
   interrogazione a risposta scritta Dieni n. 4-04574 del 18 aprile 2014 in interrogazione a risposta orale n. 3-02190;
   interrogazione a risposta in Commissione Incerti n. 5-04686 del 10 febbraio 2015 in interrogazione a risposta orale n. 3-02189;
   interrogazione a risposta in Commissione Rizzetto ed altri n. 5-05033 del 13 marzo 2015 in interrogazione a risposta orale n. 3-02187;
   interrogazione a risposta in Commissione Carrescia ed altri n. 5-06449 del 23 settembre 2015 in interrogazione a risposta orale n. 3-02188;
   interrogazione a risposta in Commissione Dadone ed altri n. 5-06801 del 28 ottobre 2015 in interrogazione a risposta scritta n. 4-12869;
   interrogazione a risposta scritta Piras ed altri n. 4-11648 del 13 gennaio 2016 in interrogazione a risposta orale n. 3-02194;
   interrogazione a risposta in Commissione Simonetti n. 5-07703 del 9 febbraio 2016 in interrogazione a risposta orale n. 3-02186;
   interrogazione a risposta scritta Zolezzi ed altri n. 4-12675 del 30 marzo 2016 in interrogazione a risposta orale n. 3-02195;
   interrogazione a risposta scritta Zolezzi ed altri n. 4-12704 del 31 marzo 2016 in interrogazione a risposta orale n. 3-02196;
   interrogazione a risposta scritta Terzoni ed altri n. 4-12827 del 13 aprile 2016 in interrogazione a risposta orale n. 3-02191.

ERRATA CORRIGE

  Interrogazione a risposta in Commissione Romanini n. 5-08389 pubblicata nell'Allegato B ai resoconti della seduta n. 607 del 13 aprile 2016. Alla pagina 36550, seconda colonna, le righe quarantaquattro e quarantacinque si intendono soppresse.