Camera dei deputati

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XVII LEGISLATURA

Allegato B

Seduta di Lunedì 23 settembre 2013

ATTI DI INDIRIZZO

Mozioni:


   La Camera,
   premesso che:
    nei mesi di gennaio e febbraio del 2013, a Camere ormai sciolte, l'allora Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare pro tempore, Corrado Clini, ha presentato al Parlamento per il parere uno schema di decreto del Presidente della Repubblica per l'utilizzo di combustibili solidi secondari, in parziale sostituzione di combustibili fossili tradizionali, in cementifici soggetti al regime di autorizzazione integrata ambientale;
    dopo un parere favorevole con condizioni, espresso molto rapidamente dalla XIII Commissione parlamentare (Territorio, ambiente, beni ambientali) del Senato della Repubblica il 16 gennaio 2013, senza peraltro che nessun senatore fosse intervenuto in discussione, la VIII Commissione permanente (Ambiente, territorio e lavori pubblici) della Camera dei deputati, il successivo 11 febbraio 2013, ha invece espresso parere contrario al medesimo schema di decreto del Presidente della Repubblica;
    da quel momento, di detto decreto del Presidente della Repubblica sui combustibili solidi secondari si sono perse le tracce e non è più stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale;
    la mancata pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del sopradetto decreto del Presidente della Repubblica sull'utilizzo in alcune categorie di cementifici dei combustibili solidi secondari, in parziale sostituzione di combustibili fossili tradizionali, nulla toglie alla sempre dichiarata ferma volontà dell'allora Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, Clini, di aver voluto proseguire nella scorciatoia dell'incenerimento dei rifiuti nei cementifici, bruciando rifiuti solidi urbani per alimentare i forni di cottura del clinker, cioè la componente principale del cemento;
    in Gazzetta Ufficiale, sono stati quindi pubblicati due decreti del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare: il decreto 14 febbraio 2013, n. 22, (Gazzetta Ufficiale del 14 marzo 2013), recante la disciplina della cessazione della qualifica di rifiuto di determinate tipologie di combustibili solidi secondari, dove vengono stabiliti – tra l'altro – i criteri da rispettare affinché determinate tipologie di combustibile solido secondario cessano di essere qualificate come rifiuto; il decreto 20 marzo 2013 (Gazzetta Ufficiale del 2 aprile 2013) che modifica l'allegato X della parte quinta del decreto legislativo n. 152 del 2006, in materia di utilizzo del combustibile solido secondario, che recepisce i criteri contenuti nel sopradetto decreto del 14 febbraio 2013, n. 22, che devono essere rispettati affinché determinate tipologie di combustibili solidi secondari cessino di essere qualificate come rifiuto e possono, quindi, essere riutilizzate;
    il decreto ministeriale n. 22 del 2013 stabilisce le condizioni e i requisiti in base ai quali dalle operazioni di trattamento di specifiche tipologie di rifiuti si ottiene il prodotto denominato combustibile solido secondario, nonché le relative condizioni di utilizzo a fini energetici nei cementifici soggetti ad autorizzazione integrata ambientale;
    il sopra indicato decreto n. 22 del 2013 riafferma, di fatto, la finalità dello schema di decreto del presidente della Repubblica, passato al Parlamento per il parere, di utilizzare il combustibile solido secondario come combustibile. La stessa premessa al decreto ministeriale n. 22 del 2013 sottolinea la necessità di «incoraggiare la produzione di combustibili solidi secondari (CSS) di alta qualità, aumentare la fiducia in relazione all'utilizzo di detti combustibili e fornire, con riferimento alla produzione e l'utilizzo di detti combustibili chiarezza giuridica e certezza comportamentale uniforme sull'intero territorio nazionale»;
    per i cementieri dell'Aitec (Associazione italiana tecnico economica cemento) si tratta di recupero energetico; per l'Associazione italiana medici per l'ambiente «la combustione di rifiuti nei cementifici comporta una variazione della tipologia emissiva di questi impianti, in particolare di diossine e metalli pesanti»;
    utilizzare i combustibili solidi secondari è dannoso per la salute e, soprattutto, è superato in quanto esistono moderne tecnologie e soluzioni alternative alla combustione che creano maggiori posti di lavoro e sono più sostenibili a livello economico e ambientale;
    la scelta dell'incenerimento dei rifiuti (combustibili solidi secondari) nei cementifici non è condivisibile se si considera la diversità esistente fra i limiti delle emissioni di inquinanti pericolosi per la salute previsti per i cementifici: polveri totali: mg 30/Nm3; biossido di zolfo: fino a mg 600/Nm3; ossido di azoto: mg 500/Nm3 per i nuovi impianti; mentre i limiti per gli stessi inquinanti prodotti dagli inceneritori sono: polveri totali: mg 10/Nm3; biossido di zolfo: mg 50/Nm3; ossido di azoto: mg 200/Nm3;
    i sostenitori della co-combustione di rifiuti sono soliti affermare che l'utilizzo di combustibile da rifiuti nei cementifici può consentire una riduzione dell'uso di combustibili fossili e, di conseguenza, una riduzione della produzione di anidride carbonica. Ciò che di solito viene taciuto è che un cementificio produce di solito circa il triplo di anidride carbonica rispetto ad un inceneritore. La sola cementeria Colacem di Galatina (Lecce), ad esempio, nel 2007 ha prodotto 774.000 tonnellate di anidride carbonica, circa il triplo delle emissioni di un inceneritore di grossa taglia come quello di Brescia (228.000 tonnellate di anidride carbonica nello stesso anno);
    l'utilizzo di combustibili solidi secondari per alimentare i forni di cottura dei cementifici produrrebbe, tra l'altro, gravi conseguenze in diverse aree del Paese, dove sono ubicati numerosi cementifici, in termini di inquinamento ambientale e di peggioramento degli attuali livelli di raccolta differenziata dei rifiuti;
    a ciò va aggiunta l'aggravante della mancanza, nel nostro Paese, di un serio ed efficace sistema nazionale di controlli ambientali;
    l'Italia è, peraltro, la nazione europea con più cementifici, con i suoi 58 impianti (22 per cento del totale degli impianti europei);
    dal punto di vista strettamente sanitario (escludendo dunque ogni considerazioni di tipo economico e sociale), una corretta gestione del ciclo dei rifiuti non dovrebbe assolutamente prevedere il loro incenerimento. Che si tratti di inceneritori «classici» o di cementifici, tale pratica è dannosa per l'ambiente e per gli esseri umani che lo popolano, come documentato da ormai innumerevoli testimonianze scientifiche;
    considerata l'abnorme produzione annua nazionale di anidride carbonica da parte di questi impianti, una minima riduzione è, dunque, una goccia nel mare, per giunta pagata a caro prezzo, soprattutto se si considera la sottrazione di rifiuti alla raccolta differenziata, al riciclo e al riuso (la vera valorizzazione dei rifiuti);
    peraltro, continuare a bruciare rifiuti è uno spreco di risorse e un alto costo in termini ambientali, inoltre, non si rispettano le disposizioni europee sul recupero della materia che è prioritario nella gerarchia d'intervento, continuando a ignorare anche la direttiva 96/62/CE sulle polveri sottili, finanche dopo la condanna dell'Italia da parte della Corte di giustizia dell'Unione europea del 19 dicembre 2012;
    si ricorda che la direttiva 2008/98/CE, con l'obiettivo di ridurre l'impatto ambientale dei rifiuti, ha imposto una particolare attenzione da parte degli Stati dell'Unione europea al rispetto del principio gerarchico (le cosiddette «quattro r») previsto dalla medesima direttiva (riduzione, riutilizzo, riciclaggio e recupero energetico);
    la sopradetta gerarchia dei rifiuti prevede che al primo posto, nell'ordine di priorità, vi siano la prevenzione – individuata in una serie di misure finalizzate alla riduzione della quantità di rifiuti anche attraverso il riutilizzo dei prodotti o l'estensione del loro ciclo di vita – e la preparazione per il riutilizzo, ovvero le operazioni di controllo, pulizia e riparazione attraverso cui i rifiuti sono preparati per essere reimpiegati senza altro pretrattamento. Seguono poi il riciclaggio, il recupero e, a seguire, lo smaltimento;
    la direttiva 2008/98/CE è stata recepita nell'ordinamento italiano dal decreto legislativo n. 205 del 2010, che ha conseguentemente apportato diverse modifiche al decreto legislativo n. 152 del 2006 (cosiddetto Codice ambientale);
    è evidente, quindi, come l'utilizzo dei rifiuti come fonte di energia deve essere valutato come finalità residuale, mentre il ricorso all'incenerimento dei rifiuti va in tutt'altra direzione rispetto alla corretta gestione del ciclo integrato dei rifiuti e all'indispensabile incremento della raccolta differenziata;
    l'uso dei combustibili solidi secondari nei cementifici rischia di tradursi in un ulteriore freno all'aumento dei livelli della raccolta differenziata come richiesti dalla normativa nazionale e comunitaria, allo sviluppo della filiera industriale del riciclo e al radicamento di una cultura ambientale e di un costume civico basati sull'uso consapevole dei beni, compresi gli stessi rifiuti,

impegna il Governo:

   ad escludere definitivamente, per quanto di competenza, la prosecuzione dell’iter di approvazione del decreto del Presidente della Repubblica sulla disciplina dell'utilizzo di combustibili solidi secondari, in parziale sostituzione di combustibili fossili tradizionali, in cementifici soggetti al regime di autorizzazione integrata ambientale, già presentato per il parere presso le Commissioni parlamentari competenti dal precedente Governo;
   a valutare attentamente – nella decisione di utilizzare in alcune categorie di cementifici i combustibili solidi secondari – gli effetti di tale scelta sulla salute pubblica, anche attraverso opportuni approfondimenti degli studi ambientali ed epidemiologici relativamente all'utilizzo di combustibili solidi secondari in determinati cementifici;
   ad assumere, per quanto di competenza, iniziative per avviare adeguate forme di monitoraggio delle emissioni degli impianti di cui in premessa e gli opportuni controlli ambientali e sanitari nei territori interessati dagli impianti che utilizzano combustibili solidi secondari, anche al fine di un confronto di dati, laddove presenti, relativi alla qualità dell'aria e dell'acqua nelle aree interessate dai suddetti impianti prima dell'utilizzazione del combustibile solido secondario;
   a garantire, in raccordo con gli enti locali, adeguate e costanti modalità di informazione e pubblicità alle comunità locali, anche tramite i siti istituzionali dei comuni interessati, circa i risultati dell'attività di monitoraggio sanitario e ambientale in relazione alle emissioni conseguenti all'attività degli impianti che utilizzano combustibili solidi secondari;
   ad attuare, per quanto di competenza, opportune forme di controllo al fine di garantire che le caratteristiche del combustibile solido secondario, utilizzato dagli impianti di cui in premessa, rispondano effettivamente a quanto previsto dalla normativa vigente.
(1-00188) «Zan, Zaratti, Pellegrino, Migliore, Nicchi, Piazzoni, Aiello, Di Salvo».


