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Resoconto dell'Assemblea

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XVI LEGISLATURA


Resoconto stenografico dell'Assemblea

Seduta n. 422 di lunedì 24 gennaio 2011

Pag. 1

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE ROCCO BUTTIGLIONE

La seduta comincia alle 12,10.

GREGORIO FONTANA, Segretario, legge il processo verbale della seduta del 20 gennaio 2011.
(È approvato).

Missioni.

PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del Regolamento, i deputati Albonetti, Alessandri, Angelino Alfano, Barbareschi, Barbi, Bergamini, Berlusconi, Bocchino, Bonaiuti, Bossi, Brambilla, Bratti, Brunetta, Carfagna, Casero, Cicchitto, Colucci, Commercio, Gianfranco Conte, Cossiga, Crimi, Crosetto, D'Alema, Dal Lago, Gianni Farina, Fava, Fitto, Franceschini, Franzoso, Frattini, Galati, Gelmini, Alberto Giorgetti, Giancarlo Giorgetti, Giro, La Russa, Libè, Mantovano, Maroni, Martini, Meloni, Miccichè, Leoluca Orlando, Pecorella, Prestigiacomo, Ravetto, Reguzzoni, Rigoni, Rivolta, Roccella, Romani, Rotondi, Saglia, Stefani, Stucchi, Tremonti, Vitali, Vito, Volontè, Zacchera e Zeller sono in missione a decorrere dalla seduta odierna.
Pertanto i deputati in missione sono complessivamente sessantadue, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.

Ulteriori comunicazioni all'Assemblea saranno pubblicate nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.

Modifica nella composizione del comitato direttivo di un gruppo parlamentare.

PRESIDENTE. Comunico che il presidente del gruppo parlamentare Misto, con lettera pervenuta in data 21 gennaio 2011, ha reso noto che, a seguito delle modifiche intervenute nella composizione del gruppo Misto e delle componenti politiche al suo interno, il comitato direttivo risulta così composto: presidente: Siegfried Brugger, rappresentante della componente politica Minoranze linguistiche; vicepresidenti: Carmelo Lo Monte, rappresentante della componente politica Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud; Daniela Melchiorre, rappresentante della componente politica Liberal Democratici-MAIE; Bruno Tabacci, rappresentante della componente politica Alleanza per l'Italia.

Discussione del disegno di legge: Conversione in legge del decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 228, recante proroga degli interventi di cooperazione allo sviluppo e a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione, nonché delle missioni internazionali delle forze armate e di polizia (A.C. 3996-A) (ore 12,15).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge: Conversione in legge del decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 228, recante proroga degli interventi di cooperazione allo sviluppo e a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione, nonché delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia.

(Discussione sulle linee generali - A.C. 3996-A)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali. Pag. 2
Avverto che il presidente del gruppo parlamentare del Partito Democratico ne ha chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del Regolamento.
Avverto, altresì, che le Commissioni III (Affari esteri) e IV (Difesa) si intendono autorizzate a riferire oralmente.
Il relatore per la Commissione Affari esteri, onorevole Dozzo, che interverrà anche a nome del relatore per la Commissione Difesa, onorevole Cirielli, ha facoltà di svolgere la relazione.

GIANPAOLO DOZZO, Relatore per la III Commissione. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il decreto-legge al nostro esame proroga per i primi sei mesi dell'anno le autorizzazioni di spesa per la partecipazione italiana alle missioni internazionali. L'entità complessiva degli stanziamenti ammonta a 754 milioni 300 mila euro ed è sostanzialmente in linea con quella del secondo semestre del 2010. Di questo importo, 61,95 milioni di euro sono finalizzati alle operazioni di ricostruzione civile mentre i restanti 692 milioni 346 mila euro sono destinati a coprire le spese per le missioni militari, confermando il rapporto che nel corso di questi anni si è venuto a definire tra le due componenti.
Passando ai profili di competenza della III Commissione, trattati nei primi tre articoli, viene innanzitutto in rilievo l'Afghanistan dove sarà operativo, nel primo semestre dell'anno, un contingente di 4.350 uomini. Sappiamo quanto la situazione politico-istituzionale afghana sia degradata e quale prezzo il nostro contingente stia pagando sul campo, tanto che l'esame in sede referente di questo provvedimento è stato tragicamente segnato dalla perdita dei due valorosi militari alle cui famiglie desidero rinnovare il mio profondo cordoglio.
La nuova strategia del generale Petraeus punta al 2014 per raggiungere l'obiettivo dell'autosufficienza delle forze militari afgane. I prossimi mesi ci diranno se questo approccio si sarà dimostrato vincente, ma appare sin d'ora evidente che ad esso debba affiancarsi una forte iniziativa politica che consolidi il consenso tra gli alleati e soprattutto rassicuri il Pakistan.
Il decreto-legge in esame prevede una serie di interventi nell'area. Si passa dall'erogazione del contributo italiano al programma di ricostruzione in Afghanistan, al sostegno al programma intergovernativo per la costruzione di strade rurali e distrettuali nella provincia di Herat nonché al finanziamento del programma nazionale per lo sviluppo rurale nella regione occidentale del Paese.
In favore del Libano, il provvedimento prevede alcuni interventi, sul versante multilaterale, a sostegno del programma delle Nazioni Unite per la realizzazione di attività di capacity building, rivolte alle amministrazioni locali e dispone l'erogazione di un contributo pari a 800 mila euro al Tribunale speciale delle Nazioni Unite per il Libano, attualmente al centro di un duro contrasto politico interno tra le due principali coalizioni parlamentari, quella filo-occidentale detta «del 14 marzo» e guidata da Saad Hariri e quella filo-siriana detta «dell'8 marzo», capeggiata da hezbollah.
La recente diffusione del rapporto semestrale dell'ONU esprime una forte preoccupazione per le tensioni politiche che attraversano il Paese e dubbi sulla stessa efficacia della missione, stante il palese divario tra l'impegnativo mandato dell'UNIFIL ed i limitati strumenti di cui militari dispongono per assolverlo.
In relazione al quadro iracheno sono previsti, tra l'altro, interventi nel settore sanitario, inclusi la formazione e l'addestramento e in quello della gestione delle acque per il miglioramento della qualità della vita nei villaggi; si prevede inoltre il finanziamento del programma che l'UNHCR ha avviato in favore delle vittime delle torture e delle persecuzioni religiose, nonché il consolidamento degli interventi già avviati.
La creazione del nuovo Esecutivo, a nove mesi dalle elezioni politiche, guidato da Al Maliki è un primo segnale positivo anche se permangono le difficoltà interne al sistema politico iracheno, segnato dalle Pag. 3diversità etniche e confessionali, che contraddistinguono il Paese, e dal duro clima di persecuzione nei riguardi delle pacifiche minoranze cristiane.
Una significativa innovazione è rappresentata dalla previsione di finanziamenti dei programmi della FAO in Myanmar per garantire la sicurezza alimentare di quel Paese: la liberazione, poche settimane fa, del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi costituisce certamente una buona notizia per chiunque abbia a cuore l'affermarsi dei diritti umani nel mondo, ma non credo debba essere interpretata come un segnale di cambiamento da parte di uno dei regimi militari comunisti più brutali del pianeta.
Quanto alle iniziative a sostegno dei processi di pace e di rafforzamento della sicurezza nell'Africa subsahariana, si segnala l'autorizzazione di spesa di 2 milioni 750 mila euro ad integrazione degli stanziamenti già assegnati anche in riferimento al contrasto della pratica delle mutilazioni genitali femminili.
L'esame in sede referente ha altresì evidenziato l'urgenza di ulteriori interventi in Somalia e in Sudan, in cui è in corso una delicatissima fase di transizione istituzionale, segnata dallo svolgimento del referendum sulla secessione della regione meridionale di quello Stato.
Venendo ai processi di stabilizzazione nei Balcani occidentali, il ruolo italiano è stato e continua ad essere molto rilevante e si riflette in una significativa presenza delle Forze armate e di polizia italiane ed in un continuo e motivato sostegno ai progetti di integrazione comunitaria.
In tale ottica, anche per il prossimo semestre si conferma il dispiegamento di un contingente di 650 unità, in continuità con quanto previsto per il secondo semestre del 2010. Mi preme richiamare il ruolo delicatissimo e essenziale svolto dal contingente italiano nella protezione dei luoghi che identificano la cultura religiosa e le tradizioni locali e segnatamente di quattro luoghi di culto della Chiesa serbo-ortodossa.
Un contributo è stanziato per il finanziamento delle attività dell'Iniziativa adriatico-ionica, la cui presidenza di turno è attualmente affidata all'Italia; un finanziamento ulteriore è stato aggiunto in favore di iniziative dell'InCE e del Comitato Atlantico.
Per quanto concerne lo sminamento umanitario, il decreto-legge prevede lo stanziamento di un milione di euro al fine di assolvere agli obblighi internazionali assunti dall'Italia, anche tenuto conto dei nuovi impegni derivanti dalla ratifica della Convenzione di Oslo sul munizionamento a grappolo.
Per concludere, sul I Capo del provvedimento, segnalo che le Commissioni riunite hanno ritenuto di reintrodurre una serie di disposizioni tecnico-amministrative, largamente presenti in precedenti e analoghi provvedimenti legislativi, volti a garantire l'effettiva spendibilità delle risorse assegnate alla cooperazione e allo sviluppo, a tenere conto della specificità dei contesti delle missioni e ad assicurare la continuità degli interventi.
Per le parti del provvedimento di competenza della Commissione difesa, intervenendo anche a nome del presidente Cirielli, ricordo che, come di consueto, alle autorizzazioni di spesa relative alle diverse missioni internazionali in corso si uniscono le disposizioni sul trattamento economico del personale, nonché quelle in materia penale e contabile in massima parte già contenute nei precedenti provvedimenti di proroga delle missioni. A tal proposito mi preme sottolineare come tutti i gruppi hanno collaborato durante l'esame in sede referente per pervenire alla rapida conclusione dell'iter della legge quadro sulle missioni internazionali, che le Commissioni esteri e difesa stanno predisponendo in Comitato ristretto.
Mi soffermerò sulle novità contenute nel presente disegno di legge rispetto alle precedenti proroghe, rinviando comunque al dibattito svolto in sede referente su queste novità.
Segnalo che complessivamente, rispetto al semestre precedente, il numero di unità dispiegate all'estero dalle Forze armate e di polizia passa da 8.338 unità a 8.537. Pag. 4
L'articolo 4 del disegno di legge, recante le autorizzazioni di spesa riferite alle missioni, conferma tutte quelle già previste dal precedente provvedimento di proroga, ad esclusione delle spese relative alla missione denominata «Minustah» riguardante Haiti, nonché a quelle per la partecipazione della guardia di finanza alla missione «EUBAM Rafah».
Quanto ai contenuti dell'articolo 4 inediti rispetto ai precedenti provvedimenti di proroga, segnalo il comma 17, che contiene un'espressa autorizzazione di spesa per la stipulazione di contratti di assicurazione di durata annuale, spesa semplicemente non prevista in passato; il comma 18, che riconosce ampia flessibilità di spesa ai comandanti di contingenti militari impegnati nei principali teatri operativi per soddisfare esigenze di prima necessità della popolazione; infine il comma 32, che autorizza il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, in attuazione del «Memorandum d'intesa di cooperazione tecnica nel settore della sicurezza tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo della Repubblica di Panama» a cedere a titolo gratuito alla Repubblica di Panama quattro unità navali di «classe 200/s» in dotazione al corpo delle capitanerie di porto.
L'articolo 5 detta disposizioni in materia di personale impiegato nelle missioni internazionali. I nuovi contenuti sono presenti al comma 3 che, attraverso una modifica del codice dell'ordinamento militare, specifica che l'impiego di aeromobili a pilotaggio remoto, di peso inferiore ai 20 chilogrammi, avviene esclusivamente in aree identificate sottoposte al divieto temporaneo di sorvolo e che al personale militare munito di idonea qualifica non vengono riconosciuti specifici emolumenti; al comma 3-bis, introdotto in Commissione, che interviene sulla disciplina del citato codice per rendere più agevole la prova del nesso di causalità, in ordine alle infermità o patologie tumorali, contratte in particolari condizioni ambientali e operative, in particolare quelle dovute all'esposizione all'uranio impoverito, in senso probabilistico; al comma 3-ter, anch'esso inserito durante l'esame in sede referente, che autorizza l'utilizzo del personale precario da parte del genio militare, per il quale era prevista una stabilizzazione nel precedente provvedimento che risulta non ancora avviata. Ciò ha reso necessaria una proroga di tale autorizzazione già contenuta nei precedenti provvedimenti della medesima materia.
In merito agli articoli 6 e 7 in materia penale e contabile, ricordo che essi rinviano integralmente alla disciplina già vigente riferita alle missioni, salvo incrementare fino alla metà delle spese autorizzate dal decreto le anticipazioni di spesa da parte del Ministero dell'economia e delle finanze.
L'articolo 8 è infine dedicato alla copertura degli oneri mediante l'utilizzo del Fondo per le missioni internazionali di cui all'articolo 1 comma 1240 della legge finanziaria per il 2007.
In conclusione, il provvedimento conferma la capacità dell'Italia ad assumere un ruolo di responsabilità sulla scena internazionale, soprattutto in quelle aree geopolitiche di crisi che richiedono un'efficace cooperazione tra presenza militare e ricostruzione civile, e per le quali il nostro Paese ha sviluppato una significativa capacità di intervento. Auspico pertanto la più ampia convergenza politica sulla conversione del decreto-legge stesso.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.

ENZO SCOTTI, Sottosegretario di Stato per gli affari esteri. Signor Presidente, mi riservo di intervenire in sede di replica.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Rugghia. Ne ha facoltà.

ANTONIO RUGGHIA. Signor Presidente, la discussione sulla partecipazione italiana alle missioni internazionali avviene ormai da troppo tempo intorno allo strumento del decreto-legge. Le missioni sono state prorogate con decreti annuali e semestrali, ma sono state portate all'esame del Parlamento anche attraverso decreti-legge Pag. 5relativi ad un periodo temporale di due mesi, record minimo stabilito dal centrodestra per il bimestre novembre-dicembre del 2009. Eppure, il nostro impegno militare fuori area rappresenta uno degli aspetti più significativi ed anche più impegnativi e difficili della nostra politica estera.
Questo impegno ha visto una significativa convergenza fra le forze parlamentari, che hanno condiviso la necessità di assumersi le responsabilità dell'impegno militare nelle tante aree di crisi del pianeta. Lo strumento del decreto-legge non è, però, affatto adeguato alla rilevanza di questa materia. Infatti, quando discutiamo i decreti di proroga, ci limitiamo a stabilire le risorse da destinare alle varie missioni internazionali, le norme di stato giuridico e trattamento economico che regolano la presenza del nostro personale all'estero, con qualche incursione in materia di responsabilità penale, con qualche norma aggiuntiva, spesso, il più delle volte, estranea alla materia trattata.
Parto da questa considerazione per richiamare l'attenzione del Governo, della maggioranza e del Parlamento ancora una volta sulla necessità di uscire dalla strettoia della decretazione d'urgenza su una materia così impegnativa quale è quella della cooperazione internazionale e degli interventi militari fuori area. Intendo con ciò la necessità di approvare una legge quadro che definisca in via permanente le norme che si rendono necessarie per realizzare questi interventi al di fuori dei nostri confini nazionali, che riguardano lo stato giuridico e il trattamento economico del personale, le necessarie eccezioni alle norme sulla contabilità dello Stato in materia di cessione o perdita di materiali. Sarebbe altrettanto necessario emanare un nuovo codice penale militare, che tenga conto della nuova realtà operativa e della natura del tutto diversa del rapporto che si è stabilito tra lo Stato e i cittadini in uniforme con il passaggio dalla leva obbligatoria all'Esercito professionale. Mi spingo a dire anche che le risorse che ormai da dieci anni destiniamo alle operazioni militari all'estero potrebbero essere consegnate, per la parte relativa alle operazioni militari, nella disponibilità del bilancio del Ministero della difesa. Se fosse definito in questo modo un nuovo quadro legislativo sarebbe più facile restituire al Parlamento l'opportunità di discutere di quello che all'estero stiamo facendo con i nostri contingenti militari, con le organizzazioni non governative e con le nostre iniziative diplomatiche.
Il quadro normativo in cui ci muoviamo è però ancora quello di sempre e la mancanza di una legge quadro rende necessario il ricorso al decreto-legge. Ma anche se è attraverso lo strumento del decreto-legge che il Governo decide di impegnare risorse finanziarie e risorse umane in un arco temporale, in questo caso sei mesi, che sono di fronte a noi, proprio per questo dovrebbe sentirsi ancora di più obbligato a chiarire nella discussione parlamentare a favore di quali obiettivi queste risorse sono impiegate e qual è l'opinione del Governo sulla possibilità di raggiungerli. Il Governo dovrebbe chiarire anche gli elementi di coerenza tra obiettivi e strategie che vengono adottate. È del tutto evidente infatti che il ricorso al decreto-legge accresce piuttosto che diminuire la responsabilità del Governo. Da qui a giugno avremo in Afghanistan 4.350 soldati, un dato che da solo dà la misura del nostro impegno in quella regione. I soldati potranno contare su 833 mezzi militari e 34 aeromobili.
È un impegno forte dal punto di vista dello sforzo militare, dal punto di vista finanziario e, purtroppo, dal punto di vista del prezzo di vite umane che stiamo pagando. Ci rendiamo conto che a questi nostri soldati, uomini e donne, stiamo chiedendo molto senza corrispondere loro tutte le attenzioni necessarie. La decisione di rafforzare il nostro contingente dovrebbe essere accompagnata da un dibattito parlamentare, che dovrebbe svilupparsi soprattutto in due direzioni: un'analisi più approfondita della situazione afgana e delle prospettive che, nell'arco di questo semestre, il Governo ritiene di poter raggiungere. Pag. 6
Avremmo diritto di sapere se è ancora valida la dichiarazione del Ministro La Russa - su questo, da parte del relatore non è stato aggiunto nulla - quando ha affermato che, entro giugno, potrà avviarsi una riduzione del nostro contingente, o se, invece, come ha dichiarato il Segretario generale della NATO, Rasmussen, non sarà possibile alcuna riduzione ed un eventuale miglioramento della situazione nell'area di Herat determinerà soltanto una ridislocazione del contingente italiano in altre aree dell'Afghanistan.
Le altre due aree dove è più forte il nostro impegno e la nostra presenza sono quelle del Libano e dei Balcani. Anche per queste due missioni emerge una povertà di discussione sugli indirizzi strategici e sul ruolo da noi assunto nelle sedi internazionali di cui facciamo parte.
Il decreto-legge in esame dispone che nell'area dei Balcani avverrà un drastico ridimensionamento, passando da 1.172 unità impegnate nel secondo semestre del 2010 a 691 unità. Si dà seguito, con ciò, ad una decisione assunta in ambito internazionale.
Noi, in modo assoluto, non vogliamo rimpiangere una presenza militare, laddove questa può essere ridotta. Tuttavia, la nostra contiguità con l'area dei Balcani meriterebbe, da sola, un approfondimento parlamentare, che non può essere sostituito da un «sì» o da un «no» su un articolo del decreto-legge di proroga delle missioni internazionali.
La presenza wahabita in Bosnia ed Erzegovina, tanto per fare un esempio, è motivo di preoccupazione per le stesse componenti musulmane, e dovrebbe esserlo anche per noi. Anche in Kosovo il futuro si presenta molto incerto. La comunità ortodossa presente nell'area non ha contatti con gli esponenti delle amministrazioni locali.
In sostanza, esiste una linea netta di frattura tra la componente serbo-ortodossa e l'estremismo kosovaro. In Kosovo continuano ad aumentare le scuole coraniche, costruite grazie ai finanziamenti di ricche famiglie kuwaitiane e saudite. Nelle zone di confine con il Montenegro fiorisce ogni genere di traffici illegali.
A fronte di tutto ciò, ci limitiamo ad osservare che il ridotto impegno militare dovrebbe essere compensato e sostenuto con una più accentuata iniziativa di cooperazione, mettendo a disposizione maggiori risorse economiche e maggiore attenzione politica e diplomatica in quest'area, per sviluppare relazioni concretamente significative e contrastare fenomeni di illegalità diffusa, che finiscono, poi, con il trasferirsi anche sul nostro territorio nazionale.
Prendiamo atto che viene mantenuta la nostra presenza militare in Libano, che, nonostante l'assunzione da parte della Spagna del comando dell'UNIFIL, conferma che il nostro contingente è il più numeroso in quel Paese. Il tema di fondo della complessa situazione libanese è quello dell'assoluta inadeguatezza, dal punto di vista degli armamenti e degli equipaggiamenti, dell'esercito nazionale libanese.
Il Governo Hariri cerca di migliorare questa situazione attraverso accordi sia con gli USA sia con la Russia. Trovano credito notizie circa attività di potenziamento delle proprie capacità militari anche da parte di Hezbollah. Persiste, quindi, la necessità della presenza di UNIFIL. L'articolo 4 autorizza, attraverso il comma 8, una partecipazione italiana alla missione UNAMID in Darfur.
Condividiamo certamente questa decisione, considerando la grave situazione in atto in quel Paese, però ci sembra di dover rilevare che una missione che prevede un intervento di sole tre persone, nessun mezzo e un impegno di spesa di 126.459 euro è assolutamente poco significativa. Riteniamo, quindi, che la nostra partecipazione debba essere riformulata e riconsiderata, riprendendo anche un'iniziativa diplomatica.
Per quanto riguarda ciò che è previsto nel disegno di legge in esame relativamente alle disposizioni in materia penale, ci associamo ai rilievi che sono stati mossi dal Comitato per la legislazione il quale, Pag. 7nel parere fornito alla nostra Commissione, la Commissione difesa, ha sottolineato criticamente come per la disciplina in materia penale si è scelto di perpetuare la lunga e complessa catena di rinvii normativi ai decreti-legge n. 152 del 2009 e n. 209 del 2008 il quale, a sua volta, contiene ulteriori rinvii al codice penale militare di pace e alla peculiare disciplina in materia di missioni militari prevista dal decreto-legge 421 del 2001. Ancora una volta dobbiamo lamentare il punto politico, ossia la mancanza di un codice penale militare che non sia quello di guerra e che possa avere validità piena sia sul territorio nazionale che nelle operazioni fuori area.
Colgo l'occasione per ricordare al Ministro della difesa che la posizione assunta dal Governo al Senato, dove si sta discutendo la riforma del codice penale militare, non è assolutamente condivisibile da parte nostra in quanto basata sull'ipotesi di trasformare in reati militari anche i reati comuni se commessi da militari. Non è condivisa da noi e neppure dagli organismi della rappresentanza militare che, nell'audizione resa in Senato il 19 gennaio scorso, si sono espressi unanimemente contro la proposta del Governo osservando invece che, sull'esempio di altri Paesi, sarebbe opportuno recepire le istanze dettate dal diritto internazionale attraverso l'integrazione di precetti contenuti nel vigente codice militare di pace e, tuttavia, tale processo di integrazione di norme non può essere scevro da un parallelo, contestuale ed inscindibile processo di rivisitazione dell'intero impianto penale militare, sia per il tempo di pace che di guerra, anche alla luce del mutato assetto sociale e normativo nazionale ed internazionale in cui i militari sono chiamati ad operare.
In particolare, si ritiene che le logiche anacronistiche che hanno animato il legislatore del 1940 in materia di ricorso alla sanzione penale detentiva anche per condotte di basso disvalore sociale non possono più trovare seguito in un contesto dove il fattore infamante e desocializzante della condanna penale ne consiglia la previsione solo quando questa rappresenti l'estrema ratio.
Per tale motivo, in un'ottica di riforma dell'intero sistema penale militare, si ritiene che le integrazioni dei codici vadano valutate unitamente alle ipotesi di abrogazione, depenalizzazione e creazione di fattispecie contravvenzionali in sostituzione dell'attuale impianto basato solo su ipotesi delittuose. Questo è un tema molto importante, sul quale vi è grande attesa anche da parte delle rappresentanze militari. Sarebbe quindi il caso di realizzare questa riforma dei codici, invece, ogni volta, quando discutiamo sul finanziamento delle missioni, riprendiamo soltanto alcune parti e rivediamo soltanto alcune norme senza attivare una riforma organica.
Sempre all'articolo 4, comma 32, del disegno di legge in esame viene autorizzata la cessione a titolo gratuito alla Repubblica di Panama di 4 unità navali classe 200/S in dotazione al corpo delle Capitanerie di porto. Riteniamo che dovrebbero essere chiarite le ragioni ed i termini di questa cessione, precisando anche se, oltre alle suddette 4 unità, è prevista anche la cessione di un pattugliatore. A queste nostre richieste di chiarimento non vi sono state, finora, risposte nell'ambito dei lavori della Commissione. Il Governo dovrebbe, comunque, garantirci che almeno tale cessione avverrà senza ulteriori oneri per lo Stato, intendendo con ciò che il ritiro dei mezzi navali sia a carico della Repubblica di Panama.
Prendiamo positivamente atto della lacuna colmata in Commissione con l'approvazione di un emendamento che consentirà alla difesa la possibilità di utilizzare i lavoratori del reparto del genio campale dando continuità alla norma già presente nel decreto dello scorso anno. Senza questa norma sarebbe venuta meno la continuità degli interventi avviati dai gruppi del genio campale, con sensibili danni per le esigenze degli enti e dei reparti delle Forze armate, sia in attività sul territorio nazionale che in quelle ad esso connesse fuori area. Pag. 8
Signor Presidente, in questo ultimo anno abbiamo perso dieci nostri militari caduti in Afghanistan, su trentasei che, complessivamente, hanno perso la vita dall'inizio della missione nel 2004.
In questo ultimo anno il 26 febbraio è rimasto ucciso il diplomatico Pietro Antonio Colazzo; il 17 maggio il sergente Massimiliano Ramadù ha perso la vita insieme al caporalmaggiore Luigi Pascazio per un ordigno a bordo strada, che è esploso al passaggio del nostro contingente; il 23 giugno ha perso la vista il caporalmaggiore Francesco Saverio Positano; il 28 luglio si è suicidato un nostro militare presso l'aeroporto di Kabul; il 25 luglio il maresciallo Mauro Gigli e il caporalmaggiore Davide De Cillis restano uccisi durante il disinnesco di un ordigno ad Herat; il 17 settembre ha perso la vita il tenente Alessandro Romani a Bakwa; il 31 dicembre l'alpino Matteo Miotto è stato colpito mortalmente da un cecchino; il 18 gennaio è la volta dell'ultimo caduto, il giovane caporalmaggiore Luca Sanna, 32 anni, che muore nel corso di uno scontro a fuoco.
Questo tragico elenco di caduti serve solo a significare che c'è una distanza incolmabile tra quello che accade in Afghanistan e la nostra discussione, ovvero i termini in cui noi discutiamo. Ne discutiamo in maniera purtroppo sempre più burocratica, quando si tratta di rifinanziare il nostro intervento in Afghanistan con la conversione del decreto-legge, e ne parliamo molto burocraticamente, discutendo di cifre e di poste di bilancio. Oppure discutiamo della nostra presenza in Afghanistan e di quanto lì accade, dopo questi fatti tragici, quando qualcuno dei nostri militari perde purtroppo la vita, esprimendo la nostra partecipazione al lutto, la vicinanza alle famiglie e ai nostri militari, esprimendo il dolore e il cordoglio sincero del Parlamento.
Ma tutto ciò naturalmente non basta. Avremmo bisogno di una discussione molto più approfondita - lo dicevo all'inizio e con questo voglio concludere - sullo scopo e sul senso della nostra presenza in Afghanistan, sul raggiungimento degli obiettivi che ci siamo dati, allorquando abbiamo deciso di partecipare a questa missione con un grande sforzo della nostra comunità nazionale nella partecipazione della comunità internazionale all'attività in quell'area per risollevare quel Paese.
Ci sarebbe poi bisogno di una discussione molto forte e approfondita sulle prospettive della nostra presenza. Non possiamo limitarci a prendere atto delle decisioni che si vengono ad assumere nella comunità internazionale, manca una nostra iniziativa. Molte volte parliamo di cose che poi vengono contraddette - lo fa spesso il Ministro La Russa - e manca una nostra iniziativa, manca un'idea sull'exit strategy che va realizzata in Afghanistan, mancano certezze sul passaggio di poteri dalle autorità afgane, mancano la volontà, la determinazione e la discussione su come rafforzare la nostra presenza in termini di cooperazione per la ricostruzione civile dell'Afghanistan.
Sono convinto che una siffatta discussione sia necessaria. Noi lo abbiamo ribadito più volte e tra l'altro questa esigenza è stata condivisa, ma mai siamo riusciti tuttavia a portare il Parlamento ad una discussione sulla nostra presenza in Afghanistan e più in generale sul nostro impegno fuori area, ovvero sull'impegno del nostro Paese nelle missioni internazionali.
Continuiamo con forza a chiedere questo confronto e siamo convinti che tale discussione e le scelte che poi dovranno conseguirne, rappresentano scelte nell'interesse del Paese e soprattutto dei nostri militari, a cui molto chiediamo, senza però corrispondere quanto a loro sarebbe dovuto (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Di Biagio. Ne ha facoltà.

ALDO DI BIAGIO. Signor Presidente, onorevole rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, nell'accingerci all'esame di questa disposizione non si può prescindere dal doveroso e commosso ricordo dei nostri ragazzi, caduti proprio nell'esplicazione Pag. 9di quel sostegno alla pace e alla stabilizzazione, richiamato dal titolo del decreto-legge.
Solo di qualche giorno fa è la scomparsa del caporalmaggiore Luca Sanna, di cui voglio con l'occasione ricordare e rinnovare ancora una volta il coraggio e la memoria. Ed è proprio su queste giovani forze e su queste ambizioni e speranze, che si fonda l'impegno italiano nei teatri spesso critici.
Tuttavia - e mi preme ribadirlo in questi aspetti - non possiamo ricordarcene soltanto in momenti di commozione e di dolore, come quello che ha investito il Paese nei giorni scorsi.
Occorre, invece, tenere sempre a mente questo sforzo incessante in termini di vite, di risorse e di impegno che si dispiega ogni giorno in terre a volte lontane. E non limitarlo, almeno in questa trattazione, ad una fredda disamina di numeri e capitoli di spese. È doveroso ricordare che, dietro queste risorse e questi capitoli, vi sono uomini e donne che non hanno paura di indossare una divisa per far sì che la pace, in certe aree, non sia soltanto un sogno. E dobbiamo allo stesso tempo abbandonare ogni falsa retorica e propensione irrazionale, magari dettata dalla commozione; l'Italia ha un impegno a fianco delle grandi nazioni democratiche e liberali. Va evidenziato il rafforzamento all'investimento di risorse umane ed economiche nel teatro afgano, in cui il contingente presente durante il primo semestre del 2011 sarà incrementato fino a raggiungere una media di 4.350 unità. Elemento questo, come abbiamo avuto più volte modo di evidenziare, di profonda criticità nei confronti dei gruppi sovversivi e delle forze terroristiche operanti nel territorio.
Particolare attenzione va riservata alle risorse destinate all'assunzione di impegno a favore dell'InCE, nella sua configurazione di struttura istituzionale di supporto all'azione del sostegno ai Balcani occidentali. Non trascurabile l'introduzione di specifiche disposizioni in materia di contrasto alle mutilazioni genitali femminili, una pratica subita, attualmente, da 130 milioni di donne nel mondo. È da accogliere, inoltre, con favore l'incremento delle risorse destinate alla cooperazione allo sviluppo, considerando i riferimenti drammatici degli stanziamenti a questa destinati dalla legge di stabilità del 2011. Per quanto riguarda, invece, gli stanziamenti destinati ai teatri di crisi, fa riflettere la riduzione operata a sostegno dei Balcani occidentali, in particolare per quanto attiene alla questione del Kosovo. Infatti, come qualche collega ha avuto modo di ricordare, la questione del Kosovo è attualmente all'attenzione del Consiglio d'Europa, in virtù delle criticità legate alla tenuta del Governo, ai problemi di ordine pubblico, oltre che alla tutela dei diritti umani. Per tali ragioni, sarebbe interessante un eventuale confronto con il Governo su tale scelta operativa, al fine di comprenderne le linee strategiche in quell'area. Pur sussistendo dei punti meritevoli di approfondimento in questa opportuna sede, le disposizioni in esame, nella loro complessità, confermano la volontà, unita alla capacità del nostro Paese, di assumere un ruolo di responsabilità nello scacchiere internazionale, con uno sguardo particolare ad aree geopolitiche di crisi che richiedono una efficace cooperazione tra presenza militare e ricostruzione civile, ambito operativo nel quale l'Italia, ed i suoi professionisti impegnati in terre oppresse, stanno dimostrando di detenere una non trascurabile capacità e professionalità.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Barbi. Ne ha facoltà.

MARIO BARBI. Signor Presidente, avviamo oggi l'esame del provvedimento che, con rituale cadenza semestrale, autorizza il rifinanziamento, per i prossimi sei mesi, della partecipazione italiana alle missioni internazionali in cui siamo impegnati in diverse parti del mondo. Per l'esattezza, il decreto-legge reca un titolo lunghissimo: proroga degli interventi di cooperazione allo sviluppo e a sostegno dei processi di pace e stabilizzazione, nonché delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia. Il titolo induce in errore; gli Pag. 10interventi di cooperazione sono una minima parte e da tempo parte decrescente degli interventi finanziati. E su questo ritornerò. Nel corso dell'esame congiunto in Commissioni esteri e difesa è emerso, con chiarezza, non per la prima volta, ma in modo particolarmente netto questa volta - il collega Rugghia lo ricordava -, come il presente strumento del decreto-legge semestrale sia sempre più inadatto a trattare, con il dovuto rilievo e con il necessario approfondimento politico, le questioni strategiche e le connesse scelte di politica estera sottese alla partecipazione ed al finanziamento o rifinanziamento delle missioni di pace e di stabilizzazione a carattere militare, civile, di cooperazione, in cui siamo impegnati.
È emerso nelle Commissioni come l'impianto normativo del decreto-legge, che tratta separatamente le questioni della cooperazione, per quel poco che è, e le questioni militari, favorisca una trattazione disgiunta, burocratica ed amministrativa di questioni che invece dovrebbero essere trattate congiuntamente per aree geopolitiche di intervento, facendo il bilancio di quanto si è fatto e decidendo caso per caso gli aggiustamenti necessari, le eventuali revisioni, le indispensabili integrazioni e il bilanciamento delle componenti civile, militare e di aiuto che qualificano i diversi interventi e questo con il concorso del Parlamento. Di questa visione, di questo respiro non c'è traccia né nel testo - e questo sarebbe anche comprensibile - né nella presentazione del testo che fa il Governo e questo è meno comprensibile. Eppure nel decreto-legge missioni è racchiuso un impegno imponente per il nostro Paese. Nel primo semestre del 2011 si dispone l'impiego all'estero di 8.537 unità di personale militare e civile, per una spesa di 754 milioni e 300 mila euro, in leggero aumento rispetto al semestre precedente. I dati sono stati ricordati. Il confronto tra i due semestri rispetto alle quantità di personale e di risorse finanziarie ci dà un quadro, ancorché sommario, di cosa cambia nel nostro impegno. Vorrei farlo questo quadro: si intensifica l'impegno in Afghanistan che ormai assorbe oltre la metà delle risorse di uomini e mezzi; tende a dimezzarsi l'impegno nei Balcani in ambito NATO, mentre va verso la conclusione la missione UE Althea in Bosnia; vi è una lieve riduzione delle spese per UNIFIL in Libano a cui andrebbero anche concettualmente associate per una riflessione congiunta sul Medio Oriente le missioni nei territori palestinesi. Resta cospicuo l'impegno nelle acque del Mediterraneo con la NATO, Active Endeavour missione per il contrasto della terrorismo internazionale. Si quadruplica la spesa della missione italo-libica per contrastare l'immigrazione clandestina da due a otto milioni; resta assai importante l'azione di contrasto alla pirateria dinanzi alle coste somale in ambito sia NATO Ocean Shield che Unione europea, Atalanta, così come permane di una certa importanza l'impegno in ambito NATO per l'addestramento delle forze di sicurezza irachene. Restano poi più o meno stabili presidi quantitativamente modesti, ma in aree politicamente importanti del continente africano, in Somalia con l'Unione europea, in Darfur con l'ONU, in Congo con l'Unione europea. Questo è il quadro, non esaustivo, su cui si dovrebbe ragionare e riflettere.
Da tempo noi del Partito Democratico, e per la verità non solo noi, proponiamo che le missioni in cui l'Italia è impegnata all'estero siano finanziate da un fondo adeguato iscritto a bilancio in modo permanente e che il loro svolgimento sia disciplinato da una cornice normativa stabile che consenta, da un lato il finanziamento annuale e, dall'altro la discussione politico-strategica in una apposita sessione parlamentare. Non lo chiediamo soltanto noi, lo raccomandano anche esperti autorevoli, ad esempio gli enti internazionalistici che in un recente rapporto redatto per il Parlamento avanzano una serie di raccomandazioni di cui il Governo e noi stessi potremmo utilmente tener conto per cercare di conseguire o di avvicinarci al conseguimento di obiettivi fondamentali quali la coerenza tra missioni e priorità della nostra politica estera; l'efficacia della presenza militare e la definizione di una Pag. 11strategia nazionale per la gestione civile delle crisi; la sostenibilità degli impegni finanziari nonché l'integrazione e un rapporto proporzionato tra le componenti militari, civili e di aiuto nelle diverse missioni. I suggerimenti e le idee non mancano. In attesa del meglio, che non ci stanchiamo comunque di perseguire, abbiamo tuttavia cercato di sollecitare il Governo a presentare una sua valutazione politica sulle varie aree di intervento in cui ci troviamo ad operare e non abbiamo fatto mancare in sede referente il nostro contributo. Purtroppo ci siamo trovati davanti ad un atteggiamento del Governo che abbiamo trovato refrattario a ritenere che il decreto-legge missioni sia l'occasione, la più importante di cui disponiamo per un dibattito di politica estera e sulla nostra politica estera, come pure è stato sempre sostenuto anche dai relatori per la maggioranza, in passato.
Anziché discutere delle priorità strategiche e politiche, rappresentanti del Governo hanno sostenuto senza arrossire - lo dico - che il decreto-legge missioni è un mero atto amministrativo di ricopertura di decisioni già assunte e che in altre sedi e in altri momenti andrebbero sottoposte ad una valutazione di merito.
Noi non siamo d'accordo e ci dispiace che il Governo non abbia voluto cogliere le sollecitazioni che gli venivano dal nostro e anche da altri gruppi di opposizione. Ci dispiace anche che la maggioranza o quanto ne resta abbia sostanzialmente snobbato ed eluso il dibattito in Commissione.
Voglio ripeterlo: noi riteniamo che non si dovrebbe disgiungere la discussione finanziaria, di cui il decreto missioni è la base normativa, da quella politica, che sarebbe da lasciare a non si sa quali altre sedi. Le due dimensioni, politica e finanziaria, andrebbero viste congiuntamente nella sede parlamentare propria, che è questa, cioè quella della decisione legislativa. Questo purtroppo non avviene nel modo dovuto.
La scorsa settimana abbiamo ascoltato in Aula il Ministro della difesa, che ci ha informato sulle circostanze tragiche in cui è caduto in Afghanistan il caporalmaggiore Luca Sanna, appena due settimane dopo la morte di un altro militare italiano. Tuttavia la risposta alle domande sul senso della missione, che inevitabilmente sorgono a fronte di eventi luttuosi e dolorosi, viene appena accennata, appare un po' scontata e retorica e gli approfondimenti sono rinviati ad un altro momento. È il cane che si morde la coda.
Sempre la scorsa settimana, nelle Commissione esteri di Camera e Senato abbiamo ascoltato un'informativa del Ministro degli affari esteri sulla situazione in Tunisia dopo la caduta del regime di Ben Alì. Anche qui si sono affacciati dubbi sulla lungimiranza di una politica di lunga data che ha privilegiato la stabilità, senza vedere o senza capire che sullo sfondo vi era una società in sofferenza per la corruzione dilagante ed il soffocamento di libertà elementari. Ma anche qui le possibilità di una riflessione e di una disamina critica delle nostre scelte di politica estera restano limitate ed insufficienti, mentre mai come ora dovremmo interrogarci e trarre conseguenze da quanto sta accadendo sulla sponda sud del Mediterraneo, dove sono in affanno crescente i regimi moderati filoccidentali, più o meno laici, più o meno autoritari, e dove i fermenti di società in cui la crescita economica non tiene il passo con la forte crescita demografica preludono a cambiamenti che non potranno essere contenuti a lungo nelle maglie strette e repressive di quelle che qualcuno ha chiamato benevolmente democrazie dinastiche, con l'accento che andrebbe messo più sulla seconda che sulla prima parte della locuzione.
Ma degli scenari inediti che si preparano, dei rischi che si corrono, della crescita del fondamentalismo, dell'intolleranza religiosa e del terrorismo, delle nostre incertezze e del clamoroso fallimento europeo dell'Unione del Mediterraneo (di cui peraltro il decreto prevede il finanziamento del segretariato) si parla appena e quando se ne parla non si sa con quali effetti e con quale ruolo politico attivo del Parlamento. Pag. 12
Ora la nostra attenzione è attirata o dovrebbe essere attirata anche dai tumulti che esplodono in Albania, Paese in cui fortissimo è l'impegno italiano. Cosa sta succedendo? In quel Paese, tra l'altro, noi siamo impegnati oltre che con l'Unione europea e la NATO, in una missione bilaterale di addestramento delle forze di polizia albanesi, con 57 esperti per una spesa di circa 3 milioni e mezzo di euro in questo semestre, oltre ad una missione di esperti - diciotto, per 650 mila euro di spesa - che collaborano con i militari albanesi per la riorganizzazione delle loro Forze armate.
È un esempio tratto dall'attualità di una delle tante questioni che il decreto missioni porterebbe a sollevare e ad approfondire e che invece restano affogate in una somma di articoli e di commi che sembrano tutti uguali. Perciò le osservazioni di merito che ora vorrei svolgere non potranno essere altro che parziali e incomplete, e soprattutto non potranno fare molto di più che sollevare interrogativi, rivolgere al Governo richieste di informazioni e di valutazioni.
A grandi linee noi condividiamo, nonostante tutto, le scelte di fondo compiute, non da oggi e non solo da questo Governo, che stanno a monte del decreto, ma ciò non toglie che vi siano punti in cui la nostra opinione è molto critica e in cui poniamo domande che attendono risposte puntuali. La cooperazione: la nostra opinione è che se ne faccia poca e che dovrebbe essere più chiaro il rapporto di integrazione e coerenza fra cooperazione e componenti civili e militari delle missioni di pace, sia nelle zone di conflitto come Afghanistan o Somalia, sia nelle zone «fragili» come Libano, Balcani, Darfur, Iraq, Georgia, Myanmar, Pakistan, Sudan. È appena il caso di ricordare che gli interventi di cooperazione allo sviluppo costituiscono un elemento fondamentale per la riuscita delle operazioni di pace in cui siamo impegnati, determinando sia interventi per fronteggiare i bisogni essenziali della popolazione sia favorendo la ricostruzione di un tessuto civile e sociale di Paesi che vivono grandi crisi politiche, istituzionali ed economiche.
Purtroppo, però, in linea con la sistematica e più generale opera di distruzione - non trovo altra parola - del nostro sistema di cooperazione, che più volte abbiamo denunciato, di tale consapevolezza non vi è traccia.
Nonostante il titolo del decreto-legge in oggetto sembri attribuire un'importanza rilevante agli interventi di cooperazione allo sviluppo nell'ambito del sostegno ai processi di pace, in realtà, questi rappresentano solo il 3,6 per cento dei 754 milioni di euro stanziati per la prima metà del 2011. Rispetto all'ultimo semestre, gli interventi di cooperazione si riducono del 10 per cento. La preoccupazione aumenta se si guarda alla prospettiva di medio periodo: nel 2008, il finanziamento di iniziative di cooperazione allo sviluppo rappresentava il 9,4 per cento dell'ammontare stanziato nel decreto-legge di rifinanziamento; nel 2009, l'incidenza era del 6,1 per cento; nel 2010, scende a solo il 4,7 per cento.
In sintesi, tra il 2008 e il 2011, le spese complessive per i decreti missioni sono cresciute del 50 per cento, mentre quelle previste per gli interventi di cooperazione in quel contesto sono state ridotte del 42 per cento.
Alcune proposte emendative hanno mitigato gli effetti negativi del provvedimento in discussione, in relazione a quel po' di cooperazione che ancora viene realizzata, consentendo il ricorso ad esperti e l'utilizzo di risorse stanziate, ma non ancora spese, che rischiavano di andare perse. Ma è la direzione ad essere del tutto sbagliata.
Con riferimento ai Balcani - lo accennavo già -, il provvedimento in oggetto prevede una sensibile riduzione della nostra presenza in termini di uomini e di risorse: in particolare, in Bosnia Erzegovina, dove le risorse per la missione Althea passeranno da 10 milioni a 150 mila euro (si passerà, quindi, da 172 a 5 uomini). A questo, si aggiunge la riduzione già operata nel Kosovo dal precedente provvedimento. Pag. 13
Si tratta, è vero, di scelte conseguenti a decisioni approvate in sede NATO e in sede di Unione europea, che sottendono una valutazione complessivamente positiva dei progressi compiuti nell'area verso lo Stato di diritto e la democratizzazione, in un quadro di pacificazione interetnica e avvicinamento all'Unione europea. Naturalmente ce ne rallegriamo, tuttavia, non possiamo non vedere come la situazione politica resti instabile e potenzialmente pericolosa sia in Bosnia che nel Kosovo, ed ora anche in Albania. Visto l'interesse speciale del nostro Paese per la stabilità e il progresso di tutta l'area dei Balcani, il ridotto impegno militare dovrebbe, a nostro avviso, essere almeno compensato e sostenuto da una più accentuata iniziativa politica e di cooperazione, mettendo a disposizione più risorse e prestando un'attenzione politico-diplomatica ancora più decisa in quest'area. Non a caso, l'Italia figura tra i Paesi che, da sempre, sostengono il processo di avvicinamento dei Paesi dei Balcani all'Unione europea. È nostro interesse, oltre che nostro dovere, adottare ogni iniziativa utile per rafforzare l'iniziativa politico-diplomatica nell'area, anche assicurando che la presenza internazionale non scenda al di sotto dei livelli minimi necessari ad evitare l'inasprirsi delle tensioni che ancora permangono.
Con riferimento all'Africa subsahariana, al Sudan e alla Somalia, la domanda che rivolgo al Governo è se ci stiamo occupando a sufficienza di questi Paesi africani e di questa regione, nel nostro interesse e nell'interesse della comunità internazionale. È nota la critica situazione del Sudan, ricco di petrolio e materie prime, che ora è alle prese con gli effetti del referendum sulla separazione del sud cristiano ed animista dal nord musulmano. I colloqui recenti, che dovevano assicurare una separazione consensuale del sud e lo statuto della regione di Abyei, non hanno dato i risultati sperati. Il referendum è stato accompagnato da violenze e, nel Darfur, la situazione si è ulteriormente deteriorata.
L'Italia fa, tuttavia, parte dei cinque Paesi che dovrebbero assicurare l'attuazione del Comprehensive peace agreement del 2005, che avrebbe dovuto porre fine agli oltre venti anni di guerra civile. Al momento, dopo i drastici tagli alla cooperazione bilaterale, l'Italia mantiene - è stato ricordato - un'esigua presenza di tre unità in Darfur, nell'ambito della missione ONU Unamid.
C'è da chiedersi se stiamo facendo le scelte giuste, in sede internazionale e in ambito europeo, per fare valere la credibilità, che tutte le parti ci riconoscono, in ragione del comportamento equilibrato ed attento avuto verso tutte le parti belligeranti, e se stiamo facendo ciò che dobbiamo e possiamo fare per dare il contributo che potremmo dare. Io mi permetto di dubitarne.
Per quel che riguarda la Somalia la situazione è ancora più critica. Il Governo legittimo controlla una parte sempre più esigua del territorio, e neanche tutta Mogadiscio, grazie alla forza internazionale sostenuta dall'ONU e messa in piedi dall'Unione africana (Amisom). In questo quadro ci sarebbe bisogno di una forte iniziativa europea e l'Italia è forse l'unico Paese, per la sua esperienza passata e presente, che potrebbe premere per questa iniziativa e assumerne la guida. Mi chiedo cosa l'Italia stia facendo in questo senso, se stia facendo abbastanza, a partire dalla istituzione di un rappresentante speciale dell'Unione europea per la Somalia. Certo, presidiamo le acque a largo della Somalia per contrastare la pirateria, stanziamo qualche euro proprio con questo decreto per la cooperazione in Somalia, teniamo rapporti stretti con il Governo somalo legittimo, come testimonia la visita della scorsa settimana a Roma, ma tutto questo basta? È questo tutto quello che dobbiamo e possiamo fare? Noi, intanto, avevamo proposto - è una cosa minima - di promuovere con la cooperazione una conferenza regionale della società civile della Somalia e dei Paesi confinanti. C'è stato detto che, per opportunità, era meglio aspettare gli imminenti incontri politici con il Governo somalo. Ora gli incontri ci sono stati. Con quale risultato? Ce lo chiediamo. Pag. 14
Infine l'Afghanistan. Ricordavo prima le più recenti informative del Ministro della difesa sugli ultimi due caduti italiani, che dall'inizio della missione hanno ormai raggiunto quota trentasei. È ormai evidente che siamo dinanzi ad una intensificazione degli scontri armati in cui sono coinvolti i nostri militari nelle province in cui sono direttamente presenti e, in generale, nella regione occidentale affidata al comando italiano. Ritorna, quindi, giustamente, la domanda sul senso della nostra presenza in Afghanistan. Certo, a questa domanda non si può rispondere con leggerezza. Noi continuiamo a pensare che l'Italia debba mantenere rigorosamente gli impegni che sono stati assunti con gli alleati in sede NATO e che non debba compiere scelte unilaterali. Certo, deve contribuire a definire la strategia. E continuiamo a pensare che un Afghanistan stabilizzato, non fondamentalista e governato dagli afgani in un contesto regionale di cooperazione e di fiducia reciproca sia interesse dell'Italia come dei suoi alleati europei e di oltre Atlantico. Quell'obiettivo deve essere raggiunto, però, ed apparire raggiungibile. Ed è su questo che il Governo deve dirci come stanno le cose, come vanno le cose.
Tutti ci chiediamo se l'intensificarsi delle azioni belliche, in cui anche i nostri militari sono coinvolti, sia effettivamente un segno di debolezza e di reazione difensiva di insorti esposti ad una pressione crescente delle forze alleate e ci chiediamo se, quindi, conseguentemente, stia avendo successo la strategia di controinsurrezione e di afganizzazione del conflitto del generale Petraeus. I rapporti degli esperti ci dicono che le Forze alleate hanno avviato una vasta azione per prendere il controllo stabile delle zone più popolate dell'Afghanistan e che si moltiplicano le operazioni speciali per colpire i vertici degli insorti, mentre dà risultati l'attenzione prestata alla popolazione civile perché non resti vittima di azioni militari cieche e indiscriminate. Gli effetti e i contraccolpi di questa azione si fanno sentire anche nel quadrante a comando italiano.
Ma a che punto è il processo politico e negoziale? Questa è l'altra domanda. Le elezioni legislative del 18 settembre 2010 non sembrano avere contribuito in modo definitivo alla stabilizzazione del quadro politico. L'annuncio del Presidente Karzai dell'apertura in questi giorni del nuovo Parlamento resta ipotecato dai ricorsi sulle irregolarità del procedimento elettorale su cui dovrà pronunciarsi una commissione di inchiesta. Ma il punto tuttora critico della missione resta il rapporto tra il rafforzamento immediato, ora, dell'impegno militare e civile ispirato a quella strategia di approccio globale che punta a stabilizzare l'Afghanistan con l'intervento militare e la ricostruzione civile e istituzionale, e l'individuazione di quel termine, a compimento della exit strategy, entro il quale sia possibile concludere la missione e ritirare le forze combattenti dall'Afghanistan. Se dapprima il Presidente Obama aveva annunciato la metà di quest'anno come data per l'inizio del ritiro, poi al vertice NATO di Lisbona del novembre scorso è stato indicato il 2014 come obiettivo per il ritiro delle truppe di combattimento della missione ISAF, scadenza, come sottolineato da parte statunitense, da intendersi in maniera flessibile a seconda dei rapporti di forza sul campo. Il Presidente Obama ha quindi escluso ogni ipotesi di abbandono dell'Afghanistan a se stesso anche dopo tale data e ha ribadito che, sino a quando Al Qaeda rappresenterà una minaccia, nel Paese centro-asiatico verrà mantenuta un'efficiente struttura di controterrorismo.
Chiedo ora al Governo se confermi essere questo il quadro in cui ci muoviamo e gli chiedo, soprattutto, quali siano i progressi del processo politico e negoziale che dovrebbe condurre ad una soluzione politica della crisi afgana. Soluzione che rappresenta il fine ultimo della contro- insurrezione. Insomma, chiedo a che punto sia la transizione, il processo di trasferimento agli afgani del controllo dello Stato e del Paese.
Credo che il Parlamento, così come tutta l'opinione pubblica abbia il diritto di sapere a che cosa dobbiamo prepararci in Pag. 15Afghanistan. Credo anche, infine, che un impegno così gravoso in termini di vite umane, in luoghi così lontani geograficamente e culturalmente, potremo sostenerlo a condizione che vi sia chiarezza di obiettivi e la consapevolezza che è in gioco l'interesse nazionale sia in relazione alla nostra sicurezza che alla nostra affidabilità verso gli alleati. Ma ciò non basta, occorre che il senso del dovere che sorregge l'impegno dei nostri militari, dei nostri funzionari civili e dei nostri cooperatori, sia sostenuto da un Governo all'altezza di questi nostri concittadini che servono la nazione con disciplina ed onore, al di fuori dei confini dello Stato.
Il dubbio è lecito in ciascun cittadino italiano, chi deve dare risposte invece, anziché dubitare, è il Governo, a partire dal Presidente del Consiglio. Un Governo all'altezza di chi serve la nazione in Afghanistan, dedica al buon andamento delle nostre missioni internazionali tutto il tempo necessario senza farsi distrarre da questioni private; soprattutto, un Governo all'altezza dà il buon esempio, a partire dal Presidente del Consiglio; soprattutto, dà con il suo comportamento, quell'esempio di disciplina e di onore che è richiesto al nostro personale militare e civile in situazioni di crisi e di conflitto. Spiace constatare che proprio quell'esempio manca e che è il Governo, il capo del Governo, ad indebolire la considerazione del nostro Paese nel mondo e a rendere quindi le missioni all'estero più complicate, ma anche più importanti che mai, perché gli italiani che vi sono impegnati ora, oltre a rendere un servizio alla pace, rendono un eccezionale servizio al buon nome e all'immagine del nostro Paese. L'Italia ne ha bisogno (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Migliori. Ne ha facoltà.

