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Resoconto dell'Assemblea

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XVI LEGISLATURA


Resoconto stenografico dell'Assemblea

Seduta n. 399 di lunedì 22 novembre 2010

Pag. 1

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE ANTONIO LEONE

La seduta comincia alle 10,45.

DONATO LAMORTE, Segretario, legge il processo verbale della seduta del 19 novembre 2010.
(È approvato).

Missioni.

PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del Regolamento, i deputati Albonetti, Alessandri, Angelino Alfano, Berlusconi, Bocchino, Bonaiuti, Bossi, Brambilla, Brunetta, Carfagna, Casero, Cicchitto, Colucci, Cossiga, Crimi, Crosetto, D'Alema, Dal Lago, Fitto, Franceschini, Frattini, Galati, Alberto Giorgetti, Giro, Lupi, Mantovano, Maroni, Martini, Meloni, Miccichè, Narducci, Leoluca Orlando, Pelino, Prestigiacomo, Ravetto, Reguzzoni, Roccella, Romani, Rotondi, Saglia, Stefani, Stucchi, Tremonti e Vegas sono in missione a decorrere dalla seduta odierna.
Pertanto i deputati in missione sono complessivamente quarantasei, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.

Ulteriori comunicazioni all'Assemblea saranno pubblicate nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.

Discussione del disegno di legge: S. 1905 - Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l'efficienza del sistema universitario (Approvato dal Senato) (A.C. 3687-A); e delle abbinate proposte di legge: Tassone ed altri; Ghizzoni ed altri; Barbieri; Grimoldi ed altri; Barbieri; Mario Pepe (PdL); Narducci ed altri; Grassi ed altri; Picierno; Fucci ed altri; Garagnani ed altri; Garavini ed altri; Fioroni ed altri; Goisis; Carlucci; La Loggia ed altri; Lorenzin ed altri; Anna Teresa Formisano (A.C. 591-1143-1154-1276-1397-1578-1828-1841-2218-2220-2250-2330-2458-2460-2726-2748-2841-3408) (ore 10,50).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge, già approvato dal Senato: Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l'efficienza del sistema universitario; e delle abbinate proposte di legge di iniziativa dei deputati Tassone ed altri; Ghizzoni ed altri; Barbieri; Grimoldi ed altri; Barbieri; Mario Pepe (PdL); Narducci ed altri; Grassi ed altri; Picierno; Fucci ed altri; Garagnani ed altri; Garavini ed altri; Fioroni ed altri; Goisis; Carlucci; La Loggia ed altri; Lorenzin ed altri; Anna Teresa Formisano.
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).

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(Discussione sulle linee generali - A.C. 3687-A)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che i presidenti dei gruppi parlamentari Partito Democratico e Italia di Valori ne hanno chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del Regolamento.
Avverto, altresì, che la VII Commissione (Cultura) si intende autorizzata a riferire oralmente.
Il relatore per la maggioranza, onorevole Frassinetti, ha facoltà di svolgere la relazione.