   La Camera,
   premesso che:
    nel mese di gennaio 2013 è stato presentato alle commissioni parlamentari competenti lo schema di decreto del Presidente della Repubblica concernente regolamento recante «disciplina dell'utilizzo di combustibili solidi secondari (CSS), in parziale sostituzione di combustibili fossili tradizionali, in cementifici soggetti al regime dell'autorizzazione integrata ambientale», atto del Governo n. 529, con termine per la trasmissione del parere il 13 febbraio 2013;
    la 13a Commissione del Senato della Repubblica, in data 16 gennaio 2013, ha espresso parere favorevole all'atto del Governo, mentre l'VIII Commissione della Camera dei deputati, in data 11 febbraio 2013, dopo ampia discussione, «ritenuto assolutamente necessario svolgere un approfondimento con appropriate forme di consultazione; valutata la rilevanza delle conseguenze del provvedimento sul funzionamento del sistema dei cementifici e della tutela ambientale e della gestione dei rifiuti; ritenuto indispensabile il coinvolgimento delle regioni e ritenuto quindi necessario rinviare alla prossima legislatura l'adozione del provvedimento in questione», ha espresso parere contrario;
    a seguito di tale posizione del Parlamento, il Governo non ha, quindi, proceduto, per quanto risulta ai firmatari del presente atto di indirizzo, all'approvazione definitiva del decreto del Presidente della Repubblica;
    tuttavia, in data 14 febbraio 2013, il Governo Monti ha emanato il «Regolamento recante disciplina della cessazione della qualifica di rifiuto di determinate tipologie di combustibili solidi secondari (CSS), ai sensi dell'articolo 184-ter, comma 2, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni», di cui al decreto ministeriale n. 22 del 2013, che, dettando la disciplina per trasformare i rifiuti urbani e speciali in combustibili solidi secondari, CSS-combustibile, riclassificando questi ultimi da rifiuti a sottoprodotti, consente in realtà a grandi impianti di cementifici e centrali termoelettriche, sotto determinate condizioni, di utilizzare il CSS-combustibile per la produzione di energia termica o elettrica, escludendo dalla disciplina dei rifiuti tali combustibili;
    tale comportamento del Governo Monti si presenta, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, come un atto di forza inopportuno e da stigmatizzare, poiché ha scavalcato le indicazioni e le direttive del Parlamento e, in realtà, ha conseguito la sostituzione di un atto «bocciato» dall'VIII Commissione della Camera dei deputati con un altro che, nel concreto, produce analoghi effetti;
    l'atto del Governo n. 529 aveva lo scopo di disciplinare e agevolare l'utilizzo dei combustibili solidi secondari (CSS) da parte dei cementifici, dettando, all'articolo 3, le condizioni affinché modifiche impiantistiche o edilizie realizzate all'interno del perimetro dei cementifici siano considerate modifiche non sostanziali ai fini dell'esclusione dagli obblighi e dai procedimenti disciplinati dalla parte II decreto legislativo n. 152 del 2006, concernenti la valutazione di impatto ambientale e l'autorizzazione integrata ambientale;
    tale atto del Governo n. 529, fatte salve le disposizioni dell'articolo 184-ter del decreto legislativo n. 152 del 2006 sulla cessazione della qualifica di rifiuto, manteneva comunque la classificazione del combustibile solido secondario (CSS) come rifiuto speciale, sottoponendolo alle condizioni di esercizio previste per il coincenerimento, di cui al decreto legislativo 11 maggio 2005, n. 133;
    lo scopo del decreto ministeriale n. 22 del 2013 è, soprattutto, quello di facilitare e promuovere l'utilizzo da parte dei grandi impianti di cementifici e centrali di una determinata tipologia di combustibile solido secondario, il CSS-combustibile, che, ai sensi dell'articolo 184-ter del decreto legislativo n. 152 del 2006, cessa di essere rifiuto e diventa un sottoprodotto, svincolandosi dalle limitazioni poste dalla normativa sui rifiuti, in virtù delle caratteristiche di qualità ambientale e dei controlli cui viene sottoposto l'intero ciclo di produzione di tale materiale e le caratteristiche di qualità degli impianti, ferme restando le condizioni di esercizio identiche a quelle previste per il coincenerimento di rifiuti, di cui al decreto legislativo 11 maggio 2005, n. 133;
    senz'altro, occorrono azioni concrete e mirate alla conservazione delle risorse terrestri e alla riduzione dei rifiuti da conferire in discarica, all'incentivazione dell'utilizzo delle fonti rinnovabili e delle biomasse, alla semplificazione e facilitazione dei processi autorizzativi per la produzione di energia da tali fonti (che rendono realizzabile un reale incremento di produzione), alla riduzione della dipendenza del Paese dalle materie fossili e, quindi, dall'estero, ma anche all'incentivazione dell'utilizzo di migliori tecnologie per la diminuzione delle emissioni inquinanti in aria, acqua, suolo, senza tuttavia penalizzare lo sviluppo economico e i diritti alla tranquillità dei cittadini, sia per un sufficiente approvvigionamento energetico del Paese, sia per la tutela della propria salute;
    in materia di rifiuti, le amministrazioni locali e le regioni del Nord hanno responsabilmente attuato forme di gestione del ciclo dei rifiuti che hanno raggiunto un'eccellenza riconosciuta a livello internazionale;
    la filiera della gestione dei rifiuti al Nord rispetta la differenziazione e la gerarchia stabilita dalle direttive comunitarie, che prevedono una sequenza di priorità, come prevenzione, preparazione per il riutilizzo, riciclaggio, recupero di altro tipo, per esempio il recupero di energia, e, infine, lo smaltimento;
    tale gerarchia deve essere rigorosamente seguita anche nella catena della produzione del combustibile solido secondario, allo scopo di evitare la disincentivazione della differenziazione e delle filiere di recupero delle materie riutilizzabili nei cicli di produzione;
    le regioni e gli enti locali del Nord hanno raggiunto un'autosufficienza nella gestione differenziata dei propri rifiuti, privilegiando il criterio della prossimità ai fini del recupero e dello smaltimento, che permette alle amministrazioni di ridurre i costi aggiuntivi di trasporto ed evita ai cittadini di prestare il proprio territorio per smaltire i rifiuti di altri territori;
    l'eccellenza raggiunta dai comuni del Nord nella gestione dei rifiuti, anche grazie a campagne di informazione e iniziative di coinvolgimento dei cittadini, rende ancora più evidenti le criticità riscontrate in altre aree del Paese, in particolare del Centro-Sud, che spesso hanno danneggiato non solo l'immagine ma anche l'economia dell'intero Paese, sia attraverso le procedure di infrazione e le multe che è costretta a pagare l'Italia alla Commissione europea, sia attraverso le ripercussioni al comparto turistico;
    chiaramente, dopo la riduzione, la selezione e il recupero di materia da rifiuto e l'utilizzo dell'umido per la produzione di biomassa e di compost, essendo impossibile recuperare il cento per cento di tutti i rifiuti, resta sempre una minima parte che è impossibile recuperare e, pertanto, occorre considerare anche la possibilità di produrre energia attraverso il trattamento dei rifiuti per poter evitare di riempire il territorio di discariche; questo deve avvenire in modo tale da fornire un'ulteriore opportunità a tutta la comunità, attraverso i termovalorizzatori, il teleriscaldamento, la produzione di energia termica o elettrica;
    la produzione di combustibili solidi secondari, combustibile solido secondario o CSS-combustibili, che, grazie a particolari tecnologie innovative ambientalmente sostenibili, diventano rifiuti speciali da urbani o addirittura cessano di essere rifiuti e diventano sottoprodotti e comunque possono essere utilizzati in sostituzione di combustibili convenzionali per finalità ambientali ed economiche, deve comunque rispettare il criterio di prossimità e non deve diventare la scusa per poter esportare fuori territorio i rifiuti solidi urbani; pertanto, gli impianti di trasformazione dei rifiuti urbani in combustibile solido secondario devono comunque restare all'interno di ciascuna regione dove vengono prodotti i rifiuti urbani;
    l'incenerimento del combustibile solido secondario per la produzione di energia termica comporta senz'altro una riduzione degli oneri ambientali ed economici legati allo smaltimento di rifiuti in discarica, un risparmio di risorse naturali e una riduzione della dipendenza del Paese da combustibili convenzionali ai fini dell'approvvigionamento energetico;
    chiaramente nel caso di incenerimento del combustibile solido secondario ai fini della produzione del clinker nei cementifici, ossia in impianti che non sono dedicati al solo incenerimento di rifiuti, esiste comunque una variazione della tipologia emissiva dell'impianto che occorre valutare nell'ambito dell'autorizzazione integrata ambientale da parte dell'autorità competente e stabilire le condizioni per poter attuare tale incenerimento senza provocare danni per l'ambiente e per la salute dei cittadini, tenendo conto che sta avvenendo una trasformazione dell'impianto originario che deve tenere conto anche delle condizioni al contorno e del fatto che spesso tali impianti sono situati in aree urbanizzate;
    fermo restando il fatto che già oggi i cementifici bruciano combustibile solido secondario e rifiuti, come farine animali o pneumatici fuori uso, la convenienza ambientale di trasformare i rifiuti in CSS-combustibile è quella della qualità; il CSS-combustibile rappresenta un sottoprodotto, conveniente anche commercialmente in quanto svincolato dalla disciplina dei rifiuti, di cui viene tracciato il percorso di produzione e sono noti la propria tipologia e il potere calorifico; l'utilizzo di CSS-combustibile garantisce, dunque, una maggiore tutela per l'ambiente e per un controllo superiore sulla tipologia dei materiali contenuti;
    in ogni caso, per ciascun impianto destinato a bruciare anche combustibile solido secondario o CSS-combustibile proveniente da rifiuti urbani o speciali, i limiti imposti dall'autorizzazione integrata ambientale per le emissioni devono tenere conto di tale possibilità e devono essere analoghi a quelli previsti per gli impianti dedicati, termovalorizzatori o inceneritori, indicando valori limite per le sostanze inquinanti che tengono conto di tutti i possibili effetti negativi sull'ambiente, anche con riguardo al traffico indotto relativo al trasporto del combustibile solido secondario e alla possibilità del trasporto su rotaia dei materiali, per garantire i cittadini circa la sostenibilità ambientale di ciascun impianto;
    in particolare, in pareggio del potere calorifico del carbone occorre 1,8 chilogrammi di combustibile solido secondario per ciascun chilogrammo di carbone; pertanto, c’è senz'altro un incremento del traffico indotto dal trasporto dei materiali che bisogna considerare nell'ambito delle autorizzazioni degli impianti da parte delle regioni;
    inoltre, l'esercizio dei controlli, affidato giustamente alle amministrazioni locali competenti, spesso, specialmente in alcune realtà territoriali del Paese, è piuttosto carente, permettendo l'inserimento della criminalità organizzata nel ciclo della gestione dei rifiuti;
    la possibilità di bruciare il combustibile solido secondario o CSS-combustibile nei cementifici si presenta, pertanto, come una situazione complessa che richiede un approfondito esame da parte del Governo e del Parlamento, che deve coinvolgere anche il mondo economico e gli enti territoriali interessati;
    per poter procedere alla produzione di combustibili solidi secondari di alta qualità, occorre acquisire la fiducia della popolazione in relazione all'utilizzo di detti combustibili e fornire, con riferimento alla produzione e all'utilizzo di detti combustibili, chiarezza giuridica e certezza comportamentale da parte degli operatori, a garanzia dei cittadini circa le buone pratiche utilizzate e la tutela della propria salute,

