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Resoconto dell'Assemblea

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XVII LEGISLATURA

Allegato B

Seduta di Giovedì 8 ottobre 2015

ATTI DI INDIRIZZO

Risoluzioni in Commissione:


   Le Commissioni III e VIII,
   premesso che:
    la ventunesima conferenza delle parti (COP21) della Convenzione-quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change – UNFCCC), che si terrà a Parigi dal prossimo 30 novembre all'11 dicembre 2015, desta grandi aspettative per il raggiungimento di obiettivi ambiziosi e di lungo periodo in materia di cambiamenti climatici, per la difesa dell'ambiente a livello globale, anche in vista del superamento degli accordi internazionali sul modello del Protocollo di Kyoto;
    ridurre in modo significativo le emissioni di anidride carbonica e abbassare il livello di surriscaldamento del pianeta rappresentano una delle maggiori sfide del XXI secolo;
    ci si attende che COP21 si concluda, dunque, con un accordo globale vincolante per tutti gli Stati (Usa e Stati emergenti compresi), volto a contenere la temperatura del pianeta entro i 2 gradi centigradi; e che impegni altresì gli Stati a ridurre le emissioni di CO2 anche mediante misure atte all'aumentare l'efficienza energetica nell'industria, nei trasporti, negli edifici e a incrementare gli investimenti in energie rinnovabili;
    un primo contributo in tale direzione è rappresentato dalle decisioni dell'Unione europea, che si è vincolata a obiettivi di riduzione delle emissioni di gas-serra entro il 2030 del 40 per cento in meno rispetto ai livelli del 1990, e a un 27 per cento di rinnovabili e di risparmio/efficientamento energetico in più entro il 2030: impegni approvati dal Consiglio europeo del 24 ottobre 2014, durante il semestre europeo a presidenza italiana;
    in considerazione del percorso negoziale volto al raggiungimento di nuovi obiettivi di riduzione di gas serra, nell'ambito del rinnovato accordo internazionale COP21 che dovrà entrare in vigore entro il 2020, è necessario attivarsi affinché sia prestata un'adeguata attenzione anche all'impatto dei cambiamenti climatici sulle regioni di montagna sulle popolazioni che vi abitano;
    le montagne, oltre a svolgere un ruolo significativo per lo sviluppo sostenibile a livello globale, in quanto fondamentali riserve di acqua, bacini di diversità biologica e culturale e fonti di prodotti essenziali, nonché beni primari per il sostentamento di tutti gli esseri viventi, rappresentano, al contempo, luoghi di grande rilevanza spirituale, ricreativa, turistica e storica;
    gli ecosistemi montuosi sono molto più fragili e facilmente deteriorabili di altri ecosistemi, anche per la particolarità del clima montuoso che, a parità di aumento medio delle temperature globali, maggiormente risente di tale incremento alle alte quote, dove il fenomeno si manifesta più intensamente che al livello del mare o delle pianure, con conseguenze ecologiche ed idrogeologiche importanti e che in, alcuni casi, potrebbero rivelarsi catastrofiche;
    come indicato nell'Agenda 21 e nel Rapporto di Rio + 20, «Il futuro che vogliamo», sono stati riconosciuti i benefici derivanti dalle zone di montagna come essenziali per lo sviluppo sostenibile a livello mondiale;
    le comunità di montagna sono depositarie di consolidate tecniche di produzione tradizionali e di conoscenze che, se adeguatamente tutelate e supportate, potrebbero essere di grande aiuto nell'adattamento ai cambiamenti climatici e nel garantire una maggiore resilienza di società ed ecosistemi;
    il surriscaldamento del pianeta e i cambiamenti climatici stanno minacciando la capacità degli ecosistemi montani di continuare a garantire acqua sufficiente sia per le comunità di montagna, che per quelle a fondo valle, mettendo a rischio di estinzione le molte specie endemiche, animali e vegetali, rendendo sempre più vulnerabili gli habitat di montagna, oltreché intere catene economiche e produttive, dall'idroelettrico al turismo, sino all'agricoltura di montagna;
    come evidenziato nel recente Report del WWF «Ghiaccio bollente», lo scioglimento dei ghiacci impatta sulla vita dell'intero pianeta, con particolare riferimento all'Artide, Antartide e ai ghiacciai alpini come Himalaya, Alpi, Patagonia, Alaska: il 40 per cento del pianeta è coperto da ghiacci e manti nevosi, un sistema di raffreddamento che, infrangendosi, a causa del riscaldamento globale, porterà a conseguenze molto pesanti per le risorse idriche di vaste aree del mondo;
    considerato anche che nel preambolo della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 1992 viene già riconosciuta la fragilità degli ecosistemi montuosi, particolarmente vulnerabili agli effetti negativi dei cambiamenti climatici, è ora nell'interesse dell'umanità intraprendere tutti gli sforzi necessari per proteggere tutte le zone di montagna del pianeta;
    considerato anche che il Mountain Partnership Secretariat, organizzazione all'interno del Dipartimento foreste della FAO, ha già richiesto – con il supporto di una petizione pubblica – al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e al Ministero degli affari esteri di inserire la montagna e il suo ruolo protettivo del clima e degli ecosistemi tra i temi della conferenza di Parigi sui cambiamenti climatici, in quanto le popolazioni montane sono fra le più povere ed affamate del mondo ed i cambiamenti climatici, da cui le montagne sono particolarmente colpite, determinano un aumento della loro indigenza costringendole spesso a spostarsi verso le pianure, abbandonando le loro montagne;
    si rende necessaria, dunque, una maggiore attenzione alla particolarità di tali ecosistemi, in considerazione del fatto che il cambiamento climatico, in molte zone di montagna sta avanzando più velocemente che in altre aree del mondo, creando forte preoccupazione per il crescere dei seguenti fenomeni:
     diminuiscono i mezzi di sussistenza delle popolazioni di montagna e la sicurezza delle comunità locali e dei visitatori, a causa di variazioni nelle precipitazioni, dell'aumento del numero di eventi climatici estremi, dello scioglimento del permafrost, della distruzione delle foreste necessarie per la protezione dalle valanghe e per stabilizzare i versanti;
     il rapido scioglimento dei ghiacciai, con la significativa riduzione della copertura nevosa, in molte parti del mondo, minaccia fonti d'acqua vitali, soprattutto durante la stagione secca, con effetti devastanti per le comunità locali e le popolazioni a valle, con conseguenze negative sulla sicurezza alimentare e sullo sviluppo economico a livello regionale;
     la perdita di biodiversità, per il fatto che piante e animali adattati agli ambienti montani sono molto sensibili e vulnerabili al mutare delle condizioni climatiche;
    durante il recente summit dei Ministri degli affari esteri del G7 a Lubecca (aprile 2015) dal titolo «Un nuovo clima per la pace: agire sui rischi di fragilità collegati al clima», cui ha fatto seguito il Vertice dei Capi di Stato e di Governo del G7 (Germania, giugno 2015) è stato presentato il rapporto studio-ricerca (commissionato dai medesimi ministri G7 ad un consorzio internazionale), il quale individua sette principali profili di rischio dell'impatto dei cambiamenti climatici sulle fragilità e il carattere interconnesso e sistemico di tali rischi; occorrerebbe, tuttavia, integrare tale rapporto anche alla luce della specifica vulnerabilità delle montagne che rischia di impattare in modo devastante sull'intero pianeta,

impegnano il Governo:

   ad attivarsi affinché, nell'ambito dell'accordo della nuova Convenzione-quadro delle Nazioni Unite (UNFCCC), che sarà sottoscritta dalla XXI Conferenza delle Parti (COP 21), prossimamente, a Parigi, si giunga alla definizione di impegni vincolanti per tutti gli Stati (Usa e paesi emergenti compresi), prevedendo altresì che le montagne siano adeguatamente incluse nei temi dei negoziati sul cambiamento climatico, nelle politiche di adattamento e mitigazione, menzionando in modo esplicito il valore delle montagne tra gli ecosistemi fragili, riconoscendo la loro elevata suscettibilità al cambiamento climatico e il loro rilevante impatto sul mantenimento di servizi ecosistemici vitali per tutta l'umanità;
   a incoraggiare tutti i Paesi partecipanti e le istituzioni internazionali, regionali e nazionali e le altre parti interessate, affinché adottino misure urgenti atte a migliorare le condizioni di vita delle popolazioni di montagna e a proteggere gli ecosistemi montani, promuovendo misure di adattamento, investimenti e politiche mirate, nonché a favorire studi internazionali ulteriori e specifici che tengano conto degli impatti dei cambiamenti climatici nelle zone di montagna;
   a favorire un'azione comune in tutte le sedi sovranazionali – tra cui la Conferenza sull'Agenda post-2015 e il Vertice umanitario mondiale del 2016 – al fine di ridurre i rischi del cambiamento climatico sui fragili ecosistemi di montagna, per rafforzare la cooperazione e sostenere il finanziamento dello sviluppo, in particolar modo dei paesi in via di sviluppo con fragili ecosistemi montuosi, anche integrando i sistemi di conoscenza tradizionali delle popolazioni indigene montane nelle strategie nazionali e internazionali di adattamento al cambiamento climatico, allo scopo di migliorare la conoscenza, lo scambio, la collaborazione transfrontaliera e la promozione delle migliori pratiche in materia cambiamento climatico nelle zone di montagna.
(7-00803) «Nicoletti, Borghi, Berlinghieri, Braga, De Menech, Stella Bianchi, Magorno, Oliverio, Amato, Arlotti, Beni, Bonomo, Carnevali, Cominelli, Dallai, Gadda, Giulietti, Gnecchi, Gribaudo, Manfredi, Sbrollini, Taricco».


   Le Commissioni XI e XIII,
   premesso che:
    la stagione che sta per congedarsi passerà tristemente alla storia come quella che ha comportato nelle nostre campagne il bilancio più pesante in termini di perdita di vite umane riaccendendo, quindi, prepotentemente i riflettori sul «caporalato», un fenomeno antico assimilabile ad un vero e proprio schiavismo del terzo millennio, che, nel tempo, ha subito una mutazione genetica che lo ha reso più difficile da identificare e da reprimere;
    in un mondo sempre più globalizzato, nel quale le interdipendenze tra fattori produttivi, la spinta al profitto e la competizione economica portano imprenditori poco avvezzi e senza scrupoli, soprattutto in periodi di recessione, a ridurre i costi di produzione ed a reperire manodopera a basso costo ed a condizioni fuori mercato, alto è il rischio che simili forme di «tratta», a scopo di sfruttamento della forza-lavoro, diventino una componente strutturale di determinati settori produttivi poco immuni alla pervasività di gruppi criminali organizzati (le cosiddette «agromafie»), sempre più protesi a sfruttare la vulnerabilità sociale dei lavoratori, specialmente di quelli migranti;
    tale contesto è stato fortemente condizionato anche dalla recente e rapida evoluzione del flusso migratorio che ha contribuito a segmentare il nostro mercato del lavoro e ad accrescere il dualismo tra l'occupazione regolare e quella sommersa;
    oggi il «caporalato» si presenta come un giro d'affari di alcune decine di miliardi di euro che, dalla sua originaria dimensione locale, ha dato vita al cosiddetto processo di «globalizzazione delle campagne», arrivando, con il suo esercito di lavoratori invisibili, a governare gran parte della filiera italiana di raccolta di frutta ed ortaggi;
    in tale contesto, pertanto, il Parlamento è chiamato ad adeguare un quadro normativo che, nonostante sia stato recentemente innovato grazie all'introduzione nel nostro sistema giuridico di una nuova fattispecie di reato, quella dell'intermediazione illecita e dello sfruttamento del lavoro (articolo 603-bis del codice penale), non si è rivelato capace di arginare un fenomeno che va estendendosi oltre i due tradizionali settori produttivi, come agricoltura ed edilizia, e sui quali è fino ad oggi proliferato, né tantomeno, contrastare la nuova minaccia rappresentata da forme evolute e complesse di dumping sociale;
    nel mutato contesto geopolitico degli ultimi anni, i Paesi del bacino del Mediterraneo hanno assunto un'impropria funzione di ammortizzatore sociale per tutti quei profughi che scappano dai conflitti che infiammano le loro patrie in cambio di qualsiasi forma di occupazione anche pericolosa e sottopagata;
    un proficuo impegno per combattere il fenomeno richiederebbe la messa in campo di interventi di riforma di ampia prospettiva, frutto di un approccio multidisciplinare, ed il coinvolgimento, nella loro fase di definizione, di diversi attori istituzionali e di autorevoli rappresentanti della comunità scientifica e sociale;
    nell'ambito di una riforma complessiva e di sistema è opportuno introdurre nel nostro ordinamento strumenti appropriati come l'individuazione degli «indici di congruità», ossia parametri che definiscono il rapporto tra la quantità del prodotto e la quantità delle ore lavorate, quale condizione per godere delle agevolazioni comunitarie, nazionali e regionali, dirette o indirette che siano; ciò, sia pure consentendo un motivato scostamento da parte delle imprese che ottimizzino i fattori della produzione, e quale strumento per indirizzare i controlli, al di fuori di ogni logica di casualità o peggio di arbitrarietà;
    è opportuno inserire, nei provvedimenti di concessione o nei capitolati di appalto o nei bandi con cui si concedono i finanziamenti, apposite clausole che dettino le modalità di revoca delle erogazioni ottenute, a seguito di attività ispettiva, che ne abbia accertato l'eventuale commissione del reato. È oltremodo pacifico che si debba tener conto dell'amplissima varietà di situazioni produttive al cui interno vanno definiti i singoli «indici di congruità», i cui scarti in percentuale sono il frutto della diversa combinazione dei fattori della produzione;
    gli «indici di congruità» rappresentano un importante intervento di politica economica, diretto a penalizzare e rendere sempre più marginali le imprese che fondano la propria competitività di impresa sulla riduzione illecita del costo del lavoro e sono utili al fine di costruire una statistica dell'occupazione regolare, con una banca dati integrata con il sistema delle regioni, con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali e con il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, con le università in cui sono svolti dottorati di ricerca su tali fenomeni, con i centri dell'impiego, con l'INPS e con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale;
    dal 1o settembre 2015 è divenuta operativa la «cabina di regia» in seno all'INPS che la presiede, denominata «Rete del lavoro agricolo di qualità», prevista dall'articolo 6 del decreto-legge n. 91 del 2014, convertito con modificazioni dalla legge n. 116 del 2014, alla quale possono partecipare le imprese agricole di cui all'articolo 2135 del codice civile in possesso dei seguenti requisiti:
     a) non avere riportato condanne penali e non avere procedimenti penali in corso per violazioni della normativa in materia di lavoro e legislazione sociale e in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto;
     b) non essere stati destinatari, negli ultimi tre anni, di sanzioni amministrative definitive per le violazioni di cui alla lettera a);
    appare evidente che l'adesione alla «Rete del lavoro agricolo di qualità» certifica che l'azienda è in regola con quanto disposto dal decreto-legge che l'ha istituita ed è pertanto meno soggetta a controlli rispetto a chi non vi ha aderito, una sorta di «bollino etico di qualità». Invero tali requisiti non sono sufficienti a tener fuori dai sistemi produttivi quelle aziende che praticano forme di sfruttamento del lavoro e della manodopera, come ampiamente dimostrato dal caso della bracciante agricola che la scorsa estate ha perso la vita nelle campagne di Andria (BAT) dove l'azienda per la quale lavorava era formalmente in regola;
    l'ultimo «Report» Istat sull'agricoltura, pubblicato lo scorso 2 settembre 2015, conferma l'importanza del lavoro agricolo di qualità e del valore, sociale ed economico di quelle aziende che puntano su più alti standard di tutela occupazionale;
    lo stesso «Report» evidenzia una forte crescita delle aziende multifunzionali e di quelle capaci di diversificare le fonti di reddito. L'occupazione tiene, e anzi risulta in aumento, nelle realtà più strutturate e innovative a riprova che il lavoro e l'impresa di qualità sono i binari su cui avviare una ripresa sostenuta e sana, capace di coniugare la competitività al consolidamento dei diritti dei lavoratori, una rappresentazione che conferma che, in tema di sfruttamento del lavoro, e di caporalato, è fondamentale dare piena attuazione alla rete del lavoro agricolo di qualità e rendere operative le articolazioni territoriali della «Cabina di regia»;
    la strada maestra è quella che passa per la valorizzazione, anche con meccanismi di premialità, delle imprese innovative, sane, strutturate, che intendono muoversi sul terreno del pieno rispetto delle regole, sottoscrivendo un rinnovato modello contrattuale per il settore agroalimentare per sostenere la crescita ed il lavoro, per affermare le ragioni dei diritti e delle tutele, per costruire un nuovo equilibrio tra impresa e lavoro,

impegnano il Governo:

   a dare piena attuazione alla «Rete del lavoro agricolo di qualità» di cui alla legge n. 116 del 2014, coinvolgendo tutte le articolazioni territoriali della «Cabina di regia», in primis enti territoriali e locali, al fine di rendere operative ed efficaci tutte le forme di intermediazione pubblica fra domanda e offerta di lavoro;
   a orientare e rafforzare, in modo collegiale, l'attività ispettiva, ed a rivedere i requisiti per l'iscrizione alla «Rete», mantenendo inalterato per un biennio il livello dei controlli ispettivi sulle aziende aderenti, coinvolgendo nella loro fase di definizione diversi attori istituzionali ed autorevoli rappresentanti della comunità scientifica e sociale;
   ad adottare, anche a livello nazionale, gli indici di congruità provvisori, come già definiti in alcune realtà regionali, con carattere di premialità, parametri atti a definire il rapporto tra la quantità e qualità dei beni e dei servizi offerti dai datori di lavoro, e la quantità delle ore lavorate, e, gradualmente nel tempo, adeguati con riferimento al settore di produzione ed alla realtà territoriale alla quale si riferiscono;
   a stanziare risorse adeguate da destinare al risarcimento dei danneggiati dal «caporalato» (vittime o loro superstiti);
   a prevedere per le pratiche virtuose misure premiali come: forme di reinserimento lavorativo per chi denuncia omissioni od irregolarità di aziende aderenti alla «Rete del lavoro agricolo di qualità»; riconoscimento di sgravi fiscali, agevolazioni all'interno delle misure dei Piani di sviluppo rurale e risorse continuative, a quelle aziende che prendono in carico, assumendolo, colui che denuncia;
   a studiare forme di trasporto pubblico o convenzionato che accompagnino i lavoratori e le lavoratrici sui luoghi di lavoro, anche tenendo conto della orografia del territorio;
   a procedere alla condivisione delle banche dati attualmente in uso all'INPS, con tutti gli altri componenti della «Rete del lavoro agricolo di qualità» ed ai centri per l'impiego, al fine di far emergere irregolarità ed elusione delle norme vigenti, consentendo, così, il puntuale monitoraggio del fenomeno.
(7-00800) «Zaccagnini, Airaudo, Placido».


   La I Commissione,
   premesso che:
    il Corpo nazionale dei vigili del fuoco rappresenta una struttura dello Stato ad ordinamento civile, che assicura anche servizi di difesa civile, di soccorso pubblico e di prevenzione ed estinzione degli incendi su tutto il territorio nazionale, nonché lo svolgimento di altre attività assegnate dalle leggi e dai regolamenti, secondo quanto previsto dal decreto legislativo n. 139 dell'8 marzo 2006;
    da diversi anni il Corpo nazionale dei vigili del fuoco, che tra l'altro svolge anche servizi di protezione civile, ai sensi dell'articolo 11 della legge 24 febbraio 1992, n. 225, vive una situazione di evidente difficoltà a causa della cronica carenza di personale;
    l'organigramma di tale Corpo è complessivamente composto da 3 grandi gruppi: i permanenti, i discontinui e i volontari; in particolare, le 2 ultime categorie di personale precario ammontano a circa 65.000 unità;
    i vigili discontinui sono tutti vigili del fuoco ex ausiliari che hanno effettuato il servizio di leva nel Corpo nazionale dei vigili del fuoco oppure iscritti nei quadri provinciali discontinui dopo il superamento di un corso di addestramento pratico della durata di 120 ore presso le strutture periferiche del Corpo nazionale dei vigili del fuoco;
    effettuano mediamente da 20 a 160 giorni di servizio attivo l'anno in periodi di 20 giorni rispettando la normale turnazione dei colleghi permanenti;
    questi uomini e donne dai 18 fino ai 45 anni di età e anche oltre, con centinaia di giorni e tanta esperienza alle spalle sono impiegati giornalmente in tutte le sedi di servizio operative sempre in prima linea con i colleghi permanenti per limitare la fortissima carenza di organico che insiste nel Corpo nazionale dei vigili del fuoco;
    i commi 519, 523 e 526 dell'articolo 1 della legge n. 296 del 2006 (legge finanziaria 2007) hanno disciplinato la stabilizzazione del precariato nel Corpo nazionale dei vigili del fuoco;
    il Governo Prodi con l'articolo 3, comma 90, della legge n. 244 del 2007, legge finanziaria per il 2008, promosse una normativa con lo scopo di stabilizzare il precariato nel pubblico impiego, prevedendo la possibilità di ammettere alla procedura di stabilizzazione di cui all'articolo 1, comma 526, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, anche il personale che aveva conseguito i requisiti di anzianità di servizio ivi previsti in virtù di contratti stipulati anteriormente alla data del 28 settembre 2007;
    tra i requisiti per l'assunzione nel mondo del precariato dei vigili del fuoco vi è che il personale in questione debba essere iscritto negli appositi elenchi di cui all'articolo 6 del decreto legislativo 8 marzo 2006, n. 139, da almeno tre anni, che abbia effettuato non meno di 120 giorni di servizio e che abbia una età non superiore ai 37 anni;
    il regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 febbraio 2004, n. 76, recante disciplina delle procedure per il reclutamento, l'avanzamento e l'impiego del personale volontario del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, all'articolo 6, comma 1, lettera d), prevede, quale requisito anagrafico per l'iscrizione all'elenco del personale volontario un'età non inferiore a 18 anni e non superiore a 45 anni;
    l'articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea – richiamata dai Trattati – dispone il divieto di qualsiasi forma di discriminazione fondata «, in particolare, su... (omissis) l'età ...» e l'articolo 2, paragrafo 2, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000 definisce come «discriminazione diretta» il caso in cui «sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all'articolo 1 [religione, convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali], una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga»;
    se, da un lato, a livello europeo si è più volte sancito la illegittimità delle normative che fanno espressamente riferimento a limiti d'età per l'accesso ai concorsi pubblici nella pubblica amministrazione, dall'altro, si è convenuto, con alcune sentenze note, di ritenere legittima apposizione di un limite d'età per l'accesso a particolari professioni, quali le Forze armate e di polizia e i Corpi dei vigili del fuoco, se questa è atta a «garantire il carattere operativo ed il buon funzionamento». A tal fine, il considerando 18 della direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000 testualmente poneva come limite alla propria applicazione, l'effetto di «costringere le forze armate nonché i servizi di polizia, penitenziari o di soccorso ad assumere o mantenere nel posto di lavoro persone che non possiedano i requisiti necessari per svolgere l'insieme delle funzioni che possono essere chiamate ad esercitare, in considerazione dell'obiettivo legittimo di salvaguardare il carattere operativo di siffatti servizi»;
    tuttavia, è recente la sentenza della Corte di giustizia dell'Unione europea nella causa C-416/13, la quale ha rilevato che sebbene «secondo una costante giurisprudenza, il possesso di capacità fisiche particolari è una caratteristica legata all'età», nulla consente di affermare che l'obiettivo di garantire il carattere operativo e il buon funzionamento dei Corpi di polizia (nel caso di specie) sia raggiunto dal mantenimento di un simile limite per l'accesso ai concorsi pubblici, e nulla dimostra che le capacità fisiche richieste siano necessariamente collegate ad una fascia predeterminata d'età;
    in passato, in più occasioni, si è scelto di derogare al limite di età, in particolare, con la legge 31 marzo 2004, n. 87, recante «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 gennaio 2004, n. 24, recante disposizioni urgenti concernenti il personale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, nonché in materia di accise sui tabacchi lavorati» (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 78 del 2 aprile 2004), per Lipari il limite di età venne abrogato, poiché i partecipanti erano vigili discontinui; un altro esempio è il concorso straordinario a 25 posti nella qualifica di vigile del fuoco, riservato al personale in possesso dell'abilitazione di cui all'articolo 3 della legge 23 dicembre 1980, n. 930, per la società operante presso lo scalo aeroportuale di Cuneo Levaldigi bandito nel 2006, anche questo senza limiti di età,

impegna il Governo:

   a definire un programma di potenziamento del Corpo dei vigili del fuoco, attingendo prioritariamente dal bacino degli operatori volontari e discontinui, prevedendo il riconoscimento dei periodi di servizio maturati da tali lavoratori e, in coerenza con la più recente giurisprudenza comunitaria, assumendo iniziative per il superamento degli attuali limiti anagrafici, anche attraverso la previsione di apposite prove di idoneità psicofisica che ne garantiscano la piena operatività nelle prestazioni di servizio o l'eventuale collocazione, anche con mansioni diverse, all'interno del quadro di attività legate al Corpo dei vigili del fuoco;
   a favorire, per quanto di competenza, processi di ricollocazione del suddetto personale presso le imprese private operanti nel settore delle attività antincendio, a tal fine attivando un'apposita sede di confronto con le organizzazioni sindacali dei lavoratori e di rappresentanza dei datori di lavoro.
(7-00799) «Piccione, Zappulla, Capodicasa».


   La III Commissione,
   premesso che:
    dal 26 marzo 2015 il regno dell'Arabia Saudita, coadiuvato da altri otto Paesi arabi (Egitto, Marocco, Sudan, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Qatar e Bahrein) con armi fornite dall'Occidente, sta conducendo attacchi aerei incessanti su città e villaggi yemeniti, su richiesta da parte del presidente yemenita Hadi fuggito a Riad per l'avanzata dei ribelli Houti. L'azione militare è stata avviata senza autorizzazione da parte dell'Onu;
    solo dopo tre settimane, il 14 aprile 2015, il Consiglio di sicurezza si è pronunciato, con la controversa risoluzione n. 2216 che in sé non avalla l'intervento, ma nemmeno lo condanna, né chiede un cessate il fuoco, limitandosi a condannare l'azione degli Houti e a imporre un embargo alle armi nei loro confronti;
    il 15 giugno 2015 sono ripresi i negoziati a Ginevra, ma questo non ha portato a una tregua nei bombardamenti; già nei primissimi giorni di marzo, peraltro, era stato colpito un campo profughi a Mazraq, con decine di morti civili;
    a testimonianza dell'uso indiscriminato della violenza, risultano emblematici due attacchi da parte dell'Arabia Saudita, avvenuti il 28 settembre 2015, che hanno visto il massacro di 135 civili durante la celebrazione di un matrimonio nei pressi della città yemenita di Mocha;
    secondo gli ultimi dati rilasciati dalle Nazioni Unite, i morti sono oltre 2.300, per la maggior parte civili. Decine di migliaia gli sfollati. Sono stati bombardati e distrutti quartieri della Città vecchia di Sana'a;
    i bombardamenti a guida saudita appaiono indiscriminati e configurerebbero crimini di guerra come evidenziato da un rapporto di Amnesty International datato 7 ottobre 2015 che denuncia in modo netto l'esistenza di prove schiaccianti di crimini di guerra attribuibili alla coalizione a guida saudita, armata anche dagli Stati Uniti, sottolineando la necessità di aprire un'inchiesta indipendente sulle violazioni dei diritti umani, nonché l'immediata cessazione di ogni trasferimento di armamenti all'Arabia Saudita;
    in Yemen, secondo quanto dichiarato dal segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon nel corso dell'ultima assemblea generale dell'Onu tenutasi a New York il 28 settembre 2015, 21 milioni di persone (l'80 per cento della popolazione) hanno bisogno di aiuti umanitari urgenti di cibo e carburante necessario a far funzionare i pozzi della poca acqua potabile;
    a margine dei lavori della stessa Assemblea dell'Onu di New York, il Ministro degli esteri del regime saudita, Al-Jubeir, ha minacciato un'azione militare in Siria che avrebbe come obiettivo la destituzione di Bashar Al-Assad e ha promesso nuovi aiuti ai cosiddetti «ribelli moderati», in realtà terroristi di Al-Nusra;
    vista la situazione di caos, sul territorio siriano si sono sviluppate, grazie anche al supporto logistico, finanziario e di armamenti dell'Arabia Saudita, le organizzazioni terroristiche di Jhabbat al-Nusra, filiale di al-Qaeda in Siria e il sedicente Stato islamico dell'Iraq e del Levante, ISIS;
    la Siria, dal 15 marzo 2011, vive una terribile guerra per procura alimentata da terroristi provenienti da 89 Paesi, dove, finora, sono morte più di 250.000 persone tra civili e militari;
    sono passati 25 anni dall'approvazione della legge 185 del 1990 che prevede il divieto di esportazione di armamenti verso i Paesi in stato di conflitto armato, la cui politica contrasta con l'articolo 11 della Costituzione italiana, Paesi sotto embargo totale o parziale delle forniture belliche da parte dell'ONU o dell'Unione europea, Paesi responsabili di accertate gravi violazioni alle Convenzioni sui diritti umani, Paesi che, ricevendo aiuti dall'Italia, destinano al proprio bilancio militare risorse eccedenti le esigenze di difesa del Paese. Vengono inoltre impedite le vendite di armi in contrasto con gli impegni internazionali dell'Italia, i fondamentali interessi della sicurezza dello Stato e della lotta contro il terrorismo, il mantenimento di buone relazioni con altri Paesi e quando dovessero venire a mancare adeguate garanzie sulla definitiva destinazione dei materiali (le cosiddette triangolazioni);
    secondo l'ultimo rapporto di PressEnza, i Paesi membri dell'Unione europea (la Francia in particolar modo) esportano armi all'Arabia Saudita per un valore complessivo di 3,5 miliardi di euro. Nello specifico del nostro Paese, negli ultimi 5 anni il maggior acquirente delle armi «made in Italy» risulta essere proprio l'Arabia Saudita con quasi 300 milioni di euro di esportazioni autorizzate nel 2013;
    alla luce delle violazioni internazionali dell'Arabia Saudita, nel corso dei primi sei mesi del 2015, la Germania, la Svizzera e la Svezia hanno bloccato la vendita di armi alla monarchia saudita,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative finalizzate a interrompere immediatamente la vendita di armi all'Arabia Saudita nel rispetto della legge 185 del 1990;
   a farsi promotore, in sede europea, di ogni iniziativa utile a bloccare l’export di armi verso la monarchia saudita;
   a chiedere, in sede Onu, l'istituzione di una commissione d'inchiesta internazionale indipendente che faccia luce sulle gravi violazioni di diritti umani e crimini di guerra commessi dalla coalizione a guida saudita in Yemen.
(7-00801) «Manlio Di Stefano, Del Grosso, Di Battista, Grande, Scagliusi, Sibilia, Spadoni».