RICCARDO MIGLIORI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, onorevole rappresentante del Governo, a nome del Popolo della Libertà vorrei esporre alcune riflessioni a supporto del provvedimento oggi alla nostra attenzione concernente il rifinanziamento delle nostre missioni di pace in una serie significativa di quadranti di carattere internazionale. Ovviamente, le mie riflessioni coincidono con il senso e la lettera delle riflessioni svolte dal collega Dozzo, relatore sia per la Commissione Affari esteri che per la Commissione Difesa e prendono spunto anche da alcuni aspetti interessanti degli interventi dei colleghi dell'opposizione sull'opportunità, che mi pare oggettiva, di un superamento, tra l'altro in itinere, della strumentazione del decreto-legge, per quel che riguarda il rifinanziamento, attraverso una opportuna legge quadro sulle missioni internazionali, opportunamente integrata al codice e che permetta di svolgere una riflessione congiunta, complessiva e organica sulle questioni inerenti le priorità della nostra politica estera e conseguentemente della nostra politica di difesa.
Prendo anche spunto dalla riflessione del collega Di Biagio inerente l'esigenza di ricordarsi, prioritariamente, che dietro queste cifre, dietro la freddezza delle poste di bilancio, c'è il sacrificio, l'ardimento, la disciplina e il senso dell'onore dei nostri militari e dei nostri caduti.
Dico questo con particolare convinzione, viste e considerate le notizie odierne secondo le quali il vescovo di Padova non considererebbe caduti per la pace i caduti di queste settimane, quasi che si potesse mettere sullo stesso piano culturale chi è caduto contro il terrorismo e chi si arma a fini terroristici in vari quadranti nei quali operano le nostre Forze armate. Penso anche che nei fatti questo sia il dibattito oggettivo inerente i vari scenari della nostra politica estera e che siano questi il momento e la sede idonea di carattere parlamentare per un dibattito e un confronto quanto mai utili.
La credibilità del nostro Paese - che è grande perché si misura su uno sforzo finanziario e umano straordinari e supera anche i confini, oserei dire, del peso economico del nostro Paese - si basa anche su una unitarietà di indirizzo e una condivisione dei grandi obiettivi che sono emersi e che emergono chiaramente dalle Pag. 16nostre missioni internazionali. Inoltre, essa si basa anche su un consenso che va ben al di là della maggioranza, segnando una linea di continuità di politica estera che fa forte e più credibile il nostro Paese, con 8 mila 500 uomini impegnati e una spesa semestrale di 754 milioni di euro, 62 dei quali finalizzati alla ricostruzione civile.
Quindi, colleghi, accetto la sfida dell'opposizione e la maggioranza non può certamente, anche perché non ne ha bisogno, nascondersi dietro a un dito circa l'esigenza di utilizzare questo nostro confronto per una riflessione a tutto campo a 360 gradi sulle priorità della nostra politica estera.
Colleghi, credo che in Afghanistan, come dicono le Nazioni Unite, la situazione sia preoccupante e si stiano registrando oggi più pericoli che in passato, perché una porzione sempre più significativa di quel territorio oggi è interessata dalle insorgenze e quindi diventa naturale considerare questo un momento di svolta rispetto all'obiettivo di raggiungere il prima possibile l'autosufficienza dell'Esercito afgano e, aggiungerei, la capacità della società afgana di un effettivo autogoverno di carattere democratico.
Penso che la cooperazione a questo riguardo sia importante, come anche che si tenga conto del ruolo essenziale che il vicino Pakistan ha in questa vicenda e soprattutto degli sforzi che in questi ultimi anni sta facendo la sezione viennese delle Nazioni Unite - con risultati - per evitare e per superare una economia monotematica dell'Afghanistan per quel che concerne la produzione e il commercio della droga per far si quindi che diventi un traguardo possibile.
Questi obiettivi non hanno realisticamente la possibilità di essere temporizzati. Verificheremo nei prossimi mesi se questi elementi di svolta che si registrano e l'esigenza di affiancare sul serio il controllo, oltre che militare, anche politico e la possibilità di supportare la capacità di autorganizzazione della società afgana avranno un risultato positivo.
Questa del 2014 è una data che ritengo debba essere considerata come ultima rispetto a un processo che può concludersi anche prima. Certamente l'obiettivo che la strategia Petraeus ha finalmente (sottolineo «finalmente») interpretato, è largamente condivisibile perché passa attraverso una ovvia considerazione della insufficienza della soluzione militare rispetto alle iniziative di society building in quella realtà.
Per quel che riguarda, colleghi, la questione della presenza dei nostri 1.800 uomini in Libano, a me pare - anche leggendo il dibattito interessante oggi in Aula come in Commissione - che non ci sia stata una sufficiente attenzione agli elementi di drammatica novità che si registrano in quel quadrante.
Il Tribunale internazionale delle Nazioni unite - opportunamente finanziato con questo provvedimento anche da parte italiana per 800 mila euro - sta per concludere i suoi lavori. Ciò ha determinato la crisi del Governo libanese. Ma non solo: ha determinato il cambio di maggioranza dei drusi di Jumblatt, prima parte della coalizione, cosiddetta filo-occidentale, oggi tendenzialmente schierati con hezbollah. Questa situazione di difficoltà politica in quella realtà può determinare, colleghi, una situazione di grave difficoltà per la nostra presenza militare.
Noi abbiamo oggi in Libano di fatto una forza di interposizione molto lontana rispetto ai primitivi obiettivi della missione UNIFIL. Tali obiettivi non sono realisticamente raggiungibili. Non è pensabile che la nostra missione sia in grado, insieme agli altri contingenti presenti in Libano, di disarmare chi dovrebbe essere disarmato, perché oggi fa parte di fatto del Governo libanese.
È impensabile cioè svolgere una effettiva capacità di controllo in quell'area. Oggi siamo forza di interposizione con tutti gli elementi difficoltà che, in prospettiva, si possono avere in quell'area. Questa è una riflessione che reputo sia importante anche che il Governo assuma come elemento centrale per i prossimi mesi. Pag. 17
Per quanto riguarda l'area balcanica, io penso (e la maggioranza ritiene) che, come il Governo Berlusconi ha più volte sostenuto in quest'Aula e nel programma di Governo (come in precedenza il Governo Prodi su questo aspetto) le questioni di sicurezza dei Balcani attengano alla sicurezza nazionale più che quella di carattere internazionale. Siamo in una situazione di difficoltà perché c'è l'esigenza, colleghi, di addivenire il prima possibile a una nuova fase degli accordi di Dayton, perché le iniziative per creare di fatto uno Stato unitario in Bosnia sono anche recentemente state smentite dall'impossibilità di dare vita ad un Governo autenticamente multinazionale dopo le elezioni dell'ottobre scorso.
Ho visitato in quell'occasione il nostro contingente che si apprestava a lasciare Sarajevo. Oggi la nostra presenza - sostituita da una forte presenza del contingente turco - è finalizzata a creare elementi di modernizzazione per la polizia bosniaca. Certamente abbiamo una situazione di difficoltà. La presenza nei prossimi giorni del senatore Mantica a Sarajevo penso che possa aiutare a comprendere una situazione molto difficile con il tentativo di fatto di separazione della Repubblica Srpska rispetto all'attuale configurazione statale e con le gravi preoccupazioni che ho raccolto, anche personalmente, da parte degli esponenti della comunità croata - in primis il cardinale Puljic - circa la consistente e drammatica diminuzione della presenza croata non solo nella città di Sarajevo, ma all'interno della società bosniaca nel suo complesso. Si ha cioè l'affievolirsi di quegli elementi essenziali di multietnicità e multiculturalità che furono alla base per il futuro equilibrio relativo degli accordi di Dayton.
Dobbiamo avere la stessa preoccupazione, colleghi, per quanto accade in Kosovo non solo dopo le ultime elezioni politiche, anche in sede internazionale, particolarmente - seppur non con eccessiva severità - contestate.
Dobbiamo prestare attenzione anche e soprattutto perché la situazione del Kosovo del nord, cioè la situazione relativa alla minoranza serba nella zona del nord e al di là del fiume che divideva storicamente l'area di influenza serba da quella di etnia albanese, a nord di Mitrovica, non trova elementi di soluzione. Non è un caso che il nostro contingente in quella realtà sia un presidio essenziale alla tutela e alla difesa dei tradizionali siti cari alla storia, alla cultura e alla religione ortodossa serba.
È anche in quest'area che mi sembra serva questo sforzo circa l'europeizzazione di quel quadrante, per il quale il Governo italiano è stato protagonista, anche a livello europeo, per quel che riguarda l'eliminazione dei visti. Questo ha significato un passaggio avanti importante per quel che concerne anche e soprattutto l'europeizzazione della Serbia, cioè l'esigenza di un accordo che vada oltre le ferite della storia per far sì che una nuova Serbia possa svolgere, da protagonista, il ruolo che le compete all'interno dei Balcani e dell'Europa.
Per quel che riguarda le questioni che sono state affrontate in ordine al Mediterraneo vorrei affermare, con grande chiarezza, che quanto accaduto a Tunisi e, come ha detto il collega Barbi, quanto accaduto a Tirana non ci condiziona per quel che riguarda uno sforzo comune che concerne l'esigenza di legare sempre più il futuro economico-sociale dell'Europa al futuro sociale ed economico della sponda sud del Mediterraneo.
Certo, colleghi, stiamo vivendo un doppio fallimento, cioè l'impossibilità del decollo dell'Unione per il Mediterraneo ed il fallimento del processo di Barcellona. Quel che funziona in quest'area è, soprattutto, l'Accordo «cinque più cinque» finalizzato, però, ai temi della sicurezza e ad accordi di carattere bilaterale. Intendo dire che evidentemente sbaglieremmo l'analisi se mettessimo sullo stesso piano i fatti di Tunisi e quelli di Tirana.
L'Albania è un grande Paese in via di sviluppo, con dati economici straordinari. Inoltre, è un Paese dell'Alleanza atlantica, è un Paese che ha visto nelle ultime elezioni politiche un giudizio sostanzialmente positivo sul tipo di elezioni che si Pag. 18sono svolte, pur con alcuni aspetti negativi. Tuttavia l'OSCE, per esempio, ha sostenuto che le ultime elezioni parlamentari albanesi sono state le migliori qualitativamente sotto il profilo della trasparenza e del pluralismo che si sono registrate in quel Paese. Dico questo perché più tardi avremo un confronto sulle questioni Bielorusse e non vorrei che si utilizzassero i giudizi dell'OSCE in un senso e in un altro; anzi, reputo opportuno questo tipo di confronto perché finalmente i grandi temi di politica estera possono trovare la sede solenne della nostra Aula quando in sede internazionale - e parlo soprattutto del giudizio OSCE - le elezioni in Azerbaigian, come quelle in Tajikistan, in Kazakhstan, in Uzbekistan e in Bielorussia trovano, da parte della comunità internazionale, attraverso lo strumento dell'OSCE, un giudizio di carattere negativo. Vorrei che questa attenzione - e lo ripeto - fosse non solo limitata, forse per esigenze di politica nazionale, ad alcuni Paesi, ma investisse la coscienza democratica di tutta questa nostra Aula.
Dunque, l'esigenza opportuna, presente all'interno del decreto-legge in esame, è quella di un impegno straordinario non solo in sede mediterranea ma anche nell'Africa subsahariana. Ciò segna un elemento positivo di novità perché, anche per questioni di carattere demografico, sappiamo che i Paesi del nord Africa oggi sono più sede che produttori dei fenomeni migratori. Questo avviene anche in termini drammatici e, dunque, riteniamo che l'intervento forte per sostenere socialmente ed economicamente l'Africa subsahariana sia essenziale, come lo è per quel che concerne la Somalia.
Mi ritrovo con chi è dell'idea che non è sufficiente la missione Atalanta contro la pirateria se, allo stesso tempo, non vi è una capacità di intervento di natura economica per quanto riguarda il futuro sociale della Somalia, dalla quale parte chi organizza il drammatico fenomeno della pirateria in quell'area del mondo.
Per quanto concerne il Sudan, vorrei ricordare a me stesso e ai colleghi che il nostro Paese è garante del processo di pacificazione e che considero certamente insufficiente ma come un primo elemento di attenzione il fatto che, in attesa dei risultati definitivi del referendum, il nostro Paese faccia la sua parte per quello che sembra realizzarsi come il nuovo Stato del Juba o del Sudan meridionale. L'Italia ha una responsabilità in quel quadrante: questo decreto-legge lo sottolinea per la prima volta e penso che sia un fatto comunque positivo, anche se necessitante evidentemente di essere corroborato dal punto di vista finanziario.
Infine, colleghi, non vorrei sottacere - ha fatto bene il collega Dozzo a sostenerlo - l'impegno finanziario per quel che riguarda, finalmente anche nel nostro Paese, la ratifica della Convenzione di Oslo sullo sminamento, sulle mine a grappolo, una questione di carattere internazionale. L'Italia a questo riguardo ha svolto e sta svolgendo, anche nell'ambito OSCE, attraverso il generale Periotto, un lavoro straordinario di controllo dei depositi d'armi in tutta l'area balcanica. Vi è una tradizione di protagonismo dell'Italia per quel che riguarda questo settore e lo voglio ricordare perché questo elemento, presente all'interno del decreto-legge, è un obiettivo politico e di civiltà che finalmente riusciamo o stiamo per riuscire ad espletare.
Ringrazio i colleghi per l'attenzione e riconfermo ovviamente il giudizio positivo ed il sostegno del gruppo del Popolo della Libertà a questo provvedimento (Applausi dei deputati dei gruppi Popolo della Libertà e Lega Nord Padania).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Di Stanislao. Ne ha facoltà.

AUGUSTO DI STANISLAO. Signor Presidente, vorrei ricordare a tutti noi, ad iniziare dal Governo, che l'Italia è impegnata in 30 missioni in 22 Paesi, con un impegno totale di 7.811 uomini. È il primo dei Paesi «contributori» di caschi blu tra i partner europei del G8, il secondo Paese dell'Unione europea per il numero di uomini impegnati nelle missioni all'estero ed il nono Paese contributore alle operazioni Pag. 19militari ONU di polizia. Attualmente, la proroga degli interventi di cooperazione allo sviluppo e al sostegno dei processi di pace, di stabilizzazione, nonché delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia viene assicurata con decreti-legge a cadenza semestrale, quadrimestrale, bimestrale. Non si riesce a capire quale siano la sostanza, la continuità e l'idea che muovono il Governo - e soprattutto il Ministro della difesa - rispetto a questi impegni che mettono in campo senza rispetto per coloro i quali sono impegnati nelle missioni internazionali e avrebbero bisogno di ben altra consistenza e presenza, di un Governo che li garantisca in questa parte del mondo, dove noi portiamo la parte migliore di noi stessi e di questa Nazione; di questo dobbiamo purtroppo ragionare ancora una volta.
In relazione alla materia delle missioni internazionali, la normativa vigente non prevede una disciplina uniforme e stabile concernente la loro autorizzazione e il loro svolgimento. La disciplina in materia di svolgimento delle missioni internazionali è pertanto contenuta nell'ambito dei provvedimenti legislativi che, di volta in volta, finanziano le missioni stesse. L'ultimo provvedimento di proroga - lo ricordo - risale al 31 dicembre 2010 e, proprio nella vigenza delle missioni, è risultato necessario procedere con un ulteriore rifinanziamento e soprattutto con un rifinanziamento urgente.
Oggi ci troviamo di fronte ad un'ulteriore proroga, affinché si possa garantire la prosecuzione delle iniziative in favore dei processi di pace e di stabilizzazione nei Paesi coinvolti da eventi bellici e la proroga alla partecipazione del personale delle Forze armate e di polizia alle missioni internazionali in corso. In particolare vengono stabilite iniziative di cooperazione in favore di Afghanistan, Iraq, Libano, Myanmar Pakistan, Sudan e Somalia, e vengono previste le relative norme sul personale nonché quelle in materia penale e contabile.
Per quanto riguarda il Libano, l'Italia partecipa alla missione UNIFIL con circa 1.780 unità di personale impegnato. La situazione risulta essere molto delicata e problematica, soprattutto in questo contesto, e mi dispiace che il Governo e il Ministro non vengano costantemente a riferire, monitorando questa situazione che da qui a breve potrebbe diventare assolutamente esplosiva e incontrollabile, soprattutto determinerebbe l'inconsistenza della nostra presenza.
Il 29 ottobre del 2010, infatti, con un comunicato stampa, l'ONU ha dichiarato che la presenza di milizie armate e l'aumento di scontri hanno creato una situazione estremamente pericolosa in Libano, e tutte le parti in causa dovrebbero fare il possibile per ridurre le tensioni. Le milizie in Libano hanno a disposizione sempre più armi e questo causa una situazione molto pericolosa, informa non chi vi parla ma Terje Roed-Larsen, inviato speciale dell'ONU per l'attuazione della risoluzione 1559.
La risoluzione adottata dal Consiglio di sicurezza nel 2004 ha come obiettivo elezioni libere e giuste, la fine delle interferenze straniera e lo scioglimento delle milizie armate. Terje Roed-Larsen ha spiegato che il Libano «rappresenta oggi la questione più spinosa per la pace e la sicurezza internazionali» e che l'instabilità del Paese avrà conseguenze gravi in tutta la regione. Per questo motivo - continua il funzionario dell'ONU - tutti i partiti libanesi devono assumersi la responsabilità di porre fine a una retorica imprudente.
Nel suo ultimo rapporto sulla risoluzione 1559, presentata da Terje Roed-Larsen al Consiglio di sicurezza, il Segretario generale dell'ONU Ban Ki-moon ha espresso la sua preoccupazione per l'aumento delle tensioni politiche in Libano, incoraggiando le parti in causa a rafforzare la sovranità e la sicurezza del paese ed a risolvere questioni come la presenza di milizie armate.
Emerge altresì che il Medio Oriente si trova in una fase estremamente critica, con eventi trasversali e un uragano che sta per scoppiare. Terje Roed-Larsen ha ammonito che nel mezzo di queste correnti c'è una tenda sorretta da due pali, uno è Pag. 20costituito dalla Palestina e l'altro dal Libano. Se uno dei due si spezza, l'intera tenda cadrà. Inoltre, secondo quanto riportato dalla stampa, il governo di unità nazionale in Libano è recentemente caduto dove le dimissioni di 11 ministri dell'alleanza politica guidata dal gruppo di Hezbollah. Sembra che essi si siano dimessi dopo il fallimento dei negoziati promossi da Arabia Saudita e Siria, nel tentativo di giungere a un compromesso sul tribunale speciale che esamina l'assassinio dell'ex primo ministro Rafik Hariri nel 2005. La situazione in Libano negli ultimi mesi è stata caratterizzata da una crescente tensione in un clima nazionale che il Segretario generale dell'ONU ha definito di incertezza e di assoluta fragilità. Anche in Somalia la situazione sta diventando particolarmente complessa. L'Italia partecipa alla missione dell'Unione europea per l'addestramento delle forze di sicurezza somale. Il 27 novembre il parlamento somalo ha espresso la propria fiducia al nuovo Governo guidato da Mohammed Abdullahi Mohammed, finora estraneo alla vita politica somala ma ritenuto vicino al presidente Sheik Ahmed ed osteggiato invece dal presidente del Parlamento Sharif Hassan. Nei giorni del 27 e 28 dicembre e del 1o gennaio si sono registrati attacchi delle forze di al-Shabab contro le forze governative e delle missioni internazionali dell'Unione africana che hanno provocato almeno 35 morti, seguite da violenti combattimenti a Mogadiscio. Il Consiglio di sicurezza ONU ha deciso il 22 dicembre di rafforzare con 4 mila unità ed ha esteso il mandato della missione fino al 30 settembre 2011.
Inoltre, con le ultime rivelazioni di WikiLeaks, si è avuta la notizia dell'esercito privato comparso nel Puntland, un piccolo stato semiautonomo nella parte settentrionale della Somalia, la cui presenza rischia di avere implicazioni gravi sul ripristino della stabilità del paese somalo e sugli equilibri della regione. Un esercito senza bandiera, finanziato da uno stato islamico con forti interessi nell'area attraverso uno zakat, un fondo islamico che in genere raccoglie donazioni per la beneficenza. Il committente ha poi coinvolto nella partita due nomi di grosso calibro della diplomazia americana: Pierre Richard Prosper, ambasciatore incaricato dall'ex presidente George Bush jr di seguire le questioni legate ai crimini di guerra, e Michael Shanklin, un tempo capocentro della CIA a Mogadiscio. Gente esperta, che ha portato alla nascita di una forza militare che può già contare su 1.050 uomini. Secondo quanto riferito dall'agenzia Associated Press, si è diplomata la prima classe di reclute, oltre 150 soldati.
La milizia potrà contare su centoventi pick up, su sei elicotteri da ricognizione e armi molto sofisticate, per un totale di circa 10 milioni di dollari tra equipaggiamento, stipendi e spese di formazione. Attualmente nessuna altra forza nell'area può contare su simili mezzi, né Al Shabaab, la milizia filo-qaedista più agguerrita e meglio organizzata, né le truppe del debole Governo di transizione somalo. L'analista di International crisis group, Hogendoorm, ha affermato che non è dato ancora sapere se questa entità sconosciuta stia operando nell'interesse della Somalia o nel proprio. Se è una società privata, ci sarà un do ut des in termini di petrolio o di gas, se dovesse essere uno Stato, cercherà di spostare l'equilibrio di poteri della Somalia evidentemente a suo vantaggio. Gli Stati Uniti hanno negato qualsiasi coinvolgimento. Il portavoce del dipartimento di Stato Crowley ha detto che non è Washington a finanziare la nuova armata, che gli USA non sono mai stati consultati e che ritengono preoccupante la poca trasparenza riguardo alla sua origine e ai suoi obiettivi.
In Kosovo, a seguito della crisi di Governo apertasi nei primi di novembre, il 12 dicembre scorso si sono svolte elezioni politiche anticipate, che hanno visto il partito del Premier uscente Thaci, PDK, affermarsi come partito di maggioranza relativa. Il voto è stato boicottato nella zona settentrionale del Kosovo a maggioranza serba, mentre nelle enclave serbe presenti nella parte meridionale del Kosovo, l'affluenza alle urne è stata in media con il dato generale del 47,5 per cento. Un Pag. 21partito della minoranza serba, il partito serbo indipendente liberale, il 28 dicembre ha dichiarato la propria disponibilità ad entrare nella coalizione di Governo con il PDK. Il relatore del Consiglio d'Europa sulla situazione in Kosovo, Dick Marty, a metà dicembre in un suo rapporto ha denunciato il coinvolgimento del primo ministro kosovaro Thaci e di altri ex comandanti dell'UCK in un traffico di organi durante il conflitto nel 1998-1999. Il primo ministro Thaci ha denunciato Dick Marty per diffamazione, mentre il presidente il presidente Tadic ha dichiarato che i colloqui tecnici tra Belgrado e Pristina potranno comunque continuare, nonostante la denuncia del Consiglio d'Europa.
In Congo, nel mese di novembre sono proseguiti gli scontri nella regione del nord Kivu tra le Forze armate congolesi e le forze ribelli guidate dal movimento Hutu. Gli scontri hanno provocato vittime civili e almeno 2.500 profughi, nonostante le operazioni di protezione poste in essere dalle missioni ONU. Nel mese di novembre la situazione umanitaria ha registrato un peggioramento anche al confine con l'Angola, dove gli operatori ONU hanno denunciato oltre 650 stupri nel corso dell'operazione di rimpatrio di cittadini congolesi immigrati illegalmente in Angola. In un suo rapporto del 29 novembre l'ONU ha inoltre denunciato numerose violazioni dell'embargo sulle forniture di armi ai combattenti. La situazione politica congolese negli ultimi due mesi è stata poi caratterizzata dalla preparazione delle prossime elezioni legislative e presidenziali previste per novembre 2011. In particolare, il movimento CNDP ha annunciato il suo sostegno al presidente Kabila, a conferma della reintegrazione degli ex combattenti Tutsi. Evidentemente, poi queste situazioni prefigurano la determinazione di un contesto sempre più precario, all'interno del quale dovremo anche sviluppare un'azione di forte presenza. La conferenza internazionale sulla regione dei grandi laghi del 15 dicembre ha concordato un processo di certificazione delle risorse minerarie della regione. La Human rights watch ha denunciato l'arruolamento forzato di centinaia di bambini da parte di ufficiali congolesi, tra cui Bosco Ntaganda ricercato dalla Corte penale internazionale nella campagna militare dell'est del Paese negli scorsi mesi.
In Sudan l'operazione di voto del referendum per l'indipendenza del Sudan avviata il 9 gennaio proseguiranno fino al 15 gennaio. All'avvio dell'operazione di voto si sono registrate violenze in particolare nella regione di confine di Abyei, con una ventina di morti. Nel mese di dicembre sono infatti falliti i colloqui tra le parti per giungere ad un'intesa sul referendum apposito da effettuare nella regione di Abyei per definire la sua appartenenza al nord o al sud del Sudan. Del pari fallimentari sono risultati i colloqui tra le parti sugli sviluppi successivi al referendum sull'indipendenza del sud del Sudan.
Nel Darfur la situazione ha subito un ulteriore deterioramento, come testimoniato dagli scontri tra Forze armate sudanesi, da un lato, e appartenenti ai movimenti armati dell'SML e del JEM, dall'altro. Il presidente sudanese Bashir ha minacciato il ritiro dai colloqui di pace in corso a Doha in caso di mancata intesa con il JEM entro lo scorso dicembre. Ma lo scenario più drammatico e che sempre più si allontana dagli obiettivi e dai propositi che impegnano il nostro Paese nelle missioni internazionali, risulta essere evidentemente quello dell'Afghanistan. È una missione divenuta a tutti gli effetti una missione di guerra, che ha visto la perdita di trentasei soldati italiani.
L'Afghanistan è in una fase cruciale del proprio conflitto e della sua lotta per uscire dalla povertà. Vi è una necessità oggettiva che la comunità internazionale faccia di più per aiutare gli afgani a creare istituzioni efficaci e per promuovere una crescita economica equa.
In base al ruolo unico del sistema delle Nazioni Unite e all'ampiezza di competenze, il quadro delle Nazioni Unite a sostegno dell'Afghanistan national development strategy si concentra su tre aree prioritarie: governance di pace e stabilità, Pag. 22vita sostenibile e servizi sociali di base, sostenuti da interventi su questioni trasversali, come diritti umani, parità tra i sessi, tutela dell'ambiente, lotta contro le mine e il narcotraffico.
Questi tre settori prioritari sono inquadrati in un contesto in cui l'ONU è nella posizione migliore per sostenere la strategia nazionale di sviluppo, concentrandosi sul nesso tra stabilità e l'alleviamento della povertà, in particolare per i più emarginati e vulnerabili. Eppure, a dieci anni dalla presenza della NATO con la missione ISAF, i cui obiettivi sono ricostruzione, stabilizzazione e addestramento all'interno di un mandato teso al mantenimento della sicurezza nell'interesse della ricostruzione e degli sforzi umanitari, la situazione in Afghanistan è peggiorata.
Le strade rimangono non edificate, una percentuale, seppure non altissima, di afgani rimane senza accesso ai servizi base, la disoccupazione è diffusa. Nel 2005 l'indice di sviluppo umano per l'Afghanistan era di 173 su 178 Paesi; oggi è di 181 su 182 Paesi.
La produzione di oppio è aumentata di 40 volte e i proventi della droga rappresentano oltre il 60 per cento dell'economia. L'Afghanistan ha il peggior record delle morti infantili e un'aspettativa di vita vicina ai 44 anni; questo nonostante le centinaia di miliardi di dollari che vengono spesi dalla NATO, una forza che sembra impotente a difendere la popolazione dalle attività di un gruppo di signori della guerra.
Quello degli aiuti internazionali è stato il problema principale discusso nella Conferenza dei donatori a Kabul del luglio 2010, che ha riunito circa 70 delegazioni di Paesi e rappresentanti delle istituzioni internazionali. Tra il 2002 e il 2009 l'Afghanistan ha ricevuto circa 40 miliardi di dollari di assistenza internazionale. Di questi, solo 6 miliardi sono passati dal Governo centrale del Paese. I rimanenti 34 sono stati veicolati dalle organizzazioni internazionali.
Una percentuale compresa tra il 70 e l'80 per cento di queste somme non ha mai raggiunto la popolazione afgana. La maggior parte degli aiuti che i contribuenti e i donatori europei e americani intendono destinare a uno dei popoli più poveri del mondo si perde lungo la catena della distribuzione e ritorna sotto altre forme, lecite e illecite, ai centri da cui è partita.
È bene avviare un'opera di refocusing, mettendo nel mirino il modus operandi delle principali agenzie di assistenza umanitaria e di sviluppo del sistema internazionale: dagli uffici per la cooperazione e lo sviluppo dei Paesi dell'Unione europea e degli USA fino alle grandi ONG che operano in Afghanistan.
Il Governo degli Stati Uniti ha anche istituito un Ispettorato generale sulla ricostruzione dell'Afghanistan, Sigar, che inizia a misurare l'impatto dei fondi stanziati per lo sviluppo del Paese, ricostruirne la mappa, prevenire e identificare gli abusi. Sulla scia di quanto stanno facendo gli Stati Uniti, necessitano forme di controllo più rigorose e un'indagine accurata sul miliardo di euro di aiuti civili che l'Unione europea e i Paesi membri destinano ogni anno all'Afghanistan. Nessuna pace duratura è possibile in Afghanistan senza una sostanziale riduzione della povertà e una lungimirante politica di sviluppo sostenibile.
Il recente rapporto dell'ONU sulla missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan, la relazione sulla protezione dei civili nei conflitti armati, rivela delle statistiche scioccanti: il numero dei civili uccisi in Afghanistan nei primi sei mesi del 2010 è salito del 31 per cento rispetto allo stesso periodo del 2009 a causa di un aumento del numero di azioni ostili intraprese da parte di elementi armati.
Secondo la Missione delle Nazioni Unite, l'UNAMA, le perdite umane in questo periodo ammontano a 1.271 morti e 1.977 feriti. Di queste, 3.268 vittime, il 76 per cento, è stato attribuito all'attività di anti-government elements (un aumento del 53 per cento) e il 12 per cento sono state causate dalle azioni di governo pro-elements (un calo del 30 per cento), mentre il numero di bambini uccisi o feriti è aumentato del 55 per cento. Pag. 23
Lo stesso rapporto afferma che i bombardamenti aerei della International security assistance force sono stati la causa principale delle perdite inflitte dagli elementi pro-governo, vale a dire 69 dei 223 civili morti e 45 feriti, anche se il numero delle vittime di questi attacchi era diminuito del 64 per cento nel corso all'anno.
Georgette Gagnon, direttore dei diritti dell'uomo per UNAMA ha dichiarato che «A nove anni nel conflitto, le misure per proteggere i civili afgani in modo efficace, per ridurre al minimo l'impatto del conflitto sulla base dei diritti umani, sono più urgenti che mai».
Invitando tutti gli interessati a fare di più per proteggere i civili, rispettando i loro obblighi di diritto internazionale, la relazione raccomanda che le forze militari internazionali dovrebbero rendere più trasparente la loro responsabilità nel caso di perdite umane e di essere più attente durante le attività aeree, che il Governo afgano dovrebbe creare un organismo speciale per rispondere degli incidenti e che i talebani devono cessare l'esecuzione di civili.
Secondo la Convenzione di Ginevra relativa alla protezione delle persone civili in tempo di guerra, le clausole prevedono chiaramente che le forze d'invasione hanno la responsabilità di proteggere i civili. Se dopo nove anni le vittime sono in aumento, allora risulta evidente per il sottoscritto un'incapacità della NATO di condurre le missioni con successo.
Tutto ciò viene evidenziato ed approfondito dall'Afghanistan Rights Monitor (ARM), l'osservatorio indipendente che pubblica il rapporto di metà anno sulle vittime civili del conflitto.
Nonostante le dichiarazioni di alto profilo a Washington e Kabul circa i progressi compiuti in Afghanistan, il popolo afgano ha solo assistito e sofferto un conflitto armato intensificatosi negli ultimi sei mesi. Contrariamente alla promessa del Presidente Barack Obama, secondo cui il dispiegamento di altre 30 mila forze USA nel Paese avrebbe dovuto «distruggere, smantellare e sconfiggere» definitivamente i ribelli talebani ed i loro alleati di Al Qaeda nella regione, l'insurrezione è diventata più elastica, più strutturata e mortale.
Le informazioni e i dati ricevuti, verificati e analizzati dall'Afghanistan Rights Monitor dimostrano che circa 1.074 persone civili sono rimaste uccise e oltre 1.500 sono rimaste ferite nella violenza armata e negli incidenti di sicurezza dal 1o gennaio al 30 giugno 2010. Questo mostra un lieve incremento del numero di morti civili, rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, quando 1.059 decessi sono stati registrati.
In termini di insicurezza, il 2010 è stato l'anno peggiore dalla caduta del regime talebano. Non solo, il numero di incidenti è stato maggiore, ma lo spazio la profondità della rivolta e le guerriglie connesse non aiutano a contrastare la violenza e hanno, altresì, ingrandito enormemente il pericolo per la sicurezza. Fino a 1.200 incidenti per la sicurezza sono stati registrati nel mese di giugno, il più alto numero di incidenti, rispetto ad un mese, dal 2002.
In mezzo a preoccupazioni diffuse circa la corruzione dilagante e l'abuso di potere da parte della polizia, la NATO non solo ha continuato ad assumere mal qualificati agenti, come riferito dai rapporti, ma ha ridotto il periodo di formazione a solo quattro settimane. La stragrande maggioranza delle forze di polizia è analfabeta e vi è una mancanza di conoscenze adeguate circa i fondamenti della polizia per i diritti civili e umani. Molti agenti di polizia sono tossicodipendenti o hanno famigerati precedenti penali.
La corruzione dominante e l'abuso di autorità da parte della polizia hanno un impatto devastante sugli individui e sulla comunità civile, che hanno un disperato bisogno di un senso di sicurezza, di protezione e di regole di diritto. La corruzione e l'abuso delle forze di polizia hanno anche contribuito alla criminalità diffusa, all'impunità penale e al diniego di accesso al popolo alla giustizia e ad altri servizi essenziali.
Da un recentissimo rapporto pubblicato da Human rights watch emerge che il Governo afgano e i suoi sostenitori internazionali Pag. 24hanno ignorato la necessità di tutelare le donne nei programmi per reintegrare i combattenti ribelli e non hanno garantito che i diritti delle donne saranno inclusi nei colloqui potenziali con i talebani. Il report affronta, tra l'altro, le sfide potenziali per i diritti delle donne derivanti da accordi di Governo futuri con le forze ribelli. Il rapporto descrive come nelle zone sotto controllo talebano le donne siano spesso vittime di minacce, intimidazioni e violenze, e donne leader politici e attiviste sono attaccati e uccisi impunemente.
«Le donne afgane non sono tenute a rinunciare propri diritti in modo che il Governo possa tracciare un accordo con i talebani», ha detto Tom Malinowski, direttore a Washington di Human rights watch. Sarebbe, infatti, un grave tradimento per i progressi compiuti dalle donne e per le donne e ragazze nel corso degli ultimi nove anni. Nelle zone di controllo o di influenza talebana, hanno minacciato e aggredito le donne nella vita pubblica e donne normali che lavorano fuori casa.
Vi sono pochi segni che finora il Governo del Presidente Hamid Karzai abbia adeguatamente risposto alle preoccupazioni di questi attacchi nei suoi programmi per reintegrare i ribelli.
Il Governo afgano ha offerto soltanto garanzie deboli per le donne che intendono salvaguardare la loro libertà, che hanno recuperato dopo la caduta del governo talebano. Nel marzo 2009, per esempio, ha firmato la discriminatoria e nel 2008 ha perdonato due gangs di stupratori per motivi politici.
Nonostante le promesse dei sostenitori internazionali dell'Afghanistan per promuovere i diritti delle donne, Human rights watch continua ad essere preoccupata che anche loro possano sacrificare i diritti delle donne, come parte di una strategia di uscita dall'Afghanistan. Il Governo afgano ha cercato di cooptare le fazioni dell'opposizione, offrendo loro l'impunità per i crimini di guerra e per altre violazioni del diritto internazionale. Ma la giustizia e la responsabilità dei crimini gravi dovrebbero essere al centro di ogni processo di riconciliazione con i talebani e altri insorti.
La relazione descrive le condizioni che dovrebbero essere incluse in qualsiasi reintegrazione e negoziazione o in un processo di riconciliazione per garantire i diritti alle donne. Lavorare, ottenere un'istruzione e impegnarsi nella vita politica dovrebbero essere fattori esplicitamente salvaguardati. Gli individui con una storia di gravi abusi contro le donne e le ragazze dovrebbero essere esclusi dal potere e i leader delle donne devono essere pienamente coinvolti nei processi decisionali sia per il reinserimento e la riconciliazione, in quanto essi stessi sono i migliori garanti dei loro diritti.
Human Rights Watch sostiene il documento redatto dalle donne afgane leader della società civile, emesso il 29 gennaio 2010. Esso comprende una serie di raccomandazioni. Le ricordo al Governo e evidentemente spero anche che qualcuno le ricordi al nostro Ministro della difesa.
Le donne dovrebbero essere consultate e rappresentate in tutte le autorità nazionali di sviluppo della pace e del programma di reinserimento; i Governi impegnati in Afghanistan per continuare lo sviluppo di una strategia di sicurezza nazionale devono essere coerenti con le risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell'ONU a favore delle donne e dei loro diritti nelle zone di conflitto, incluse le risoluzioni n. 1325, che riconosce fondamentale il ruolo delle donne per raggiungere pace e sicurezza, e le risoluzioni n. 1820 e n. 1888, sulla prevenzione e l'accusa di violenza sessuale nei conflitti armati, e la risoluzione n. 1889, che mira a promuovere la partecipazione delle donne durante il post-conflitto nei periodi di ricostruzione e elaborare un piano di azione nazionale per la pace e la sicurezza in cui le donne devono essere integrate come elemento centrale della politica di sicurezza nazionale.
Human Rights Watch chiede inoltre alle forze internazionali in Afghanistan di riconoscere che le vittime civili, le incursioni notturne e le pratiche di detenzione Pag. 25hanno contribuito ad alimentare la rivolta, e chiede di continuare gli sforzi per ridurre le morti inutili e di avviare indagini approfondite e di tenere conto del personale militare responsabile di atti illeciti; garantire che l'assistenza militare internazionale agli sforzi di reinserimento non aggravi l'impunità o la corruzione e che ogni impegno con le comunità o persone in cerca di reinserimento o di riconciliazione implichi adeguati controlli dei procedimenti per gravi accuse di violazioni dei diritti umani, compresi gli attacchi alle donne e all'istruzione delle ragazze.
Bisogna garantire una significativa partecipazione femminile nei pertinenti organi decisionali al fine di creare presupposti per il finanziamento di programmi di reinserimento e garantire che i fondi di reinserimento vadano a beneficio delle famiglie e delle comunità - comprese le donne - piuttosto che ai singoli ex combattenti. È necessario inoltre sollecitare il Governo afgano ad abrogare le leggi di amnistia e ad astenersi dal sostenere finanziariamente o pubblicamente qualsiasi processo di riconciliazione che non esclude le persone nei confronti delle quali vi sono accuse di crimini di guerra, crimini contro l'umanità e altre gravi violazioni dei diritti umani.
Un altro dato molto drammatico viene dalla condizione dei bambini in Afghanistan, che pagano il prezzo più alto. Infatti, secondo il rapporto di Watchlist on Children and armed conflict, un network di organizzazioni umanitarie che si batte contro le violazioni dei diritti minori nei Paesi colpiti da guerre e conflitti e di cui fu parte Save the children, l'Afghanistan è di giorno in giorno sempre meno un Paese per bambini.
Nel 2009 si contano circa 1.050 bambini uccisi in attacchi suicidi, raid aerei, in esplosioni di ordigni e di mine, negli scontri a fuoco tra le parti in guerra; oltre 200 mila minori sono sopravvissuti ad attacchi e attentati, ma hanno riportato ferite permanenti e disabilità. Spesso informazioni errate da parte dell'intelligence sono alla base di operazioni militari che finiscono con il procurare vittime innocenti piuttosto fra i civili che fra gruppi armati di opposizione. Questi, dal canto loro, attaccano scuole, ospedali, luoghi trafficati e colpiscono deliberatamente i civili per intimidirli ed indebolire il Governo, nonostante il codice talebano stabilisca che debba essere fatto il possibile per evitare morti di donne, uomini e bambini.
Il dato più preoccupante e drammatico emerge dal reclutamento dei bambini soldato che è documentato sia a carico delle forze di sicurezza afgana, sia dei gruppi di opposizione. Nel primo caso molti reclutamenti avvengono in presenza di certificati di nascita imprecisi o inesistenti, in mancanza di verifica adeguata dell'età e per la crescente domanda di personale fra le forze di polizia e nell'esercito regolare. I gruppi armati di opposizione impiegano i bambini soldato per farne dei combattenti, guardie, attentatori suicidi. Il reclutamento e l'addestramento avvengono soprattutto nella zona a confine con il Pakistan.
Bambini, inoltre, risultano essere stati tenuti prigionieri dalle Forze militari internazionali; sono stati almeno 90 i minorenni detenuti tra il 2000 ed il 2008. La vendita ed il trasferimento di minori sfruttati, per attività spesso illegali con il Pakistan o l'Iran, è documentata ampiamente e molte sparizioni e rapimenti di bambini in Afghanistan sono collegati al traffico di esseri umani. Talora, sono gli stessi familiari, ridotti in povertà, che vendono a reti criminali i propri figli. I minori vengono impiegati come corrieri o spacciatori di droga o di derrate alimentari. Talvolta, vengono rapiti dagli stessi sfruttatori o trafficanti, magari nei campi di sfollati interni dove si stima vivano circa 80 mila minori. Nel 2009, sarebbero stati oltre mille i bambini impiegati nel trasporto e trasferimento di farina dall'Afghanistan al Pakistan.
L'Afghanistan - lo ricordo - è il secondo Paese al mondo per tasso di mortalità infantile, con 257 bambini con meno di cinque anni morti su ogni mille nati vivi. È il Paese in cui mamme e bambini stanno peggio al mondo, secondo l'indice Pag. 26sullo stato delle madri di Save the Children. Ancora oggi, oltre il 70 per cento dei parti avviene in casa senza alcuna assistenza specializzata. Un dottore segue in media 5.500 pazienti. Molto preoccupante la diffusione ed il consumo di droga che, a volte, riguarda l'intera famiglia. Si calcolano in 60 mila i bambini sotto i 15 anni dipendenti da droga. Inadeguata è l'assistenza e la cura dei bambini tossicodipendenti ed anche di quelli colpiti da disturbi mentali o psicologici. Save the Children, la più grande organizzazione internazionale indipendente per la difesa e la promozione dei diritti umani e dei bambini, lancia un chiaro allarme e chiede che venga approntato un piano quinquennale per la protezione dei bambini con degli obiettivi misurabili come, per esempio, la riduzione dei numeri di attacchi alle scuole. Chiede, inoltre, che sia messo in opera un meccanismo per le vittime che renda facile la denuncia delle violazioni e accessibile l'informazione sul procedimento in corso.