PAOLA FRASSINETTI, Relatore per la maggioranza. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor Ministro, il progetto di riforma contenuto nell'atto Camera n. 3687-A è tra i più importanti di questa legislatura e certamente il più innovativo nell'ambito dell'istruzione superiore e della ricerca.
Questo disegno di legge finalmente interviene strutturalmente a riformare l'università dopo vent'anni di tentativi di riforme il più delle volte effettuate in maniera discontinua e frammentaria. D'altra canto, non ci sfugge l'importanza dei risultati dell'ultima indagine OCSE sull'istruzione, che confermano la necessità di proseguire sulla strada delle riforme.
Il testo è stato approvato dal Senato dopo un lungo e proficuo dibattito ed un ampio confronto, al quale hanno partecipato tutte le forze politiche che hanno contribuito ad introdurre modifiche, anche significative, al testo originario.
Questa riforma ha il merito di affrontare temi strategici per lo sviluppo del sistema universitario, quali il governo e la struttura degli atenei, la valorizzazione del merito di studenti e docenti, la valutazione e la responsabilizzazione degli atenei, i meccanismi di finanziamento del sistema universitario, lo stato giuridico di docenti e ricercatori, il reclutamento, i contratti di insegnamento e ricerca.
I princìpi ispiratori della riforma discendono dalle linee guida per l'università e sono, principalmente, merito e responsabilità. La responsabilità unita all'autonomia diventa garanzia che il sistema non degeneri nella cattiva amministrazione. L'autonomia senza la responsabilità ha determinato spese senza controllo, burocrazia, scarse risorse per la ricerca.
Sulla base delle nuove disposizioni previste dalla riforma, il finanziamento pubblico sarà erogato sulla base della qualità della didattica e della ricerca, valutata in modo oggettivo, secondo criteri internazionali, in modo da rendere ciascun ateneo responsabile delle scelte liberamente adottate.
Il disegno di legge intende dare applicazione concreta al principio di responsabilità affermato, in particolare, tramite l'istituzione dell'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR), e attraverso l'approvazione del decreto-legge n. 180 del 2008, convertito nella legge n. 1 del 2009.
Il presente provvedimento giunge in Aula dopo un intenso e prolungato dibattito in Commissione cultura, che ha portato ad effettuare modifiche su suggerimento di tutte le forze politiche. Voglio in questa sede evidenziare che i lavori in Commissione sono stati contraddistinti da un'alta qualità del dibattito e da un'ampia discussione che ha visto la partecipazione di molti esponenti della VII Commissione, ma anche di tanti altri autorevoli deputati non facenti parte di questa Commissione.
Ritengo sia stata fondamentale la fase istruttoria delle audizioni, dove sono state ascoltate tutte le parti interessate alla riforma, sia quelle istituzionali, come la CRUI, il CUN e il CNSU, sia le associazioni di ricercatori e le associazioni sindacali. Da queste audizioni si evince che nel complesso i giudizi positivi sulla riforma hanno prevalso di gran lunga su quelli negativi.
Su tutti, mi pare doveroso sottolineare l'importanza delle dichiarazioni dei rettori, che ci hanno chiesto rassicurazioni su una rapida approvazione del testo; anche il CUN, nella sua relazione, ha ammesso Pag. 3che nel provvedimento sono inclusi punti importanti, quale la semplificazione della governance e la possibilità degli atenei di fondersi, nonché la possibilità e necessità di conseguire l'abilitazione scientifica nazionale. Anche dagli studenti del CNSU sono giunti apprezzamenti sul fatto che la loro presenza negli organi di ateneo sia aumentata e che ci sia stata la costituzione del fondo del merito, strumento che, se adeguatamente finanziato, potrà essere risolutivo per la carriera universitaria dei giovani.
Inoltre, non è di poco conto rilevare come il mondo dell'impresa, per conto del rappresentante di Confindustria, abbia espresso un giudizio positivo, apprezzando soprattutto il sistema di reclutamento di professori e di ricercatori, considerandolo in linea con la migliore prassi internazionale nonché con il sistema della nuova governance. Le audizioni hanno contemplato anche la presenza dei ricercatori che, rappresentati dalle loro diverse associazioni, hanno manifestato forte preoccupazione per la loro situazione indubbiamente difficile. Bisogna però per chiarezza evidenziare che si sono palesate divisioni e differenti posizioni tra le varie associazioni dei ricercatori e che la presunta ostilità degli stessi nei confronti della riforma non riguarda tutti in quanto, per esempio, i giovani ricercatori della CGA hanno espresso complessivamente un parere positivo sul provvedimento.
In ogni caso giova ribadire che è ferma l'intenzione di evitare qualsiasi tipo di sanatoria, come avvenuto in passato, che sarebbe in totale contrasto con lo spirito di questo disegno di legge. Voglio ricordare inoltre che sul provvedimento si sono espresse tutte le Commissioni parlamentari competenti, le cui considerazioni sono state tenute in debita considerazione ai fini del miglioramento del testo già nel corso dell'esame in Commissione, come nel caso del Comitato per la legislazione e del parere reso dalla Commissione bilancio, come si dirà più diffusamente in seguito; o saranno considerate nel corso dell'esame in Assemblea, come per esempio nel caso delle condizioni contenute nel parere reso dalla Commissione affari costituzionali che mi riservo di recepire nel corso dell'esame in Aula.