   La IX Commissione,
   premesso che:
    l'articolo 8 della legge n. 124 del 2015, delega il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi per modificare la disciplina vigente in materia di autoveicoli nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi:
     riorganizzazione delle amministrazioni competenti in materia di autoveicoli anche mediante trasferimento delle funzioni svolte dagli uffici della Presidenza del Consiglio dei ministri, dei Ministeri, delle agenzie governative nazionali e degli enti pubblici non economici nazionali;
    il predetto articolo 8, comma 1, lettera d) prescrive, con riferimento alle amministrazioni competenti in materia di autoveicoli:
     riorganizzazione, ai fini della riduzione dei costi connessi alla gestione dei dati relativi alla proprietà e alla circolazione dei veicoli e della realizzazione di significativi risparmi per l'utenza, anche mediante trasferimento, previa valutazione della sostenibilità organizzativa ed economica, delle funzioni svolte dagli uffici del Pubblico registro automobilistico al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, con conseguente introduzione di un'unica modalità di archiviazione finalizzata al rilascio di un documento unico contenente i dati di proprietà e di circolazione di autoveicoli, motoveicoli e rimorchi, da perseguire anche attraverso l'eventuale istituzione di un'Agenzia o altra struttura sottoposta alla vigilanza del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica; svolgimento delle relative funzioni con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente;
    con il trasferimento delle funzioni svolte dal PRA al MIT sarà possibile introdurre un'unica modalità di archiviazione e il rilascio di un documento unico contenente i dati di proprietà e di circolazione dei veicoli, nonché la semplificazione delle pratiche per i cittadini ed un risparmio di tempi e di costi legati alle pratiche per autoveicoli, motoveicoli e rimorchi. Si tratta di una misura attesa da oltre un decennio, più volte sollecitata da milioni di automobilisti, dalle Associazioni dei consumatori e degli autotrasportatori e dalla filiera dell'auto, e che consentirà di superare le anomalie «tutte italiane» di avere due soggetti pubblici che producono due documenti (proprietà e circolazione), duplicazioni inutili e costose, da superare urgentemente per giungere ai procedimenti vigenti in tutti gli altri Paesi;
    mentre il Governo si appresta ad emanare i decreti legislativi attuativi, per realizzare un solo organismo pubblico in capo al MIT competente in materia e un unico documento (la carta di circolazione prevista dalla direttiva comunitaria 1999 – 37 CE del 29 aprile 1999 che individua il veicolo e il proprietario), il Dipartimento per i trasporti e la navigazione e l'ACI, ente pubblico che gestisce il Pubblico Registro Automobilistico, intendono avviare autonomamente la smaterializzazione del doppio cartaceo e dei propri doppi processi ed in particolare che l'ACI da un lato pubblicizza l'avvio del processo di smaterializzazione dai primi giorni di ottobre e dall'altro, con dichiarazioni del presidente del sodalizio, esprime la propria contrarietà alla riforma e unificazione del sistema e la conseguente soppressione del PRA;
    pur essendo inalienabile il diritto di chicchessia di criticare le leggi approvate dal Parlamento e i conseguenti atti del Governo, appare tuttavia irragionevole che un ente pubblico possa annunciare e praticare comportamenti che vanno in palese contrasto con il dettato legislativo;
    va riaffermato con forza il primato della legge e della sua conseguente applicazione da parte di tutti,

impegna il Governo:

   ad adottare tutte le iniziative di competenza necessarie per pervenire effettivamente, in tempi brevi, al trasferimento delle funzioni svolte dagli uffici del Pubblico registro automobilistico al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti nonché alla conseguente introduzione di un'unica modalità di archiviazione finalizzata al rilascio di un documento unico contenente i dati di proprietà e di circolazione di autoveicoli, motoveicoli e rimorchi;
   a salvaguardare l'occupazione dei dipendenti del PRA con le dovute cautele e il passaggio delle funzioni e del personale presso le strutture sottoposte alla vigilanza del MIT, anche di eventuale nuova istituzione;
   a garantire ai proprietari di autoveicoli, motoveicoli e rimorchi, anche i risparmi dovuti all'eliminazione dei doppi documenti e della doppia imposta di bollo attualmente in atto;
   ad intervenire con immediatezza per far sospendere le procedure autonomamente decise dall'ACI e quelle annunciate dal Dipartimento per i trasporti e della navigazione, peraltro nel corso dell’iter di attuazione della legge, in quanto producono ulteriori aggravi ai cittadini e alla filiera dell'auto, mantenendo intatti i costi doppi a carico degli utenti.
(7-00802) «Pagani, Mura, Montroni, Gandolfi, Currò, Oliverio, Carloni, Mognato, Baruffi».


   La X Commissione,
   premesso che:
    la direttiva 2006/123/CE, nota come «direttiva Bolkestein», in materia di servizi nel mercato interno, è stata recepita dall'Italia con il decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, che provvede a regolare anche il settore del commercio su aree pubbliche;
    le disposizioni di cui al citato decreto legislativo, con l'obiettivo di salvaguardare l'impatto del commercio ambulante su aree pubbliche, introducono significative restrizioni all'accesso nel settore;
    l'articolo 16 (articolo 12 della direttiva europea), in particolare, oltre ad introdurre un limite al numero delle concessioni di posteggio utilizzabili nella stessa area, stabilisce, al comma 4, il divieto di rinnovo automatico dei titoli scaduti, creando serie difficoltà agli oltre 160.000 ambulanti che operano a livello nazionale, di cui circa 10.000 soltanto nei mercati regionali;
    l'equiparazione della nozione di «risorse naturali», sempre all'articolo 16, con quella di «posteggi in aree di mercato» risulta impropria ed ha avuto l'effetto di generare una forte concorrenza nel settore, questa non sostenibile per gli operatori ambulanti. Infatti, il suddetto articolo fa rientrare il suolo pubblico concesso per l'esercizio dell'attività di commercio ambulante su aree pubbliche nella nozione di «risorse naturali», assoggettandolo quindi alla procedura di selezione pubblica;
    alle suddette criticità si aggiungono quelle relative all'applicazione dell'articolo 70 del citato decreto legislativo, il quale riconosce l'accesso al settore anche alle società di capitali, rischiando di mettere fuori dal mercato le piccole aziende a conduzione familiare, che fino ad oggi hanno operato nel settore rendendolo fortemente competitivo;
    il 5 luglio 2012, ai sensi del comma 5, dell'articolo 70 del citato decreto legislativo n. 59 del 2010, è stata adottata un'intesa in sede di Conferenza unificata per la definizione della durata e del rinnovo delle autorizzazioni; in tale intesa, in particolare, viene stabilita la durata delle autorizzazioni da 9 a 12 anni e, soltanto in prima applicazione, viene data priorità al criterio della «professionalità acquisita». Essa, tuttavia, non supera del tutto le criticità di settore, continuando di fatto a far ricadere espressamente la fattispecie del commercio su aree pubbliche nell'ambito dell'articolo 12 della direttiva (articolo 16 del decreto legislativo n. 59 del 2012);
    l'articolo 52, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, come modificato dall'articolo 4-bis, comma 1, del decreto-legge 8 agosto 2013, n. 91, ammette, a seguito di un'intesa tra i competenti uffici territoriali del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, le regioni e i comuni, il riesame delle autorizzazioni e delle concessioni di suolo pubblico, con la finalità di tutelare le aree di particolare valore culturale, anche in deroga alle eventuali disposizioni regionali in materia, nonché ai criteri per il rilascio e il rinnovo della concessione dei posteggi per l'esercizio del commercio su aree pubbliche e alle disposizioni transitorie stabilite nell'intesa in sede di conferenza unificata del 5 luglio 2012;
   il proliferare degli interventi legislativi ha creato profonda incertezza per gli operatori di settore sia rispetto a quanto stabilito dalla normativa nazionale e regionale, antecedente all'adozione del decreto legislativo n. 59 del 2010, il quale ha rimesso in discussione, ad avviso dei firmatari del presente atto con una forzatura, la natura delle concessioni stesse, sia in merito all'intesa raggiunta in sede di conferenza unificata, arrecando un grave danno economico al settore in termini di riduzione di investimenti e di perdita di competitività,

impegna il Governo:

   a chiarire, con apposita iniziativa normativa, che i posteggi utilizzati per l'esercizio del commercio ambulante su aree pubbliche non rientrano nella nozione di «risorse naturali» e che le relative concessioni non sono soggette all'applicazione del comma 4 dell'articolo 16 del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59;
   ad assumere le necessarie iniziative normative per la modifica dell'articolo 70 del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, riservando l'attività del commercio al dettaglio su aree pubbliche esclusivamente alle imprese individuali e alle società di persone;
   a promuovere tavoli di confronto con le associazioni di categoria dei venditori ambulanti affinché siano al meglio risolte le problematiche da questi denunciate, anche al fine di mettere ordine alla normativa di settore per quanto concerne i criteri per il rilascio ed il rinnovo della concessione dei posteggi per l'esercizio del commercio su aree pubbliche, promuovendo, se necessario, apposite intese con le regioni e i comuni per una maggiore tutela degli interessi della categoria.
(7-00804) «Allasia, Caparini».

ATTI DI CONTROLLO

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI

Interrogazioni a risposta in Commissione:


   BARBANTI, ARTINI, BALDASSARRE, BECHIS, MUCCI, PRODANI, RIZZETTO, SEGONI e TURCO. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro della salute, al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   nel decreto n. 9 del 2 aprile 2015 dal titolo «Approvazione riorganizzazione della rete ospedaliera, della rete dell'emergenza urgenza e delle reti tempo dipendenti» a firma del commissario ad acta ingegnere Massimo Scura, un capoluogo di provincia calabrese sembra godere di peculiari diversità in relazione alle quali le comuni direttive paiono non applicarsi;
   i posti letto previsti dovrebbero essere 3 per mille abitanti, a Catanzaro con 90.840 abitanti se ne contano 902 che sono oltre il 9 per mille;
   la spending review ed il decreto n. 106 del 2011 prevedono espressamente l'eliminazione dei reparti doppi o tripli, mentre a Catanzaro, a quanto consta agli interroganti, si finanziano 3 reparti di chirurgia generale e di ortopedia (previsti: 1/100-200 mila abitanti); 2 reparti di chirurgia vascolare (previsti: 1/400-800 mila abitanti); 3 reparti di cardiologia con emodinamica (previsti: 1/300-600 mila abitanti); 2 reparti di cardiochirurgia, 2 di neurochirurgia e 2 di chirurgia plastica (previsti: 1/600 mila-1,2 milioni di abitanti);
   per essere HUB di una rete ospedaliera occorre che si venga riconosciuti come punto centrale della rete per esperienza ed attività; neanche questo vale per Catanzaro che viene indicata HUB della rete ictus anche se il suo ospedale non è autorizzato al trattamento trombolitico e deve trasferire quei pazienti – la cui variante temporale tra il tempo di intervento e l'insorgenza della malattia è fondamentale – che vengono mandati a Catanzaro e poi trasferiti al reparto di neurologia con stroke unit dell'ospedale di Vibo Valentia che è l'unico ospedale dell'area centro autorizzato dal 2006, è quello con la maggiore casistica per la regione Calabria e quindi avrebbe dovuto essere sicuramente indicato come HUB;
   non si conoscono quali modifiche si intendano apportare negli ospedali di Cetraro-Paola, di Castrovillari e di Rossano-Corigliano, ma si sa, invece, che il commissario ad acta avrebbe dovuto, nell'ospedale di Lamezia Terme, procedere all'attivazione immediata dei reparti di oculistica e otorinolaringoiatria che sono previsti nella dotazione degli spoke del decreto n. 9 e del reparto di neurologia che, anche se previsto nel decreto n. 18 del 2010, non è stato mai attivato e continua a non essere previsto nel decreto n. 9 firmato dal commissario Scura;
   non si è provveduto alla «Costituzione per ogni rete di un gruppo tecnico comprendente alcuni clinici, Direttori sanitari» previsto nel crono programma allegato al decreto n. 9 al punto 13.2.1. con scadenza entro il 28 febbraio 2014 né si è provveduto all’«Approvazione del documento costitutivo delle reti tempo dipendenti, trasfusionale» con scadenza entro il 31 marzo 2014;
   la mancanza di un documento tecnico alla base delle decisioni programmatiche ha comportato – oltre che la casistica di cui sopra, riguardante il reparto di neurologia con stroke-unit dell'ospedale di Vibo Valentia – il mancato completamento della rete politrauma sulla erronea motivazione della casistica non sufficiente per individuare l’HUB come «centro di alta specializzazione» che viene invece indicato genericamente come «fuori regione» con la conseguenza dell'impossibilità del trattamento adeguato della patologia;
   la rete cardiovascolare è stata addirittura stabilita con una delibera regionale (n. 728 del 4 novembre 2011) a seguito della nomina di una commissione tecnica –:
   sulla base di quali presupposti normativi siano stati adottati i provvedimenti del commissario ad acta ingegnere Scura che opera in Calabria la cui attività, ad avviso degli interroganti, non tiene adeguatamente conto delle decisioni del Consiglio di Stato e del TAR, impegnando fondi per reparti multipli e per posti letto in eccesso, sottraendoli alle rimanenti parti del territorio dove pure dovrebbero essere assicurati i LEA e non rendendo conto dei criteri impiegati per l'assegnazione dei budget;
   se i fatti esposti in premessa trovino conferma e, in tale ipotesi quali iniziative il Governo intenda adottare nei confronti del commissario ad acta Scura, valutando, se del caso, anche la rimozione dal ruolo, visti quelli che gli interroganti ritengono i deleteri risultati ottenuti sia sul terreno della spending review, che sul terreno della programmazione. (5-06611)


   PILI. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro dello sviluppo economico, al Ministro dell'economia e delle finanze, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   il cosiddetto «piano Sulcis» si è rivelato, come abbondantemente previsto dall'interrogante, un inganno a lunga scadenza;
   nessun progetto è stato avviato, niente cantieri, nessuna attività industriale ha ripreso la produzione;
   si tratta per l'interrogante di un fallimento totale;
   il Governo, insieme a dei veri e propri «proconsoli sulcitani» diffonde informazioni gravanti nascondendo, la realtà dei fatti: il «piano Sulcis» rivolta infatti all'interrogante un imbroglio su larga scala con Ministri di Stato e istituzioni regionali che secondo l'interrogante, di fatto coprono un vero e proprio inganno economico, occupazionale e politico dei lavoratori e di un intero territorio;
   non esiste un solo cantiere avviato, non esistono progetti approvati, le risorse in molti casi sono finite e in altre inesistenti;
   nel «piano Sulcis» il primo punto era la vertenza industriale: il risultato è stato per l'interrogante, catastrofico:
    hanno chiuso e niente di concreto è stato fatto per riaprire Alcoa;
    è stata decisa la chiusura di Carbosulcis;
   nulla ancora si intravvede per la ripartenza concreta di Eurallumina e Ila;
   prima del «piano Sulcis» c'erano in ballo 3.500 posti di lavoro nella sola filiera dell'alluminio primario;
   dopo il «piano Sulcis» si sono aggiunti i 1.000 lavoratori della Carbosulcis e i 600 della centrale Enel che vorrebbero dismettere da qui a poco;
   il «piano Sulcis» non ha creato nemmeno un solo posto di lavoro e ne ha fatto perdere altri 1.600;
   così come è confermato che non esistono da nessuna parte i 600 milioni di euro annunciati;
   si tratta di fondi inesistenti, inventati di sana pianta;
   nemmeno un progetto del fantomatico «Piano Sulcis» è stato avviato, le procedure per tutti i progetti risultano inesistenti e la Giunta regionale in carica cancella anche le poche risorse disponibili;
   in tre anni niente è stato fatto per risolvere le questioni fondamentali per il Sulcis, dal costo energetico alla ripresa produttiva del sistema industriale;
   siamo dinanzi al totale fallimento di un apparato politico che si è rivelato non solo incapace di affrontare le vertenze ma che non ha saputo nemmeno scongiurare le azioni speculative sulla testa dei lavoratori;
   occorre condurre un'operazione verità e di pretendere un piano serio e credibile;
   il report del Ministero dell'economia e delle finanze sul «piano Sulcis» redatto dall'UVER l'unità di verifica degli investimenti pubblici, è stato fin troppo chiaro sin dall'inizio;
   si tratta di documenti che attestano senza tema di smentita e il nucleo di verifica lo certifica, che il «Piano Sulcis» è per l'interrogante, un inganno;
   i report sulla questione non usano mezze parole: procedure inesistenti, progetti irrealizzabili, opere iniziate anni fa, e persino opere dichiarate concluse;
   dai report emerge un vero e proprio scandalo del quale sono complici tutti coloro hanno nascosto la verità;
   ad avviso dell'interrogante sussistono delle evidenti responsabilità politiche del Governo per la mancata attuazione del «piano Sulcis»;
   dagli stessi emerge un quadro di una gravità inaudita con l'evidente complicità di chi a tutti i livelli ha cercato di spacciare questo piano come una grande conquista –:
   se non intenda il Governo fornire chiarimenti circa lo stato dell'arte del cosiddetto «piano Sulcis», indicando con precisione le opere realmente cantierate, quelle in fase di realizzazione, le imprese che hanno ripreso l'attività produttiva e quanti posti di lavoro a generato dalla sua firma;
   se non ritenga indispensabile assumere iniziative normative volte a disporre provvedimenti adeguati a fronteggiare l'emergenza industriale economica e occupazionale del Sulcis;
   se non ritenga di dover stanziare risorse adeguate per rispondere all'emergenza Sulcis;
   se non ritenga di dover vagliare le condizioni oggettive delle realtà produttive ancora in essere nell'area, anche alla luce delle gravi ripercussioni dei mercati su alcune particolari realtà;
   se non ritenga necessario assumere iniziative normative urgenti per il Sulcis che consentano di affrontare e risolvere le questioni più rilevanti, dal costo energetico alle risorse necessarie, dalla bonifica ambientale all'infrastrutturazione del territorio. (5-06612)

Interrogazioni a risposta scritta:


   NESCI. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro della salute, al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   il 25 giugno 2015 commissario ad acta per l'attuazione del piano di rientro dai disavanzi del servizio sanitario regionale calabrese, Massimo Scura, ha approvato il decreto n. 66 inerente all’«appropriatezza d'uso dei farmaci e conoscenza del miglior profilo rischio-beneficio»;
   tale decreto recepisce quanto previsto dal DPGR n. 37 del 21 marzo 2014 («Misure di promozione dell'appropriatezza e dell'aderenza, razionalizzazione d'uso dei farmaci e relativo monitoraggio»), secondo cui si individua, riguardo agli inibitori della pompa protonica, «come target di riferimento regionale un consumo non superiore a 74,0 DDD*/1000ab./die»;
   la «DDD» (dose definita die) è il dosaggio giornaliero previsto dal foglietto illustrativo per una data patologia, che nel caso in questione è di una compressa al giorno (tranne casi particolarissimi);
   il decreto pone un limite al consumo dei farmaci in Calabria denominati inibitori di pompa protonica (IPP) di 74,0 dosi giornaliere su mille abitanti;
   ciò vuol dire che il consumo dei farmaci per le patologie acido-correlate (i cosiddetti gastroprotettori) in Calabria è consentito, in regime di rimborsabilità, a 74 calabresi su mille;
   si sta parlando di farmaci di primaria importanza utilizzati per l'ulcera duodenale, l'ulcera gastrica, reflusso gastroesofagee e per la prevenzione delle complicanze gravi del tratto gastrointestinale superiore nelle persone anziane (ma non solo) che assumono acido acetilsalicilico (cardioaspirina) a basse dosi per la prevenzione di eventi gravi di tipo cardio-cerebrovascolari;
   secondo uno studio dell'associazione «Mediass» che ha raccolto i dati dei loro oltre dodicimila assistiti a Catanzaro, vi sono ben 81 assistiti ultrasessantacinquenni per ogni mille assistiti che assumono la «cardioaspirina» e che quindi necessitano obbligatoriamente, per come impone l'AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco), della prescrizione degli IPP;
   si evince quindi che il limite imposto dal decreto n. 66 per questa categoria di farmaci, in regime di dispensazione del servizio sanitario nazionale, è abbondantemente sottostimata;
   a parere dell'interrogante quanto detto è di una gravità assoluta, se si considera anche che agli 81 assistiti su mille di cui sopra, si aggiungono: gli infrasessantacinquenni che possono aver diritto alla prescrizione, sempre in regime di dispensazione da parte del servizio sanitario regionale; gli assistiti, ultra e infra sessantacinquenni, che acquistano di tasca propria la cardioaspirina perché a causa delle compartecipazioni, dovute anche al piano di rientro sanitario cui è sottoposta la Calabria, il farmaco costa di più con la ricetta che senza; gli assistiti affetti dalle patologie acido correlate autorizzate alla prescrizione con il servizio sanitario nazionale dalla nota 48 dell'Aifa;
   è evidente che il succitato decreto censente cure soltanto ad una minima parte di cittadini calabresi che ne avrebbero diritto;
   questo degli IPP è soltanto la punta dell’iceberg più significativa della questione, ma nei decreti sopracitati vi sono imposizioni altrettanto significative che riguardano altre categorie di farmaci a larghissima diffusione;
   tutto questo è dovuto a meri calcoli ragionieristici che i Governi, nazionale e regionale, continuano ad applicare alla sanità calabrese. Infatti, il tetto succitato delle 74 DDD/1000ab./die è una pura media economica, in questo caso tratta dal dato «Sfera Italia 2013», che tuttavia non tiene conto c e in Calabria vi sono molti più malati, che non nel resto d'Italia, affetti da patologie (ipertensione arteriosa, diabete mellito, cardiopatie ischemiche e altre malattie cardiometaboliche) che necessitano della terapia con «cardioaspirina» e conseguentemente degli IPP –:
   se il Governo non ritenga di assumere iniziative con urgenza volte alla revoca dei provvedimenti commissariali sopra indicati, che, a giudizio dell'interrogante contrastano con la tutela del diritto alla salute di cui all'articolo 32 della Costituzione. (4-10671)


   MISIANI, CARNEVALI, GIUSEPPE GUERINI, SANGA e LOCATELLI. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro dell'interno, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   i conflitti in atto in numerosi paesi extraeuropei stanno spingendo milioni di persone ad abbandonare i propri luoghi di residenza per sfuggire alla violenza, alla fame, alla negazione dei diritti fondamentali dell'uomo;
   l'articolo 10, comma 3, della Costituzione prevede che «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge»;
   secondo il diritto internazionale presupposto per l'applicazione del diritto di asilo è la nozione di rifugiato internazionale, cioè di colui che direttamente o indirettamente sia stato costretto ad abbandonare la propria terra e a «rifugiarsi» in un altro Paese, chiedendovi asilo;
   la Convenzione sullo status di rifugiato delle Nazioni Unite di Ginevra (1951) è stata resa esecutiva per l'Italia dalla legge 722 del 1954;
   il riconoscimento del diritto di asilo trova fondamento, oltre che nella Convenzione di Ginevra, anche nella Convenzione di Dublino del 1990, ratificata dal Parlamento con la legge n. 523 del 1992;
   l'articolo 18 della Carta europea dei diritti fondamentali approvata dal Parlamento dell'Unione europea il 14 novembre 2000 e proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 dispone che «il diritto di asilo è garantito nel rispetto delle norme stabilite dalla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e dal Protocollo del 31 gennaio 1967 relativi allo status dei rifugiati e a norma del trattato che istituisce la Comunità europea»;
   il 10 luglio 2014 il Governo, le regioni e gli enti locali hanno raggiunto un'intesa in sede di Conferenza unificata sul piano nazionale per fronteggiare il flusso straordinario di cittadini extracomunitari, adulti, famiglie e minori stranieri non accompagnati;
   la circolare n. 14906 del 17 dicembre 2014 del Ministero dell'interno ha previsto la proroga nell'anno 2015 del piano nazionale con il coinvolgimento degli enti locali;
   il 6 agosto 2015 con protocollo 2127 è pervenuta all'ente parco dei Colli una nota da parte della prefettura di Bergamo — ufficio territoriale del Governo che rappresentava «la necessità di poter disporre, nell'immediato, di una struttura destinata ad accogliere da subito 30/40 migranti, tra quelli destinati alla provincia di Bergamo, nelle more del completamento delle attività di rito, finalizzate a rendere disponibili siti già individuati, ma al momento non attivabili, o a reperirne ulteriori», pregando l'Ente di valutare la possibilità di concedere con effetto immediato e per un periodo di 20/30 giorni l'immobile denominato «Ca’ della Matta», di proprietà dell'Ente e normalmente adibita, come da contratto di gestione con il consorzio di cooperative SOL.CO. Città Aperta, anche ad ostello;
   il giorno successivo l'assessore all'ambiente, energia e sviluppo sostenibile della regione Lombardia, Claudia Maria Terzi, è intervenuta pubblicamente giudicando inopportuna e illegittima l'ipotesi prospettata dalla prefettura, ribadendo la volontà della regione Lombardia di non favorire in alcun modo l'accoglienza dei richiedenti asilo e preannunciando una revisione della distribuzione dei fondi ai parchi regionali, anche quelli già assegnati ma non ancora impegnati, penalizzando tutti gli utilizzi non conformi con gli indirizzi regionali;
   il 10 agosto 2015 l'assemblea dei sindaci del Parco dei Colli ha deliberato a maggioranza di accogliere la richiesta della prefettura, concedendo in via eccezionale — senza altro onere per l'Ente Parco l'utilizzo della struttura Ca’ della Matta per le finalità sopra richiamate fino al 31 agosto 2015;
   il 31 agosto la prefettura con una nota inviata al Presidente del parco ha chiesto una proroga dell'utilizzo della struttura fino all'8 settembre;
   la Ca’ della Matta ha ospitato i profughi fino all'8 settembre;
   il 9 settembre il Parco dei colli ha ripreso possesso della struttura, senza che venisse riscontrata alcuna problematica per quanto riguarda lo stato dell'immobile;
   il 2 ottobre 2015 la giunta regionale della Lombardia ha approvato la deliberazione n. X/4109 del 2 ottobre 2015 recante «Criteri per l'assegnazione dei finanziamenti ai parchi regionali nell'ambito del programma ambientale di manutenzione straordinaria, recupero e riqualificazione del patrimonio naturale ed infrastrutturale nei parchi regionali — Triennio 2015/2017 — Modifica alla deliberazione di Giunta Regionale n. X/3463 del 24 aprile 2015»;
   nelle premesse la deliberazione evidenzia quanto segue: «Rilevato che nell'erogazione dei finanziamenti regionali ai parchi si debba tener conto, quale fattore penalizzante, degli “utilizzi impropri” del patrimonio affidato alla gestione dei parchi stessi, tra cui deve essere ricompreso anche l'utilizzo di infrastrutture dei parchi per il ricovero di richiedenti asilo»;
   nell'allegato 1 «Criteri di assegnazione» nel paragrafo «ammissibilità» la deliberazione recita che: «Non sono ammissibili a finanziamenti i progetti presentati da enti che a partire dal 2014 abbiano sottratto anche soltanto temporaneamente o parzialmente i beni affidati in gestione ad un utilizzo confacente alle finalità individuate alla L. R. 86/1983 e dallo Statuto del parco, consentendo usi impropri»;
   la deliberazione in questione fa seguito alla nuova legge regionale sul turismo, approvata dal consiglio regionale della Lombardia il 16 settembre 2015, che penalizza nei bandi di finanziamento regionale le strutture ricettive che in modo volontario danno accoglienza ai richiedenti asilo, scoraggiando gli albergatori lombardi che volessero mettersi spontaneamente a disposizione per iniziative di accoglienza;
   il 7 ottobre 2015 l'assessore alla sicurezza della regione Lombardia Simona Bordonali ha annunciato che verranno tagliati i contributi anche alle fondazioni che ospitano richiedenti asilo nelle loro strutture;
   l'accoglienza dei richiedenti asilo e protezione internazionale deve essere governato secondo il principio di leale collaborazione tra gli enti territoriali, le prefetture e il Ministero dell'interno;
   le iniziative della regione Lombardia richiamate nelle premesse hanno l'evidente finalità di scoraggiare la cooperazione con le prefetture nella gestione dell'emergenza profughi –:
   se il Governo sia a conoscenza di quanto sopra;
   se non ritengano di assumere ogni iniziativa di competenza per salvaguardare il diritto di asilo previsto dalla Costituzione e dalle convenzioni internazionali sottoscritte dall'Italia, assicurando il rispetto delle intese raggiunge con le regioni e gli enti locali per la gestione dell'afflusso straordinario di profughi. (4-10676)