PRESIDENTE. Concluda, onorevole Di Stanislao.

AUGUSTO DI STANISLAO. Sto per concludere, signor Presidente. Save the Children chiede, infine, la definizione di criteri chiari e validi ovunque per l'assegnazione di sussidi ai familiari delle vittime della guerra e delle violenze. Il successo degli sforzi per portare la pace in Afghanistan risiede nella nostra abilità nel proteggere i bambini di questa nazione. È urgente stabilire le giuste priorità per uscire da questa missione. Signor Presidente, parlando di donne e di bambini - cosa che non viene mai presa in considerazione nelle nostre discussioni e, soprattutto, nelle informative del Governo, del Ministro della difesa e del Ministro degli affari esteri - ho voluto fornire un quadro assolutamente allarmante, che ci deve far riflettere sulle nostre missioni internazionali. Se dipendesse dall'Italia dei Valori, preferiremmo votare la proroga delle missioni internazionali, nella speranza che sia l'ultima, per parti separate perché siamo d'accordo sulle altre, anche con alcune indicazioni che, poi, diremo domani, ma non siamo d'accordo su come viene gestita la fase in Afghanistan perché è assolutamente fuori dalla regia del nostro Paese, il quale non ha pari dignità rispetto agli altri.
Riteniamo che, ormai, siamo pienamente dentro ad un conflitto di guerra, quando siamo partiti con ben altre ambizioni e vocazioni e la mission era ben altra. Per cui noi, rispetto all'Afghanistan, siamo assolutamente contrari; per il resto, crediamo di aver fatto uno sforzo memorabile perché, per quanto riguarda le missioni, la cifra della nostra presenza, a livello internazionale, dà il senso dello Stato e anche (Commenti del deputato Barbieri)...

PRESIDENTE. Deve concludere, onorevole Di Stanislao.

AUGUSTO DI STANISLAO....della dignità di un'intera nazione. A questo non ci sottraiamo.

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e, pertanto, dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

(Repliche dei relatori e del Governo - A.C. 3996-A)

PRESIDENTE. Prendo atto che il relatore per la III Commissione, anche a nome del relatore per la IV Commissione, rinunzia alla replica. Ha facoltà di replicare il rappresentante del Governo, sottosegretario Scotti.

ENZO SCOTTI, Sottosegretario di Stato per gli affari esteri. Signor Presidente, onorevole colleghi, vorrei, innanzitutto, esprimere soddisfazione per il proficuo lavoro svolto dai relatori, onorevoli Dozzo e Cirielli, e dalle Commissioni esteri e difesa, che ha consentito di approvare, con ampie condivisioni, una serie di necessarie disposizioni funzionali a dare piena attuazione agli interventi di cooperazione e stabilizzazione previsti dal decreto-legge in Pag. 27esame in varie aree prioritarie per l'Italia, come ha ricordato prima l'onorevole Barbi. Come richiesto, fornirò una sintetica panoramica politica sui principali teatri in cui l'Italia partecipa ad operazioni internazionali di mantenimento della pace e di ricostruzione. Strategia seguita, in accordo con gli altri Paesi partecipanti all'operazione, e con tutti gli organismi multilaterali.
Infatti, la linea politica convintamente multilateralista è quella adottata dall'Italia. L'Italia è in prima linea nell'assicurare il proprio contributo in termini di risorse e di uomini alle attività con cui la comunità internazionale mira a stabilire le aree critiche del mondo. Si tratta di una linea ampiamente condivisa nel nostro Parlamento, che incontra un forte consenso anche nell'opinione pubblica nazionale. Il nostro apporto riceve di continuo numerosi apprezzamenti che hanno permesso di guadagnare ulteriore credibilità a livello internazionale. La nostra partecipazione a missioni di pace e di stabilizzazione ha una fondamentale valenza politica, confermandosi uno dei principali strumenti di politica estera che tuttora garantisce la nostra attiva presenza nei principali fori internazionali e di decisione strategica. L'approccio dell'Italia si distingue per lo sforzo di assicurare sinergie e complementarietà tra la dimensione militare e quella civile. Due componenti che devono avanzare di pari passo, integrandosi ed amalgamandosi per contribuire al raggiungimento dell'obiettivo di una duratura stabilizzazione. Non solo operazioni di sicurezza quindi, ma anche interventi in ambito umanitario di rafforzamento dello Stato di diritto, di sostegno alle amministrazioni locali, di consolidamento delle strutture di Governo e di miglioramento economico e sociale. Una strategia complessiva, che comprende interventi di alto valore politico quale il contributo alla grande battaglia di civiltà contro l'odioso fenomeno delle mutilazioni genitali femminili. Una visione integrata che corrisponde ad una scelta di fondo della politica estera e di sicurezza dell'Italia, che mira a tutelare i valori e gli interessi nazionali con un'attiva assunzione di responsabilità in ambito multilaterale al di fuori dei nostri confini.
È la nuova sfida che siamo chiamati a fronteggiare in un mondo sempre più interconnesso e caratterizzato da questioni di rilevanza globale. Un obiettivo che il nostro personale civile e i nostri soldati contribuiscono a perseguire in maniera determinante grazie all'abnegazione con cui svolgono il loro dovere quotidianamente con significative testimonianze di grande professionalità ed umanità e talvolta, come purtroppo è accaduto anche di recente, con un dolorosissimo contributo di sangue per il quale ribadiamo il nostro profondo cordoglio associandoci a tutti gli intervenuti in questo dibattito.
Signor Presidente, consegno la risposta sulle singole questioni e sui singoli teatri e le chiedo di autorizzare la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna del testo integrale del mio intervento. Concludendo, offrire una panoramica complessiva sui principali teatri di crisi in cui l'Italia è impegnata a portare sicurezza e sviluppo ci sembrava il modo migliore per contribuire al dibattito che si sta per aprire in vista della conversione del decreto-legge in esame (Applausi dei deputati del gruppo Popolo della Libertà).

PRESIDENTE. La Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti. Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.
Sospendo la seduta.

La seduta, sospesa alle 14,10, è ripresa alle 15,05.

Missioni.

PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del Regolamento, il deputato Migliavacca è in missione a decorrere dalla ripresa pomeridiana della seduta.
Pertanto i deputati in missione sono complessivamente sessantuno, come risulta Pag. 28dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.

Discussione delle mozioni Amici ed altri n. 1-00512 e Mura ed altri n. 1-00532 concernenti iniziative volte al contrasto di ogni forma di violenza nei confronti delle donne.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione delle mozioni Amici ed altri n. 1-00512 e Mura ed altri n. 1-00532 concernenti iniziative volte al contrasto di ogni forma di violenza nei confronti delle donne (Vedi l'allegato A - Mozioni).
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi per la discussione è pubblicato in calce al resoconto stenografico della seduta di giovedì 20 gennaio 2011.
Avverto che sono state altresì presentate le mozioni Binetti ed altri n. 1-00534, Saltamartini, Lussana, Polidori ed altri n. 1-00538 (Vedi l'allegato A - Mozioni) che, vertendo su materia analoga a quella trattata dalle mozioni all'ordine del giorno, verranno svolte congiuntamente. I relativi testi sono in distribuzione.

(Discussione sulle linee generali)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali delle mozioni.
È iscritta a parlare l'onorevole Sereni, che illustrerà anche la mozione n. 1-00512, di cui è cofirmataria. Ne ha facoltà.

MARINA SERENI. Signor Presidente, poco più di due anni fa, il 25 novembre 2008, questo Parlamento approvava all'unanimità il dispositivo di una mozione presentata dal gruppo del nostro partito, il Partito Democratico, che impegnava il Governo a presentare in Parlamento al più presto il piano d'azione elaborato dal Dipartimento per le pari opportunità in coordinamento con i ministeri competenti, la Conferenza Stato-regioni, le forze dell'ordine, i centri antiviolenza e gli operatori di giustizia, a prevedere per l'attuazione del piano adeguate risorse per il suo funzionamento (a partire dallo stanziamento già previsto nella finanziaria vigente, si diceva allora), nonché un aumento progressivo di quelle risorse e a promuovere (elenco i punti precisi di quella mozione): un programma di educazione e formazione al rispetto della donna, della persona e dei diritti umani a partire dalle scuole, la predisposizione di codici etici per l'informazione, la pubblicità e in generale per l'immagine femminile, più complessivamente per i linguaggi violenti e prevaricanti, iniziative volte a sensibilizzare l'opinione pubblica attraverso campagne informative sul tema della violenza contro le donne e a rendere le donne consapevoli degli strumenti a disposizione per la loro tutela, tra cui il sostegno dei numeri verdi, il potenziamento della rete dei centri antiviolenza presenti sul territorio nazionale che prestano un servizio di fondamentale importanza alle vittime di sopraffazione e di violenza, la previsione di iniziative specifiche per la formazione del personale sociosanitario, delle forze dell'ordine e degli operatori di giustizia, azioni positive per l'assistenza legale e psicologica delle vittime di violenza sessuale, infine iniziative legislative contro gli atti persecutori e la violenza sessuale attraverso l'introduzione di norme che garantiscano una seria azione di prevenzione, la certezza della pena e la tutela della dignità delle vittime dei reati.
Ho letto puntualmente quella mozione perché noi vorremmo che oggi la discussione si concentrasse su quei nodi, ragionasse cioè sulla concreta realtà del nostro Paese, avendo chiari sullo sfondo non soltanto i dati che l'ISTAT ha elaborato alcuni anni fa e che purtroppo non sono stati aggiornati per inadempienza dello stesso Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio, ma anche l'elenco drammatico delle violenze contro le donne che quasi quotidianamente le cronache ci consegnano. Pag. 29
Abbiamo salutato con soddisfazione, nell'aprile 2009, l'approvazione della legge contro lo stalking, nella cui discussione non abbiamo fatto mancare il nostro contributo fattivo e abbiamo sostenuto le misure volte all'inasprimento delle pene per alcuni reati connessi alla violenza di genere. Tuttavia, abbiamo sempre ritenuto inadeguato e del tutto insufficiente un approccio al fenomeno della violenza contro le donne che si limitasse alle norme penali e alla repressione e oggi dobbiamo dirci che se non si interverrà con grande urgenza e determinazione sul terreno delle politiche sociali, della prevenzione, del sostegno alle vittime, saremo costretti ad assistere ad un inaccettabile peggioramento della situazione. In questi mesi, infatti, le associazioni femminili e gli enti locali più sensibili hanno denunciato con forza il rischio che molti servizi destinati a prevenire la violenza contro le donne e a sostenere le vittime possano chiudere per la mancanza di fondi e di politiche adeguate.
Vogliamo essere molto nette sul giudizio, perché non si può giocare con un tema così delicato come questo. Sentiamo troppo spesso da alcuni esponenti della maggioranza e del Governo proclami altisonanti sulla sicurezza e sulla famiglia, a cui non seguono iniziative né scelte conseguenti.
Non si può, infatti, cavalcare la domanda legittima dei cittadini di sentirsi più sicuri nelle loro città e nei loro quartieri, soltanto quando si macchiano di reati immigrati extracomunitari. Non si può dire che la sicurezza è al primo posto, e poi lasciare che le forze dell'ordine non abbiano mezzi né strumenti per contrastare concretamente reati odiosi come quelli contro le donne e i minori. Non si può fare la difesa retorica della famiglia e, contemporaneamente, imporre ai comuni e alle regioni tagli alla rete del welfare locale, che finiscono per abbandonare al loro destino le famiglie più bisognose. Non si può difendere l'istituto della famiglia, senza saper vedere le patologie che nella famiglia, spesso, si producono e le cui vittime sono sempre le donne e i bambini.
Se vogliamo parlare di sicurezza e se vogliamo difendere quel nucleo di solidarietà primaria che la maggior parte delle famiglie rappresentano, dobbiamo, dunque, con più serietà, affrontare il capitolo della violenza di genere.
L'ISTAT, purtroppo, parla chiaro: sono quasi 7 milioni le donne dai 16 ai 70 anni, che sono rimaste vittime di molestie fisiche, psichiche o sessuali nel corso della loro vita e, circa un milione, quelle che hanno subito stupri o tentati stupri; oltre il 14 per cento delle donne ha subito almeno una violenza fisica o sessuale dal proprio partner; il 24,7 per cento delle donne ha subito violenza da un altro uomo, 2 milioni 77 mila donne hanno subito comportamenti persecutori; nella quasi totalità dei casi, le violenze non sono denunciate; ciò che possiamo definire come il «sommerso» è tuttora elevatissimo e raggiunge circa il 96 per cento delle violenze da un non partner e il 93 per cento di quelle da un partner.
A questo quadro, dobbiamo aggiungere la crescita agghiacciante degli episodi di femminicidio. A novembre 2010 - quindi, prima che finisse l'anno passato - erano già 115 le donne uccise, nella maggior parte dei casi, da un ex marito, convivente o fidanzato. Non raramente, la tragedia è l'ultimo atto di una lunga fase di molestie, nella quale la persona, la vittima, è stata lasciata sola.
Signor Presidente, colleghi, Ministra Carfagna, questo è il nostro assillo: non possiamo lasciare sole le donne che subiscono la violenza, non possiamo non intervenire prima e fermare la mano di quegli uomini, giovani e adulti, italiani e stranieri, che si accaniscono sul corpo femminile, che trattano le donne come una loro proprietà privata, che non riconoscono la dignità e la libertà femminile.
Il fenomeno della violenza contro le donne affonda le sue radici nell'assenza di una cultura del rispetto della persona e dei diritti umani inviolabili, in un clima che tollera l'uso del corpo femminile come un oggetto in vendita, che non educa i giovani a vivere con consapevolezza il rapporto tra i sessi, che non condanna, Pag. 30con la dovuta severità, comportamenti e messaggi che sviliscono la soggettività e l'immagine femminile.
Ecco perché nella nostra mozione, oggi, chiediamo - torniamo a chiedere - al Governo di predisporre campagne informative e formative; ma, soprattutto, chiediamo di intervenire subito con misure e fondi consistenti per impedire che chiudano, o riducano al lumicino, le loro attività i centri antiviolenza, come quelli di Genova, Catania, Palermo, Cosenza e tanti altri, al nord, al centro e al sud.
Nel 2009, sono state più di 49 mila le donne che hanno avuto un colloquio presso uno di questi centri e oltre 13 mila quelle che hanno chiesto ospitalità. Serve, dunque, un impegno concreto per un piano di intervento nazionale mirato, nell'immediato, al sostegno delle case rifugio e dei centri antiviolenza e, in prospettiva, a dare stabilità alla rete di questi servizi.
Signor Presidente, colleghi e colleghe, Ministro, vorrei che oggi pensassimo ad Emiliana Fermiano, uccisa dal suo ex convivente; a Sofia Spinelli, uccisa dallo zio a due mesi perché piangeva; a Adelina Ciavatta e Maria Giagnacovo, madre e cugina dell'uomo che le ha uccise; a Tiziana Falbo, uccisa dal convivente; a Natalina Rognoni, uccisa dal figlio; ad Angelica Cappelli, uccisa a 15 anni dal padre; a Lucia Lambertini, uccisa dal marito; a Rosa Reiterer, ammazzata dal genero; a Caterina Tugnoli, ammazzata da un uomo con il quale aveva avuto una relazione; a Eleonora Liberatore, uccisa a 37 anni dal suo ex compagno; a Allinca Elenea Rosu, accoltellata a morte dal marito; a Lea Garofalo sequestrata e sciolta nell'acido dal clan di cui faceva parte il suo ex convivente; a Kamila Lysadorska uccisa dall'ex fidanzato italiano; ad Anna De Pilla, picchiata a morte dal marito; ad Anna Maria Riva, uccisa dal figlio; ad Anna Maria Lotti ed Eva Bigalli, madre e figlia, accoltellate da un vicino di casa dopo mesi di molestie; a Paola Carlevaro strangolata dal marito; a Silvia Betti, uccisa dal marito da cui voleva separarsi; a Maricica Haianau colpita da un giovane italiano con un pugno che si rivelerà fatale; a Maria Luigia Pozzoli accoltellata da un uomo per banali dissidi; a Anna Spiridigliozzi, uccisa dal suocero; a Petronilla Sanfilippo, per la cui morte è stato arrestato il compagno; a Sarah Scazzi; a Beatrice Sulmoni, uccisa dal marito; a Shahnaz Begum uccisa a sassate dal marito. Potrei continuare a lungo: questi sono i nomi delle donne uccise nei soli mesi di ottobre e novembre del 2010. Un elenco agghiacciante, che non possiamo rimuovere, di cui si parla poco, molto poco nei talk show che vediamo tutte le sere e di cui - mi spiace dirlo - parlano poco anche i ministri di questo Governo, a cominciare da chi ha la competenza primaria.
Ecco, vorrei che oggi prendessimo impegni concreti per impedire che quell'elenco si allunghi e scegliessimo di stare dalla parte delle donne normali, Ministro Carfagna, di quelle donne che ogni giorno escono presto da casa per andare al lavoro o a scuola, allevano i figli tra mille problemi e magari si trovano alla sera di fronte ad un uomo violento, per strada o, peggio ancora, dentro le mura domestiche (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Mura, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00532. Ne ha facoltà.

SILVANA MURA. Signor Presidente, signor Ministro, colleghi, il tema relativo ai diritti delle donne e alle violenze alle quali sovente sono ancora sottoposte è di grandissima rilevanza civile, prima ancora che politica. È dunque positivo e - direi, anzi - doveroso che il Parlamento, e in particolare la Camera dei deputati, dedichino a questo tema un apposito dibattito.
Se si guarda la condizione femminile avendo come riferimento il mondo intero, non c'è dubbio che in molti casi la tutela e l'affermazione dei diritti della donna coincidano con la tutela e l'affermazione dei diritti umani. La religione, i costumi, il diritto e la cultura, a seconda dei casi, sono gli strumenti utilizzati in maniera del tutto distorta per discriminare la condizione della donna rispetto alla condizione Pag. 31dell'uomo. Per questo, in alcuni Stati del mondo, ci sono bambine costrette a subire mutilazioni genitali, che, oltre a essere una vera e propria tortura, mettono a serio rischio la vita stessa di queste bambine.
In altre parti del mondo, invece, la donna è ancora considerata un oggetto di esclusiva proprietà dell'uomo. Non solo i casi di adulterio sono considerati veri e propri reati e come tali punibili, in alcuni casi, con la pena capitale e con una morte orrenda come la lapidazione, ma anche il semplice rifiuto opposto da una giovane donna ad uno spasimante, magari impostole dalla sua stessa famiglia, può essere considerato alla stregua di un oltraggio e, dunque, punito in maniera efferata, ad esempio sfregiando la donna stessa con l'acido.
Sembrano cose orribili, cose lontane, ma sono episodi che, purtroppo, sono molto attuali e che continuano a ripetersi con una certa frequenza. Questi episodi, tuttavia, rappresentano solo una parziale casistica della cosiddetta violenza sulle donne intesa nella sua accezione più ampia.
Vi è tutta una serie di violenze fisiche, morali, sociali e psicologiche che si consuma in altre parti del mondo, magari in forma meno evidente, meno eclatante, ma non per questo meno grave.
Le differenze tra le diverse parti del mondo, in particolare quelle economiche e culturali, sono evidenti, si manifestano: vi sono Paesi, in gran parte quelli occidentali, altamente industrializzati, che si distinguono nettamente da quelli comunemente chiamati del terzo e del quarto mondo. Sono differenze in alcuni casi eccessive, ingiuste, per quanto attiene alla ricchezza pro capite, alla condizione delle popolazioni e alle loro aspettative di vita; a fronte delle quali però è presente una sottile linea rossa, vi è un minimo comune denominatore, del quale tutti farebbero volentieri a meno, e che riguarda proprio le violenze e le discriminazioni nei confronti delle donne. Basta citare alcuni esempi per rendersene conto.
Secondo l'ONU, in soli quattro giorni, tra il 30 luglio e il 2 agosto 2010, sono state oltre 4500 le donne e le bambine violentate nella Repubblica Democratica del Congo. In Europa sono 62 milioni le donne che sono state vittime di violenza fisica almeno una volta nella vita; in Francia ogni quattro giorni muore una donna a causa delle percosse subite dal marito o dal convivente, mentre in Belgio una donna su sette è stata vittima di almeno un atto di violenza da parte del suo partner nel corso degli ultimi dodici mesi. Chiaramente anche l'Italia ha le sue tristi statistiche e su questo mi soffermerò tra breve, ma gli esempi che ho citato sono utili ad inquadrare il fenomeno che stiamo affrontando. La violenza e più in generale la discriminazione ai danni delle donne non sono legate all'arretratezza o allo sviluppo di un Paese, sono purtroppo presenti tanto nell'una quanto nell'altra situazione con l'unica differenza della maniera in cui queste violenze si manifestano.
Per quanto riguarda l'Italia, l'ultima indagine ISTAT è del 2007 e ci dice che sono 6 milioni 743 mila le donne fra i 16 e i 70 anni che sono state vittime, almeno una volta nella vita, di violenza fisica o sessuale. Tra le forme di violenza sessuale vere e proprie le più diffuse sono le molestie fisiche, ovvero aver dovuto subire palpeggiamenti sessuali contro la propria volontà e la percentuale che purtroppo riguarda queste forme di violenza è del 79,5 per cento delle donne vittime di violenza; segue l'aver dovuto subire rapporti sessuali non desiderati e quindi vissuti con violenza, parliamo del 19 per cento delle donne vittime di violenza; il tentato stupro rappresenta il 14 per cento e lo stupro vero e proprio il 9 per cento. Sul totale degli stupri effettuati il 69,7 per cento purtroppo è commesso da partner o da ex partner, se a ciò si aggiunge che un altro 17 per cento di stupri è opera comunque di un conoscente, ci si accorge come il caso tipicamente criminale dello stupratore sconosciuto, che individua la sua preda in luoghi pubblici e l'aggredisce a tradimento, è abbastanza limitato ed è pari al 6,2 per cento del totale. Pag. 32
Preoccupanti sono anche i dati relativi alle violenze domestiche che risultano di solito molto gravi. Il 34 per cento delle donne ha dichiarato che la violenza subita è stata molto grave, il 21,3 per cento delle donne ha avuto la sensazione che la sua vita fosse in pericolo in occasione della violenza subita. Un dato più degli altri è emblematico e al tempo stesso rivelatore; solo il 18 per cento delle donne considera la violenza subita in famiglia un reato. Si capisce dunque perché il fenomeno della violenza sessuale e quella che avviene all'interno delle mura domestiche tenda a rimanere nella quasi totalità sommerso.
Le cifre fornite dall'ISTAT sono certamente sufficienti a farci capire la gravità del problema che stiamo affrontando ma al tempo stesso ci devono fare riflettere. Ci dobbiamo chiedere come mai, per un tema così attuale come quello della violenza sulle donne, i dati di cui stiamo parlando risalgano a quattro anni fa e come mai non esistano indagini ufficiali più recenti per esaminare questo problema.
Ci dovremmo anche domandare che senso abbiano, al di là della pura testimonianza, mozioni elaborate sugli stessi dati e dibattiti in cui in gran parte ripetiamo sempre le stesse cose. Personalmente ritengo che la testimonianza sia comunque importante, ma è necessario andare oltre, se davvero si vuole provare a combattere questo orrendo fenomeno.
In questo senso, almeno per quanto riguarda il nostro Paese, limitarsi esclusivamente a parlare della violenza sessuale credo sia limitativo e fuorviante. La violenza sessuale è sicuramente un reato efferato e crudele e come tale deve essere contrastato con la massima severità. Ma per quanti sforzi si possano fare sarà impossibile ottenere risultati di rilievo se si affronta la questione solo sotto il profilo repressivo e dell'ordine pubblico.
La violenza fisica e sessuale sulle donne rappresenta certamente un fenomeno criminale, ma è la conseguenza distorta e aberrante di pregiudizi e discriminazioni di lunghissimo periodo. Il problema deve essere affrontato anche e soprattutto sotto il profilo culturale e sociale, se si vuole contrastare alla radice anche l'aspetto più biecamente criminale e brutale. In questo senso è necessario affrontare e risolvere quanto prima le troppe disparità tra uomo e donna che purtroppo persistono ancora nella nostra società, ed è qui infatti che sta il nocciolo del problema.
Soprattutto ritengo che non possiamo - perché saremmo veramente ipocriti - permetterci di fare finta di niente, trascurando quanto sta accadendo in questi giorni e quanto è avvenuto negli ultimi due anni. So di toccare un tema delicato, che rischia di essere frainteso e magari di spostare l'attenzione dal tema che stiamo affrontando; corro però questo rischio, perché non posso esimermi dal porre una questione fondamentale, ovvero se il comportamento del Presidente del Consiglio ormai di dominio pubblico (perché in questi giorni ne abbiamo sentite veramente di cose) abbia arrecato o meno danno all'immagine e alla credibilità di noi donne.
L'aspetto giudiziario qui non c'entra nulla: se sono stati commessi dei reati toccherà naturalmente alla magistratura accertarli e fino a una sentenza passata in giudicato vale la presunzione di innocenza, ma l'aspetto politico e sociale delle vicende che in questi giorni hanno riempito le pagine dei giornali italiani e soprattutto stranieri non può essere trascurato nel momento in cui affrontiamo la condizione delle donne in Italia e soprattutto quando i gruppi parlamentari hanno presentato delle mozioni che impegnano il Governo a tutelare i diritti delle donne.
L'effetto di queste vicende, come di quelle emerse in questi anni, è a mio avviso deleterio per le donne e rischia di produrre degli effetti negativi per molto tempo. Si tratta di un giudizio che non è solo mio, visto che critiche in questo senso sono giunte anche dalla responsabile nazionale per il coordinamento donne delle Acli, Agnese Ranghelli, un giudizio che merita di essere citato testualmente. «Ci indigna e dovrebbe indignare tutti la riproposizione di un modello femminile legato esclusivamente allo sfruttamento e alla mercificazione del corpo, che deturpa Pag. 33l'immagine delle donne, in spregio alle tantissime giovani che portano avanti con dignità la loro vita, alle donne che faticosamente e onestamente lavorano per aggiungere valore alla nostra società, in spregio anche alla storia del nostro Paese, nell'anno in cui celebriamo il suo 150o anniversario e ripensiamo al percorso difficile di emancipazione compiuto dalle donne e al contributo decisivo che hanno dato all'Italia e alla democrazia. Preoccupano soprattutto le ricadute sul piano educativo con la proposizione ossessiva di un modello fondato sull'apparire, sul successo e sui soldi ottenuti non importa come. Sembriamo tornate all'anno zero ed il silenzio e la sottovalutazione di questo aspetto da parte delle donne impegnate in politica, con incarichi di Governo, provoca angoscia e inquietudine».
Da donna impegnata in politica condivido parola per parola l'allarme lanciato dalle Acli ed è per questo che non ho voluto tacere davanti ad una vicenda che rischia di produrre un doppio ordine di danni. Da un lato, infatti, si rischia che diventino ancora più radicati e difficili da rimuovere stereotipi e pregiudizi nei confronti delle donne.
Si corre il rischio di rendere ancora più difficili gli avanzamenti di carriera e di favorire ed incentivare comportamenti non consoni che già purtroppo si registrano da parte di colleghi e superiori. Dall'altro lato, poi - è l'aspetto più preoccupante - c'è il forte rischio di far ritenere a queste giovani donne che, per assicurarsi un futuro, esistano strade diverse e più facili di quelle dello studio e della preparazione professionale.
Si è spesso parlato in questi anni in maniera giustamente critica del fenomeno del cosiddetto «velinismo», imposto dai modelli imperanti della televisione pubblica e privata. Ma oggi rischiamo seriamente di trovarci di fronte ad un'ulteriore evoluzione di questo fenomeno, senz'altro non edificante. Non sarà facile recuperare il terreno perduto. Per farlo, sarà necessario fare delle pari opportunità una priorità degli obiettivi dell'azione di governo.
Si tratta di un compito che purtroppo dovrà essere rimandato ad un futuro che si spera prossimo, dal momento che il Governo Berlusconi non ha voluto e non ha saputo assolverlo e, al punto in cui siamo arrivati, non sarebbe più credibile anche se ci provasse ora (Applausi dei deputati del gruppo Italia dei Valori).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Bergamini, che illustrerà anche la mozione Saltamartini, Lussana, Polidori ed altri n. 1-00538, di cui è cofirmataria. Ne ha facoltà.

DEBORAH BERGAMINI. Signor Presidente, nell'illustrare la mozione di maggioranza che impegna il Governo a continuare la sua attività a tutela dell'incolumità femminile, vorrei citare alcuni dati che solo apparentemente sono lontani dall'oggetto di questa discussione. Nel 2010 in Italia la quota di aziende al femminile è passata dal 20 per cento del 2000 all'attuale 25,5 per cento. Negli ultimi quattro anni le imprese femminili sono cresciute quasi del 6 per cento a fronte del 3 per cento medio.
Le aziende femminili hanno sostenuto meglio delle altre l'attuale crisi economica con un saldo positivo addirittura per il sud del nostro Paese. Il 16 per cento delle lavoratrici italiane è costituito da autonome o imprenditrici ed è un record assoluto, perché la media europea è del 10 per cento. A ciò si debbono aggiungere altri due elementi: in primo luogo, l'imprenditoria femminile ha tassi di redditività superiori alla media. In secondo luogo, quando le donne entrano nel mercato creano nuovi posti di lavoro. Si calcola che nascano 15 posti di lavoro per ogni 100 donne che si impegnano professionalmente.
In buona sostanza, l'aumento dell'occupazione femminile accresce in modo significativo la ricchezza nazionale. Oltre a questi dati raccolti dalla Camera di commercio di Milano, vanno segnalati i tassi di istruzione che vedono le donne italiane svettare per qualità e quantità sui diplomati e laureati di sesso maschile, per non Pag. 34parlare dell'eccellenza femminile nel settore della ricerca scientifica ed universitaria.
Ho voluto disegnare questo quadro perché è tempo che si affronti la questione della violenza delle donne al di là dei vecchi modelli interpretativi di certa sociologia politica, ossia la donna come categoria a sé stante, come elemento staccato dal corpo sociale, politico, intellettuale e produttivo, come una sorta di anello debole e bisognoso nella sua totalità di politiche di supporto a prescindere, poiché privo di libertà, di autonomia, di indipendenza e di forza. Non è così. Non è più così di certo nella maggioranza dei casi. Oggi conosciamo un'epoca dove per fortuna le donne occidentali si sono finalmente liberate dal fardello di modelli imposti o autoimposti, figli certamente di stereotipi culturali da una parte e di una certa ingegneria ideologica dall'altra.
Si tratta di un'epoca in cui appare del tutto anacronistico (e direi anche forzato) cercare al di fuori della vita delle donne le cause delle loro sofferenze, attraverso riferimenti più o meno retorici a non ben chiare forme di espiazione e di male assoluto. Fare questo significherebbe sfruttare, ancora in via del tutto demagogica e, quel che è più grave, evanescente, quei drammi di cui invece la politica come luogo della risposta intende oggi farsi carico con un rinnovato spirito di concretezza.
Dico questo perché non ci può essere e non può esistere dignità delle donne - una perifrasi abusata in qualsiasi contesto legislativo e culturale legato alle pari opportunità - senza che vi sia nei fatti la reale affermazione della dignità, della dignitas, quel sentimento di rispetto e di onore che non ci è dato dalla nostra famiglia d'origine né dalla società o dalle istituzioni, né dagli altri ma da noi stessi e dalle scelte che compiamo ogni giorno.
La dignità è un dato prima di tutto personale, come testimonia il quadro di sviluppo e progresso che ho disegnato poco fa e che fotografa un insieme di donne e di persone, appunto, in grado perfettamente di sostenere, con le loro capacità, l'economia ed il futuro del nostro Paese anche se tra mille difficoltà. È, dunque, la donna come persona che il Governo ha guardato in questi mesi, con una serie di risposte forti ed efficaci, dirette a tutelare la persona dalla conflittualità che ancora oggi costringe, in primo luogo, ancora le donne al dolore della fatica, della violenza e del terrore psicologico. Si tratta di una conflittualità che il mondo globale conosce senza distinzioni in un momento storico in cui il sistema di crescita incontrollata non ha saputo eliminare, con gli adeguati strumenti del benessere, le contraddizioni interne ancora molto forti alle società e alle famiglie dell'era postindustriale. Come mostrano i dati che sono riportati nella mozione che sto illustrando, sono le donne a pagare ovunque, nel mondo come nel nostro Paese, per prime e forse più del passato, la violenza reattiva, fisica o psicologica, di familiari, compagni e datori di lavoro. Di dati ne abbiamo già forniti tanti ma ne aggiungo uno, quello che ci mostra l'Organizzazione mondiale della Sanità, secondo il quale una donna su cinque ha subito abusi fisici o sessuali da parte di un uomo. Nel mondo viene uccisa una donna ogni 8 minuti e nel 50 per cento dei casi è vittima di un partner. La violenza subita da mariti, fidanzati e padri è la prima causa di morte e di invalidità permanente per le donne tra i 16 e i 44 anni, più del cancro, più degli incidenti stradali e più della guerra.
Vorrei anche aggiungere che proprio in questi mesi, in sede di Consiglio d'Europa, è in discussione, attraverso un comitato di esperti governativi, una Convenzione finalizzata alla prevenzione e alla lotta contro la violenza domestica nei confronti delle donne, alla tutela e al sostegno delle vittime di tali atti nonché al perseguimento penale degli autori di reato. Questo segue una campagna triennale di comunicazione che il Consiglio d'Europa ha fortemente voluto perché le donne hanno, ancora oggi, difficoltà a riconoscere la violenza subita come elemento estraneo al rapporto di coppia e come violazione dei propri diritti e della propria libertà personale. Pag. 35La nostra cultura, addirittura, continua a colpevolizzare le donne che denunciano e a non riconoscere come violazione dei diritti umani la violazione dei diritti delle donne.
Non è, quindi, un caso che il Governo nella presente legislatura si sia distinto per un impegno che non ha precedenti nella storia della nostra Repubblica, mirato a mettere in campo misure di contrasto contro ogni forma di violenza. In particolare, a questo Governo va il merito di aver trovato strumenti legislativi efficaci per intervenire direttamente sull'ordine e sulla sicurezza delle cittadine italiane, punendo i responsabili, dotando le forze di polizia di maggiori mezzi di indagine e repressione e applicando strumenti capaci di garantire l'integrazione di quelle donne immigrate maggiormente colpite dalla violenza maschile per motivi religiosi o culturali. Cito soltanto alcuni di questi strumenti, ovviamente per questioni di tempo: il Piano nazionale contro la violenza di genere e lo stalking, che consentirà di rispondere più efficacemente alle richieste di aiuto che provengono dalle donne, tra l'altro destinando risorse importanti al potenziamento proprio dei centri antiviolenza, di cui parlava prima la collega Sereni, oltre a svolgere un attento lavoro, fondamentale e importantissimo, di prevenzione e sensibilizzazione dell'opinione pubblica sul fenomeno. Poi va ricordata la legge che ha istituito il reato di stalking e ha contestualmente istituito la sezione atti persecutori, una task-force per il contrasto a questo reato. Voglio ricordare che questa legge ha, inoltre, previsto ulteriori interventi in materia di violenza sessuale, tra i quali l'arresto obbligatorio in flagranza, esclusi i casi di minore gravità, per la violenza sessuale e la violenza sessuale di gruppo.
Voglio ricordare che nella sua costante azione di contrasto ad ogni forma di violenza il Governo ha avuto il supporto del Parlamento che, come è accaduto per quanto riguarda le norme relative allo stalking, ha approvato una serie di misure, riportate nel testo della mozione, che hanno trovato anche l'unanimità delle forze politiche.
È diritto di ciascun individuo e cittadino vivere in sicurezza, avendo la possibilità di sentirsi tutelati dalla legge e dalla forza dello Stato. Questo consente di abbattere le differenze di genere - è quello che vogliamo, no? - e rendere la dignità delle donne non solo una bella frase da convegno ma una realtà su cui contare. Per questo motivo, la maggioranza intende chiedere al Governo di proseguire nella sua azione nella direzione sin qui descritta, poiché la sicurezza della libertà personale è il primo indispensabile elemento di parità, progresso e benessere delle donne tutte.
Da donna impegnata in politica, infine, rivolgo un auspicio, un semplice auspicio, ossia che le donne non cadano nella tentazione di strumentalizzare le loro simili per fini di mero calcolo politico (Applausi dei deputati dei gruppi Popolo della Libertà, Lega Nord Padania e Iniziativa Responsabile).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Capitanio Santolini, che illustrerà anche la mozione Binetti ed altri n. 1-00534, di cui è cofirmataria. Ne ha facoltà.

LUISA CAPITANIO SANTOLINI. Signor Presidente, stiamo discutendo di un argomento che, ahimè, non è nuovo; si tratta di un argomento che dovrebbe appassionare forse in maniera più incisiva l'opinione pubblica - e non mi pare che ciò avvenga - e che dovrebbe in qualche modo mettere a disagio, per i dati che ci vengono forniti anche dall'ISTAT. Invece, mi pare che questo sia un argomento di secondo livello perché mi sembra strano che, sistematicamente e periodicamente, arriviamo a discutere di questo problema, ma sistematicamente e periodicamente e non - insisto - per la prima volta, affrontiamo il problema della violenza contro le donne, senza, non dico risolvere, ma nemmeno diminuirlo nei suoi effetti, nelle sue cause e nei suoi esiti. Quindi, il fatto Pag. 36che siamo qui, ancora una volta, a discutere di questi argomenti - dovremmo interrogarci su questo - la dice lunga sulla cattiva coscienza di tutti noi nei confronti di un tema così importante.
La violenza sulle donne è un problema diffuso - lo sappiamo - e non risparmia nessun Paese e nessuna Nazione; non credo che possiamo dire che in Italia vi sia una situazione peggiore rispetto ad altri Paesi. Non risparmia nessun ceto sociale, nessuna realtà, nessuna classe sociale e quindi anche questo è un dato che secondo l'Organizzazione mondiale della sanità dobbiamo tenere presente. Sempre la medesima Organizzazione mondiale della sanità dice che una donna su cinque ha subito nella sua vita abusi fisici o sessuali da parte di un uomo: già questa mi sembra una cifra che dovrebbe farci interrogare molto. Continuando con i dati dell'Organizzazione mondiale della sanità, i fattori che sono all'origine della violenza sulle donne sono la bassa posizione socio-economica, la bassa istruzione, la dipendenza da sostanze, un cattivo funzionamento della famiglia, rapporti familiari difficili, una marcata diseguaglianza nella comunità, nel senso di una considerazione scarsa nei confronti delle donne nella comunità in cui si vive, e una scarsa coesione sociale. Da questi dati si capisce che queste situazioni siano foriere di violenza sulle donne. Queste società, queste situazioni, queste difficoltà familiari, queste dipendenze da sostanze, questi disagi generalizzati e collettivi in qualche modo conferiscono insufficiente autonomia alle donne, insufficiente autostima e insufficiente indipendenza. Tuttavia, non basta perché - come vedremo dopo - tutte queste sono certamente cause profonde, ma non sono l'unica ragione di questa violenza.
A livello di Organizzazione mondiale della sanità è stato redatto una sorta di libro nero dei diritti umani delle donne, un libro nero di sopraffazione, nel quale si denuncia che il rispetto dei diritti umani delle donne è ampiamente disatteso e che manca il riconoscimento dei diritti umani e civili delle persone ed in particolare delle donne.
Si denuncia che ciò rappresenta la cifra di civiltà a cui un Paese giunge e, se questo è vero, la cifra di civiltà del mondo occidentale non ne viene fuori in maniera brillante. Se la cifra di civiltà di un popolo è anche la violenza sulle donne, credo che dobbiamo fare ancora molta strada per sentirci orgogliosi di noi stessi. D'altro canto, si tratta di diritti umani sanciti - è superfluo ricordarlo - dalla Costituzione italiana e dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo.
Credo che dobbiamo passare a un discorso costruttivo e propositivo. La prima affermazione che mi sembra possiamo tutti condividere è di educare tutte le società, in Italia ma anche all'estero e dovunque sia possibile, ai valori dell'uguaglianza e del rispetto della persona umana, senza distinzioni - come si dice sempre - di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche e di condizioni personali e sociali, perché è chiaro che se il problema culturale è un problema di fondo, dobbiamo partire da lì per fare un discorso serio e a lunga scadenza. Se non affrontiamo il problema culturale credo che qualsiasi iniziativa, anche del Governo che ha le migliori intenzioni possibili e immaginabili, rischia di cadere nel vuoto.
È un problema culturale il fatto che la donna sia discriminata, sottovalutata e considerata una minoranza minoritaria e un essere «minore». Credo, pertanto, che dobbiamo affrontare prima di tutto e soprattutto il problema culturale, che riguarda anche - e mi piace sottolinearlo in questa sede e insisto che non è la prima volta, ma mi pare che gli esiti non siano stati brillanti - lo sfruttamento nella pubblicità della donna, l'industria del consumo e l'industria del divertimento. Non possiamo immaginare di dissociare questi argomenti rispetto a un discorso generico sulla violenza sulle donne, non si può semplicemente continuare a elencare - come giustamente è stato fatto anche dalle colleghe che mi hanno preceduto e che seguiranno e lo faccio io stessa - cifre su Pag. 37cifre, con dati preoccupanti, senza pensare anche all'aspetto culturale che va affrontato alla radice, rischiando l'impopolarità e provvedimenti che non saranno graditi.
Il problema dello sfruttamento nella pubblicità, il problema dell'industria del consumo e del divertimento, a mio avviso, sono tre questioni cruciali che non possono non essere affrontate in questa sede, quando si parla di violenza sulle donne.
Altra questione di tipo culturale che mi sembra di dover sottolineare in questa sede - e che mi preme molto - è che, sulla base dei dati ISTAT e non solo, molto spesso teatro della violenza sulle donne è l'ambito familiare. Tutti sanno quanto io mi batta quotidianamente a favore delle famiglie e questo dato ovviamente non può che far piacere, non solo a me, ma credo a tutti coloro che hanno a cuore il futuro delle famiglie italiane.
È vero che teatro delle violenze è l'ambito familiare, però non vorrei che questo dato autorizzasse qualcuno a pensare che la famiglia è luogo di violenza, di massacri e di negazione dei diritti della persona.
Certamente, la violenza di prossimità - così si chiama - è una violenza a portata di mano, facile da espletare. È evidente che una persona violenta, se è tale, ha alla propria portata la vittima in maniera facilissima e per di più anche riservata. Non trattandosi di un luogo pubblico, può esercitare la propria violenza quanto e come vuole. Ma non vorrei - ripeto - che da ciò si dovesse dedurre che la famiglia è violenta. Non è così, quindi mi preme sottolinearlo. Ci sono famiglie in cui ci sono persone violente e queste vanno perseguite, punite, carcerate e denunciate, ma la famiglia in quanto tale non è luogo di violenza e di orrori. Vorrei sottolinearlo perché poi tutte le occasioni sono buone per dire che la famiglia non esiste, che è arrivata a fine corsa e che non ha più un ruolo sociale, essendo una realtà da superare viste le violenze che in essa avvengono.
Il sommerso è certamente molto elevato. Sono la prima a dire che bisogna intervenire severamente nelle famiglie dove avvengono questi episodi e anche che qui vi è un problema culturale. Affrontiamo questo problema anche dicendo alle donne di denunciare le violenze. Ancora oggi, troppo spesso, negli ospedali italiani, nei centri di polizia, nei centri di accoglienza, dovunque le donne che hanno subito violenza vengono ascoltate, le donne negano di avere subito violenza da un proprio familiare. È un fatto culturale che va assolutamente superato, perché queste donne evidentemente hanno un problema di pudore, di paura, di giudizio sociale, hanno timore di essere considerate negativamente, di avere uno stigma per tutta la vita. Quindi, tutte queste considerazioni frenano le donne dall'avere coraggio e volontà di denunciare coloro che hanno usato violenza.
Il sommerso quindi è elevatissimo ed è anche molto alta la quota di donne che non parla con nessuno di quello che hanno subito. Dunque, dobbiamo lavorare in questa direzione e cercare in tutti i modi di affrontare questo fenomeno così negativo anche da questo punto di vista. Il fenomeno della violenza fisica e sessuale degli uomini contro le donne ha riguardato un terzo delle donne che vivono in Italia. Sono cifre che lasciano veramente interdetti. Sono 6 milioni e 743 mila le donne vittime delle violenze nel corso della propria vita. Tra queste, 4 milioni di donne hanno subito violenza fisica, mentre circa 5 milioni hanno subito violenza sessuale. Se tra le violenze sessuali consideriamo solo lo stupro o il tentato stupro, la percentuale di vittime è del 4,8 per cento e corrisponde ad un milione di donne. Sono certamente troppe, non sono solo tante, sono proprio troppe. Dunque, dobbiamo agire in tutte le direzioni.
Un altro dato che ci deve far riflettere e per il quale insisto sul fattore culturale è che le donne vittime di abusi sessuali o di stupri sono, nel 45 per cento dei casi, donne divorziate, con una laurea o con lavori di responsabilità. In genere si pensa che le donne che subiscono violenza siano donne - lo abbiamo detto prima - con una situazione sociale difficile, con scarsa istruzione, scarsa consapevolezza di sé. Pag. 38
Invece, qui si dice che il 45 per cento dei casi sono donne con laurea e lavori di responsabilità - è chiaro, il 55 per cento sono donne disagiate, ma la cifra è molto alta per donne che sono responsabili di se stesse - e nel 64 per cento dei casi abitano al centro nord.
Questo dato cambia l'immaginario collettivo. Evidentemente, le donne che si pensa dovrebbero essere più libere, più emancipate, meno soggette a queste problematiche, e che dovrebbero essere, in qualche modo, più capaci di difendersi, più all'altezza della difficoltà dei nostri tempi, quelle che hanno una possibilità economica maggiore e che dovrebbero essere in qualche modo più garantite e più indipendenti, purtroppo, risultano essere vittime di questi casi di violenza.
Evidentemente, le cosiddette donne in carriera mostrano delle fragilità e delle difficoltà a livello personale: hanno problemi relazionali ed evidentemente hanno qualche difficoltà, se hanno una così alta percentuale di possibilità di diventare vittime di violenze intrafamiliari. Sono - lo abbiamo detto - donne in carriera, non solamente in famiglia, ma sono anche donne sole, che magari si sono trasferite al nord per la carriera, per la voglia di emergere, per affermare e poter esercitare la loro competenza dovuta alla laurea o agli studi che hanno fatto.
Queste donne sono sempre meno protette dalla famiglia di origine: vivono sole, in città sempre più affollate, impersonali ed anonime e, molto spesso, non riescono a difendere neanche se stesse.
La Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, che, come si sa, è stata celebrata il 25 novembre, ha messo in luce tutte queste cose e ha mostrato anche che stanno aumentando le richieste di aiuto e le richieste di sostegno, anche ai centri antiviolenza.
Infine, alcuni dati certamente ci devono far riflettere sul fatto che vi sono delle conseguenze devastanti sulle donne che hanno subito violenza e che molto spesso - lo abbiamo detto - non ne parlano. Infatti, l'81 per cento delle donne che si sono suicidate era vittima di abusi. Il suicidio è l'extrema ratio, l'estremo gesto davanti alla difficoltà e all'impossibilità di convivere con questa esperienza così drammatica. Quelle che non arrivano a questo gesto estremo hanno altri disturbi importanti, che sono la sindrome post-traumatica da stress, disturbi del sonno, problematiche alimentari gravi e una pericolosa tendenza ad isolarsi socialmente.
Dobbiamo prendere atto di questa situazione: dò atto al Ministro Carfagna di essersi molto impegnata su questo fronte - non ho alcuna difficoltà a riconoscerlo -, però bisogna anche riconoscere - e non è solo responsabilità di questo Governo, ma è una questione che viene da lontano, e l'ho sempre sostenuto - che in Italia siamo molto indietro su questa tematica, perché il personale di tutti i tipi che è chiamato ad assistere queste donne, molto spesso, non è all'altezza di seguire con accuratezza, costanza, attenzione e particolare professionalità queste donne così segnate e così sofferenti. Sono donne che - lo ripeto - costituiscono un'ampia casistica e non si possono catalogare in una determinata categoria o in un determinato censo.
La legge contro lo stalking è stata sicuramente una buona legge, tutti l'abbiamo approvata e riconosciamo che le persone denunciate sono aumentate e che, quindi, era un provvedimento assolutamente indispensabile per affrontare questo problema. Credo, però, che dobbiamo promuovere - siamo disponibili a collaborare con il Governo, se lo vorrà - una più incisiva strategia politica e sociale. Mi rendo conto che questo è un termine molto generico, può significare molte cose, ma si tratta proprio di scendere nello specifico delle azioni che si possono intraprendere. Ad esempio, una cosa che si potrebbe fare abbastanza facilmente è una maggiore informazione, maggiori campagne e maggiore presenza nelle scuole, che, a mio avviso, ancora non avviene con sufficiente efficacia. La prevenzione della violenza infatti è la strada maestra che si gioca su vari fronti e in diversi modi.
Sono possibili codici etici per l'informazione, per la pubblicità, per l'immagine Pag. 39femminile, per i linguaggi violenti e prevaricanti, contro la strumentalizzazione delle donne in generale e del corpo delle donne in particolare, per le immagini delle donne che feriscono la dignità umana e non solo quella femminile, contro la riduzione della figura femminile ad esclusivo oggetto di desiderio.
Da questo punto di vista stiamo arretrando rispetto alla cultura di anni fa. Quindi, credo che non basti predisporre, semplicemente, un piano nazionale antiviolenza che, anche se non è sufficiente, è certamente importante, o un coordinamento dei centri antiviolenza, ma bisogna anche attivare, a nostro avviso, un sistema di monitoraggio molto serio a livello di sanità pubblica e di centri di assistenza.
Vi sono molte soluzioni in questa direzione: una potrebbe essere la famosa riforma dei consultori che da tanto tempo stiamo chiedendo a questo Governo, rimanendo inascoltati. I consultori dovrebbero ritornare alla loro originaria vocazione e questa potrebbe essere una strada per ridurre le conseguenze delle violenze sulle donne e fare, anche lì, un luogo e un centro di prevenzione, di informazione e di passaggio di consegne di quello che si dovrebbe e si potrebbe fare tra i vari livelli delle istituzioni.
Bisognerebbe valutare le risorse che il Governo ha messo a disposizione per le donne vittime di violenza e rendersi conto che probabilmente non sono sufficienti e, quindi, incrementare i fondi previsti per l'assistenza legale per i centri di aiuto e gli sportelli antiviolenza sorti in tutta Italia. Sono strade già aperte, che vanno percorse meglio e con maggiore convinzione ed efficacia.
Occorre porre il tema delle donne tra le priorità della politica - il Ministro Carfagna, che ringrazio di essere presente in Aula, lo vorrà certamente fare - e non considerare questo argomento come un tema secondario, ma come centrale perché, proprio per tornare all'inizio del mio discorso: questa infatti è la cifra della civiltà di un Paese, di come un Paese si comporta e del livello che raggiunge di rispetto delle persone.
Le cose da fare sono molte, possibili e percorribili. Ci vuole la volontà politica di farlo, ci vogliono delle proposte, dei mezzi concreti e delle strategie concrete.
Siamo a disposizione a collaborare, se sarà possibile, nei modi e nei tempi che cercheremo di valutare e di capire.
Mi auguro davvero di cuore che sempre meno argomenti come questi e sempre più raramente approdino nelle Aule parlamentari, non perché qualcuno se ne dimentica, ma perché il fenomeno effettivamente sta sparendo dalla faccia della terra. Questo è il mio grande auspicio per il Governo e per il Parlamento.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole De Torre. Ne ha facoltà.