Passando all'illustrazione delle linee portanti del disegno di legge di riforma del sistema universitario innanzitutto vorrei sottolineare come, per rendere concreta l'attuazione dei principi di autonomia e di responsabilità, per quanto riguarda la cosiddetta governance è stato necessario sostituire, a un modello in cui si sovrapponevano le funzioni del senato accademico e del consiglio di amministrazione, un sistema fondato sulla netta distinzione di questi due organi. Il consiglio di amministrazione, che ha competenze prevalentemente in campo gestionale, assume le decisioni inerenti la propria università quali l'approvazione del piano triennale di sviluppo, la decisione sulla apertura e chiusura del piano di studio, le deliberazioni in materia di assunzione del personale docente nonché la possibilità, introdotta al Senato, di adottare provvedimenti disciplinari su professori e ricercatori. Il senato accademico, il cui ruolo è stato rivalutato, svolge invece principalmente una funzione di proposta, di stimolo e di controllo di cui il rettore è obbligato a tener conto nella elaborazione del piano triennale di sviluppo e può proporre con una maggioranza di due terzi - a seguito delle modifiche apportate in Commissione - la sfiducia del rettore che abbia male amministrato l'ateneo. Si è passati quindi, con queste modifiche, da un sistema dove la rappresentanza delle corporazioni accademiche condizionava alcuni degli aspetti significativi della vita dell'ateneo all'attuale modello fondato sulla netta distinzione tra i due organi.
Viene inoltre fissato un limite al mandato dei rettori, che possono restare in carica per un unico mandato di sei anni non rinnovabile. In ragione di ciò cambia la natura della composizione del consiglio di amministrazione da organo rappresentativo delle varie componenti interne all'ateneo, a organo per il quale si prevede la presenza minima obbligatoria di almeno tre membri esterni che devono possedere requisiti di alta professionalità e Pag. 4competenza gestionale e limitando ad un massimo di undici il numero dei componenti del consiglio amministrazione. Per il senato accademico invece il numero massimo dei componenti è di trentacinque. È importante sottolineare come sia comunque garantita una adeguata rappresentanza del corpo studentesco; non è di poco conto poi l'introduzione del codice deontologico che obbliga a fissare in modo esplicito i doveri dei docenti e dei ricercatori, secondo quanto prevede l'articolo 2, comma 4.
Il disegno di legge prevede poi una semplificazione dell'articolazione interna agli atenei, ai sensi dell'articolo 2, comma 2, che si basa soprattutto sul dipartimento quale organismo atto a garantire un proficuo raccordo tra ricerca e didattica. Resta invariata la possibilità di articolare facoltà o scuole che abbiano lo scopo di coordinare più dipartimenti, anche se la loro struttura risulta più semplificata con la presenza dei direttori di dipartimenti in essi raggruppati e con una rappresentanza elettiva del corpo studentesco.
Il provvedimento consente a due o più università di fondersi o federarsi ai sensi dell'articolo 3, anche limitatamente ad alcuni settori di attività o strutture, al fine di razionalizzare la distribuzione delle sedi e ottimizzare l'utilizzazione delle strutture e delle risorse; è stabilito infatti che i risparmi derivanti dalla fusione o federazione degli atenei possano restare nella disponibilità dell'ateneo stesso se indicati nel progetto.
All'articolo 4 è prevista un'importante innovazione per favorire lo sviluppo di una cultura meritocratica tra i giovani e promuovere la mobilità sociale; si prevede infatti l'istituzione, presso il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca di un Fondo speciale finalizzato a promuovere l'eccellenza e il merito fra gli studenti, prevedendo modalità distinte di selezione degli aventi diritto.
È importante sottolineare che l'articolo 5 è stato radicalmente riformulato durante l'esame in Senato e si è provveduto all'eliminazione della delega sullo stato giuridico. Il disegno di legge definisce quindi gli ambiti della delega in materia di interventi per promuovere la qualità e l'efficienza del sistema universitario, in base all'articolo 5, da raggiungere tramite l'introduzione di meccanismi premiali nella distribuzione delle risorse pubbliche, da effettuarsi sulla base di criteri definiti ex ante, anche mediante la previsione di sistemi di accreditamento.
Inoltre, all'articolo 5, si prevede, tra l'altro, la valorizzazione della figura dei ricercatori, la revisione della disciplina contabile degli atenei, il commissariamento di quelli in stato di dissesto finanziario, la definizione di costi standard e dei livelli minimi di prestazione.
Per quanto riguarda lo stato giuridico di professori e ricercatori di ruolo, definito dall'articolo 6, il testo fornisce indicazioni per la quantificazione figurativa delle attività annue di ricerca, di studio e di insegnamento, e, fatta salva la competenza esclusiva dell'università a valutare l'attività dei singoli docenti e ricercatori, prevede l'introduzione di criteri oggettivi di verifica dei risultati dell'attività di ricerca, sulla base dei quali modulare alcune delle prerogative del corpo accademico, quali la progressione automatica di carriera e la partecipazione a commissioni di valutazione e reclutamento.
Contestualmente, il disegno di legge semplifica il regime di autorizzazione per lo svolgimento di attività esterne, ribadendo il divieto all'esercizio dell'industria e del commercio, ma cercando di favorire lo sviluppo di attività di spin-off e start up già previste dagli articoli 2 e 3 del decreto legislativo 27 luglio 1999, n. 297.
Secondo quanto disposto dall'articolo 7 sono previsti incentivi alla mobilità sia dei professori che dei ricercatori universitari e modalità volte a favorire l'internazionalizzazione dell'attività di ricerca e il trasferimento di conoscenze tra università e industria.
L'articolo 7, in deroga alla disciplina del decreto del Presidente della Repubblica n. 382 del 1980, prevede inoltre che i professori universitari, a domanda, possono essere collocati in aspettativa senza assegni per un periodo massimo di cinque Pag. 5anni, anche consecutivi, per lo svolgimento di attività presso soggetti pubblici o privati, anche operanti in sedi internazionali i quali provvedono al trattamento economico e previdenziale.
Il disegno di legge prevede poi la revisione del trattamento economico dei professori e dei ricercatori universitari, all'articolo 8. In particolare, vengono aboliti gli automatismi retributivi estendendo una innovazione introdotta con un emendamento parlamentare al già richiamato decreto-legge n. 180 del 2008, convertito dalla legge n. 1 del 2009.