   SCOTTO, PANNARALE e GIANCARLO GIORDANO. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   nel mese di febbraio 2015 il gruppo Mondadori ha inviato una manifestazione di interesse al gruppo RCS, concernente un possibile acquisto del settore libri ad esso riferito;
   dal mese di marzo hanno avuto dunque inizio trattative in esclusiva tra le due società, che, dopo numerosi rinvii, hanno avuto quale esito la vendita del settore libri della RCS alla Mondadori nei primi giorni di ottobre, per 127,5 milioni di euro;
   la casa RCS versava, infatti, in una condizione di grave crisi, con una soglia di 440 milioni di euro di debito netto da rispettare entro la fine di quest'anno, pena la necessaria ricapitalizzazione da parte degli azionisti;
   il gruppo RCS conta numerosi marchi al suo interno tra cui Rizzoli, Bompiani, Fabbri, Marsilio e, sino alla suddetta vendita, Adeplhi;
   la situazione venutasi a creare con la fusione tra i due gruppi ha creato un colosso editoriale, il maggiore in Italia, che si impone su una quota preponderante del mercato pari a più del 35 per cento, sfiorando circa la metà degli incassi totali del settore, con 558 milioni di euro su 1,2 miliardi;
   è evidente, dunque, come il gruppo Mondadori si trovi attualmente in una posizione dominante, tanto che è attesa una pronuncia dell'Autorità della concorrenza e del mercato circa un relativo, eventuale, abuso in tal senso, nonché i provvedimenti necessari ad arginare tale condizione;
   i due gruppi sono ben consapevoli di un possibile intervento del Garante della concorrenza e del mercato, come dimostrano le trattative notturne degli ultimi giorni. L'attuale accordo prevede che sia il gruppo Mondadori ad accollarsi i rischi dell'intervento dell’Antitrust, ricevendo in cambio uno sconto sul prezzo di acquisizione della RCS;
   il settore dell'editoria è particolarmente delicato, concernendo una componente fondamentale della cultura del nostro Paese;
   è allarmante, dunque, che si verifichino processi di concentrazione così ampi, che potrebbero compromettere il pluralismo e la libertà di espressione comportando uno svuotamento del ruolo delle case editrici, da sempre protagoniste del panorama culturale italiano;
   tra i principali rischi di tale processo si rintraccia la probabile, progressiva, omogeneizzazione della linea editoriale del gruppo RCS con quella del gruppo Mondadori, nonché la possibilità che un colosso di tali dimensioni condizioni in modo univoco l'andamento dei prezzi del settore;
   nel migliore dei casi si verificherebbe una perdita di identità che trasformerebbe le case editrici, da soggetti profondamente riconoscibili per storia, linea editoriale e scelte artistiche, in involucri vuoti;
   i processi di concentrazione e razionalizzazione si sviluppano, infatti, per questioni di redditività e profitto, che non sono e non possono essere l'unico parametro di relazione con il settore culturale ed editoriale, nel quale un ruolo profondo viene giocato anche dal lavoro formativo dei redattori e degli autori, nonché dalla sperimentazione;
   possibili ripercussioni sono attese, infatti, soprattutto sulle realtà indipendenti, di piccole dimensioni ma essenziali al pluralismo e alla cultura del nostro Paese;
   preoccupazioni destano anche i possibili risvolti del processo di fusione sui livelli e le condizioni occupazionali;
   il Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo Dario Franceschini si è detto preoccupato sin dall'avvio di tale processo, sostenendo come sia «troppo rischioso che una sola azienda controlli metà del mercato»;
   tale posizione, tuttavia, si è negli ultimi giorni ammorbidita, quando il Ministro di fatto ha affidato unicamente all’Antitrust il compito di vigilare sull'allarmante processo di concentrazione nel settore editoriale;
   la situazione di crisi del gruppo Rizzoli fa, tuttavia, emergere con urgenza alcune questioni relative al mondo della cultura, come la crisi dei grandi gruppi editoriali, ma, soprattutto, la mancanza di un progetto politico in grado di stimolare processi di «trasformazione sociale che permetta ai ceti subalterni di conquistare una nuova consapevolezza della cultura e una vita più ricca di quella dei consumatori di televisione», come ha sostenuto il saggista, critico letterario e storico dell'editoria Gian Carlo Ferretti in un articolo del 6 ottobre 2015 pubblicato sul quotidiano Il Manifesto;
   si ricorda come la legge 3 maggio 2004, n. 112, la cosiddetta «legge Gasparri», abbia modificato profondamente la normativa sui tetti antitrust, abrogando la previsione del tetto al 30 per cento in relazione alla concentrazione di proprietà in un singolo settore;
   risulta necessario, invece, scongiurare qualsiasi posizione dominante nel settore della cultura, dove il pluralismo è la cartina tornasole del buon funzionamento della democrazia –:
   quale sia la posizione del Governo circa quanto riportato in premessa;
   come il Governo intenda assicurare la tutela del pluralismo nei suddetti processi;
   quali iniziative intenda prendere il Governo per sostenere il mondo dell'editoria, soggetto attualmente a numerose pressioni che rischiano di comprometterne in modo drammatico la funzione culturale e sociale, privando il nostro ordinamento di un presidio essenziale alla democrazia. (4-10682)


   PESCO, ALBERTI, TRIPIEDI, FRUSONE, CASTELLI, SORIAL, BUSINAROLO, D'AMBROSIO, CANCELLERI, CRIPPA, L'ABBATE, DA VILLA, VILLAROSA, CARINELLI, NESCI, BATTELLI, ZOLEZZI, CIPRINI e COMINARDI. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro dell'economia e delle finanze, al Ministro della giustizia. — Per sapere – premesso che:
   il 23 settembre 2015 il Fatto Quotidiano on-line pubblica l'articolo intitolato Popolare di Vicenza, Adusbef: «Ostacolo a vigilanza? Salvagente per Bankitalia e Consob» - L'associazione dei consumatori e clienti bancari sostiene che l'ipotesi di reato contestata ai vertici «danneggia ulteriormente i risparmiatori». Mentre «dagli esposti presentati in questi anni emergono in tutta evidenza la truffa e l'estorsione» dove viene riportato «L'ostacolo alla vigilanza? È la classica ipotesi di reato che viene contestata in casi come quello della Popolare di Vicenza, di Veneto Banca, di Mps e di tutti i dissesti che riguardano banche e società quotate. «In realtà si tratta di un salvagente che viene lanciato in automatico a favore delle autorità di controllo e che danneggia ulteriormente i risparmiatori come dimostrano i tanti casi cui abbiamo assistito in questi anni». A dirlo è l'Adusbef che contesta alla procura vicentina di aver agito tardivamente nei confronti della Banca Popolare di Vicenza – «la nostra prima denuncia è del 2008» – e che chiede tutele per i risparmiatori e gli azionisti dell'istituto: «Dagli esposti presentati in questi anni emerge in tutta evidenza la truffa e l'estorsione ai danni dei clienti, indotti spesso ad acquistare i titoli della banca dietro la minaccia della mancata concessione di finanziamenti o della revoca degli affidamenti in essere – sottolinea l'associazione – Truffa ed estorsione sono reati che permetterebbero ai risparmiatori di promuovere class action e di costituirsi parte civile ai processi e consentirebbero ai magistrati di approfondire i comportamenti delle autorità di controllo che dovrebbero essere finalmente chiamate a rispondere della loro omessa vigilanza. Invece la contestazione del reato di ostacolo alla vigilanza permette alle autorità di controllo di presentarsi sempre come vittime, di costituirsi parte civile e di beneficiare de facto di una sorta di impunità, mentre i risparmiatori oltre al danno sono costretti a subire anche l'ennesima beffa». Ma non è questo l'unico rilievo mosso alla procura di Vicenza: l'Adusbef ha scritto una lettera indirizzata al Presidente della Repubblica, al Ministro della giustizia, al vice presidente del Csm e al presidente della Cassazione in cui denuncia «l'inerzia collusiva della procura di Vicenza», alla cui guida si sono succeduti cinque procuratori capo dal 1997. Procuratori che, secondo quanto denuncia l'Adusbef, hanno sistematicamente archiviato i procedimenti e le inchieste a carico del presidente della Popolare di Vicenza Gianni Zonin. In alcuni casi è poi emerso che alcuni magistrati o loro congiunti abbiano – ottenuto prestigiosi incarichi dalla banca vicentina: è il caso del procuratore Antonio Fojadelli, che è stato nominato amministratore di Nordest sgr, società di gestione controllata al 100 per cento da BpVi, e quello di Paolo Pecori, sostituto anziano reggente la procura tra il 2003 e il 2005 e tra il 2010 e il 2012, il cui figlio Massimo è divenuto uno degli avvocati della banca presieduta da Zonin ed esercita nel foro di Vicenza, lo stesso del padre. Nella lettera-denuncia Adusbef chiede «urgenti perquisizioni nelle sedi di Bankitalia e Consob per verificare come mai non siano mai intervenute per prevenire gestioni creditizie scellerate, essendo intollerabile che tali strapagati «Enti inutili» possano continuare a farla franca mentre viene dilapidato il pubblico, sudato risparmio». È ora, conclude la lettera, che «i vertici istituzionali di questo Paese ne prendano atto e assumano la responsabilità di fare cessare questa nefandezza»;
   lo stesso quotidiano, il 16 marzo 2015 riportava, un articolo dal titolo «Bankitalia, conflitti d'interessi del commissariamento preventivo Bene Banca – Nel caso dell'istituto di Credito Cooperativo di Bene Vagienna non c’è stata alcuna gradualità nell'azione di via Nazionale. Come ci si è arrivati è un altro mistero: dalla documentazione interna risulta una grande – confusione nelle operazioni di protocollo della procedura. E intanto gli emissari di Visco hanno proseguito le pratiche dei crediti facili anche contro il parere della Direzione crediti». Articolo già oggetto dell'interrogazione n. 4-08511 nella quale venivano duramente contestati i conflitti di interesse e le anomalie nella gestione della vicenda banca Popolare di Vicenza e Bene Banca, e l'assenza di controlli e azioni degli organi di vigilanza La banca di Credito cooperativo di Bene Vagienna vide commissario Giambattista Duso, il quale aprì un conto milionario presso BPVI, mentre continuava a essere amministratore delegato della Marzotto SIM, di cui BPVI divenne poi pure cliente: distogliendo decine di milioni di euro dalla liquidità di Bene Banca. Non solo. Nel comitato di sorveglianza nominato da Bankitalia per controllare l'operato del commissario straordinario spicca la figura del professor Giovanni Ossola: il quale per la «gravità oggettiva delle violazioni accertate» e per la «gravità soggettiva delle condotte poste in essere», era già noto alla Consob, che gli comminò una sanzione da 382 mila euro per Milano Assicurazioni («ripetute violazioni dell'articolo 149 del Testo Unico della Finanza, ossia dal non aver ottemperato con diligenza al proprio dovere di vigilanza... Le condotte omissive del collegio sindacale - si legge nel dispositivo Consob – hanno concorso a rendere concretamente inefficaci quei presidi che l'ordinamento prevede al fine di prevenire i rischi» su operazioni con parti correlate.»). A fronte di questo scandalo, nel febbraio 2014 Bankitalia procedette a sostituire Ossola dal consiglio di sorveglianza di Banca delle Marche (organo del quale era anche presidente), ma incredibilmente non da quello di Bene Banca, dove il professore ha operato fino al termine dell'amministrazione straordinaria. «Come detto, le motivazioni dell'amministrazione straordinaria non avevano a che vedere con la solidità patrimoniale dell'istituto... I problemi erano eventualmente di governance, legati ai litigi tra consiglio d'amministrazione e collegio sindacale e a «irregolarità amministrative e violazioni di norme regolanti l'attività bancaria». In sostanza – come ha scritto il Tar del Lazio – si è trattato di un commissariamento volto a prevenire l'instaurarsi di una situazione di crisi irreversibile. (...) Se Banca d'Italia dispone di tali potenzialità, perché mai le ha utilizzate solo nel caso della piccola banca di credito cooperativo di Bene Vagienna e non ad esempio per Mps, Veneto Banca e via dicendo ? MontePaschi, per dire, è una ferita aperta che è costata alla collettività parecchi miliardi di euro e di cui – obtorto collo – la collettività si troverà ad essere addirittura azionista, dovendo probabilmente il Tesoro convertire parte dei crediti in azioni il prossimo luglio.(...) Ora però, a quasi un anno dalla fine del commissariamento, la governance sembra perfetta, come dimostrano le sinergie parentali tra l'attuale presidente Piervittorio Vietti e suo cugino, il vicepresidente del Csm, onorevole Michele Vietti, che a luglio, a spese della locale banca di credito cooperativo ha promozionato il suo ultimo libro: «La governance nelle società di capitali. A dieci anni dalla riforma»;
   il 25 settembre 2015 il sito Veneto Vox pubblicava articolo dal titolo «BpVi annuncia bond al 9 per cento» che riportava «La Banca Popolare di Vicenza, nell'occhio del ciclone delle inchieste, ha annunciato l'emissione di un prestito obbligazionario subordinato (Tier 2) da 200 milioni di euro con un rendimento previsto del 9 per cento. La mossa risponde all'esigenza di migliorare il coefficiente patrimoniale (Total capital ratio) come chiesto dalla Bce (l'aumento di capitale  da 1,5 miliardi di euro previsto da BpVi infatti rafforza unicamente il “Core Tier 1”). Il bond ha durata decennale con opzione cali al quinto anno... Ma perché varare un bond dall'interesse così alto proprio nel bel mezzo della bufera? Secondo il Sole 24 Ore le risposte potrebbero essere due: o il bond è in realtà già garantito e sottoscritto a fermo dalle banche collocatrici, oppure, pressata dalla Bce, BpVi vuole togliersi “il dente” prima possibile»;
   il sito «Investire Oggi» scrive «Banca Popolare di Vicenza lancia bond high yield 11 per cento – Banca Popolare di Vicenza lancia un nuovo bond. Nonostante la bufera giudiziaria in corso che ha portato i vertici dell'istituto di credito vicentino sotto inchiesta per ipotesi aggiotaggio e ostacolo alle autorità di vigilanza, il sistema bancario italiano fa quadrato intorno a Bpvi. Così Banca Popolare di Vicenza ha dato mandato a Bnp Paribas e Unicredit per gestire l'emissione di un bond subordinato di tipo Tier2, a 10 anni in euro, callable dopo il quinto anno. Lo riferisce il servizio Reuters, aggiungendo che l'operazione avrà luogo oggi. Il rating atteso dell'emissione è BB- per Fitch. Secondo fonti vicine all'operazione, l'emissione dovrebbe avere un importo minimo di 200 milioni di euro, e una prima indicazione di rendimento al 11 per cento. Un tasso decisamente, fuori misura che però tiene in giusta considerazione il maggior rischio su questa categoria di bond. In base alla nuova normativa sul bail-in, in vigore dal prossimo primo gennaio, chi acquistasse le obbligazioni lanciate oggi potrebbe essere chiamato a subire perdite per garantire la ricapitalizzazione dell'istituto.
  Popolare di Vicenza ha perso più di 1 miliardo nel primo semestre.
  La banca veneta ha subito nel primo semestre dell'anno una perdita di oltre un miliardo di euro, che rende necessario un aumento di capitale fino a un miliardo e mezzo e c’è necessità di ricapitalizzare l'istituto poiché Bpvi è molto sottocapitalizzata. Non solo. Il lancio del bond subordinato high yield in fretta e furia ? sostengono gli analisti di Societé Générale - lascia intendere che il trimestre in corso potrebbe riservare altre spiacevoli sorprese e che la quotazione in borsa potrebbe anche saltare se non verranno ripristinati i requisiti patrimoniali minimi stabiliti dalla BCE. Il fatto, però, che Unciredit e BNP Paribas si siano offerti quali bookrunners per l'operazione potrebbe preludere a uno spezzatino della Popolare Vicenza con incorporazione delle attività più redditizie nei due gruppi bancari qualora l'inchiesta giudiziaria portasse a galla altri ammanchi di bilancio e l'aumento di capitale fosse rinviato»;
   il 6 ottobre 2015 L'Espresso, a firma Vittorio Malagutti titolava «Dalla Popolare di Vicenza soldi offshore per gli amici - A Roma gli investigatori stanno lavorando per ricostruire gli affari di due fondi con base in Lussemburgo, finanziati dall'istituto presieduto da Gianni Zonin. - Soldi, molti soldi. Centinaia di milioni di euro che hanno preso il volo dalla Popolare di Vicenza verso le più diverse destinazioni. A Roma gli investigatori del Nucleo speciale di Polizia Valutaria stanno lavorando da settimane per ricostruire gli affari dei fondi Optimum e Athena, entrambi con base in Lussemburgo e finanziati dalla banca presieduta da Gianni Zonin. A Optimum, come un'inchiesta de “l'Espresso” ha rivelato, fin dal giugno scorso, sono andati 250 milioni. Athena, che fa capo al finanziere Raffaele Mincione, ha invece ricevuto 100 milioni. Il sospetto è che almeno una parte di questo denaro sia stato impiegato per acquistare azioni della stessa Popolare di Vicenza. In sostanza la banca, a corto di compratori per i propri titoli, avrebbe parcheggiato pacchetti azionari importanti presso quei fondi lussemburghesi. I quali ovviamente non si muovevano a proprie spese. I soldi arrivavano sempre da Vicenza. Quella lista segreta. Dai documenti che “l'Espresso” ha potuto visionare emerge inoltre che i fondi Optimum hanno investito anche in obbligazioni e azioni di alcune aziende italiane. La lista comprende Maiora group e Fimco, che fanno capo alla famiglia di costruttori pugliesi Fusillo. Optimum ha finanziato anche la società Partecipazioni investimenti real estate e la Itanance, entrambe controllate dai Degennaro, pure loro pugliesi e costruttori come i Fusillo. A Roma invece i fondi hanno girato decine di milioni di euro a sigle legate alla galassia di Alfio Marchini, imprenditore da alcuni anni molto attivo anche in politica con una propria lista. Dai documenti ufficiali emergono i nomi di Methorios e di Imvest, due società di cui Marchini è stato ed è ancora azionista rilevante. I titoli sono stati materialmente sottoscritti da alcuni veicoli societari creati a Malta con il marchio “Futura, fund”. Questi ultimi, a loro volta, sono gestiti dalla Optimum di Lussemburgo. Che cos'hanno in comune Fusillo, Degennaro e Marchini, oltre ai rapporti con i fondi offshore di Optimum? A ben guardare, si scopre che tutti hanno legami d'affari con la Popolare di Vicenza. In passato hanno ricevuto prestiti dalla banca guidata da Zonin e hanno anche investito in azioni dell'istituto. Insomma, passando da Optimum, e dal Lussemburgo, si torna ancora nella città del Palladio. In base ai primi accertamenti, la quasi totalità del denaro ricevuto dal fondo viene dalle casse dell'istituto di credito vicentino. I fondi targati Optimum avrebbero quindi funzionato come una sorta di schermo utile a mascherare ulteriori finanziamenti da parte della Popolare. Adesso però il nuovo amministratore delegato della banca Francesco Torio pare deciso a tagliare i ponti con i fondi offshore. Intanto l'investimento è già stato svalutato: 100 milioni di perdite su 350 milioni investiti»;
   parere degli interroganti, Banca d'Italia non solo non ha espletato il suo ruolo di vigilanza, ma godendo della più totale indipendenza, non ha consentito di far emergere le responsabilità di Banca popolare di Vicenza impiegando in modo abnorme lo strumento del commissariamento (nel Caso di Bene Banca) o non usandolo proprio (per la stessa BPVi o il più eclatante dei casi, Monte dei Paschi di Siena), arrivando a consentire al management di BPVi di lanciare un altro bond con un rendimento del 9/11 per cento, tramite i soliti avvantaggiati colossi bancari, Unicredit e BNP Paribas che sembrerebbe abbiano ottenuto in cambio garanzie, a tutto svantaggio secondo gli interroganti dei già truffati piccoli soci e risparmiatori, che si vedranno sottrarre altri patrimoni, se non addirittura vittime di un palese e preannunciato bail-in, oltre a dover «dire addio» a una banca che era vicina al tessuto industriale locale, d'ora in poi sempre più in crisi;
   in diverse occasioni, sono state poste interrogazioni e interpellanze inevase o evase a giudizio degli interroganti in modo platealmente insufficiente, tra le quali si annoverano tutte quelle relative all’ex articolo 33 della legge di stabilità riguardante le garanzie collaterali per gli strumenti derivati del Tesoro, quelle relative al processo di Trani per lo scandalo del downgrade del rating del nostro Paese, quelle relative a Montepaschi, e ultime, quelle relative allo strano commissariamento di Bene Banca, coinvolta proprio nello scandalo della Banca Popolare di Vicenza sulla quale dal 2008 persistono esposti e denunce, ovvero le interrogazioni a risposta scritta del 13 gennaio n. 4/07506 e del 20 marzo 2015 n. 4/08511, entrambe ancora senza risposta;
   a questo punto vi è da chiedersi se non si rischi di trovarsi di fronte ad una proposta del Governo che, in sfregio ai più basilari diritti dei cittadini, quali ad esempio la possibilità di creare risparmio in sicurezza per garantire serenità ai propri familiari, vada nella direzione di una ulteriore revisione della Costituzione, che sostanzialmente, così come già fatto con la riforma del Senato, a parere degli interroganti, sia finalizzata solo a ridurre il potere democratico e rappresentativo dei cittadini, allo scopo di garantire la totale sovranità agli istituti di Credito, lasciando così di fatto liberi i tribunali da «inutili cause» e il cittadino conscio del proprio asservimento alle istituzioni finanziarie –:
   se il Governo intenda assumere iniziative, per quanto di competenza, per rivedere immediatamente il testo unico bancario e il testo unico finanziario in modo da impedire in futuro il ripetersi di tutte queste continue truffe ai danni dei risparmiatori garantiti, in teoria, dalla Costituzione, truffe perpetrate senza un adeguato e competente controllo degli organi di vigilanza;
   se non intenda invitare i vertici della Banca d'Italia e della Consob a dare le dimissioni in modo da agevolare un ricambio della governance delle suddette autorità indipendenti che, a giudizio degli interroganti non hanno esercitato in modo adeguato le proprie funzioni di controllo. (4-10686)

AFFARI ESTERI E COOPERAZIONE INTERNAZIONALE

Interrogazione a risposta in Commissione:


   BENI e QUARTAPELLE PROCOPIO. — Al Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   il visto per il ricongiungimento familiare di cittadini stranieri viene concesso dall'autorità consolare o diplomatica italiana previo nulla osta rilasciato dallo sportello unico per l'immigrazione presso la prefettura competente per il luogo di dimora del richiedente, e dopo aver accertato l'autenticità della documentazione comprovante i presupposti richiesti per l'accoglimento dell'istanza;
   la procedura per i titolari di protezione internazionale è di maggior favore e non prevede alcun requisito, se non il vincolo di parentela, per esercitare il diritto all'unità familiare e ricongiungere quindi i propri familiari (figli minori, coniugi, genitori ultra sessantacinquenni);
   per i titolari di protezione internazionale (status di rifugiato e protezione sussidiaria), consuetudine vuole che la maggior parte delle rappresentanze diplomatiche italiane all'estero chiedano, anche in presenza di documenti originali, il test del DNA da effettuare tramite l'Organizzazione internazionale per le migrazioni, con un costo pari a 300 euro, che diventa particolarmente gravoso da sostenere laddove i familiari da ricongiungere siano numerosi;
   l'ambasciata italiana ha tempo sei mesi per esaminare la documentazione richiesta per il rilascio del visto di ricongiungimento familiare, tempistica che coincide con la validità dei nulla osta emesso dalle prefetture;
   decorso il periodo di durata del nulla osta senza alcun pronunciamento da parte dell'autorità diplomatica, la procedura per la richiesta di ricongiungimento decade e i familiari devono presentare nuova richiesta alla prefettura competente per il rilascio di un nuovo nulla osta;
   le lungaggini delle procedure mettono in serio rischio l'incolumità delle persone da ricongiungere in quanto familiari di un titolare di protezione internazionale, per la quale lo Stato italiano ha riconosciuto il bisogno e quindi il diritto alla protezione;
   a quanto consta agli interroganti al numero verde per rifugiati e richiedenti asilo, gestito dall'associazione ARCI nazionale, sono arrivate numerose segnalazioni di enormi ritardi nelle pratiche di ricongiungimento familiare di cittadini somali presso l'ambasciata italiana a Nairobi;
   le richieste di ricongiungimento familiare, segnalate dall'Associazione, che risultano in sospeso presso tale ambasciata hanno tutte ottenuto il nulla osta necessario per il rilascio del visto, ma ad oggi l'autorità diplomatica non si è ancora pronunciata in merito all'accoglimento o meno dell'istanza;
   nonostante le richieste siano corredate da tutta la documentazione richiesta, ivi compreso il risultato positivo del test del DNA ove richiesto, non si comprendono i motivi del ritardo nel pronunciamento dell'autorità diplomatica italiana, che nella maggior parte dei casi supera di gran lunga un anno di attesa;
   inoltre, le segnalazioni ricevute dall'Associazione denunciano le numerose difficoltà riscontrate nell'ottenere un appuntamento per l'espletamento dell'istanza presso l'ambasciata, la quale si avvale di un'agenzia di intermediazione (VSF Global), e le ingenti somme che dovrebbero essere corrisposte spendere per i servizi che tale agenzia fornisce;
   l'immobilismo burocratico che blocca le pratiche di rilascio del visto di ricongiungimento e le notevoli risorse economiche necessarie per far fronte alle procedure richieste, senza che vi sia stato un pronunciamento da parte dell'autorità diplomatica competente, stanno di fatto costringendo i familiari dei richiedenti a rinunciare alle cosiddette «vie legali» per affidarsi ai trafficanti e raggiungere i propri cari mettendo a rischio la propria vita;
   l'ambasciata italiana a Nairobi, più volte contattata dall'Associazione a seguito delle numerose sollecitazioni, avrebbe motivato i ritardi relativi all'espletamento delle procedure di rilascio dei visti, attribuendoli ad un «sotto organico» che non permetterebbe di ottemperare alle richieste in tempi certi;
   alla luce degli impegni assunti dall'Italia e dalla stessa Unione europea nella lotta contro i trafficanti di esseri umani, l'operato dell'ambasciata italiana a Nairobi e le motivazioni che avrebbe fornito per giustificare i gravi ritardi burocratici che stanno bloccando numerose pratiche di rilascio dei visti per il ricongiungimento familiare, di fatto li disattendono, rischiando di favorire, seppur indirettamente, il ricorso alle vie illegali fortemente condannate dal nostro Paese –:
   se siano a conoscenza dei fatti espressi in premessa, e quante siano ad oggi le richieste di ricongiungimento familiare ancora in sospeso presso l'ambasciata italiana a Nairobi;
   quali siano le cause ostative che hanno generato i gravi ritardi nel rilascio dei visti per il ricongiungimento familiare da parte dell'ambasciata italiana a Nairobi, e in che modo intendano ovviare a questo ingiustificato immobilismo burocratico;
   in che modo intendano attivarsi al fine di far luce sulle difficoltà riscontrate nell'ottenere un appuntamento presso l'ambasciata italiana tramite la sopracitata agenzia di intermediazione e sulle tariffe da essa richieste per l'erogazione di tale servizio. (5-06614)

Interrogazioni a risposta scritta:


   D'ARIENZO. — Al Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   si ha notizia che fino a poco tempo fa l'Arabia Saudita risultava essere il maggiore destinatario extraeuropeo dell'esportazione di armamenti italiani con circa il 14 per cento delle commesse;
   dalle notizie pubblicate dalla stampa risulterebbero provenienti da privati cittadini residenti in Arabia Saudita, Qatar e Kuwait i maggiori contributi di armamenti riservati al sedicente. Stato Islamico e ad Al Qaeda, anche a causa della normativa presente in questi Stati;
   pare che la Germania abbia recentemente sospeso la fornitura di armi all'Arabia Saudita per motivi precauzionali, a causa dell'eccessiva instabilità della regi il decreto legislativo 22 giugno 2012, n. 105, che ha modificato la legge n. 185 del 1990 sul controllo dell'esportazione dei materiali di armamento, in attuazione e a direttiva 2009/43/CE, vieta l'esportazione di armi quando mancano adeguate garanzie sulla definitiva destinazione dei prodotti per la difesa (è prevista anche l'eventuale sospensione o revoca di autorizzazioni già concesse per gravi motivi nel frattempo subentrati –:
   se l'Arabia Saudita risulti essere ancora il maggiore destinatario dell'esportazione di armamenti italiani e in che misura;
   se in base alle informazioni in possesso del Governo, risulti che in Arabia Saudita, Qatar e Kuwait risiedano i cittadini che maggiormente riforniscono di armi il sedicente Stato Islamico e Al Qaeda, grazie ad una normativa eccessivamente «morbida» al riguardo in quei Paesi ed al conseguente trasferimento di armi a privati;
   se trovi conferma che la Germania abbia sospeso le forniture di armi all'Arabia Saudita per i motivi citati;
   se siano state svolte le operazioni di controllo sulle esportazioni di cui al decreto legislativo 22 giugno 2012, n. 10 che ha modificato la legge n. 185 del 1990, e quali siano stati gli esiti, oppure, nel caso non siano stati finora fatti controlli, se il Governo non ritenga di disporne.
(4-10667)


   CIRIELLI. — Al Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale. — Per sapere – premesso che:
   con atto di sindacato ispettivo n. 4-09032 del 4 maggio 2015, l'interrogante chiedeva delucidazioni su una anomala e irrituale azione di «pressione» del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale italiano che aveva portato alla revoca dell'ing. Alfredo Cestari a Commissario generale del Burundi per l'Expo 2015 a pochi giorni dall'inizio della manifestazione;
   in particolare, nell'atto si rilevava come, nonostante l'intensa e documentata attività dell'Ingegner Cestari nell'interesse delle imprese italiane, delle istituzioni pubbliche e dei Governi d'Africa affinché l'Expo di Milano potesse rappresentare per essi un'occasione di sviluppo economico bilaterale, in data 31 marzo 2015, a soli 30 giorni di distanza dall'apertura dell'Expo, il Ministro degli esteri burundese comunicava al proprio ambasciatore in Italia la sostituzione del Commissario con il suo vice;
   tale decisione veniva maturata in accoglimento di una precisa richiesta del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale italiano, così come emerso dalla comunicazione dell'omologo Ministero del Burundi del 31 marzo 2015;
   con risposta del 5 agosto il Ministro rilevava, innanzitutto, che nell'ottobre 2013, un mese prima della nomina a commissario generale, «l'ingegner Cestari, già console onorario della Repubblica Democratica del Congo, aveva sottoscritto una procura del commissario generale del Governo di Kinshasa che lo delegava a rappresentare quel Paese in tutte le fasi della programmazione, della definizione dei contenuti e della partecipazione all'esposizione universale di Milano, ivi compresa la riscossione di qualsiasi tipo di contributo e finanziamento che la società Expo 2015 avrebbe erogato per la partecipazione del Paese»;
   non risulta all'interrogante alcuna «procura» in tal senso, ma l'unico documento sottoscritto tra la camera di commercio ItalAfrica Centrale, in persona del suo presidente Alfredo Cestari, ed il commissariato generale di sezione della Repubblica democratica del Congo è il «protocollo d'accordo» per la partecipazione del Paese ad Expo 2015, accordo con il quale la Repubblica democratica Del Congo conferiva incarico alla camera di commercio ItalAfrica Centrale di assistere il Paese in tutte le fasi preparatorie e di svolgimento dell'importante manifestazione in programma;
   nella sua risposta il Governo precisa poi che l'ingegner Cestari risultava l'unico commissario generale per l'esposizione universale di Milano di cittadinanza italiana nominato da un partecipante straniero, motivo per cui l'Agenzia delle entrate avrebbe espresso riserve e perplessità;
   ferma restando l'irrilevanza dell'osservazione ai fini del quesito posto nell'atto di sindacato ispettivo, si osserva come la nomina dell'ingegner Cestari, pervenuta in ragione della grande fiducia personale e professionale che i vertici politici del Paese africano nutrivano nei confronti del professionista, risulti perfettamente in linea con la normativa in materia dettata dal Bureau International des Exposition;
   ad ulteriore riprova di ciò anche la Liberia aveva nominato un Commissario italiano nella persona del dottore Marco Conca, senza che tale nomina abbia mai ingenerato alcuna censura e/o contestazione da parte di Expo 2015 s.p.a. ovvero dai vertici del Ministero, come invece accaduto nel caso in esame;
   a dispetto di quanto affermato, ad avviso dell'interrogante, pretestuosamente ad oggi non risulterebbero evidenze formali di «riserve e perplessità» manifestate dall'Agenzia delle entrate sulla nomina dell'ingegner Cestari, che pure gode pienamente di tutti i diritti civili e politici, in ragione dell'estensione allo stesso del benefici previsti dalla normativa italiana per i commissari generali di Expo;
   secondo il Ministero i rapporti di conflittualità con l'Ingegner Cestari andrebbero ricondotti «non solo agli aspetti connessi all'organizzazione della partecipazione del Burundi ad Expo, ma anche al suo tentativo di accreditarsi come interlocutore della società organizzatrice per la partecipazione di diversi altri Paesi africani; tale interlocuzione è stata respinta dalla società alla luce del fatto che quei Paesi avevano regolarmente nominato i propri commissari generali, che sono gli unici interlocutori previsti dal «Bureau International des Exposition»”;
   quanto al primo aspetto non si comprende sulla base di quale specifico accadimento sarebbero insorti «rapporti di conflittualità» tra Expo 2015 s.p.a. e l'ingegner Cestari, posto che tra il commissariato generale di sezione diretto dall'ingegner Cestari ed il personale addetto da EXPO 2015 s.p.a. al Burundi esiste, a quanto consta all'interrogante, una fitta corrispondenza interamente tesa a concordare le modalità di partecipazione del Paese, senza che tali interlocuzioni siano mai sfociati in conflitti o in tensioni;
   con riferimento, invece, al secondo aspetto, sempre a quanto risulta all'interrogante, non vi sarebbe traccia di alcun tentativo del presidente Cestari di «accreditarsi come interlocutore della società organizzatrice per la partecipazione di diversi altri Paesi africani», semmai, raccogliendo le sollecitazioni e le richieste provenienti dalle rappresentanze diplomatiche e politiche di altri Paesi africani, lo stesso avrebbe unicamente sollecitato i vertici dirigenziali di Expo 2015 s.p.a. ad una maggiore attenzione ai Paesi del continente africano, segnalando come molti di loro fossero stati completamente abbandonati dall'organizzatore ed offrendo, in maniera completamente gratuita, la propria esperienza ed il supporto organizzativo della camera di commercio commercio ItalAfrica Centrale a sostegno di un maggior coinvolgimento di questi Paesi nelle fasi di progettazione e realizzazione del sito di Expo 2015, nonché al fine di intensificare i contatti tra le istituzioni partecipanti ed il tessuto imprenditoriale italiano;
   in conclusione, il Governo sosteneva che tali Paesi hanno autonomamente proceduto a rescindere i contratti di collaborazione che avevano a suo tempo sottoscritto col dottor Cestari ed in questo quadro che «lo scorso, mago l'ambasciata del Burundi a Roma ha comunicato al commissario unico Sala, informandone anche questo Ministero, la revoca dell'incarico all'ingegner Cestari»;
   i contratti con la Repubblica democratica Del Congo e con la Repubblica del Madagascar sono stati risolti rispettivamente il 14 e 23 luglio 2015, dopo rispetto a quanto indicato nella risposta del Sottosegretario Della Vedova, laddove invece si lascerebbe intendere che i contratti con ItalAfrica sarebbero stati «risolti» prima dell'inizio di Expo 2015 (cfr. «in questo quadro»), vale a dire nel momento in cui veniva inspiegabilmente revocato l'incarico di commissario generale del Burundi all'Ingegner Cestari (marzo del 2015);
   tutta la risposta del Governo sembrerebbe all'interrogante essere volta a creare confusione con ciò screditando di fatto l'operato dell'Ingegner Cestari e distogliendo l'attenzione dal vero oggetto del quesito, il quale permane ancora senza alcuna risposta puntuale e circostanziata –:
   se il Ministro sia a conoscenza dei fatti esposti in premessa e quali siano le motivazioni alla base della richiesta del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale italiano di revoca dell'ingegner Alfredo Cestari a commissario generale del Burundi a pochi giorni dall'inizio dell'Expo 2015 ad avviso dell'interrogante, con prevedibili gravi ricadute economiche e di immagine, anche a danno dell'Italia. (4-10684)

AMBIENTE E TUTELA DEL TERRITORIO E DEL MARE

Interrogazione a risposta in Commissione:


   ROSTELLATO e CRIVELLARI. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   la regione Veneto è stata interessata nel recente passato da fenomeni di subsidenza dovuti alla sovrapposizione di diverse cause con ricadute sull'assetto idraulico, geomorfologico e territoriale tali da richiedere forti iniziative volte al controllo ed al contrasto attivo di tali fenomeni;
   la subsidenza è un fenomeno presente su gran parte del territorio della pianura padana ed è causata da vari processi naturali, quali quelli di origine geodinamica e tettonica e da processi di compattazione naturale dei sedimenti, ma la causa più rilevante è di origine antropica ed è dovuta all'estrazione di acque sotterranee e di idrocarburi che genera ed acuisce criticità territoriali già particolarmente evidenti;
   difatti, la planimetria quotata attuale mostra che il territorio bassopolesano è totalmente sotto il livello del mare mediamente di 2 metri con punte fino a 4,30 metri;
   altro problema causato dalla subsidenza è rinvenibile nelle coltivazioni: la subsidenza provoca la risalita dell'acqua di mare sul fondo dell'alveo lungo i tratti terminali dei fiumi;
   il fenomeno chiamato cuneo salino rientra nell'ampia problematica rappresentata dall'espandersi della salinità dei territori costieri, che comprende anche il depositarsi i sali nelle falde acquifere sotterranee ed interessa i rami del delta del Po, i tratti terminali del Po di Levante, del Po di Volano, dell'Adige, del Brenta, del Piave e del Tagliamento. Negli ultimi decenni il cuneo salino ha assunto una dinamica sempre più preoccupante per la progressiva intrusione verso l'interno dei corsi d'acqua. È per questo motivo che la regione del Veneto ha mantenuto una costante attenzione sulle aree particolarmente fragili del proprio territorio e ha promosso azioni tese ad approfondire le conoscenze, sia ai fini di salvaguardia che di individuazione degli interventi di contrasto;
   da ultimo, infatti, la regione, come altre regioni, hanno avanzato una proposta referendaria con l'obiettivo di cassare parte del provvedimento contenuto nel decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, recante misure urgenti per l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive;
   tale provvedimento nato per favorire lo sviluppo delle risorse energetiche nazionali, consentire il raggiungimento degli obiettivi della strategia energetica nazionale, garantire una maggiore sicurezza in termini di approvvigionamenti di gas naturale e di petrolio e sbloccare gli ingenti investimenti privati in programma da anni nel settore, rischia seriamente di mettere in pericolo la regione Veneto per quanto riguarda il rischio concreto di subsidenza che si potrebbe venire a creare a seguito delle estrazioni. Risulta quindi urgente la necessità di tutelare il territorio della pianura così come quello lagunare e costiero dal rischio di subsidenza e quindi anche dai conseguenti pericoli di eventi alluvionali, di erosione dei litorali, dell'aumento di forze distruttive delle onde, della risalita del cuneo salino, che invece risultano favoriti dalle attività di ricerca, prospezione e coltivazione di idrocarburi –:
   se il Governo non intenda, alla luce di quanto esposto in premessa, rivedere le disposizioni previste nel decreto-legge «sblocca Italia» per le per le zone particolarmente fragili dal punto di vista ambientale, apportando le modifiche sostanziali auspicate dai promotori del referendum in questione. (5-06604)

Interrogazioni a risposta scritta:


   MARCOLIN. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   il Villaggio Mosè, frazione del comune di Agrigento, poco distante dal mercato ortofrutticolo, è dotato di un depuratore costruito, diverso tempo fa, per i reflui di poche migliaia di persone, circa 3 mila abitanti ma che da diversi anni, vista l'espansione della popolazione residente, è diventato solo una vasca di transito dei liquami sversando le proprie acque non depurate in un vallone che confluisce nel fiume Naro e quindi nel mare di Cannatello;
   all'inquinamento del mare si somma non solo il grave inquinamento dei terreni circostanti dove parte dei liquami viene sversato ma anche il grave danno ambientale, lamentato dai cittadini e dalle associazioni nate a difesa del territorio, derivante dall'uso di queste acque in agricoltura con evidenti problemi di carattere igienico sanitario;
   già nel 2013 al Villaggio Mosè, vi fu un blitz di Asp e Nos per verificare lo stato di inquinamento del depuratore a seguito del quale il dirigente generale del dipartimento regionale dell'acqua e dei rifiuti dell'assessorato regionale all'energia dispose il diniego dell'autorizzazione allo scarico del refluo depurato in quanto il depuratore era stato progettato per una potenzialità di 0,98 litri al secondo ed invece si ritrovava a trattare una portata di liquame notevolmente superiore pari a circa 12-14 litri al secondo: in pratica, la crescita demografica degli ultimi anni della frazione del Villaggio Mosè aveva reso il depuratore insufficiente;
   nello stesso decreto, firmato il 30 luglio 2013, viene citato il verbale degli esami effettuati sui campioni prelevati il dall'Arpa nel corso del blitz effettuato assieme ai Nos della polizia locale dopo la denuncia di Mareamico: «Risulta che l'impianto di depurazione in argomento non svolge alcuna attività depurativa ... le caratteristiche del refluo in uscita siano peggiori di quelle in entrata»;
   il depuratore comunque continua a funzionare e per risolvere questa annosa questione e salvaguardare la salute dei residenti e l'ambiente circostante è necessario costruire immediatamente il nuovo depuratore Mosè, già finanziato dal Cipe, con una spesa di 18 milioni di euro ed in parte già progettato;
   sarebbe opportuno verificare eventuali responsabilità al protrarsi dello scarico dei reflui nel depuratore di Villaggio Mosè nonostante fosse noto che la portata in ingresso era superiore alla potenzialità di trattamento dello stesso assumendo, iniziative cautelative al fine di evitare il protrarsi di tale pratica –:
   di quali elementi disponga il Ministro interrogato in relazione a, quanto esposto in premessa e se intenda promuovere una verifica da parte del comando dei carabinieri per la tutela dell'ambiente in ordine allo stato dei luoghi e al livello di inquinamento dell'aria;
   quali iniziative il Ministro interrogato abbia intenzione di assumere al fine di verificare lo stato del progetto per la realizzazione del nuovo impianto di depurazione. (4-10670)


   FEDRIGA. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   il sito di interesse nazionale Trieste è stato perimetrato nel 2003 e da tale data fino al 2011 sono succedute diverse conferenze di servizi con sufficiente regolarità, indette dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, ai fini dell'attuazione delle procedure di caratterizzazione e di bonifica del sito;
   dal 2012 ad oggi, invece, sono state convocate solo due conferenze di servizi, nel 2013 e 2015, l'ultima delle quali nel luglio 2015 dove, peraltro, sono stati deliberati solo due punti su nove all'ordine del giorno;
   la mancata convocazione delle conferenze di servizi ha ulteriormente rallentato, se non bloccato, le attività di caratterizzazione ambientale e di bonifica nel SIN già avviate o in fase di conclusione;
   ciò, di fatto, determina l'impossibilità per diversi imprenditori di poter eseguire investimenti, ampliamenti produttivi o consentire l'insediamento di nuove aziende e realtà produttive sul territorio;
   inoltre, a seguito dell'avvenuta sottoscrizione, nel 2014, dell'accordo di programma sull'area della Ferriera e la nomina del presidente della regione Friuli Venezia Giulia commissario straordinario, lo stesso Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare ha convocato diverse conferenze di servizi specificatamente per la Ferriera, con un unico punto all'ordine del giorno;
   il decreto-legge «Crescita», n. 83 del 2012; convertito nella legge n. 134 del 2012, all'articolo 36-bis, ha razionalizzato i criteri di individuazione dei siti di interesse nazionale; infatti, i commi 2 e 3 prevedono che:
    «2. Con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, da adottare entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sentite le regioni interessate, è effettuata la ricognizione dei siti attualmente classificati di interesse nazionale che non soddisfano i requisiti di cui all'articolo 252, comma 2, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, come modificato dal comma 1 del presente articolo.
    3. Su richiesta della regione interessata, con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentiti gli enti locali interessati, può essere ridefinito il perimetro dei siti di interesse nazionale, fermo restando che rimangono di competenza regionale le necessarie operazioni di verifica ed eventuale bonifica della porzione di siti che, all'esito di tale ridefinizione, esuli dal sito di interesse nazionale»;
   tale norma dimostra l'intenzione del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare a ridefinire le aree del sito di interesse nazionale sul territorio nazionale, di competenza del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, declassando alcune aree e trasferendone le competenze alle regioni;
   in tale contesto si potrebbe riperimetrare il sito di interesse nazionale di Trieste, lasciando alle competenze del Ministero solo le aree di maggior interesse (Ferriera, ex-Aquila, e altre) e inserendo tutte le restanti aree nel SIR (sito di interesse regionale);
   tale politica organizzativa potrebbe dare nuovo impulso alla problematica delle aree inquinate, con conferenze di servizi convocate dalla regione e non più dal Ministero per gran parte del territorio dell'attuale sito di interesse nazionale, riducendo al minimo i tempi per la chiusura di molte delle numerose pratiche di bonifica tuttora aperte e ancora in attesa di soluzione –:
   se il Ministro intenda valutare la possibilità della riperimetrazione del sito di interesse nazionale di Trieste e, per quanto di competenza, adottare le opportune iniziative, in raccordo con la regione Friuli Venezia Giulia. (4-10680)


   LABRIOLA, PASTORELLI, SEGONI e FURNARI. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   secondo i dati contenuti nel Rapporto rifiuti urbani 2014 redatto dall'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambienta (Ispra), nel 2013 la produzione nazionale dei rifiuti urbani si è attestata, a circa 29,6 milioni di tonnellate, facendo registrare una riduzione di quasi 400 mila tonnellate rispetto al 2012 (-13 per cento). Tale contrazione, che fa seguito ai cali già registrati nel 2011 e nel 2012, porta a una riduzione complessiva di circa 2,9 milioni di tonnellate rispetto al 2010 (-8,9 per cento). Il dato di produzione dei rifiuti urbani si attesta, nel 2013, a un valore inferiore a quello rilevato nel 2002 (29,9 milioni di tonnellate);
   in relazione alle modalità di smaltimento dei rifiuti urbani, il citato rapporto dell'Ispra specifica che nei 44 impianti di incenerimento operativi in Italia, sempre nel 2013, i rifiuti complessivamente inceneriti sono pari a 5,8 milioni di tonnellate, di cui 2,5 milioni di RU indifferenziati, circa 1,8 milioni di tonnellate di frazione secca, oltre 1 milione di tonnellate di combustibile solido secondario, 418 mila tonnellate di rifiuti speciali di cui quasi 35 mila tonnellate di rifiuti sanitari. I rifiuti speciali pericolosi, in prevalenza di origine sanitaria, ammontano a circa 49 mila tonnellate;
   l'andamento nel periodo 2003-2013, del quantitativo di rifiuti urbani inceneriti, compresa la frazione secca ed il combustibile solido secondario, mostra un progressivo incremento nel decennio pari al 70,3 per cento (passando da circa 3,2 milioni di tonnellata a 5,4 milioni di tonnellate). Tale aumento risulta più significativo se si rapportano le quantità incenerite con la produzione totale di rifiuti urbani che, nel 2013, fa registrare una diminuzione dell'1,2 per cento. Nel 2013 circa il 18,2 per cento dei rifiuti urbani prodotti viene incenerito;
   ormai da tempo alcune aziende produttrici di cemento («cementerie/cementifici»), utilizzano per la produzione di clinker (costituente principale del cemento) significative quantità di rifiuti e, in particolare, scorie da acciaieria (CER 100102 e 102020) e scorie pesanti da inceneritori (CER 190112), in parziale sostituzione di materie prime naturali (come argilla, calcare, bauxite e altro) e con apporti e proporzioni diversificati a seconda dell'impianto;
   le scorie che residuano dai processi di incenerimento dei rifiuti solidi urbani verrebbero, dunque, sottoposte presso i cementifici a una operazione classificata di recupero (attività R5) nell'ambito della formulazione della farina cruda e, quindi, previa cottura, destinate alla produzione di clinker, successivamente utilizzato per la fabbricazione di cementi comuni e di altri prodotti per l'edilizia;
   l'utilizzo di rifiuti del genere, in particolare le scorie da incenerimento, determina un incremento di metalli pesanti nel cemento prodotto anche se (secondo i cementieri) al di sotto delle soglie previste dalle norme standardizzate per la qualificazione chimico-tecnica dei diversi tipi di cemento;
   al riguardo, il regolamento (CE) n. 1907/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio approvato il 18 dicembre 2006, concernente la registrazione, valutazione, autorizzazione e restrizione delle sostanze chimiche (REACH), entrato in vigore il 1o luglio 2007, nell'obbligare alla registrazione – intesa come presentazione, da parte dei fabbricanti o degli importatori, di alcune informazioni di base sulle sue caratteristiche e, in mancanza di dati disponibili, nell'esecuzione di test sperimentali per caratterizzare le relative proprietà fisico-chimiche, tossicologiche e ambientali – di tutte le sostanze commerciali, consente (all'Allegato V) l'esenzione dagli obblighi di registrazione del clinker nel presupposto che esso sia compreso tra le «sostanze (che) non sono chimicamente modificate»;
   il citato regolamento REACH evidenzia che la natura e la praticabilità concreta dell'esenzione sono individuate nella «Guida all'allegato V – esenzioni dall'obbligo di registrazione Versione novembre 2012, Voce 10, nella quale viene altresì precisato che la nozione di «sostanza non modificata chimicamente» è spiegata ai punti 7 e 8, i quali includono le sostanze presenti in natura se non sono modificate chimicamente, così come definite ai sensi dell'articolo 3, paragrafi 39 e 40, del REACH;
   l'esenzione di cui ai citati punti 7 e 8 della guida all'allegato V del documento di orientamento richiede, pertanto, che le sostanze siano sostanze presenti in natura e che non siano modificate chimicamente; ciò comporta che in sede di applicazione dell'esenzione stessa dalla registrazione ad una sostanza, questa debba soddisfare entrambi i criteri;
   quanto sopra esposto vale evidentemente per i componenti «minerali» del clinker, ma si deve ragionevolmente ritenere che la estensione al clinker stesso vada considerata in funzione della sua concreta composizione, della presenza di sostanze secondarie (ad esempio metalli pesanti) e della funzione e dell'effetto che i diversi costituenti hanno nella cottura della farina cruda. In particolare, il ruolo delle scorie da incenerimento e/o da acciaieria nella «modificabilità» chimica del clinker va sottoposto ad attenta valutazione, caso per caso. Il ruolo di questi (e di altri rifiuti) non può, infatti, essere considerato del tutto identico a quello delle materie prime «naturali» e «non chimicamente modificate» che costituiscono la farina cruda per la produzione del clinker (composta principalmente da calcare, argilla, bauxite, minerale metallico del ferro e quarzo). Per quanto riguarda principali rifiuti utilizzati nelle cementerie, va rilevato, altresì, che le scorie di acciaieria (CER 100201 e 100202), si presentano sia come rifiuti (esentati dall'obbligo di registrazione al REACH ai sensi dell'articolo 2, paragrafo 2) sia come sostanze regolarmente registrate (esempio n. CE 266-002-0). Esse vengono utilizzate in parziale sostituzione delle materie vergini costituenti la farina cruda per la produzione di clinker, compatibilmente con la rilevante presenza di ossidi di ferro. Le scorie pesanti da processi di incenerimento, sono esclusivamente rifiuti (CER 190112) che, in quanto tali, non sono soggetti a registrazione (articolo 2, paragrafo 2 del REACH) e vengono anch'esse utilizzate in parziale sostituzione delle materie vergini costituenti la farina cruda per la produzione di clinker, tenuto conto dei principali costituenti, ossidi di silicio, calcio, alluminio e ferro;
   sia le scorie d'acciaieria e sia quelle da inceneritore contengono metalli pesanti. Queste ultime, poi, contengono anche metalli (rottami ferrosi e non ferrosi), data l'impossibilità di una completa demetallizzazione, e non sono, quindi, costituite esclusivamente di componenti minerali;
   durante la cottura della farina cruda, composta anche da tali rifiuti, si verifica l'inglobamento nel clinker dei metalli pesanti presenti nelle scorie, mentre non va trascurato che il clinker viene successivamente sottoposto a macinazione, finalizzata alla produzione del cemento, con rilevantissimo aumento delle superfici di contatto e con incremento del rischio che i metalli pesanti vengano dispersi e/o rilasciati nell'ambiente;
   sulla base delle considerazioni sopra esposte, qualora il clinker sia prodotto utilizzando scorie da inceneritore o, eventualmente, anche altri rifiuti e/o sostanze ottenute dagli stessi con un analogo comportamento, non sembra possano essere mantenuti i criteri per l'esenzione applicabili, invece, al clinker prodotto a partire da farina cruda costituita da materie prime vergini o da rifiuti con diverso comportamento/reattività, dal momento che la sostanza in esame (il clinker prodotto utilizzando anche le scorie) non è presente in natura e che l'utilizzo di scorie da inceneritori dà luogo a un clinker chimicamente modificato (in quanto ottenuto da un rifiuto ben diverso dalle materie prime naturali che contiene). Fra l'altro, materiali come il ferro, il rame, il piombo, l'alluminio e lo zinco, ancora significativamente presenti nelle scorie dopo i trattamenti di demetallizzazione, non esistono in natura in forma di metalli;
   la guida all'allegato V soprarichiamata, ribadisce che «Il clinker viene prodotto a partire dalle materie prime calcare, argilla, bauxite, minerale metallico del ferro e quarzo...». Da tale assunto deriva necessariamente che l'esenzione di cui trattasi è limitata esclusivamente alle ipotesi di prodotto ottenuto da materie prime naturali, non modificate chimicamente o, comunque, lavorate con mezzi manuali, meccanici o gravitazionali;
   quanto sopradescritto crea inevitabili preoccupazioni sia in termini di salute ambientale che di rischi per la salute umana;
   l'utilizzo delle ceneri da combustione dei rifiuti nel ciclo produttivo del cemento prevede l'incorporazione delle ceneri tossiche da combustione nel clinker/cemento prodotto. Numerose osservazioni sperimentali hanno dimostrato come gli eluati delle scorie pesanti siano tutt'altro che inerti;
   le scorie prodotte dalla combustione dei rifiuti sono caratterizzate da un elevato contenuto di prodotti chimici estremamente tossici, il cui rilascio nell'ambiente può generare conseguenze gravi sulla salute umana;
   quando tali scorie vengono incorporate nel cemento, le caratteristiche fisiche di quest'ultimo risultano alterate in maniera direttamente proporzionale alla quantità di scorie impiegate e, nel breve termine, le alterazioni causate dagli agenti atmosferici naturali non sembrerebbero garantire il mantenimento dei limiti imposti dalla legge;
   nelle scorie pesanti è stato anche dimostrato un elevato contenuto di idrocarburi policiclici aromatici (IPA), noti agenti cancerogeni;
   scorie pesanti costituiscono circa l'80 per cento del residuo dell'incenerimento dei rifiuti e contengono varie sostanze a rischio di inquinamento ambientale, quali diossine (un chilogrammo di scorie pesanti contiene circa 34ng di diossine), metalli pesanti e composti organici di varia natura (principalmente composti aromatici);
   metalli pesanti possono migrare nel suolo e nelle falde idriche e rappresentare un serio rischio per la salute umana, trasmettendosi attraverso la catena alimentare ed esercitando azione genotossica a causa della produzione di un danno ossidativo alle catene del DNA;
   il riutilizzo delle scorie, inoltre, costituisce un importante fattore di rischio professionale, a causa principalmente dell'esposizione dei lavoratori a cromo e cadmio, attraverso inalazione e assorbimento transdermico;
   nei lavoratori esposti a ceneri da incenerimento contenenti IPA e diossine è stata segnalata un'alterata espressione genica del citocromo CYP1B1 nei leucociti periferici, di entità tale da considerare questa alterazione come marker di danno biologico professionale;
   l'acquisto e l'utilizzo del cemento prodotto con il clinker costituito anche da scorie da incenerimento dei rifiuti, costituisce un pericolo per la salute di chi vi è esposto nelle sedi più diverse (cantieri edili, edifici, condutture dell'acqua e altro) e della salubrità dell'ambiente nel momento in cui tali manufatti vengono demoliti e le macerie vengono smaltite in discarica –:
   quali iniziative, anche di carattere normativo, intendano tempestivamente intraprendere, nell'ambito delle proprie competenze, al fine di assicurare la concreta fruizione da parte dei cittadini del diritto alla salute, costituzionalmente garantito, e di assicurare il rispetto della normativa vigente in materia di tutela dell'ambiente, eventualmente introducendo l'obbligo per le aziende produttrici di cemento di indicare in modo chiaro ed inequivocabile la composizione del cemento prodotto. (4-10681)