impegna il Governo

a promuovere un approfondito dibattito sulla materia fornendo alle commissioni parlamentari competenti un quadro aggiornato sull'attuale utilizzo del combustibile solido secondario e del CSS-combustibile nei cementifici, sia in Italia, disaggregato per regioni, sia all'estero, anche sulla base di approfonditi studi scientifici specifici, con particolare riferimento:

    a) alle emissioni di sostanze inquinanti e alle possibili conseguenze sul piano ambientale, sanitario e sociale, anche a seguito di eventuali malfunzionamenti o errori di gestione;

    b) alle conseguenze sul piano organizzativo del trasporto dei materiali e alle ripercussioni del traffico indotto sulle realtà territoriali locali;

    c) alle restrizioni che occorre individuare circa la circolazione in altre regioni del combustibile solido secondario proveniente da rifiuti urbani, garantendo, comunque, il criterio di prossimità e che gli impianti di trasformazione dei rifiuti urbani in combustibile solido secondario siano comunque situati all'interno di ciascuna regione dove vengono prodotti i rifiuti;

    d) al rispetto rigoroso della gerarchia di gestione dei rifiuti prevista dalle direttive comunitarie nella catena della produzione sia del CSS-combustibile, sia del combustibile solido secondario, allo scopo di evitare la disincentivazione della differenziazione e delle filiere di recupero delle materie riutilizzabili nei cicli di produzione;

    e) agli strumenti di informazione e consultazione in relazione ai progetti in essere per l'utilizzo di combustibili alternativi da parte dei cementifici;

    f) al rafforzamento, con ogni strumento a disposizione e su tutto il territorio nazionale, del sistema dei controlli, sia sulle emissioni inquinanti dei cementifici mediante una rete di monitoraggio ambientale, sia sul processo di gestione dei combustibili solidi secondari utilizzati in tali impianti, sia sul rispetto della gerarchia nella gestione dei rifiuti ai fini della produzione del combustibile solido secondario.

(1-00189) «Grimoldi, Giancarlo Giorgetti, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Buonanno, Busin, Caon, Caparini, Fedriga, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera, Rondini».