L'articolo 9 prevede l'istituzione di un fondo di ateneo per la premialità di professori e ricercatori, rendendo possibili contratti integrativi a favore di professori e ricercatori meritevoli.
Secondo quanto previsto dall'articolo 10, la competenza disciplinare, non più attribuibile al CUN, viene conferita al collegio di disciplina che agisce su input del rettore e trasmette il parere al consiglio di amministrazione che infligge la sanzione o ne dispone l'archiviazione.
Si prevedono inoltre interventi perequativi a favore delle università statali - nella misura di una quota pari ad almeno l'1,5 per cento del FFO e delle risorse eventualmente assegnate per il funzionamento del sistema universitario -, ai sensi dell'articolo 11, che presentino un sottofinanziamento superiore al 5 per cento rispetto ai parametri fissati nella legge. In questo contesto si inserisce la valutazione delle politiche di ateneo nei confronti delle chiamate del personale docente e ricercatore, con conseguente attribuzione differenziata delle risorse.
L'articolo 12 reca misure per incentivare la qualità delle attività didattiche e di ricerca delle università non statali legalmente riconosciute, stabilendo che una quota non inferiore al 10 per cento dell'ammontare complessivo dei contributi previsti dalla legge n. 243 del 1991, da incrementare progressivamente, è ripartita sulla base di criteri determinati con decreto del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, sentita l'ANVUR, tenuto conto degli indicatori previsti per le università statali dall'articolo 2, comma 1, del decreto-legge n. 180 del 2008.
Il successivo articolo 14 interviene sui crediti formativi riferiti alle conoscenze e alle abilità professionali, certificate ai sensi della normativa vigente in materia, nonché alle altre conoscenze e abilità maturate in attività formative di livello post-secondario, riducendo da 60 a 12 il relativo numero e stabilendo che il riconoscimento deve essere operato esclusivamente sulla base delle competenze dimostrate da ogni studente, escludendo forme di riconoscimento attribuite collettivamente.
Con un emendamento della maggioranza in Commissione di merito è stata riconosciuta la possibilità per le università di riconoscere quali crediti formativi, il conseguimento, da parte dello studente, di medaglia olimpica o paraolimpica. Con l'articolo 15, relativo al reclutamento, si semplificano le procedure di selezione locale, valorizzando l'autonomia dei singoli atenei e dando agli statuti il potere di decidere come realizzare la valutazione comparativa richiesta, che è il presupposto per la proposta di chiamata dei professori e ricercatori, effettuata a maggioranza assoluta del dipartimento e che deve essere poi approvata dal consiglio di amministrazione.
Il medesimo articolo introduce nell'ordinamento anche i settori concorsuali, nell'ambito dei quali sono ricondotti gli attuali settori scientifico-disciplinari. In particolare, si prevede che entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge, con decreto di natura non regolamentare del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, sentito il CUN, siano definiti i settori concorsuali per il conseguimento dell'abilitazione disciplinata dal successivo articolo 16.
I settori concorsuali sono raggruppati in macrosettori concorsuali. Inoltre, ogni settore può essere articolato in settori scientifico-disciplinari, utilizzati esclusivamente per la chiamata dei professori, per il conferimento di assegni di ricerca, per la stipula di contratti per attività di insegnamento, Pag. 6ovvero di contratti di ricerca a tempo determinato, e per la definizione degli ordinamenti didattici.
In materia di reclutamento, l'articolo 16 introduce invece l'abilitazione scientifica nazionale a lista aperta. Le procedure di chiamata vengono definite ed effettuate, ai sensi dell'articolo 17, a livello locale dai singoli atenei. Per i primi sei anni è previsto che gli atenei possano chiamare a un ruolo superiore con procedure semplificate i ricercatori e professori già in ruolo presso l'ateneo dove hanno ottenuto l'abilitazione scientifica nazionale.
Si introduce così una chiara distinzione tra nuove assunzioni e promozioni, anche queste però basate sulla previa acquisizione dell'abilitazione scientifica nazionale.
Il successivo articolo 18 del disegno di legge del Governo prevede, quindi, una sperimentazione triennale della tecnica di valutazione fra pari per la selezione dei progetti di ricerca finanziati a carico del Fondo sanitario nazionale e del Fondo per gli investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica (FIRST).
In particolare, il comma 1 prevede che, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge, sia emanato un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, adottato di concerto con il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca e con il Ministro della salute, per l'applicazione ai progetti di ricerca indicati della tecnica di valutazione fra pari, con la previsione di uno stanziamento a valere sulle risorse finanziarie, umane e strumentali disponibili a legislazione vigente. La valutazione deve essere svolta da comitati composti per almeno un terzo da professionisti operanti all'estero.
Il disegno di legge riassume poi in maniera organica le norme che riguardano l'assegnazione e il trattamento fiscale e previdenziale degli assegni di ricerca, secondo il disposto dell'articolo 19. Sono riviste, inoltre, le norme che regolano la stipula dei contratti di insegnamento, in base all'articolo 20, per contrastare il diffondersi di forme di precariato.
Si porta, inoltre, a compimento la trasformazione della figura di ricercatore avviata dalla legge n. 230 del 2005 con la messa ad esaurimento dei ricercatori a tempo indeterminato e la contestuale previsione di contratti di ricerca, per un triennio, rinnovabili per un altro triennio, secondo il disposto dell'articolo 21.
Con riguardo ai ricercatori a contratto si stabilisce un meccanismo affine alla cosiddetta tenure track, con possibilità di accesso alle modalità di assunzione in servizio semplificata per i ricercatori titolari di contratto rinnovato che, entro e non oltre la scadenza di tale contratto, abbiano conseguito l'abilitazione scientifica nazionale.