MARIA LETIZIA DE TORRE. Signor Presidente, con questo intervento aggiungo delle riflessioni agli importanti interventi delle colleghe Sereni, Mura, Bergamini e Capitanio Santolini. Come è stato detto, i dati riportati dalle mozioni sulla violenza alle donne in Italia sono inquietanti: quasi 7 milioni di donne dai 16 ai 70 anni, quasi una su tre, sono state vittime; tra i 35 e i 44 anni quasi una donna su due ha subito violenza in famiglia, senza contare il non denunciato, che si calcola altissimo, e senza contare la violenza più orribile, ovvero quella sulle minori.
Avevo 14 anni e durante il viaggio in treno verso il liceo guardavo ogni giorno delle baracche al di là della ferrovia. Con forte senso di giustizia d'adolescente non potevo sopportare che della gente vivesse lì. Un giorno, dopo la scuola, ho preso il sottopassaggio e sono andata là per incontrare quelle persone. Dopo pochi passi un uomo, di certo uno squilibrato che mi aveva seguita, mi butta a terra e tenta di stuprarmi. Mi ha salvato la donna che viveva lì, quella poveraccia che ero andata ad incontrare. Perché l'intelligenza umana permette che scattino certe azioni? Dove si genera tanta violenza? Perché tanta sofferenza anche dentro le mura delle proprie case? È possibile fermare tutto ciò?
Le mozioni chiedono proprio di arginare urgentemente questo insopportabile Pag. 40fenomeno, sia quella a nostra prima firma, del Partito Democratico, sia le altre, fra cui quella dell'Italia dei Valori che - ne ha parlato anche nel suo intervento l'onorevole Capitanio Santolini - tra il resto pone l'accento sulla prevenzione nella scuola, nei media e su una più che opportuna riflessione pubblica su vasta scala intorno a una questione eminentemente sociale e culturale, quale la violenza contro le donne.
Ed è vero: si tratta di una questione sociale, ovvero di una questione che interessa l'intera società. Usare violenza sessuale o fisica verso una donna, infatti, non è solamente violare un diritto individuale al rispetto alla libertà e alla dignità; non significa neppure solamente ledere in generale la dignità delle donne, come spesso si è ripetuto in questi giorni in riferimento ai fatti di attualità. La sopraffazione sulla donna lede anche la dignità maschile, forse in modo ancora più disgustoso, essendo l'uomo, nella quasi totalità dei casi, quello in grado di imporsi. Tale prepotenza si è purtroppo registrata pesantemente ovunque lungo la storia ed oggi, dopo tante lotte per i diritti della donna, avremmo il desiderio, anzi il diritto, di vederla via via scomparire.
Invece il processo di riequilibrio dei ruoli e la conquista della parità di genere in occidente non hanno interrotto questa spirale. Forse anzi siamo in una fase particolarmente critica del vissuto dell'uomo verso la donna. Pensiamo anche solo ai normali aspetti quotidiani. È certamente una grande conquista di uguaglianza l'affermazione, anche nelle leggi, di pari responsabilità nella famiglia e nella società, ma indubbiamente non sono molti gli uomini che usufruiscono spontaneamente del congedo di paternità o rinunciano alla carriera per permettere quella della moglie o che vivono con serenità il rapporto con una dirigente donna oppure che accettano la leadership femminile.
Ed ecco che il sesso forte si vive, consapevolmente o meno, come parte lesa. La fisionomia decisiva dell'uomo, che con la sua mascolinità proteggeva il sesso debole, è diventata una figura incerta del proprio ruolo, orfano di una privilegiata posizione sociale, disorientato di fronte a modelli liquidi, e il tentativo di ricuperare in durezza attraverso atteggiamenti aggressivi lo conducono in un circolo vizioso. Il decadere di un assoluto potere maschile, incontestato per secoli e ancora vivo in alcune società, genera in taluni disorientamento, talvolta squilibri evidenti e, inoltre, la tendenza al predominio e alla prepotenza trova le sue vittime specialmente nelle donne e nei minori. Ancora una volta diventa una morsa, perché quando la donna non viene trattata come persona, ma come strumento di piacere, tutte le volte che viene degradata a merce, a cosa che si può comprare e vendere - lo si può capire senza tante spiegazioni - non è proprio una grande via di soddisfazione, né per lo spirito né per il corpo, né quello della donna né quello dell'uomo.
Altre volte è la donna a non ritrovare più se stessa ed a sacrificare la sua stessa dignità, a vendersi - quindi non parlo della prostituzione coatta, che è doppia violenza sulla donna, da parte dei cosiddetti protettori e dei cosiddetti clienti - per avere soldi, potere, posti di prestigio, ad impadronirsi quasi di quella prepotenza maschile che anni di lotte femminili hanno combattuto. Altre volte, anche nei ruoli di responsabilità, tradiamo quella capacità unificante della società che è propria della donna per assumere atteggiamenti odiosi di potere. Tutta questa violenza in atto, oltre a ferire ciascuno, ha una conseguenza più vasta e più grave, ossia ferisce il rapporto uomo-donna che è essenziale, fondamentale, indispensabile. La comune umanità, infatti, si fonda proprio sulla relazione reciproca tra generi. Introdurre violenze, in questa relazione, provoca un imbarbarimento dell'umanità stessa ed ha, come conseguenza, una caduta libera della realizzazione, sia femminile, sia maschile. In altre parole, l'evoluzione umana, spirituale e materiale, non è pensabile al di fuori di un mutuo e fondamentale aiuto, confronto e riconoscimento individuale e collettivo. Insomma, nella violenza non cade solo la donna, cade tutto. Pag. 41
Quanto chiedono le mozioni, quindi, Ministro Carfagna - anche io la ringrazio per essere qui - è rilevante, non solo per chi di antiviolenza si occupa, sostenendo peraltro che non si tratta solo di una questione femminile, ma è rilevante per la qualità di vita nelle nostre case, nelle nostre città, nell'intera società italiana. Prevenire e sostenere la riduzione del danno, accogliere le donne violentate, è il minimo che possiamo fare. Avendo lavorato a Trento, all'interno delle politiche sociali con il centro antiviolenza, con l'unità di strada per la prostituzione e per progetti a favore di minori, so direttamente quanto queste azioni diano sicurezza e dignità ad una città, ma è altrettanto evidente che non basta ridurre il danno, ma occorre agire più a fondo nelle relazioni sociali e nella cultura contemporanea. D'altra parte, non c'è scelta: dal fango della violenza, da questo fango in cui anche il Parlamento si trova immerso di questi tempi, occorre tirarsi fuori perché il fango annebbia la vista ed, invece, avremmo bisogno di vedere. Diceva Mandela alla moglie, che si era lasciata andare alla violenza, alla dissolutezza, alla menzogna, di non poterla seguire: ho bisogno di lucidità per capire di cosa ha bisogno il Sudafrica. Anche noi, per la responsabilità politica che portiamo, abbiamo un bisogno estremo, in queste ore, di lucidità. Abbiamo bisogno, quindi, di tirarci fuori in fretta dal fango ed è una scelta personale che nessuno può fare al posto di qualcun altro; è una scelta che può costare la perdita di una posizione raggiunta o di guadagni assicurati, ma non è praticabile, in questo momento della vita del Paese, stare con i piedi da una parte e salvarci l'anima illudendoci di stare da un'altra. Occorre stare tutti interi, senza mezze misure, fuori dal fango. Se lo faremo, se riusciremo a prendere in mano il Paese, tenendo il cuore dritto verso il bene comune, faremo la cosa più importante e più efficace per ricostruire il rispetto verso la donna.
Potremmo, infatti, avere la forza, il coraggio, di guardare in faccia chi traffica come merce la donna ed i minori e fermare questo rivoltante mercimonio. Potremmo guardare in faccia chi fa cattiva pubblicità, chi abusa dell'immagine femminile e maschile nelle produzioni televisive, chi specula sporcamente intorno ai luoghi di ritrovo degli adolescenti, chi non controlla l'adeguatezza degli educatori, chi vede e gira la faccia dall'altra parte. Potremmo essere credibili per i giovani, potremmo proporre modelli attraenti di persone autentiche; potremmo accompagnarli a costruire relazioni solide, ad affrontare senza paura le difficoltà; potremmo invitare tutti a guardare gli altri non come oggetti, ma sempre come persone. Potremmo promuovere la donna con le sue qualità: la maggiore concretezza, la capacità di resistenza, di resilienza per meglio dire, la sua forza di dare gratuitamente, di aprire dialoghi, di tenere insieme le differenze, di unificare la società. Potremmo fare molti più passi in avanti, rispetto a quelli di cui ha parlato la collega Bergamini, e farli più in fretta, affinché il ruolo della donna nell'economia, nella politica, nella cultura, si svolga in pienezza con un'influenza, un irradiamento, un potere, finora mai raggiunto.
Potremmo noi donne, in un momento in cui l'umanità conosce una così profonda trasformazione...

PRESIDENTE. La prego di concludere, onorevole De Torre.

MARIA LETIZIA DE TORRE. Le chiedo ancora un istante, Presidente. In un momento di crisi profonda della società e della politica italiana, stavo dicendo che noi donne potremmo fare la nostra parte per aiutare l'umanità a non decadere. Potremmo portare la qualità del rapporto tra uomo e donna al centro di una società che si scrolla di dosso maschilismo e predominio, una società più sicura e più giusta, più libera, più fraterna dove l'obiettivo non è essere donne perfette né uomini di successo, dove anche chi è debole o temporaneamente in difficoltà trova accoglienza come persona. Potremmo, potremmo molte cose ma occorre prima di tutto che decidiamo di uscire dal fango (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

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PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Goisis. Ne ha facoltà.

PAOLA GOISIS. Signor Presidente, ci troviamo a discutere ancora una volta di un argomento così grave, così pesante e così umiliante per la donna nel mondo, in Europa, ma purtroppo anche in Italia. Bisogna considerare che tuttavia l'attenzione è molto viva, se è vero com'è vero che il 25 novembre ricorre la celebrazione della giornata internazionale contro la violenza alle donne e che essa risale alla risoluzione n. 54/134 adottata nel 1999 dalla cinquantaquattresima sessione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite e che la Dichiarazione universale dei diritti umani stabilisce che spettano a tutti gli individui le stesse libertà, senza distinzione di razza, sesso, lingua, religione, opinione politica, origine nazionale e sociale. Ancora, la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea sancisce il divieto di qualsiasi forma di discriminazione fondata sul sesso, sulla razza, sull'origine etnica e sociale e sull'età o sulle tendenze sessuali. La Costituzione italiana recita che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali di fronte alla legge senza distinzione - ancora - di sesso, razza, lingua, opinioni politiche, condizioni personali e sociali e impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano le libertà e l'uguaglianza dei cittadini e delle cittadine. La violenza sulle donne è un attacco all'inviolabilità della persona e alla libertà individuale.
La dichiarazione delle Nazioni Unite per l'eliminazione della violenza contro le donne nel 1993 ha definito violenza di genere qualunque atto che si traduce o potrebbe tradursi in danno fisico, sessuale o psicologico o sofferenza per le donne, ivi compresa la minaccia di tali atti, la coercizione o privazione arbitraria della libertà sia nella vita pubblica sia nella vita privata. La piattaforma di azione di Pechino del 1995 ha allargato questa definizione, specificando che la violenza di genere include le violazione dei diritti delle donne in situazioni di conflitto, tra cui lo stupro sistematico, la schiavitù sessuale e la gravidanza forzata, l'aborto forzato, l'aborto selettivo e che sono particolarmente vulnerabili le donne appartenenti ad alcune minoranze (anziane, indigene, appartenenti alle comunità migranti, le donne che vivono in zone rurali impoverite, denutrite). La Dichiarazione delle Nazioni Unite per il millennio adottata dai rappresentanti di 189 Paesi al summit del 2000 ha considerato essenziale fra gli otto obiettivi di sviluppo del millennio quello relativo all'uguaglianza di genere, minacciato dalla violenza di genere. L'Unione europea è impegnata nella lotta contro ogni forma di violenza e sostiene gli sforzi degli Stati membri e delle organizzazioni non governative volti alla eradicazione della violenza basata sul genere. Ma la violenza sulle donne si configura ancora e sempre e continuativamente come un reato tra i più gravi in quanto colpisce l'intera persona, coinvolgendone sia la sfera fisica che quella psicologica. Le donne che subiscono violenza perdono per sempre la sicurezza di sé, la fiducia verso gli altri, il diritto a vivere la loro vita. Secondo i dati ISTAT 14 milioni di donne italiane hanno subito violenza fisica durante la loro vita; 6,7 milioni di donne in Italia tra i 16 e i 70 anni, il che corrisponde al 31,9 per cento delle donne in questa fascia di età, hanno subito violenza fisica o sessuale nel corso della vita; 7,1 milioni di donne hanno subito o subiscono violenza psicologica; 2,7 milioni di donne hanno subito comportamenti persecutori, chiamati stalking; il 69,7 per cento degli stupri, poi, è opera di un partner, ex o attuale; il 17,4 per cento degli stupri è opera di un conoscente; solo il 6,2 per cento è opera di un estraneo.
Andiamo allora a vedere la misura del sommerso: 1.400.000 donne ha subito stupro prima dei 16 anni; il 65 per cento delle donne ha subito violenza fisica e sessuale soprattutto tra le mura di casa; il 2,9 per cento di donne ha subito violenza fisica o sessuale dal partner attuale o dall'ex partner. Tutto questo è aberrante, tutto questo è disdicevole, tutto questo è Pag. 43uno scandalo, ma dobbiamo sottolineare che purtroppo manca la consapevolezza nelle donne, in tante donne, di subire un torto, se è vero come è vero che il 45,2 per cento delle donne che subisce violenza dal partner attuale non ne parla con nessuno. Il 93 per cento delle violenze causate da un partner non viene denunciato. La principale causa di morte e di invalidità delle donne di età compresa tra i 14 ed i 44 anni in Europa e nel mondo è la violenza subita da un uomo, questo secondo le indicazioni ONU.
Ma allora dobbiamo chiederci: quali sono le cause di una situazione di questo tipo? Spesso le cause purtroppo non vengono analizzate e non vengono sottolineate, ma da rapporti ISTAT emerge che nel nostro Paese quasi una donna su due non ha un'occupazione, né la cerca più. In particolare, il tasso di inattività femminile italiano è il secondo in Europa, inferiore solamente a quello di Malta. Se in tutti i Paesi dell'Unione i tassi di inattività degli uomini - il 22,2 per cento nella media comunitaria - risultano inferiori a quelli delle donne (35,7 per cento), è anomalo e preoccupante il dato del nostro Paese circa l'accentuato differenziale di genere, pari ad oltre 22 punti percentuali: il livello di inattività maschile è pari al 26,3 per cento, più o meno in linea con la media europea, mentre quello femminile è straordinariamente alto, essendo pari al 48,9 per cento. Allora, è perfino superfluo affermare che l'espulsione delle donne dal mercato del lavoro e il loro confinamento nel precariato toglie loro indipendenza economica ed autonomia, cosa che crea un circolo vizioso. La nostra società fatica ancora a riconoscere pienamente il profondo disvalore della condotta maschile violenta - sessuale, fisica, psicologica - realizzata contro le donne, anche a causa della confusione creata da alcuni modelli che vengono sistematicamente proposti. Si tratta di una violenza sottile, nuova per i parametri di riferimento estetici e di presunta affermazione sociale, ma vecchia per il modo di considerare la donna.
Occorre allora agire per contrastare questa violenza ancestrale e sedimentata nell'immaginario maschile, che va contrastata a partire dai primissimi messaggi che i bambini ricevono dalla famiglia, dalla scuola e dalla società. Nel nostro Paese, ove più marcata risulta la disuguaglianza fra i sessi, ove anche i media indulgono in un'immagine poco dignitosa, se non degradata, della donna, non è più il tempo di escogitare tecnologie di protezione per le donne e di gridare a pene severe e punizioni esemplari: ciò è già stato fatto, ma non può bastare. Impressionante è l'attuale regressione, quasi collettiva, rispetto al riconoscimento della dignità delle donne, che colpisce anche inconsapevoli, anche i bambini e i ragazzi maschi. Il modello «veline» e tutte le immagini pubblicitarie che rappresentano la donna solo come corpo erotico hanno sicuramente contribuito ad incrementare quella violenza sottile che reca discredito e preconcetto verso le donne. Chi lavora nella scuola e nei servizi sociali denuncia una situazione spesso molto critica nei comportamenti degli adolescenti maschi, inclini verso le loro coetanee, e non solo, a comportamenti violenti, individuali e di gruppo.
Quindi, è giunto il momento per le istituzioni pubbliche di una chiara presa di posizione e di un'assunzione di responsabilità che, in parte, può essere soddisfatta da un piano organico e multidisciplinare di intervento, destinato a conoscere ed affrontare la complessa problematica nei suoi vari aspetti, una sorta di piano nazionale onnicomprensivo, che mira ad un cambiamento della cultura e delle relazioni reciproche fra i generi nei vari campi sociali.
Nella consapevolezza che per garantire la tutela delle donne contro ogni forma di violenza e di sopraffazione non è più sufficiente l'attività del singolo Governo, ma è necessario stabilire un momento di confronto internazionale, il Ministero per le pari opportunità ha promosso, nel settembre 2009, in collaborazione con il Ministero degli affari esteri, una conferenza dedicata al tema della violenza contro le donne e sulle sue molteplici manifestazioni, nell'ambito della Presidenza italiana Pag. 44del G8. La conferenza è stata preceduta da un'importante campagna di comunicazione, partita il 4 settembre scorso, «Rispetta la donna, rispetta il mondo»: una rosa bianca, simbolo del candore del mondo femminile, diventa gradualmente nera, avvelenata da quel male oscuro che è la violenza contro le donne, causa di un dolore che resta troppo spesso privato e taciuto, per vergogna o per paura.
Lo studio e l'attuazione di interventi volti a prevenire gli episodi di violenza, abuso e vessazione di cui le donne sono vittime rappresenta, quindi, uno dei principali obiettivi del Ministero per le pari opportunità, nonché una priorità dell'intero Esecutivo. La legge n. 38 del 2009 - la cosiddetta legge contro lo stalking, che ha introdotto, con l'articolo 612-bis del codice penale, il reato, appunto, di stalking - è una chiara dimostrazione dell'attenzione del Governo all'individuazione di strategie di contrasto, di prevenzione della violenza e di reinserimento delle vittime di tale reato.
Il Governo, nella presente legislatura, si è distinto in un impegno che non trova precedenti nella storia della nostra Repubblica, mirato ad affrontare misure di contrasto contro ogni forma di violenza; l'attività del Governo si è, infatti, caratterizzata per una serie di costanti interventi in materia di sicurezza. Il cosiddetto pacchetto sicurezza dell'Esecutivo, del Presidente Berlusconi, comprende una serie di provvedimenti che, dal 2008 ad oggi, hanno fatto del rafforzamento della sicurezza urbana e della repressione dei reati di particolare allarme sociale due fondamentali obiettivi da perseguire costantemente.
Nella consapevolezza, ancora, che la scuola rappresenta lo strumento fondamentale di educazione, il protocollo siglato nel luglio del 2009 porta, di nuovo, la firma del Ministro per le pari opportunità e del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. In particolare, tale protocollo ha istituito la «settimana contro la violenza» all'interno degli istituti scolastici, che ha coinvolto, nelle due edizioni finora svolte, studenti, genitori e docenti in iniziative di sensibilizzazione, informazione e formazione sulla prevenzione della violenza fisica e psicologica, compresa quella fondata sull'intolleranza razziale, religiosa e di genere, con approfondimenti ed eventi dedicati, avvalendosi anche della partecipazione di esperti di carabinieri, Polizia postale, Polizia di Stato, Telefono azzurro ed altre associazioni.
All'interno dello stesso protocollo di intesa tra il Ministero per le pari opportunità e il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca si è inserito anche il progetto «Campus non-violenza», rivolto agli studenti del quinto anno delle scuole superiori e alle matricole delle università. Si tratta di un'iniziativa con l'obiettivo di promuovere nei ragazzi una presa di coscienza delle regole che sono alla base della convivenza civile, del rispetto e dell'integrazione. Oltre 250 ragazzi tra i 18 e i 22 anni e docenti provenienti da tutta Italia sono partiti, dal 22 al 28 febbraio 2010, per trascorrere tre giorni di soggiorno negli ostelli della gioventù italiani nelle città di Roma, Milano, Firenze, Napoli, Bologna e Perugia, per vivere un'esperienza unica nel suo genere, che li ha visti coinvolti in attività creative e formative sul tema dell'integrazione e della non violenza.
Lo stesso decreto-legge n. 11 del 2009, convertito poi dalla legge n. 38 del 2009, che ha introdotto il reato di stalking, ha, inoltre, previsto ulteriori interventi in materia di violenza sessuale.
Il provvedimento, in particolare, ha introdotto l'arresto obbligatorio in flagranza per la violenza sessuale e la violenza sessuale di gruppo, nonché disposizioni volte a rendere più difficile ai condannati per taluni delitti a sfondo sessuale l'accesso ai benefici penitenziari, tra cui le misure alternative alla detenzione. La medesima legge ha, inoltre, consentito l'accesso al gratuito patrocinio anche in deroga ai limiti di reddito ordinariamente previsti a favore della persona offesa da taluni reati a sfondo sessuale. Sempre la legge n. 38 del 2009 di conversione del decreto-legge n. 11 del 2009 ha anche Pag. 45previsto, quale aggravante speciale dell'omicidio, il fatto che esso sia commesso in occasione della commissione del delitto di violenza sessuale, di atti sessuali con minorenni e violenza sessuale di gruppo, nonché da parte dell'autore del delitto di atti persecutori nei confronti della stessa persona offesa.
La Camera dei deputati ha poi licenziato nelle scorse settimane, in terza lettura, all'unanimità, il disegno di legge di ratifica della Convenzione per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l'abuso sessuale, la Convenzione di Lanzarote, anche questo argomento gravissimo e importantissimo, ma per ora procediamo sul discorso della violenza contro le donne.
Tutti questi provvedimenti sono il frutto di un intenso lavoro di Governo e Parlamento sul tema, che è cominciato sin dall'inizio della legislatura. Già nel luglio 2009 l'Assemblea della Camera aveva approvato un testo unificato di numerosi progetti di legge, uno dei quali del Governo che recava un organico intervento in materia di violenza sessuale. Molti degli interventi contenuti nel testo sono stati poi, a vario titolo, introdotti nei diversi provvedimenti approvati in materia di sicurezza nell'ultimo anno.
Va segnalata, inoltre, la discussione all'interno della Commissione affari costituzionali della Camera in merito ad una serie di proposte di legge di iniziativa bipartisan sul divieto di indossare gli indumenti denominati burqa e niqab, o comunque indumenti che rendono difficoltoso il riconoscimento della persona in pubblico. Si tratta di proposte dirette a tutelare la pubblica sicurezza e la dignità delle donne.
Si parlava prima della necessità di elaborare un piano nazionale che dovrà affrontare, in modo organico ed in sinergia con i principali attori coinvolti sia a livello centrale che territoriale, il fenomeno della violenza contro le donne, nel pieno rispetto degli interventi in atto a livello locale e regionale. In particolare, il piano dovrà contribuire a potenziare i centri antiviolenza quale luogo privilegiato per l'assistenza e il sostegno delle donne vittime di violenza e dei loro bambini.
Pertanto, siamo con questa mozione a chiedere al Governo di proseguire nelle iniziative già avviate con successo e che ho qui sintetizzato: la rete nazionale antiviolenza, il telefono di pubblica utilità 1522 e il potenziamento del sito www.antiviolenzadonna.it; il numero verde contro la tratta degli esseri umani per la protezione sociale delle vittime della tratta; il protocollo contro la violenza e le discriminazioni del Ministero per le pari opportunità d'intesa con il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, che ha istituito la «settimana contro la violenza» negli istituti scolastici; l'attività di prevenzione e tutela contro gli atti persecutori con il Ministero dell'interno e le forze dell'ordine.
Ma, soprattutto - lo ribadisco -, chiediamo al Governo di dare attuazione al piano d'azione nazionale contro la violenza sessuale e di genere, utilizzando le risorse all'uopo stanziate, individuando specifiche iniziative volte a potenziare i servizi e le misure di assistenza delle vittime di violenza, ad aumentare il livello di formazione degli operatori coinvolti, a monitorare efficacemente il fenomeno della violenza sulle donne.
E ancora chiediamo al Governo di farsi parte attiva perché sensibilizzi la Conferenza Stato-regioni nel promuovere azioni volte ad incentivare la realizzazione di misure a favore delle vittime di violenza e a coinvolgere le stesse, laddove sia necessario, in percorsi di formazione e di inserimento lavorativo (Applausi dei deputati dei gruppi Lega Nord Padania, Popolo della Libertà e Iniziativa Responsabile).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Renato Farina. Ne ha facoltà.

RENATO FARINA. Signor Presidente, signora Ministro, onorevoli colleghi, vorrei iniziare il mio intervento con una constatazione trattando del tema e cioè l'assoluta sottovalutazione mediatica. Venendo a Roma ho sentito alla radio che cosa sarebbe Pag. 46successo oggi alla Camera: nessuno ha parlato di questo argomento all'ordine del giorno, perché non c'è «ciccia», non c'è pruderie. Cosa sarà mai se il Parlamento si occupa di violenza alle donne? La notizia sarebbe solo se dicesse che è bene fare violenza alle donne, altrimenti sembra una diffusione di chiacchiere inutili per cui, una cosa che riguarda milioni di persone già ferite, altre decine che ne avvertono il pericolo e, se permettete, anche chi vuol bene a queste persone, gli uomini della famiglia, gli amici, è come messa in un cantone, è come una specie di celebrazione retorica.
Questa sottovalutazione non riguarda solo i mass media, riguarda tutti, anche noi che siamo qui e che, essendo qui, evidentemente siamo interessati, però, in fondo, lo riteniamo un elemento marginale per la politica, una sorta di dovere senza autentica centralità nella nostra proposta, salvo che parlare di donne e del modo come guardarle, come trattarle, sia usabile contro il nemico politico, così come abbiamo sentito anche quest'oggi.
Veniamo al punto: l'onorevole Bergamini e l'onorevole Goisis hanno illustrato molto bene quanto ha fatto il Governo, questo Governo, e in particolare l'eccellente Ministro Carfagna, sia per la repressione di questi fenomeni, sostenendo la legge contro lo stalking, sia per la prevenzione prossima e remota di queste violenze, anche valorizzando al massimo le eccellenze che ci sono in Italia nella lotta contro queste forme di violenza contro le donne che sono così odiose adesso che passano attraverso Internet, passano attraverso i mezzi di comunicazione elettronici in grado di moltiplicare la potenza della violenza. Oggi la potenza della violenza, soprattutto, ma non solo, tocca la reputazione, la sfera dell'io. Ho potuto partecipare a conferenze, facendo parte del Comitato per le pari opportunità in Consiglio d'Europa, con il vicequestore aggiunto di Milano, Alessandra Simone, che credo sia una esperta ricercata da tutti per la sua profonda competenza. Questa legge valorizza queste competenze, di chi conosce le donne, di chi capisce come siano vulnerabili e come siano facili a credere all'uomo che le ha picchiate, salvo poi chiedere scusa, e come sia facile cascarci di nuovo, non voler più denunciare o reiterare la denuncia e poi magari essere uccise.
Tutto questo, questa nostra dimenticanza, questa nostra marginalizzazione o riduzione a luogo comune del capitolo «violenza sulle donne» esige una vera e propria rivoluzione culturale. Non che sia la nuova cultura, quella che sia è affermata nel tempo post-moderno dal 1985 in poi, ad aver inventato la violenza contro le donne. Non esiste un'età dell'oro in cui la violenza sulle donne non esisteva anche se magari veniva mascherata romanticamente, alla base della nascita di Roma c'è uno stupro di massa, il ratto delle sabine non è altro che questo, anche se viene letto in modo poetico nelle opere d'arte. Le civiltà greca e latina, anche nei loro momenti più alti, conoscevano la prostituzione sacra che era un modo di fare violenza sacra alle donne; in età cristiana, contraddicendo il modo con cui Cristo ha trattato le donne nel Vangelo, non si è stati da meno.
Il demone del possesso è quello che caratterizza l'uomo spesso nei rapporti con la donna e con l'altro sesso, anche reciprocamente. Oggi il giudizio, pur essendo giustamente durissimo, sulla violenza alle donne è anche progredito giuridicamente, da fatto contro la morale a reato contro la persona, ma si è come smarrito il basamento, la verità oggettiva delle cose.
Si dice che la grandissima parte delle violenze accade nelle famiglie o comunque nelle case. Alcuni ricavano da questo il pretesto per ripetere l'anatema di Gide: «Famiglie! Vi odio!», ma vale esattamente il contrario. Questo è il tradimento di ciò che costituisce la famiglia, la quale non va indebolita e resa precaria nel suo statuto unico e naturale, nell'illusione che questo la renda più profondamente libera e aliena alla violenza. Sarebbe come dire che, siccome la democrazia è inquinata dalla mafia, è meglio la dittatura, oppure Pag. 47che è meglio abrogare il voto, così si limitano la corruzione e il voto di scambio.
Questo è il salto logico a cui si assiste quando si parla di violenza nelle famiglie e emergono statistiche orrende su questa persecuzione dei deboli all'interno della famiglia. Dunque, occorre rafforzare la famiglia, una famiglia che sia posta al centro della politica, ma occorre innanzitutto una rivoluzione culturale e la propagazione di una testimonianza diversa che mostri come la famiglia e il rapporto d'amore che la costituisce sia basilare, perché crescano delle personalità equilibrate e, a loro volta, capaci di amore.
Questo darebbe più forza e senso alla prevenzione e alla repressione. Mi spiego. I casi di violenza sono numerosissimi, come abbiamo visto e tutti sappiamo, ma proviamo a pensarci: sono decine di milioni di casi, allora come facciamo a pensare che sia un fatto marginale? Pensiamo alla violenza sempre ed esclusivamente come qualcosa che fanno gli altri, una categoria molto particolare. Tuttavia, se i dati sono questi, il fenomeno non riguarda un settore marginale della nostra vita sociale, un settore marginale della nostra popolazione, e mi riferisco sia alle vittime, sia ai carnefici.
C'è un «partito» di violentatori anonimi e di gente che li copre e vorrei dire che c'è quasi una continuità culturale. Chi violenta non è uno con una cultura molto diversa da quella dominante. Io sono tra i deputati, spero sempre più numerosi, che visitano le carceri e mi occupo prevalentemente di sex offender o presunti tali. Alcuni di essi hanno certo deviazioni psichiche, ma la gran parte sono persone che si frequenterebbe volentieri, che hai vicino magari nel consiglio comunale, come recenti casi hanno purtroppo acclarato. Poi si trasformano, ma l'impianto culturale resta quello per cui si ha la certezza che, se uno ha un desiderio, egli ha diritto di realizzarlo o almeno di provare a realizzarlo.

PRESIDENTE. La prego di concludere.

RENATO FARINA. Credo che siano due i punti culturali: l'idea di persona, la concezione di persona e - salto un aspetto che mi interessava molto considerare, però lo dico brevissimamente - il fatto che purtroppo siamo passati dall'idea che siamo un corpo, anche se non siamo solo un corpo, all'idea che abbiamo un corpo. Questo rende più facile e dà il sentimento che sia meno grave accaparrarsi e abusare del corpo dell'altro.

PRESIDENTE. Onorevole Renato Farina, deve concludere.

RENATO FARINA. Quanto all'ultimissimo punto, vi sono pagine di Sartre tragicissime su questo: la perdita di senso della paternità, cioè la perdita della figura del padre è decisiva (come del resto diceva già Freud) nel senso che poi si instaura un rapporto tra uomo e donna completamente sballato e senza centro (Applausi dei deputati dei gruppi Popolo della Libertà, Lega Nord Padania e Iniziativa Responsabile).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Polidori. Ne ha facoltà.

CATIA POLIDORI. Signor Presidente, onorevoli colleghe e colleghi, intervengo a sostegno della mozione di maggioranza e non offro il mio contributo a questo dibattito solo perché donna ed in quanto tale, quindi, particolarmente sensibile alla causa del contrasto alla violenza perpetrata nei confronti di altre donne violate nella loro intimità, maltrattate, oltraggiate, vessate e lese in ciò che possiedono di più prezioso (la dignità e la libertà). Prendo, invece, la parola da donna parlamentare e lo faccio per due motivi. Perché credo che i due aspetti, quello di essere donna e, insieme, parlamentare, non possano in alcun modo essere disgiunti. La maggiore responsabilità che ci è stata affidata ci impone di certo un grande impegno e un forte equilibrio.
Inoltre, intervengo per un sentimento di profondo rispetto nei confronti di quelle donne note e meno note, venute prima di me che si sono battute affinché io e le mie colleghe potessimo sedere tra questi banchi. Pag. 48Per questa ragione, ritengo che la discussione odierna debba essere affrontata senza strumentalizzazioni di sorta con la pacatezza e la serietà dovute al delicato argomento in discussione, con il massimo rispetto per le vittime della violenza e del nostro essere deputate della Repubblica italiana.
Solo in questo modo riusciremo a dare un contributo davvero proficuo ad un argomento purtroppo ancora attuale che non tocca soltanto le donne in quanto vittime, ma riguarda anche gli uomini e una cultura che donne e uomini insieme hanno il dovere di mutare radicalmente. Ciò che occorre è una vera e propria rivoluzione culturale. Quella della violenza nei confronti delle donne, come ha dichiarato il Presidente della Repubblica Napolitano, rappresenta una vera e propria emergenza su scala mondiale, una piaga che ancora ostacola il fattivo riconoscimento dei fondamentali diritti civili, sociali e culturali. Si tratta di una ferita aperta nelle società che valica i confini geografici, culturali e religiosi e, persino, le differenze di censo.
In effetti, benché nel progredito occidente post-moderno alcuni diritti siano stati acquisiti e formalmente sanciti ormai da secoli, il loro rispetto non può ancora considerarsi una conquista irreversibile. Oggi nel terzo millennio atteggiamenti che ritenevamo superati per sempre sembrano riemergere prepotentemente. La sopraffazione fisica e psicologica sono una tragica realtà tuttora pervicacemente presente nella cultura tanto orientale quanto occidentale a partire dalla dimensione domestica.
La violenza di genere dalle varie e tante forme di discriminazione, agli abusi fisici o sessuali, alle mutilazioni genitali, senza dimenticare la violenza economica, è un fenomeno ancora esistente assai diffuso anche nei paesi economicamente e culturalmente progrediti. Proprio in quanto culturale, il rapporto di genere, infatti, è esposto a mutamenti che non necessariamente seguono la via del progresso. Il demone del possesso - come lo ha definito il collega Farina - è sempre in agguato.
Contro questi fenomeni non possiamo dividerci né perderci in contrasti privi di senso. Tutti indistintamente siamo, invece, chiamati a mobilitarci senza distinzione di valori e riferimenti politici. Questo dibattito deve e dovrà risolversi in un'ulteriore occasione per riflettere e confrontarci. Tutti indifferentemente senza frapporre dannose e paralizzanti barriere ideologiche dobbiamo contribuire a dare un segnale forte e chiaro contro ogni tipo di sopraffazione.
Lo dobbiamo alle vittime e alla collettività anche al fine di cancellare la concezione della persona - e nel caso specifico della donna - come un mero oggetto da possedere a cui negare dignità e diritti ed è proprio il persistere di questo aberrante paradigma mentale a favorire il perpetrarsi di inammissibili atti di sopraffazione a partire dall'ambito familiare. Il corpo della donna è vita recita il fortunato slogan di un'iniziativa benefica che ha visto protagoniste deputate di ogni schieramento. Si tratta di donne infinitamente diverse e pur accomunate dal voler partecipare - anche attraverso la propria fisicità - alle difficoltà di quante, specie tra le più giovani, vivono un altro dramma, quello della non accettazione di sé che troppo spesso sfocia nei disturbi alimentari.
Credo che noi tutti, uomini e donne, dobbiamo recuperare lo spirito che ci ha animato in quella particolare occasione e ribellarci, unendo i nostri sforzi per cancellare l'immagine distorta della femminilità che è alla base di ogni violenza.
Ciò che occorre è un impegno collettivo nella direzione della prevenzione e dell'educazione, in accordo con quanto sinora svolto dal Ministero delle parti opportunità la cui attività, in questi anni, si è distinta per una serie di iniziative mirate al contrasto e alla repressione di atti violenti e persecutori nei confronti delle donne e di interventi volti ad assicurare il diritto alla sicurezza. Ciò nella convinzione che il tema della violenza nelle strade, nelle case e nei luoghi di lavoro e aggregazione riguardi tutti, nessuno escluso. Pag. 49
In questo senso il Governo ha predisposto una serie di misure, comprese nel pacchetto sicurezza, nell'ottica di rafforzare la sicurezza urbana, da un lato e, dall'altro, reprimere reati che destano particolare allarme sociale. Fiore all'occhiello dell'attività del Ministero delle pari opportunità è la legge sullo stalking che, dopo 15 anni, ha finalmente colmato un vuoto legislativo. Vale la pena sottolineare che la legge in questione non solo punisce con la pena detentiva delitti a sfondo passionale, sentimentale o sessuale, ma agisce prevenendo tali tipologie di reato al quale, nella maggior parte dei casi, si arriva dopo un penoso periodo di molestie e vessazioni psicologiche.
Dunque, è necessario, da un lato, reprimere gli atti odiosamente lesivi della libertà e del diritto della sicurezza e, dall'altro, prevenire ed educare. Questi sono i punti su cui concentrare gli ulteriori sforzi, quanto mai necessari perché non possiamo permetterci di abbassare la guardia. Infatti, la lotta è contro quanto di più difficile da contrastare: la mancata evoluzione della natura umana, di chi vuole prevalere sull'altro. Ciò nella profonda convinzione che, parallelamente al contrasto dei crimini, sia necessario adoperarsi, a tutti i livelli e in ogni ambito del vivere civile, per creare, sin dall'infanzia, rapporti di parità e rispetto dai quali non si può prescindere, promuovendo iniziative di sensibilizzazione, informazione e formazione su ogni tipo di violenza, per comprendere le profonde radici psicologiche e culturali che spesso trovano territorio fertile in contesti sociali degradati.
È compito delle istituzioni, infatti, promuovere ed incentivare tutte quelle iniziative che si propongono di educare, anche a livello scolastico, al rispetto, sin dall'infanzia, delle corrette regole del vivere civile, al rispetto, della non violenza e dell'integrazione, come prevede l'accordo tra il Ministro Carfagna e il Ministro Gelmini per la settimana della non violenza nelle scuole, già ricordata dalla collega Goisis.
Il dolore delle donne violate non deve mai più essere un fatto privato perché esso riguarda tutti noi, l'intera comunità. Per ogni donna violata si infligge una ferita nell'intero corpo sociale e la mozione, di cui sono firmataria, testimonia la nostra piena e assoluta coscienza (Applausi dei deputati dei gruppi Iniziativa Responsabile, Popolo della Libertà e Lega Nord Padania).

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali delle mozioni.
Prendo atto che il rappresentante del Governo si riserva di intervenire nel prosieguo del dibattito.
Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Discussione della mozione Bocchino, Galletti, Vernetti, Lo Monte, Melchiorre ed altri n. 1-00531 concernente iniziative per il rispetto dei diritti civili e politici in Bielorussia (ore 16,55).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della mozione Bocchino, Galletti, Vernetti, Lo Monte, Melchiorre ed altri n. 1-00531, concernente iniziative per il rispetto dei diritti civili e politici in Bielorussia (Vedi l'allegato A - Mozioni).
La ripartizione dei tempi riservati alla discussione è pubblicata in calce resoconto stenografico della seduta di giovedì 20 gennaio 2011.
Avverto che sono state altresì presentate le mozioni Di Stanislao ed altri n. 1-00535, Tempestini ed altri n. 1-00536, Antonione, Stefani, Sardelli ed altri n. 1-00537 che, vertendo su materia analoga a quella trattata dalla mozione all'ordine del giorno, verranno svolte congiuntamente (Vedi l'allegato A - Mozioni). I relativi testi sono in distribuzione.

(Discussione sulle linee generali)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali delle mozioni. Pag. 50
È iscritto a parlare l'onorevole Della Vedova, che illustrerà anche la mozione Bocchino, Galletti, Vernetti, Lo Monte, Melchiorre ed altri n. 1-00531 di cui è cofirmatario. Ne ha facoltà.