   La Camera,
   premesso che:
    l'articolo 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, così come modificato dall'articolo 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94, ha introdotto nel nostro ordinamento il «reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato»;
    l'Italia è stata condannata da parte della Corte europea per i diritti dell'uomo per non aver rispettato il principio del non-respingimento, contenuto nella convenzione di Ginevra del 1951;
    l'articolo 13 della Costituzione recita che «la libertà personale e inviolabile (...) non e ammessa forma alcuna di detenzione, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge»;
    a fronte del dettato costituzionale, tuttavia, nei Centri di identificazione e di espulsione, quanto ha luogo è, a giudizio dei firmatari del presente atto, una vera e propria detenzione regolata da provvedimenti amministrativi, caratterizzata peraltro da pratiche disomogenee sul territorio e sostanziali disparità di condizioni di trattenimento, in violazione del principio di uguaglianza;
    secondo i dati di Famiglia cristiana, che riprendono quelli elaborati dalla direzione generale della giustizia penale del Ministero della giustizia, paradossalmente, prima dell'introduzione del reato attualmente previsto e punito dall'articolo 10-bis del decreto legislativo n. 286 del 1998, il numero di espulsioni per coloro che si trovavano in Italia in maniera irregolare era addirittura maggiore: 49 per cento nel 2003 contro il 28 per cento del 2012;
    secondo quanto riportato nel rapporto «Costi disumani. Spesa pubblica per il contrasto all'immigrazione irregolare» – redatto a cura dell'associazione Lunaria e, recentemente, presentato in sede di audizione dalla Commissione straordinaria per la promozione e la tutela dei diritti umani del Senato – dal 2005 al 2011 sono stati impegnati 143,8 milioni di euro in media all'anno per allestire, gestire, mantenere e ristrutturare il sistema dei centri (CDA, CPSA, CARA, CIE). «In particolare per i CIE i dati identificabili negli avvisi pubblici per l'affidamento della loro gestione in base ai capitolato unico di appalto di gara del novembre 2008, portano a stimare i soli costi di funzionamento in almeno 25,1 milioni di euro l'anno, cui aggiungere i costi di manutenzione ordinaria e straordinaria (non quantificabili con solo riferimento ai CIE), i costi per la sorveglianza dei Centri (non inferiori a 26,3 milioni l'anno), i costi di missione del personale di scorta che procede all'esecuzione dei rimpatri coatti (il cui costo medio annuale può essere stimato in 3,6 milioni di euro). I costi minimi sicuramente riconducibili al sistema di detenzione amministrativa nei CIE sono dunque pari ad almeno 55 milioni di euro l'anno»;
    i centri di identificazione ed espulsione (CIE), istituiti dalla legge 6 marzo 1998, n. 40, e previsti dal testo unico sull'immigrazione (decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286), sono strutture di trattenimento degli stranieri in condizione di irregolarità, destinati all'espulsione;
    l'articolo 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, così come modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189, cosiddetto legge «Bossi-Fini», prevede che «quando non sia possibile eseguire con immediatezza l'espulsione mediante accompagnamento», «il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso» il Centro di identificazione e di espulsione, e che quindi tali strutture siano destinate al trattenimento, convalidato dal giudice di pace, dei cittadini stranieri extracomunitari irregolari e destinati all'espulsione;
    a far data dall'8 agosto 2009, con l'entrata in vigore della legge 15 luglio 2009, n. 94 (cosiddetto pacchetto sicurezza), il termine massimo di permanenza degli stranieri in tali centri è passato da 60 giorni a 180 giorni complessivi, rafforzando così la loro natura di luoghi di permanenza obbligatoria e, nei fatti, luoghi di detenzione amministrativa delle e dei migranti;
    secondo i dati forniti dalla polizia di Stato, nel 2012 erano 7.944 (7.012 uomini e 932 donne) i migranti trattenuti in tutti i Centri di identificazione e di espulsione operativi in Italia. Di questi solo la metà (4.015) sono stati effettivamente rimpatriati con un tasso di efficacia (rapporto tra rimpatriati e trattenuti) del 50,54 per cento. Rispetto al 2010, il rapporto tra i migranti rimpatriati rispetto al totale dei trattenuti nei Centri di identificazione e di espulsione è cresciuto di appena il 2,3 per cento, mentre rispetto al 2011, l'incremento tasso di efficacia nei rimpatri è risultato addirittura irrilevante (+0,3 per cento);
    il citato articolo 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, al comma 2, dispone che in tali centri lo straniero è trattenuto «con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza e il pieno rispetto della sua dignità»;
    l'articolo 21 del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394 specifica che le modalità del trattamento nei Centri di identificazione e di espulsione «devono garantire, nel rispetto del regolare svolgimento della vita in comune, la libertà di colloquio all'interno del centro e con visitatore proveniente dall'esterno, in particolare con il difensore che assiste lo straniero, e con i ministri di culto, la libertà di corrispondenza, anche telefonica, ed i diritti fondamentali della persona» e che in tali centri devono essere presenti «i servizi sanitari essenziali, gli interventi di socializzazione e la libertà di culto» e i «servizi predisposti per le esigenze fondamentali di cura, assistenza, promozione umana e sociale»;
    all'interno dei Centri di identificazione e di espulsione si sono verificati gravi violazioni dei diritti umani, come denunciato sia da inchieste ed articoli di stampa, sia dalle associazioni di volontariato e dalle associazioni per la tutela dei diritti umani tra le quali anche Amnesty International e Medici senza Frontiere, e fin dall'indagine interministeriale presentata dall'ambasciatore De Mistura nel 2007;
    sono numerosissimi gli atti di autolesionismo e tentativi di suicidio che sono stati anche denunciati da autorevoli organizzazioni impegnate nel campo dei diritti;
    in particolare, come risulta dall'indagine «Arcipelago CIE» realizzata tra febbraio 2012 e febbraio 2013 da Medici per i diritti umani (MEDU) e pubblicata a maggio 2013, la struttura dei Centri di identificazione e di espulsione è simile a quella dei centri di internamento. «L'inattività forzosa per prolungati periodi di tempo, in spazi angusti ed inadeguati, insieme all'incertezza sulla durata e l'esito del trattenimento, rendono il disagio psichico dei migranti uno degli aspetti più preoccupanti e di più difficile gestione all'interno dei centri»;
    da un punto di vista prettamente sanitario, le indagini di Medu evidenziano inoltre che «in generale all'interno dei Centri di identificazione e di espulsione, non è previsto personale medico specialistico anche laddove sarebbe certamente necessario»;
    dalle visite effettuate da molti parlamentari nei Centri di identificazione e di espulsione italiani sono emerse diverse criticità, prima fra tutte l'altissima compressione dei diritti fondamentali: pur in presenza di un titolo di detenzione solo amministrativo, ai fini dell'identificazione, dell'espulsione o del rimpatrio, si è riscontrata la presenza di persone private della libertà personale per lunghissimi periodi di tempo, impossibilitate a svolgere alcun tipo di attività ricreativa, lavorativa, formativa;
    l'assenza di un regolamento «comune» per tutti i Centri di identificazione e di espulsione, presenti in Italia, e la presenza di soli regolamenti adottati dalle prefetture di competenza, determina un diverso grado di flessibilità nei diritti concessi, anche sulla base della diversa interpretazione delle «ragioni di sicurezza»;
    altro dato preoccupante è costituito dalla forte eterogeneità e promiscuità delle persone presenti all'interno dei Centri di identificazione e di espulsione: vi si trovano persone che hanno a lungo risieduto legalmente in Italia e che, ad un certo punto, per le ragioni più diverse, hanno perso il permesso di soggiorno (cosiddetti overstayers); richiedenti asilo che hanno potuto presentare richiesta di protezione internazionale solo dopo essere giunti al Centri di identificazione e di espulsione e che dunque non sono stati trasferiti in un CARA; ex detenuti, a fine pena, che sono stati poi trasferiti nel Centri di identificazione e di espulsione in attesa di identificazione o di rimpatrio nonché numerose persone che sono state a lungo trattenute nei Centri di identificazione e di espulsione, poi rilasciate e che, nuovamente fermate, vi rientrano;
    inoltre, è stata riscontrata all'interno dei Centri di identificazione e di espulsione la presenza di persone coniugate con cittadini italiani, persone le cui condizioni di salute risultano incompatibili con il trattenimento, persino minori, nonostante le norme vigenti lo vietino;
    in particolare, ha destato preoccupazione la presenza nei Centri di identificazione e di espulsione di un elevato numero di ex detenuti che, dopo aver scontato pene anche di diversi anni, vengono trattenuti per ulteriori lunghi periodi di tempo all'interno degli stessi, nonostante la direttiva interministeriale del 30 luglio 2007, dei Ministri pro tempore Amato e Mastella, stabilisca che, in linea con le indicazioni del rapporto «De Mistura», l'identificazione per detenuti debba avvenire in carcere, e non più negli allora CPT, da considerarsi come luoghi destinati più utilmente al riconoscimento di altri soggetti; riconoscimento che si presenta problematico e che richiede un considerevole impiego di forze dell'ordine, sia per gli impegnativi compiti di sorveglianza che per quelli di accompagnamento presso i tribunali competenti;
    tutti gli aspetti critici rilevati nel corso delle visite nei Centri di identificazione e di espulsione da parte di delegazioni di parlamentari, sono resi più gravi dall'allungamento del termine massimo di permanenza all'interno delle strutture che, senza riuscire a facilitare il problema dell'identificazione e dei rimpatri, ha finito per creare una sorta di limbo giuridico, caratterizzato dalla negazione di diritti, anche fondamentali, nel quale i trattenuti possono permanere fino a 18 mesi e al quale occorre urgentemente porre rimedio;
    incessanti sono ormai le rivolte da parte degli immigrati trattenuti per protestare contro le difficili condizioni e le gravi violazioni dei diritti umani fondamentali, come dimostrano da ultimo le rivolte al Centri di identificazione e di espulsione di Gradisca d'Isonzo;
    all'interno del Centro di identificazione e di espulsione di Crotone si è anche verificata la morte di un immigrato, con conseguente chiusura dello stesso;
    nel giugno del 2012, in concomitanza con l'emersione di lacune strutturali che avevano portato alla chiusura del «Serraino Vulpitta» di Trapani e del «Malgrado Tutto» di Lamezia Terme, nonché di gravi inadempienze contrattuali emerse in numerosi centri, la Ministra dell'interno pro tempore, Anna Maria Cancellieri, ha istituito una task-force, con il compito di analizzare la situazione in cui versano i Centri di identificazione e di espulsione, relativamente agli aspetti di carattere normativo, organizzativo e gestionale, al fine di elaborare proposte normative atte a migliorare l'operatività dei centri di espulsione ed assicurarne l'uniformità di funzionamento a livello nazionale;
    in precedenza, nel luglio 2006, con decreto del Ministro dell'interno pro tempore, Giuliano Amato, venne istituita la commissione De Mistura, il cui citato rapporto fu depositato il 31 gennaio 2007;
    la commissione istituita nel 2012 ha visto, quali componenti, esclusivamente funzionari del Ministero dell'interno; mentre la Commissione del 2006 era composta sia da membri ministeriali, sia da appartenenti all'associazionismo (una commissione «mista»);
    la commissione De Mistura (del 2006) operò visitando tutti i centri, incontrando le prefetture, le questure, ascoltando le associazioni dei vari territori, gli enti locali e le persone trattenute; esaminò, inoltre, i documenti che le venivano sottoposti e raccolse direttamente migliaia di dati, anche attraverso l'utilizzo di apposite schede di rilevazione;
    la citata commissione già evidenziò la difficoltà ad eseguire i provvedimenti di espulsione, ritenendo dunque che «l'approccio normativo complessivo ai fenomeno andrebbe profondamente modificato riconducendo l'espulsione alla sua natura di provvedimento necessario da applicarsi come ultima ratio, laddove tutte le altre possibilità di regolarizzare si siano rivelate in concreto non possibili»;
    le conclusioni della commissione De Mistura non trovarono attuazione, né sembrano esser state considerate nell'impostazione dell'indagine del 2012. Le risultanze dei due rapporti appaiono estremamente diverse, così come le conclusioni: mentre la commissione De Mistura, dopo avere analizzato tutte le criticità presenti nei luoghi di detenzione amministrativa, concludeva per il «superamento» degli allora CPTA attraverso il loro «svuotamento», la più recente task force ha elaborato un «Documento programmatico» che, pubblicato solo ad aprile 2013, e quindi in fase di dimissione del Governo pro tempore, è volto ad implementare i centri di detenzione amministrativa, individuando le criticità prevalentemente condotta delle persone trattenute;
    le soluzioni prospettate nel progetto di revisione del «sistema Cie», tutto condensato in un rapporto di 27 pagine, più allegati (cosiddetto rapporto Ruperto) muove dal presupposto della necessità dei Centri di identificazione e di espulsione e prevede numerose novità sia dal punto di vista amministrativo che del funzionamento vero e proprio;
    in tal senso, in tal rapporto, si coglie una sorta di ulteriore discostamento delle prassi e delle normative sul trattenimento amministrativo in Italia, rispetto alla direttiva 2008/115/CE del Parlamento e del Consiglio, nota come «direttiva rimpatri»;
    ogni passo dello stesso, infatti, apre un elemento di problematicità: ad esempio, nel prendere atto del fatto che i Centri di identificazione e di espulsione operano con capienza ridotta a causa del danneggiamento dei locali causato dai trattenuti, non si affronta il correlato tema per cui il forte ribasso dei corrispettivi previsti dalle convenzioni agli enti gestori ha portato alla diminuzione del personale degli stessi, nonché all'ulteriore abbassamento della qualità minima del sistema complessivo dei servizi con conseguenze anche gravi per le persone trattenute;
    nel rapporto si annuncia poi che molti immigrati senza documenti potranno essere rimpatriati con maggiore velocità utilizzando non i Centri di identificazione e di espulsione, ma i CPSA (centri di primo soccorso e accoglienza), che, con procedimenti spesso informali, comportano il rischio dei ricorso alle espulsioni cosiddette collettive, in violazione degli accordi di Schengen, la cui pratica è da ritenersi altresì illegittima secondo l'articolo 4 del protocollo 4 allegato alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo;
    altro aspetto su cui il rapporto si sofferma molto è la necessità di prevenire e contenere gli atti di ribellione, isolando in appositi spazi i rivoltosi e addirittura i «potenziali» rivoltosi, prevedendo celle speciali in carceri speciali;
    sul tema la sentenza del tribunale di Crotone n. 1410 del 12 dicembre 2012 ha stabilito) che i protagonisti della rivolta nel Centro di identificazione e di espulsione di Crotone – i quali, saliti sul tetto della struttura, hanno lanciato alcuni oggetti contundenti contro le forze dell'ordine non sono colpevoli di danneggiamento e offesa a pubblico ufficiale in quanto seguono per «legittima difesa» e la reazione degli stranieri alle «offese ingiuste» è da considerarsi proporzionata; il giudice ha in fatti ritenuto che, nel caso dei Centri di identificazione e di espulsione, si tratta di «strutture – nel loro complesso – ai limite della decenza, intendendo tale ultimo termine nella sua precisa etimologia, ossia di conveniente alla loro destinazione: che è quella di accogliere essere umani. E, si badi, esseri umani in quanto tali, e non in quanto stranieri irregolarmente soggiornanti sul territorio nazionale per cui lo standard qualitativo delle condizioni di alloggio non deve essere rapportato al cittadino straniero irregolare medio (magari abituato a condizioni abitative precarie), ma al cittadino medio, senza distinzione di condizione o di nazionalità o di razza»;
    da ultimo, il caso Alma Shalabayeva ha evidenziato che, secondo quanto dichiarato dal presidente Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, in un articolo pubblicato su l’Unità dei 17 luglio 2013, «accade che la politica dei respingimenti venga praticata con brutale efficienza nei confronti di migliaia di anonimi immigrati e richiedenti asilo» e che, dunque, tale caso istituzionale «potrebbe rappresentare l'occasione per ripensare a fondo la materia e per interrogarsi, in particolare, sulla legittimità di queste forme di rimpatrio: quante espulsioni espongono lo straniero al rischio di trattamenti illegali e crudeli ?»,

impegna il Governo:

   a ripensare radicalmente l'attuale sistema di detenzione amministrativa, ingiustificabile ed ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo illegittimo in uno Stato di diritto, e che risulta peraltro inefficace per quanto attiene all'effettività dei provvedimenti di espulsione, inutilmente costoso ed altamente lesivo dei diritti umani fondamentali;
   ad assumere iniziati per riformare l'intera disciplina dell'ingresso, del soggiorno e dell'allontanamento dei cittadini stranieri;
   ad ampliare i canali di ingresso regolare, a garantire l'ingresso per ricerca di lavoro anche per contrastare il grave fenomeno della tratta degli esseri umani, nonché a introdurre meccanismi di regolarizzazione ordinaria;
   ad introdurre politiche migratorie atte a garantire effettive possibilità di inserimento sociale dei migranti.
(1-00190) «Fratoianni, Migliore, Pilozzi, Kronbichler, Daniele Farina, Sannicandro, Di Salvo, Piazzoni, Boccadutri, Costantino, Nicchi, Aiello, Palazzotto».