Il successivo articolo 22 stabilisce la inapplicabilità ai professori e ai ricercatori universitari delle disposizioni sulla prosecuzione del rapporto di lavoro recate dall'articolo 16 del decreto legislativo n. 503 del 1992. In particolare, i provvedimenti di prosecuzione adottati dalle università decadono alla data di entrata in vigore della legge, ad eccezione di quelli che hanno già iniziato a produrre i loro effetti.
L'articolo 23 prevede che, in esecuzione di accordi culturali internazionali che prevedono l'utilizzo reciproco di lettori, le università possano conferire a studiosi stranieri, qualificati e di comprovata professionalità, incarichi annuali rinnovabili per lo svolgimento di attività finalizzate alla diffusione della lingua e della cultura del Paese di origine e alla cooperazione internazionale.
Gli incarichi sono conferiti con decreto del rettore, previa delibera degli organi accademici competenti. Le modalità per il conferimento degli incarichi, compreso il trattamento economico a carico degli accordi internazionali, sono definite con decreto del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, adottato di concerto con il Ministro degli affari esteri e il Ministro dell'economia e delle finanze.
L'articolo 24, novellando l'articolo 1-bis, comma 1, alinea, del decreto- legge n. 105 del 2003 attraverso la soppressione della locuzione «in particolare», indica in maniera tassativa gli obiettivi dell'anagrafe nazionale Pag. 7degli studenti e dei laureati delle università disciplinata dalla stessa disposizione. Il successivo articolo 25 reca quindi norme finali, incluse alcune abrogazioni, e norme transitorie.
Il lavoro in Commissione, come sopra accennato, a fronte di un dibattito intenso ha prodotto modifiche al testo del Senato, alcune determinate da emendamenti del relatore, altre da emendamenti proposti da tutte le forze politiche di maggioranza e di opposizione, a dimostrazione della disponibilità del Governo e della maggioranza ad accettare ogni contributo migliorativo.
Il testo che andremo ad esaminare si discosta da quello originario in quanto ha recepito tutte le condizioni poste dalla Commissione bilancio e questo anche per la necessità di adeguare il provvedimento alla copertura finanziaria.
Pertanto va da sé che gli interventi soppressivi di disposizioni di spesa presenti nel testo originariamente approvato in Commissione non sono presenti in questo provvedimento - che mantiene la sua natura di tipo prettamente ordinamentale -, in quanto previsti dagli interventi che il Governo ha predisposto nella legge di stabilità appena approvata alla Camera in prima lettura.
Vorrei richiamare, per la loro importante incidenza, alcune disposizioni inerenti l'università contenute nella legge di stabilità. Sicuramente rilevante è la disposizione di una integrazione del fondo di finanziamento ordinario dell'università (FFO), nella misura di 800 milioni di euro per il 2011 e 500 milioni di euro annui a decorrere dal 2012, con la previsione che entro il 31 gennaio di ogni anno sia emanato un decreto interministeriale per l'approvazione di un piano straordinario per la chiamata di professori associati per ciascuno degli anni 2011-2016 per la quale non si applicano le disposizioni sulla limitazione del turnover nelle università recate dall'articolo 66, comma 13, del decreto-legge n. 112 del 2008.
Un'altra importante disposizione ha previsto un incremento di 100 milioni di euro della dotazione del Fondo di intervento integrativo da ripartire fra le regioni per la concessione dei prestiti d'onore e l'erogazione delle borse di studio. È stato inoltre disposto l'incremento per l'anno 2011 della dotazione del Fondo esigenze indifferibili ed urgenti, all'interno del quale è stato previsto un finanziamento di 25 milioni di euro a sostegno alle università non statali legalmente riconosciute, disciplinate dalla legge 29 luglio 1991, n. 243.
Rilevante è poi l'autorizzazione di un contributo di 5,2 milioni di euro per il 2011 da destinare alle scuole superiori ad ordinamento speciale. L'attività emendativa svolta in Commissione cultura ha inciso in modo significativo sul provvedimento anche a prescindere dalle condizioni poste dalla Commissione bilancio.
Intendo evidenziare per ogni articolo alcune delle modifiche più significative alla luce dell'attività emendativa svolta in Commissione, ivi incluse quelle dovute al recepimento delle condizioni della Commissione bilancio.
Per quanto riguarda l'articolo 1, su proposta dell'UdC, le Università virtuose, con i bilanci in ordine, potranno sperimentare propri modelli organizzativi anche interagendo con altre università.
Per quanto riguarda l'articolo 2, con un emendamento del relatore, si aggiunge agli organi di governo dell'ateneo la figura del direttore generale. Significativa è la previsione, introdotta con un emendamento della maggioranza, di un unico mandato di sei anni, non rinnovabile, per ricoprire la carica di rettore, in sostituzione della precedente formulazione, che prevedeva due mandati per un massimo di otto anni.
Accogliendo un emendamento del Partito Democratico viene disposto in maniera esplicita l'obbligo per le università di modificare i propri statuti in materia di governance nel rispetto dei principi di autonomia dettati dalla Carta costituzionale e nel rispetto dei princìpi di trasparenza dell'attività amministrativa.
Recependo un emendamento dell'opposizione, alle attribuzioni di competenza del senato accademico, tra cui l'attivazione o soppressione di corsi e sedi universitarie, Pag. 8si aggiungono quelle connesse alle funzioni di controllo sulla validità scientifica e didattica delle attività svolte. Si introduce, con un emendamento dell'opposizione, il rispetto del principio delle pari opportunità tra uomini e donne nell'accesso alla vita pubblica in riferimento alla nomina dei componenti il consiglio di amministrazione. Con un emendamento proposto dal relatore, allo scopo di premiare il merito e le performance organizzative, abbiamo apportato significative modifiche all'articolo 3 e all'articolo 4, e sostanzialmente a tutti gli articoli.