BENEDETTO DELLA VEDOVA. Signor Presidente, il 19 dicembre 2010 si sono svolte le elezioni in Bielorussia e il Presidente Lukasšenko è stato rieletto con il 79,67 per cento dei voti. Si tratta di elezioni farsa, come ha denunciato l'OSCE: due settimane dopo, sono state sospese dalle autorità locali le attività della sede a Minsk.
Credo che, in generale, questo tipo di elezioni costituisca un punto molto delicato - in particolare per i Paesi che geograficamente fanno parte dell'Europa o per i Paesi limitrofi - su cui si dovrebbe discutere anche per i giudizi che si esprimono. Ad esempio, non in occasione delle elezioni - poi ne parleremo - ma l'anno prima, il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, in visita a Minsk, ebbe modo di dire, riferendosi a Lukasšenko «(...) grazie anche alla sua gente che so che la ama: e questo è dimostrato dai risultati delle elezioni, che sono sotto gli occhi di tutti (...)».
Signor Presidente, credo che non vi sia la necessità in generale di non rispettare le regole diplomatiche quando ci si trova al cospetto di Capi di Stato anche di questa fatta, tuttavia bisognerebbe essere un po' più prudenti nello spingersi ad esprimere un riconoscimento, una valutazione politica così impegnativa per il nostro Governo e per il popolo italiano nei confronti di coloro che vengono considerati dei dittatori dalla comunità internazionale. Invece il nostro Governo - in particolare il Presidente del Consiglio - si segnala per essere prodigo di riconoscimenti, come in questo caso, sull'amore che il popolo tributerebbe nelle elezioni farsa che plebiscitano i dittatori. Dico ciò perché il Presidente del Consiglio, poco tempo fa, il 2 dicembre, in un altro scenario, in Kazakhstan (il collega Mecacci che è qui in Aula era presente in quella circostanza), rivolgendosi, signora sottosegretario, al Presidente Nazarbayev, fuori dall'ufficialità, alla presenza di tutti - e questo è fuori discussione perché nessuno pensa che si debbano boicottare i summit internazionali istituzionali, ai quali partecipano tutti i Capi di Stato e di Governo che ne hanno titolo - ebbe a dire: «Ho visto i sondaggi fatti da un'autorità indipendente, che ti hanno assegnato, Nursultan, il 92 per cento di stima e amore del tuo popolo. È un consenso che non può che basarsi sui fatti».
Signora sottosegretario, conosco il suo impegno e - come si usa dire in questi casi - la sua assoluta e indiscutibile sensibilità democratica, ma credo che questo ponga un problema al Governo italiano perché non possiamo accettare che il Presidente del Consiglio della Repubblica italiana senta il bisogno di fare - e conseguentemente esterni - affermazioni di questo tipo perché non sono vere. Non possiamo come popolo italiano libero e democratico portare il nostro omaggio a dittatori come Nazarbayev, ultimo segretario locale del partito comunista dell'Unione sovietica. Dobbiamo dire casomai - se proprio vogliamo esprimerci sull'ipotesi in cui qualcuno, con quel tipo di elezioni, ottenga il 92 per cento dei consensi - che l'Italia sta con quell'8 per cento, del quale probabilmente un pezzettino non marginale sta in galera o lotta per la libertà e questo vale anche per Lukasšenko. Non credo che possiamo esimerci da ciò se vogliamo dire una sola parola oltre il protocollo. Trovo che questo sia molto grave.
Il Governo - torniamo alla Bielorussia - ha messo in galera sessanta tra le 10 mila persone circa scese in piazza per protestare contro le irregolarità del voto e dello scrutinio. Sono finiti dentro anche gli altri candidati alle presidenziali, attivisti della società civile, liberi imprenditori e giornalisti.
In Bielorussia la stampa e la distribuzione dei giornali sono un monopolio del Governo che decide quali giornali possono essere stampati e quali e come possono essere distribuiti. Pag. 51
Dal primo febbraio scorso Internet è stato posto sotto il controllo diretto della presidenza, sono certo che nessuno qui auspica cose del genere o le possa men che meno salutare, quale che sia la motivazione.
Quanto alle organizzazioni non governative indipendenti, viene sistematicamente negata loro la registrazione ovvero impedito di operare legalmente nel paese, per non parlare delle minoranze etniche, in special modo polacche e rom, e delle minoranze sessuali, gay e transessuali: discriminazione scientifica più che sistematica.
Per tutto questo, signor Presidente, nel 2008 il Consiglio dell'Unione europea aveva stabilito che a 41 rappresentanti del Governo bielorusso, incluso il presidente Lukasšenko, fosse interdetto l'ingresso sul territorio europeo, quindi non sanzioni economiche né sanzioni commerciali, nessuna sanzione che possa in qualche modo arrecare un danno diretto alle popolazioni. Il 25 scorso, tuttavia, il Consiglio dell'Unione europea ha deciso di prolungare al 31 ottobre 2011 il divieto di ingresso e, allo stesso tempo, di sospenderlo nello specifico per il presidente ed altri 35 funzionari, in ossequio alla decisione della Bielorussia di accettare le regole di campagna elettorale rispondenti agli standard democratici internazionali. Questo almeno era l'auspicio. Il Governo bielorusso, tuttavia, quelle regole le ha platealmente violate, ed è per questo che il 7 gennaio scorso la diplomazia di Bruxelles - in testa la Germania, la Polonia anche per le ragioni che abbiamo richiamato, insieme a Svezia, Gran Bretagna, Francia, Olanda, Repubblica Ceca - ha espresso la necessità di un'azione sanzionatoria comune. In tal senso si è espresso nei giorni scorsi anche il Parlamento europeo.
La posizione del Governo italiano è stata oltremodo ambigua. Sulla base di fonti giornalistiche internazionali - sui giornali italiani abbiamo rintracciato ben poco - il Governo italiano avrebbe espresso in sede europea la sua contrarietà alla riattivazione delle sanzioni. Intervenendo alla Camera il Ministro Vito, in risposta ad un'interrogazione parlamentare del collega Mecacci, pur affermando che l'Italia insieme a molti altri Paesi membri è a favore di un approccio articolato che preveda forme anche energiche di pressione - compresa la limitazione nella concessione di visti di ingresso a personalità e funzionari bielorussi responsabili delle violenze - ha aggiunto, come a giudizio del Governo, e la risposta europea sia tale da non interrompere del tutto la collaborazione politica con le autorità di Minsk, e che non ci si limiti a riportare indietro le lancette dell'orologio con un semplice ritorno alla situazione precedente il 2008, quando di fatto l'Unione europea si rifiutava di parlare con Minsk.
Quindi credo che, anche di fronte a questo tipo di risposta che il Ministro Vito ha dato, una risposta interlocutoria, la discussione di questa mozione sia quanto mai opportuna, e mi auguro anche il voto - ho visto le mozioni dei colleghi, anche quella dei colleghi del Popolo della Libertà - e credo però che il Parlamento debba dare un'indicazione, mi auguro unanime, ma soprattutto netta, anche per sgomberare il campo dalle ambiguità nei comportamenti di cui sopra, almeno come sono stati registrati dalla stampa internazionale.
Quindi, con questa mozione impegniamo il Governo a chiedere ufficialmente al Governo bielorusso l'immediata scarcerazione di quanti siano stati arrestati a seguito delle manifestazioni politiche del 19 dicembre 2010 e dei giorni successivi; ad agire in sede europea affinché, fino a quando il Governo bielorusso non abbia intrapreso atti concreti nella direzione della democratizzazione del Paese, siano ripristinate le sanzioni nei confronti della Bielorussia al momento sospese, in particolare il divieto d'ingresso nel territorio dei Paesi dell'Unione europea per le trentasei cariche bielorusse, incluso Lukasšenko; ad adottare tutte le iniziative possibili per sostenere le attività delle organizzazioni politiche bielorusse ed internazionali impegnate per il consolidamento Pag. 52della democrazia, delle libertà individuali e dei diritti umani nel Paese est-europeo.
Signor Presidente, signor sottosegretario, concludo da dove ho iniziato, proprio con riferimento alla chiarezza necessaria, che, a mio avviso, è mancata da parte del Governo italiano, nei confronti di regimi come quello di Lukasšenko, di Nazarbaev e mi fermo qui, perché potrei anche continuare. Un conto è la necessità, e forse l'opportunità, di mantenere rapporti diplomatici, un conto sono le sanzioni economiche che possono colpire anche le popolazioni, un altro conto invece è portare gratuitamente - peraltro senza informare il Parlamento e senza avere avuto indicazioni di questo tipo da parte del Parlamento italiano - un sovrappiù di solidarietà e di riconoscimento a regimi che si fondano sulla violenza, sull'intolleranza e sulla repressione di ogni tipo di manifestazione libera e democratica.
Queste sono le parole che ho richiamato nei confronti di Lukasšenko e di Nazarbaev. Credo che il Parlamento italiano lo debba esigere dal Governo e anche in prima persona dal Presidente del Consiglio. Non possiamo apparire agli occhi di chi, in Bielorussia o anche in Kazakhstan o altrove, lotta per un minimo di democrazia, per un minimo di Stato di diritto, per un minimo di libertà, come dei relativisti in campo di politica internazionale o come degli agnostici, per cui siamo totalmente indifferenti alla natura dei regimi con cui trattiamo e siamo totalmente indifferenti ai diritti fondamentali, ai diritti umani, ai diritti di libertà, ai diritti civili e politici delle popolazioni che sono vittime dei tiranni, che noi invece salutiamo senza fare un plissé, solo perché in «elezioni truffa» ottengono l'80 o magari il 90 per cento dei voti (Applausi dei deputati del gruppo Futuro e Libertà per l'Italia e di deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Di Stanislao, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00535. Ne ha facoltà.

AUGUSTO DI STANISLAO. Signor Presidente, la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici (meglio nota come Patto internazionale sui diritti civili e politici), è un trattato delle Nazioni Unite nato dall'esperienza della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, adottato nel 1966 ed entrato in vigore nel marzo del 1976. Le nazioni firmatarie sono tenute a rispettarla. È stato ratificato dall'Italia il 15 settembre 1978 e reso esecutivo con la legge n. 881 del 1977.
I diritti civili e politici riconosciuti dalla Dichiarazione universale sono: il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona (questo lo ricordo perché diamo sempre tutto per scontato, ma è bene che dal Parlamento venga un sussulto anche in questa occasione, non solo nella memoria e nel ricordo, ma anche per garantire una prospettiva a tutte le occasioni alle quali partecipiamo o alle quali qualcuno nel Governo partecipa in nome e per conto del Parlamento e della nostra nazione); la libertà dalla schiavitù, dalla tortura e da ogni trattamento o punizione crudele, inumana o degradante; l'uguaglianza davanti alla legge; la protezione contro l'arresto, la detenzione o l'esilio arbitrari; il diritto ad un'equa e pubblica udienza davanti ad un tribunale indipendente ed imparziale; il diritto alla presunzione di innocenza sino a che la colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo; il diritto a non essere condannato per un comportamento che nel momento in cui sia stato commesso non costituisse reato secondo il diritto interno o internazionale; il diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato; il diritto di chiedere e godere dell'asilo dalle persecuzioni in altri Paesi; il diritto alla cittadinanza; il diritto al matrimonio; il diritto a non essere privato arbitrariamente della proprietà; il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; il diritto alla libertà di riunione e associazione pacifica; il diritto di partecipare al governo del proprio Paese, sia direttamente, sia attraverso rappresentanti liberamente scelti. Pag. 53
La 65a sessione dell'Assemblea generale dell'ONU ha esaminato la bozza di risoluzione A/C.3/65/L.23 per una moratoria sulla pena di morte. Questa è la terza risoluzione in materia dal 2007. Amnesty International ha accolto con favore la decisione degli attuali 78 Stati di tutte le regioni del mondo di cosponsorizzare questa risoluzione ed esorta un numero maggiore di Stati a sostenerla.
L'Organizzazione per i diritti umani, inoltre, sollecita gli Stati ad opporsi a ogni emendamento che potrebbe modificare l'obiettivo centrale della risoluzione: ottenere una moratoria sulle esecuzioni in vista dell'abolizione della pena di morte. Quando l'ONU venne fondata, nel 1945, solo otto Stati avevano abolito la pena di morte per tutti i reati. Oggi non meno di 136 su 192 Stati membri delle Nazioni Unite sono abolizionisti per legge o nella pratica. Tra questi, anche l'Argentina e l'Uzbekistan, che sono diventati abolizionisti per tutti i reati nel 2008, seguiti da Burundi e Togo nel 2009.
Dei 53 Stati membri dell'Unione africana, 49 non hanno effettuato esecuzioni nel biennio 2008-2009. Nel 2009, in Asia, per la prima volta da diversi anni non ci sono state esecuzioni in Afghanistan, Indonesia, Mongolia e Pakistan. La zona Europa-Asia centrale è quasi libera dalla pena di morte: la Bielorussia è il solo Paese che ancora esegue sentenze capitali. Nelle Americhe, solo gli Stati Uniti applicano regolarmente la pena di morte, ma il numero di esecuzioni ogni anno è diminuito di circa la metà rispetto a un decennio fa. Per quanto riguarda Medio Oriente-Africa del Nord, negli ultimi anni non vi sono state notizie di esecuzioni in Algeria, Libano, Marocco e Tunisia.
Con la risoluzione del Parlamento europeo del 10 marzo 2010 sulla situazione della società civile e delle minoranze nazionali in Bielorussia il Parlamento europeo: esprime profonda preoccupazione per le recenti violazioni dei diritti umani perpetrate nella Repubblica di Bielorussia contro membri della società civile, in particolare contro membri dell'Unione dei polacchi e dichiara la propria solidarietà ai cittadini cui non è concesso di godere appieno dei propri diritti civili; condanna l'intervento della polizia e della magistratura ai danni dell'Unione dei polacchi e ogni tentativo da parte delle autorità bielorusse di imporre una nuova leadership alla comunità polacca; chiede che le autorità bielorusse conferiscano nuovamente status legale all'UPB guidato da Angelika Borys e provvedano affinché siano restituite all'organizzazione, a tempo debito, le relative proprietà; ribadisce il suo interesse per un dialogo aperto e strutturato con la Bielorussia a condizione che la democratizzazione del sistema politico del Paese porti a risultati concreti che riflettano il rispetto dei diritti dell'uomo e dello Stato di diritto; esorta la Bielorussia ad adempiere agli impegni assunti in seno all'OSCE e alla comunità internazionale per quanto riguarda la tutela e la promozione dei diritti delle sue minoranze; invita, nel contempo, le autorità a migliorare le condizioni per il funzionamento della società civile, con particolare riferimento alla libertà di espressione e di riunione, alla situazione dei mezzi d'informazione indipendenti, compreso l'accesso a Internet, e alla registrazione delle ONG, con l'obiettivo di preparare e consentire un processo elettorale libero ed equo per le elezioni comunali del 25 aprile 2010.
Nelle precedenti risoluzioni, in particolare quelle del 15 gennaio e del 17 dicembre 2009, si chiede che venga garantita la libertà di espressione e di associazione e la libertà di registrare partiti politici come la Democrazia cristiana bielorussa, la libertà di religione e l'instaurazione di condizioni che permettano ai soggetti della società civile, alle ONG (come «Viasna») e ai mezzi d'informazione indipendenti di operare in Bielorussia.
Il dialogo fra l'Unione europea e la Bielorussia può essere vantaggioso per entrambi e si ritiene che la Bielorussia possa essere assistita nell'ottenere il massimo beneficio dal partenariato orientale, in particolare ai fini del miglior uso dei fondi assegnati nel quadro di tale programma per progetti infrastrutturali, energetici e sociali e mediante l'applicazione di altri Pag. 54strumenti e politiche UE, purché le autorità bielorusse si assumano l'impegno di conseguire concreti cambiamenti nei settori delle libertà, della democrazia, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti dell'uomo e, soprattutto, in materia di diritti delle minoranze nazionali.
L'Unione europea ha già dimostrato una notevole apertura a un impegno nei confronti della Bielorussia, che ha trovato espressione anche nell'inserimento della Bielorussia nel partenariato orientale. Il successo di tale impegno dipende dai progressi del Governo bielorusso verso la democratizzazione e la difesa dei diritti umani, compresi i diritti delle minoranze.
Il 25 ottobre 2010 il Consiglio europeo aveva invitato le autorità bielorusse a garantire che le elezioni si sarebbero tenute il mese successivo e che si sarebbero svolte in conformità delle regole e delle norme internazionali in materia di elezioni democratiche, nonché degli impegni assunti dalla Bielorussia stessa nell'ambito dell'OSCE e dell'ONU per quanto riguarda i miglioramenti da apportare alla propria legge elettorale al fine di allinearla alle norme internazionali in materia di elezioni democratiche, assicurando anche che avrebbero consultato tempestivamente l'OSCE in merito alle modifiche previste.
L'Assemblea nazionale bielorussa ha, invece, approvato una riforma del codice elettorale senza aver preventivamente consultato l'OSCE. La dichiarazione sui risultati e le conclusioni preliminari della missione internazionale di osservazione delle elezioni presidenziali in Bielorussia sono state rese note dall'Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani dell'OSCE e dall'Assemblea parlamentare dell'OSCE il 20 dicembre 2010 e hanno evidenziato, malgrado i pochi miglioramenti intervenuti nel periodo pre-elettorale, che le elezioni presidenziali del 19 dicembre 2010 non si sono svolte nel rispetto delle norme internazionali in materia di elezioni libere, eque e trasparenti; le elezioni hanno comunque portato alla rielezione del Presidente Lukasšenko, con oltre 1'80 per cento dei voti.
A seguito delle critiche mosse dagli osservatori dell'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa circa le irregolarità del voto durante le ultime elezioni presidenziali, il Presidente bielorusso ha disposto, il 20 dicembre 2010, l'immediata chiusura dell'ufficio dell'OSCE a Minsk.
Oltre 700 persone sono state arrestate per aver partecipato alla manifestazione dello stesso 19 dicembre 2010 a Minsk e la maggior parte di esse è stata rilasciata dopo aver scontato brevi pene amministrative, mentre 24 militanti e giornalisti dell'opposizione, tra cui 6 candidati presidenziali, sono stati accusati di aver organizzato disordini di massa, attacchi violenti e resistenza armata, il che potrebbe comportare pene detentive fino a quindici anni.
All'indomani di tali gravi fatti, alcuni Paesi dell'Unione europea hanno dichiarato Lukasšenko quale «persona non grata», mentre sono in corso discussioni all'interno dell'Unione europea sulla necessità di ripristinare sanzioni nei confronti degli esponenti del Governo bielorusso, anche con l'adozione di una nuova risoluzione del Parlamento europeo.
Tale ipotesi prevedrebbe, tra le altre, di impegnare il Consiglio, la Commissione e l'Alto rappresentante dell'Unione europea: a rivedere la politica dell'Unione europea nei confronti della Bielorussia, anche esaminando la possibilità di imporre sanzioni economiche mirate e di congelare tutti gli aiuti macrofinanziari forniti attraverso i prestiti del Fondo monetario internazionale e operazioni di prestito della BEI e della BERS; a modificare l'orientamento della politica europea di vicinato e dell'assistenza nazionale a favore della Bielorussia in modo da garantire un adeguato sostegno alla società civile; a reintrodurre immediatamente il divieto di visto per i dirigenti bielorussi, estendendolo anche ai funzionari pubblici, ai magistrati e agli ufficiali di sicurezza potenzialmente responsabili dei brogli e delle rappresaglie post-elettorali, nonché dell'arresto degli esponenti dell'opposizione, e a congelare i beni di tali persone. Pag. 55
Il Governo polacco ed il Parlamento lituani, in tal senso, hanno già imposto restrizioni di viaggio ai rappresentanti del regime di Minsk e, nel contempo, semplificato l'accesso all'Unione europea per i cittadini bielorussi. Tale sospensione non dovrebbe essere applicata ai rappresentanti di ONG e della società civile.
Si consideri inoltre che già il 15 febbraio 2010 furono arrestati in Bielorussia 40 attivisti, per la maggior parte membri dell'Unione dei polacchi di Bielorussia (UPB), tra cui Angelika Borys (presidente dell'UPB) e Anatol Lebedzka leader del partito di opposizione bielorusso, il Partito civico unito, allo scopo di impedire loro di partecipare al processo concernente la Casa dei polacchi di Ivyanets e che la comunità dei polacchi, circa 400.000 persone, è costantemente oggetto di repressione e censura da parte delle autorità bielorusse.
Il ricorso alla violenza da parte della polizia e dei servizi del KGB nei confronti dei manifestanti durante la giornata elettorale e, in particolare, la brutale aggressione a Vladimir Neklyaev, hanno comportato gravi violazioni dei principi democratici fondamentali, come quelli della libertà di riunione e di espressione, nonché dei diritti umani.
Preoccupazione hanno destato i tentativi delle autorità bielorusse di affidare alla custodia dello Stato Danil Sannikov, il figlio di tre anni del candidato alle elezioni presidenziali Andrej Sannikov e di Irina Chalip (una giornalista investigativa), i quali dal giorno delle elezioni si trovano entrambi in carcere; il Presidente del Parlamento europeo, l'Alto rappresentante dell'Unione europea e il Segretario generale dell'ONU hanno condannato la repressione della manifestazione del 19 dicembre 2010 e le ulteriori misure adottate dalle forze di polizia nei confronti dell'opposizione democratica, dei mezzi di comunicazione indipendenti e degli attivisti della società civile.
Risulta che gli avvocati che rappresentano i manifestanti, gli oppositori politici o le loro famiglie sono minacciati di perdere la loro licenza o essere radiati. La dichiarazione del Vertice di Praga sul partenariato orientale aveva ribadito gli impegni, sottoscritti anche dalla Bielorussia, nei confronti dei principi del diritto internazionale e dei valori fondamentali, tra i quali la democrazia, lo Stato di diritto e il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali.
Il 1o febbraio 2010 Alexander Lukasšenko aveva firmato un decreto che imponeva la censura su Internet e aveva creato un centro di analisi in grado di monitorare Internet e di esigere che i fornitori di accesso al servizio potessero bloccarlo nel giro di 24 ore, fatto che ha posto poi la Bielorussia allo stesso livello di Paesi come la Cina, la Corea del Nord e l'Iran.
Il Consiglio europeo ha ribadito la propria disponibilità ad approfondire le relazioni con la Bielorussia, subordinatamente al raggiungimento in Bielorussia di sviluppi positivi verso la democrazia, i diritti umani e lo Stato di diritto, così come la disponibilità ad assistere il Paese nel conseguimento di tali obiettivi. La mossa della Federazione russa, che ha riconosciuto le elezioni e descritto la repressione come un «affare interno», è stata deplorata anche dalla Commissione europea, intenta ad avviare un processo di dialogo, consultazione e coordinamento politico con i Paesi terzi limitrofi della Bielorussia che intrattengono tradizionalmente relazioni speciali con tale Paese, onde massimizzare l'efficienza della politica UE nei confronti della stessa e cooperare al fine di coniugare opportunamente la risposta al deficit democratico e alle violazioni dei diritti umani con la necessità di evitare l'isolamento internazionale del Paese.
Va ricordato, infine, che in occasione del primo vertice bilaterale tra un Capo di Governo di un Paese membro dell'Unione europea e il Presidente bielorusso, che si è svolto il 30 novembre 2009 a Minsk, il Presidente del Consiglio dei ministri Silvio Berlusconi dichiarò pubblicamente, rivolgendosi a Lukasšenko: «La sua gente la ama e questo è dimostrato dai risultati delle elezioni, che sono sotto gli occhi di Pag. 56tutti, che noi apprezziamo e conosciamo», elezioni che - ricordo - furono, invece, definite dall'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa in grave violazione degli standard internazionali sottoscritti dai Paesi membri dell'OSCE.
Nel 2014 è previsto che si svolga in Bielorussia il campionato mondiale di hockey su ghiaccio. Secondo notizie a mezzo stampa, la posizione del Governo italiano, in linea con le dichiarazioni di Lukasšenko e del Presidente del Consiglio dei ministri del novembre 2009, sarebbe contraria ad una dura condanna politica di quanto avvenuto nel corso delle elezioni presidenziali del 2010.
In ragione di tutte le questioni aperte che ho sottolineato, l'Italia dei Valori con questa mozione intende semplicemente impegnare il Governo a fare qualcosa di più e meglio di quanto ha fatto il nostro premier, e segnatamente: a sostenere con forza l'azione europea circa l'introduzione di sanzioni personali, come la sospensione dei visti verso l'Unione europea, nei confronti degli esponenti del Governo e dell'apparato di sicurezza bielorusso - che si sono resi responsabili delle gravissime violazioni delle norme democratiche e dei diritti umani in occasione delle ultime elezioni presidenziali - quanto meno fintantoché tutti i prigionieri e detenuti politici non saranno stati liberati e scagionati da ogni accusa; a sospendere l'adozione di iniziative bilaterali con il regime bielorusso, che minano la credibilità e l'efficacia della politica estera europea; a chiedere nelle sedi opportune e attraverso i canali diplomatici il rilascio immediato e incondizionato di tutte le persone arrestate durante la giornata elettorale e all'indomani della stessa, nonché dei prigionieri di coscienza riconosciuti da Amnesty International; a chiedere alle autorità bielorusse di fornire ai detenuti accesso, senza restrizioni ai propri familiari, all'assistenza legale e alle cure mediche; a condannare fermamente le azioni delle autorità bielorusse nei confronti dei membri dell'organizzazione che rappresenta la minoranza nazionale polacca e a ribadire il proprio appello alla Bielorussia affinché rispetti i diritti umani e i diritti di tutti i suoi cittadini; a chiedere con forza che vengano garantite la libertà dei media, la libertà di associazione e di riunione, la libertà di religione per le chiese diverse dalla Chiesa ortodossa bielorussa, e gli altri diritti e libertà politiche e - da ultimo e non penultimo - a sostenere l'ipotesi avanzata in sede europea di una sospensione dei campionati mondiali di hockey su ghiaccio previsti per il 2014, fintantoché restano ancora in prigione i detenuti politici.
Questo è il minimo che si possa chiedere alla Bielorussia e al suo capo, in questo caso famigerato, Lukasšenko.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Mecacci, che illustrerà anche la mozione Tempestini ed altri n. 1-00536, di cui è cofirmatario. Ne ha facoltà.

MATTEO MECACCI. Signor Presidente, le ragioni a favore della necessità che il nostro Parlamento prenda, oggi e nella giornata di domani, una decisione netta su quanto sta avvenendo in Bielorussia, in questi giorni, e su quello che è accaduto nelle scorse settimane, sono state già esposte, sia dal collega Della Vedova che dal collega Di Stanislao. Credo, però, che questa sia un'opportunità per cercare di affrontare, anche all'interno di quest'Aula, un argomento, come quello della politica estera, che, in tutti i Paesi europei, se avesse ad oggetto gli argomenti di cui trattiamo oggi e, cioè, in particolare, quello che è l'atteggiamento del nostro Presidente del Consiglio nei confronti di alcuni esponenti e leader politici che sono universalmente riconosciuti come leader autoritari e, quindi, non democratici, sarebbe al centro del dibattito politico e della discussione su quello che debba essere il futuro di un Paese come il nostro che - lo ricordiamo - è sempre un Paese che è tra i fondatori dell'Unione europea e che, da oltre cinquanta anni, fa parte dell'Alleanza atlantica.
Credo che sarebbe anche l'ora di iniziare a discutere delle differenze e delle distanze che spesso esistono fra le posizioni Pag. 57che il nostro Presidente del Consiglio prende in occasione di vertici bilaterali che avvengono, o nel nostro Paese o all'interno dei Paesi che visita, da quelli che, poi, sono i comunicati e le attività normali che vengono svolte dalla Farnesina. Vi è spesso una non corrispondenza perché le dichiarazioni, ricordate sia da Della Vedova che da Di Stanislao, che il Presidente del Consiglio Berlusconi ha fatto, ad esempio, a Minsk nel 2009 o nel corso del vertice OSCE di Astana, in Kazakhstan, non le abbiamo mai sentite fare da altri esponenti della Farnesina, né dal Ministro degli esteri né dai sottosegretari, inclusa la sottosegretaria Craxi che è qui davanti a noi. È chiaro che il Presidente del Consiglio ha il compito di indirizzare la politica del Governo, però, quando non vi è corrispondenza tra l'attività del nostro apparato politico e diplomatico, che è presente in centinaia di Paesi del mondo, e quello che il Presidente del Consiglio dichiara in occasione, appunto, di questi incontri dove rappresenta, naturalmente, tutto il Governo, credo che si ponga un problema di gestione della politica estera del nostro Paese e di non coerenza tra quelle che sono le attività giorno per giorno della Farnesina e, poi, quello che, pubblicamente, riceve anche l'attenzione dei media.
Credo che questo - consentirà il sottosegretario Craxi - possa essere argomento di dibattito politico in un Paese o dovrebbe quantomeno esserlo in un Parlamento dove, appunto, le attività del Governo devono essere oggetto di controllo e, possibilmente, anche di indirizzo. Questo Parlamento, infatti, ha approvato, nel corso di questi due anni e mezzo, anche una serie di provvedimenti, di mozioni parlamentari, che, poi, spesso, il suddetto tipo di dichiarazioni vanificano nel nulla. Credo che, allora, sia importante cercare di avere un testo che sia considerato dal Governo tutto, e non solo dalla Farnesina, come un documento vincolante. Questo perché? Perché il Governo italiano e, in particolare, il Presidente del Consiglio, si è assunto, nei confronti della Bielorussia - ma potremmo estendere la discussione a tanti altri argomenti - delle precise responsabilità politiche. Lo ha fatto con la piena consapevolezza perché è un leader politico che, evidentemente, sa quello che fa e sa quello che vuole; quando, però, si fanno certe dichiarazioni, come quelle che sono state ricordate, si dà a questi leader autoritari quello di cui hanno più bisogno e, cioè, in un mondo che è globalizzato dal punto di vista economico, gli si offre la legittimazione democratica. Si afferma che, nel mondo contemporaneo, tutti i Paesi sono interdipendenti, tutti i Paesi dipendono l'uno dall'altro dal punto di vista economico e finanziario, quindi iniziamo ad essere tutti uguali anche dal punto di vista del rispetto dei diritti umani e della legittimazione democratica che questi leader hanno. Questo non è vero.
Quando si fa questo nei confronti di Gheddafi, nei confronti di Lukasšenko, nei confronti di Nazarbayev, nei confronti di Ben Alì e potremmo continuare con Putin e con tanti altri personaggi, si mette non soltanto questo Governo, ma l'intero Paese in una posizione di profonda debolezza perché quando poi ci si rivolge alle istituzioni internazionali per chiedere assistenza o per chiedere che il nostro Paese sia meglio rappresentato all'interno di queste istituzioni, a partire dalle Nazioni Unite, per non parlare dell'Unione europea ma anche l'OSCE e molte organizzazioni internazionali, ci troviamo a scontarlo e molti esponenti della Farnesina, ambasciatori e persone che lavorano in questo settore sanno che in questo modo la posizione e le possibilità per il nostro Paese di poter influire e contare a livello internazionale vengono indebolite. Ciò accade perché credo che il Presidente del Consiglio abbia fatto un grave errore di valutazione: pensare, cioè, che instaurare un rapporto privilegiato, come lui stesso dice anche di amicizia e di carattere personale, con questi leader autoritari si traduca automaticamente in vantaggi per il Paese sia dal punto di vista politico che economico. Tuttavia se guardiamo anche ad alcuni degli interessi strategici del nostro Paese a partire da quelli dell'ENI o a quelli di Finmeccanica o di molti altri Paesi noi vediamo che in realtà a queste Pag. 58aperture di credito che vengono fatte nei confronti di questi leader non corrispondono vantaggi specifici e precisi per il nostro Paese. Ci sono anche altri Paesi che hanno buone relazioni economiche con la Cina, con il Kazakhstan e che non fanno questo tipo di dichiarazioni. Basti pensare all'ENI. L'ENI ha importanti interessi economici in Kazakhstan ed è notizia di cui si parla poco nel nostro Paese, tuttavia lei sa benissimo, signor sottosegretario, che vi sono alcuni manager dell'ENI che sono sotto processo in Kazakhstan e alcuni sono stati anche espulsi per violazione delle norme sul lavoro. Infatti esiste un contenzioso con le società legate al Governo kazako per lo sfruttamento dei giacimenti che sono gestite dal sistema giudiziario kazako, dove le possibilità anche di tutela giuridica degli interessi nelle nostre aziende, in questo caso di un'azienda che è anche partecipata dal Ministero dell'economia e delle finanze, non hanno possibilità di essere difesi.
In Bielorussia, quando il Presidente del Consiglio fece la famosa dichiarazione resa - lo dico per inciso - mentre si svolgeva ad Atene il summit dell'OSCE alla presenza di tutti i Ministri degli esteri, e non mi ricordo se fu proprio lei a recarsi ad Atene nel 2009, dichiarazioni che legittimavano il consenso popolare di Lukasšenko come democratico esse venivano fatte nel giorno in cui si riuniva l'organizzazione che aveva definito quelle stesse elezioni come non democratiche. Allora si era detto, si era parlato tanto sui giornali della possibilità che questo tipo di rapporto privilegiato con la Bielorussia avrebbe prodotto vantaggi economici per il nostro Paese: un'area speciale a tassazione ridotta per le imprese italiane sul modello di Timisoara. È passato oltre un anno e di ciò non si è avuto più traccia. Si è parlato della consegna da parte di Lukasšenko al Presidente del Consiglio Berlusconi della lista degli italiani morti in Bielorussia durante la seconda guerra mondiale e che erano lì dispersi e che finalmente avrebbe consentito anche alle famiglie di queste persone di sapere che fine avevano fatto i loro cari, ma si è saputo pochissimo. Nell'ultimo incontro al Ministero degli affari esteri, del Ministro Frattini con il Ministro degli esteri bielorusso, di questo non si è parlato.
Dunque, ritengo che vi sia un problema che si pone non solo dal punto di vista teorico, quasi di scontro ideologico, tra i realisti, che farebbero questo tipo di scelte, e gli idealisti che pensano soltanto ai diritti umani, alle belle anime, che non tengono conto degli interessi più generali di un Paese. Credo che invece nella posizione di quei Governi anche all'interno dell'Unione europea o degli Stati Uniti e che su alcuni punti cercano di tener ferma la barra e di non cedere alla legittimazione democratica di chi non se la merita vi sia anche la tutela di un interesse strategico nel nostro Paese e dell'umanità tutta.
Mi riferisco alla necessità che si favorisca il crescere ed il rafforzarsi di istituzioni e di Governi che siano amici non solo perché si riesce a stabilire un rapporto di carattere personale, che sappiamo quanto possa essere labile e quanto poi sia rischioso, perché a livello personale tutti si passa all'interno delle istituzioni e nessuno resta a vita, almeno appunto nei Paesi democratici, quindi se i rapporti fra Paesi si fondano su questo tipo di relazioni è chiaro che si fondano su un terreno che è facilmente controvertibile e che poi può arrecare danni al Paese.
Quindi penso che sia importante l'occasione della discussione che vi sarà alla fine del mese al Consiglio dell'Unione europea e credo che il Parlamento possa contribuire anche in questo senso, rendendo finalmente pubblico il dibattito e spero che anche i mezzi di informazione su questo vogliano soffermarsi, perché occorre arrivare alla presa di decisione e alla pronuncia di dichiarazioni pubbliche che non siano appunto il frutto di valutazioni estemporanee o colpi di genio o d'ingegno del Primo ministro, ma che siano il frutto di un'elaborazione politica, alla quale possa contribuire il Parlamento, alla quale possa contribuire il Ministero degli affari esteri e che tenga conto degli interessi del nostro Paese, che innanzitutto Pag. 59sono gli interessi di un Paese che è membro dell'Unione europea. Dunque fare sempre, all'interno dell'Unione europea, la parte del difensore dei dittatori e degli autocrati non è nell'interesse del nostro Paese.
Credo che questa sia un'opinione legittima e credo che sia un'opinione che, se fosse interpellata, anche l'opinione pubblica del nostro Paese condividerebbe, perché non credo che vi siano stati molti italiani che siano stati soddisfatti del trattamento che le nostre istituzioni, per esempio hanno riservato a Gheddafi nel nostro Paese o di tante altre dichiarazioni che sono state fatte dal Presidente del Consiglio.
Tuttavia in quell'occasione, a fine mese, l'Unione europea deve pronunciarsi su alcuni punti precisi. È stato già ricordato: sostanzialmente tutta l'opposizione bielorussa è stata decapitata, sei dei candidati presidenziali sono stati arrestati, quattro sono ancora in galera, rischiano di decine di anni di prigione e con loro tutti i principali responsabili delle campagne presidenziali dell'opposizione e gli esponenti delle maggiori organizzazioni che si occupano dei diritti umani sono in galera.
Non reagire a questo con una decisione di censura politica piena e con la cessazione dei rapporti politici privilegiati che l'Unione europea aveva cercato di riavviare anche nel corso dell'ultimo anno significherebbe premiare un comportamento sbagliato e questo sarebbe percepito da tutta la popolazione bielorussa, al di là di quello che possono dire anche altri colleghi ed altre persone. Infatti questa non è una decisione che mira ad interrompere i rapporti con quella popolazione, anzi vi sono sul tavolo proposte anche di facilitazione dei visti per i cittadini bielorussi che vogliano venire a studiare in Europa o che vogliano avere rapporti più stretti con i cittadini europei; ciò non va assolutamente in contraddizione con la necessità di dire chiaramente a chi rappresenta le istituzioni di quel Paese che non si può - come appunto è stato fatto la notte del 19 dicembre: io stavo lì a Minsk con la missione elettorale dell'OSCE - mandare in piazza migliaia e migliaia di soldati con caschi, bastoni e scudi ed arrestare oltre seicento persone, picchiare donne, ragazze e persone anziane, che non sono state colpevoli di nessuna violenza, ma semplicemente chiedevano il rispetto di quelli che erano gli standard internazionali che la Bielorussia si era impegnata a seguire e che purtroppo anche in questa occasione non ha rispettato.
Quindi mi auguro che il Governo su questo aspetto possa tenere una posizione che sia diversa da quella che è stata espressa in passato dal nostro Presidente del Consiglio (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Migliori, che illustrerà anche la mozione Antonione, Stefani, Sardelli ed altri n. 1-00537, di cui è cofirmatario. Ne ha facoltà.

RICCARDO MIGLIORI. Signor Presidente, colleghi, a nome del gruppo del Popolo della Libertà, ho l'onore di illustrare il senso della mozione del nostro gruppo sugli avvenimenti recenti in Bielorussia, soprattutto considerando l'esito delle elezioni di domenica 19 dicembre 2010, che hanno riconfermato, attraverso un'elezione che è stata giudicata non conforme agli standard europei, né libera e giusta dall'OSCE, Alexander Lukasšenko alla Presidenza della Repubblica bielorussa.
Vorrei partire proprio da qui, cioè da un dato di fatto: la dichiarazione dell'OSCE sul procedimento elettorale e sullo stesso giorno delle elezioni. L'OSCE ha dichiarato che le elezioni presidenziali hanno dimostrato che la Bielorussia ha ancora davanti un cammino considerevole per rispettare i requisiti OSCE in materia di elezioni, nonostante qualche progresso sia stato compiuto. Durante il procedimento elettorale, è stato consentito ai candidati di far conoscere in modo libero le proprie posizioni attraverso i mezzi di comunicazione di massa e sono stati organizzati anche due confronti televisivi. Pag. 60Tuttavia, si rileva come soprattutto la cornice legale non fornisca sufficienti garanzie, perché la commissione centrale delle elezioni, che controlla la regolarità delle stesse, ha sì amministrato in maniera trasparente gli aspetti tecnici del processo elettorale, tuttavia, pecca di imparzialità, essendo minimale la presenza dell'opposizione al suo interno.
In particolare, risultano poi carenti le garanzie della regolarità del voto in anticipo rispetto all'apertura dei seggi e dello scrutinio. Ciò - in questo momento, parlo come presidente della delegazione parlamentare italiana all'Assemblea parlamentare dell'OSCE - è stato rilevato nel corso di tutte le ultime elezioni in Bielorussia e, in particolare, nelle elezioni politiche del settembre del 2008. Durante tali elezioni, si registrò la stessa distorsione del processo di trasparenza democratica necessaria, cioè il voto anticipato senza garanzie, che riguarda una fetta considerevole dell'elettorato (fra il 20 e il 25 per cento). Si registrò, inoltre, a differenza degli altri Paesi - anche dell'area impegnata con difficoltà nella transizione tra comunismo e democrazia - l'impossibilità per gli osservatori di verificare de visu il conteggio e lo scrutinio, essendo stati gli stessi allontanati a più di dieci metri dal tavolo dove si svolgevano le operazioni di scrutinio, proprio per evitare qualsiasi tipo di verifica circa la regolarità delle stesse.
Ho citato non a caso il giudizio ufficiale dell'OSCE perché, nel corso di questi anni, rispetto anche al periodo più duro delle sanzioni dell'Unione europea, grazie anche all'iniziativa italiana, in quel Paese si sono registrati progressi. Vorrei sottolinearne alcuni: il confronto con la cosiddetta commissione di Venezia, che ha aperto circa la modifica della legge elettorale, che nel settembre 2012 porterà alle nuove elezioni (oggi, esiste un sistema elettorale di tipo maggioritario, secco, a collegi, che non permette la presenza dell'opposizione nel Parlamento bielorusso); la possibilità, per la prima volta, che con dieci candidati alternativi a Lukasšenko sia aperto un minimale, seppur significativo, confronto televisivo; la possibilità di sottoscrivere centomila firme a sostegno di ogni candidatura e, quindi, con un'esplicazione in termini significativi delle libertà relative alla predisposizione e alla presentazione delle candidature alternative.
Questo aveva fatto sperare molto. Una settimana prima del voto, non Berlusconi, ma il Ministro degli esteri tedesco Westerwelle e il Ministro degli esteri polacco Sikorsky si erano recati a Minsk, valutando positivamente i progressi che si erano registrati per quel che riguarda il procedimento elettorale e - aggiungo - le libertà religiose e la tutela della minoranza polacca di Hrodna. Purtroppo, le attese positive che si erano accumulate nel corso dei mesi per questo progresso e per questa evoluzione democratica del sistema politico bielorusso, sono state clamorosamente smentite.
Nella giornata e, soprattutto, nella notte del 19 dicembre 2010, quattro candidati alla Presidenza (Sannikov, Statkevitch, Kastussev, Rymachevski) sono stati arrestati e con loro un numero significativo di cittadini che, con le insegne dell'Unione europea, protestavano nella piazza centrale di Minsk nei confronti dei risultati elettorali e dei brogli che si denunciavano.
Voglio dire, colleghi, che, a differenza di alcuni toni che ho sentito più nei documenti che negli interventi che si sono registrati oggi pomeriggio, mi è parsa molto lineare la posizione del Ministro degli affari esteri Frattini e anche l'atteggiamento del Governo. Il Ministro Frattini, a dimostrazione di un rapporto molto significativo e particolare del nostro Paese con la Bielorussia, ha ricevuto due giorni dopo le elezioni il Ministro degli esteri Martynov a Roma, poi il giorno successivo in visita al cardinal Bertone presso la Santa Sede.
In quella occasione si è denunciata con forza l'esigenza di un pronto ristabilimento delle condizioni minimali di libertà in quel Paese - e soprattutto il rilascio di chi era stato incarcerato - e soprattutto veniva ribadita la particolare sensibilità del nostro Paese nei confronti della Bielorussia a causa delle decine di migliaia di Pag. 61famiglie italiane che hanno adottato ed ospitato nel corso degli ultimi anni, soprattutto dopo Chernobyl, migliaia e migliaia di bambini bielorussi, instaurando un legame significativo con quel Paese. Successivamente - non è emerso dal dibattito, ma voglio dirlo - il Ministro degli affari esteri ha dato istruzione all'ambasciatore d'Italia a Minsk, come, del resto, è accaduto per gli altri ambasciatori dei Paesi dell'Unione europea, di non partecipare al giuramento e alla solenne cerimonia con la quale il Presidente Lukasšenko ha iniziato il suo quinquennio presidenziale.
Voglio dire che sono in corso all'interno dell'Unione europea confronti per addivenire ad una nuova stagione di sanzioni e si sta discutendo su quale tipo di sanzioni adottare. Sottolineo che una questione particolarmente grave riveste la decisione del Governo bielorusso di non autorizzare la riapertura annuale della missione OSCE a Minsk. Questo è un elemento importante e, oserei dire, dirimente perché la chiusura della missione OSCE a Minsk significa la perdita di un legame fondamentale, di un cronometro, direi, circa l'evoluzione democratica di quel Paese. In queste ore Azubalis, il Ministro degli esteri lituano che è il presidente in esercizio dell'OSCE, sta tentando a Vienna, a Vilnius e a Minsk di convincere i governanti bielorussi a tornare sulle loro decisioni, perché la chiusura dell'ufficio della missione OSCE a Minsk rappresenterebbe, in modo irreversibile, la perdita di un legame e di un confronto di fondamentale importanza per l'evoluzione positiva in senso democratico di quel Paese.
Presumo che il Ministero degli affari esteri e, soprattutto, la sottosegretaria Craxi che interverrà alla fine del nostro dibattito, garantirà all'Assemblea che l'Italia farà la sua parte per quel che riguarda le decisioni che il 31 gennaio verranno prese unitariamente dall'Unione europea sotto questo profilo.
Nella nostra mozione invitiamo il Governo a tenere in particolare considerazione un'esigenza che a me pare prioritaria, cioè quella di effettuare concreti gesti di solidarietà e di sostegno alla società civile bielorussa nello spirito di una collaborazione con l'Unione europea che va incoraggiata e rilanciata. Sollecitiamo l'immediato rilascio di quanti siano ancora detenuti per motivazioni di natura esclusivamente politica e chiediamo un impegno assieme ai partner dell'Unione europea per esercitare ogni necessaria pressione, anche attraverso il temporaneo ripristino di sanzioni verso i responsabili degli abusi, affinché le autorità di Minsk imbocchino con decisione il cammino verso il raggiungimento degli standard europei in materia di stato di diritto e libertà democratiche.
Il Governo bielorusso è abitato al proprio interno da varie componenti. L'attentato che due anni fa sconvolse il centro di Minsk non è mai stato chiarito adeguatamente; noi pensiamo che sia necessario rafforzare coloro che, all'interno anche del sistema politico bielorusso, guardano all'Europa come incontrovertibile futuro ed approdo per quel Paese. Pensiamo, cioè, che non si debba rompere quel filo, oggi esile, di dialogo con le autorità bielorusse verso la definitiva democratizzazione e europeizzazione di quel Paese.

PRESIDENTE. La invito a concludere.

RICCARDO MIGLIORI. Mi avvio a concludere, signor Presidente, certo è, onorevoli colleghi, come è stato detto più volte in questo dibattito, che se non è possibile l'«indifferentismo» tra Paesi dittatoriali e non, è anche sbagliato non differenziare le sanzioni che si intendono assumere a livello di Unione europea nei confronti di questi Paesi. Trovo piuttosto originale che l'Unione europea cessi le sanzioni contro Cuba, non preveda sanzioni nei confronti del Turkmenistan, pensi a sanzioni di media gravità nei confronti della Bielorussia.
Penso che questo dibattito, liberato da provincialismi e strumentalismi evidenti, possa essere utile se riesce a dare al Parlamento italiano, al nostro Governo, e conseguentemente all'Unione europea una linea complessiva e unitaria di condotta rispetto a un tema fondamentale quale Pag. 62quello del confronto tra realismo ed essenziale sottolineatura dei diritti umani in ogni parte del mondo che ogni Governo, sotto il profilo della quotidianità e dei rapporti internazionali, dovrebbe assumere (Applausi dei deputati del gruppo Popolo della Libertà).

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali delle mozioni.

(Intervento del Governo)

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il sottosegretario di Stato per gli affari esteri, onorevole Craxi.