BENI E ATTIVITÀ CULTURALI E TURISMO

Interrogazione a risposta in Commissione:


   PRODANI, ARTINI, BALDASSARRE, BARBANTI, BECHIS, MUCCI, RIZZETTO, SEGONI e TURCO. — Al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo. — Per sapere – premesso che:
   il Castello di Miramare, sito turistico di primo piano per la città di Trieste e meta tra le più visitate del Friuli Venezia Giulia, già dimora di Massimiliano d'Asburgo e di sua moglie Carlotta, è circondato da un parco di 22 ettari che da anni è in uno stato di totale abbandono e degrado;
   il Castello ed il Parco, essendo beni di interesse pubblico, sono soggetti al regime di tutela dei beni culturali, ai sensi degli articoli 10, 11 e 12 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, recante il «Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137», in consegna al Polo museale del Friuli Venezia Giulia;
   inoltre, il codice dei beni culturali, per la valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica, prevede all'articolo 112, comma 4, che: «Lo Stato, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali stipulano accordi per definire strategie ed obiettivi comuni di valorizzazione, nonché per elaborare i conseguenti piani strategici di sviluppo culturale e i programmi, relativamente ai beni culturali di pertinenza pubblica. Gli accordi possono essere conclusi su base regionale o subregionale, in rapporto ad ambiti territoriali definiti, e promuovono altresì l'integrazione, nel processo di valorizzazione concordato, delle infrastrutture e dei settori produttivi collegati. Gli accordi medesimi possono riguardare anche beni di proprietà privata, previo consenso degli interessati. Lo Stato stipula gli accordi per il tramite del Ministero, che opera direttamente ovvero d'intesa con le altre amministrazioni statali eventualmente competenti»;
   l'annosa e complessa questione della manutenzione del parco è già stata affrontata dall'interrogante in di due atti di sindacato ispettivo: l'interrogazione n. 4-00897 del 18 giugno 2013, in cui si chiedeva l'istituzione di un tavolo di lavoro per stabilire un piano di recupero per il sito, e l'interrogazione n. 4-08760 del 13 aprile 2015, in cui si chiedevano, sia i motivi dei ritardi in merito all'utilizzo dei finanziamenti previsti dall'accordo di programma sottoscritto il 4 gennaio 2012, sia di accelerare le opere di recupero del sito, oltroché di chiarire a quale ente territoriale fosse assegnata la gestione delle somme derivanti dalla vendita dei biglietti per la visita al Castello;
   in risposta alla prima interrogazione, l'allora Ministro Massimo Bray aveva comunicato che, in data 4 gennaio 2012, erano stati sottoscritti l'accordo di programma ed un finanziamento congiunto Stato-regione per il restauro e la valorizzazione del parco di Miramare con l'apporto di un finanziamento di un milione e ottocentomila euro complessivi (1,2 milioni di euro erogati dallo Stato e 0,6 milioni di euro erogati dalla regione) e che, in esecuzione di tale accordo, erano state eseguite opere di scavo del «parterre», l'asportazione di piante morte, il rifacimento di aiuole e il taglio di alberi per complessivi 99.991,82 euro esclusa l'IVA;
   sempre nella risposta, il Ministro affermava che, nel mese di luglio 2013, il Direttore generale per la valorizzazione del patrimonio culturale del Ministero aveva incontrato sia la Presidente della regione FVG, sia il Sindaco di Trieste, per avviare le procedure per la chiusura di un accordo relativo al Castello di Miramare;
   a seguito di tale incontro, il Sindaco di Trieste Cosolini, nell'agosto 2013, aveva rassicurato, tramite il suo blog, un preciso impegno a riportare «per la primavera del 2014 il sito di Miramare all'originale splendore» ma, a distanza di un anno e mezzo, la situazione rimane ancora preoccupante;
   alla seconda interrogazione del 13 aprile il Ministro non ha dato ancora risposta;
   articoli di stampa locale (Il Piccolo del 31 agosto e del 1o settembre) segnalano che, a pochi mesi dal completamento dei lavori di risistemazione finanziati con 30 mila euro provenienti dalla campagna nazionale del FAI (Fondo Ambiente Italiano) «I luoghi del cuore», il «parterre» si presenta nuovamente incolto, con i bossi appena piantati già morti ed il manto erboso secco e trascurato;
   si apprende anche che i recenti interventi di taglio a raso di alberi storici, non seguiti da operazioni di ripristino vegetazionale, abbiano aumentato il degrado del parco anziché migliorarlo, in quanto le zone disboscate sono ora soggette a fenomeni di erosione e sono state invase da piante infestanti come l'ailanto, conosciuto come il «killer del paesaggio»;
   risulta, inoltre, che tale situazione fosse già stata evidenziata tramite una mostra intitolata «Il parco di Miramare e le condizioni di degrado», organizzata dalla sede di Trieste di Italia Nostra e dall'Associazione Orticola del Friuli Venezia Giulia;
   a seguito della suddetta mostra e grazie all'interessamento di Italia Nostra, una troupe del TG1 di Milano ha realizzato un servizio televisivo sullo stato di reale abbandono ed incuria in cui versano il «parterre» e l'intero parco di Miramare: degrado evidente malgrado i lavori di recupero architettonico realizzati dalla Soprintendenza;
   il quotidiano Il Piccolo del 2 e del 3 settembre 2015 ha documentato la visita, avvenuta il 2 settembre, del Ministro Franceschini a Trieste durante la quale è stato effettuato un sopralluogo presso il parco ed il castello di Miramare;
   nel corso della conferenza stampa nella sede della regione Friuli Venezia Giulia, prima della visita al Castello ed al Parco di Miramare, il Ministro ha parlato del sito come di «uno dei grandi musei su cui è concentrata la riforma del ministero», le cui «potenzialità sono ben note»; inoltre, il Ministro avrebbe espresso le proprie idee in merito alla previsione di una gestione unica dei Parco e del Castello e di costi per il biglietto di ingresso al Parco, distinti per i residenti ed i turisti, sull'esempio dei parchi di Capodimonte (Napoli) e Caserta;
   in particolare, un articolo de Il Piccolo del 2 settembre 2015 ha pubblicato le dichiarazioni di Massimiliano Lacota, rappresentante in Italia dell'Arciduca Carlo d'Asburgo Lorena, figlio di Otto, nipote dell'ultimo Imperatore Carlo I, relative alla proposta fatta meno di due anni fa dallo stesso Carlo D'Asburgo, in occasione di una visita al parco, di finanziare i lavori di rifacimento e manutenzione del sito;
   Lacota avrebbe dichiarato, inoltre, che l'unica condizione posta dalla Casa d'Austria sia di prevedere un intervento unico sostanziale per rimettere in sesto tutto il parco; sempre nell'articolo viene riportata la dichiarazione del direttore del Polo Museale regionale Luca Caburlotto, in risposta al rappresentante dell'Arciduca Carlo d'Asburgo Lorena, con cui afferma che «anche le sponsorizzazioni devono sottostare ad una programmazione annuale, a una specifica autorizzazione e a una conseguente gara di appalto che, in questo caso tenga in considerazione l'offerta più elevata. Tale offerta non mi è mai pervenuta ufficialmente»;
   nell'articolo del 3 settembre 2015 de Il Piccolo si legge che il Ministro, in merito all'ipotesi che la Casa d'Austria si impegni economicamente a favore di Miramare, abbia risposto di non essere a conoscenza della proposta, che andrebbe comunque vagliata alla stessa maniera di una proposta di intervento da parte di una Fondazione –:
   quali siano gli orientamenti del Ministro interrogato in merito al degrado del Parco di Miramare e se non ritenga necessario un impegno forte dell'esecutivo, di concerto con la regione Friuli Venezia Giulia ed il Comune di Trieste, per mettere a punto un piano di interventi strutturali mirati capaci di riportare il parco al suo antico splendore;
   se non reputi opportuno adoperarsi affinché, data la fama mitteleuropea di Miramare, la pianificazione e la gestione degli interventi in questo parco siano seguite da una figura competente in giardini storici, botanica e paesaggio, come avviene per i parchi storici di altri, Paesi europei;
   se non reputi opportuno che la locale Soprintendenza promuova iniziative per destinare le proprie risorse umane più qualificate per titoli universitari e postlaurea, ma inquadrate a mansioni inferiori alla loro qualifica, alla valorizzazione, alla conoscenza e quindi a una migliore strategia nell'affrontare la risoluzione dei complessi problemi del sito di Miramare;
   in che modo intenda intervenire affinché i fondi stanziati con l'accordo di programma vengano utilizzati quanto prima per attuare l'indispensabile manutenzione ordinaria del parco, senza la quale sarà inevitabile il peggioramento delle attuali condizioni del sito;
   quali iniziative di competenza ritenga opportune per riorganizzare la gestione unica di Castello e Parco annunciata in conferenza stampa in occasione della visita al sito e quale sia la tempistica;
   se e come intenda attivarsi, per quanto di competenza, per verificare il reale interesse della Casa d'Austria a finanziare interventi di recupero del Parco, coinvolgendo anche gli organi diplomatici, e stabilire un piano strategico comune. (5-06613)

DIFESA

Interrogazione a risposta scritta:


   FRUSONE, L'ABBATE, BRESCIA, SCAGLIUSI, DE LORENZIS, D'AMBROSIO, CARIELLO, RIZZO, BASILIO, CORDA e TOFALO. — Al Ministro della difesa, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   in data 10 novembre 1999 la società Isosar srl (oggi Energas spa compartecipata Q8) depositò presso il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare un'istanza di valutazione di impatto ambientale per la realizzazione di un deposito costiero di GPL nel territorio del comune di Manfredonia (Foggia), località Santo Spiriticchio. Venne rifiutata dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare;
   in data 25 ottobre 2013 la società Energas spa ha depositato un aggiornamento burocratico relativo all'istanza di valutazione di impatto ambientale presso il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e Ministero dello sviluppo economico, la regione Puglia, la provincia di Foggia e il comune di Manfredonia;
   il progetto prevede l'istallazione di un deposito costiero di GPL con capacità di stoccaggio di 60.000.000 di litri (oltre 30.000 tonnellate di GPL). L'opera prevede anche il posizionamento in mare di un gasdotto lungo 10 chilometri che parte dal porto industriale e attraversa il Golfo di Manfredonia per continuare interrato nel sottosuolo attraversando zone archeologiche e zone ZPS e SIC (zona a protezione speciale e sito di interesse comunitario) censita nel protocollo europeo «Natura 2000» fra le più importanti d'Europa. Il trasporto del GPL dal deposito verrà effettuato sia via ferrovia sia via gomma. La distribuzione ferroviaria è permessa dal raccordo ferroviario di circa 1,5 chilometri con la vicina stazione delle FS di Frattarolo dalla quale partiranno le ferro cisterne da 120 metri cubi cadauna, transitando nella vicina stazione dell'aeroporto militare di Amendola. Il trasporto su gomma utilizzerà la SS89. Il volume totale stimato di movimentazione su trasporto ferroviario e su gomma si stima sia di circa 300.000 q. annui;
   il deposito in questione dovrebbe sorgere a 10 chilometri in linea d'aria dall'aeroporto militare di Amendola «Luigi Rovelli Comando 32o Stormo» e 2 chilometri dal centro abitato di Manfredonia (Foggia); l'aeroporto è disposto a sandwich fra la ferrovia e la SS89 per diversi chilometri. La posizione della base la pone al centro della distribuzione logistica del GPL, dato che l'unica strada per accedere all'autostrada A14 è la statale SS89, passante esattamente a pochi metri dalla base e dal villaggio dove risiedono le famiglie dei militari. A poche centinaia di metri al nord della base corrono i binari sui quali viaggeranno le ferro cisterne al ritmo di una ogni sette minuti. Pertanto la base è esattamente al centro tra i binari e la statale. L'intera situazione andrebbe analizzata con molta attenzione prendendo in considerazione aspetti fondamentali come eventi naturali, eventi umani ed eventi terroristici;
   nell'aeroporto militare è presente il modello di UAV (Unmanned Aerial Vehicle) MQ-9 Predator B (Reaper) in servizio presso la Forza aerea e consegnato di recente al 28o gruppo velivoli teleguidati del 32o stormo; inoltre, l'aeroporto sarà il primo aeroporto di Italia ad ospitare il caccia multiruolo F-35 aumentando ancor di più l'importanza strategica di tale zona. L'aeroporto ospita in modo stabile personale militare non italiano in forza alla NATO. La base militare di Amendola è la base logistica di numerose operazioni nazionali ed internazionali per la tutela della pace nel bacino del Mediterraneo. Queste informazioni risultano essere di dominio pubblico e l'attività di intelligence svolta dai droni aerei è stata anche riportata su stampa generalista, quotidiana e periodica, con toni enfatici ed elogiativi in diverse occasioni e contesti;
   il 26 giugno 2015 in un impianto di gas industriale nell'Isère, a 30 chilometri da Lione, in Francia, nella regione del Rodano-Alpi, un individuo, non terrorista, per motivi di vendetta personale ha innescato una esplosione proprio in deposito GPL provocando ferimento di due persone ed un morto;
   la posizione e la logistica dell'impianto di GPL, fra i più grandi di Europa se venisse realizzato, esporrebbe la sicurezza dei civili e delle strutture militari dell'area a rischi concreti. Inoltre, Manfredonia è una zona sismica di intensità media (registrate anche scosse di livello 4 Mercalli); pertanto sono da considerare e analizzare a fondo, nell'ipotesi in cui ci sia un evento sismico, quali possano essere gli effetti sull'impianto e quali i rischi per la popolazione;
   nel progetto infatti non viene presa in considerazione la sismicità della zona tanto che lo stesso ingegner Marino (rappresentante dell'ENERGAS) in un recente articolo su un quotidiano locale minimizza il problema dichiarando che se si dovesse prendere in considerazione la sismicità non si dovrebbe costruire da nessuna parte in Italia e nel mondo (http//www.statoquotidiano.it);
   per quel che riguarda poi le attività umane di carico e scarico di tutta la filiera del gpl, dalla nave gassiera alle ferro cisterne e autobotti, occorre ricordare che sono tutte operazioni in cui il minimo errore umano comporta grandi rischi per la sicurezza;
   al rischio imprevedibile sismico, idrogeologico dell'area e all'errore umano si aggiungano i pericoli dalle possibili mire terroristiche che potrebbero avere motivi molteplici: sia se si volesse attaccare la stessa multinazionale Q8 che è dietro al progetto (la base militare sarebbe colpita indirettamente) sia se si volesse colpire direttamente la base e allora l'impianto con 60.000.000 di litri di GPL, le ferro cisterne che transiterebbero a poche centinaia di metri dalla base e i camion per trasporto su strada porrebbero la base all'interno di una forbice e senza via di scampo;
   le preoccupazioni sono tante vista anche quella che gli interroganti giudicano la superficialità con cui l'ENERGAS s.p.a. continua a portare avanti le richieste di autorizzazioni senza integrare la documentazione richiesta, in particolare piani sicurezza, evacuazioni ed esercitazioni con la cittadinanza, e soprattutto perché continua a ragionare su una progettazione che si basa sulla normativa del 1999 che invece dovrebbe adeguarsi necessariamente alla nuova normativa posta dalla Direttiva SEVESO III, entrata in vigore a luglio 2015 –:
   se il Governo sia al corrente della situazione;
   se sia stato valutato l'aumento del rischio sia per motivi terroristici sia per eventi naturali, correlato alla futura presenza dell'impianto GPL;
   se esista un piano d'emergenza, o sia allo studio, in grado di tutelare non solo i cittadini ma anche i lavoratori che prestano servizio presso la base di Amendola. (4-10677)

ECONOMIA E FINANZE

Interrogazione a risposta in Commissione:


   VALLASCAS, DELLA VALLE, PESCO, CANCELLERI, ALBERTI, FANTINATI e DA VILLA. — Al Ministro dell'economia e delle finanze, al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   dal 30 settembre al 1o ottobre 2015 si è svolta a Milano la settima edizione dell’International Forum Sovereign Wealth Funds (Ifswf), evento organizzato dal Fondo strategico italiano;
   secondo quanto riportato dagli organi di stampa, al forum avrebbero preso parte 34 fondi sovrani di 31 Paesi, che rappresenterebbero un patrimonio stimato di circa 4.500 miliardi di dollari, pari a 2,8 volte il prodotto interno lordo dell'Italia;
   nel corso della tre giorni, il Ministro dell'economia e delle finanze, Pier Carlo Padoan, avrebbe in più circostanze sottolineato la disponibilità del Governo ad aiutare gli investitori a lungo termine;
   nello specifico, secondo quanto riporta l'edizione del 1o ottobre del quotidiano di informazione economico finanziaria, il Sole 24 Ore, il Ministro, nel richiamare l'attenzione degli interlocutori sui «pilastri» della presunta strategia economica italiana, quali le asserite politiche fiscali, le riforme strutturali e il cosiddetto Jobs Act, avrebbe dichiarato che l'Italia «è la quinta manifattura del mondo e la seconda in Europa. Delle riforme beneficeranno tutte le aziende e l'Italia è certamente aperta a tutti gli investimenti»;
   tra le altre cose, il Ministro avrebbe aggiunto: «In Italia ci sono nuove prospettive di crescita, con la modernizzazione delle strutture di capitale e il processo di privatizzazione con Poste Italiane e il successivo step con Enav»;
   questa apertura sarebbe stata ribadita nel corso degli incontri organizzati a margine del forum con le delegazioni dei fondi sovrani di Libia, Singapore, Cina, Kuwait, Australia;
   i fondi sovrani hanno acquistato particolare rilevanza negli anni in concomitanza di alcune circostanze verificatesi nell'economia mondiale, quali la forte disponibilità delle riserve valutarie per effetto dello sviluppo esponenziale avuto dai Paesi emergenti ovvero dell'aumento di alcune materie prime, come il petrolio, tutti fattori che hanno determinato la necessità di allocare e mettere a frutto queste risorse in titoli sicuri e diversificare gli investimenti anche per valute;
   le recenti vicende in cui è incorsa la casa automobilistica Volkswagen hanno riproposto con drammaticità temi quali la stretta interdipendenza dei sistemi finanziari, oltre a sollevare forti dubbi sulla tenuta e sulla sicurezza dei fondi sovrani;
   in particolare, secondo una prima stima provvisoria da parte degli analisti economici, i fondi sovrani Norges (della Norvegia) e QIA (del Qatar), che detengono azioni della società automobilistica tedesca, avrebbero subito perdite rispettivamente per 800 milioni e 3,8 miliardi di dollari;
   da rilevare gli ulteriori dubbi sulla tenuta dei fondi sovrani, generati dalla situazione di forte instabilità politica di alcuni Paesi rappresentati al Forum, come la Libia, dal rallentamento della crescita di alcuni Paesi emergenti, come la Cina, e dalla considerevole riduzione dei costi di alcune materie prime, come il petrolio;
   tutto questo richiamerebbe con forza la necessità di affrontare la questione dei fondi sovrani con maggiore cautela, prima di annunciare con grande entusiasmo la disponibilità ad accogliere nel nostro Paese investimenti stranieri, in considerazione della qualità e della tipologia del patrimonio oggetto d'interesse da parte degli investitori, rappresento da infrastrutture strategiche, sociali e finanziarie;
   con 2,21 miliardi di dollari investiti nel 2014, l'Italia è stato il Paese dell'Eurozona dove è stata maggiore l'incidenza dei fondi sovrani, a fronte di investimenti più contenuti nei Paesi Bassi (0,98), Francia (0,97), Spagna (0,36) e Germania (0,24);
   questo stato di cose esporrebbe maggiormente il nostro Paese agli imprevisti della finanza internazionale e alle logiche di mercato, col rischio concreto di un'eventuale compromissione dei risparmi dei cittadini e della sovranità italiana nel governo di importanti infrastrutture strategiche;
   anche a fronte delle decisioni già assunte dal Governo, come la vendita del 35 per cento di CDP Reti e l'annunciata offerta pubblica iniziale per Poste Italiane, è sentita la necessità che il Governo, prima di manifestare disponibilità nei confronti di investitori stranieri, assuma attraverso un piano iniziative atte a salvaguardare aziende, lavoratori e risparmiatori italiani;
   allo stato attuale, e in assenza di un piano concreto da parte del Governo, si delineerebbe una situazione in cui il nostro Paese sarebbe disposto a svendere società di estrema rilevanza per l'economia nazionale senza alcun'altra strategia che acquisire liquidità –:
   quali valutazioni e strategie sottendano la disponibilità del Governo, espressa attraverso le dichiarazioni del Ministro dell'economia e delle finanze, ad accogliere investimenti stranieri nel nostro Paese per il tramite di fondi sovrani;
   se non ritenga opportuno, considerata la natura strategica delle società oggetto d'interesse da parte degli investitori, illustrare le strategie del Governo in merito all'annunciata apertura agli investimenti stranieri;
   quali iniziative intenda adottare per evitare che, a seguito di investimenti nel nostro Paese da parte di fondi sovrani, le infrastrutture, le società strategiche e i risparmi degli italiani possano essere soggetti alle altalenanti vicissitudini della finanza internazionale e delle logiche di mercato. (5-06606)

Interrogazioni a risposta scritta:


   PILI. — Al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
   l'articolo 14 dello statuto speciale della Sardegna Legge Costituzionale 26 febbraio 1948, n.3, dispone: «La Regione nell'ambito del suo territorio, succede nei beni e diritti patrimoniali dello Stato di natura immobiliare e in quelli demaniali, escluso il demanio marittimo. I beni e diritti connessi a servizi di competenza statale ed a monopoli fiscali restano allo Stato, finché duri in tale condizione. I beni immobili situati nella Regione, che non sono di proprietà di alcuno, spettano al patrimonio della Regione»;
   l'articolo 5 della legge n. 698 del 1975 — Scioglimento e trasferimento delle funzioni dell'Opera nazionale per la protezione della maternità e dell'infanzia, dispone: «il patrimonio immobiliare è trasferito al patrimonio delle province e dei comuni, dove i beni sono ubicati...(omissis). I trasferimenti di cui al presente articolo avvengono in esenzione da qualsiasi imposta o tassa»;
   nel comune di Monti è disponibile il seguente bene immobile inserito nell'allegato A del decreto R.G.S n. 107431 del 2l dicembre 2010 n. 364 Ente INAM Regione SARDEGNA Ubicazione MONTI(OI) foglio 15 particella 468;
   è stata accertata la disponibilità del bene, in quanto attualmente libero ed inutilizzato da altro soggetto pubblico;
   il comune di Monti ritiene necessario dover reperire immobili, da destinare a finalità pubblico-istituzionali ad uso diretto dell'ente e a finalità pubblico-sociali ad uso diretto e indiretto della collettività –:
   se non ritenga il Governo, in base all'articolo 14 dello statuto della regione Sardegna, di assumere ogni iniziativa di competenza per il trasferimento al comune, anche attraverso la regione, del bene inserito nell'allegato A del decreto R.G.S n. 107431 del 21 dicembre 2010 n. 364 Ente INAM regione SARDEGNA Ubicazione MONTI(OI) foglio 15 particella 468 di proprietà dello Stato nello stato di fatto e di diritto in cui si trova, con tutte le pertinenze, accessori, oneri e pesi esistenti. (4-10679)


   MISIANI. — Al Ministro dell'economia e delle finanze, al Ministro della giustizia. — Per sapere – premesso che:
   i buoni postali fruttiferi sono stati introdotti nel nostro ordinamento con il decreto-legge 16 dicembre 1924, n. 2016, modificato con regio decreto-legge 10 luglio 1925, n. 1241, con forma di finanziamento dello Stato alternativa ai buoni del tesoro;
   con la legge 14 giugno 1928, n. 1398, sono stati quindi regolamentati come forma di raccolta di risparmio postale da parte della Cassa depositi e prestiti: ciò spiega perché sin da allora recassero la doppia firma del direttore generale delle poste e delle telecomunicazioni e del direttore generale della Cassa depositi e prestiti;
   i buoni postali fruttiferi venivano stampati dall'Istituto poligrafico dello Stato su carta filigranata e le loro caratteristiche tecniche erano determinate con decreto del Ministro del tesoro di concerto con il Ministro delle poste;
   in tempi più prossimi, i buoni postali fruttiferi hanno trovato la loro disciplina nelle norme di cui al capo VI, titolo I, libro III, del decreto del Presidente della Repubblica 29 marzo 1973, n. 156, di approvazione del «testo unico delle disposizioni legislative in materia postale, di bancoposta e di telecomunicazioni» (cosiddetto «Codice Postale»), e nel titolo VI del regolamento di esecuzione di cui, al decreto del Presidente della Repubblica 1o giugno 1989, n. 256;
   secondo la formulazione originaria dell'articolo 173 del codice postale, la determinazione dei tassi di interesse dei buoni postali fruttiferi (crescenti sino al ventesimo anno) era demandata per ogni serie a un decreto del Ministro del tesoro di concerto con il Ministro delle poste e delle comunicazioni, sentito il Comitato interministeriale per il credito e il risparmio, da pubblicarsi sulla Gazzetta Ufficiale e riportarsi a tergo dei titoli;
   successivamente, il decreto-legge 30 settembre 1974, n. 460, convertito dalla legge 25 novembre 1974, n. 588, modificava la disposizione sopra richiamata (articolo 173 codice postale), prevedendo che i tassi di interesse corrisposti con le nuove serie potessero estendersi anche ai buoni già emessi – in melius o in peius rispetto a quanto indicato nel retro dei buoni stessi, ma demandando gli uffici di integrare la tabella riportata a tergo dei vecchi buoni con altra tabella «a disposizione dei titolari dei buoni stessi presso gli uffici postali» – con riferimento al montante maturato alla data di entrata in vigore dei nuovi buoni;
   con decreto ministeriale 15 giugno 1981 è stata istituita una nuova serie di buoni postali fruttiferi ordinari denominati con la lettera «O» e, successivamente, con decreto ministeriale 16 giugno 1984 veniva istituita la nuova serie di buoni postali fruttiferi denominati con la serie «P»;
   secondo i dati della Banca d'Italia, sono stati collocati e venduti tra gli anni ’80 e la metà dell'anno 1986, all'incirca 110.000 buoni postali fruttiferi della serie «O» e della serie «P»;
   con decreto ministeriale 13 giugno 1986 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 148 in data 28 giugno 1986 il Ministero del tesoro provvedeva a modificare i tassi di interesse indicati sui buoni postali fruttiferi serie «O» e «P» convertendoli in automatico in serie «Q» con riduzione del rendimento di circa il 48 per cento;
   avanti il tribunale di Bergamo, pendono circa 156 procedimenti circa in cui si contesta la modifica in pejus dei tassi di interesse proposti con l'acquisto dei buoni postali fruttiferi serie «O» e «P» in quanto non comunicata con la conseguente richiesta di pagamento del dovuto;
   i procedimenti sopra evidenziati hanno portato ad ordini di condanna giudiziari nei confronti di Poste Italiane s.p.a.;
   Poste Italiane s.p.a., a quanto consta all'interrogante, non provvede spontaneamente al pagamento con la conseguenza che subisce pignoramenti mobiliari presso le diverse sedi con maggiorazione a titolo di spese e competenze legali del 20 per cento rispetto a quanto effettivamente dovuto;
   in circa quindici casi, a seguito di notifica di atto di precetto, con aggravio di spese sempre a carico di Poste Italiane s.p.a., avrebbe corrisposto importi che vanno dal 2 per cento rispetto al dovuto al 17 per cento obbligando così il difensore dei risparmiatori a notificare nuovi atti di precetto in rinnovazioni con ulteriori spese sempre a carico di Poste Italiane s.p.a.;
   dei quindici casi sopra indicati, successivamente Poste Italiane s.p.a. avrebbe corrisposto per quattro l'importo dovuto e per i rimanenti faceva iniziare una procedura esecutiva mobiliare con ulteriore aggravio di spese sempre a carico della società Poste Italiane s.p.a.;
   il comportamento, a giudizio dell'interrogante, ostruzionistico di Poste Italiane s.p.a. comporta la corresponsione di importi ben superiori rispetto a quelli che dovrebbe corrispondere sulla base dei titoli emessi dall'autorità giudiziaria, senza alcun ritorno economico, anzi con dispendio inutile di denaro;
   il comportamento sopra spiegato si giustifica secondo l'interrogante solamente con l'obiettivo di disincentivare il ricorso all'autorità giudiziaria. I buoni postali fruttiferi oggetto della modifica in pejus, sono stati emessi fino al 12 giugno 1986 e, pertanto, avendo scadenza trentennale, gli stessi potranno essere riscossi fino alla fine del mese di dicembre 2016 e, dopo tale data, se riscossi, non potranno più essere oggetto di contestazione;
   Poste Italiane è una società per azioni il cui capitale è detenuto al 100 per cento dallo Stato italiano tramite il Ministero dell'economia e delle finanze e, pertanto, il comportamento sopra descritto oltre che portare alla luce un possibile spreco di denaro, palesa e dimostra che Poste Italiane s.p.a. sta attuando una vera e propria campagna ostruzionista che di fatto disincentiva il risparmiatore ad adire l'autorità giudiziaria. Questo comportamento potrebbe configurare una violazione del diritto al risparmio, diritto espressamente tutelato dall'articolo 47 della Carta costituzionale –:
   se il Governo sia a conoscenza delle problematiche riportate nelle premesse;
   se il Governo intenda, per quanto di competenza, verificare quanti dei cittadini che ad oggi hanno proposto ricorso all'autorità giudiziaria siano stati rimborsati da Poste Italiane s.p.a. di quanto effettivamente dovuto;
   quali iniziative il Governo intenda assumere per salvaguardare il diritto al risparmio dei cittadini, tutelato dalla Costituzione, in relazione alle questioni riportate nelle premesse. (4-10683)