PRESIDENTE. La prego di concludere. Se vuole, l'autorizzo a depositare la parte mancante.

PAOLA FRASSINETTI, Relatore per la maggioranza. Grazie, signor Presidente. Per concludere, voglio dire che siamo di fronte ad una riforma strutturale dell'università e mi emoziona pensare che il buon esito della stessa dipenderà dalla nostra attività parlamentare. Abbiamo la possibilità e il dovere di restituire ai nostri giovani e al mondo del lavoro la consapevolezza che attraverso lo studio e la ricerca si possano risolvere problemi, affrontare innovazione e progresso in una nazione che riscopra il gusto di far corrispondere il successo all'impegno, al senso di responsabilità e al merito (Applausi dei deputati del gruppo Popolo della Libertà).
Signor Presidente, chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna di considerazioni integrative del testo della mia relazione.

PRESIDENTE. Onorevole Frassinetti, la Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti.
Il relatore di minoranza, onorevole Nicolais, ha facoltà di svolgere la relazione.

LUIGI NICOLAIS, Relatore di minoranza. Signor Presidente, onorevole Ministro, onorevoli colleghi, il 5 giugno del 1224, con la generalis lictera, nel fondare l'Università degli studi di Napoli, fu emanato solennemente l'editto che affermava: «Federico II di Svevia, per grazia del Signor Imperatore dei romani e Augusto Re di Gerusalemme e di Sicilia, agli arcivescovi, vescovi e alti prelati della Chiesa, ai margravi, baroni, giudici e ciambellani Noi ordiniamo che a Napoli, la più amabile di tutte le città, saranno insegnate tutte le arti professionali e sarà stabilita una sede di studi così che tutti quelli che sono affamati di sapere scopriranno nel mio regno i mezzi per soddisfare le loro necessità e non saranno obbligati ad andare all'estero per amore degli studi».
Se l'università assumeva tale centralità per un regnante circa ottocento anni fa, ancora maggiore consapevolezza dovremmo attenderci oggi da una moderna classe politica. In una società della conoscenza in cui la competizione ha una dimensione globale bisogna puntare principalmente sulle università come elemento di sviluppo del Paese. È necessario riuscire a formare giovani capaci e competenti e sviluppare conoscenza e ricerca che, da un lato, possano essere trasferite all'impresa e, dall'altro, possano creare una classe dirigente all'altezza della complessità delle sfide che la società ci pone.
La nostra università ha saputo fino ad oggi, anche con molta difficoltà, mantenere una produzione scientifica che posiziona ancora il nostro Paese fra le prime nazioni industrializzate, nonostante il basso numero di ricercatori e le scarse risorse finanziarie.
Quante e straordinarie risorse intellettuali, frutto di anni di sacrifici nelle aule e nei laboratori delle nostre facoltà, hanno trovato la loro collocazione in grandi multinazionali all'estero? Quante migliaia di ricercatori nel mondo spesso costituiscono comunità scientifiche universalmente riconosciute per la loro qualità e per la loro capacità? Si pensi che a Boston, presso il prestigioso Massachusetts Institute of Technology, i tanti ricercatori con passaporto italiano, impegnati tra centri di ricerca e multinazionali che con essi interagiscono, hanno sentito la necessità di riunirsi in una comunità chiamata MIT-Italy per Pag. 9condividere lo straordinario bagaglio di conoscenze acquisite in patria e valorizzato in uno dei principali centri di eccellenza del mondo.
Tali dati richiederebbero una maggiore umiltà nell'affrontare certe critiche indiscriminate al nostro mondo universitario, alla sua classe docente, ai suoi ricercatori e ai suoi studenti. Soprattutto dovrebbero farci agire con maggiore cautela nel proporre tagli indiscriminati, che finiscono con accelerare le ondate migratorie delle nostre migliori intelligenze a favore dell'economia estera e dei nostri competitors su scala globale.
Sicuramente, la nostra università, come molte altre istituzioni, ha bisogno di una riforma che tenga conto dei grandi cambiamenti che negli ultimi anni sono avvenuti.
In un sistema che cambia a grande velocità non possiamo consentirci di lasciare immutato il nostro impianto di alta formazione. È per questo che, come Partito Democratico, abbiamo sostenuto, sin dalle prime battute dell'esame dell'iter legislativo del disegno di legge di riforma dell'università, la necessità di pretendere un cambio di passo del sistema universitario, attraverso un maggiore impegno del corpo docente delle università, non solo nello sviluppo di conoscenza e nell'attività di formazione, ma anche ponendo attenzione alla possibilità di trasferire al territorio i risultati della ricerca prodotta.
Purtroppo, dobbiamo constatare che questo Governo ha seguito un percorso che non è stato all'altezza delle sfide che abbiamo innanzi a noi. Il Governo ha affrontato il problema della riforma dell'università puntando principalmente al risparmio della spesa. Le stesse risorse contenute nella manovra finanziaria appena approvata se, da un lato, dimostrano che era necessario correggere il tiro rispetto ai molteplici tagli già operati per il settore, dall'altro, risultano essere totalmente insufficienti per assegnare all'intero comparto dei saperi quel ruolo chiave necessario per il rilancio del Paese.
Per poter far in modo tale che l'opinione pubblica non maturasse un'accesa ostilità nei confronti di questi tanto pericolosi tagli, è stata ancora più grave la campagna denigratoria messa in atto nei mesi scorsi dai media e da settori del mondo politico enfatizzando alcuni problemi reali, peraltro presenti anche in altri settori della vita pubblica e professionale, ma che strumentalmente nell'università si è voluto far passare quale regola generale del sistema.
Il danno più grave prodotto da questa campagna è stato quello di aver tolto ai giovani studenti la possibilità di guardare al proprio docente come ad un modello di riferimento. Anziché tentare di rafforzare la credibilità di un'istituzione, quella accademica, che quotidianamente si cimenta con la difficoltà di dare coscienza alle nuove generazioni del proprio ruolo all'interno della società, si è voluto rappresentare agli occhi del cittadino il facile luogo comune dell'università fonte di sprechi e di rendite di posizione. Purtroppo, il risultato di questa scelta politica non è stato quello di agevolare la riduzione degli investimenti in questo settore, ma quello di avvelenare il clima ed esasperare ancora di più chi ha scelto di dedicare la propria vita alla ricerca e si aspettava dai propri governanti più lungimiranza e maggiore coraggio negli investimenti.