STEFANIA GABRIELLA ANASTASIA CRAXI, Sottosegretario di Stato per gli affari esteri. Signor Presidente, concordo con chi è intervenuto prima che discutere della situazione in Bielorussia dopo i gravi incidenti seguiti alle contestate e recenti elezioni presidenziali è una scelta assolutamente opportuna soprattutto in vista del dibattito che, su questo tema, si svilupperà in occasione del Consiglio affari esteri dell'Unione europea il prossimo 31 gennaio. Non a caso questo importante argomento è stato affrontato anche la settimana scorsa dal Parlamento europeo. Il Governo italiano ha registrato con grande preoccupazione le preliminari indicazioni degli osservatori OSCE sulla possibilità di diffusi brogli nello spoglio dei voti presidenziali bielorussi del 19 dicembre 2010. Siamo in attesa di conoscere il rapporto finale.
Vorrei, al contempo, respingere le accuse di ambiguità dell'azione del Governo italiano. Anche sulle violenze post elezioni il Governo italiano si è subito pronunciato esprimendo una netta condanna; già all'indomani delle consultazioni bielorusse il ministro Frattini ha definito inaccettabili le misure repressive adottate dalle autorità di Minsk a danno dei manifestanti e di alcuni candidati alle elezioni. Tali eventi, ha dichiarato il Ministro, danneggiano il clima di fiducia e ostacolano qualsiasi processo di reintegrazione della Bielorussia nella comunità internazionale. Preoccupazioni dello stesso colore sono state poi ribadite dal Ministro Frattini direttamente al suo omologo bielorusso Martinof; l'incontro si è tenuto a Roma, era già stato programmato e si trattava di una cerimonia con le famiglie dei bambini bielorussi adottati nel nostro Paese.
L'Italia si attende e chiede alle autorità bielorusse che vengano al più presto liberate le persone arrestate unicamente per motivi ideologici e che i presunti responsabili delle violenze vengano giudicati in giusto processo. Il Ministro Frattini nel richiedere al suo omologo il rilascio dei detenuti politici, ha chiesto anche che le condizioni di detenzione rispettino gli standard europei e che sia garantito ai detenuti l'accesso alle visite dei familiari, l'assistenza legale e le cure mediche.
Il Governo si impegna a sollecitare ancora le autorità bielorusse e a dare seguito a tali richieste. Minsk deve prendere sul serio le preoccupazioni che sono dell'Italia e dell'Unione europea e capire che l'Unione europea è, innanzitutto, una comunità di valori che chi vuole dialogare con noi deve rispettare.
Rivendico, altresì, la costante azione del Governo italiano in difesa dei diritti umani e il costante dialogo che intratteniamo su questo tema anche con le nazioni che tali diritti non rispettano. Oltre al chiaro messaggio che è stato inviato dal Governo subito in sede bilaterale ai governanti di Minsk, il Governo italiano non ha mancato di adoperarsi, di concerto con i partner europei, per l'adozione di un pacchetto di misure sanzionatorie a carico dei dirigenti politici di Minsk e delle personalità che a diverso titolo sono state coinvolte nella repressione. Le misure, mirate, con una exit strategy definita, e tali da non pregiudicare i canali di contatto con la Bielorussia, includono il divieto di ingresso nei Paesi dell'Unione europea per diverse alte cariche, compreso il Presidente Lukasšenko.
L'Italia sostiene anche l'opportunità di congelare i beni di diverse alte cariche Pag. 63bielorusse con carattere revocabile secondo i progressi dimostrati in materia di rispetto delle libertà democratiche fondamentali e dei diritti umani. Ci attendiamo che tali misure vengano approvate dal Consiglio affari esteri di lunedì prossimo.
Con diversi altri Governi europei nelle sedi comunitarie abbiamo sostenuto l'esigenza di preservare, nei modi e nelle forme dovute, il dialogo critico che l'Unione europea ha avviato con la Bielorussia. Siamo convinti che mantenere aperto un canale di contatto con le autorità di Minsk è anche la condizione per stigmatizzare con fermezza gli atti di coercizione ispirati a ragioni esclusivamente politiche e di condannare la violazione delle libertà civili, impedendo tuttavia che il Paese torni a una condizione di isolamento internazionale.
In quella condizione la costruzione di un futuro democratico del Paese apparirebbe, infatti, un auspicio ancora più vano. La storia recente ci ha dimostrato che la prospettiva di avvicinamento all'Unione europea costituisce un pungolo assai potente nei confronti dei Paesi più restii ad adottare le necessarie riforme democratiche sul piano interno.
L'Italia promuove, insieme all'Unione europea e sul piano bilaterale, iniziative volte a favorire lo sviluppo democratico della Bielorussia e la piena affermazione delle libertà politiche e civili, tanto dei cittadini bielorussi, quanto delle organizzazioni politiche attraverso cui la vita democratica si svolge. Sosteniamo, in particolare, la riapertura e il proseguimento dei lavori della missione OSCE di Minsk, chiusa a dicembre 2010 dalle autorità.
Il Governo italiano opera una netta distinzione tra quanti hanno inflitto e quanti hanno invece subito le opere di repressione. L'intesa con i partner dell'Unione europea è in linea anche con la risoluzione adottata dal Parlamento europeo.
L'Italia persegue, pertanto, nei confronti della Bielorussia, una politica articolata. Che cosa significa in concreto? Significa sostenere misure opportunamente sanzionatorie nei confronti dei responsabili di brogli elettorali e degli atti di violenza verificatisi in occasione delle elezioni del 19 dicembre 2010, ma significa anche non abbandonare e piuttosto rafforzare il tradizionale impegno del nostro Paese a favore della società civile bielorussa. Significa consentire di beneficiare, ad esempio, delle borse di studio che il Ministero degli affari esteri offre a diversi giovani (e intende continuare ad offrire) o che sono ospiti delle nostre scuole e dei nostri atenei.
Coerenti con l'obiettivo di non privare il popolo bielorusso della nostra tradizionale amicizia, guardiamo e parteciperemo con spirito costruttivo alla Conferenza dei donatori in favore della società civile bielorussa organizzata dalla Polonia a Varsavia il 2 febbraio, una Conferenza che si deve prefiggere l'obiettivo di dimostrare con fatti concreti la vicinanza della comunità internazionale alla società civile bielorussa.
Un tale atteggiamento di sincera solidarietà alla società bielorussa, contrario all'interruzione del dialogo critico con le autorità di Minsk, risulta a ben vedere opportuno e responsabile. Vogliamo anche preservare i solidi vincoli affettivi che tuttora legano giovani bielorussi alle famiglie italiane che li ospitarono nelle settimane successive al disastro di Chernobyl.
In conclusione, ritengo che, a seguito dei gravi fatti accaduti, il nostro Governo stia conducendo un'azione che, lungi dall'essere ambigua come qualcuno sostiene, è, invece, attentamente calibrata, contribuendo, in maniera attiva in sede dell'Unione europea - ma non solo - alla definizione di un pacchetto articolato e ben ponderato di misure che evitino, però, il rischio che le precise responsabilità degli uni finiscano per andare a colpire anche gli altri (Applausi dei deputati del gruppo Popolo della Libertà).

PRESIDENTE. Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Pag. 64

Discussione delle mozioni Ghizzoni, Zazzera ed altri n. 1-00491 e Buttiglione, Granata, Tabacci, Melchiorre ed altri n. 1-00533, presentate a norma dell'articolo 115, comma 3, del Regolamento, nei confronti del Ministro per i beni e le attività culturali, senatore Sandro Bondi (ore 18).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione delle mozioni Ghizzoni, Zazzera ed altri n. 1-00491 e Buttiglione, Granata, Tabacci, Melchiorre ed altri n. 1-00533, presentate a norma dell'articolo 115, comma 3, del Regolamento, nei confronti del Ministro per i beni e le attività culturali, senatore Sandro Bondi (Vedi l'allegato A - Mozioni).
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi per l'esame delle mozioni è pubblicato in calce al resoconto della seduta del 20 gennaio 2011.

(Discussione sulle linee generali)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali delle mozioni.
È iscritta a parlare l'onorevole Melandri, che illustrerà anche la mozione Ghizzoni, Zazzera ed altri n. 1-00491, di cui è cofirmataria. Ne ha facoltà.

GIOVANNA MELANDRI. Signor Presidente, signor Ministro, intervengo per illustrare la mozione di sfiducia, visti gli articoli 94 della Costituzione e l'articolo 115 del Regolamento della Camera dei deputati, con cui le chiediamo di rassegnare le dimissioni. Perché lo facciamo? Quali sono i motivi che ci hanno portato a questo atto impegnativo? È certo - e glielo voglio dire con amicizia - che non lo abbiamo assunto a cuor leggero. Voglio anche aggiungere non vi è nulla di personale, ma risulta dall'amara constatazione che questo Governo e il Ministero ad esso preposto non sono più in grado di attuare ciò che l'articolo 9 della Costituzione ci impone, ossia promuovere lo sviluppo della cultura e tutelare lo straordinario patrimonio storico e artistico del nostro Paese.
Questa situazione miserevole, per usare le parole del professor Carandini che lei chiamò a presiedere il Consiglio superiore dei beni culturali, dopo le burrascose dimissioni del professor Settis, oggi si trasforma in un vero e proprio collasso, a nostro modo di vedere, delle politiche culturali in questo Paese. Non credo che dobbiamo stupircene, nonostante lo sforzo retorico. Infatti, i suoi colleghi hanno reso manifesto, nel corso di questa legislatura, più volte l'autentico disegno di questo Governo. Come non ricordare, Ministro, la triste performance del Ministro Brunetta che la incoraggiava nell'operazione di «chiusura», testuali parole, «del rubinetto del FUS» e apostrofando con un'espressione profondamente offensiva come «culturame parassitario» gli operatori del settore. Come non ricordare, più recentemente ma altrettanto eloquentemente, la sortita del Ministro dell'economia e delle finanze, Tremonti, che ha affermato: «La cultura non si mangia». Parole pesanti a cui non hanno corrisposto, a nostro modo di vedere, che deboli prese di distanza da parte sua e, soprattutto, debolissime azioni di contrasto.
Signor Ministro, noi pensiamo, invece, che la cultura in Italia non sia solo rose ma sia anche pane, pane in un Paese dove la cultura costituisce una prospettiva strategica e una delle poche risorse non delocalizzabili del nostro Paese e che dovrebbe essere posta al centro di una politica strategica.
Lei, a nostro avviso, non è stato in grado di far valere la propria iniziativa presso il Presidente del Consiglio e presso il Ministro dell'economia e delle finanze né ha potuto arginare un irreparabile guasto alle politiche pubbliche per la cultura in Italia, che vengono definite reiteratamente dai suoi colleghi un costo superfluo per le finanze pubbliche.
Gli appelli del mondo della cultura si sono susseguiti, Ministro - lei lo sa meglio di me - per tutti questi mesi. Anche oggi riparte una mobilitazione contro i tagli Pag. 65alla cultura. Sono stati promossi sette giorni di mobilitazione dalle associazioni dello spettacolo, dall'ANEC, dall'Associazione nazionale autori cinematografici, dal Movem09, movimento Emergenza, cultura e spettacolo. Quindi, riparte la mobilitazione e dispiace dirlo, Ministro, perché oggi - come è accaduto in altre stagioni politiche - questo terreno d'azione del Governo avrebbe dovuto essere messo al riparo dal conflitto politico. Personalmente, non posso dimenticare come in una stagione ben diversa, caratterizzata da un investimento espansivo sulla cultura italiana, da una forte crescita dell'occupazione culturale, nelle Commissioni parlamentari tante volte la sintonia fu ampia, bipartisan e trasversale. Dispiace che lei si senta personalmente colpito. Sbaglia! Dovrebbe invece comprendere che non vi è alcuna trama oscura dell'opposizione dietro la sfiducia, ma che al contrario si chiedono le dimissioni del Ministro per dimissionare non un uomo, ma una politica. Lei è rimasto imprigionato e impotente, nell'immaginare una soluzione per il bel Paese, della sua stessa maggioranza, del Governo e della sua cieca obbedienza a quell'assurdo mantra che recita: «L'investimento in cultura è sempre e solo uno spreco di denaro pubblico». D'altronde, proprio sul tema della strategicità dell'investimento in cultura, risiede il grande errore di questo Governo: basterebbe guardarsi intorno per notare come in tutta l'Europa, sia in quella governata da Governi di centrosinistra che in quella governata da governi di centrodestra, da tempo ormai le risorse per la cultura sono considerate un motore propulsore per generare ricchezza nell'economia postindustriale: ricchezza economica, civile, spirituale. Si tratta di un moltiplicatore di buona occupazione, ma anche di un meccanismo di produzione ricchezza, di una risorsa vitale per il nostro futuro.
Caro Ministro - glielo ripeto perché ci tengo - non c'è alcun fumus persecutionis nei suoi confronti! Al contrario, la scelta della sfiducia è figlia di un giudizio politico sul modestissimo operato del suo Governo nella sua collegialità.
Del resto, mi pare difficile nascondere i dati. Lei li conosce, ma li voglio ricordare: il MiBAC è stato oggetto nel corso della sua gestione di tagli sanguinosi, nel 2011 il Ministero vedrà un'ulteriore riduzione del suo già scarno bilancio di 288 milioni di euro, un taglio quasi del 17 per cento rispetto all'anno precedente. Tutto ciò - lo aggiungo - è avvenuto nell'ambito di un quadro grave, visto che dal 2001 al 2009, con l'eccezione del biennio 2007-2009 del Governo Prodi, i tagli sono stati costanti e inequivocabili. Il segno dei Governi di centrodestra sulla cultura è stato sempre e solamente il segno «-».
Il FUS quest'anno verrà ridotto - ne abbiamo discusso in Commissione cultura - del 36 per cento, passando da 414 milioni di euro a poco più di 262 milioni di euro nel prossimo anno. Anche sul fronte della tutela del patrimonio storico artistico il quadro è drammatico: il capitolo di bilancio per interventi urgenti, al verificarsi di emergenze per la salvaguardia dei beni culturali, viene decurtato di 17 milioni di euro. Persino la Direzione per la valorizzazione, signor Ministro, guidata dal dottore Resca, caparbiamente voluto da lei, subisce un taglio di risorse. A ciò - come è stato documentato di recente anche nella relazione di Federculture - vanno aggiunti i tagli pesanti apportati ai trasferimenti verso le regioni e il sistema degli enti locali, che si stanno riflettendo in modo generalizzato sui bilanci della cultura, con conseguenze gravissime.
Signor Ministro, leggerò alcune sue parole, apparse qualche settimana fa sulle pagine de Il Foglio, con le quali denunciava la sua grande preoccupazione per il comparto dello spettacolo. Leggo testualmente: «(...) Rispetto all'anno in corso, le risorse dello spettacolo dal vivo sono scese a 262 milioni di euro per il prossimo anno, se le cose non cambiassero non saremmo in grado di mantenere i livelli minimi di sopravvivenza delle principali attività dello spettacolo. Siamo già alle prese con il rischio di chiusura di teatri storici e della messa in cassa integrazione dei lavoratori dello spettacolo». Pag. 66
Non possiamo che condividere le sue parole, signor Ministro, ma lei ha la responsabilità politica di quello che sta succedendo. Il mondo dello spettacolo tutto è in grande sofferenza, la VII Commissione (Cultura) ha votato all'unanimità una riforma ma in bilancio non ci sono le risorse per attuarla.
In merito al rifinanziamento per appena sei mesi dei meccanismi automatici di tax shelter e di tax credit - abbiamo apprezzato che lei avesse ripreso l'iniziativa del Ministro Rutelli e del Governo Prodi - abbiamo sempre pensato che gli strumenti automatici di trasferimento di risorse al settore dell'impresa culturale fosse una buona soluzione per il nostro Paese, ma voi avete rifinanziato per appena sei mesi questi meccanismi e questo si caratterizza come una prospettiva ridicola, come un disincentivo alla programmazione di impresa, una presa in giro verso chi vuole investire in cultura e vuole costruire impresa culturale.
Anche l'unica riforma di settore che è stata approvata sotto la sua responsabilità, quella relativa alle fondazioni lirico-sinfoniche, è impossibile da attuare a causa della mancanza delle condizioni minime per l'espletamento delle attività già programmate e delle necessità.
Non è solo questo il problema, ci sono tanti altri capitoli. Voglio parlare delle biblioteche, settore spesso dimenticato ma importantissimo per la vita civile del nostro Paese. Il programma a tutela dei beni librari, promozione e sostegno del libro, con uno stanziamento in conto competenza pari a 127 milioni di euro, viene decurtato di 21,3 milioni di euro. Sa cosa significa questo signor Ministro? Significa che questo taglio comprende le somme - come alcuni giornali, anche il Corriere della Sera, qualche settimana fa, scrivevano - destinate al funzionamento della biblioteca nazionale centrale di Firenze, della biblioteca nazionale centrale di Roma, dell'istituto centrale per il catalogo, del museo dell'audiovisivo, del centro per il libro e la lettura. I danni che si stanno arrecando alle istituzioni culturali sono pervasivi e distribuiti.
In sintesi, si taglia nella tutela, nella tutela verso l'antico, verso il patrimonio, verso l'archeologia, ma si taglia sanguinosamente anche nella direzione del contemporaneo, dell'architettura, della tutela del paesaggio. 31,3 milioni di euro in meno a tutte le linee di politica di tutela e di valorizzazione dell'architettura, dell'arte contemporanea, del paesaggio. Risorse drammaticamente tagliate alla valorizzazione del patrimonio culturale, alla tutela del patrimonio culturale. Somme destinate a interventi urgenti - che si possono e si devono verificare in presenza di emergenze - anche queste ridotte al lumicino.
Insomma, signor Ministro, ciò che ci ha colpito è innanzitutto l'assenza di risorse, ma non è solo il lavorio della mannaia sul bilancio del MiBAC a disarticolare le politiche culturali, non mancano solo le risorse. Certo, le dico sinceramente che a me ha colpito che lei non fosse presente il giorno in cui un importante imprenditore italiano, il dottor Diego Della Valle, ha annunciato di voler investire risorse ingenti per il restauro del Colosseo. Sa perché mi ha colpito? Perché sono convinta - l'ho scritto anche in un libro qualche anno fa - che risorse pubbliche e risorse private o crescono insieme o deperiscono assieme. Pertanto, signor Ministro, il Colosseo sicuramente è un simbolo e noi ci rallegriamo del fatto che ci sia un importante imprenditore italiano che finanzia il restauro del Colosseo, ma avremmo bisogno di un piano, di una strategia nazionale, di quelle risorse pubbliche a cui si possono associare risorse private in luoghi e per la valorizzazione di beni culturali e archeologici, forse meno noti al grande pubblico ma altrettanto bisognosi di interventi.
Dicevo, non è solo il lavorio della mannaia sul bilancio del MiBAC a disarticolare le politiche culturali, mancano tecnici, mancano le risorse umane e, come giustamente le è stato segnalato dalla missiva del sovrintendente di qualche settimana fa, la macchina del Ministero si è inceppata, appesantita dalla riduzione del personale, dal blocco delle assunzioni. Per tutelare, valorizzare e promuovere il patrimonio Pag. 67culturale italiano c'è bisogno di fare affidamento su tecnici altamente qualificati, che con le politiche del personale da voi messe in atto diventano sempre più rari.
Vi è una desertificazione di quella professionalità straordinaria, di quella burocrazia colta, fatta di storici dell'arte, archeologi, architetti, di cui andava fiero il nostro Paese e che oggi rischia di estinguersi. Ministro, il ridimensionamento del personale del Ministero per i beni e le attività culturali sta lasciando drammaticamente scoperti settori tecnici indispensabili, tra cui in particolare quelli degli architetti e degli archeologi. Lei lo sa: la dotazione organica, come è stato già detto, passerebbe in soli tre anni da 23 mila unità del 2008 a poco più di 18 mila nel 2011 e il personale tecnico in servizio sarà pari appena al 13 per cento dell'organico. Restano scoperti e spesso coperti con doppi incarichi di sicura inefficienza decine di posti di dirigente di prima e soprattutto di seconda fascia, inclusi tanti soprintendenti. Dunque, mancano risorse e mancano uomini, ma mi faccia dire, Ministro, che mancano idee. Sono mancate idee. Da un Governo di centrodestra ci si poteva facilmente attendere la riduzione dell'intervento diretto dello Stato nel settore, a favore di meccanismi per attirare risorse private.

PRESIDENTE. Onorevole Melandri, la prego di concludere.

GIOVANNA MELANDRI. Signor Presidente, ho concluso, ancora un minuto. Se aveste intrapreso questa via, ci saremmo confrontati su opzioni politiche diverse, ma tutte finalizzate a riconoscere la centralità del patrimonio culturale italiano. Niente di tutto ciò. Abbiamo visto da parte sua, Ministro, molti editoriali, ma pochi progetti. Le iniziative assunte, dai commissariamenti alla riforma del Ministero, possono essere catalogate più come camuffamenti di tagli che come innovazione e riforme vere e proprie. Anche i danni di Pompei sono più il segno di un'incuria. Il crollo di Pompei rappresenta questa incuria anche dal punto di vista simbolico, una frana che non si è fermata nemmeno davanti all'esigenza di ricostruzione del centro storico dell'Aquila, Ministro, per il quale è rimasto del tutto inascoltato, tra gli altri, anche un appello firmato mesi fa da tutti gli ex Ministri della cultura di tutti gli orientamenti politici.

PRESIDENTE. Onorevole Melandri, deve concludere.

GIOVANNA MELANDRI. Ecco perché, concludendo, oggi le voglio dire che dopo le reiterate, continue e inascoltate proteste del mondo del teatro, del cinema, dei musei, delle soprintendenze, dopo il crollo a Pompei, non si può stupire, Ministro, che ora la parola sull'azione sua e di tutto il Governo dietro di lei torni al Parlamento. Un Paese senza cultura è un Paese senza futuro o meglio detto con le parole di Garcia Lorca: la cultura costa, Ministro, ma l'assenza di cultura costa ancora di più e questo costo noi non lo vogliamo pagare (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico e Italia dei Valori).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Enzo Carra, che illustrerà anche la mozione Buttiglione, Granata, Tabacci, Melchiorre ed altri n. 1-00533, di cui è cofirmatario. Ne ha facoltà.

ENZO CARRA. Signor Presidente, illustro la mozione il cui primo firmatario è occasionalmente lei. Noi esprimiamo la nostra sfiducia al Ministro per i beni e le attività culturali. I nostri gruppi hanno fatto studiare il caso a due ex Ministri, tra cui il signor Vicepresidente della Camera, uomini che hanno preceduto l'onorevole Bondi nello stesso incarico, ed a un ex assessore alla cultura di una regione di grandissime ricchezze archeologiche. Questa terna ha formulato precise richieste, cinque proposte operative: la deroga per l'assunzione del personale idoneo all'ultimo concorso del Ministero per i beni e le attività culturali, la proroga del tax credit per il cinema, il reintegro di 156 milioni per il Fondo unico per lo spettacolo (FUS), Pag. 68l'eliminazione dei limiti di spesa per le mostre e le sponsorizzazioni degli enti locali e il ripristino dei fondi per il Ministero, circa 300 milioni. Il Ministro non ha risposto, non ha dato prova di disponibilità e ha cercato di ridurre la questione ad un fatto privato, ad un atto di violenza personale, come lo ha definito. Così la nostra decisione, con una procedura che credo abbia pochi precedenti nella storia parlamentare, con i predecessori che giudicano un loro successore - d'altra parte poco fa ha parlato l'onorevole Melandri, altro predecessore del Ministro - è quella, stante così la situazione, di sfiduciarlo. D'altra parte, i nostri non sono enigmi da sciogliere, non è una Turandot, in omaggio alle fondazioni liriche in difficoltà. I nostri sono quesiti su cui aspettiamo e ci siamo aspettati inutilmente delle risposte. A noi Bondi non ha scritto, come invece ha fatto prima di natale al Partito Democratico. Anche le due lettere aperte ai suoi cari compagni sono un inedito nella storia parlamentare.
Il Ministro si è rivolto ai leader del Partito Democratico, ricordando il suo passato nelle file del Partito comunista: ha ricordato con fierezza la sua elezione come primo sindaco comunista del suo comune; ha riconosciuto nei principale leader della sinistra, in particolare Bersani, Veltroni e Fassino - non capisco perché non abbia citato anche Massimo D'Alema - un residuo di rispetto nei confronti degli avversari politici; ha chiesto loro di fermarsi, ma loro non lo hanno fatto.
A questo punto, Bondi ha repentinamente cambiato opinione: gli unici violenti in questo Paese sono gli esponenti della sinistra italiana, perfino Bersani, che consideravo, fino a poco tempo fa, una persona perbene. Eppure anche noi, che per comune ammissione non siamo dei violenti, e forse anche per questo non abbiamo ricevuto della posta, siamo arrivati alla stessa conclusione: la sfiducia.
Il Ministro può restare lì al suo posto, se la maggioranza farà quadrato, anzi, «quadratino», data ormai l'esiguità in cui è ridotta, ma Bondi non ha certo più la fiducia di una parte consistente e rilevante del mondo culturale e artistico, italiano e straniero. Può fingere che non sia così; intanto, oggi, per sette giorni, oltre 50 organizzazioni della cultura, dello spettacolo e dell'informazione si mobilitano contro i suoi tagli. Il Ministro può rifugiarsi, come capita anche ad altri esponenti della vita pubblica di oggi, in una vita parallela: può credere che le cose stiano in un altro modo, ma la realtà è un'altra.
Due anni fa, appena insediato al Ministero per i beni e le attività culturali, Bondi risponde ad un articolo di Galli della Loggia sul Corriere della Sera. Galli della Loggia sostiene che la cultura è una risorsa del nostro Paese e chiede una «scossa» (lo ricordiamo tutti).
Il Bondi 1 e 2 che fa? È entusiasta (forse è un sosia del Bondi attuale), concorda con Galli della Loggia. Scrive che anche per lui la cultura è una risorsa - gli crediamo - e, anzi, annuncia una rivoluzione copernicana. Per sua fortuna, non parla di rivoluzione culturale, avendo ben chiari i limiti di quella promossa dal Presidente Mao.
In ogni caso, però, di questa rivoluzione non abbiamo avuto notizia. Nella realtà, quando pochi mesi or sono il Ministro dell'economia comunica che «non è che la gente la cultura se la mangia» - testuale - il Ministro abbassa la testa e la rivoluzione viene rinviata ad altra data.
La scossa invece c'è, e si sente, ma a Pompei, dove crolla la Villa dei gladiatori. Un giornale straniero - credo non sia tra quelli che il Governo dell'onorevole Bondi considera avversari: Le Figaro - il 23 dicembre dello scorso anno constata amaramente che, per quanto stravagante la cosa possa sembrare, il Ministro per i beni e le attività culturali non ha rimpiazzato gli archeologi andati in pensione. Per curare il più grande parco a cielo aperto del mondo, non resta che un esperto (parliamo di Pompei).
Sarà pure vero, come ha argutamente osservato il sottosegretario, che non è Monsieur de Lapalisse, che l'archeologia, per definizione, è antichissima, e dunque di estrema fragilità, ma c'è modo e modo Pag. 69di custodire questa fragilità e queste pietre, come le ha definite, un po' superficialmente, un importante esponente della maggioranza.
Il modo migliore di custodire questo patrimonio non è davvero quello che è stato attuato dal suo Ministero. Per il Presidente del Consiglio superiore dei beni culturali, Andrea Carandini, questo non è più in grado di attuare quanto l'articolo 9 della Costituzione impone: curare il patrimonio culturale.
Nella nostra mozione facciamo molto pignolescamente, se vuole, il conto dei tagli. Ne cito soltanto una parte: la spesa annua per manutenzione e restauro è stata fin qui di circa 450 milioni di euro; ora le stesse funzioni devono essere svolte con 102 milioni di euro. Credo che siano dei dati facilmente reperibili.
Capisco l'umiliazione di Bondi di fronte ai tagli imposti dal Ministro dell'economia, ma non capisco che cosa lo abbia spinto ad impegnarsi, dopo i crolli di Pompei, ad assumere personale tecnico (si potrebbe dire che ha preferito personale effettivo) e ad impegnarsi per il finanziamento dello spettacolo. Poteva non farlo! Perché lo ha fatto anche davanti al Presidente della Repubblica? Nessuno pretendeva una rivoluzione, ma almeno un po' di coerenza, questa sì!
Abbiamo atteso le sue dimissioni e non le abbiamo avute, perciò voteremo la sfiducia e chiediamo al Ministro Bondi di non prendere questa iniziativa come un insulto alla sua persona (Applausi dei deputati dei gruppi Unione di Centro, Partito Democratico e Italia dei Valori).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Goisis. Ne ha facoltà.

PAOLA GOISIS. Signor Presidente, il crollo di Pompei crea una ferita dolorosa, tuttavia, signor Ministro, non ci sembra di poterla ritenere responsabile di culpa in vigilando o in negligendo come vuole far credere e sostiene la sinistra. Oggi le sovrintendenze archeologiche svolgono compiti abbastanza articolati su tutto il territorio e ad esse compete la tutela dei beni culturali.
La riforma del Titolo V, parte II, della Costituzione ha suddiviso la materia dei beni culturali, per quanto riguarda la potestà legislativa, in due sub-materie: tutela e valorizzazione, appartenenti l'una alla legislazione esclusiva dello Stato, l'altra alla legislazione concorrente.
Il nuovo assetto dato dalla Costituzione alla materia ha reso pressanti, tra le altre, due questioni. In primo luogo, quella di definire, nel modo più sicuro e affidabile, le nozioni di tutela e di valorizzazione ed il loro reciproco confine, perché a tali nozioni ora si accompagnano regimi giuridici costituzionalmente differenziati per quanto riguarda la titolarità e l'esercizio della potestà legislativa, regolamentare ed amministrativa. In secondo luogo, quella di delineare sulla scorta dei criteri posti dall'articolo 118 della Costituzione, una corretta allocazione delle funzioni amministrative nei due ambiti individuati, con più marcata urgenza per quello della valorizzazione.
Sulla distinzione tra le predette nozioni si fondano i peculiari criteri di riparto, dettati dalla riforma costituzionale, delle attribuzioni non solo normative, ma anche amministrative, dei diversi livelli istituzionali nella materia in questione.
Sempre con riferimento all'individuazione del contenuto delle nozioni citate negli articoli 117 e 118 della Costituzione risulta ineludibile ricondurre il concetto di gestione nell'ambito della valorizzazione.
Il nuovo panorama istituzionale delineato dalla riforma del Titolo V della Costituzione rende necessario ripensare la struttura amministrativa e gestionale del patrimonio pubblico, privato, statale, regionale, provinciale e comunale. Ci vorrebbero ipotesi di riorganizzazione degli strumenti amministrativi di Governo del patrimonio culturale ai livelli sia centrale sia periferico, nonché, in ambito statale e locale, compatibile con le esigenze di tutela, valorizzazione e fruizione del patrimonio culturale, allo scopo di avviare un circolo virtuoso di collaborazione positiva ed efficace tra questi.
Un sistema virtuoso si basa inoltre su un altro elemento, a mio avviso, di importanza Pag. 70fondamentale: la formazione degli addetti alla tutela ed a tutte le attività ad essa connesse. La formazione è la prima condizione per garantire uniformità e alti livelli di efficacia ed efficienza degli interventi di tutela e valorizzazione del patrimonio nazionale. Del resto, le ragioni della sfiducia nei confronti di una distribuzione di competenze verso la periferia amministrativa hanno spesso a che fare, da un lato, con la scarsità di personale qualificato e con criteri di reclutamento non sempre adeguati al mandato e, dall'altro, con il timore che, soprattutto gli enti di Governo più vicini ai cittadini, possano derogare alle norme e alle regole sotto la spinta di sollecitazioni particolaristiche.
Una volta che regioni ed enti locali adempiono alla formazione e al reclutamento di organici numericamente adeguati e professionalmente conformi alla missione affidata e una volta posti in essere i luoghi fisici della cooperazione fra centro e periferia, penso che le funzioni di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale potranno essere compiute al meglio.
La situazione del patrimonio culturale italiano e la sua distribuzione diffusa su tutto il territorio nazionale devono trovare una positiva e adeguata strategia di tutela e valorizzazione in nuove forme di collaborazione tra i diversi livelli di Governo, una collaborazione che non può relegare regioni, province e comuni al ruolo di mera subordinazione. Un ruolo esclusivamente subalterno deresponsabilizza e mortifica i governi locali.
D'altra parte è necessario che i sovrintendenti regionali siano dotati di adeguati strumenti di autogoverno anche sul piano finanziario, che permettano loro di confrontarsi con i governi locali in modo costruttivo e concreto. In questo quadro infatti il sovrintendente regionale diventa l'istanza di collegamento e di coordinamento tra gli organi centrali dell'amministrazione dello Stato e le regioni e gli enti locali, nell'ambito del territorio di sua competenza.
Le sovrintendenze regionali vengono dunque dotate di autonomia tecnico-scientifica, amministrativa e finanziaria nonché di un proprio organico. Tutto ciò è disposto anche per risolvere l'attuale situazione di carenza di personale, che ha fatto sì che finora le sovrintendenze regionali gravassero su quelle territoriali. Lo Stato deve mantenere tutte quelle funzioni che devono necessariamente essere governate dal centro, sia per ragioni organizzative sia per assicurare livelli qualitativi omogenei e ottimali, ma esso deve svolgerle in modi più adeguati al nuovo quadro istituzionale e dunque più efficaci.
Sarebbe utile, per esempio, la creazione di una sorta di Conferenza nazionale per il patrimonio culturale per l'espletamento dei compiti di programmazione, coordinamento, pianificazione e razionalizzazione degli investimenti, degli interventi e delle iniziative culturali scientifiche - anche al fine di evitare la sovrapposizione tra Stato e regioni delle competenze e dell'esercizio delle funzioni amministrative relative al patrimonio culturale - e programmazione degli interventi necessari per il riequilibrio sociale e territoriale delle condizioni di conoscenza e di fruizione del patrimonio culturale nazionale.
A sua volta, ciascuna regione dovrebbe istituire la Conferenza regionale per il patrimonio culturale con compiti di individuazione delle priorità di intervento e di indirizzo dei programmi regionali, di elaborazione dei piani regionali di programmazione di intervento per il patrimonio culturale e di svolgimento di attività di ricerca, direttamente o tramite affidamento a professionisti esterni, sullo stato del patrimonio culturale regionale e su questioni concernenti l'organizzazione e l'ottimizzazione dei servizi e degli interventi di valorizzazione. La nascita di una conferenza regionale determinerebbe inoltre le risorse finanziarie necessarie all'attuazione della programmazione regionale.
Dopo questa premessa di carattere generale, entriamo nel merito della questione: Pompei e il crollo della villa dei gladiatori. Ricordiamo così, solo per dover di cronaca, che Carlo III di Borbone nel 1748 avviò con una certa continuità i lavori di scavo che, soprattutto nell'Ottocento Pag. 71e nel Novecento, hanno riportato alla luce i resti così come oggi li vediamo. Nel 1997 l'Unesco ha dichiarato l'antica Pompei patrimonio dell'umanità per la straordinaria importanza che riveste nello studio della società romana del I secolo dopo Cristo.
L'area archeologica di Pompei è molto vasta e presenta, come è naturale, problemi di recupero, conservazione, tutela e restauro e tutto ciò mentre la visitano ogni anno milioni di turisti provenienti da tutto il mondo. Dal 1o aprile 2008 è gestita dalla sovrintendenza speciale per i beni archeologici di Napoli e Pompei, istituita con un decreto del Presidente della Repubblica del 26 novembre 2007. Si tratta di un organismo periferico del Ministero per i beni e le attività culturali, dotato di particolare autonomia, che riunisce sotto un'unica gestione i siti archeologici di Pompei, Ercolano, Stabia e Oplonti, il museo archeologico nazionale di Napoli, il museo di Boscoreale e i siti archeologici dell'area flegrea e della penisola sorrentina.
Tuttavia, nonostante la riorganizzazione e la creazione del nuovo soggetto, dotato di speciale autonomia operativa e amministrativa, dopo solo tre mesi dalla sua istituzione la Presidenza del Consiglio dei ministri, con ordinanza dell'11 luglio 2008, ha disposto che gli scavi di Pompei fossero gestiti per un anno da un commissario, che è stato poi rinnovato per l'anno successivo.
Ci troviamo ora qui a discutere su una richiesta di dimissioni, su una mozione di sfiducia. Allora ci chiediamo: come è possibile attribuire la responsabilità di quanto è successo a Pompei ad un Ministro che è in carica da due anni, due anni e mezzo? È chiaro che a tal riguardo o vi è una miopia molto accesa oppure si vuole mistificare la realtà.
Risale alla fine degli anni Novanta l'autonomia organizzativa, scientifica e finanziaria, che è stata guidata, per quasi tre lustri, dall'archeologo di fama mondiale Giovanni Guzzo e che ha portato motivi di luci per quanto riguarda Pompei, così come dimostrano le varie mostre dell'homo faber, dell'otium ludens, del rosso pompeiano e via discorrendo, ma che ha portato alla luce anche gravissime ombre legate agli scavi di Pompei. Si tratta di ombre che voglio ricordare: le orde di cani randagi, la mancanza di servizi, le transenne selvagge, le guide turistiche abusive che, come sappiamo bene, sono molto attive. Certamente, tutto questo non può invogliare i turisti a venire a visitare gli scavi di Pompei, se è vero, come è vero, che la Campania è al quintultimo posto come zona di turismo in Italia.
Pertanto, vuol dire che qualcosa non funziona, tanto è vero che lo stesso Rutelli, non certo del centrodestra, nel 2007 ha ritenuto bene di togliere l'autonomia gestionale a Pompei, accorpando le sovrintendenze di Napoli e della stessa Pompei, scoprendo anche che i fiumi di finanziamenti che venivano inviati a Pompei, purtroppo, rimanevano inutilizzati nei cassetti. Si parla di 79-80 milioni di euro, soldi, che, appunto, rimanevano inutilizzati. Ci si chiede come mai questi soldi rimanessero inutilizzati, se l'interesse per la cultura e per l'arte era così profondo. In realtà, cosa succedeva? Si spendeva solo un terzo degli incassi perché il resto veniva in qualche modo trattenuto - non si sa bene come - anzi, per usare una metafora, era trattenuto per colpa della sabbia negli ingranaggi degli appalti. Tutti capiamo cosa vogliamo dire, ossia per colpa delle lungaggini burocratiche e, magari, anche per le frizioni tra coloro che dovevano prendere le decisioni. Di conseguenza, per arrivare a processi decisionali, passavano anni.
In questo modo è evidente che gli scavi di Pompei sono economicamente in perdita nonostante l'entità degli investimenti. Mi sembra che 7 milioni di euro l'anno su 22 milioni di euro di entrata sia qualcosa di positivo che, però, non è stato utilizzato. Finalmente, lei, signor Ministro, ha segnalato immediatamente questa situazione di grave incuria e di grave incapacità. Infatti, nel 2008, il Consiglio dei Ministri è intervenuto con un'ordinanza della Presidenza del Consiglio recante «Interventi urgenti Pag. 72di protezione civile diretti a fronteggiare la grave situazione di pericolo in atto nell'area archeologica di Pompei».
Da subito, il Governo ha stanziato 40 milioni di euro, preparando un piano di vari milioni di euro per tutto ciò che era necessario. Gli scavi, quindi, sono stati commissariati il 4 luglio 2008, appunto per tale stato d'incuria. Da allora ad oggi, sotto il controllo di due commissari, è arrivato un fiume di euro pari a 100 milioni. L'ultima tranche di 35 milioni di euro è stata resa disponibile prima dell'estate scorsa per il restauro delle varie domus e così via. Altri 5 milioni di euro sono stati destinati al restauro dei teatri.
Voglio dare anche un resoconto di tutti questi fiumi di denaro, come li abbiamo chiamati, specificandoli bene. Il commissario aveva avuto una disponibilità economica di 79 milioni di euro. I soldi, quindi, c'erano e sono stati stanziati. In Italia non è facile quantificare le disponibilità e le spese pubbliche, però sappiamo che la struttura commissariale è costata 2,3 milioni di euro, la mostra «Pompei e il Vesuvio» 600 mila, lo spettacolo «Pompei in scena» 113 mila, la sostituzione delle transenne che delimitano le rovine di Pompei 99 mila, quella di Ercolano 37 mila, l'impianto per la diffusione del suono nello spazio 91 mila, una convenzione con l'università di Tor Vergata per lo sviluppo di tecnologie sostenibili 724 mila, l'arresto dell'incremento dei cani randagi 102 mila, una visita, che, poi, non c'è stata, del Presidente del Consiglio, 70 mila. Insomma, il totale delle spese è di oltre 4,5 milioni di euro e dovrebbero essere queste le uscite collaterali agli interventi di recupero dell'area archeologica. E ancora ricordiamo i 5,5 milioni di euro impiegati per il teatro dell'antica Pompei.
Con questo voglio dire che è quanto meno irriconoscente, o, comunque, sleale attribuire a lei, signor Ministro, la responsabilità di questi crolli, di ciò che, appunto, tutti noi deploriamo. Voglio risalire a dei dati che, purtroppo, ho trovato e che ci confermano come, ancora vent'anni fa, avevamo questi problemi nell'area di Pompei, ossia, per esempio, i problemi legati alle infiltrazioni d'acqua.
Mi risulta che il Ministero aveva preso allora, negli anni Ottanta, tutti i migliori tecnici che erano stati inviati a Pompei guidati da Proietti. Tra i reclutati Pio Baldi, Ruggero Martines, Mario Lolli Ghetti, e molti altri. Insomma, un intervento di peso. Alla fine era stato deciso che per sanare o comunque mettere in sicurezza il sito di Pompei era necessario dare un'assoluta priorità al drenaggio delle acque a causa dei ristagni molto pericolosi per le strutture. Inoltre venne indicato con chiarezza che non bisognava mai smettere la manutenzione. Ancora, una suggestione ancora più generale: era stato proposto di ricoprire Pompei e di non lasciarla più alle intemperie. Qual è stato il risultato? Non se ne è tenuto conto, ma parliamo degli anni precedenti, non parliamo degli ultimi due anni e allora mi chiedo e sono portata a pensare che chiedere a lei adesso le dimissioni per un fatto che solo indirettamente le può essere addebitato in quanto Ministro, ma che è successo perché questo era lo stato di incuria per il quale non si è tenuto conto delle soluzioni che erano state prospettate e sfruttando una disgrazia per mezzi strumentali tesi a provocare surrettiziamente una difficoltà al Governo, è assolutamente spregevole. Non si può condividere una lotta politica che ricorre a vie traverse, anziché in modo diretto e a viso aperto. D'altra parte, un'ultima chicca: mi risulta che nel 2001, quando era Ministro l'onorevole Melandri, crollarono parti della Domus aurea e delle mura aureliane. Non mi risulta che qualcuno abbia chiesto le sue dimissioni (Applausi dei deputati dei gruppi Lega Nord Padania e Popolo della Libertà).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Borghesi. Ne ha facoltà.

ANTONIO BORGHESI. Signor Presidente, signor Ministro, discutere una mozione di sfiducia verso un Ministro non è mai un atto che si fa a cuor leggero e noi dell'Italia dei Valori che abbiamo firmato Pag. 73insieme al PD quella mozione, lo abbiamo fatto in modo convinto e non tanto con riferimento all'ultima questione che riguarda Pompei, ma con riferimento al giudizio che noi diamo di un triennio della sua attività come Ministro. Voglio partire dai risultati di questo triennio, perché il risultato è per davvero facilmente commentabile: una diminuzione tra previsione iniziale e l'assestato 2010 di una riduzione di 281 milioni di euro e la previsione di una riduzione per il 2011 di 461 milioni di euro; 224 milioni di euro in meno alla missione tutela e valorizzazione di beni e attività culturali; 66 milioni in meno alla missione ricerca e innovazione e, all'interno di queste missioni, alcuni programmi, in particolare la tutela delle belle arti, dell'architettura e dell'arte contemporanea, la tutela e valorizzazione del paesaggio che perdono 31 milioni, la valorizzazione del patrimonio culturale, la tutela del patrimonio culturale. Questi sono i risultati dal punto di vista pratico. Lei mi dirà: io ho a che fare con un Presidente del Consiglio, c'è un problema complessivo di Governo e con il Ministro dell'economia e delle finanze. Certamente se la cultura che esprime il Presidente del Consiglio è quella che si sta rappresentando in questi giorni faccio fatica a capire che lei possa davvero avere un aiuto, però questo aumenta ancora di più le sue responsabilità politiche. Queste ultime sussistono anche rispetto all'idea di nominare come direttore generale un ex-manager, Mario Resca, e qualcuno potrebbe dire: bene, un manager può essere utile ma c'è un qualche atto significativo che questo manager abbia fatto in questi tre anni?
È vero, riceve un compenso magari apparentemente basso di 160 mila euro l'anno, però dopo si scopre che grazie anche al suo appoggio viene nominato commissario per l'organizzazione della «Grande Brera», organizzazione museale grazie alla quale, con le indennità cosiddette variabili, potrebbe arrivare a percepire qualcosa come 2 milioni e mezzo di euro di fondi pubblici. Questo direttore generale è quello che non ha cambiato il corso delle cose, perché ancora una volta vengono pagati e dati contributi a film come i cinepanettoni, come Natale a Beverly Hills o altro, signor Ministro. Queste erano le prime spese da tagliare e da tagliare immediatamente.
Vorrei poi ricordare alcune iniziative discutibili che lei ha avuto in questo triennio, come l'idea di una specie di nuovo Minculpop, il Ministero della cultura popolare di epoca fascista, l'idea cioè di una commissione che giudicasse il valore etico e politico dei film. Io credo che la censura sia sempre qualcosa di assolutamente sbagliato, ma se andiamo a vedere si parla di valore etico oppure politico dei film e poi diamo i contributi ai cinepanettoni.
C'è la riforma degli enti lirici, signor Ministro, che avete sbandierato come la soluzione ai problemi degli enti lirici, che oggi sono in una situazione per cui la stragrande maggioranza degli stessi enti lirici italiani sarà costretta a chiudere i battenti, perché non è in grado di continuare a svolgere quel compito di elevatissimo valore culturale che attirava spettatori non solo italiani, ma anche e soprattutto dall'estero. In un momento di grave difficoltà come questo, in Germania abbiamo la Merkel che investe in cultura e dà più soldi alla cultura, mentre lei ha la responsabilità di un Ministero che invece vede continuamente le risorse tagliate.
Voglio ricordare un altro caso, il caso di IMAIE, dove con un metodo studiato scientificamente a tavolino avete soppresso un'entità privata per attrarla all'interno dell'orbita pubblica, soltanto perché quell'entità aveva un tesoretto di 120 milioni di euro e avete pagato indennità milionarie a quei commissari con quegli atti. Quelli erano soldi che potevano essere, anche quelli, risparmiati e probabilmente usati in modo migliore.
E non parliamo di Arcus e di Cultura Spa, società costituite dal precedente Governo Berlusconi, ma di cui lei porta in qualche modo la responsabilità. La Corte dei conti ha più volte detto che siamo in presenza di una società che dopo tanti anni dalla costituzione non ha ancora dimostrato di essere capace di assolvere al Pag. 74ruolo che era stato previsto, bensì è una società che costa qualche milione l'anno soltanto di indennità per i consiglieri di amministrazione e per i dipendenti, che non si capisce bene cosa facciano. Nonostante questo, ha distribuito a pioggia qualcosa come 250 milioni di euro. E oggi vediamo che mancano tutte quelle risorse al FUS! E sapete come sono state destinate? Sono state in molti casi mance di Stato. Voglio ricordare perfino - mi è facile da dire - i soldi buttati a pioggia al dipartimento archeologia dell'università di Padova, di cui è direttore la sorella del deputato Ghedini, ad esempio, tanto per citare un caso. Oppure interventi su immobili ecclesiastici che sono nel patrimonio Vaticano ma in extraterritorialità e parliamo anche qui di milioni di euro.
Per non dire che è stata persino finanziata, attraverso quei fondi, la partecipazione dell'Italia all'expo di Shanghai (naturalmente è una missione guidata da Mario Resca). Per non dire poi dei regali fatti ai sindaci amici: basti ricordare un milione al comune di Roma e un milione e mezzo al comune di Palermo.
Quindi, vede che siamo in presenza di atti discutibili. Anche su Pompei, signor Ministro, non è che sia facile togliersi da quella responsabilità, perché la questione Pompei parte da lontano, parte dal luglio 2008, parte da qualche mese dopo la sua nomina a Ministro. Infatti, già allora era stato deciso di commissariare la gestione di quel sito, ma c'era voluto persino un anno per nominare un commissario, un commissario che si chiama Marcello Fiori e sul quale oggi vi è un'indagine in corso per il modo con cui ha gestito in quel periodo, in questi due anni, l'incarico che aveva ricevuto.
Allora vede, signor Ministro, che di questioni che non vanno bene ce sono tante. Mi dispiace ricordarne un'altra, ma anche la sua «parentopoli» rappresenta un atto assolutamente inimmaginabile ed inaccettabile. Infatti, con un atto di diretta emanazione del Ministero, è stato conferito un incarico, al di là della competenza, all'ex marito e al figlio della sua compagna e lei ha risposto che tale atto è stato motivato semplicemente dal fatto che vi era qualcuno che aveva bisogno, quando, lo scorso anno, 500 mila lavoratori hanno perso posto di lavoro. Ebbene, signor Ministro, questo è un atto inaccettabile ed immaginabile: basterebbe questo, da solo, per creare le premesse per le sue dimissioni.
Signor Ministro, lei si è chiesto - in questi giorni, ho letto attentamente alcuni suoi comunicati stampa - se oggi paghi la volontà di colpire Berlusconi. Ebbene, lei ha sempre difeso Berlusconi a spada tratta, in un modo spesso - mi permetta di dirlo - persino sacrilego. Infatti, signor Ministro, accostare, come lei ha fatto, in termini culturali, Berlusconi ad Adriano Olivetti, una persona di elevatissimo spessore culturale - credo che Adriano Olivetti si ribalterà nella tomba - è inimmaginabile.
La cultura che lei difende in questo modo, difendendo il Presidente del Consiglio Berlusconi, rappresenta lo scempio al quale stiamo assistendo in questi giorni, quel film vergognoso che stiamo guardando. Beh, se difende quel tipo di cultura, signor Ministro, è giusto che noi chiediamo le sue dimissioni.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Granata. Ne ha facoltà.