   PILI. — Al Ministro dell'economia e delle finanze, al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   il decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135, convertito dalla legge 20 novembre 2009, n. 166, recante «Disposizioni urgenti per l'attuazione di obblighi comunitari e per l'esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee», all'articolo 19-ter reca disposizioni di adeguamento comunitario in materia di liberalizzazione delle rotte marittime prevedendo al comma 1: «1. Al fine di adeguare l'ordinamento nazionale ai principi comunitari in materia di cabotaggio marittimo e di liberalizzazione delle relative rotte, a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto è trasferito a titolo gratuito, da Tirrenia di navigazione S.p.a., il cento per cento del capitale sociale della: [...] b) Saremar-Sardegna Regionale Marittima S.p.a. alla regione Sardegna;»;
   con tale disposizione il legislatore nazionale aveva chiaramente inteso il trasferimento alla regione Sardegna dell'intera società: naviglio, personale e in particolar modo le risorse finanziarie che avevano garantito la gestione in equilibrio economico-finanziario della società;
   alla regione Sardegna è stata, dunque, trasferita una società che in ogni suo aspetto veniva inquadrata nel patrimonio e nell'organizzazione della stessa istituzione regionale;
   tralasciando l'aspetto dei termini temporali dell'entrata in vigore della norma, che non risultano perentori, emerge con chiarezza la volontà dello Stato di garantire, attraverso la norma richiamata, la continuità della società Saremar con particolare riferimento al personale, che più volte è stato oggetto di puntuali richiami nel corso dell’iter parlamentare di approvazione della legge richiamata;
   va tenuto conto, al riguardo, anche di quanto stabilito nella risoluzione n. 8-00011 della Commissione trasporti della Camera del 19 novembre 2008 con la quale si impegnava il Governo pro tempore «a prevedere altresì, nell'ambito della privatizzazione, adeguate misure di salvaguardia dei livelli occupazionali e di tutela nei confronti dei dipendenti del gruppo Tirrenia»;
   con il comma 9, lettera a), punto 5 dell'articolo 19-ter del decreto-legge sopra richiamato, si dispone: «sono approvati dalle regioni Sardegna e Toscana, secondo i rispettivi ordinamenti e nel rispetto del mantenimento del servizio universale e della continuità territoriale con le isole, gli schemi di contratti di servizio di durata non superiore a dodici anni con le società, rispettivamente, Saremar e Toremar...»;
   risulta, dunque, esplicita, secondo l'interrogante, la disposizione della legge con cui è stabilito che il soggetto destinatario del contratto di servizio, ovvero la Saremar, vada inteso come la società in continuità di servizio sia sul piano giuridico che occupazionale e finanziario;
   in tal senso, risultano conseguentemente vincolate e non diversamente utilizzabili le risorse stanziate e affidate alla Saremar dal medesimo decreto-legge che, all'articolo 19-ter, comma 16, prevede: «Le risorse necessarie a garantire livello dei servizi erogati sulla base delle convenzioni attualmente in vigore e prorogate ai sensi del comma 6, nonché delle nuove convenzioni e dei contratti di servizio di cui ai commi da 8 a 15, nel limite di complessivi euro 184.942.251 a decorrere dal 2010, sono ripartite, per 2010 e per ciascuno degli anni della durata delle nuove convenzioni e dei singoli contratti di servizio, come segue: a) Tirrenia di navigazione S.p.a.: euro 72.685.642; [...] c) Saremar-Sardegna Regionale Marittima S.p.a. – regione Sardegna: euro 13.686.441»;
   tali risorse sono state di fatto riaffermate all'articolo 8, comma 13-septies del decreto-legge n. 78 del 2015 con il quale, sostanzialmente, secondo l'interrogante, si conferma l'obbligo di assegnare alla Saremar la proroga del servizio, fatte salve le procedure di eventuale privatizzazione;
   è fin troppo evidente alla luce della comparazione dei testi normativi, che il legislatore abbia voluto ripetutamente ribadire la volontà di non dismettere le società e di non scorporare il servizio di continuità territoriale dalla stessa società in essere;
   il legislatore ha, eventualmente, previsto forme di privatizzazione della società, ma senza scorporare il personale, il naviglio e la stessa ragione sociale del servizio;
   tutto questo con l'esplicita volontà di salvaguardare i livelli occupazionali della società Saremar, come del resto è avvenuto nella procedura di privatizzazione della Tirrenia, società capofila della stessa Saremar;
   in questo quadro è fin troppo evidente che la procedura di Concordato pieno liquidatorio omologato deve obbligatoriamente tener conto dell'esistenza di una vera e propria assegnazione di fondi pluriennale a favore della società Saremar, per la quale sussiste un già citato esplicito richiamo di legge di cui all'articolo 19-ter del decreto-legge sopra richiamato, convertito dalla legge n. 166 del 2009, che dispone: «sono approvati dalle regioni Sardegna e Toscana, secondo i rispettivi ordinamenti e nel rispetto del mantenimento del servizio universale e della continuità territoriale con le isole, gli schemi di contratti di servizio di durata non superiore a dodici anni con le società, rispettivamente, Saremar e Toremar...» come già richiamato;
   tale disposizione di legge non solo è pienamente in vigore ma è esplicita: si tratta di contratti di servizio di durata non superiore ai dodici anni con le società Saremar e Toremar;
   in base alla previsione legislativa alla Saremar spettano quindi contributi, a partire dal 2010, sino al 2022 di 164.237.292 euro;
   tale contributo statale risulta di fatto esigibile dalla stipula della proroga prevista per legge con un ammontare futuro che sarebbe di 109.491.528 euro, considerando un termine che comprende il periodo 2015-2022;
   è fin troppo evidente che tali contributi statali non possono eludere il principio affermato in legge di mantenere in essere la società Saremar intesa come unicità tra servizio pubblico e fattori della produzione, dal personale allo stesso naviglio;
   è diritto inalienabile e riconosciuto quello relativo al rispetto del mantenimento del servizio universale e della continuità territoriale con le isole;
   tale servizio costituisce un diritto fondamentale e inalienabile alla mobilità di passeggeri e merci, senza discriminazioni e a pari condizioni;
   in questo quadro si inserisce anche la gestione del servizio di continuità territoriale tra le isole minori, disciplinate anch'esse da norme esplicite sul mantenimento del servizio universale;
   l'evoluzione del processo di privatizzazione e nel contempo i gravissimi limiti riscontrati nell'applicazione del principio di continuità territoriale e di oneri di servizio pubblico, impongono una puntuale applicazione delle norme vigenti, con particolare riferimento alla garanzia del servizio di continuità inteso come onere di servizio pubblico e il mantenimento in essere della società Saremar, a partire dal personale dipendente;
   in questo contesto appaiono rilevanti le norme e la giurisprudenza europea che articolano le proprie disposizioni in funzione del servizio universale di continuità territoriale, della tutela della non discriminazione e dell'onere del servizio pubblico;
   in tal senso appare indispensabile richiamare due fondamentali richiami della Commissione europea in merito all'applicazione dei regolamenti:
    la Commissione europea, direzione generale energia e trasporti, nella lettera protocollo n. D (2009) 75213 del 21 dicembre 2009, indirizzata alle autorità italiane nel quadro della procedura di infrazione n. 2007/4609; con riferimento al percorso di privatizzazione definito nel decreto-legge n. 135 del 25 settembre 2009, ha precisato, altresì, che «ai fini dell'applicazione del regolamento 3577/92 sul cabotaggio marittimo è del tutto irrilevante che gli operatori del servizio pubblico siano pubblici o privati»;
    la Commissione europea, nella lettera del dicembre 2009 ha affermato che «se le regioni effettuano il servizio “in house” ai sensi della sentenza Anav della Corte di giustizia (C-410/04) e tutti i relativi requisiti sono rispettati, il regolamento 3577/92 può considerarsi correttamente applicato»;
   la Corte di giustizia europea, sez. I, 6 aprile 2006, n. C-410/04 ha emesso la sentenza su «Libera prestazione dei servizi – Servizio di trasporto pubblico locale – Affidamento senza procedura di gara – Affidamento da parte di un ente pubblico ad un'impresa di cui esso detiene il capitale»;
   in primo luogo la Corte di giustizia ha richiamato le norme di riferimento alle quali ha ispirato la propria decisione, che sono:
    l'articolo 43 del Trattato CE così prevede: «Nel quadro delle disposizioni che seguono, le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro vengono vietate (...). La libertà di stabilimento importa l'accesso alle attività non salariate e al loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese e in particolare di società ai sensi dell'articolo 48, secondo comma, alle condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini, fatte salve le disposizioni del capo relativo ai capitali»;
    l'articolo 46 del Trattato CE ha il seguente tenore: «1. Le prescrizioni del presente capo e le misure adottate in virtù di queste ultime lasciano impregiudicata l'applicabilità delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che prevedano un regime particolare per i cittadini stranieri e che siano giustificate da motivi d'ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica. 2. Il Consiglio, deliberando secondo la procedura di cui all'articolo 251, stabilisce direttive per il coordinamento delle suddette disposizioni»;
    l'articolo 49 del Trattato, primo comma, CE così prevede: «Nel quadro delle disposizioni seguenti, le restrizioni alla libera prestazione dei servizi all'interno della Comunità sono vietate nei confronti dei cittadini degli Stati membri stabiliti in un paese della Comunità che non sia quello del destinatario della prestazione»;
    il testo dell'articolo 86, n. 1, del Trattato CE è il seguente: «Gli Stati membri non emanano né mantengono, nei confronti delle imprese pubbliche e delle imprese cui riconoscono diritti speciali o esclusivi, alcuna misura contraria alle norme del presente trattato, specialmente a quelle contemplate dagli articoli 12 e da 81 a 89 inclusi»;
   in tal senso la Corte di giustizia si è così pronunciata: «Per questi motivi, la Corte (Prima Sezione) dichiara: Gli articoli 43 CE, 49 CE e 86 CE, nonché i principi di parità di trattamento, di non discriminazione sulla base della nazionalità e di trasparenza non ostano a una disciplina nazionale che consente ad un ente pubblico di affidare un servizio pubblico direttamente ad una società della quale esso detiene l'intero capitale, a condizione che l'ente pubblico eserciti su tale società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi, e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente che la detiene»;
   il 22 gennaio 2014 Joaquín Almunia, vicepresidente e commissario per la politica di concorrenza, in relazione alla procedura riguardante la vicenda Saremar, con una nota ufficiale ha dichiarato: «Gli Stati membri e le autorità regionali sono ovviamente liberi di finanziare servizi di interesse economico generale. Tuttavia, come previsto dalle norme UE, il finanziamento dovrebbe essere trasparente e basato su obblighi di servizio pubblico chiaramente definiti.»;
   in particolar modo, e a sottolineare le responsabilità della regione Sardegna, nella grave gestione della vicenda Saremar la Commissione europea scrive: «La normativa SIEG prevede che i prestatori di servizi pubblici possano ricevere una compensazione pari ai costi netti sostenuti per assolvere ai loro obblighi di servizio pubblico, qualora i parametri per calcolare la compensazione siano previamente definiti e gli obblighi di servizio pubblico siano definiti in modo chiaro. Tuttavia, quando Saremar era stata incaricata dell'esercizio delle due rotte marittime, non era stato definito un relativo meccanismo di compensazione. Inoltre, gli atti di incarico non definivano chiaramente gli obblighi di servizio pubblico imposti a Saremar. La Commissione ha concluso che Saremar non aveva diritto a una compensazione e doveva rimborsare le somme ricevute.»;
   in questo contesto appare ancora più esplicito il richiamo della Commissione nella decisione assunta: l'importo della compensazione non deve eccedere quanto necessario per coprire i costi netti determinati dall'adempimento degli obblighi di servizio pubblico, compreso un margine di utile ragionevole (punto 21);
   nella decisione della Commissione del 22 gennaio 2014 sulle misure di aiuto Sa.32014 (2011/C), Sa.32015 (2011/C), Sa.32016 (2011/C), cui la regione Sardegna ha dato esecuzione a favore di Saremar al punto (254) la Commissione europea inquadra la Saremar in un servizio gestito in house e infatti scrive: «sembrerebbe in effetti che Saremar agisca per conto della RAS come strumento per l'attuazione delle politiche di trasporto marittimo e sviluppo regionale della RAS»;
   sempre nella decisione richiamata del 22 gennaio 2014 si fa esplicito riferimento alle condizioni finanziarie e gestionali della Saremar e le possibili strade percorribili per il suo salvataggio. Al punto (261) della decisione è infatti scritto: «Per le ragioni precisate in appresso, la Commissione ritiene che Saremar potesse essere considerata un'impresa in difficoltà ai sensi degli orientamenti per il salvataggio e la ristrutturazione all'epoca della concessione della compensazione»;
   è esplicito il richiamo della Commissione alle condizioni per il salvataggio e l'interesse della parte pubblica al suo intervento diretto nel salvataggio. In particolar modo al punto 262 della decisione del 22 gennaio 2014 è scritto: «(262) Ai sensi del punto 9 degli orientamenti per il salvataggio e la ristrutturazione, un'impresa è considerata in difficoltà quando non è in grado di riprendersi con le proprie risorse o con le risorse che può ottenere dagli azionisti o sul mercato e se, in assenza di un intervento esterno delle autorità pubbliche sarebbe quasi certamente costretta a uscire dal mercato.»;
   al punto 270 della decisione la Commissione richiama esplicitamente un percorso possibile di salvataggio che la regione, ad avviso dell'interrogante, non solo non ha perseguito ma che ha maldestramente disatteso: «(270) Poiché la società non ha ricevuto aiuti per salvataggio o ristrutturazione negli ultimi dieci anni, la Commissione conclude che è rispettato il principio del cosiddetto “aiuto una tantum” di cui al punto 72 e successivi degli orientamenti per il salvataggio e la ristrutturazione.»;
   a conferma del fatto che lo Stato Italiano e la regione Sardegna dovessero, e soprattutto potessero, attivare procedure di salvataggio è indicato al punto 273 della decisione che: «(273) In secondo luogo, perché una misura possa essere considerata compatibile ai sensi dei punti 34-37 degli orientamenti per il salvataggio e la ristrutturazione, il piano di ristrutturazione deve analizzare nei dettagli i problemi all'origine delle difficoltà e precisare i mezzi con cui si intende procedere per ripristinare la redditività a lungo termine e la salute della società entro un lasso di tempo ragionevole. Il piano di ristrutturazione deve essere elaborato sulla base di ipotesi realistiche circa le condizioni operative future, prendendo in considerazione scenari diversi – ottimisti, pessimisti e intermedi – che tengano conto dei punti di forza e delle debolezze specifiche dell'impresa. Il piano deve essere presentato alla Commissione corredato di tutte le informazioni utili, tra cui in particolare uno studio di mercato.»;
   al punto 274 la Commissione europea dichiara inoltre esplicitamente: «(274) Nessun piano avente queste caratteristiche è stato trasmesso alla Commissione. È vero che la RAS ha presentato un piano industriale per Saremar per il periodo 2011-2022; è anche vero, però, che tale piano non rispetta le prescrizioni degli orientamenti per il salvataggio e la ristrutturazione.»;
   a conferma di quanto richiamato in numerosi atti di sindacato ispettivo relativamente alla gestione della continuità territoriale è fondamentale richiamare il principio disciplinato al punto 21 della disciplina SIEG del 2011: «l'importo della compensazione non deve eccedere quanto necessario per coprire i costi netti determinati dall'adempimento degli obblighi di servizio pubblico, compreso un margine di utile ragionevole». A norma del punto 24 della disciplina SIEG del 2011, il costo netto necessario per l'adempimento degli OSP deve essere calcolato sulla base di un confronto della situazione del fornitore con e senza gli OSP da assolvere;
   risulta evidente che, alla luce di quanto enunciato e disposto dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale, risulta indispensabile un intervento immediato del Governo al fine di ripristinare un pieno e adeguato servizio di continuità territoriale tra la Sardegna e le isole minori, salvaguardando livelli occupazionali e garantendo una gestione diretta del servizio stesso, al fine di scongiurare distorsioni del servizio e possibili fenomeni speculativi sulla gestione dello stesso –:
   se il Governo non ritenga di dover assumere le iniziative di competenza al fine di:
    a) garantire la salvaguardia del diritto alla continuità territoriale tra isole minori in quanto diritto universale e inalienabile;
    b) garantire la piena applicazione della norma contenuta nella legge n. 166 del 2009, con la quale si dispone l'affidamento del servizio alla società Saremar, attraverso la proroga del contratto per 12 anni;
    c) impedire il fallimento della società Saremar, sulla base del falso presupposto che essa non abbia, per legge, piena titolarità del servizio, a prescindere dal tipo di gestione, pubblica o privata, che sarà disposta dalla regione Sardegna;
    d) garantire l'attuazione del pieno diritto delle regioni a statuto speciale a disciplinare il servizio di cabotaggio marittimo secondo le articolazioni da definire con disposizioni di attuazione in base alle normative vigenti, con particolare riferimento alla gestione in house;
    e) dare attuazione alle disposizioni e alla stessa giurisprudenza che prevedono l'esercizio del servizio pubblico del cabotaggio marittimo attraverso società in house, considerato che la stessa Commissione europea ha affermato che «se le regioni effettuano il servizio “in house” ai sensi della sentenza Anav della Corte di giustizia (C-410/04) e tutti i relativi requisiti sono rispettati, il regolamento 3577/92 può considerarsi correttamente applicato»;
    f) definire, d'intesa con la regione Sardegna, interventi che prevedano il salvataggio e la ristrutturazione della società Saremar, anche alla luce delle comunicazioni che la Commissione europea ha rivolto allo Stato italiano, con le quali ha preso atto del mancato avvio di un piano industriale teso al salvataggio e alla ristrutturazione della società Saremar, con la conseguente soluzione delle condizioni pregiudiziali alla gestione della società stessa, anche di natura giudiziaria;
    g) prevedere nella stipula della proroga del contratto di servizio con la Saremar clausole di salvaguardia totale per i lavoratori della società Saremar che permettano il mantenimento delle condizioni contrattuali e previdenziali pregresse.
(4-10685)

GIUSTIZIA

Interrogazione a risposta in Commissione:


   TURCO, ARTINI, BALDASSARRE, BARBANTI, BECHIS, MUCCI, PRODANI, RIZZETTO e SEGONI. — Al Ministro della giustizia. — Per sapere – premesso che:
   in tema di affidamento dei minori nelle coppie genitoriali conflittuali, nel corso degli anni, tra il 1977 e il 2014 sono stati pubblicati, su riviste internazionali con revisione «peer in review» o in report governativi, 76 studi fondati sul confronto tra affido materialmente esclusivo e affido materialmente condiviso e tali studi esprimono il pensiero della comunità scientifica internazionale basato su risultanze concrete;
   tutti questi studi sono stati infatti analizzati in via metanalitica da due differenti ricerche (in parte sovrapposte, relativamente a 14 ricerche) con parametri d'accesso differenti;
   la professoressa tedesca Hildegunde Suenderhauf ha selezionato 50 studi pubblicati tra il 1977 e il 2013 includendo come criterio di affido materialmente condiviso anche i pochissimi studi che consideravano come tale la suddivisione 25-75 per cento e ne analizzato le conclusioni: esse sono risultate inequivocabili. Solo due studi (4 per cento) avevano dato risultati negativi per l'affido materialmente condiviso, undici o non avevano mostrato influenze oppure avevano mostrato alcuni effetti negativi neutralizzati da altri positivi (gruppo di studi detto neutrale o misto). Trentasette (74 per cento), però, avevano prodotto inequivocabili risultati positivi per l'affido materialmente condiviso (Suenderhauf 2013);
   si precisa inoltre che uno di questi due studi negativi, quello di Mc Intosh del 2008, è stato fatto oggetto di censure per vizi metodologici e ridotte dimensioni della campionatura e parzialmente rinnegato dalla stessa autrice;
   in questa casistica di 50 studi l'affido materialmente condiviso era rappresentato, come dianzi accennato, da provvedimenti giudiziari che contemplavano una distribuzione dei tempi di coabitazione inclusa nel range 25-75 per cento fino al 50-50, con la massima concentrazione attorno al range 33-66;
   l’International Council on Shared Parenting, sulla base della revisione della letteratura scientifica, ha stabilito nel convegno internazionale di Bonn del luglio 2014 come il miglior interesse standard del minore sia rappresentato da disposizioni giudiziarie che prevedano tempi di coabitazione e cura compresi fra il 66-33 per cento e il 50-50 per cento, tra l'altro nella revisione dei 50 studi sopra citati i risultati migliori si hanno proprio per la suddivisione paritaria dei tempi;
   la seconda metanalisi è quella della professoressa Linda Nielsen che ha incluso i 40 studi pubblicati tra il 1989 e il 2014 che paragonavano i risultati sul benessere della prole derivanti dall'affido materialmente esclusivo rispetto a quello materialmente condiviso, quest'ultimo inteso però come quella forma di affido in cui la prole trascorreva non meno del 35 per cento con ognuno dei due genitori, quindi con limite più alto rispetto a quello deciso dalla professoressa Suenderhauf;
   le conclusioni sono state riassunte all'autrice in quattro punti:
    a) l'affido materialmente condiviso era legato a migliori risultati per i minori di tutte le età per un vasto range di parametri emozionali, comportamentali e salute fisica;
    b) non c'era alcuna evidenza convincente che il pernottamento presso il padre o l'affido materialmente condiviso fossero collegati a risultati negativi per bambini anche piccoli di età 1-4 anni;
    c) i risultati non sono positivi quando c’è una storia di violenza o quando i bambini non amano stare col padre;
    d) anche se le coppie con affido materialmente condiviso dei figli tendono spesso ad avere entrate economiche più alte e minori conflitti verbali che gli altri genitori, questi due fattori non spiegano i migliori risultati per i figli;
   il Consiglio d'Europa, fondandosi per il versante scientifico proprio su queste ricerche ha deliberato in data 2 ottobre 2015 con 46 voti a favore e due sole astensioni una risoluzione con la quale si invitano tra l'altro gli Stati membri a promuovere la «shared residence», definita nella relazione introduttiva: «come quella forma di affidamento in cui i figli dopo la separazione della coppia genitoriale trascorrono tempi più o meno uguali presso il padre e la madre» e ad incentivare l'adozione di piani genitoriali dettagliati;
   l'Italia, come chiaramente illustrato da una approfondita ricerca del pediatra Vittorio Vezzetti pubblicata sulla rivista della società italiana di pediatria preventiva e sociale e presentata presso il Parlamento europeo, all'ufficio dell'Alto Commissario delle Nazioni unite e per i diritti umani e al quinto convegno europeo degli assistenti sociali, è tra i fanalini di coda in Europa per quanto riguarda la «shared residence» e la probabilità di un minore di mantenere un contatto con uno dei genitori dopo la separazione e pure l'affido alternato;
   mentre sui siti web di diversi tribunali, ad esempio quello di Brescia, compaiono suggerimenti di accordo per separazione consensuale che prevedono una distribuzione dei tempi squilibrata, 85 per cento-15 per cento, si riscontra che solo il tribunale di Perugia attua un protocollo in linea con le raccomandazioni del Consiglio d'Europa prevedendo tempi equipollenti da trascorrere con padre e madre e piani genitoriali dettagliati –:
   se sia a conoscenza degli studi testé richiamati;
   se intenda prendere in considerazione la letteratura scientifica internazionale su questo delicato argomento così come ha fatto il Consiglio d'Europa allo scopo di porre rimedio ad una situazione pregiudizievole per centinaia di migliaia di minori italiani;
   se intenda promuovere il recepimento della risoluzione del Consiglio d'Europa;
   se intenda attivarsi per promuovere l'adozione del protocollo del tribunale di Perugia da parte del maggior numero di tribunali possibili;
   se intenda favorire, per quanto di competenza, un rapido iter dei numerosi progetti di legge di riforma dell'affido condiviso presentati nei due rami del Parlamento. (5-06605)

INFRASTRUTTURE E TRASPORTI

Interrogazione a risposta in Commissione:


   GELLI, BINI e FANUCCI. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   il quotidiano La Repubblica riporta la notizia del calvario vissuto da una ragazzina disabile di 12 anni a Pistoia;
   il 5 ottobre 2015 la ragazza con la madre ha voluto recarsi, come da suo espresso desiderio, in treno a Pistoia partendo da Montecatini perché dotata di un solo binario il che consente di poter salire sul treno considerato che nel caso di due binari sul secondo è difficile poter accedere alla stessa banchina;
   le difficoltà si erano però già palesate con il parcheggio per disabili occupato abusivamente e con la biglietteria chiusa;
   la biglietteria automatica non consentiva l'emissione del biglietto con la carta blu costringendo la ragazza e sua madre a fare il biglietto per intero;
   la madre ha provato a chiamare il numero verde 199303060 per richiedere l'assistenza sul treno, ma non ha risposto nessuno;
   stessa odissea per il viaggio di ritorno con gli ascensori rotti, costringendo le due viaggiatrici a scendere le scale con l'aiuto di un addetto alle pulizie;
   ancora una volta come già denunciato mediante altro atto di sindacato ispettivo i servizi per disabili presentano disfunzioni che non ne consentono adeguato utilizzo sul campo costringendo disabili ed accompagnatori a sopportare difficoltà non degne di un servizio di trasporto pubblico –:
   se il Ministro sia a conoscenza di tale episodio e se, alla luce di quanto riportato in premessa, non intenda adottare iniziative, ove ne sussistano i presupposti, anche di natura ispettiva nei confronti di Ferrovie dello Stato italiane e adoperandosi affinché siano ripristinati in maniera effettiva i servizi per disabili sulla tratta in questione e verificandone la funzionalità su tutto il territorio regionale. (5-06608)

INTERNO

Interrogazioni a risposta in Commissione:


   SCUVERA. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   la legge 20 giugno 1956, n. 658, e la successiva legge 2 gennaio 1958, n. 13, hanno previsto l'istituzione di una ricompensa al merito civile intesa a premiare le persone, gli enti e i corpi che si siano prodigati, con eccezionale senso di abnegazione, nell'alleviare le altrui sofferenze o, comunque, nel soccorrere chi si trovi in stato di bisogno, ovvero abbiano ad esempio compiuto atti per salvare persone esposte ad imminente e concreto pericolo o per ristabilire l'ordine pubblico, ove fosse stato gravemente turbato;
   ai sensi delle succitate leggi la ricompensa al merito civile può consistere in una medaglia d'oro o d'argento o di bronzo ovvero in un attestato di pubblica benemerenza;
   la città di Varzi, in provincia di Pavia – come sottolineato anche più volte dall'ANPI – si è distinta durante la Resistenza, negli anni tra il 1943 e il 1945, per episodi di eroismo nella battaglia contro il nazifascismo, e la sua popolazione ha offerto prova di straordinaria dignità e coraggio;
   tali episodi sono stati del resto ampiamente documentati anche in talune pubblicazioni quali il volume dell'Istituto della Resistenza dell'università di Pavia a cura del professore Giulio Guderzo, dal titolo «L'Altra Guerra» e il volume «La libertà è un dono», a cura della dottoressa Cecilia Demuru;
   gli stessi testi sopracitati hanno altresì documentato che al momento della liberazione della zona di Varzi, il 18 settembre del 1944, fu costituita una giunta democratica, eletta da un'assemblea pubblica, che diede vita ad una Repubblica partigiana:
   in particolare si sono distinte, al tempo della giunta, le persone di: Fortunato Repetti, Costantino Pizzardi, Guido Versari, Mario Grazi, Salvatore Lai, Emilio Piana, Leopoldo Braghieri, Luigi Rebaschio, Lino Tardai –:
   alla luce di quanto riportato in premessa sui fatti relativi alla Resistenza al nazifascismo accaduti a Varzi, della sua proclamazione a Repubblica partigiana e degli atti di eroismo compiuti dalla sua popolazione, se il Ministro interrogato non ritenga opportuno avviare quanto prima le necessarie procedure atte a conferire alla città di Varzi una ricompensa al valore civile ai sensi della legge 20 giugno 1956, n. 658, e della legge 2 gennaio 1958, n.13, e ad attribuire una medaglia d'oro al valore civile per le persone di Fortunato Repetti, Costantino Pizzardi, Guido Versari, Mario Grazi, Salvatore Lai, Emilio Piana, Leopoldo Braghieri, Luigi Rebaschio, Lino Tarditi. (5-06603)