Oggi ci troviamo ad esaminare questo disegno di legge, nella sua stesura successiva alle modifiche apportate dalle competenti Commissioni parlamentari, nella consapevolezza che il suo corpo normativo presenta delle contraddizioni di fondo che non sono state risolte. Principi quali l'autonomia, la libera formazione e la libera ricerca enunciati con molta forza all'articolo 1 del provvedimento in esame, e sicuramente condivisibili, vengono però totalmente contraddetti dalle prescrizioni indicate negli articoli successivi, che rappresentano il corpus vivo del disegno di legge.
Si pensi a come, da un lato, si stabilisce con un dettaglio che appare stringente e invasivo la minuziosa composizione degli organi di governo e, dall'altro, si introduce il concetto dell'accordo di programma con il Ministero per sperimentare propri modelli Pag. 10funzionali e organizzativi, permettendo di disattendere alle norme prescritte a seguito di un accordo tra le parti, mortificando la vera autonomia e centralizzando in maniera burocratica i luoghi decisionali.
Secondo la stessa impostazione anche i piani triennali di sviluppo, che nelle enunciazioni governative dovevano rappresentare un alto momento di politica universitaria, si riducono ad un'attività burocratica che deve essere approvata e condivisa dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca (MIUR).
L'intero impianto della riforma universitaria che ci viene proposta punta a farci ritornare ad un sistema centralista e, con l'approvazione dell'emendamento all'articolo 25, si introduce un evidente tutoraggio del MIUR da parte del Ministero dell'economia e delle finanze.
Nel disegnare l'architrave normativo della nuova università, ci saremmo aspettati una maggiore attenzione nel prevedere delle precise norme transitorie. Purtroppo, dobbiamo constatare che anche queste fondamentali disposizioni sono del tutto insufficienti, non prevedendo cosa succederà a circa 25 mila ricercatori cui, peraltro, è stato anche già annullato lo scatto stipendiale, e a decine di migliaia di precari che contribuiscono in modo essenziale a sostenere tanto la ricerca quanto la didattica degli atenei, anche superando quanto previsto del decreto del Presidente della Repubblica n. 382 del 1980 attualmente vigente.
Inoltre, il disegno di legge che stiamo esaminando non vara una riforma a costo zero, ma una riforma che opera all'interno dei tagli che hanno già messo in ginocchio le università. Il principio economico che la ispira non trova pari nel quadro comunitario. Altri Paesi d'Europa - che condividono con noi comuni esigenze di bilancio e preoccupazioni per l'instabilità finanziaria - hanno investito in ricerca e innovazione. Francia e Germania hanno accompagnato le loro misure di programmazione economica e finanziaria con massicci investimenti in conoscenza, consapevoli che ogni risorsa allocata per la filiera della conoscenza può divenire, in un sistema che funziona, moltiplicatore di sviluppo e catalizzatore di ripresa economica.
L'Italia purtroppo, anche con questo disegno di legge che ci accingiamo votare, si attesta sempre di più come un fanalino di coda nelle classifiche tra i Paesi più sviluppati per l'investimento in ricerca ed alta formazione. Il taglio di un miliardo e 300 milioni di euro, operato nel finanziamento delle università in questi ultimi tre anni, rappresenta un dato gravissimo del quale paghiamo le conseguenze quotidianamente, ipotecando effetti nefasti per i prossimi anni se non invertiremo la rotta. Gli 800 milioni di euro appena assegnati con la finanziaria rappresentano solo una parte del Fondo di finanziamento ordinario già decurtato e, quindi, sono una misura totalmente insufficiente per ogni eventuale nuova assunzione e non possono essere propagandati quali investimenti aggiuntivi.
Con questo, non vogliamo difendere acriticamente lo status quo. Il Partito Democratico è nato per proporsi come forza politica per il cambiamento necessario al Paese. Di conseguenza, siamo consapevoli dell'urgenza, non tanto di singole misure correttive, quanto di un provvedimento che metta a sistema l'intera cornice legislativa che disciplina il mondo dell'università in ogni suo aspetto.
Crediamo in un'altra riforma dell'università italiana. Le riforme coraggiose, quelle che rispondono all'interesse generale del Paese, non possono subire condizionamenti solo dalla necessità di ridurre i costi.
Abbiamo bisogno di un testo unico snello, di principi e di regole chiare, a cui gli atenei devono attenersi nel reclutamento, nella formazione e nella valutazione, operando secondo il paradigma della massima autonomia e responsabilità.
L'autonomia è l'elemento fondativo, caratterizzante il sistema universitario, ma per perseguirla abbiamo bisogno di risorse, programmi e progettualità strategiche, che rendano il sistema universitario coeso e funzionale alle esigenze di un Pag. 11moderno sistema Paese. Nel disegno di legge, assistiamo ad un rinnovato accentramento amministrativo e alla minuziosa elencazione di obblighi a cui le università devono conformarsi. Necessitiamo, invece, di una rivisitazione e di una riorganizzazione degli atenei in un'ottica politica più generale e complessa rispetto a quella fino ad oggi adottata. Le università debbono essere messe in condizione di poter esercitare una funzione più incisiva nella società e, per fare questo, devono agire con la consapevolezza che occorre aprire una nuova fase progettuale che coinvolga e integri più soggetti istituzionali. Ecco perché dobbiamo partire dall'autonomia, soprattutto adesso che essa deve essere declinata insieme a federalismo, sussidiarietà, valutazione e governance multilivello.
Tuttavia, l'autonomia deve essere cardine di un sistema fatto di validi contrappesi. Solo la valutazione da parte di enti terzi fungerà da argine contro le spinte degenerative di una cattiva concezione dell'autonomia riconosciuta. La valutazione delle attività come strumento di controllo dei risultati e di trasparenza pubblica è - e deve essere - un punto fermo su cui costruire la forza del sistema che immaginiamo per gli atenei.
Siamo consapevoli, tuttavia, che - per tramutare concretamente la valutazione in una prassi che faccia perno sulla massima responsabilizzazione degli attori universitari - dobbiamo avere il coraggio di parlare non solo di valutazione ex ante, ma principalmente di valutazione ex post. Solo così saremo in condizione di premiare i comportamenti virtuosi delle università, dei dipartimenti e delle diverse strutture accademiche, esaltando una concezione di merito e isolando storture e sperperi.