BENEDETTO FABIO GRANATA. Signor Presidente, signor Ministro, intendo iniziare questo mio breve intervento - al di là del tempo che mi è stato assegnato, intervenendo, in questa fase, soltanto io a nome del mio gruppo parlamentare - innanzitutto, sgombrando dal campo una questione che credo sia sostanzialmente inesistente e che, però, spesso, è stata evocata dallo stesso Ministro attraverso gli organi di stampa.
Si è parlato come se l'iniziativa parlamentare che, insieme al Polo della nazione, ha portato ad un documento che si è concretizzato in una mozione di sfiducia individuale verso il Ministro Bondi, sia un atto personale. Anzi, è stato detto qualcosa di più e di peggio. È stato detto che si tratta di un atto di violenza nei suoi confronti. Pag. 75
Signor Ministro, chi parla non ha difficoltà ad entrare in polemica quando si deve farlo, tuttavia, credo che ricercherebbe inutilmente una sola notizia di agenzia di stampa a mia firma o una sola dichiarazione nella quale, ad esempio, mi sia attardato su questioni - quelle sì - realmente personali. Forse, perché la mini-parentopoli prima evocata fa sorridere di fronte alla maxi-parentopoli del comune di Roma, ma anche perché le questioni di cui trattiamo sono estremamente serie ed importanti per la nazione, e non possiamo immiserirle rispetto a ciò che è stato evocato.
Signor Ministro, l'altra questione che lei ha posto ripetutamente sul tappeto è che la mozione in oggetto sia stato un atto e un attacco di natura politica. Qui non posso darle torto: certo, è un atto di accusa politico, perché riteniamo che le politiche culturali rappresentino un tassello fondamentale della politica di qualsiasi Governo e, in modo particolare, di un Governo che ha l'onore, ed anche l'onere, di gestire la più grande stratificazione storica, ambientale, culturale, archeologica e paesaggistica del pianeta.
Non voglio attardarmi in percentuali di possesso del patrimonio culturale, perché, di solito, esse sono fallaci, non significano quasi nulla. Certamente, il dato oggettivo (e i numeri, si sa, sono argomenti testardi), è che avere la responsabilità del più alto numero di siti inseriti nella World heritage list dell'UNESCO - mi riferisco all'Italia, come nazione, come Stato e come Governo - rappresenta un riscontro oggettivo di questo sterminato patrimonio.
Noi questo atto lo rivendichiamo come atto politico, e non le rimproveriamo neanche la lettera di questa estate con la quale, appellandosi a un suo legittimo e onorabile percorso di memoria storica, si è rivolto al Partito Democratico invocando vecchie affinità elettive, vecchie culture, vecchie militanze. Noi non siamo, pur provenendo, notoriamente, da culture politiche di diversa estrazione, tra quelli che ritengono che i comunisti abbiamo mai mangiato i bambini. Quindi riteniamo anche normale e legittimo che lei si sia voluto, in sede politica, attraverso un messaggio, rivolgere ai suoi vecchi compagni di strada. Ci sono esempi storici più drammatici, probabilmente, per la materia di cui si trattava - ricordo quell'appello straordinario del 1935 di Togliatti ai fratelli in camicia nera. Insomma, ci sono corsi e ricorsi storici in questo senso. E allora, la questione è solo ed esclusivamente politica.
E ciò che oggi viene portato in Parlamento attraverso questa mozione è una considerazione che noi richiamiamo non da una pregiudiziale ostilità nei suoi confronti. Lei sa che chi parla, insieme al gruppo parlamentare, che già all'epoca si era formato, di Futuro e Libertà per l'Italia, ha sostenuto in quella fase la cosiddetta riforma degli enti lirici, che tra mille questioni poi è stata portata all'approvazione. Ma anche quella, per questioni che adesso affronterò, è assolutamente al palo e in merito alla stessa richiamo all'attenzione anche la grande preoccupazione di tutti i responsabili delle fondazioni liriche. La questione è politica perché, a nostro avviso, bisogna sottolineare con forza - riteniamo di averlo fatto con la mozione che consideriamo propositiva e di progetto - che partendo dall'articolo 9 della Costituzione, «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione», il primo risultato che vogliamo ottenere con questa mozione è aprire una discussione in Parlamento su una certa idea di cultura, che, a mio avviso, non è, e né può essere, un'idea di cultura che può consentire di governare quell'enorme patrimonio di cui prima parlavo.
C'è una sorta di suggestione, che la cultura serva a produrre reddito, a produrre turismo, a creare un'industria (i cosiddetti giacimenti culturali). Noi, invece, abbiamo il coraggio di dire, e lo diciamo anche nella mozione, che la cultura innanzitutto ha un ruolo costituzionale, fissato dall'articolo 9, di ben più alto livello, di più alto spessore. Ha una mission del tutto diversa. La cultura, in una Pag. 76fase come quella che attraversiamo di crisi mondiale, di crisi delle ideologie, di crisi delle appartenenze, serve a ricordarci chi siamo, qual è il fondamento dell'identità nazionale. E in cultura si deve investire, perché quest'altro ritornello - ed è il secondo punto - che la cultura deve fuoriuscire dalla sacca di peso rispetto al bilancio dello Stato e diventare produttiva è una affermazione assolutamente fuori dalla realtà per un patrimonio culturale come quello italiano, che, soltanto per essere tutelato e salvaguardato attraverso opere di ordinaria manutenzione, oltre che di restauro e quindi, successivamente, di valorizzazione, ha bisogno di risorse enormi.
Allora lo Stato, e il Governo in questo caso, devono avere il coraggio di dire e di ammettere che in cultura bisogna investire e che spesso l'investimento in cultura, da un punto di vista produttivo, è inizialmente a fondo perduto, perché serve a qualcosa di molto più importante che garantire un livello produttivo. Serve a tenere chiara alla mente e al cuore degli uomini, e degli italiani in questo caso, qual è il tratto identitario della nazione.
Allora, di fronte a tutto questo, veda, lei come Ministro - ma complessivamente il suo Governo - ha via via fatto venir meno quelle che sono le condizioni essenziali per poter garantire la tutela, la fruizione e poi la valorizzazione di questo patrimonio. Noi abbiamo una curva sempre decrescente degli investimenti nel settore.
Abbiamo soprattutto una assoluta incapacità politica, una mancanza di volontà politica o non so come definirla, perché non voglio fare il giudice di questa vicenda che ritengo essere molto complessa, all'interno della compagine governativa. Non è un caso, Ministro, che l'intero mondo della cultura italiana sia preoccupato, a meno che non si voglia catalogare anche quello come appartenente tutto alla categoria dei comunisti, ma se fossero tanti i comunisti mi chiedo per quale motivo poi le percentuali elettorali della sinistra in Italia siano tali; dappertutto voi vedete egemonie. Il tema vero è che nel mondo della cultura, dalla lirica al teatro, dai soprintendenti delle aree archeologiche ai presidenti delle fondazioni teatrali, dal mondo del cinema, tutti quanti hanno la percezione netta che stiamo arrivando a un punto irreversibile di crisi perché senza il sostegno dello Stato questi settori non riescono a produrre ciò che devono produrre come mission e cioè la diffusione della consapevolezza culturale fra i cittadini.
Allora, la motivazione per la quale abbiamo ritenuto di articolare una mozione che avesse anche una grande valenza propositiva è partire da alcune brevi considerazioni sulle quale poi mi avvio a concludere.
Come si può ritenere che una nazione che, come abbiamo prima tentato di dire, ma non bisogna sforzarsi molto per dimostrare questo dato oggettivo, è la più grande potenza mondiale nel campo della cultura, riservi alla stessa lo 0,18 per cento del PIL nazionale? Questa è la quota che viene riservata agli investimenti in cultura. Probabilmente si ha un'idea falsa (è comprovato dai fatti che sia falsa) della possibilità di generare un meccanismo di autosufficienza economica, quindi gestionale e quindi legata alla valorizzazione del settore, questo è qualcosa di assolutamente sbagliato. Di fronte alla sola spesa per la manutenzione ordinaria, per la tutela del patrimonio archeologico, per il funzionamento base del Ministero con una spesa consolidata negli anni che è andata oltre i 450 milioni di euro, oggi ci troviamo ad una previsione che sfiora appena i 100 milioni di euro, fondi del lotto compresi. Si tratta di essere andati molto sotto il livello di guardia.
Parliamo poi del FUS, parliamo del personale, parliamo degli architetti e degli archeologi che mancano. Parliamo dell'indebolimento strategico che ha determinato un certo assetto da lei voluto. Ricorderà che anche per coerenza mi dimisi in Commissione da relatore di quel ridisegno delle direzioni del suo Ministero che ha ridimensionato alcuni settori che sono invece settori fondamentali per tutelare una straordinaria risorsa legata al patrimonio Pag. 77immateriale e cioè il paesaggio. Tutto ciò col risultato che, al di là di altre questioni che riguardano «cricche» e «mafie» varie, senza un coordinamento tra la struttura della tutela paesaggistica del Ministero e le regioni, noi assistiamo alla devastazione di intere aree, di enormi aree, soprattutto nel meridione d'Italia, attraverso l'insediamento di parchi eolici e di altre questioni che teoricamente dovrebbero portare innovazione, dovrebbero portare sostenibilità dello sviluppo e che invece, di fatto, stanno distruggendo un enorme patrimonio immateriale. Quelle aree, se rese consapevoli della propria straordinaria identità culturale, possono, potranno o potrebbero, se tutto non verrà distrutto, garantire una forma di sviluppo diverso, legato fortemente alla consapevolezza culturale e quindi alla difesa di quel paesaggio.
Parliamo poi del FUS, quante garanzie, quante promesse. Io so che lei è consapevole, come è consapevole il sottosegretario Giro, che con un FUS ridotto dal livello minimo di 400 milioni a meno di 250 milioni, le istituzioni del mondo dello spettacolo, la linfa vitale delle attività culturali italiane, sono anch'esse sotto quel livello di guardia. Guardi Ministro, non credo che ci sia mai stata una situazione di tale entità nella rivolta contro le politiche di Governo del settore della cultura in Italia. È certamente legata alla questione economica. Certamente è legata alla grande preoccupazione che questi settori hanno rispetto all'impossibilità di programmare. È certamente legata, ad esempio, in alcuni settori della produzione cinematografica, a una grande preoccupazione per il fatto che quando le misure di facilitazioni legate alla tassazione sulla produzione cinematografica, che sono state sulla carta opportunamente individuate, vengono circoscritte ai sei mesi, ciò sta a significare che investire è impossibile.
Sta a significare, cioè, che una misura individuata (come quella della tax credit) viene resa impossibile da applicare, perché ovviamente la produzione ha necessità diverse rispetto ai tempi.
Allora, concludendo, non riteniamo che sulla questione di Pompei ci sia stato un livello di responsabilità inesistente da parte sua, perché Pompei non aveva una gestione ordinaria. Voglio soltanto passare su questo aspetto della questione più complessiva che ho cercato di affrontare nei tempi a mia disposizione. Ci riserviamo, ovviamente, di tornarvi nel corso del dibattito e soprattutto di affrontare tali questioni nelle dichiarazioni di voto.
Credo, tuttavia, che in presenza di una gestione commissariale, affidata ad uno studioso, a un personaggio da lei scelto (essendo commissariale è di fiducia del Ministero) e tanto di sua fiducia che era già indicato per andare a guidare la fondazione che doveva nascere a Pompei, qualcuno in questo Paese debba rispondere di ciò che avviene. La gestione è commissariale. A tale proposito, ricordo che ho affrontato, nella esclusività delle competenze della regione siciliana, con alcuni meccanismi alcune situazioni di grave rischio, ma il commissario dipendeva direttamente da me ed io ero il responsabile politico di ciò che il commissario faceva e poneva in essere.
A Pompei non si è verificato un crollo nell'area archeologica nell'ambito di una gestione ordinaria, ma si è verificato un crollo dopo anni di commissariamento in cui le risorse, probabilmente, erano destinate maggiormente ai percorsi tattili o alle degustazioni delle mozzarelle che all'ordinaria manutenzione di quella straordinaria città a cielo aperto che è, e rappresenta, uno dei tasselli più importanti del nostro patrimonio culturale.
Guardate, quello che sta succedendo in questi mesi fa anche venir meno la polemica per cui è stato detto che il mondo ci ha riso dietro perché è crollata la casa dei gladiatori. Purtroppo, lo dico con sincerità, il mondo in questi giorni ci ride dietro per questioni materialmente molto meno gravi, ma sul piano dell'immagine molto più gravi.
Riteniamo che con uno sforzo - che però capisco che è soltanto teorico perché non c'è la percezione di questa gravità - proprio in questa fase del «decreto mille Pag. 78proroghe» si potrebbe provare, per quanto riguarda il personale, a far scorrere finalmente le graduatorie dei concorsi e in questo senso attraverso un emendamento abbiamo con molta chiarezza fornito tale indicazione e questo tipo di possibilità.
Riteniamo, per esempio, che si possa e si debba integrare, almeno ai livelli di cui abbiamo detto prima, il FUS per salvare quelle attività culturali. Riteniamo che per l'ordinario funzionamento del Ministero per i beni e le attività culturali siano da trovare almeno 500 milioni di euro. Riteniamo che bisogna eliminare quella norma demenziale - mi assumo la responsabilità di ciò che dico e non si tratta di una sua norma, ma di una norma del Ministero dell'economia e delle finanze, ma lì, in sede politica, lei doveva battere i pugni e battersi contro di essa - che prevede il limite nell'organizzazione delle mostre e degli eventi di un tetto del 20 per cento rispetto agli investimenti negli anni precedenti.
Sostanzialmente, la norma ricade sulle mostre dei comuni piccoli, medi e grandi, soprattutto del nord in questo caso, ma molti anche nel sud (penso a Napoli, con la mostra sul barocco, a Treviso, a Brescia, a Bergamo). Le mostre, che sono il cuore del turismo culturale verso quei centri, non possono essere che organizzate investendo un tetto del 20 per cento rispetto all'anno precedente, quindi l'unico meccanismo che portava le sponsorizzazioni viene abbattuto per legge e si rende impossibile l'organizzazione di qualsiasi mostra e di qualsiasi realizzazione.
Su un piano tecnico mi fermo qui, ma su un piano politico le dico che bisogna avere consapevolezza delle imprese di cui ci si assume la responsabilità. Credo che essere Ministro per i beni e le attività culturali sia uno straordinario onore in Italia. È uno straordinario onore perché significa avere il peso sulle spalle di un patrimonio così importante e così grande, ma credo sia anche una grande responsabilità.
Penso ai grandi viaggiatori del Seicento e del Settecento e al grande fenomeno con cui si guardava allora all'Italia, così come si deve tornare a guardare oggi nel 150o anniversario dell'Unità d'Italia (ma la nostra è una storia molto più antica). Lei ha la sensibilità culturale e la preparazione culturale per cogliere esattamente ciò che dico. Abbiamo un enorme patrimonio, che affonda le sue radici nell'antichità classica, che era ammirato dai grandi viaggiatori e che faceva dire a Goethe nel Faust, parlando proprio del nostro patrimonio, che l'eredità dei padri la devi riconquistare, se la vuoi possedere davvero.
Io credo, signor Ministro, che non vi sia nessun astio personale ma vi sia soltanto - quello sì - un attacco politico alle sue politiche culturali. Infatti, con la sua politica questo Governo - e soprattutto con la politica di questo Governo - questa eredità dei padri rischia il disastro.
Lei ha già contro l'intero mondo della cultura italiana. Non so cosa succederà tra qualche giorno ma, probabilmente, vi sarà una nuova esibizione muscolare delle due o tre unità in più o in meno. Tuttavia, lei si deve rendere conto e chiedere a se stesso e alla sua coscienza se il più grande patrimonio culturale del mondo può essere governato con autorevolezza e legittimazione quando si ha contro l'intera cultura italiana e quando, bene che vada o male che vada, a seconda dei punti di vista, si ha contro, comunque, metà del Parlamento e della nazione italiana.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Bossa. Ne ha facoltà.

LUISA BOSSA. Signor Presidente, signor Ministro, vorrei cominciare dai numeri. 16 miliardi di euro, 17 mila aziende e 300 mila lavoratori. Questi sono i numeri dell'industria culturale italiana relativamente al cinema, alla musica e a tutte le attività collaterali. A ciò va aggiunto tutto quello che si muove intorno ai musei, ai teatri e ai siti archeologici, con l'immenso indotto in termini di ricettività alberghiera e della ristorazione. Si tratta di una fabbrica enorme e diffusa, che dà lavoro e porta ricchezza.
Tuttavia, come è stato già detto, in questi ultimi anni alla cultura sono stati Pag. 79sottratti centinaia di milioni di euro, creando un danno non solo al nostro patrimonio ma, appunto, alla nostra economia, alla nostra occupazione e al nostro sviluppo. Di fronte a ciò, come ha reagito il Ministro Bondi? Con una lamentazione. Eppure, il Ministro è anche coordinatore nazionale del maggior partito italiano e non manca di peso politico, almeno sulla carta. Viene fatto a pezzi il budget e lui è rimasto immobile.
Signor Ministro, il mio intervento - glielo assicuro - nasce con una considerazione di profondo rispetto che si deve non solo alla sua carica ma anche alla sua persona perché lei, Ministro, al di là dell'asprezza nella polemica personale a cui il suo ruolo di berlusconiano di trincea la costringe, è un uomo che in Parlamento, quando ha dovuto rispondere alla mie interrogazioni o ai miei interventi, ha sempre avuto garbo e attenzione, alimentando in me come in altri l'idea di un doppio Bondi: uno con l'elmetto, quando si tratta di difendere il capo; un altro con la penna del poeta, quando si tratta di ragionare. Vorrei rivolgermi al secondo Bondi e parlare con onestà di tutto quello che sta succedendo alla cultura in questo Paese. Vi sono tagli per un verso e crolli per un altro verso. Non vi è nessun progetto di rilancio e nessuna prospettiva.
Quando il Partito Democratico ha depositato la mozione di sfiducia, che appunto stiamo discutendo, lei ha detto di provare - cito - «un sentimento di profonda tristezza dinanzi al volto sfigurato della sinistra». Curiosa la metafora che lei ha usato: volto sfigurato e, tuttavia, quanto mai appropriata alla discussione che stiamo conducendo.
Signor Ministro, per fortuna la sinistra non è nelle disponibilità del Presidente Berlusconi, altrimenti, con il suo volto sfigurato, correrebbe il rischio di essere sottoposta ad un restauro estetico, come quello fatto alle statue di Venere e di Marte che campeggiano a Palazzo Chigi. Alla prima, Venere, è stata riattaccata una mano e al secondo, Marte, è stato riattaccato l'organo genitale. Qualche buontempone ha azzardato ipotesi fantasiose sulla nuova mano di Venere e sul nuovo organo di Marte, ma lasciamo stare. Non possiamo lasciare stare, invece, ciò che ha scritto il giornale britannico The Guardian. Il corrispondente John Hooper ha scritto: «L'entusiasmo di Silvio Berlusconi per la chirurgia estetica è ben documentato ma ancora non si sapeva che si estendesse ai genitali o alla scultura classica». Ecco a cosa è stata ridotta la patria di Michelangelo. Altro che volto sfigurato della sinistra!
Qui viene «sfigurata» l'anima di un Paese, che ha nelle radici culturali, nel reticolo di testimonianze, nella sua straordinaria tradizione, la sua più florida risorsa e che oggi viene ridotta a comica da avanspettacolo o a tragedia. Riattacchiamo un organo alle statue di Berlusconi e lasciamo crollare i più importanti reperti archeologici del Paese.
Il Ministro Bondi ha detto che la mozione che discutiamo oggi gli infligge «uno stato di angosciosa mortificazione». Ecco: non avrei saputo trovare parole più adeguate per descrivere il mio stato d'animo quando arrivano le notizie di crolli a Pompei, o - come di recente - addirittura di incendi nei container che ospitano gli uffici della sovrintendenza. Sono tutti avvenimenti dei quali il Ministro ha detto di non sentirsi responsabile. La capisco questa posizione: il Ministro è vero dà l'indirizzo politico e non si sente colpevole se nella gestione ci sono sciatterie, errori e cose simili. Tuttavia si tratta di un atteggiamento di comodo perché, se è vero che potrebbe non esserci una responsabilità diretta, è anche vero che, di sicuro, c'è una responsabilità politica. A cosa serve la politica, se non a prendersi le responsabilità? La responsabilità delle soluzioni e la responsabilità dei problemi irrisolti.
Allora Ministro Bondi ce lo dica una buona volta: se non è lei il responsabile, di chi è la colpa? Della pioggia? Vogliamo spiegare al mondo che un sito archeologico - che ha resistito a terremoti, alluvioni e bombardamenti - crolla per colpa di un temporale e di una infiltrazione nel terrapieno? Lo sostenga se ne ha il coraggio. Lo dica qui pubblicamente. Ci dica Pag. 80chi è il responsabile di un tale disastro oppure, infine, si assuma la responsabilità politica, così come fanno le alte cariche dello Stato, quando un fatto grave avviene nel proprio Paese e nel proprio perimetro di competenza.
Quello che è successo e continua a succedere a Pompei non sono episodi isolati, né il frutto di una calamità: a Pompei, in questi anni, nelle vesti di commissario per gli scavi, si sono avvicendati un prefetto e un funzionario della Protezione civile, non figure specializzate, non esperti, non tecnici del settore. Mi chiedo: c'è un nesso tra questa gestione e il crollo della casa dei gladiatori? Sostengo che il nesso è evidente. Ho presentato alla sua attenzione, solo quest'anno, due interrogazioni sugli scavi di Pompei: la prima a gennaio scorso, la seconda a giugno, denunciavo il degrado interno agli scavi e il fatto che si stessero conducendo lavori con mezzi pesanti, mettendo a rischio la stabilità delle vecchie dimore. Lei, in entrambe le occasioni, ha risposto parlando di allarme ingiustificato e di procedure corrette. Quello che è successo dimostra invece che le preoccupazioni erano ben fondate.
Dunque, lei continua a ritenersi non responsabile del crollo a Pompei? Continua a non indicarci chi sono i responsabili? Continua davvero a credere che un fatto di tal genere possa essere archiviato come «colpa di nessuno» o peggio come colpa della pioggia? Se insiste, Ministro, con la storia della pioggia, finiremo con il dover dare ragione allo scrittore Erri De Luca, che ha chiesto allo Stato di ricoprire gli scavi in modo che il terreno preservi più di quanto non sia capace di fare l'uomo.
Signor Ministro, pure essendo una deputata nominata dal mio partito, come tutti qui, ho alle spalle una certa esperienza di radicamento sul territorio. Mi fregio di essere stata sindaco per dieci anni della mia città e la mia città si chiama Ercolano, il cui sito archeologico è stato dichiarato - come tutti sanno - patrimonio dell'umanità. Ercolano è legata a Pompei da un filo di destino e di bellezza. Siamo vesuviani e condividiamo la memoria della tragedia e la forza della storia. L'area archeologica di Ercolano «parla» con quella di Pompei, è una tappa di un percorso comune. Da sindaco e da cittadino vesuviano, ho memoria di una manutenzione certosina, quotidiana.
Gli scavi erano per noi un luogo di una sacralità laica che è difficile, signor Ministro, da spiegare. C'erano squadre di muratori che li curavano quotidianamente, c'erano operai e sentinelle. Oggi, di fronte alla tragedia, la sento invocare managerialità. Mi consenta di dirle che lei sbaglia. Gli scavi non hanno bisogno di figure mercantili che pensino solo a fare business. Certo, è importante, non mi sfugge, dargli dinamicità economica e promozione turistica, ma innanzitutto va salvata la bellezza. Prima dei manager, ci vogliono i muratori. Signor Presidente, mi avvio alla conclusione. Prima dei business man ci vogliono i manutentori, non solo a Pompei ed a Ercolano, ma da Pozzuoli a Bacoli, a Cuma, al rione terra di Pozzuoli, all'antico stadio Antonino Pio, al tempio di Serapide, a San Vito, al Cento Camerelle a Bacoli, all'antica Tomba di Agrippina, e così via.
Allora, Ministro Bondi, mi rivolgo al suo doppio, al poeta, non allo scudiero del re. Si assuma le sue responsabilità e si dimetta. Lo faccia subito, lo faccia ora. Intanto io, da buona napoletana, faccio un auspicio che è anche uno scongiuro: che il prossimo reperto archeologico a crollare sia il Governo di cui lei fa parte, Ministro Bondi, così almeno salviamo quel che resta della cultura in questo Paese (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico e Italia dei Valori).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Lusetti. Ne ha facoltà.

RENZO LUSETTI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor Ministro, lei sa che noi del gruppo parlamentare dell'Unione di Centro la rispettiamo profondamente come uomo, per la sua sensibilità umana e personale, ma lei è anche un Ministro della Repubblica e come tale, nella lotta politica, deve mettere in conto Pag. 81tutto, anche una mozione di sfiducia da parte dalle opposizioni. La mozione non è una ripicca personale, è un atto politico e come tale va interpretato ed anche discusso.
Io e lei abbiamo più o meno la stessa età, ma proveniamo da due culture e da due storie diverse. Lei, come ci ha ricordato qualche settimana fa con quella lettera ormai famosa, lo ha ricordato prima il collega onorevole Carra, con i «cari compagni», come se i post-comunisti oggi fossero gli unici depositari della cultura italiana. Anche un po' dal dibattito che si è sviluppato in quest'Aula, con l'intervento dell'onorevole Melandri e dell'onorevole Bossa, come se ci fosse un'interlocuzione fra questa maggioranza e una sola parte delle opposizioni, cioè quella dei cosiddetti post-comunisti che oggi siedono nei banchi del Partito Democratico. Lo dico perché lei ci ha ricordato questo, venendo dal Partito comunista, ed io le ricordo che provengo dalla Democrazia cristiana, esperienza di cui sono orgogliosissimo, per quello che ha fatto questo partito in questo Paese.
La Democrazia cristiana aveva nel proprio statuto poche regole ma chiare, ferree e precise. La prima era l'incompatibilità tra incarichi di partito e incarichi di Governo, chi faceva parte del Governo usciva dalla direzione del partito. Lo stesso Andreotti, che ha fatto tante volte il capo del Governo ed ha avuto tanti incarichi di Governo, usciva dalla direzione del partito per applicarsi nell'azione di Governo del nostro Paese. Regole che non erano condivise dal Partito comunista perché loro avevano in testa il partito-stato, il partito che si identificava con lo Stato. Se mi consente, signor Ministro, un po' come il Popolo della Libertà oggi, un partito che si identifica molto con lo Stato. Lo dico con molta sincerità ed onestà. Chi aveva incarichi di Governo non poteva essere distratto da impegni gravosi di partito e non poteva essere condizionato da problemi interni.
Pertanto mi chiedo, se lei signor Ministro fosse stato un po' più libero da imposizioni di partito, forse avrebbe osato di più verso un Ministro dell'economia che le ha sempre detto di no. Lei non ha mai reagito, nemmeno ricorrendo al Presidente del Consiglio che è anche il capo del partito.
Un'altra regola ferrea della Democrazia cristiana: quando accadeva qualche problema rilevante, anche negativo, all'interno di un Ministero, il Ministro se ne assumeva sempre la responsabilità politica, anche a costo delle dimissioni. Molti hanno ricordato l'esperienza dell'onorevole Lattanzio che è stato anche vicepresidente in quest'Aula, scomparso recentemente e che quest'Aula ha ricordato molto degnamente. Ricorderete colleghi che Kappler fuggì dal carcere militare del Celio per negligenza o complicità del personale di quel carcere. Ovviamente Lattanzio non aveva colpe personali e non era nemmeno stato raggiunto da provvedimenti giudiziari, però si è responsabilmente dimesso per una ragione politica.
Ore le dico questo, signor Ministro: lo sfascio dei beni culturali italiani è sotto gli occhi di tutti. La politica dei tagli lineari di questo Governo ha prodotto danni inenarrabili al nostro Paese. I tagli sono comodi da imporre, ma micidiali soprattutto nel campo culturale, che è fatto di qualità diverse ed è anche molto povero in partenza. Come lei sa, quando è arrivato, ha trovato poche risorse in questo Ministero. Lei però non ha mai reagito, ma troppo spesso ha subito la cosiddetta Tremonti strategy. In qualche modo ha messo a repentaglio la cultura italiana, perché l'unica strategia di questi tre anni è stata quella di tagliare. Politica vuol dire fare scelte, stabilire priorità dal punto di vista politico, però troppo spesso non ha combattuto dentro il Ministero né in Consiglio dei ministri, finendo in condizione di non poter più agire per la manutenzione e il restauro del patrimonio culturale. Le dico con molta sincerità il perché di questa mozione di sfiducia. La situazione è drammatica: 102 milioni di euro per intervenire su tutto il patrimonio della cultura italiana sono molto pochi. Il sottosegretario Giro, che è seduto davanti a lei adesso, sa cosa vuol dire, visto che ha partecipato in maniera molto dignitosa al restauro del Pag. 82Colosseo. Quanti erano: 25 milioni di euro? Ebbene, cosa si può fare nel nostro Paese con 100 milioni di euro? Temo che siamo arrivati all'anticamera della decadenza culturale e civile, però questo Governo sembra non accorgersi di ciò che sta accadendo. Si va verso un rinvio della votazione delle mozioni, ormai è sulle agenzie di stampa. L'onorevole Cicchitto ha già detto che anche il gruppo del Popolo della Libertà ha problemi. Non so se si rinvia o meno. Lei ha chiesto di rinviare la sua replica a prima delle dichiarazioni di voto. Noi abbiamo acconsentito ed è giusto che sia così perché ci aspettiamo una replica corposa e significativa, cercando anche di prendere impegni rispetto ai problemi che noi abbiamo posto in questa mozione. Ci auguriamo che ciò avvenga, però chiediamo almeno un minimo reintegro del Fondo per la tutela del patrimonio con altri 300 milioni. La ragione vera di questa mozione di sfiducia non è in qualcosa che lei ha fatto, ma in ciò che non ha fatto. Non sono state sbloccate le assunzioni, in particolare per sovrintendenti, architetti e archeologi; non ha ottenuto la proroga del tax credit e del tax shelter per il cinema; non ha ottenuto la revoca del divieto ai comuni di investire in iniziative culturali, così come altri colleghi hanno spiegato prima; non ha ottenuto una sorta di reintegro del Fondo unico per lo spettacolo con un po' di milioni. Ebbene, credo che sotto questo profilo i problemi ci siano. Il Ministro Tremonti ha sostenuto, come hanno detto altri colleghi prima di me, che la cultura non si mangia e lei non ha reagito. Credo che in qualche modo ci si debba anche indignare rispetto ad un tema di questo tipo. Altre sue colleghe hanno reagito in qualche modo per altri problemi. Poniamo solamente questo tipo di questione, perché un Paese che non investe nella propria memoria storica è un Paese che non investe nel proprio futuro e non crede nelle giovani generazioni. Come classe dirigente di questo Paese, dobbiamo porci il problema di che futuro diamo alle nuove generazioni, di cosa lasciamo ai giovani che oggi si apprestano ad entrare nel mondo del lavoro e nella vita quotidiana della società. Cosa lasciamo a questi giovani? Come classe politica abbiamo una responsabilità. Discutere in questo senso nell'ambito di una mozione di sfiducia credo che non sia assolutamente peregrino. Due mesi fa il Consiglio superiore dei beni culturali ha detto, in maniera molto drammatica, che ci sono gravi riduzioni nel bilancio dei beni culturali che compromettono l'efficacia della missione istituzionale del Ministero e ne riducono l'impatto non solo in valore assoluto, ma anche in rapporto alle altre esigenze che ha il Paese. Questo lo dice il Consiglio superiore dei beni culturali presieduto da Andrea Carandini, che lei ha nominato, signor Ministro. Quindi, è chiaro che se il problema è questo, un grido d'allarme occorre lanciarlo in questo nostro Paese. Eppure, la situazione rimane drammatica. Lo stesso Carandini dice che le nostre sovrintendenze sono ormai ospedali che non curano e abbiamo pochi spiccioli per archivi, biblioteche, archeologia, gallerie, monumenti, paesaggio italiano. Tutto ciò in emergenza, con un Governo immobile. Siamo arrivati in qualche modo, come dicevo prima, all'anticamera della decadenza culturale e civile e questo Governo sembra non accorgersi di ciò che sta accadendo. Ora dico: attenzione a non finire sotto terra.
Non è che la incolpo del crollo di Pompei: non è questo il problema, anche se è esistito un problema di questo tipo, però credo che rischiamo di avere il destino della civiltà sepolto.
Concludo dicendo che avrei preferito, signor Ministro, che lei avesse preso le distanze da un alto esponente della sua maggioranza, il governatore Zaia, che ha definito i 50 ettari di scavi archeologici, volgarmente, come «i quattro sassi di Pompei». Mi è venuto alla mente un dipinto di Francisco Goya dal titolo Il sonno della ragione genera mostri, dove i mostri, nel nostro caso, sono l'ignoranza, la mancanza della critica, la fuga dalla cultura e anche dalle responsabilità, condizioni Pag. 83che impediscono di realizzare la più grande libertà dell'uomo, che è quella dello spirito.
Chiedo a lei, signor Ministro, perché troppo spesso ho l'impressione di vivere in un Paese dove domina il sonno della ragione, di avere un sussulto, di far sì che il Parlamento abbia un sussulto in questo nostro Paese per risvegliare le coscienze, la politica e anche la passione (Applausi dei deputati del gruppo Unione di Centro).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Barbieri. Ne ha facoltà.

EMERENZIO BARBIERI. Signor Presidente, credo che questo dibattito si sia svolto fino ad ora in termini molto duri, ed è quindi anche giusto che si replichi da parte della maggioranza. Lo ha fatto per quanto riguarda il gruppo della Lega la collega Goisis, per quanto riguarda il Popolo della Libertà mi accingo e spero di riuscire a farlo io.
Devo dire che, quando ho letto il testo della mozione di sfiducia del Partito Democratico e dell'Italia dei Valori, sono rimasto stupito e colpito. Infatti, vi sono delle affermazioni che rasentano, da un lato, il ridicolo, dall'altro, il drammatico. Nella premessa si afferma che il crollo di Pompei «rappresenta, anche dal punto di vista simbolico, il fallimento della politica in materia di tutela dei beni e delle attività culturali, e più in generale del valore dei saperi».
Siccome il Partito Democratico è erede, non so fino a che punto legittimo, della gloriosa storia del Partito comunista, mi sono chiesto: vi immaginate, ai tempi del PCI, una mozione scritta in questo modo? Sarebbe stata una cosa francamente inaccettabile, illogica, perché cosa c'entra il crollo di Pompei con «il fallimento della politica in materia di tutela dei beni e delle attività culturali, e più in generale del valore dei saperi»?
È incredibile, non so chi abbia scritto queste cose, probabilmente un po' in libertà. Scrivete ancora: «il crollo dell'Armeria dei Gladiatori» - testuale - «rappresenta uno dei più gravi danni al nostro patrimonio artistico degli ultimi decenni». Siccome le parole nella lingua italiana, che è così ricca di vocaboli, hanno un senso, immagino che per ultimi decenni si intendano gli ultimi trenta o quarant'anni. Il crollo di Pompei è il più grave! Scritto dal partito a cui appartiene - ha fatto bene a ricordarlo la collega Goisis, ma su questo tornerò - l'ex Ministro per i beni e le attività culturali durante il cui mandato crollarono le mura aureliane, senza che alcuno chiedesse le sue dimissioni.
Nella mozione si afferma anche che: «questo crollo ha arrecato un irreparabile pregiudizio per l'immagine dell'Italia nel mondo». Mi rifiuto di pensare che a New York, Sidney, Berlino o Oslo abbiano considerato questo crollo «un irreparabile pregiudizio per l'immagine dell'Italia nel mondo». Cos'è che chiedete voi, Partito Democratico e Italia dei Valori? Devo dire che mi ha fatto molto piacere - mi dispiace che sia andato via - vedere che, a nome dell'Italia dei Valori, ha illustrato la mozione di sfiducia l'onorevole Borghesi. L'ho visto con il suo bel tricolore nel taschino: se penso che è stato presidente leghista della provincia di Verona, dal fazzoletto verde che porta l'onorevole Goisis al tricolore si vede che di strada ne è stata fatta.
Quello che ha detto il collega Lusetti dovrebbe colpirci. Cosa chiedete in questa mozione? Chiedete esattamente di ripetere la stessa cosa che portò alle dimissioni dell'onorevole Lattanzio.
Chiedete che il crollo di Pompei sia equiparato alla fuga di Kappler: Lattanzio si dimette, Bondi si deve dimettere. Francamente credo che questa affermazione sia priva di ogni logica.
Lo dico al mio amico onorevole Lusetti, perché democristiano era lui e democristiano ero io, e lo dico con una punta di polemica anche rispetto ad alcune cose che riguardano il Popolo della Libertà. Voi scrivete che «il Ministro ha privilegiato la sua attività di coordinatore nazionale del Popolo della Libertà.». Conoscendo come vanno le cose all'interno del Popolo della Libertà ed il livello del Ministro Bondi, dico che magari il Ministro avesse privilegiato Pag. 84la sua attività nel partito di cui fa parte! Saremmo probabilmente in presenza di un partito che non avrebbe commesso una serie di errori. Quindi, non è vero - lo dico al collega Lusetti - che si sia verificato quello è stato denunciato nella mozione in esame.
Unica punta polemica nei confronti della mozione in oggetto presentata dal primo o terzo polo, non so quale termine usare, dell'onorevole Casini. Dico soltanto una cosa: voi scrivete - lo dico al mio amico Fabio Granata che è stato il mio capogruppo in Commissione e con il quale, comunque, come sa bene il sottosegretario Giro, avemmo un rapporto di collaborazione - «il bilancio dell'attuale Governo in materia di politiche culturali è disastroso.». Voglio ricordare che l'attuale Governo dura dal maggio 2008 e ricordo al mio amico, onorevole Granata, che di questo attuale Governo fino a poche settimane fa faceva parte in termini organici il gruppo di Futuro e Libertà per l'Italia.
Il nodo della questione è stato esposto con grande chiarezza dall'onorevole Melandri. A questo proposito voglio sollevare un problema. Giudico di pessimo gusto - non di cattivo gusto, ma, ripeto, di pessimo gusto - il fatto che a determinare l'orientamento del primo o terzo polo nei confronti della mozione di sfiducia al Ministro Bondi partecipino in modo attivo e determinante due ex Ministri per i beni e le attività culturali. Proprio perché non sono di primo pelo, ricordo bene che queste cose accadevano nell'ex Unione sovietica. Succedeva spesso che il Ministro della difesa o il Ministro delle emergenze nazionali giudicassero i loro corrispondenti nel Governo precedente.
Quando ho visto che un uomo di notevole livello come l'onorevole Buttiglione e il senatore Rutelli si mettevano a lavorare, svolgendo audizioni per capire attraverso quali strumenti fosse possibile vergare la mozione di sfiducia nei confronti del Ministro Bondi, mi è venuto leggermente freddo sulla schiena. A questo poi ha partecipato, così come detto nel suo intervento, l'onorevole Melandri.
Quest'ultima però, devo dire, ha avuto un pregio ineguagliabile, perché ha parlato un linguaggio di assoluta verità. Ha detto - l'ho scritto - «si chiedono le dimissioni del Ministro non per colpire un uomo, ma una politica». Chiedo scusa, ma la politica che voi volete colpire è la stessa che il 14 dicembre ha vinto e, quindi, quale politica volete colpire? La politica è quella del Governo Berlusconi che il 14 dicembre, da questo Parlamento, ha ottenuto un voto di fiducia.
E poi con quali attacchi! Ora, che un ex Ministro per i beni e le attività culturali dica di essersi stupita che il giorno in cui Della Valle e Alemanno hanno annunciato l'intesa per il restauro del Colosseo non vi fosse il Ministro Bondi, come se questo costituisse uno dei peccati peggiori che il Ministro potesse commettere, francamente, vuol dire essere un po' «alla frutta».
Qui in Aula si è detto del Ministro Bondi ciò che non si è mai detto di nessun Ministro nella storia della Repubblica. Nessuno ha ricordato una sola cosa positiva! Il senatore Bondi è Ministro dal maggio 2008, ha fatto cento cose, ma è possibile che tutte queste cento cose siano sbagliate? Nessuno ha ricordato una cosa giusta fatta dal Ministro Bondi. Ebbene, lo voglio fare io, anche per rispondere ad una serie di attacchi che sono giunti.
Parto dalla storia di Resca. Al suo insediamento il Ministro Bondi ha trovato una situazione deprimente nei musei statali, che dal 2006 conoscevano - lo riferiranno il Ministro Melandri e l'onorevole Mazzarella - una costante diminuzione di pubblico e di incassi. Per questo egli ha voluto istituire la nuova direzione generale per la valorizzazione, che ha introdotto un approccio manageriale nella gestione dei musei e ha dato nuovo slancio al turismo, sfruttando le enormi potenzialità del web, con accordi innovativi con i maggiori motori di ricerca.
Tutto questo ha portato nell'anno 2010 ad una crescita del 15,5 per cento dei visitatori, mentre gli introiti sono aumentati dell'8,7 per cento. Tra l'altro, completando il nuovo museo di palazzo Barberini, Pag. 85il Ministro Bondi ha dato alla capitale una galleria nazionale degna del suo nome. Quanto all'Accademia di Brera - di cui qui mai nessuno parla, ovvero Bondi è solo capace di fare dei disastri a sentire quello che qui dentro è stato detto - Bondi ha risolto il suo nodo gordiano grazie all'opera del commissario straordinario, che fino a prova contraria risponde al nome di Mario Resca, gettando le premesse per la realizzazione della grande pinacoteca che Milano aspetta da quarant'anni. Mi pare, quindi, che questo fatto debba essere registrato come positivo.
Arriviamo a Pompei. Tutto quello che è stato detto, per l'amor di Dio, è tutto opinabile. Voglio solo mettere il dito sulla seguente questione. Contrariamente a quanto è stato detto, il commissariamento - perché qui non si tratta mai di cifre: si fanno chiacchiere, ma niente cifre - ha permesso la realizzazione di quasi ottanta interventi, con l'investimento di circa 79 milioni di euro, altrimenti inutilizzati da parte della sovrintendenza, e per chi, come me, è abituato ancora a ragionare con le vecchie lire, 79 milioni di euro non sono noccioline.
A me non è che turbi molto sentire le perorazioni di una persona che è stata dieci anni sindaco di Ercolano. Non capisco cosa c'entri: se uno è stato sindaco di Ercolano non ha più titoli per parlare di qualunque altro di noi, per esempio della Goisis, che invece viene da Padova. Tutti i lavori sono stati effettuati di intesa con i tecnici della sovrintendenza, seguendo il programma degli interventi approvato dall'allora sovrintendente Guzzo. Non è stato cambiato nulla rispetto a quelle indicazioni.
I crolli di questo autunno, che hanno interessato edifici sulla via dell'Abbondanza, in gran parte ricostruiti all'indomani della guerra, dopo la distruzione - cosa che nessuno ricorda - causata dai bombardamenti alleati alla vigilia dello sbarco di Salerno, hanno portato il Governo a predisporre un piano di emergenza con l'invio di una task force di archeologi, architetti, ingegneri e operai specializzati, il conferimento di maggiori poteri alla sovrintendenza - e non è vero quello che è stato detto qui - e lo stanziamento di risorse straordinarie per i primi interventi di recupero. Si tratta di un piano che ora attende di essere varato in sede di conversione del cosiddetto decreto-legge «milleproroghe».
E perché non parliamo della riforma strutturale che il Ministero, retto dal senatore Bondi, ha realizzato? Parlo con orgoglio perché ero relatore della Commissione. Mi riferisco alla riforma delle fondazioni lirico-sinfoniche. La trasformazione degli enti lirici in fondazioni di diritto privato, con una legge che volle nel 1987 l'allora Ministro Veltroni - che poi in questi giorni è bravo a spiegare a tutti come si devono fare i compiti a casa - si è rivelata un fallimento. Si volevano responsabilizzare gli amministratori, rendendo i teatri una realtà privatistica, che doveva operare secondo criteri di imprenditorialità ed efficienza e nel rispetto del vincolo di bilancio. Questi erano gli obiettivi, la realtà è stata ben diversa: la privatizzazione è risultata solo sulla carta, mentre la gestione non è stata affatto improntata allo spirito di imprenditorialità voluto dalla norma.
Quale situazione ha ereditato il Ministro Bondi? Lo dobbiamo dire, perché qui nessuno dell'opposizione ne parla e mi stupisco che anche i rappresentanti di forze politiche di centro - non certamente di sinistra - non abbiano ricordato nulla di ciò.
Scarsa produttività ha ereditato il Ministro Bondi, un deficit di 160 milioni di euro accumulato da tredici fondazioni dal 2002 ad oggi: debiti iscritti - pensate! - nello stato patrimoniale che superano i 290 milioni di euro, nonostante che il finanziamento pubblico statale rappresenti quasi la metà del FUS. Il costo del personale - e quando si aggrediscono nodi strutturali come questi è ovvio che chi viene colpito reagisce, ma ciò vuol dire avere un Governo che fa riforme, non un Governo che conserva quello che ha trovato - assorbiva il 70 per cento del finanziamento pubblico. È una situazione, Pag. 86per alcuni versi, Ministro Biondi, pari a quella che ci ha portato a varare la riforma dell'università e lo dico anche al mio amico Granata, visto e considerato che la riforma dell'università ha avuto, in quest'Aula, il voto favorevole dei deputati di Futuro e Libertà per l'Italia.
Con coraggio e con la fattiva collaborazione di tutti i gruppi parlamentari, il Ministro Bondi è riuscito a varare una riforma risolutiva. Ma è ovvio che vi è il problema dei quattrini! Anche qui, vuol dire scoprire l'aria calda. Ma è ovvio che vi è il problema dei quattrini, che va, però, collocato in una situazione come quella che stiamo attraversando, che non è una delle migliori dal punto di vista della possibilità di riuscire a risolvere tale problema.
Abbiamo varato, però, una riforma risolutiva che migliorerà la vita dei teatri lirici italiani, razionalizzando il costo del lavoro, incentivando la produttività, garantendo l'autonomia a chi saprà dimostrare efficienza, corretta gestione e un'adeguata internazionalizzazione. Perché nessuno ha parlato dell'apertura del MAXXI? Ripeto: perché nessuno ha parlato dell'apertura del MAXXI? In mezzo alle duemila cose che, a vostro giudizio, Bondi ha sbagliato, perché non avete ricordato una delle cose delle quali oggi tutti vanno fieri ed orgogliosi?
Che situazione aveva trovato il Ministro Bondi rispetto al MAXXI? Aveva trovato un cantiere fermo, che da un preventivo di 70 milioni di euro - anche qui, convertiamo in lire e ci rendiamo conto di cosa vuol dire - era passato, a causa di una variante dovuta alla dichiarazione di rischio sismico sopravvenuta per Roma nel 2008, ad oltre 140 milioni di euro, ossia più del doppio.
Il Ministro Bondi ha stanziato gli ultimi 30 milioni necessari a completare l'opera che, come sapete, è stata inaugurata il 26 novembre 2009 e aperta al pubblico - noi della Commissione cultura siamo andati a vederla e devo dire che è un'opera veramente pregevole, di altissimo livello - nel maggio del 2010.
Inoltre, il Ministro Bondi e il suo Ministero, anche con l'ausilio del sottosegretario Giro, hanno istituito una fondazione per la gestione del museo, affidandone la guida a chi da sempre ha lavorato all'interno dell'amministrazione per la sua realizzazione.
Potrei ricordare - ma dirlo a noi che siamo qui adesso vuol dire dirlo a persone che ne sono a conoscenza - le misure straordinarie per l'area archeologica di Roma. Ci sarebbe da riempire un capitolo. Potrei parlare della difesa del paesaggio e del caso di Roma. Cosa ha trovato Bondi a Roma - su questo mi soffermo due minuti - quando è diventato Ministro? Una situazione deplorevole. La passeggiata del Pincio era interamente cantierizzata e la collina sottostante destinata a divenire un parcheggio pertinenziale privato. Il piano regolatore, approvato in extremis dalla giunta Veltroni, prevedeva la lottizzazione estesa di ampie zone dell'agro romano tra le consolari Laurentina ed Ardeatina. Il Ministero ha voluto difendere i tesori architettonici e paesaggistici della capitale impedendo questi scempi, chiamando i comitati tecnico-scientifici a valutare il progetto del Pincio alla luce dei più recenti ritrovamenti archeologici e invitando la soprintendenza ai beni architettonici e paesaggistici di Roma a vincolare l'agro romano, un provvedimento, quest'ultimo, che, come voi sapete, ha vinto tutti i ricorsi.
Parliamo poi della difesa del paesaggio a Mantova, a Bologna, a Firenze, in Molise.
Allora, amici, voglio concludere dicendo una cosa semplicissima...