   PILI. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   il Ministero ha predisposto uno schema di decreto che sopprime la prefettura di Oristano;
   la prefettura di Oristano viene accorpata a quella di Nuoro;
   secondo la mappa della riorganizzazione resterebbero quelle di Sassari e Cagliari, insieme a Nuoro;
   l'interrogante oltre un anno fa denunciò, con il silenzio complice di regione, comune e istituzioni varie, la decisione del Governo di chiudere la prefettura di Oristano e accorparla a quella di Nuoro;
   nessuno in quell'occasione fece niente per arginare e far revocare quella decisione;
   ora il Governo Renzi con il citato schema di decreto cancella definitivamente la prefettura di Oristano;
   il provvedimento del Ministro dell'interno dovrebbe essere sottoposto al vaglio della Camera dei deputati per il suo esame;
   è indispensabile che si attivino tutti gli atti necessari per contrastare questa decisione che appare all'interrogante insensata e fuori luogo;
   questo provvedimento nasce da una legge n. 135 del 2012 votata da tutti i parlamentari sardi del Pd compresi quelli che oggi la contestano;
   tutto ciò appare paradossale considerato che a Roma hanno votato per sopprimere la prefettura, mentre ad Oristano protestano per mantenerla;
   ogni ufficio sul territorio svolge 257 tra funzioni e procedure, non solo sicurezza, ma anche immigrazione, protezione civile, questioni elettorali e amministrative di tutti i generi;
   le prefetture sono un architrave medioevale, che andrebbe cancellato dalla diretta dipendenza statale, ma i servizi non possono essere cancellati a colpi di scure senza capire gli effetti e le ricadute;
   la Sardegna è regione a statuto speciale e tale decisione assunta, a giudizio dell'interrogante, come se l'isola fosse una colonia di Stato è inaccettabile e irricevibile;
   è inaccettabile affrontare queste questioni in qualche stanza del Viminale senza il vaglio delle istituzioni locali e regionali –:
   se non intenda il Governo rivedere tale insensata decisione;
   se non si intenda aprire un confronto con le istituzioni locali e regionali per revocare questa decisione che appare all'interrogante illogica e irragionevole e che rischia di generare molti più costi del suo mantenimento. (5-06610)

Interrogazioni a risposta scritta:


   COLONNESE, LOREFICE, BRESCIA, TOFALO, PISANO, LUIGI DI MAIO, SILVIA GIORDANO e FICO. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   il 5 ottobre 2015 circa settanta migranti hanno dato il via ad una forte azione di protesta contro le lungaggini burocratiche del nostro Paese che li ha costretti per un anno a vivere all'interno dell'Hotel Fluminia, in attesa del colloquio con la commissione territoriale preposta al rilascio dei documenti attestanti lo status di rifugiati politici. I migranti si sono barricati nella struttura dalla quale non è possibile uscire ed entrare. Rifiutano il cibo e minacciano l'occupazione permanente dello stabile trattenendo un operatore al suo interno allo scopo di ottenere prima les papiers;
   secondo quanto riportato dal quotidiano La città di Salerno sarebbe previsto nella giornata del 6 ottobre un incontro in prefettura per cercare una risposta alle richieste dei migranti ospitati nella struttura gestita dalla cooperativa New Family e porre fine al blocco dell'albergo;
   tempi di permanenza eccessivi e di dubbia legittimità che, insieme alla parziale erogazione dei servizi minimi da garantire ai migranti, configurano una sostanziale violazione dei diritti costituzionali e umani degli ospiti;
   all'inizio del 2015 erano circa 3700 i richiedenti asilo ospitati nelle strutture campane. L'articolo 7 del decreto legislativo 25 del 2008 dispone che il richiedente è autorizzato a rimanere su territorio dello Stato, ai fini esclusivi della procedura, fino alla decisione della commissione territoriale in ordine alla domanda. In Italia l’iter di una domanda di asilo dura mediamente 18 o addirittura 24 mesi costringendo migliaia di persone a vivere in una specie di limbo, costretti a destini incerti e soggiorni prolungati da una burocrazia lentissima;
   era il 6 maggio 2014 quando un articolo di Repubblica.it descriveva il mostruoso business dell'immigrazione caratterizzato da illeciti e irregolarità nell'erogazione del «pocket money», nell'impiego di mediatori culturali, interpreti e psicologi, nella violazione delle procedure legali da parte di molte questure, come nel caso di quelle di Roma, Caltanissetta e Crotone che tardavano a rilasciare del permesso di soggiorno per richiesta d'asilo. Venivano altresì mostrate le impietose e desolanti immagini degli alloggi in cui i migranti, in particolare i richiedenti asilo, sono costretti a vivere, da Gorizia a Trapani;
   dall'inchiesta Mafia Capitale è emerso che si può «guadagnare con gli immigrati più di quanto si guadagna con la droga», perché il lucroso business degli immigrati nutre e rende prospere le reti mafiose;
   il 2014 il Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell'asilo viene incrementato di 50,8 milioni di euro, in modo da permettere l'ampliamento dello Sprar-servizio centrale del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, gestita dai comuni. Vengono assegnati, al Ministero dell'interno 62,7 milioni di euro per «fronteggiare le esigenze straordinarie connesse all'eccezionale afflusso di stranieri sul territorio nazionale»;
   la legge n. 146, entrata in vigore il 22 ottobre 2014, dispone che le commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale vengano raddoppiate da dieci a venti, e viene disposto l'insediamento di queste presso le prefetture, che forniranno supporto logistico e organizzativo. In tale ambito è attribuita al dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione del Ministero dell'interno la funzione di coordinamento –:
   se il Ministro interrogato sia a conoscenza di quanto in premessa;
   quali siano i provvedimenti, le politiche coordinate di ampia visione nonché le strategie d'intervento finalizzati a velocizzare e snellire la burocrazia sulle pratiche di accoglienza e riconoscimento dello status di rifugiato;
   come intenda intervenire per prevenire eventuali episodi di tensione e conflitto sociale fra migranti e cittadini che stanno interessando tutto il territorio nazionale, denotando delle evidenti criticità di tutto il sistema di accoglienza «emergenziale». (4-10668)


   FRANCO BORDO. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   in provincia di Bergamo, su una vasta superficie che si estende nei comuni di Almé, Bergamo, Mozzo, Paladina, Ponteranica, Ranica, Sorisole, Torre Boldone, Valbrembo, Villa d'Almé, è stato istituito dal 1977 il Parco dei Colli di Bergamo. Il parco si estende su un'area di circa 4.700 ettari, situata tra i 244 ed i 1146 metri d'altitudine;
   a seguito del grande afflusso di migranti in data 7 agosto 2015, con protocollo 2127 perveniva a mezzo pec nota da parte della prefettura di Bergamo – ufficio territoriale per il Governo – che rappresentava «la necessità di poter disporre, nell'immediato, di una struttura destinata ad accogliere da subito 30/40 migranti, tra quelli destinati alla provincia di Bergamo nelle more del completamento delle attività di rito, finalizzate a rendere disponibili siti già individuati, ma al momento non attivabili, o a reperirne ulteriori. Stante la impossibilità, ad oggi, di fruire di altre strutture capaci di assicurare idonea e pronta sistemazione al primo gruppo di migranti da trasferire in questa provincia dal predetto Hub di Bresso»;
   la prefettura quindi chiedeva al Parco dei Colli di valutare la possibilità di concedere con effetto immediato e per un periodo di 20/30 giorni l'immobile denominato «Cà della Matta» struttura sita in comune di Ponteranica in località Maresana. Struttura affidata tramite gara ad evidenza pubblica dal 16 marzo 2015 al Consorzio Sol.co. Città Aperta Soc. Coop. Sociale avente sede legale a Bergamo, che effettua servizio di gestione dell'immobile e delle aree esterne del Centro Parco «Cà della Matta», per la gestione come struttura ricettiva/formativa e Ostello;
   a seguito della richiesta della prefettura di Bergamo il presidente del Parco, trattandosi di un uso eccezionale e straordinario del bene rispetto all'uso ordinario cui è destinato, procedeva, previa disponibilità manifestata dal concessionario della struttura Centro Parco Cà della Matta, a convocare in via d'urgenza la Comunità del Parco quale organo rappresentativo di tutti gli enti che compongono l'Ente Parco stesso, al fine di acquisire indicazioni al riguardo. La Comunità del Parco, con deliberazione n. 4 del 10 agosto 2015, dichiarata immediatamente eseguibile, concedeva in via eccezionale – senza altro onere per l'Ente Parco – l'utilizzo della suddetta struttura per le finalità di cui in premessa fino al 31 agosto 2015, precisando che la stessa era dotata di 24 posti letto. In pari data, nel trasmettere tale deliberazione alla prefettura di Bergamo, il presidente del Parco, auspicava misure di vigilanza all'insegna della sicurezza e dell'incolumità di tutti;
   con nota prot. 39873 del 25 agosto 2015, rettificata con nota prot. 40851 del 31 agosto 2015, prefettura di Bergamo, atteso il perdurare dei flussi migratori, richiedeva di disporre una proroga sino al 8 settembre 2015 della struttura Ca Matta. All'uopo veniva convocata in via d'urgenza la Comunità del Parco per il giorno 31 agosto 2015, che con deliberazione n. 5 del 31 agosto 2015, dichiarata immediatamente esegui e, prorogava, per la finalità richiesta, la concessione in via eccezionale della struttura sino all'8 settembre 2015. In pari data tale decisione veniva comunicata alla prefettura di Bergamo;
   la guardia parco dell'Ente in data 9 settembre 2015 a seguito di sopralluogo effettuato, confermavano che presso la struttura non vi erano profughi ospitati, come da accordi con la prefettura di Bergamo e in data 1o ottobre 2015 a seguito di specifico sopralluogo da parte dei tecnici del Parco, si è constatato il buono stato di conservazione dell'immobile, degli arredi e delle aree esterne;
   l'assessore regionale all'ambiente, energia e sviluppo sostenibile Claudia Maria Terzi si era espressa in questi termini sulla stampa dopo la decisione del Parco di accogliere i profughi alla «Cà Matta». «Come più volte ribadito anche dal Presidente Maroni l'accoglienza dei clandestini non può e non vuole essere favorita in alcun modo da Regione Lombardia. Qualora dovesse verificarsi l'utilizzo di strutture del sistema dei Parchi Regionali, come appunto quella della Ca’ Matta, per la gestione dell'emergenza sbarchi sarà mia premura rivedere la distribuzione dei fondi ai Parchi Regionali, anche quelli già assegnati ma non ancora impegnati, premiando le gestioni coerenti con le finalità del sistema delle aree protette e penalizzando tutti gli utilizzi non conformi con gli indirizzi regionali»;
   in data 7 agosto 2015 l'assessore Claudia Maria Terzi aveva provveduto ad inviare una missiva a numerosi residenti dei parchi naturali in regione Lombardia esprimendosi in questi termini: «Gent.mi Presidenti, mi corre nuovamente l'obbligo di scriverVi per ribadire quanto già espresso con la mia comunicazione del 5 agosto 2014 (protocollo T1.2014.0036377) rispetto agli utilizzi non conformi delle strutture dei Parchi regionali. Le strutture e gli immobili dei parchi sono beni di proprietà della collettività che devono essere utilizzati solo ed esclusivamente per la fruizione dei parchi e per tutto ciò che può considerarsi una esplicazione dei suoi obiettivi, come ad esempio: educazione ambientale, la salvaguardia della biodiversità, conoscenza della natura e della sua importanza per la nostra vita. Rispetto a reiterate ipotesi di utilizzi non in linea con gli scopi del sistema dei Parchi regionali, di cui ho appreso in data odierna dai quotidiani, voglio aggiungere che simili comportamenti saranno oggetto di attenta valutazione da parte della Giunta regionale nella programmazione delle risorse, anche con riferimento a quelle già assegnate ma non ancora impegnate. RingraziandoVi per la cortese attenzione, colgo l'occasione per augurarVi buone ferie»;
   da quanto si apprende dalla stampa locale e pubblicamente commentato dal sindaco di Bergamo Giorgio Gori, la regione Lombardia ha provveduto ad inizio ottobre 2015 a tagliare i finanziamenti Colli al Parco dei Colli per un totale di circa 90.000 euro per i prossimi 3 anni;
   sarebbe opportuno intervenire affinché non siano esposti a «sanzioni» di natura amministrativa gli enti pubblici che accolgono le richieste delle prefetture, uffici del Governo sul territorio –:
   quali iniziative di competenza si intendano assumere affinché non venga messo in discussione il piano di accoglienza predisposto dal Ministero e attuato agli organi dello Stato, in primis le prefetture. (4-10669)


   MOLTENI. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   nel comune di Lanzo dovrebbero giungere a breve altri 12 sedicenti profughi richiedenti asilo, destinati ad essere ospitati presso la storica Villa Bernasconi, nota anche come Villa San Giuseppe, interessata attualmente da lavori di restauro ed adeguamento, e situata in una zona d'alto pregio, Lanzo Intelvi;
   ad occuparsi dei sedicenti profughi sarebbe a Congregazione delle Suore di Betlemme;
   Lanzo ha circa 1.500 abitanti ed è un comune a forte vocazione turistica;
   contro la decisione di trasferire dei sedicenti profughi a Villa Bernasconi si è costituito un comitato spontaneo di protesta, che ha aperto alla firma dei cittadini una lettera in cui si chiede alle autorità di rinunciare ai loro propositi;
   alla prima settimana di ottobre 2015 risultavano circa 500 i cittadini di Lanzo che l'avevano sottoscritta, pari al 30 per cento della popolazione comunale locale;
   il sindaco di Lanzo, dopo aver inizialmente acconsentito alla richiesta delle autorità di trasferire dei sedicenti profughi a Lanzo Intelvi, a quanto consta all'interrogante, si sarebbe detto pronto a trasmettere al prefetto di Como la lettera di protesta redatta dal comitato sorto per ostacolare l'arrivo dei richiedenti asilo;
   la provincia di Como ha già dato ospitalità a ben 1.172 presunti profughi, di cui non è nota la distribuzione per nazionalità;
   nulla si sa neppure dell'esito delle procedure di concessione della tutela internazionale da loro avviate e del relativo stato di avanzamento di quelle ancora in sospeso –:
   come il Governo conti di reagire alla prospettata trasmissione della lettera di rimostranze sottoscritta dagli abitanti del comune di Lanzo, contrari all'arrivo a Lanzo Intelvi di 12 sedicenti profughi;
   in relazione ai 1.172 presunti profughi già ospitati dalla provincia di Como, quale sia la loro distribuzione per nazionalità d'origine;
   sempre in relazione ai 1.172 sedicenti profughi ospitati dalla provincia di Como, a quanto ammonti il numero di coloro cui è già stata accordata qualche forma di tutela internazionale e quanti siano coloro cui la domanda in tal senso è stata respinta;
   se, tra i 1.172 sedicenti profughi ospitati in provincia di Como, vi siano soggetti destinatari di provvedimenti di espulsione e se siano stati eseguiti.
(4-10672)


   TAGLIALATELA. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   il 1o ottobre 2015, in pieno giorno, un gruppo di violenti e facinorosi riconducibili ai centri sociali di sinistra ha assaltato la sede napoletana dell'associazione «Casa Pound», situata in via Foria;
   il gruppo di aggressori proveniva da una manifestazione tenuta all'esterno del tribunale di Napoli, in piazza Cenni, a più di due chilometri di distanza dalla sopracitata sede dell'associazione Casa Pound;
   l'azione, per le modalità con cui è avvenuta, sembrerebbe preordinata, soprattutto alla luce del fatto che i violenti hanno utilizzato diverse bombe carta, causando anche il ferimento di un commerciante della zona;
   le modalità dell'aggressione riportano le lancette del tempo indietro di trent'anni, quando quotidianamente i giovani del Movimento sociale italiano venivano aggrediti, e anche allora come oggi i mezzi di informazione riportavano notizie di risse, mentre si trattava di veri e propri agguati ed aggressioni;
   come riportato dalla stampa anche il sindaco di Napoli De Magistris è intervenuto sulla vicenda senza, però, condannare l'aggressione armata e senza approfondire di chi fossero le responsabilità del gesto, ma lasciandosi andare a condanne prettamente ideologiche nei confronti di Casa Pound –:
   come gli aggressori siano potuti arrivare indisturbati all'esterno dello stabile di Casa Pound in gruppo ed armati di bombe carta e mazze, dato che, come riportato in premessa, provenivano da una altra manifestazione;
   quali iniziative intenda assumere, per quanto di competenza, al fine di contribuire a fare piena luce sugli avvenimenti. (4-10675)


   MOLTENI. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   il 7 ottobre 2015, una trentina di sedicenti richiedenti asilo, giunti nell'estate scorsa ad Erba ed alloggiati all'Hotel Erba, ha inscenato una dimostrazione;
   la dimostrazione ha avuto luogo in piazza Prepositurale;
   nella circostanza, i migranti in questione hanno chiesto un incontro all'amministrazione comunale erbese allo scopo di manifestarle una serie di problemi;
   i migranti ospitati all'Hotel Erba di Erba, hanno lamentato la carenza di assistenza e cure, l'uniformità del cibo, a loro dire consistente soltanto in pasta, e l'impossibilità di cercare un lavoro;
   i sedicenti profughi sono stati ricevuti da un assessore, dal dirigente dei servizi sociali comunali di Erba e dal comandante della polizia locale;
   subito dopo l'incontro, si è verificata una rissa tra stranieri proprio sul piazzale antistante l'Hotel Erba, prontamente sedata dai carabinieri e dalla polizia locale –:
   se gli stranieri protagonisti della rissa siano alloggiati all'Hotel Erba o comunque abbiano collegamenti con quelli che hanno dimostrato in piazza Prepositurale;
   chi materialmente si occupi della gestione dei sedicenti richiedenti asilo alloggiati all'Hotel Erba;
   a che punto si trovino le pratiche concernenti le loro richieste di tutela internazionale e se ve ne siano già alcune concluse con il diniego del beneficio;
   per quali ragioni non si proceda all'espulsione dei migranti che risultino irregolari coinvolti nella protesta di cui in premessa per il cibo e il vestiario che ricevono gratuitamente dai contribuenti del nostro Paese, inscenando anche risse proprio davanti all'albergo loro concesso in uso. (4-10678)

ISTRUZIONE, UNIVERSITÀ E RICERCA

Interrogazione a risposta in Commissione:


   LOSACCO. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   come riportato dagli organi di informazione ed in particolare da Repubblica quattro istituti scolastici di Bari hanno rifiutato l'iscrizione ad un bambino di 10 anni, figlio di un criminale noto nella città pugliese e da anni in carcere, fuori regione, per scontare la pena;
   il bambino è in attesa di iniziare la prima media ed ora la pratica è nelle mani del direttore scolastico regionale a seguito dei quattro dinieghi ricevuti ufficialmente, da parte di altrettanti istituti della città, a partire da maggio 2015;
   non è l'unico bambino della città vecchia a non trovare ospitalità nelle scuole di tutta la città il che evidenzia la criticità di una condizione;
   la famiglia del bambino è decisa a proseguire in questa battaglia affinché possa regolarmente frequentare un istituto scolastico, anche in considerazione del fatto che si tratta di scuola dell'obbligo e che le colpe dei padri non possono ricadere sui figli;
   l'ufficio regionale ha fatto sapere di voler risolvere la questione invitando, per iscritto, le scuole a una immediata soluzione;
   Giovanni Falcone sosteneva che per sconfiggere la mafia serviva un esercito di insegnanti –:
   se il Ministro sia a conoscenza di tale situazione e quali iniziative intenda adottare al fine di consentire al bambino di potersi iscrivere e frequentare un istituto scolastico nella sua città, nonché per evitare che possano verificarsi casi simili, magari meno clamorosi, che rendono lo Stato meno forte e più fragile nel contrastare l'illegalità. (5-06607)

Interrogazioni a risposta scritta:


   BRIGNONE e CIVATI. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   il Consiglio dei ministri il 31 luglio 2015 ha approvato in bozza il riordino delle classi di concorso per l'insegnamento nella scuola secondaria di primo e secondo grado;
   nelle prossime settimane la VII Commissione sarà chiamata a valutare la relativa bozza prima della sua approvazione definitiva;
   dalla bozza approvata in sede di Consiglio dei ministri appare evidente l'allontanamento della classe di concorso dall'ambito disciplinare al quale culturalmente i docenti di matematica applicata si sentono appartenere, soprattutto sulla base delle loro specializzazioni delle quali la maggior parte abilitati con i corsi biennali SSIS;
   l'insegnamento della matematica nelle scuole secondarie di secondo grado, è stato ancora una volta attribuito a 3 classi di concorso (A047; A048; A049), senza di fatto effettuare alcun intervento di razionalizzazione;
   sulla base della ripartizione è quindi evidente quali siano le residuali possibilità lavorative degli attuali docenti precari e di ruolo abilitati nell'A048 anche con i recenti tirocini formativi attivi e percorsi abilitanti speciali confinate esclusivamente in alcuni istituti e indirizzi dove è consentito l'accesso a tutti i docenti abilitati delle altre classi di concorso;
   la nuova bozza di regolamento così come si presenta ad avviso dell'interrogante contiene criticità, ovvero, l'illogicità nel separare classi di concorso riguardanti la stessa disciplina con conseguenti difficoltà nella gestione dell'organico e inevitabili ripercussioni sulla didattica;
   difatti, con l'evidente incongruenza data dalla nuova tabella, si penalizzano i docenti abilitati all'insegnamento della matematica applicata (48A), favorendo solo gli appartenenti alla classe di concorso matematica (47A). Tale suddivisione crea problemi di gestione del personale ed esuberi, anche alla luce del potenziamento di organico previsto dalla «Buona Scuola», punendo la professionalità di molti docenti, di ruolo e precari con anni servizio e di dedizione all'insegnamento;
   l'unico presupposto della separazione di classi concorso prevista nella bozza di regolamento è ravvisabile nel fatto che la classe A048 consente l'accesso ad abilitati in matematica applicata il cui percorso formativo fa riferimento a lauree diverse dall'ambito matematico. Detta giustificazione si basa sui titoli di accesso delle diverse classi di concorso anziché sulla valutazione dei contenuti delle prove d'esame sostenute dai docenti già abilitati all'insegnamento della matematica;
   le prove d'esame che i docenti hanno dovuto sostenere diversi percorsi abilitanti fanno riferimento ai contenuti disciplinari dei programmi del decreto ministeriale 11 agosto 1998, n. 357, ove si evince che non emergono differenze nei contenuti con quelli della classe di concorso A047, se non, talvolta, esclusivamente riconducibili a un loro diverso livello di approfondimento –:
   se ritenga ci siano differenze curriculari tali da giustificare una classe ad hoc considerato che la matematica insegnata nelle scuole superiori è sostanzialmente la stessa, sia pure con ovvi diversi gradi di approfondimento;
   se alla luce di quanto sopra esposto, non ritenga opportuno procedere all'accorpamento delle due attuali classi di concorso, A047 «matematica» e A048 «matematica applicata», nel nuovo codice A-26 «matematica», che consenta di valorizzare le professionalità dei docenti abilitati e di gestire con più efficacia gli esuberi che, altrimenti, si verrebbero a creare mantenendo l'insegnamento della matematica in 3 classi di concorso;
   come intenda giustificare le preoccupanti ripercussioni sull'occupazione che l'approvazione definitiva della bozza nella sua versione attuale avrebbe sul futuro dei docenti e dell'insegnamento della matematica applicata. (4-10673)


   RAMPELLI. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   con ordinanza cautelare n. 1089 dell'11 marzo 2015 il Consiglio di Stato ha accolto l'istanza di inserimento con riserva nelle graduatorie di esaurimento (GAE) di un gruppo di insegnanti di scuola primaria;
   a distanza di cinque mesi il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca non ha ancora ottemperato al provvedimento, e in data 21 luglio 2015 lo stesso Consiglio di Stato, rilevando l'estrema gravità e urgenza della situazione e accogliendo l'ulteriore istanza dei ricorrenti, ha disposto con decreto monocratico l'immediata esecuzione dell'ordinanza di cui sopra e l'ammissione nelle graduatorie ad esaurimento (GAE) del gruppo di insegnanti;
   tali insegnanti fanno parte di un più ampio raggruppamento di circa tremila ricorrenti che annoverano diplomati magistrali, laureati in Scienza della formazione primaria e specializzati della scuola di specializzazione all'insegnamento secondario;
   nello stesso decreto si intima al Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, e nello specifico all'ufficio regionale scolastico della Lombardia, di dare piena attuazione del provvedimento entro quindici giorni, al fine di consentire ai ricorrenti di poter essere immessi in ruolo e ottenere incarichi a tempo determinato e indeterminato, qualora siano in possesso dei punteggi necessari, dal momento che la riserva è di natura meramente processuale e deve dare la possibilità di fruire di tutti i diritti anche a chi non è ammesso a titolo definitivo, fermo restando che il tutto dovrà essere confermato in sede di merito;
   al fine di garantire l'esecuzione dell'ordinanza n. 1089/2015, il Consiglio di Stato ha, inoltre, stabilito, nel decreto monocratico che l'eventuale ruolo di commissario ad acta sia svolto dal prefetto di Milano;
   già in molte occasioni il gruppo di insegnanti di cui sopra ha diffidato con lettere e missive il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca ad eseguire l'ordinanza di cui sopra –:
   se non ritenga opportuno procedere tempestivamente, e comunque entro i limiti temporali imposti dal Consiglio di Stato nel decreto monocratico del 21 luglio 2015, all'ammissione nelle graduatorie ad esaurimento degli insegnanti così come disposto nell'ordinanza cautelare n. 1089/2015. (4-10674)

LAVORO E POLITICHE SOCIALI

Interrogazioni a risposta in Commissione:


   SGAMBATO, MANFREDI, CAPOZZOLO, TARTAGLIONE, PARIS e VALIANTE. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, al Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione. — Per sapere – premesso che:
   la legge regionale 10 febbraio 1993, n. 10 «Norme e procedure per lo smaltimento dei rifiuti in Campania» ha previsto l'istituzione di organismi consorziali per la costituzione e la gestione associata degli impianti di smaltimento dei bacini individuati dal Piano regionale di organizzazione dello smaltimento dei rifiuti;
   questi enti pubblici sono stati costituiti nella varie province campane (5 nella provincia di Napoli; 4 nella provincia di Caserta; 4 nella provincia di Salerno; 3 nella provincia di Benevento; 2 nella provincia di Avellino) per aggregare i 551 comuni della regione;
   nel febbraio del 1994 è stato dichiarato lo stato di emergenza per i rifiuti urbani in Campania e dal mese successivo sono state sequestrate tutte le discariche private operanti sul territorio regionale e gradualmente, la loro gestione è stata assegnata ai suddetti costituendi consorzi di bacino regionali;
   da quel momento la gestione dei rifiuti urbani della regione Campania è stata gestita da uffici commissariali regionali che, su delega dello Stato, determinano le scelte di gestione dei rifiuti urbani secondo gli indirizzi politici e amministrativi delle maggioranze di centrosinistra e centrodestra che si alternano nella gestione dell'ente regione Campania;
   con la legge nazionale n. 608 del 1996 tutti i lavoratori delle ex discariche, dopo alcuni anni di mobilità pagata dallo Stato, sono stati reinseriti a lavoro presso i rispettivi consorzi di bacino;
   nel febbraio 1999 con Ordinanza ministeriale n. 2948 fu autorizzata l'assunzione di 2000 unità lavorative nei consorzi di bacini campani attraverso un bando regionale indetto dal Commissario Straordinario per l'emergenza rifiuti nella regione Campania (Ordinanza Commissariale n. 1/1999);
   successivamente il numero venne esteso a circa 2.350 unità lavorative, tutte comunque assunte entro il 31 dicembre 2001;
   dal 1o gennaio 2002 a questi lavoratori (legge n. 608 del 1996 e ordinanza commissariale n. 1 del 1999) si aggiunsero, attraverso le procedure del passaggio di cantiere, numerosi lavoratori appartenenti alle ditte private che lasciarono la gestione dei servizi di igiene urbana ai subentranti consorzi intercomunali di bacino. Inoltre, si sono verificate anche numerose assunzioni di lavoratori tecnico-amministrativi, soprattutto nelle società partecipate che gestivano i servizi di igiene urbana per conto dei consorzi e che successivamente sono stati assorbiti negli organici dei consorzi stessi;
   fra il 1o gennaio 2002 e il 31 dicembre 2009, nel turbinio di numerose crisi emergenziali, la gestione dei consorzi fu continuamente monitorata e finanziata dalla struttura commissariale che provvedeva così anche al pagamento delle spettanze stipendiali mensili di quasi tutte le 2350 unità lavorative assunte con l'ordinanza commissariale 1/1999;
   negli stessi anni la regione Campania emanava apposite leggi – la legge n. 4 del 2007 e la legge n. 4 del 2008 – con le quali si prevedeva di destinare i lavoratori dei consorzi all'ente pubblico Provincia, alle quali fu assegnato il compito di gestire il ciclo dei rifiuti, subentrando ai consorzi nel servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani ed ereditandone tutte le procedure, sia attive che passive, compreso il personale, ma nulla accadde, tali norme sono restate lettera morta;
   nel maggio 2008 il Parlamento ha approvato la legge n. 123 del 2008, la quale stabiliva lo scioglimento di tutti i consorzi di bacino delle province di Napoli e Caserta e la costituzione del consorzio unico di bacino delle province di Napoli e Caserta; suddiviso poi nella articolazione di Napoli ed in quella di Caserta;
   dal luglio del 2008, i lavoratori dei consorzi di bacino e della provincia di Napoli e Caserta prestavano la propria attività lavorativa presso il consorzio obbligatorio unico di bacino che aggregava, con lo Statuto del dicembre 2008, 98 comuni delle due province, che pro quota ed in modo unitario, dovevano svolgere il servizio di raccolta differenziata dei rifiuti urbani sui loro territori;
   per quanto riguarda, in particolare, il consorzio unico delle province di Napoli e Caserta, con una serie di OPCM si legiferava sulla situazione del consorzio e del suo personale, tanto che con l'OPCM 3686/2008 articolo 8, comma 5, si disponeva che, al personale del consorzio, si applicano le disposizioni previste dagli articoli 33 e 34 del decreto legislativo n. 165 del 2001 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) e, con la nota prot. n. 6482 del 14 dicembre 2008, il Sottosegretario di Stato, Dott. Guido Bertolaso emanava la tabella di equiparazione dei livelli contrattuali dei dipendenti del consorzio, con i vari comparti del Pubblico Impiego;
   il 31 dicembre 2009 è stata decretata la fine dell'emergenza rifiuti urbani in Campania, e dal 1o gennaio 2010, infatti, si è passati alla gestione ordinaria regionale dei rifiuti urbani;
   la legge nazionale n. 26 del 2010 ha disciplinato la transizione al regime ordinario di gestione rifiuti urbani che scioglieva tutti i consorzi di bacino regionali e nominava i rispettivi commissari liquidatori che li dovevano gestire nelle more della costituzione delle società provinciali che avrebbero dovuto, finalmente, assorbire tutto il personale dei consorzi anche in sovrannumero (articolo 13);
   la legge nazionale n. 135 del 2012, ha modificato gli indirizzi della citata legge n. 26, riattribuendo ai comuni le competenze relative all'organizzazione e alla gestione dei servizi di raccolta, smaltimento e recupero dei rifiuti solidi urbani, nonché quelle per la riscossione dei relativi tributi (attraverso l'istituzione della Tares);
   una norma che, in qualche maniera, ribaltava l'indirizzo consolidato da anni in Campania, ovvero che riconosceva alle province, in virtù del combinato disposto della legge n. 26 del 2010 e delle leggi regionali n. 4 del 2007 e 2008, la titolarità dell'intero ciclo integrato dei rifiuti;
   questa nuova legge ha determinato che fra il 2012 e il 2013 numerosi comuni decidevano, autonomamente, di uscire dal consorzio unico di bacino delle province di Napoli e Caserta, affidando il servizio relativo ai rifiuti a ditte private ed assorbendo solo una parte del personale operativo e tecnico-amministrativo del Consorzio che gli spettava, pro quota, con i passaggi di cantiere ex articolo 2112 del Codice Civile;
   ciò ha determinato un aumento del personale in esubero, ancora in carico al consorzio unico di bacino di Napoli e Caserta, nonché l'accumulo di numerosi ritardi per il pagamento degli emolumenti stipendiali (dai 15 mesi ai 25) che i commissari liquidatori non sono riusciti ancora a pagare ai lavoratori rimasti in carico al consorzio unico di bacino;
   il 5 novembre 2013 l'amministrazione regionale e il Governo nazionale decidono di affrontare la questione, istituendo un tavolo di trattativa con i sindacati;
   nel corso del confronto – che ha coinvolto le organizzazioni sindacali, confederali e autonome – si è discusso della proposta avanzata dalla regione Campania che ha ereditato la vertenza dai comuni, impossibilitati a risolverla per le loro difficoltà finanziarie;
   nel gennaio 2014, con la nuova legge regionale n. 5 intitolata «Riordino del servizio di gestione dei rifiuti urbani e assimilati in Campania» che integra e modifica le leggi regionali n. 4 del 2007 e 2008, si è stabilito il principio secondo il quale i comuni sono obbligati ad associarsi in ATO (ambito territoriale ottimale), attraverso la sottoscrizione di un preciso schema di convenzione, nel rispetto delle norme relative all'organizzazione del servizio, previste anche dalla legislazione nazionale articoli 201 e 202 del decreto legislativo n. 152 del 2006;
   l'articolo 13 (personale dei consorzi di bacino) di tale ultima legge regionale aggiunge, inoltre, un altro importante tassello alle garanzie di salvaguardia del posto di lavoro, già sancite anche con la ricordata legge nazionale n. 26 del febbraio 2010, anch'essa all'articolo 13;
   parallelamente al cammino tortuoso della legge regionale n. 5 del 2014, che non trova completa applicazione, i commissari liquidatori dei vari consorzi di bacino regionali hanno cominciato a prendere provvedimenti;
   ad oggi molti lavoratori di alcuni di questi consorzi sono in mobilità o vittime di licenziamenti collettivi a cui vanno aggiunti altri 400-500 lavoratori della provincia di Salerno che rischiano, fra breve, di subire la stessa sorte;
   ritornando, in particolare, sulla condizione dei lavoratori del consorzio unico di bacino di Napoli e Caserta, posti in mobilità, dal 1o gennaio 2015, secondo gli articoli 33, 34 e 34-bis del decreto legislativo n. 165 del 2001, il dipartimento della funzione pubblica – che per inciso nel corso del 2008, ai tempi del gestore unico, collaborava fattivamente alla risoluzione della problematica dei lavoratori considerati a tutti gli effetti dipendenti pubblici: non ha ancora chiarito, una volta per tutte, la propria posizione rispetto alla natura di questo consorzio ed alla normativa da applicare al personale dello stesso che ad oggi si trova comunque iscritto nelle liste di mobilità così come disposto dal decreto dirigenziale della regione Campania n. 2, pubblicato sul BURC n. 6 del 26 gennaio 2015, e per i quali, a parere degli interroganti, è in atto una palese discriminazione, relativamente alla possibilità che essi hanno di poter essere ricollocati in altri enti della pubblica amministrazione, rispetto ai lavoratori di altri comparti della pubblica amministrazione (dipendenti delle cosiddette aree vaste) attraverso bandi di mobilità pubblici per i quali essi vengono sistematicamente esclusi –:
   se i Ministri interrogati siano a conoscenza dei fatti sopra esposti;
   quali iniziative intendano assumere, d'intesa con la regione Campania, al fine di favorire l'individuazione delle soluzioni necessarie alla ricollocazione definitiva dei lavoratori già impegnati nella gestione dei rifiuti nei menzionati territori. (5-06615)


   MICCOLI. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   la Fatigappalti s.p.a è un'azienda metalmeccanica che opera nel campo della progettazione, realizzazione e manutenzione di impianti di condizionamento, riscaldamento, idraulici, depurazione acque, cucine e lavanderie industriali, elettrici, speciali, antintrusione, telegestione, antincendio, vapore;
   tale impresa opera nel settore dal 1963 con gran parte dei clienti pubblici, tra i quali: il Ministero dell'interno, Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, il Ministero della difesa, la Presidenza del Consiglio dei ministri, la regione Lazio e serve come anche enti ed aziende a partecipazione pubblica quali Rai, Enel, Terna, Asl, Ater, nonché società private come Bnl, MBDA ed altre;
   nel 2008 l'azienda si aggiudica un primo appalto con la Rai – azienda fornitrice per il Paese di un importante servizio come l'informazione – di durata triennale (1 febbraio 2008 – 31 gennaio 2011), per lo svolgimento delle attività sopra descritte;
   nel 2011 la stessa azienda ottiene un secondo appalto triennale, fino al 31 gennaio 2014 che viene prorogato per alcuni mesi;
   nel marzo 2015 la medesima società vince un nuovo appalto applicando un ribasso sul prezzo del 49 per cento;
   a seguito di quest'ultima operazione, la crisi finanziaria della Fatigappalti s.p.a si acutizza. I limiti di liquidità della società, provenienti da anni nei quali sia i clienti pubblici che quelli privati, anche a causa delle crisi economica, avevano effettuato pagamenti a singhiozzo, determinano l'impossibilità di pagare gli stipendi dei dipendenti. Ciò accade per 6 mesi di seguito fino a che, questi ultimi, entrano in sciopero;
   ad agosto 2015 la Rai rescinde il contratto alla Fatigappalti ed affida le attività alla Am General Contractor (Amgc s.p.a), azienda seconda nella gara d'appalto;
   a quanto consta all'interrogante la ditta subentrante AMGC, stante il ribasso effettuato, ha dichiarato subito di non essere in grado di garantire i livelli occupazionali precedenti, e ha portato il numero degli occupati a 25 con contratti a tempo determinato, con il mancato riconoscimento dell'anzianità e con livelli d'inquadramento inferiori ai precedenti;
   il 29 settembre 2015 la Rai, dopo mesi di scioperi e mobilitazione dei lavoratori, si impegna a costituire un tavolo tra la nuova aggiudicataria AMGC e i sindacati al fine di individuare una soluzione per i lavoratori della Fatigappalti s.p.a La data del confronto viene fissata per il giorno 8 ottobre 2015;
   il primo ottobre 2015, in un incontro con le organizzazioni sindacali, la Rai manifesta la volontà di avviare una propria riflessione interna sui costi sociali ed economici derivanti dalle dinamiche insite nel massimo ribasso, ipotizzando anche la possibilità di un prossimo abbandono di questo in favore di meccanismi più equi e socialmente sostenibili;
   una fonte autorevole, come il presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, riferendosi alle gare al massimo ribasso le definisce «il criterio di aggiudicazione che meno premia la qualità delle opere e che più presta i fianchi alle infiltrazioni mafiose» e ancora «un finto ribasso che consente poi il recupero attraverso varianti e le modifiche successive»;
   le gare al massimo ribasso, specialmente quando riguardano alcuni tipi di servizi pubblici, impongono alle aziende che vi partecipano margini molto esigui, tanto da esporle facilmente a difficoltà economiche o di temporanea liquidità. Difficoltà che non di rado, in poco tempo, tendono a compromettere la qualità e la stabilità dei servizi erogati;
   nelle more di una migliore determinazione nell'approccio alle gare al massimo ribasso, per alcuni tipi di servizi pubblici, appare necessario tenere nel giusto conto sia le necessita di economicità di aggiudicanti e aggiudicatari che le aspettative di qualità e stabilità degli utenti;
   tra le aziende in crisi di cui trattasi la Fatigappalti s.p.a eroga proprio quei servizi nei quali la qualità derivante dal know how è un fattore riconoscibile e determinante basato sulle maestranze –:
   quali siano le strategie e le iniziative a breve e medio termine che i Ministri interrogati intendano adottare, per quanto di competenza, per favorire ed indirizzare scelte premianti anche della qualità e della stabilità di alcuni tipi di pubblici servizi, garantendo la salvaguardia dei livelli occupazionali. (5-06616)

SALUTE

Interrogazione a risposta orale:


   SOTTANELLI. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   la paventata chiusura della postazione del 118 di Isola del Gran Sasso che coinvolge anche Bisenti (TE), ha destato l'indignazione della popolazione montana del Gran Sasso, preoccupata per la tutela della propria incolumità fisica, oltre che per quella di circa un milione e mezzo di pellegrini e turisti che ogni anno visitano il Santuario di S. Gabriele e la montagna;
   il pericolo sempre più stringente, insieme al rischio di una reale squalificazione per l'entroterra, è quello di perdere il servizio e la sicurezza per l'emergenza sanitaria, conquistati e mantenuti per 15 anni, e grazie al quale sono state salvate numerose vite;
   la postazione del 118 di Isola del Gran Sasso è al servizio di circa 10.000 abitanti dell'area montana e di oltre 1.500.000 pellegrini e turisti che ogni anno visitano il Santuario di San Gabriele dell'Addolorata, ubicato nello stesso comune e tra i primi 15 santuari più visitati al mondo;
   il progetto di riorganizzazione della rete dell'emergenza sanitaria prevedrebbe una nuova postazione medicalizzata a Val Vomano uscita Basciano dell'autostrada A24) che per la sua posizione non inciderebbe affatto in modo sostanziale, sui tempi del soccorso per il bacino attualmente servito della postazione di Isola del Gran Sasso, con tempi di soccorso che diventerebbero in molti casi troppo lunghi per un efficace intervento;
   è evidente il pericolo che correrà chiunque – vecchio o giovane che sia, residente, pellegrino o turista – che dovesse ad esempio subire un arresto cardiorespiratorio, dal momento che dovrà attendere troppo a lungo, prima di essere soccorso da una postazione 118 troppo lontana;
   dopo diversi anni sono stati raggiunti e rispettati, per l'emergenza sanitaria, standard europei, per quanto concerne i tempi di arrivo, dal momento della chiamata del 118: 8 minuti in area urbana e 20 minuti in area extraurbana. Nel caso in cui la postazione venisse chiusa, l'area montana correrebbe il serio rischio di essere retrocessa ad area «extraurbana», con una drammatica involuzione e un serio rischio per la vita dei cittadini;
   togliere la postazione del 118 comporterebbe inoltre privare l'infermiere 118 a Isola del Gran Sasso (e Bisenti), aree che distano dai 25 ai 50 minuti dall'ospedale dal comune capoluogo, cioè Teramo. Tutto ciò avrebbe come conseguenza quella di ridurre la sicurezza, in termine di salute per cittadini e non, dei comuni di Isola Gran Sasso, Castelli, Colledara, Castel Castagna, Tossicia – oltre che del santuario di S. Gabriele – come anche nella Val Fino, a Bisenti, togliendo dopo 15 anni il personale 118 della postazione di soccorso –:
   quali urgenti iniziative di competenza intenda assumere, anche per il tramite del commissario ad acta per l'attuazione del piano di rientro dai disavanzi sanitari per impedire la chiusura della postazione del 118 di Isola del Gran Sasso, che, ad avviso dell'interrogante, comporterebbe seri rischi per la garanzia dei livelli essenziali di assistenza e per la sicurezza e la tutela della salute pubblica, non solo degli abitanti del posto, ma dei turisti che ogni anno accorrono. (3-01756)

Interrogazione a risposta in Commissione:


   BUSTO, DAGA, DE ROSA, MANNINO, MICILLO, TERZONI e ZOLEZZI. — Al Ministro della salute, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   il 2 marzo 2002 la magistratura ha ordinato il sequestro di due depositi di pet-coke dell'Agip di Gela per infrazioni delle norme sull'ambiente, in particolare del decreto legislativo del 5 febbraio 1997, n. 22 in materia di trattamento e di gestione dei rifiuti;
   il 7 marzo dello stesso anno, il Governo Berlusconi ovviò al provvedimento di sequestro presentando il decreto-legge n. 22, con il quale il pet-coke ha smesso di essere considerato nel nostro ordinamento un rifiuto pericoloso ed è diventato un combustibile; a seguito di queste nuove norme, pochi giorni dopo l'entrata in vigore del suddetto decreto, esattamente l'11 marzo 2002, la Guardia di finanza ha provveduto al dissequestro dello stabilimento di Gela;
   il decreto varato con urgenza dal Governo Berlusconi non ha preso in considerazione le problematicità ambientali e per la salute umana del pet-coke ma, come si evince nella relazione tecnica, il decreto del Governo Berlusconi ha considerato la combustione di pet-coke nella centrale di Gela sicura «in considerazione dell'importanza strategica di tale prodotto per l'occupazione e l'economia nazionale»;
   la normativa sul pet-coke in Italia è sempre stata problematica; infatti, già il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 2 ottobre 1995 lo classificava come combustibile, e la legge finanziaria del 1999 lo comprendeva della disciplina sulla carbon tax; per altro verso, invece, in base ad un orientamento giurisprudenziale confermato anche dal decreto di sequestro preventivo emesso dal tribunale di Gela nel 2002, era considerato tra i rifiuti da lavorazioni industriali da ricomprendere nell'ambito di applicazione del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 e, in tal caso, gli impianti alimentati con questo combustibile si configuravano come inceneritori abusivi;
   il pet-coke è l'ultimo prodotto delle attività di trasformazione del petrolio, e per questo viene considerato un prodotto di scarto, che si ottiene da un processo di idroconversione catalitica che consente la conversione completa dell'asfaltene (la componente dura degli oli pesanti) in prodotti leggeri, riducendo a zero la produzione di residui sia liquidi che solidi (carbone e gas) che normalmente derivano dalla raffinazione del petrolio non-convenzionale;
   a causa della sua composizione contenente alte percentuali di sostanze estremamente pericolose, quali gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA), ossidi di zolfo e metalli pesanti come nichel, cromo e vanadio, deve essere trattato con molta prudenza; infatti le attività di carico, scarico e deposito del pet-coke devono seguire le regole dettate dal decreto del Ministero della sanità (28-4-1997) concernente il trasporto di sostanze pericolose, proprio per evitare di sollevare polveri che verrebbero inalate con gravi rischi per la salute;
   diversi studi hanno dimostrato che le sostanze contenute nel pet-coke, oltre ad una tossicità intrinseca, sono indicate anche come cancerogene (alcuni come il benzo-pirene-OMS-) e/o mutagene; la prima proprietà provoca tumori di vario genere, la seconda, modificazioni genetiche, da cui le malformazioni nei nascituri;
   in particolare, il vanadio assorbito in quantità troppo elevate può avere effetti nocivi per la salute umana: per inalazione può causare irritazione di polmoni, gola, occhi e cavità nasali; mentre la sua assunzione può provocare malattie cardiache e vascolari, infiammazione di stomaco e intestino, danneggiamento del sistema nervoso, sanguinamento di fegato e reni, eruzioni cutanee, tremore e paralisi, sanguinamento del naso e mal di gola, indebolimento, malessere e mal di testa, stordimento, mutazioni comportamentali;
   il vanadio, inoltre, causa l'inibizione anche di certi enzimi negli animali, e ciò ha notevoli effetti neurologici, disturbi di respirazione, paralisi e gli effetti negativi su fegato e reni, danni riproduttivi degli animali maschi e accumulo nella placenta delle femmine e, poiché le operazioni di carico e scarico vengono eseguite nei porti, la pericolosità del vanadio è collegabile anche al bioaccumulo, ovvero alla maggiorata concentrazione di tale elemento nella fauna ittica (granchi, mitili);
   il carattere «pericoloso» del pet-coke può essere rinvenuto nella sua infiammabilità e, allo stato delle conoscenze attuali, appare riconducibile a quanto descritto dall'articolo 2 comma 2 del decreto legislativo 14 marzo 2003, «Attuazione delle direttive 199/45/CE e 2001/60/CE relative alla classificazione, all'imballaggio e all'etichettatura dei preparati pericolosi quale materiale pericoloso in quanto infiammabile»;
   la società Unicalce spa di Bernezzo ha recentemente presentato alla Provincia di Cuneo la richiesta per poter convertire il suo secondo forno da metano a pet-coke e, anche in questo caso, la motivazione di tale intervento è da rinvenire nella crisi economica del settore e nel tentativo di salvare la competitività dell'impianto e, ovviamente, i 44 posti di lavoro impiegati attualmente nell'azienda –:
   se i Ministri non ritengono che l'espansione dell'utilizzo di pet-coke in Italia sia da considerare un pericolo per la salubrità dell'ambiente e delle salute umana, specialmente per quanto concerne la sicurezza nel trasporto di questo prodotto; se non ritengano di dover assumere iniziative normative per rendere maggiormente restrittivo l'utilizzo e il trasporto del pet-coke, escludendo altresì l'autorizzazione in caso di mero vantaggio economico, e prevedere delle disposizioni, anche di carattere economico, per scoraggiare l'utilizzo di questo combustibile, considerato che l'alta pericolosità di questo prodotto è ampiamente riconosciuta anche a livello internazionale. (5-06609)

SVILUPPO ECONOMICO

Interpellanza:


   I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro dello sviluppo economico, per sapere – premesso che:
   il 23 giugno 2015, le Commissioni riunite X (Attività produttive, commercio e turismo) e XIV (Politiche dell'Unione europea) hanno approvato, all'esito del dibattito sulle risoluzioni 7-00682 (Scuvera) e 7-00697 (Vallascas) sulle quali il Governo ha espresso parere favorevole con riformulazione sul regime linguistico nelle istituzioni dell'Unione europea e il brevetto unico europeo;
   in particolare, la risoluzione 7-00697 impegnava il Governo, sotto diversi profili, nel processo di riordino del regime brevettuale europeo a maggior tutela delle imprese, dei ricercatori e degli inventori italiani;
   gli impegni concernevano il superamento del regime linguistico limitato al riconoscimento delle sole tre lingue inglese, tedesca e francese, la promozione della lingua italiana e del plurilinguismo in generale in tutte le sedi decisionali europee, una riduzione di oneri e tariffe, nonché criteri chiari e tempi certi dei procedimenti di deposito, rilascio e convalida;
   per quanto riguarda il regime linguistico, il Governo ha assunto l'impegno di «farsi promotore, per quanto di sua competenza, in seno alle istituzioni ed organi dell'Unione europea di un'azione incisiva volta a superare le limitazioni derivanti dal riconoscimento di tre sole lingue europee nei procedimenti di deposito, rilascio e convalida del brevetto, ovvero individuando risorse e strumenti finanziari a carico dell'istituzione europea, a copertura delle spese di traduzione»;
   la settimana scorsa, la Commissione europea ha annunciato che l'Italia ha aderito ufficialmente al brevetto Ue, rinunciando all'annosa vertenza attorno al riconoscimento di sole tre lingue nei procedimenti brevettuali europei e accettando, nei fatti, che l'italiano venisse relegato a lingua di seconda fascia;
   questo stato di cose, al di là dell'efficacia delle maggiori tutele garantite dal brevetto unico europeo, rinnova le preoccupazioni in merito ai costi dell’iter procedurale di registrazione di un brevetto, per effetto, della necessità di tradurre la documentazione che accompagna un'istanza in una delle tre lingue riconosciute;
   risulterebbe di grande rilevanza conoscere l'ammontare delle risorse previste per compensare i costi di traduzione, così come previsto sostanzialmente dagli impegni assunti dal Governo con la risoluzione n. 8-00123, nonché conoscere, nel dettaglio, le procedure relative all'istanza di riconoscimento del brevetto unico europeo –:
   quali siano le motivazioni che sottendono la decisione del Governo di aderire al brevetto unico europeo, riconoscendo un regime trilingue che esclude l'uso della lingua italiana dai procedimenti;
   se, in fase di adesione, sia stato definito l'ammontare delle risorse a carico dell'Unione europea necessarie a compensare le maggiori spese derivanti alle imprese italiane dall'obbligo di tradurre, in una delle lingue ammesse, la documentazione delle istanze di deposito, rilascio e convalida dei brevetti;
   se, in fase di adesione, siano stati definiti i criteri procedurali delle istanze di brevetto, nonché le modalità e i tempi per l'espletamento delle verifiche da parte della commissione esaminatrice e per lo svolgimento di eventuali contraddittori, così come previsto nell'ambito degli impegni della risoluzione illustrata in premessa;
   quale sia la previsione sui minori costi a carico di imprese, ricercatori e inventori italiani a seguito dell'adesione dell'Italia al brevetto unico europeo.
(2-01108) «Vallascas, Della Valle, Pesco, Cancelleri, Alberti, Fantinati, Da Villa».

Interrogazione a risposta scritta:


   MOLTENI. — Al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   in seguito al passaggio dalla televisione di tipo analogico al metodo digitale terrestre, i cittadini della Val d'Intelvi lamentano numerosi problemi riferiti alla ricezione del segnale Rai e in molti casi sono visibili tre o quattro canali su un totale di 15 canali tematici offerti;
   probabilmente il problema potrebbe essere risolto con un'apparecchiatura aggiuntiva da parte della concessionaria da collocare sul ripetitore di Giraglio in grado di ricevere e redistribuire il segnale della Rai. Un'apparecchiatura paradossalmente collocata lì da tante piccole emittenti locali e private, sicuramente con meno mezzi, economici e tecnici, della Rai;
   a prescindere dalle cause che generano il disservizio, il problema reale è che la concessionaria del servizio pubblico non ha attivato azioni mirate al fine di garantire una reale situazione di accesso al nuovo sistema che doveva offrire, nelle dichiarazioni iniziali, maggiori servizi, portando ad un miglioramento della situazione preesistente;
   i cittadini della Val d'Intelvi non sono stati messi nelle condizioni di poter accedere al segnale Rai e pertanto è stata loro negato l'accesso al servizio pubblico radiotelevisivo, eppure sono chiamati puntualmente a pagare il canone alla concessionaria e, nel caso di esercizi turistici e di ristorazione, la cifra del canone speciale è anche molto alta;
   la soluzione offerta dalla Rai sembra paradossale e incredibilmente ingiusta: nelle aree non coperte, le trasmissioni della concessionaria saranno visibili sulla piattaforma satellitare gratuita italiana Tivùsat, per avere accesso alla quale è necessario installare una parabola satellitare, un decoder e una smart card con costi a carico degli utenti effettuando, di fatto, una discriminazione;
   il costo per l'installazione si aggira fra i 200 e i 250 euro per singolo apparecchio televisivo: è impensabile che un albergatore sostenga questa spesa per dotare ogni stanza di una struttura alberghiera, oltre ovviamente al canone speciale che viene richiesto per il possesso della tv, al fine di mettere i propri clienti nella condizione di usufruire di un servizio pubblico che dovrebbe in teoria essere gratuito;
   la Rai, in qualità di concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo, così come previsto dall'articolo 45 del decreto legislativo 31 luglio, 2005, n. 177, svolge un servizio pubblico sul territorio italiano, sulla base di un contratto nazionale stipulato con il Ministero dello sviluppo economico assicurando a tutti i cittadini la possibilità di usufruire di tale servizio –:
   se il Ministro sia a conoscenza della situazione esposta in premessa e quali iniziative per quanto di competenza, intenda intraprendere per tutelare il diritto di accesso alle reti Rai attraverso la trasmissione in tecnica digitale terrestre dei cittadini della Val d'Intelvi, garantendo loro la possibilità di usufruire del servizio pubblico radiotelevisivo;
   se non ritenga doveroso, a causa dei disagi subiti dai cittadini e dagli esercenti commerciali, valutare la possibilità di assumere iniziative volte a sospendere il pagamento del canone Rai, sia ordinario sia speciale, fintanto che non sia garantito appieno il servizio di trasmissione, o altresì prevedere un rimborso per tutti gli abbonati della Rai che stanno regolarmente pagando per un servizio di cui non usufruiscono;
   se intenda intraprendere ogni iniziativa necessaria affinché sia garantita la visibilità delle reti nazionali alla totalità degli utenti regolarmente abbonati, prevedendo, a tal fine, anche l'eventuale installazione di parabole satellitari in grado di trasmettere TVSAT, utilizzando per questo scopo le entrate derivanti dal canone.
(4-10666)

Apposizione di firme ad una mozione.

  La mozione Gallinella e altri n. 1-01002, pubblicata nell'allegato B ai resoconti della seduta del 28 settembre 2015, deve intendersi sottoscritta anche dai deputati: Terzoni, Colletti, Gagnarli, Parentela, Basilio, Dall'Osso, Scagliusi, Ciprini, Toninelli, Cancelleri, Spadoni.

Apposizione di firme ad interrogazioni.

  L'interrogazione a risposta in Commissione Cimbro n. 5-05982, pubblicata nell'allegato B ai resoconti della seduta del 6 luglio 2015, deve intendersi sottoscritta anche dal deputato Giancarlo Giordano.

  L'interrogazione a risposta in Commissione Gribaudo e altri n. 5-06164, pubblicata nell'allegato B ai resoconti della seduta del 28 luglio 2015, deve intendersi sottoscritta anche dal deputato Arlotti.

  L'interrogazione a risposta in Commissione Miotto e altri n. 5-06581, pubblicata nell'allegato B ai resoconti della seduta del 7 ottobre 2015, deve intendersi sottoscritta anche dal deputato Paola Boldrini.

ERRATA CORRIGE

  Interpellanza urgente Brunetta n. 2-01104 pubblicata nell'Allegato B ai resoconti della seduta n. 496 del 6 ottobre 2015. Alla pagina 29266, prima colonna, alla riga ventesima deve leggersi: «2020» e non «2019», come stampato.

  Interrogazione a risposta scritta Cirielli n. 4-10655 pubblicata nell'Allegato B ai resoconti della seduta n. 497 del 7 ottobre 2015. Alla pagina 29405, prima colonna, dalla riga trentanovesima alla riga quarantacinquesima deve leggersi: «da notizie riportate da organi di stampa locali, nella giornata di sabato 26 settembre 2015 si sarebbe verificato un grave episodio di violenza ai danni della consigliera comunale e delegata provinciale dei Forum dei Giovani della provincia di Salerno;» e non come stampato.