Risoluzione in Commissione:


   L'VIII Commissione,
   premesso che:
    secondo l'articolo 185 del decreto legislativo n. 152 del 2006, comma 1, nella sua formulazione in vigore dal 25 dicembre 2010, il materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso (quali paglia, sfalci, potature, e altro), che non venga utilizzato in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia, rientra nella gestione dei rifiuti speciali, in quanto derivanti da attività agricole e agro-industriali;
    così articolata, la disciplina in questione non consente l'eliminazione di detto materiale mediante l'uso del fuoco, pratica che così va a configurare il reato di illecito smaltimento dei rifiuti;
    tale disciplina ha creato non poca incertezza, posto che le regioni, nell'ambito dell'elaborazione dei propri piani di prevenzione degli incendi boschivi, hanno spesso disciplinato in senso opposto in ordine a tali pratiche, configurando come lecite (in certi orari e con determinate modalità) la pratica dell'abbruciamento di detto materiale vegetale di scarto;
    al momento, stante in materia di tutela dell'ambiente la chiara prevalenza della normativa statale su quella regionale (più volte sancita dalla stessa Corte costituzionale, cfr. sentt. nn. 307 del 2003, 246/2006, 378/2007), dove la prima costituisce un limite invalicabile per la seconda, detto materiale deve essere trattato, secondo le vigenti previsioni di legge, alla stregua di rifiuto speciale;
    le aziende agricole italiane, in modo particolare quelle di modeste dimensioni, e localizzate in zone di montagna o comunque svantaggiate sono messe in una situazione di grave di difficoltà dalla normativa nazionale citata in premessa, posto che devono sopportare costi aggiuntivi per lo smaltimento di materiale vegetali del tutto naturali;
    in particolare, dette aziende spesso non sono nelle condizioni di poter produrre, secondo quanto previsto dall'articolo 185 citazione «energia da tale biomassa mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente né mettono in pericolo la salute umana», dati gli elevati costi che tali processi comportano, e stante anche l'assoluta genericità delle condizioni poste dalla stessa normativa (che determinano una notevole incertezza negli stessi operatori economici nel settore agricolo);
    a fronte dei notevoli costi che le aziende agricole sono costrette a sopportare, specialmente nel presente periodo di grave crisi economica, per lo smaltimento di paglie, potature ed altro materiale vegetale simile, l'alternativa (del tutto inaccettabile) per dette imprese al momento è la commissione del reato di illecito smaltimento dei rifiuti;
    nell'attuale quadro di incertezza, quindi, sulle possibili condotte lecite alternative che le aziende possono adottare in merito alla presente questione, il rischio è che detto materiale non venga né raccolto né in qualche modo smaltito, né valorizzato ai fini del mantenimento della qualità dei terreni;
    le condizioni estremamente delicate nella quali si trova il settore agricolo nazionale impongono un'attenzione particolare sulle problematiche di questo da parte delle istituzioni nazionali, ivi comprese quelle legate alla gestione e smaltimento dei rifiuti;
    occorre tenere conto del quadro generale nazionale che evidenzia:
     a) criticità legate all'inquinamento da polveri sottili con numero di sforamenti ben oltre i limiti considerati compatibili con accettabile rischio per la salute umana;
     b) il rischio di «sdoganamento» di una pratica come quella riferibile all'abbruciamento, comunque opposta alla sostenibilità ambientale ed agricola che, contrariamente, prevede una valorizzazione del compostaggio aerobico a fini del mantenimento con mezzi naturali e poco costosi della natura dei suoli;
     c) il rischio concreto di incendi boschivi;
     d) la specificità territoriale di ogni ambito regionale, dove in molti casi, la legislazione regionale ha previsto disposizioni ad hoc per tali pratiche di smaltimento;
     e) lo stravolgimento dell'agrozootecnia nazionale dovuto ai sistemi intensivi e all'uso irrazionale dell'agroenergia e ad un sistema distorsivo di incentivi;
    allo Stato è affidato il compito di adottare criteri generali per la redazione di piani di settore per la riduzione, il riciclaggio, il recupero e l'ottimizzazione dei flussi di rifiuti ex lettera e) dell'articolo 195 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152;
    va ribadita la necessità di privilegiare il compostaggio aerobico e la virtuosa gerarchia nel trattamento dei rifiuti stabilito dalla direttiva 2008/98/CE (considerando 28) finalizzata alla realizzazione di una società del riciclaggio;
    va ribadita la necessità di favorire la trinciatura degli scarti agricoli affinché siano reintegrati nel suolo i diversi residui vegetali attraverso specifiche tecniche agricole (ad esempio il sovescio) al fine di chiudere il ciclo della materia evitando l'eventuale depauperazione del suolo agricolo,

impegna il Governo:

   ad assumere opportune iniziative, nell'ambito delle proprie competenze, al fine di mettere in condizione le imprese agricole, ove non sia presente nell'ambito territoriale di pertinenza adeguata impiantistica per il compostaggio aerobico, con esclusivo riferimento a zone di montagna o aree comunque svantaggiate, non rientranti in zone ad elevata criticità in merito alla qualità dell'aria, di poter smaltire autonomamente, modeste quantità di propri rifiuti quali paglia, sfalci, potature, nonché materiali agricoli o forestali naturali non pericolosi che non vengano utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia, nel rispetto dell'ambiente e della salute pubblica;
   a prendere opportune iniziative normative al fine di promuovere la diffusione del compostaggio aerobico nell'ambito della definizione dei criteri generali e delle metodologie per la gestione integrata dei rifiuti di cui alla lettera b) dell'articolo 195 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152.
(7-00107) «Zolezzi, Busto, Daga, De Rosa, Mannino, Segoni, Terzoni, Tofalo, Lupo, Gallinella, Massimiliano Bernini, L'Abbate, Parentela, Gagnarli, Benedetti».

ATTI DI CONTROLLO

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI

Interrogazione a risposta in Commissione:


   FIANO e CHAOUKI. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro degli affari esteri, al Ministro per l'integrazione. — Per sapere – premesso che:
   una trentina di coppie italiane, con decreto di idoneità all'adozione internazionale rilasciato dalle autorità competenti, sarebbero rimaste coinvolte in una truffa sulle adozioni internazionali in Kirghizistan, Paese dell'Asia Centrale;
   ventuno coppie, partite a cavallo tra i mesi di maggio e luglio 2012 per la capitale Bishkek, avrebbero incontrato i bambini a loro abbinati dall'ente autorizzato L’Airone Onlus; altre invece non sarebbero partite, ma avrebbero comunque pagato per le pratiche di adozione internazionale in Kirghizistan, talvolta versando ingenti somme in contanti, come richiesto dall'Ente L'Airone, soldi successivamente spariti;
   i coniugi partiti avrebbero trascorso circa una settimana con i minori, residenti nell'orfanotrofio Casa del bambino di Bishkek, che già li riconoscevano come propri futuri genitori, per poi tornare in Italia, secondo l’iter stabilito;
   dopo circa un mese dalla presunta sentenza definitiva di adozione da parte della competente autorità giudiziaria kirghiza, i cittadini italiani sarebbero dovuti ritornare nel Paese per portare in Italia i minori, che loro pensavano sarebbero di lì a poco divenuti legalmente i propri figli;
   tuttavia, a causa dello scoppio di uno scandalo kirghizo sulle adozioni internazionali che ha coinvolto il Ministro dello sviluppo sociale Ravshan Sabirov, nonché funzionari e vertici kirghizi, la sentenza definitiva di adozione non è mai stata adottata e le coppie non sono più potute tornare in Kirghizistan, né tantomeno avere contatti con i bambini, con gravi conseguenze psicologiche e sociali tanto per le coppie italiane coinvolte, quanto soprattutto per i bambini, già fortemente provati in virtù della loro condizione di adottabilità;
   lo scandalo avrebbe altresì coinvolto i rappresentanti della stessa organizzazione italiana, L’Airone Onlus, che già a luglio 2012 era stata radiata, nel Kirghizistan, dall'albo degli enti accreditati a operare nel Paese;
   la Commissione adozioni internazionali, presieduta da uno dei ministri interrogati, è stata costantemente tenuta al corrente dalle famiglie e, nei primi mesi del 2013 – su indicazione della Commissione adozioni internazionali e del Ministero degli esteri Italiano – l'ambasciatore in Kazakistan competente anche per il Kirghizistan, Alberto Pieri, ha svolto una missione a Bishkek per fare luce con le autorità kirghize sull'oscura vicenda che ha coinvolto inconsapevoli famiglie italiane e minori stranieri svelando una vera e propria truffa posta in essere da sedicenti rappresentanti di Onlus italiane in collaborazione con funzionari kirghizi corrotti;
   l'ente Airone Onlus risulterebbe, da fonti di stampa, aver posto in essere una serie di gravi irregolarità tra le quali, ad esempio, l'assenza o l'incompletezza della documentazione necessaria per l'adozione nonché l'individuazione di soggetti non adottabili che talvolta sono risultati non essere in stato di abbandono: la maggior parte dei minori abbinati alle coppie italiane risultava, infatti, ancora formalmente legata a vincoli parentali con la famiglia di origine;
   con una delibera del 19 marzo 2013 la Commissione adozioni Internazionali ha revocato ogni autorizzazione a svolgere mandato a L’Airone Onlus, e dopo il ricorso al TAR da parte dell'ente;
   la stessa Commissione, in data 30 luglio 2013, ha ribadito il provvedimento di revoca con una nuova delibera, confermando la cancellazione de L’Airone Onlus dall'albo degli enti autorizzati nonché disponendo la revoca di tutte le autorizzazioni precedentemente rilasciate relative al Kirghizistan, in considerazione dell'attuale situazione socio-politica nel Paese e degli eventi che hanno coinvolto anche enti italiani;
   numerosi organi di stampa italiani e internazionali hanno dato ampio risalto alla vicenda, e la stessa magistratura italiana si è interessata al caso dopo gli esposti presentati da alcuni aspiranti genitori presso le procure di Roma, Pisa e Bergamo; della questione è stato altresì investito anche il Parlamento europeo tramite la presentazione di interrogazioni sul tema –:
   quali iniziative urgenti, anche sul piano diplomatico, il Governo intenda assumere al fine di scongiurare, in futuro, il ripetersi di fatti analoghi, anche rafforzando il controllo sugli enti italiani accreditati inseriti nell'albo, nonché se e come intendano assistere le famiglie coinvolte, sia sul piano psicologico, sia assumendo ogni iniziativa di competenza, se del caso anche normativa, per prevedere un fondo assicurativo volto a risarcire eventuali casi come quello in oggetto. (5-01050)

AFFARI ESTERI

Interrogazione a risposta scritta:


   REALACCI. — Al Ministro degli affari esteri. — Per sapere – premesso che:
   alcune agenzie di stampa, comunicati di Greenpeace Italia, un articolo de La Repubblica online riportano la notizia dell'abbordaggio, il 19 settembre 2013 da parte della guardia costiera della Federazione Russa della nave di Greenpeace Arctic Sunrise nel mar Artico. Le operazione si sono concluse con l'arresto di 30 attivisti a seguito di una protesta pacifica contro le operazioni di trivellazione nell'Artico per opera della multinazionale russa «Gazprom»;
   la posizione della nave Arctic Sunrise viene descritta univocamente come in acque internazionali. Elemento questo che renderebbe l'irruzione della guardia costiera federale russa un atto illegale secondo il diritto internazionale;
   nelle operazione di polizia anche un attivista italiano di Greenpeace è stato poi arrestato dalla forze di sicurezza russe. L'uomo è stato fermato insieme ad altri 24 militanti dell'associazione ambientalista in seguito all'azione dimostrativa sulla piattaforma petrolifera artica della «Gazprom»;
   secondo l'organizzazione ecologista, otto militari russi si sono calati da un elicottero con delle corde circondando gli attivisti dopo aver sparato 11 colpi di avvertimento contro la nave. Alcuni membri dell'equipaggio sono riusciti a chiudersi a chiave nella sala radio e hanno riferito di aver visto gli altri costretti a inginocchiarsi con pistole puntate contro di loro alla nuca;
   Greenpeace contesta con forza la legittimità e sproporzionata aggressività di una «irruzione illegale su una nave che protestava pacificamente»;
   sempre la guardia costiera aveva già arrestato, il 18 settembre, e «trattenuto senza accuse formali», altri due attivisti di Greenpeace che avevano scalato la piattaforma della Gazprom, che ora sembrano essere stati rilasciati. In seguito agli arresti il Ministro russo degli affari internazionali aveva dichiarato che «la guardia costiera è intervenuta perché l’Arctic Sunrise rappresenterebbe una minaccia alla sicurezza e all'ambiente», un'affermazione che Greenpeace contesta fortemente –:
   se il Ministro interrogato intenda prendere contatto con le autorità russe, anche per tramite del personale diplomatico accreditato presso la Repubblica italiana, per chiarire le circostanze e le modalità dell'accaduto;
   se non intenda altresì mettere in campo con la massima urgenza tutti gli strumenti di protezione diplomatica nei confronti del cittadino italiano condotto in arresto dalle forze di polizia russe affinché si provveda al suo immediato rilascio.
(4-01920)

AMBIENTE E TUTELA DEL TERRITORIO E DEL MARE

Interrogazione a risposta in Commissione:


   ZAN, MARCON, PELLEGRINO e ZARATTI. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   nel 1987 Venezia è stata dichiarata Sito patrimonio dell'umanità dell'Unesco;
   la laguna di Venezia, è un SIC, ovvero un sito di interesse comunitario e come tale è sottoposto al monitoraggio del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. È quindi un obbligo intervenire per ridurre l'impatto ambientale e paesaggistico delle grandi navi da crociera nella Laguna;
   il passaggio nella laguna di Venezia delle grandi navi è in costante crescita. Nel solo 2011 hanno sostato 655 navi. Tenuto conto che ogni nave giunge, approda e riparte dalla laguna dobbiamo considerare un transito raddoppiato;
   è ormai improcrastinabile giungere a un divieto dei passaggi delle navi da crociera dalle rive dei canali di Venezia, di fronte a piazza San Marco e sul Canal Grande. Un patrimonio artistico-culturale unico e immenso, che rischia di essere compromesso dai continui passaggi quotidiani delle navi da crociera;
   il 2 marzo 2012, il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti di concerto con il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare ha emanato il decreto ministeriale recante «Disposizioni generali per limitare o vietare il transito delle navi mercantili per la protezione di aree sensibili nel mare territoriale»;
   il suddetto decreto ha disposto, tra l'altro, il divieto di transito nel canale di San Marco e nel canale della Giudecca delle navi adibite al trasporto di merce passeggeri superiori a 40.000 tonnellate di stazza lorda;
   una norma transitoria del medesimo decreto stabilisce comunque che il divieto entri in vigore solo quando sia stata individuata un'alternativa;
   il 25 luglio 2013, si è avviato presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti un tavolo tecnico con il Ministro delle infrastrutture e trasporti, il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, i rappresentanti del comune di Venezia, dell'autorità portuale, dell'autorità marittima e della regione Veneto, per trovare una soluzione definitiva per allontanare le grandi navi dal canale della Giudecca. Diverse sono state le ipotesi di soluzione esaminate;
   il 21 settembre 2013, si è tenuta a Venezia una grande manifestazione pacifica per protestare ancora una volta contro il passaggio dei «giganti del mare» in laguna a pochi metri di distanza dalle storiche fondamenta del bacino San Marco;
   il Governo stesso si è impegnato ad assumere una soluzione definitiva entro fine ottobre –:
   se non intenda procedere fin da subito alla fissazione di un «numero chiuso» circa l'accesso delle grandi navi da crociera, nelle more di una celere decisione che porti ad escludere definitivamente il transito delle grandi navi nel canale di San Marco e nel canale della Giudecca;
   se non ritenga necessario assumere iniziative normative, affinché la regolazione dei traffici marittimi nel canale della Giudecca e nel bacino di San Marco sia esercitata dal sindaco di Venezia, sentito il consiglio comunale. (5-01048)

BENI E ATTIVITÀ CULTURALI E TURISMO

Interrogazione a risposta orale:


   BRUNETTA. — Al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo. — Per sapere – premesso che:
   in data 17 settembre il Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, rispondendo ad una interpellanza del firmatario del presente atto, ha dichiarato che l'area dove dovrebbe sorgere la discarica di Falcognana rientra in un perimetro, riguardante l'ambito territoriale dell'agro romano, compreso tra le vie Laurentina e Ardeatina, dichiarata, come lo stesso Ministro, ha evidenziato nel corso della riunione convocata dal Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare del 12 settembre 2013, di notevole interesse pubblico con decreto del direttore generale per i beni culturali e paesaggistici del Lazio del 25 gennaio 2010 (pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 25 del 1o febbraio 2010);
   il Ministro ha sottolineato, altresì, che la zona di Falcognana è definita «paesaggio agrario di rilevante valore, in quanto caratterizzato, secondo l'articolo 12 delle prescrizioni d'uso allegate al predetto decreto, da una notevole vocazione agricola, di grande estensione, profondità e omogeneità, con un rilevante valore paesistico per l'eccellenza dell'assetto percettivo, scenico e panoramico. Le citate prescrizioni prevedono, in tali casi, il rispetto di una serie di vincoli con riferimento al recupero e ampliamento delle discariche già esistenti»;
   in particolare, lo stesso Ministro in quella occasione ha ricordato che la tabella B dell'articolo 12 delle prescrizioni d'uso consente, con riferimento alle discariche collocate in tale perimetro, la possibilità di procedere ad interventi modificativi e di recupero delle stesse solo previa valutazione di compatibilità con i valori riconosciuti del paesaggio agrario e subordinatamente alla realizzazione di misure ed opere di miglioramento della qualità paesaggistica del contesto. Viceversa, la realizzazione di nuove discariche non è consentita;
   ogni opera modificativa, pertanto, deve essere sottoposta a preventiva valutazione di compatibilità paesaggistica, alla stregua dei valori paesaggistici tutelati e di tutti i criteri definiti nel vincolo citato del 2010. Valutazione che dovrà esprimersi nei provvedimenti autorizzativi del competente soprintendente, ai sensi dell'articolo 146 del codice dei beni culturali e del paesaggio;
   nel territorio, quindi, ci sono dei vincoli paesaggistici oltre che problemi di viabilità e sanitari e, molto probabilmente, questo passaggio dalla discarica di Malagrotta a quella di Falcognana non è ad avviso dell'interrogante privo di opacità dal punto di vista della proprietà della discarica di Falcognana;
   appare incomprensibile, quindi, come i Ministri e le amministrazioni competenti non fossero state interpellate in nessuna maniera e coinvolte nel processo autorizzativo, perché manca un progetto che dica quantità, tipologie, processi autorizzativi, verifiche sociosanitarie e di impatto ambientale. Si è, quindi, dentro un circuito perverso;
   secondo quanto risulta, dai documenti pubblicati sul sito istituzionale della regione Lazio e anche da notizie di stampa, la discarica ora in esercizio è autorizzata sin dal 3 aprile 2003 e tale autorizzazione è stata poi prorogata più volte e infine rinnovata con determinazione della regione Lazio del 20 aprile 2010, emessa ai sensi e per gli effetti dell'allora vigente articolo 5 del decreto legislativo n. 59 del 2005;
   la determinazione dirigenziale n. B5324 del 29 ottobre 2010 ha approvato un progetto per l'installazione e l'esercizio, in regime sperimentale, per un periodo di due anni, di un impianto per il trattamento del percolato prodotto dalla discarica situata nel comune di Roma, in località Falcognana, gestita dalla Ecofer Ambiente Srl, ai sensi dell'articolo 211 del decreto legislativo n. 152 del 2006 e successive modificazioni e integrazioni;
   sul sito istituzionale della regione Lazio è stata pubblicata la determinazione dirigenziale n. A03335 del 24 aprile 2013, che autorizza la proroga, ai sensi dell'articolo 211, comma 2, del decreto legislativo n. 152 del 2006, e successive modificazioni e integrazioni, per un anno dei termini utili all'esercizio, in regime sperimentale, dell'impianto di trattamento del percolato prodotto dalla discarica per rifiuti speciali, pericolosi e non;
   si sono moltiplicate in questi ultimi giorni, anche in relazione a quanto detto in Aula dai rappresentanti del Governo, le manifestazioni di grave preoccupazione in merito alle autorizzazioni rilasciate dalla regione Lazio per la discarica di Falcognana ed alla loro piena legittimità, con particolare riferimento ai rischi di devastazione del paesaggio e del patrimonio archeologico e architettonico –:
   quale azione il Ministro intenda assicurare al fine di fugare qualsiasi dubbio in merito alla completa e corretta sequenza autorizzatoria ed alla legittimità procedimentale della preesistente discarica in relazione alla autorizzazione integrata ambientale rilasciata dalla regione Lazio il 20 aprile 2010, e relativi pareri endoprocedimentali, con particolare riferimento alla correttezza della procedura rispetto a quanto prescritto dal decreto legislativo n. 42 del 2004, cosiddetto decreto Biondi. (3-00328)

DIFESA

Interrogazioni a risposta scritta:


   MARCOLIN. — Al Ministro della difesa. — Per sapere – premesso che:
   l'amministrazione della difesa possiede e gestisce un patrimonio immobiliare di significative dimensioni, una parte della quale adibita ad uso alloggiativo, a beneficio del personale militare, per soddisfarne le esigenze connesse alla propria mobilità istituzionale sul territorio nazionale;
   nelle aree metropolitane ad alta densità abitativa, ed in particolare a Roma, gli immobili disponibili sono insufficienti in rapporto alle richieste dei militari aventi diritto;
   a determinare questo deficit concorre anche la circostanza che numerosi alloggi di servizio continuino ad essere occupati dagli assegnatari anche una volta cessato il titolo alla base della concessione degli appartamenti in godimento;
   tale situazione ha già prodotto degli strascichi giudiziari, ampiamente riportati dalla stampa;
   la permanenza dei cosiddetti «senza titolo» negli alloggi di servizio costringe numerosi militari in servizio a reperire abitazioni sul mercato, pagando affitti significativamente elevati, o a ripiegare su forme di pendolarismo, che garantiscono dei risparmi ma implicano sacrifici non necessari;
   gli alloggi di servizio si trovano frequentemente in aree di pregio e sono goduti a canoni di locazione bassi –:
   quale sia l'attuale consistenza del patrimonio immobiliare dell'amministrazione della difesa a Roma, in particolare la situazione degli alloggi di servizio situati nel centro storico o nelle sue immediate vicinanze, la loro metratura ed i canoni percepiti; se risulti che esistano immobili occupati da personale militare di grado elevato cessato dal servizio, beneficiario di pensioni di alto importo e cospicue liquidazioni e quali siano le dimensioni di questo fenomeno; quali iniziative, infine, il Governo intenda adottare per porre fine a questo stato di cose. (4-01919)


   LAVAGNO. — Al Ministro della difesa. — Per sapere – premesso che:
   il giorno 19 settembre 2013 si sono uditi due fortissimi boati nel territorio di Casale Monferrato;
   secondo le testimonianze dei residenti, i boati hanno causato numerosi disagi, facendo tremare i vetri delle finestre delle abitazioni e causando una forte apprensione tra la popolazione;
   sono stati visti due caccia militari, non identificati ma ben distinti, volare a distanza molto ravvicinata l'uno dall'altro e a bassa quota, a poche centinaia di metri dai tetti del centro abitato;
   i due boati si sono sentiti nitidamente a pochi secondi uno dall'altro, tanto da far presupporre che si stessero rincorrendo tra loro –:
   se il Ministro sia informato dei fatti esposti in premessa;
   se il Ministro non abbia intenzione di disporre una verifica in merito e se nel Monferrato fossero in programma esercitazioni dell'Aeronautica che comprendevano il volo a bassa quota da parte dei caccia militari. (4-01921)

INFRASTRUTTURE E TRASPORTI

Interrogazioni a risposta in Commissione:


   ALBANELLA. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   i lavori di costruzione della strada Licodia Eubea-Libertinia, una delle più importanti arterie stradali della provincia catanese, rischiano di rimanere incompiuti a causa dell'annunciato definanziamento del primo tratto – concernente la realizzazione del lotto compreso tra lo svincolo Regalsemi e l'inizio della cosiddetta «variante di Caltagirone» – per un importo complessivo di 87 milioni;
   l'Anas ha, infatti, comunicato di aver effettuato una rimodulazione delle risorse Pon «Reti e Mobilità 2007/2013», inserendo nell'elenco degli interventi ammissibili al finanziamento progetti concernenti due strade della provincia di Bari; tali progetti, comunica l'Anas, potranno essere finanziati solo previa liberazione delle somme già impegnate per la Libertinia, mediante apposita disposizione di definanziamento;
   tale notizia ha, ovviamente, comportato la mobilitazione da parte dei rappresentanti delle istituzioni locali, i quali, nel corso di un incontro con il Ministro Maurizio Lupi, hanno evidenziato la necessità di mantenere intatto il finanziamento necessario al completamento di un'opera strategica per la provincia catanese – in termini di viabilità e di risvolti occupazionali – e sottolineato la incomprensibilità, nel caso venisse confermata, di una decisione che renderebbe vani i lavori sin qui effettuati –:
   quali urgenti iniziative intenda adottare per scongiurare l'annunciato definanziamento dei lavori di costruzione della strada Licodia Eubea-Libertinia, al fine di completare un'arteria stradale di fondamentale rilevanza per l'area sud-orientale della Sicilia e di garantire il mantenimento dei livelli occupazionali che tale opera comporta. (5-01047)


   NICOLA BIANCHI, PINNA, VALLASCAS, LOREFICE, CRISTIAN IANNUZZI, CATALANO, DE LORENZIS e LIUZZI. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   con decreto di nomina (prot. 0000320-05 febbraio 2013) da parte del Ministro interrogato, a decorrere dalla data del 6 settembre 2013, è stato conferito l'incarico all'ex senatore Fedele Sanciu di commissario straordinario dell'autorità portuale del Nord Sardegna;
   nel decreto di nomina si legge che viene ritenuto opportuno conferire l'incarico a Sanciu in quanto «persona idonea a garantire la gestione dell'Ente fino al perfezionamento della nomina del Presidente» –:
   se il Ministro interrogato intenda spiegare con quali criteri abbia assegnato la nomina e quali siano le idoneità dell'ex senatore Sanciu relative all'incarico da ricoprire e se non intenda porre rimedio ad una nomina, che a parere degli interroganti, appare priva di qualsiasi competenza e di meritocrazia, mentre appare legata a logiche di parte che nulla hanno a che vedere con le competenze richieste dall'incarico. (5-01051)

ISTRUZIONE, UNIVERSITÀ E RICERCA

Interrogazione a risposta in Commissione:


   PIAZZONI e PILOZZI. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, al Ministro della giustizia. — Per sapere – premesso che:
   il quotidiano «La Repubblica», nella sua edizione online del 19 settembre 2013, riferisce dell'esito di un concorso «Malattie dell'apparato cardiovascolare» (codice 14.252, 15 posti disponibili), per titoli ed esami, per l'accesso alla scuola di specializzazione della cardiologia del policlinico Umberto, Università La Sapienza di Roma;
   l'articolo riferisce di una segnalazione ricevuta dal quotidiano 1 mese prima dello svolgimento delle prove concorsuali, nella quale venivano elencate le generalità di quelli che sarebbero stati, a detta del soggetto scrivente, i futuri vincitori del concorso;
   gli esiti del concorso, pubblicati il 1o agosto 2013, a detta del quotidiano, hanno confermato le previsioni contenute nella missiva ricevuta da Repubblica in precedenza con ciò configurando, a detta degli interroganti, un gravissimo caso di lesione delle elementari regole di svolgimento di un concorso pubblico volto alla selezione dei migliori candidati a ricoprire posizioni delicate, quali quelle oggetto della selezione «de quo»;
   la facoltà di medicina presso l'università La Sapienza di Roma, è già stata in passato protagonista di episodi simili a quello segnalato dal quotidiano «La Repubblica»: attribuzione di cattedre e posti in organico sulla base di selezioni basate su criteri diversi da quelli della competenza e dell'esperienza;
   data la delicatezza dei compiti svolti dai vincitori del concorso, si rende necessario sgomberare ogni dubbio circa la professionalità e le competenze dei vincitori dello stesso nonché il possesso di tutti i titoli richiesti dalla legge –:
   se siano state avviate indagini in relazione alla vicenda di cui in premessa;
   se non si intendano assumere iniziative normative per meglio disciplinare l'accesso alle scuole di specializzazione medica al fine di addivenire ad un sistema di selezione effettivamente improntato al principio di merito. (5-01049)

Interrogazione a risposta scritta:


   RAMPELLI. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   la grave crisi economica nazionale, e le conseguenti necessità di contenimento della spesa in ambito pubblico, unite al triste primato di nazione a crescita zero, e alla costante diminuzione del numero di bambini e ragazzi potenziali studenti, ha portato ad un doloroso taglio degli istituti scolastici e delle stesse aule;
   la concessione di deroghe per l'apertura delle prime classi dovrebbe essere improntata anche al rispetto delle caratteristiche delle regioni interessate, anche sotto il profilo della viabilità (strade, servizio di trasporto, distanza tra istituto e paese d'origine) delle sue cittadine e province;
   alcuni paesi del centro della Sardegna, in particolar modo dei paesi della Barbagia, (Desulo, Tonara, Belvì, Aritzo) vivono in una preoccupante condizione di isolamento, che da anni dà luogo alla costante emigrazione dei giovani, un fenomeno destinato a crescere a causa della mancanza di lavoro e della potenziale chiusura di alcuni istituti scolastici;
   i sindaci di questi paesi lottano quotidianamente contro i vincoli del patto di stabilità per garantire i servizi ai propri cittadini, valorizzando, al contempo, le tradizioni artigianali, culinarie e agricole dei propri territori;
   si tratta di paesi dalla storia centenaria, che hanno superato indenni guerre, isolamenti e avversità atmosferiche ma che ora stanno soccombendo davanti a Governi che si occupano di tutte le minoranze straniere, dimostrandosi, al contrario, poco sensibili alle richieste e le necessità delle proprie piccole comunità locali;
   la carenza di infrastrutture che garantiscano un veloce e sicuro trasporto tra i centri della stessa provincia, o tra i paesi e le città capoluogo, ha fatto sì che l'isolamento, e il conseguente spopolamento, di questi paesi abbiano assunto una dimensione davvero preoccupante;
   non c’è treno, se non uno turistico risalente agli scorsi decenni, le strade sono ovviamente quelle di paesi di area montana, e i ragazzi devono partire la mattina presto per poi fare ritorno solo il pomeriggio tardi o la sera;
   se, da un lato, non si risolve il problema della viabilità, mentre, dall'altro, si chiudono gli istituti scolastici in questi paesi, si determinerà, inevitabilmente, un notevole aumento del tasso di abbandono scolastico, e per questo motivo gli studenti e le famiglie stanno protestando in questi giorni occupando l'istituto alberghiero di Desulo, come anche presso l'istituto industriale di Tonara;
   appare opportuno, pertanto, prevedere la concessione di deroghe per l'apertura di classi scolastiche sino a quando non sarà garantito un efficiente servizio di trasporti –:
   quali iniziative di competenza intenda assumere affinché il diritto allo studio sia fattivamente tutelato anche con riferimento alle citate comunità, che non meritano di veder diminuire la presenza dello Stato e la garanzia dei suoi servizi fondamentali. (4-01918)

SALUTE

Interrogazione a risposta scritta:


   RICCIATTI. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare con decreto 26 febbraio 2003 ha perimetrato il sito di interesse nazionale (SIN) di Falconara Marittima nel quale la raffineria di petrolio occupa una parte rilevante;
   l'impianto di raffineria di Falconara Marittima è entrato in attività nel 1950, sviluppata su una superficie di 700.000 metri quadri di superficie, è incastonata nel lato nord del centro abitato del comune di Falconara Marittima in provincia di Ancona;
   tale impianto ha sempre destato preoccupazione circa le sue emissioni nocive e i relativi effetti per la salute della popolazione residente;
   a partire dagli anni settanta sono state svolte indagini sanitarie che hanno interessato i lavoratori e i cittadini falconaresi, tra le quali si citano quelle più rilevanti:
    a) studio sugli addetti all'impianto petrolchimico a cura dell'istituto d'igiene dell'università degli studi di Ancona in collaborazione con l'Istituto superiore di sanità – avviato nel 1991 e aggiornato nel 1996 – deve essere tuttora concluso e ha interessato 659 (650 uomini e 9 donne) lavoratori della raffineria in servizio fra il 1974 ed il 1989 con un follow-up aggiornato al 1996. Sono state indagate 33 gruppi e cause di morte. Lo studio occupazionale ha rilevato eccessi di mortalità tumorale complessiva e di tumori cerebrali in particolare, dato questo in linea con le risultanze di studi simili condotti in altri Paesi e pubblicati sulla letteratura internazionale;
    b) analisi commissionata dalla procura della Repubblica di Ancona (motivi a tutt'oggi non noti ai cittadini). Analisi epidemiologica geografica di mortalità e ricovero ospedaliero per causa. Centroide di Falconara Marittima e Comuni entro 30 chilometri nel settembre del 2002 secondo cui; «I tumori del sistema emolinfopoietico (leucemie, linfomi, mielomi) presentano nel loro complesso la maggiore problematica del comune di Falconara. Nel corso degli anni sono stati segnalati ripetuti eccessi in questa categoria diagnostica, ora in un sesso, ora nell'altro a seconda dei sottogruppi considerati, con distribuzione però differente per tipologia e periodo: negli anni 1981-94 ad una mancanza di rischio complessivo di leucemie tra gli uomini fa da contrasto un rischio aumentato di linfomi non Hodgkin negli uomini, nelle donne non significativo statisticamente ma con un eccesso nello stesso sesso di mielomi multipli, non significativo. Nel periodo più recente l'eccesso per linfomi non Hodgkin si sposta nel sesso femminile mentre negli uomini è inferiore all'atteso. I tumori emolinfopoietici nel loro complesso sono ora in eccesso nel sesso femminile mentre sono diminuiti negli uomini. Le leucemie nel periodo più recente sono in eccesso nelle donne, mentre negli uomini non sono rilevabili eccessi come nel periodo precedente. (...) Le leucemie sono invece state correlate con numerosi fattori di rischio, soprattutto con il benzene e altri derivati simili dell'industria petrolifera. La correlazione tra patologie del sistema emolinfopoietico ed esposizioni professionali tra gli addetti ad impianti petrolchimici esiste un corpus di letteratura molto corposo, perdurante dai primi studi eseguiti, spesso con evidenze anche tra la popolazione residente nei pressi degli impianti stessi. Nella monografia IARC (International Agency for Research on Cancer) più volte citata la documentazione più rilevante riguarda per l'appunto tale associazione. Va rimarcato che successivamente al 1989, anno di pubblicazione della monografia IARC sulla pericolosità degli impianti di raffinazione del petrolio, sono stati numerosissimi gli studi pubblicati sull'argomento della maggiore incidenza di tumori emolinfopoietici in lavoratori addetti a industrie petrolchimiche o residenti nelle vicinanze». E ancora nelle conclusioni svolte per la Procura: «sono stati rilevati, a Falconara, alcuni eccessi, alcuni significativi, in vari periodi e in entrambi i sessi, pur con differenze nelle singole tipologie, che meritano la massima considerazione e richiederebbero la ricostruzione dell'esposizione dei vari soggetti, tramite intervista ai familiari dei deceduti, con uno studio analitico del tipo caso-controllo per verificare le ipotesi eziologiche più preoccupanti»;
   il 29 settembre 2011 l'Istituto nazionale tumori di Milano ha consegnato alla regione Marche, alla provincia di Ancona e ai comuni di Falconara Marittima, Chiaravalle e Montemarciano i risultati finali dell'indagine epidemiologica presso la popolazione residente a Falconara Marittima e comuni limitrofi riguardante il periodo dal 1994 al 2003. L'Indagine, con uno studio analitico del tipo caso-controllo è la prima e unica indagine che ha ricostruito l'esposizione dei vari soggetti tramite l'intervista ai familiari dei deceduti;
   il 29 marzo del 2012, su invito e organizzazione delle associazioni dei cittadini falconaresi, i risultati finali dell'Indagine venivano divulgati dall'Istituto nazionale tumori di Milano in un'assemblea pubblica;
   i risultati dell'indagine sono il frutto:
    a) di una convenzione, stipulata a luglio 2003 tra l'Istituto nazionale dei tumori di Milano e l'Agenzia regionale sanitaria della regione Marche, per l'elaborazione di uno «Studio di fattibilità relativo all'indagine epidemiologica» presso la raffineria API di Falconara;
    b) della deliberazione n. 679 del 15 giugno 2004 della giunta regionale delle Marche che approvò lo studio di fattibilità, il programma operativo e la stima dei costi necessari;
    c) della deliberazione integrativa n. 977 dell'11 settembre 2006 della giunta regionale delle Marche che definì il contributo complessivo regionale destinato al completo svolgimento dell'indagine, approvò il protocollo operativo di dettaglio e istituì il Tavolo tecnico costituito ai rappresentanti dei servizi regionali ambiente e difesa suolo e salute, dei comuni interessati e della provincia di Ancona con il compito di valutazione e verifica delle attività inerenti l'Indagine in termini di contenuti, di congruità dei costi e dei risultati attesi;
   secondo i dati raccolti dall'Indagine, si evidenzia che «nell'aerea è esistito un problema di esposizione alla raffineria associato ad eccesso di rischio di morte per leucemia e linfoma non Hodgkin (e forse anche di mieloma, stando agli esiti della linea B), patologie relativamente rare»;
   dalla relazione finale dell'indagine si rileva che «il rischio sia stato particolarmente evidente per i soggetti che avevano domiciliato per più tempo entro i 4 chilometri dalla sorgente inquinante». Si specifica che gli eventi «sono occorsi in un non elevato numero di persone di età avanzata che hanno vissuto per oltre 10 anni in prossimità della Raffineria»; ma «tali eventi possono essere anche interpretati come il segno di fatti sanitari importanti che hanno interessato fasce ben più ampie di popolazione». Quindi si sottolinea la necessità di «rafforzare gli interventi di sanità pubblica per controllare gli effetti ed eliminare i rischi»;
   nell'aprile scorso le associazioni dei cittadini hanno presentato un esposto alla procura della Repubblica di Ancona, consegnando i risultati dell'indagine epidemiologica sopra citata, chiedendo la riapertura dell'indagine avviata nel 2001 dalla stessa procura per accertare eventuali responsabilità penali di fronte alle esposizioni nocive alle quali la popolazione è stata esposta nel corso degli anni;
   la regione Marche ha formalizzato uno studio, con decreto del dirigente della PF sanità pubblica n. 2/SAP_04 del 8 febbraio 2006, di mortalità sulla coorte degli occupati nella raffineria API, che fa parte di un progetto nazionale CCM del Ministero della salute affidato all'Istituto superiore di sanità;
   quello studio risulta attualmente bloccato per l'indisponibilità da parte di API di fornire anche solo l'elenco dei propri dipendenti ed ex dipendenti, adducendo insuperabili problematiche legate alla privacy;
   il 10 aprile 2012 il consiglio regionale delle Marche approvava la legge n. 6, che prevedeva l'istituzione del «registro regionale delle cause di morte e di registri di patologia», il quale non è potuto diventare esecutivo poiché in attesa del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri che avrebbe dovuto regolamentarli come previsto dall'articolo 12 del decreto-legge 179 del 2012 ai commi 10 e 11 –:
   se la gigione Marche, la provincia di Ancona o gli altri comuni oggetto della ricerca abbiano consegnato indagine epidemiologica al Ministero della salute o all'Istituto superiore di sanità o se li abbiano informati in altro modo delle conclusioni emerse dall'indagine epidemiologica esposta in premessa e in caso negativo se abbia intenzione il Ministro interrogato di acquisire tale indagine direttamente dall'Istituto nazionale dei tumori di Milano;
   se non intenda promuovere una relazione di aggiornamento da parte dell'istituto superiore di sanità sullo studio di mortalità sulla corte degli occupati nella raffineria API di cui in premessa;
   quali siano i tempi di emanazione del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri di cui all'articolo 12 del decreto-legge 179 del 2012 per dare attuazione ai registri mortalità, tumore e di altre patologie. (4-01922)

Apposizione di una firma ad una mozione.

  La mozione Busto e altri n. 1-00030, pubblicata nell'allegato B ai resoconti della seduta del 7 maggio 2013, deve intendersi sottoscritta anche dal deputato Nesci.

Ritiro di documenti del sindacato ispettivo.

  I seguenti documenti sono stati ritirati dai presentatori:
   interrogazione a risposta scritta Capelli n. 4-01314 del 17 luglio 2013;
   interrogazione a risposta scritta Fratoianni n. 4-01890 del 19 settembre 2013.

Trasformazione di un documento del sindacato ispettivo.

  Il seguente documento è stato così trasformato su richiesta del presentatore: interrogazione a risposta scritta Nicola Bianchi e altri n. 4-01870 del 18 settembre 2013 in interrogazione a risposta in Commissione n. 5-01051.

ERRATA CORRIGE

  Mozione Busto e altri n. 1-00030 pubblicata nell'Allegato B ai resoconti della seduta n. 13 del 7 maggio 2013. Alla pagina 839, prima colonna, dalla riga quinta alla riga sesta, deve leggersi: «il 14 marzo 2013 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il decreto» e non «il 14 febbraio 2013 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il decreto», come stampato.
  Alla pagina 840, prima colonna, dalla riga seconda alla riga dodicesima, deve leggersi: «cementifici) in netto contrasto con la risoluzione del Parlamento europeo P7_TA(2012)0223, adottata il 24 maggio 2012: la destinazione dei rifiuti all'incenerimento, ancorché con recupero di energia, è contraria alla citata risoluzione che, invece, propende per l'individuazione di una gerarchia dei rifiuti con l'obiettivo, entro il prossimo decennio, del definitivo abbandono delle pratiche di incenerimento di materie recuperabili»; e non «cementifici) in netto contrasto con la raccomandazione del Parlamento europeo n. A7-0161/12 adottato il 24 maggio 2012: la destinazione dei rifiuti all'incenerimento, ancorché con recupero di energia, è contraria alla suddette raccomandazioni che invece propendono l'individuazione di una gerarchia dei rifiuti e l'obiettivo, entro il prossimo decennio, del definitivo abbandono delle pratiche di incenerimento di materie recuperabili;», come stampato.