PRESIDENTE. La prego di concludere, onorevole Barbieri.

EMERENZIO BARBIERI. Sto finendo, anzi ho finito. Voi avete presentato le mozioni di sfiducia nei confronti di Bondi per tentare di ripetere, a distanza di un mese e mezzo, l'operazione del 14 dicembre. Vi è andata male il 14 dicembre e vi andrà male anche quando torneremo a Pag. 87votare sulla fiducia al Ministro Bondi (Applausi dei deputati dei gruppi Popolo della Libertà, Lega Nord Padania e Iniziativa Responsabile).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Mazzarella. Ne ha facoltà.

EUGENIO MAZZARELLA. Signor Presidente, è l'evidenza delle cose che motiva la mozione individuale di sfiducia nei suoi confronti, signor Ministro, e non certo astio personale, che nessuno credo possa coltivare nei suoi riguardi per il garbo e la signorilità nei rapporti politici e personali che le sono ampiamente riconosciuti, da me in primo luogo.
Qui però non è in gioco la sua persona, ma il suo ruolo di Ministro e le responsabilità che vi si legano. Purtroppo, con il crollo della schola armaturarum della casa dei gladiatori è un fatto che è crollata anche la residua stima che in tema di tutela dei beni culturali l'Italia aveva conservato in ambito internazionale. Il punto l'ha colto subito il Presidente Napolitano - vorrei ricordarlo al collega Barbieri - chiedendo precise assunzioni di responsabilità in ordine ad una vergogna nazionale, perché tale è stato lo sciagurato evento di Pompei.
Lei, signor Ministro, ha rigettato una diretta o indiretta responsabilità e l'ha riferita, da un lato, in capo a situazioni di lungo periodo cui il Ministero avrebbe cercato di porre riparo incrementando nei siti archeologici una cultura della managerialità e, dall'altro, all'impossibilità per ragioni di bilancio di procedere all'assunzione di personale qualificato, archeologi e tecnici, nel sistema della gestione dei beni culturali.
Di diverso avviso naturalmente è la posizione del PD, come si legge nella mozione di sfiducia da noi proposta, quanto meno perché il suo Ministero sin dall'inizio si è caratterizzato per essere succube di una politica della lesina di questo Governo nei confronti dei beni culturali, una politica che li ha portati al collasso, perché Pompei è solo la punta di un iceberg, come per onestà intellettuale lei potrebbe pure ammettere.
È chiaro che qui si incrociano un giudizio sul Governo e un giudizio sulla gestione ministeriale dei beni culturali da parte sua. Nonostante la convinzione, certo sincera, che più volte abbiamo sentito esprimere in Commissione, signor Ministro, che i beni culturali siano un asset decisivo e insieme identitario, economico e civile di questo Paese, la traduzione politica di questa convinzione - ripeto, certo sincera - non è stato in grado di andare al di là di atti puramente simbolici e ininfluenti, quali la mancata partecipazione alla riunione del Consiglio dei Ministri in cui venivano adottate le misure dei tagli alle risorse del Ministero, né di promuovere alcuna seria iniziativa per la tutela del patrimonio artistico e culturale italiano, come dimostra il crollo di Pompei, peraltro preceduto da quello delle arcate di Traiano, la domus aurea, e da quello di elementi del Colosseo.
Perché questo è accaduto? Certo per la rigidità degna di miglior causa del Ministero dell'economia e delle finanze - su questo tornerò successivamente -, ma anche per un problema di indirizzo squisitamente politico del suo Ministero, di cui lei oggettivamente è chiamato a rispondere oggi. Vale la pena di chiarire il punto per intenderci, aldilà di polemiche sul piano personale che nessuno vuol condurre. Il crollo della casa dei gladiatori è l'esito di una distonia nella gestione dei beni culturali che, aggravata dalla mancanza di fondi, dura da tempo. Questa distonia è culturalmente ascrivibile alle politiche che conseguono all'introduzione della separazione tra tutela e valorizzazione nel Titolo V della Costituzione. Tale separazione certo risale all'iniziativa del centrosinistra con il Ministero Melandri, ma la declinazione nelle politiche successive e soprattutto dell'attuale «Governo del fare» - declinazione del pregiudizio favorevole a priori alla menagerialità, ancorché sconnessa dal principio di realtà della cognizione di causa di cosa si maneggia - ha Pag. 88aperto la strada alla falla gestionale che la situazione di Pompei ha portato a nefasta evidenza.
In sostanza, non può esserci in ambito dei beni culturali valorizzazione, cioè marketing legato alla fruizione, che tenga che non sia vincolato - usiamo la parola «subordinato» - allo loro tutela e questo proprio in una corretta ottica manageriale. In un altro ambito gestionale la valorizzazione varrebbe commercializzazione e tutela e ciò che è oggetto di tutela prodotto. È chiaro che non c'è niente da commercializzare se prima non lo si produce e non lo si produce bene. Vuole il caso che l'oggetto della valorizzazione dei beni culturali sia proprio la loro tutela, che è il primo prodotto che il management della cultura deve potere e sapere mettere in campo.
La polemica ideologica contro la cultura museale e polverosa della mera conservazione in nome della vitalità che la valorizzazione avrebbe dato e darebbe ai beni culturali è sempre a rischio di passare il segno, realizzando una controfinalità fattuale quando dimentica che ogni vitalità commercializzabile presuppone l'essere in vita, il mantenimento in vita e in pristino di ciò che si vuole vitale per la valorizzazione. L'idea che la valorizzazione trovi le risorse e poi con essa si porrà mano alla tutela, alla manutenzione ordinaria e straordinaria, ha contro il fattore tempo, cioè nel frattempo poco sarà rimasto e male da tutelare.
Ora, al di là di ogni altra valutazione politica, è un fatto che l'attuale Governo ha creduto anche su questo terreno che la cultura della managerialità, privati e fondazioni, fossero le parole che avrebbero tratto di impaccio dall'incapacità di trovare nel bilancio dello Stato risorse adeguate, correlandole a politiche efficaci di gestione e anche di controllo stringente sulla redditività degli investimenti fatti. Che fossero la soluzione e non solo parte, per certi aspetti persino dubbia, della soluzione è un errore di valutazione politica e gestionale agli atti, depositato sulle macerie della casa dei gladiatori, per tacere delle dense ombre all'attenzione della magistratura sulle soluzioni commissariali specifiche che sono state proposte dal suo Ministero a Pompei.
Ma su questo punto vorrei aggiungere qualcosa, perché è dirimente sulle sue responsabilità politiche e non è un caso che lei lo invochi a sua difesa nelle domande che ha posto al segretario del PD Bersani, ritenendo di inficiare con queste argomentazioni le ragioni politiche della mozione di sfiducia nei suoi riguardi. Lei in buona sostanza ritiene e rivendica che non le è imputabile la diminuzione delle risorse a favore del Ministero dei beni culturali a causa di provvedimenti assunti dal Governo per mantenere i conti pubblici sotto controllo e retoricamente chiede a Bersani se questa colpa giustifichi dal punto di vista politico e personale una mozione di sfiducia individuale. Mi creda: senza retorica penso purtroppo che già solo questo punto giustifichi politicamente la mozione di sfiducia. Può il suo Governo invocare la tutela dei conti pubblici contro la tutela dei beni culturali - e questa linea riceve il suo avallo ancora oggi, nella sua autodifesa - quando questo Governo, con Alitalia, ICI e quote latte, ha prosciugato le casse già non pingui e poi dichiarate vuote per università, ricerca, scuole beni culturali?
In sede di pianificazione delle priorità di spesa all'inizio della legislatura sarebbe stato suo dovere, fino alle dimissioni, far valere i bisogni e le urgenze di un asset da lei dichiarato decisivo per il futuro del Paese e non inchinarsi, condividendola, ad un'altra priorità, quella di mantenere promesse elettorali sbagliate e inique. Forse lo ha fatto ritenendo di poter recuperare qualche risorsa strada facendo, non stento a credere anche questo in buona fede. Ma quando il Ministro dell'economia fa sapere a lei come a noi che non vi sono soldi e che con la cultura non si mangia dice due cose non vere, che avrebbero meritato da parte sua dimissioni non per nostra richiesta, ma per la dignità del suo ufficio e contro il suo Governo, che ha anche mentito a lei Pag. 89e agli italiani, e non solo perché la cultura è un volano economico del territorio se la si sa valorizzare, ma per un motivo più banale: che i soldi c'erano, anche se non per la cultura.
Ha notato che mentre al suo Ministero veniva imposto una tale, anche volgare nelle argomentazioni, politica della lesina, venivano da un giorno all'altro procurati 750 milioni di euro in cinque anni sull'unghia, per acquisire la benevola astensione, in sede di fiducia il 14 dicembre, dei due colleghi della SVP, Brugger e Zeller? Certo è una remunerazione politica, al confronto magari di altre meno encomiabili avvenute quel giorno, ma non pare che Alto Adige e parco dello Stelvio vivano una situazione particolarmente depressa, a fronte dello stato di abbandono di quel patrimonio nazionale che sono i beni culturali dell'intero Paese. Dov'era la priorità del buongoverno? Già solo questo avrebbe dovuto muoverla a indignazione e a rassegnare le dimissioni per non condividere un uso delle risorse che escono fuori solo al momento opportuno per puntellare la traballante poltrona del Premier piuttosto che i beni culturali. Uno sforzo inutile peraltro, alla luce degli ultimi scandali e tutti, anche lei, a cui verrà riconosciuto uno stile di vita del tutto diverso e congruo alla disciplina e all'onore che la Costituzione richiede ai pubblici uffici, dovremmo interrogarci su un Governo che trova sull'unghia 750 milioni di euro non per i beni culturali, per una patrimonio che smotta e decade, ma per difendere una poltrona, quella del Premier, ormai tenuta senza decoro, a meno che non si pensi che il patrimonio nazionale non siano i beni culturali e la scuola armaturarum, ma la villa di Arcore e la sua scuola amatorum.
Questa è la politica che vogliamo colpire, questo penso di poter rispondere all'amico onorevole Barbieri. A queste condizioni, signor Ministro, con un Ministero di tale rilevanza ridotto a Ministero senza portafoglio, si dimetta, prima ancora del voto. Non associ il suo buon nome ad un disastro estetico ed artistico, e prima ancora etico oltre che politico (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Sardelli. Ne ha facoltà.

LUCIANO MARIO SARDELLI. Signor Presidente, onorevole Ministro, credo che, dopo l'intervento che, da un punto di vista tecnico, considero esaustivo del collega Barbieri - il quale ha riconosciuto i meriti e il lavoro che lei ha svolto in questi anni - mi debba fermare ad una valutazione politica.
Oggi, stiamo discutendo una mozione di sfiducia che è sospesa in Parlamento da alcuni mesi e, con riferimento alla quale, abbiamo assistito ad un indegno «balletto» di bassa cucina politica, con gruppi dell'opposizione che, prima, hanno detto che non avrebbero mai votato questa mozione e che, oggi, invece, sono schierati a favore. Essi hanno, addirittura, presentato una propria mozione contro il Ministro per un interesse contingente: non perché siano interessati al patrimonio culturale di questo Paese, ma soltanto per provare, ancora una volta, a dare una «spallata» al Governo.
Pertanto, si produce un paradosso: vi sono leader nazionali che, la mattina, fanno il plauso al Ministro dell'economia e delle finanze e alle politiche del Governo, proponendolo addirittura a capo di un ipotetico ed assurdo Governo tecnico, mentre invece, il pomeriggio, propongono una mozione di sfiducia verso il Ministro Bondi, rimproverandogli un'inadeguata dotazione di risorse per il suo Ministero; come se a fare queste scelte - che sono scelte collegiali e di Governo - non partecipasse lo stesso Ministro Tremonti.
Pertanto, da una parte, vi è una volgare speculazione politica in atto e, dall'altra parte, vi è una contraddizione violentissima del gruppo di Futuro e Libertà per l'Italia, di cui non ho capito assolutamente le argomentazioni, forse, per il mio modesto livello culturale. Il gruppo di Futuro e Libertà per l'Italia, Pag. 90infatti, ha sostenuto questa politica di Governo fino a tre mesi fa, quando, poi, fulminato sulla via di Damasco e di Montecarlo, ha preso una posizione politica diversa. Quindi, probabilmente, ex colleghi Ministri del Ministro Bondi, che hanno condiviso in questi anni le scelte di politica in ordine ai beni culturali del Paese, verranno in Aula a votare la sfiducia al Ministro stesso.
Se permettete, questa è una mediocre rappresentazione della peggiore politica di questo Paese, di chi non riconosce il diritto-dovere di governare a chi ha vinto le elezioni; di chi non ha il coraggio - e parlo dell'opposizione - di scendere in campo aperto in campagna elettorale a confrontarsi con il voto popolare, cercando, attraverso manovre di palazzo ripetute, di far cadere un Governo, probabilmente, al fine di provare a metterne un altro o a tirare su un altro «mostriciattolo», senza rendersi conto del rischio a cui esporrebbero il Paese da un punto di vista sociale, economico ed anche istituzionale.
Quindi, signor Ministro, comprendo la sua mortificazione personale ed umana: tutti gli interventi in cui si dice che non vi è niente di personale nei suoi confronti sono assolutamente falsi. Signor Ministro, lei è una persona un po' atipica nel Parlamento e nel Paese, perché ha seguito un percorso difficile, coraggioso, di passaggio da un partito molto comunista, e poco post comunista, ad una forza liberale e democratica che, nel 1994, ha salvato la democrazia liberale in questo Paese. Questo, signor Ministro, non le è stato mai perdonato e non le viene perdonato tuttora. Pertanto, la invito a non considerare questo fatto come un fatto personale e di mortificazione.
Invece, da parte di chi guarda un po' ai fatti e alla politica, questa acredine e questo attacco alla sua persona, così volgare e così mediocre, è indirettamente un riconoscimento alla sua coerenza, al suo coraggio e al suo valore nel lavoro che sta svolgendo.
Quindi, da parte di Iniziativa Responsabile, da responsabili noi le daremo il nostro sostegno e le assicuriamo il nostro voto di non sfiducia (Applausi dei deputati dei gruppi Iniziativa Responsabile e Popolo della Libertà).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Lovelli. Ne ha facoltà.

MARIO LOVELLI. Signor Presidente, vorrei cogliere l'occasione di questa discussione parlamentare sulle mozioni di sfiducia al Ministro Bondi per rivolgermi al Ministro, che saluto, prima di tutto, come mio concittadino, avendo egli scelto da qualche tempo la città di Novi Ligure come sua residenza, e al quale, come tale, mi rivolgo dopo che, due mesi or sono, ho indirizzato una lettera aperta sui giornali locali senza riceverne alcun riscontro, nonostante che non siano certo mancate in questo periodo sue esternazione quotidiane sia a difesa dell'operato del suo Ministero, sia a difesa del Governo e del Presidente del Consiglio, con qualche pausa nei giorni più recenti.
Capisco che rivolgersi all'opinione pubblica della nostra città sia un po' limitativo rispetto al palcoscenico nazionale e che perciò abbia deciso di affidare il compito ad altri, comprese inspiegabili minacce di azioni legali nei miei confronti, di cui non saprei individuare né il fondamento, né la ratio giuridica. Ma proprio per questo ho ritenuto di intervenire in questo dibattito nell'Aula della Camera: non per ribadire le ragioni che stanno alla base della mozione di sfiducia nei suoi confronti presentata dal mio gruppo parlamentare, a cui si sono aggiunte analoghe mozioni di tutte le opposizioni - queste ragioni altri colleghi hanno efficacemente e compiutamente argomentato -, ma per motivare, anche in questa sede, i contenuti della mia lettera di allora, sapendo dell'attenzione e degli interrogativi che suscita fra i nostri concittadini l'ipotesi di eventuali sue dimissioni.
Dal momento, infatti, della irruzione del Ministro Bondi nella politica locale, signor Presidente, sono successe molte cose, a cominciare dalla campagna elettorale per le elezioni comunali di Novi Pag. 91Ligure nel 2009 che, grazie in particolare al suo impegno, si sono trasformate certamente in un evento spettacolare, con la presenza di Ministri e di uomini dello spettacolo e dell'informazione che fa capo al Presidente del Consiglio, con l'obiettivo di cambiare in quel comune il colore politico dell'amministrazione. Quell'obiettivo fu clamorosamente fallito, tant'è vero che il candidato dal centrosinistra allora vinse con il 57 per cento dei voti al ballottaggio. Ma quella campagna elettorale fu anche prodiga di promesse e finanziamenti alle chiese e al teatro cittadino, che io, infatti, ritenni di sollecitare con una interrogazione parlamentare qualche mese dopo e a cui la fondazione Teatro Marenco fece seguire le richieste di finanziamento sulla base delle modalità definite dalla Arcus Spa che del Ministro è il braccio operativo per gli interventi sul patrimonio culturale nazionale.
Non ho più letto, da allora, dichiarazioni del Ministro sul tema, né ho notizie dell'avvenuto finanziamento se non per quanto ascoltato, con attenzione, nel corso di una trasmissione televisiva in cui il finanziamento stesso veniva confermato, come precisò il Ministro di fronte alla domanda del giornalista, in quanto richiestogli da un sindaco di sinistra.
Forse fece questa affermazione per giustificarsi di fronte ad altri attacchi che furono rivolti in quel periodo al suo Ministero per una certa politica clientelare nelle assunzioni e nei finanziamenti. Ma così, a mio parere, non avrebbe dovuto rispondere, semmai avrebbe dovuto confermare che quello che la città di Novi Ligure ha chiesto al Ministero è previsto da leggi e norme precise, che il Teatro Marenco non è un teatrino di paese meritevole di qualche sarcasmo, ma un teatro inaugurato nel 1839 e bene culturale nazionale tutelato al pari dei teatri e dei palchi tipici di quell'epoca, coevo del teatro Carlo Felice di Genova e opera dello stesso autore. Pertanto la fondazione del teatro ha presentato un dossier ad Arcus in cui erano ben chiari i requisiti e i presupposti per ottenere un finanziamento.
Il Ministro ha supportato l'operato della fondazione sottoscrivendo un protocollo di intesa con la stessa, sulla base del quale un rappresentante del Ministero entrerà nel consiglio di amministrazione e questo fatto è certamente meritorio, perché costituisce una garanzia che la collaborazione avviata e l'impegno assunto abbiano un seguito, al di là del ruolo promozionale e al di là del ruolo pro tempore di un Ministro.
Ho seguito perciò il dibattito sulle vicende che riguardano l'operato del Ministro, signor Presidente, a partire dal primo crollo pompeiano, ma ancor prima, in occasione del decreto sulle fondazioni liriche e dopo, in occasione della legge di stabilità, con atteggiamento non pregiudiziale e consapevole, oltretutto, che il principale responsabile della politica della lesina risiede al Ministero dell'economia e delle finanze, più che a via del Collegio Romano.
Devo dire però che le esternazioni di cui il Ministro Bondi si è reso protagonista in più occasioni per lamentare la persecuzione di cui sarebbe stato oggetto a livello parlamentare mi hanno lasciato perplesso. In primo luogo quando, scrivendo ai vecchi compagni del Partito Comunista, tra i quali ritengo di essere annoverato anch'io, e rivendicando il suo berlinguerismo delle origini, ne ha giustificato l'abbandono sulla strada di Arcore dopo aver preso atto dell'impossibilità di una evoluzione socialdemocratica del Partito Comunista.
Vorrei ricordarle, signor Ministro, che il principale esponente di quell'area del Partito Comunista, a cui lei rivendica di aver appartenuto, è oggi Presidente della Repubblica, a testimonianza, non solo di una evoluzione ben chiara avviata a sinistra, ma soprattutto che il quadro democratico attuale non abbia a subire deviazioni e sviamenti.
Inoltre, ho trovato fuori luogo e non ricevibile l'istanza inviata proprio al Quirinale per lamentare la non presentabilità di una mozione individuale di sfiducia; e pensare che proprio il Presidente Napolitano, allora Ministro del Governo Prodi, Pag. 92ne fu destinatario, pur senza successo, da parte dei presentatori, insieme ad altri tre Ministri di quel Governo! Dovrebbe essere ben chiaro che uno dei compiti delle Camere è invece quello del controllo sull'attività del Governo e dei singoli ministri come prevede la Costituzione ed è ben noto che altri ministri, viceministri e sottosegretari del Governo Berlusconi si sono già fatti da parte da tempo e che la politica, a volte, richiede assunzioni di responsabilità anche quando queste non sono direttamente riconducibili alla persona ma al ruolo.
Se lei non ritiene di lasciare prima, significa che pensa di non avere responsabilità politiche in merito alla conduzione del suo Ministero, nonostante che le argomentazioni portate alla sua attenzione siano evidenti.
E perciò deve essere ben conscio che, a questo punto, deciderà l'Aula e che dovrà accettarne con serenità il giudizio che, oltretutto, dopo la fiducia al Governo del 14 dicembre, sembra partire da una base numerica a lei favorevole.

PRESIDENTE. La prego di concludere.

MARIO LOVELLI. Penso, signor Ministro, che proprio quello che lei affermò il 10 novembre in quest'Aula, e cioè che la sottovalutazione del ruolo della cultura è responsabilità delle classi dirigenti del nostro Paese, dovrebbe rappresentare uno sprone in un'occasione di dibattito come questa per fare in modo che da questa discussione se ne esca, invece, per dare un contributo serio al rilancio della cultura italiana che, nonostante le avvilenti vicende di questa settimana, può diventare e rappresenta a livello mondiale un punto di riferimento e di orgoglio per noi.

PRESIDENTE. Deve concludere.

MARIO LOVELLI. Mi auguro che lei non costringa l'Aula della Camera ad una conta che oggi sarebbe soltanto condizionata dalla volontà del Presidente del Consiglio di dimostrare che i numeri sono dalla parte del Governo almeno per ora e fino ad un chiarimento politico definitivo che non potrà essere a lungo rinviato, a prescindere dalla fiducia che dovesse arrivare al Ministro per i beni e le attività culturali.

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali delle mozioni.
L'intervento del Ministro, nonché il seguito del dibattito, sono rinviati ad altra seduta.

Ordine del giorno della seduta di domani.

PRESIDENTE. Comunico l'ordine del giorno della seduta di domani.

Martedì 25 gennaio 2011, alle 11,30:

1. - Svolgimento di interpellanze e di interrogazioni.

(ore 16)

2. - Seguito della discussione del disegno di legge:
Conversione in legge del decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 228, recante proroga degli interventi di cooperazione allo sviluppo e a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione, nonché delle missioni internazionali delle forze armate e di polizia (C. 3996-A).
- Relatori: Dozzo, per la III Commissione; Cirielli, per la IV Commissione.

3. - Seguito della discussione delle mozioni Amici ed altri n. 1-00512, Mura ed altri n. 1-00532, Binetti ed altri n. 1-00534 e Saltamartini, Lussana, Polidori ed altri n. 1-00538 concernenti iniziative volte al contrasto di ogni forma di violenza nei confronti delle donne.

4. - Seguito della discussione delle mozioni Bocchino, Galletti, Vernetti, Lo Monte, Melchiorre ed altri n. 1-00531, Di Pag. 93Stanislao ed altri n. 1-00535, Tempestini ed altri n. 1-00536 e Antonione, Stefani, Sardelli ed altri n. 1-00537 concernenti iniziative per il rispetto dei diritti civili e politici in Bielorussia.

5. - Seguito della discussione delle mozioni Ghizzoni, Zazzera ed altri n. 1-00491 e Buttiglione, Granata, Tabacci, Melchiorre ed altri n. 1-00533, presentate a norma dell'articolo 115, comma 3, del Regolamento, nei confronti del Ministro per i beni e le attività culturali, senatore Sandro Bondi.

La seduta termina alle 20,15.

TESTO INTEGRALE DELL'INTERVENTO DEL SOTTOSEGRETARIO DI STATO PER GLI AFFARI ESTERI ENZO SCOTTI IN SEDE DI REPLICA SUL DISEGNO DI LEGGE DI CONVERSIONE N. 3996-A

ENZO SCOTTI, Sottosegretario di Stato per gli affari esteri. Onorevoli colleghi, vorrei innanzitutto esprimere soddisfazione per il proficuo lavoro svolto dal relatore Dozzo nelle Commissioni esteri e difesa, che ha consentito di approvare - con ampia condivisione - una serie di necessarie disposizioni funzionali a dare piena attuazione agli interventi di cooperazione e stabilizzazione, previsti dal decreto in esame, in varie aree prioritarie per l'Italia (come ha sottolineato l'onorevole Barbi).
Come richiesto fornirò una sintetica panoramica politica sui principali teatri in cui l'Italia partecipa a operazioni internazionali di mantenimento della pace e di ricostruzione e la strategia seguita in accordo con gli altri paesi partecipanti alle operazioni con gli organismi bilaterali. Al riguardo, confermo la linea politica convintamente multilateralista: l'Italia è in prima linea nell'assicurare il proprio contributo, in termini di risorse e di uomini, alle attività con cui la comunità internazionale mira a stabilizzare le aree critiche del mondo. Si tratta di una linea ampiamente condivisa nel nostro Parlamento, che incontra un forte consenso anche nell'opinione pubblica nazionale.
Il nostro apporto riceve di continuo numerosi apprezzamenti che hanno permesso all'Italia di guadagnare ulteriore credibilità a livello internazionale. La nostra partecipazione a missioni di pace e di stabilizzazione ha una fondamentale valenza politica, confermandosi uno dei principali strumenti di politica estera, che tuttora garantisce la nostra attiva presenza nei principali fori internazionali di decisione strategica.
L'approccio dell'Italia si distingue per lo sforzo di assicurare sinergia e complementarietà tra la dimensione militare e quella civile. Due componenti che devono avanzare di pari passo, integrandosi ed amalgamandosi, per contribuire al raggiungimento dell'obiettivo di una duratura stabilizzazione.
Non solo operazioni di sicurezza, quindi, ma anche interventi in ambito umanitario, di rafforzamento dello stato di diritto, di sostegno alle amministrazioni locali, di consolidamento delle strutture di governo, e di miglioramento economico e sociale. Una strategia complessiva che comprende interventi di alto valore politico quali il contributo alla grande battaglia di civiltà contro l'odioso fenomeno delle mutilazioni genitali femminili (al riguardo è stato approvato un emendamento con il concorso dell'opposizione).
Una visione integrata che corrisponde ad una scelta di fondo della politica estera e di sicurezza dell'Italia, che mira a tutelare i valori e gli interessi nazionali con un'attiva assunzione di responsabilità in ambito multilaterale al di fuori dei nostri confini. È la nuova sfida che siamo chiamati a fronteggiare in un mondo sempre più interconnesso e caratterizzato da questioni di rilevanza globale.
Un obiettivo che il nostro personale civile e i nostri soldati contribuiscono a perseguire in maniera determinante, grazie all'abnegazione con cui svolgono il loro dovere quotidianamente, con significative testimonianze di grande professionalità ed umanità e talvolta - come purtroppo è Pag. 94accaduto anche di recente - con un dolorosissimo tributo di sangue per il quale ribadiamo il nostro profondo cordoglio.
L'Afghanistan rimane il fronte principale per la comunità internazionale, impegnata dal 2002 nella stabilizzazione e ricostruzione del Paese e delle sue istituzioni.
Sull'importanza della nostra presenza e sulla nostra strategia di fondo, il Ministro degli affari esteri Frattini ha più volte riferito, così come ha fatto in quest'Aula il Ministro della difesa La Russa - per la parte militare - anche la scorsa settimana.
L'accresciuta pressione sui talebani sta lentamente portando i suoi frutti e le «bolle di sicurezza», create dalle forze alleate in partenariato con quelle afgane, si stanno espandendo. I progressi sono, tuttavia, ancora fragili, per cui è necessario uno sforzo supplementare.
Il Vertice di Lisbona della NATO ha indicato la strada da percorrere, fissando i principi base della transizione intesa come processo graduale, ma irreversibile, di assunzione di responsabilità da parte afghana per sicurezza, governance e sviluppo, che interesserà progressivamente le varie aree del Paese.
Abbiamo condiviso la prospettiva di un avvio della transizione nella prima parte di quest'anno, con Herat - provincia affidata al nostro team di cooperazione e ricostruzione - che potrebbe verosimilmente figurare nel gruppo di testa. L'obiettivo è che entro il 2014 le istituzioni afgane siano in grado di gestire autonomamente la sicurezza del Paese, pur con la necessaria assistenza internazionale in funzione di sostegno e non di sostituzione.
L'Italia si sta impegnando affinché le condizioni per favorire questo processo si realizzino con l'incremento degli addestratori militari (oggi 600); nuove iniziative di sostegno istituzionale e sviluppo; l'allineamento alle priorità afgane; il supporto al settore privato; l'attenzione a tematiche trasversali quali la giustizia e i diritti umani.
La necessità di un processo politico che integri e completi il percorso di transizione e le operazioni militari è unanimemente riconosciuta. Un processo politico che deve essere a guida afgana e assicurare trasparenza e sostenibilità, per consentire il recupero alla vita civile di quegli insorgenti disposti a rinunciare alla violenza ed al terrorismo e ad accettare i principi di legalità sanciti dalla Costituzione afgana.
L'Italia ha ben presente la centralità della dimensione politica e sta conducendo un'intensa attività diplomatica, in tutte le occasioni di incontro internazionale dedicate all'Afghanistan, per favorire un approccio regionale alla questione afgana e per incrementare il profilo civile dell'assistenza internazionale al Paese. La riunione dei Rappresentanti Speciali per Afghanistan e Pakistan svoltasi a Roma il 18 ottobre scorso, che ha visto la partecipazione dei principali attori della regione, si inserisce in questa prospettiva.
Il successo della transizione non dipende solamente da soddisfacenti condizioni di sicurezza: il benessere economico e sociale della popolazione afgana resta elemento indispensabile per contrastare il terrorismo, la radicalizzazione religiosa, le tensioni interetniche. È in linea con queste premesse che intendiamo intensificare l'azione civile, sempre più strategica per la stabilizzazione del Paese.
È possibile registrare alcuni risultati apprezzabili, che devono incoraggiare a guardare avanti. La prospettiva di transizione, Io spostamento dell'enfasi sullo sforzo civile, l'attenzione crescente per la governance locale, il miglioramento del coordinamento tra donatori, hanno creato le giuste premesse per uno sviluppo positivo del processo afghano.
L'Italia ha stanziato in media 50 milioni di euro all'anno per programmi di sviluppo socio-economico ed umanitari, erogando 438 milioni su 517 impegnati. I settori privilegiati, anche nel 2011, saranno la governance, a livello nazionale e locale, lo sviluppo rurale, il sostegno alle fasce vulnerabili, le infrastrutture stradali.
L'attività del team italiano di ricostruzione ad Herat sono il fiore all'occhiello Pag. 95della nostra Cooperazione, che assumerà il ruolo di catalizzatore dell'azione civile internazionale in loco.
Hanno ricevuto numerosi apprezzamenti i risultati conseguiti dalla nostra attività nella formazione della dirigenza afghana - anche grazie al contributo della nostra Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione e di nostri atenei - nella formazione degli operatori giuridici, nella tutela del patrimonio culturale e lo sviluppo dei media.
A giocare un ruolo chiave nella stabilizzazione dell'Afghanistan e - in un'ottica più ampia - nella pacificazione dell'intera regione, è il Pakistan. Il Governo democratico pakistano sta conducendo un'efficace e difficile lotta contro i talebani nelle aree di frontiera, con riflessi positivi in entrambi i Paesi.
Le conseguenze di questo sforzo sono gravose per l'esecutivo, le forze di sicurezza e la popolazione civile, come testimoniano i frequenti sanguinosi attentati terroristici che colpiscono le principali città del Paese.
Il Pakistan si trova, inoltre, ad affrontare una crisi senza precedenti all'indomani delle violente inondazioni che hanno colpito soprattutto le aree in cui le tensioni sociali sono più forti (Punjab e Sindh) e quelle già duramente provate dagli effetti devastanti del confronto armato con le formazioni talebane.
Il Governo pakistano è chiamato ad attuare un'imponente opera di ricostruzione materiale e sociale nelle regioni colpite dagli scontri e dal dramma degli sfollati e a promuovere lo sviluppo economico delle zone rurali e depresse. Si tratta di un'azione impellente per coinvolgere la base sociale nelle riforme e rompere il circolo vizioso della povertà che alimenta l'estremismo.
Aiutare il Pakistan in modo incisivo risponde ad evidenti motivazioni di ordine umanitario, politico e strategico in un'area affetta da instabilità diffusa, anche alla luce delle perduranti tensioni con l'India per il Kashmir.
Per questi motivi, il nostro Paese ha stanziato un pacchetto di aiuti per un valore di 80 milioni di euro in risposta alla crisi, e ha ribadito il proprio sostegno al processo democratico attraverso le riforme per modernizzare il Paese. In questa cornice di fondo si inquadra la partecipazione del Ministro Frattini alla recente riunione ministeriale del Gruppo «Amici del Pakistan», nonché la sua visita a Islamabad l'11 novembre scorso.
Passando ad un altro teatro di crisi prioritario, si è concluso - come sapete - lo scorso 15 gennaio lo storico referendum per l'autodeterminazione del Sud Sudan, tappa cruciale del processo di pace sudanese sancito dall'accordo del 2005. Sebbene il risultato ufficiale sia atteso per il 14 febbraio, la decisione dei sud sudanesi per l'indipendenza sembra scontata.
Il voto è stato celebrato in maniera sostanzialmente ordinata, registrando un'elevata partecipazione che lascia presagire (nonostante si debbano attendere i risultati preliminari) che il quorum per la validità del voto (60 per cento) sia stato ampiamente superato.
Ad influire positivamente sul contesto complessivo ha contribuito il tenore conciliante delle dichiarazioni dei leader del nord e del sud: il primo (Bashir) ha promesso di riconoscere l'esito referendario, di lavorare per lo sviluppo del Sud Sudan e di contribuire a definire, entro la fine del periodo transitorio a luglio prossimo, le questioni ancora aperte sugli assetti post-referendari (confini, divisione delle risorse naturali, cittadinanza, moneta, debito estero); il secondo (Salva Kiir) ha dichiarato di voler proteggere i diritti della minoranza del Nord residente a Sud anche in caso di secessione.
In Sudan l'Italia è in prima linea con il suo ruolo di testimone dell'accordo di pace del 2005 e di membro cofinanziatore della Commissione di valutazione che ne monitora l'attuazione. Inoltre, sosteniamo - anche finanziariamente - la mediazione congiunta Nazioni Unite - Unione Africana per la soluzione della crisi darfuriana. Su questo fronte non si registrano progressi significativi: la situazione di sicurezza ed umanitaria sul terreno rimane Pag. 96incerta, mentre il processo negoziale di Doha non si è ancora tradotto in un'intesa di pace.
In Somalia, a sette mesi dalla scadenza del periodo transitorio, previsto per il 20 agosto prossimo, la situazione politica e di sicurezza suscita preoccupazione a causa della perdurante fragilità delle Istituzioni Federali Transitorie; della continuazione degli scontri tra Governo ed insorti (in parte infiltrati da Al Qaeda); della diffusa presenza sul territorio di traffici illeciti di ogni tipo (armi, droga, esseri umani); del perdurante fenomeno della pirateria, e dell'alto numero di sfollati (quasi 1,6 milioni) e rifugiati (circa 600 mila) che hanno trovato riparo soprattutto in Kenya (353 mila) e Yemen (180 mila).
Il varo del nuovo Governo Federale Transitorio, presentato dal Primo Ministro il 27 novembre scorso, ha chiuso la lunga crisi fra il Presidente somalo e lo Speaker del Parlamento. Il contenuto numero dei componenti, l'inclusione di esponenti della diaspora e le qualità tecniche dei suoi membri corrispondono agli auspici della comunità internazionale.
Tra gli obiettivi che il nuovo Governo è chiamato a raggiungere entro il 20 agosto figurano l'approvazione della nuova Costituzione federale, l'apertura al multipartitismo, il censimento elettorale e l'organizzazione di libere elezioni generali. È inoltre essenziale che il nuovo esecutivo persegua una strategia «inclusiva»di riconciliazione nazionale, dimostrando un'effettiva capacità di governo e di ripristino dei servizi essenziali alla popolazione.
L'Italia continua a svolgere un'intensa azione a sostegno del processo di pace di Gibuti e delle Istituzioni Federali Transitorie di Mogadiscio, svolgendo un ruolo di «advocacy» (sostegno) alla Somalia in tutti i fori multilaterali e sostenendo finanziariamente la missione di pace dell'Unione Africana.
A conferma del nostro ruolo di primissimo piano, l'Italia è stata il primo Paese europeo ad essere visitato - lo scorso 20 gennaio - dal Premier somalo dopo il suo insediamento. Nel ricevere il Primo Ministro Mohamed, il nostro Presidente del Consiglio ha rinnovato il sostegno politico e finanziario italiano al Governo somalo ed al processo di stabilizzazione in atto.
Il nostro Paese prosegue, inoltre, il proprio impegno a favore dello Yemen, che sta attraversando una crisi interna dovuta a numerosi fattori destabilizzanti. Si tratta di scongiurare il possibile fallimento dello Stato e di evitarne un ulteriore degrado.
Proseguendo l'iniziativa italiana prima in seno al G8 e, successivamente, nel Gruppo «Amici dello Yemen», intendiamo rinnovare il sostegno alle autorità yemenite, ribadendo le aspettative al loro impegno a fronteggiare energicamente i perduranti problemi interni.
La nostra cooperazione mira, in particolare, a proseguire i progetti di gestione dei flussi migratori e di formazione in campo giuridico, di rafforzamento della governance e di tutela del patrimonio culturale yemenita.
In Libano l'Italia sostiene - sin dalla sua istituzione - il Tribunale Speciale delle Nazioni Unite incaricato di giudicare i responsabili dell'attentato del 2005, che ha causato la morte del Primo Ministro Hariri. Il nostro Paese partecipa attivamente al Comitato di Gestione, l'organo tecnico incaricato di fornire le direttive politiche su tutti gli aspetti non giuridici del tribunale.
Il sostegno al Tribunale Speciale rappresenta il nostro contributo alla stabilizzazione di un Paese che costituisce per noi un interlocutore strategico nello scacchiere mediorientale, soprattutto nell'attuale fase di instabilità politica.
L'Italia continua a sostenere il processo di stabilizzazione e riconciliazione dell'Iraq. Intendiamo proseguire il nostro impegno ora che il Paese è riuscito a dotarsi di un nuovo Governo democraticamente eletto per procedere verso il raggiungimento della definitiva stabilità.
La nostra presenza militare in Iraq si è gradualmente ridotta in termini di consistenza numerica, e oggi si occupa esclusivamente della formazione, sotto egida NATO, delle Forze di Polizia irachene. Pag. 97
Al contempo è nostra intenzione continuare i progetti in campo civile che comprendono sostegno al dialogo nazionale e rafforzamento del Parlamento, formazione dei funzionari pubblici, iniziative di capacity building e di assistenza nel settore giudiziario.
Abbiamo anche programmato la missione temporanea di un nostro rappresentante diplomatico nella regione autonoma del Kurdistan alla luce delle numerose iniziative e missioni commerciali italiane nell'area.
Il mantenimento di un'intensa cooperazione con l'Iraq trova ragione anche nell'opportunità di garantire un'ampia partecipazione delle imprese italiane ai programmi di ricostruzione nazionale adottati da Baghdad. In questa cornice si inquadra la prossima riunione della Commissione Mista - istituita dal Trattato di Amicizia bilaterale del 2007 - prevista nella capitale irachena in primavera.
Tra le principali novità del decreto in esame, vorrei sottolineare che, per la prima volta, è stato inserito tra i destinatari di aiuti il Myanmar, Paese che l'Italia segue con particolare attenzione, anche grazie al ruolo di primo piano svolto dal rappresentante speciale dell'Unione europea, onorevole Fassino.
Siamo da sempre attivi nei consessi internazionali per promuovere il ritorno della democrazia in Myanmar e abbiamo salutato con soddisfazione la liberazione di Aung San Suu Kyi lo scorso 13 novembre, ribadendo peraltro la preoccupazione per gli altri numerosi dissidenti politici ancora in prigione.
Le elezioni del 7 novembre scorso hanno confermato i timori della comunità internazionale, rivelandosi non libere né eque. Conserviamo il vivo auspicio che esse siano, comunque, il primo segnale di una progressiva transizione democratica.
Pur rilevando i deludenti risultati del processo elettorale, è possibile enucleare alcuni aspetti positivi, quali il passaggio da un governo militare ad uno civile e la rappresentanza - sia pure minima - dell'opposizione democratica nel nuovo Parlamento di prossimo insediamento (31 gennaio).
Nella consapevolezza che la strategia delle sanzioni non ha prodotto i risultati sperati, l'Italia sostiene pienamente gli sforzi dell'Unione europea e degli Stati Uniti, volti ad esplorare la possibilità di avviare nuove forme di dialogo critico.
Siamo, inoltre, impegnati ad operare in sinergia con i Paesi della regione, ed in particolare con i membri dell'ASEAN, per favorire auspicabilmente un processo positivo nel Paese.
L'Italia sostiene con determinazione la prospettiva europea ed atlantica di tutti i Balcani. La loro integrazione nell'Unione europea e nella NATO rappresenta, infatti, la soluzione di lungo periodo ai problemi della Regione, in un'ottica di completamento dei processi di stabilizzazione e di democratizzazione avviati dalla metà degli anni Novanta.
La nostra azione si delinea in modo organico e strutturato, mediante lo sviluppo di intensi rapporti bilaterali con ciascun Paese dell'area, una costante opera di sensibilizzazione - nei riguardi dei partners alleati - sulle prospettive dell'integrazione, ed il rafforzamento della cooperazione regionale. In questo ambito l'Italia attribuisce grande importanza al rilancio dell'Iniziativa Adriatico-Ionica e dell'Iniziativa Centro Europea.
Il nostro ruolo preminente poggia sul prezioso contributo italiano alle missioni internazionali di pace e ricostruzione in corso nei Paesi della regione che ancora attraversano fasi di transizione, in particolare il Kosovo e la Bosnia Erzegovina.
In Kosovo siamo tra i primi contributori della missione KFOR della NATO e di quella EULEX dell'Unione Europea; abbiamo la leadership dei settori giustizia e delle unità speciali di polizia; un diplomatico italiano, l'Ambasciatore Zannier, è il Rappresentante speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite per il Kosovo e Capo della missione di pace UNMIK.
L'Italia segue con grande attenzione l'evoluzione del processo elettorale. Alle elezioni politiche di dicembre ha, infatti, Pag. 98fatto seguito la ripetizione dello scrutinio in alcune municipalità a fronte di appurate irregolarità. Alla luce dei dati provvisori disponibili, emergerebbe un quadro politico di sostanziale equilibrio, con il partito del Premier uscente Thaci, che potrebbe guidare le consultazioni per la formazione di una coalizione di governo.
Registriamo, inoltre, favorevolmente gli sviluppi postivi nel dialogo tra Pristina e Belgrado, grazie alla disponibilità dei due Governi al confronto - facilitato dall'Unione europea - su problemi concreti a beneficio delle rispettive collettività.
In Bosnia Erzegovina, a circa tre mesi dalle elezioni politiche dello scorso ottobre, monitoriamo da vicino il complesso negoziato interetnico ed interpartitico in corso per la formazione dei nuovi esecutivi, sia a livello centrale che di entità locali. È in corso un'approfondita riflessione in ambito europeo sul rafforzamento della presenza dell'Unione europea nel Paese, alla luce del Trattato di Lisbona. In particolare, attendiamo, auspicabilmente a breve, la nomina da parte dell'Altro Rappresentante Ashton del nuovo Capo Delegazione UE con poteri rafforzati. Il Sottosegretario Mantica si trova attualmente in Bosnia, dove sta avendo incontri con la Presidenza tripartita e i rappresentanti delle principali forze politiche locali.
Nel processo di ridimensionamento della missione europea EUFOR - ALTHEA, abbiamo completato il ritiro del nostro contingente, salvo alcuni ufficiali impegnati nella riconfigurazione degli obiettivi da finalità di sicurezza a compiti di formazione e capacity building. Contribuiamo anche alla missione EUPM Bosnia, che si occupa della formazione della polizia bosniaca.
L'azione italiana negli ambiti multilaterali: il cenno alla missione ALTHEA mi consente di allargare lo sguardo all'impegno complessivo che l'Italia svolge nel quadro delle missioni multilaterali organizzate nel quadro della Politica europea di Sicurezza e Difesa Comune, in ambito OSCE e sotto l'egida della NATO.
Missioni PESC-PSDC: lo sviluppo delle iniziative dell'Unione Europea nel campo della gestione civile delle crisi internazionali ha determinato l'esigenza per il nostro Paese di distaccare esperti italiani nelle missioni previste nel quadro della Politica di Sicurezza e Difesa Comune.
Missioni OSCE: con 17 missioni nei Balcani, nel Caucaso ed in Asia centrale, l'OSCE opera per rafforzare la sicurezza in Europa. L'Organizzazione si avvale di un approccio globale che prevede la cooperazione degli Stati partecipanti in tre distinte dimensioni: quella umana, quella economico-ambientale e quella più strettamente politico-militare.
L'OSCE offre un contributo di primaria importanza, prevenendo le possibili fonti di conflitto, mediando tra le parti e ponendo in essere progetti di ricostruzione post-conflitto. Le attività includono il monitoraggio del rispetto dei diritti dell'uomo, la prevenzione e la gestione dei conflitti, il controllo degli armamenti, l'assistenza agli Stati per l'attuazione di riforme in materia elettorale, giurisdizionale ed amministrativa, nonché nella lotta al terrorismo, ai traffici illeciti ed alla corruzione.
Fondi fiduciari NATO: in ambito NATO abbiamo confermato, anche per il primo semestre di quest'anno, un consistente apporto ai Fondi Fiduciari istituiti a sostegno di iniziative ritenute di prioritaria importanza dall'Alleanza. In un'ottica di diversificazione e di valorizzazione della nostra partecipazione a tali Fondi, intendiamo intervenire a favore di cinque iniziative.
Abbiamo in primo luogo deciso di confermare i nostri contributi a tre progetti di rilievo relativi all'addestramento rispettivamente dell'Esercito afghano, della Polizia Federale irachena e delle Forze di Sicurezza kosovare. La grande attualità del problema della gestione della sicurezza in Afghanistan, Iraq e Kosovo ci ha spinto a proseguire la nostra azione in un settore che consideriamo prioritario anche a livello nazionale e rispetto al quale abbiamo Pag. 99saputo conquistare rispetto e credibilità nell'ambito della filiera civile e militare della NATO.
Abbiamo, inoltre, ritenuto di assicurare contributi anche a due Fondi Fiduciari, uno per la Serbia (per il reinserimento nella vita civile di personale militare in esubero) ed uno per l'Albania (per la distruzione di munizioni obsolete), a conferma della nostra convinzione circa l'importanza della regione balcanica per gli equilibri e le prospettive della NATO e della sua graduale e piena integrazione nell'area euro atlantica.
Onorevoli colleghi, offrire una panoramica complessiva sui principali teatri di crisi in cui l'Italia è impegnata a portare sicurezza e sviluppo, ci sembrava il modo migliore per contribuire al dibattito che si sta per aprire in vista della conversione del decreto in esame.