La valutazione delle attività come strumento di indirizzo strategico, di controllo dei risultati e di trasparenza pubblica è - e deve essere - un punto fermo su cui costruire la forza del sistema.
Già nella passata legislatura è stata creata l'ANVUR, che nelle intenzioni di tutti dovrebbe rappresentare l'organo terzo capace di effettuare valutazioni oggettive della produzione scientifica, delle attività didattiche e del funzionamento delle università. Perché, a distanza di quasi tre anni, l'ANVUR non è ancora operativa?
In questo disegno di legge si parla frequentemente di valutazione, senza avere ancora con chiarezza definito le variabili da misurare e le metodologie da utilizzare.
Anche in questo caso, come in tanti altri, il disegno di legge rimanda ad una serie di decreti attuativi e di decreti delegati, rendendo questa riforma molto vaga e priva di immediata efficacia.
Anche il reclutamento, che rappresenta un elemento essenziale per il futuro delle università, è fortemente condizionato da tutte le scelte di carattere economico effettuate da questo Governo. Anche alla luce del previsto forte esodo dei docenti nei prossimi anni, sarebbe stato necessario un significativo ingresso di giovani nel sistema universitario per poter evitare all'università una carenza di capacità didattica e di ricerca.
Desta particolare preoccupazione il modo in cui è stato affrontato dal testo del disegno di legge il tema della governance del sistema universitario. Siamo scettici rispetto all'idea di un modello rigido, unico, che passi per norme di dettaglio omogenee per tutte le università. Gli atenei italiani sono molto diversi tra loro per dimensioni, caratteristiche e ambiti culturali e un unico modello non sembra adeguato a rispondere alle diverse esigenze.
Si costruisce un nuovo modello di governo delle università solo individuando un obiettivo strategico. Questo dovrebbe essere ispirato al principio dell'accountability, inteso come un solenne e sistematico impegno a rendere conto dei propri risultati con modalità trasparenti.
Ad oggi, nell'università una concezione fuorviante e strumentalizzata del pur prezioso concetto di garanzie democratiche a tutto campo, ha condotto alla formazione di strutture di governo pletoriche, a procedure decisionali lente e pesantemente gerarchiche, all'impropria commistione tra forme di rappresentanza e compiti di governo. Pag. 12
Un obiettivo coraggioso è senza dubbio rappresentato dalla semplificazione stessa degli strumenti di governance e di organizzazione delle università. Abbiamo bisogno di giungere ad una riduzione del numero di corsi di laurea e di dipartimenti, anche attraverso accorpamento e razionalizzazione degli insegnamenti, garantendo agli stessi studenti la possibilità di una più ampia e chiara possibilità di articolazione dei propri percorsi formativi.
Al consiglio di amministrazione va assegnato un deciso compito di programmazione e di governo, e il contributo di competenze esterne è senz'altro occasione di rafforzamento per l'ateneo, a condizione che siano individuate funzioni chiare e specifiche per tali componenti.
Lo stesso senato accademico appare privo di una sua missione istituzionale definita e, stante il suo ruolo primario finora assolto, risulta depotenziato. Crediamo che una sua rinnovata centralità risieda in un suo forte ruolo di massima garanzia, di rigoroso controllo e di programmazione e promozione delle attività scientifiche e didattiche.
Le università esistono in quanto esistono gli studenti che le frequentano. In questo disegno di legge è mancata la centralità dello studente intorno al quale costruire un sistema che possa assolvere ai suoi compiti istituzionali. Infatti, sarebbe stata necessaria, ad oltre dieci anni dalla sua introduzione, un'analisi del sistema di formazione basato sul 3+2 per poter essere in grado di effettuare i necessari aggiornamenti.
Altrettanto preoccupante è il capitolo del diritto allo studio. Nel nostro Paese appena l'8 per cento degli studenti riceve una borsa di studio. Circa la metà degli studenti idonei, perché meritevoli e privi di mezzi economici sufficienti, non è assegnatario del contributo economico cui ha diritto. Nel Mezzogiorno gli assegnatari sono, addirittura, una netta minoranza. Abbiamo il minor numero di alloggi residenziali d'Europa. Più dell'80 per cento degli studenti si iscrive alle facoltà della propria regione di residenza. Tutto ciò mentre il diritto allo studio è solennemente sancito come principio inderogabile dell'articolo 34 della nostra Costituzione. Il disegno di legge introduce genericamente un Fondo nazionale per il merito senza dare contenuto cogente a queste disposizioni, non individuando dei criteri chiave per la loro attuazione ed eludendo scandalosamente il tema delle risorse necessarie a colmare le carenze che gli studenti hanno denunciato, con imponenti manifestazioni appena qualche giorno fa, in ogni città universitaria.
Ancora una volta, assistiamo ad un principio genericamente enunciato che non si concretizza in misure tangibili e che non trova soluzione ai problemi già esistenti, soprattutto per una totale mancanza di fondi di copertura.
Ci saremmo aspettati una legge coraggiosa di riforma dell'università che affrontasse tutti i nodi che abbiamo qui evidenziato, che sono a gran voce rivendicati da tutti i suoi attori: docenti, studenti, ricercatori, personale amministrativo.
Ci troviamo, invece, ad analizzare un testo che continua ad essere viziato da misure di finanza pubblica che ne hanno svuotato quasi completamente ogni prospettiva di cambiamento reale dell'esistente.
Pertanto, non possiamo che ritenerci insoddisfatti per il contenuto di questo disegno di legge: esso non risponde alle esigenze di un Paese che vuole essere competitivo e che richiede un sistema di alta formazione responsabile e competente (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico, Italia dei Valori, Unione di Centro).

PRESIDENTE. Prendo atto che il Ministro si riserva di intervenire in sede di replica.
È iscritto a parlare l'onorevole Zazzera. Ne ha facoltà.

PIERFELICE ZAZZERA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, «Ministra» Tremonti, quello che state compiendo oggi è un inspiegabile atto di forza e di arroganza, portando in Aula un provvedimento privo di copertura finanziaria e stravolto dal parere della Commissione bilancio. Pag. 13
Questo provvedimento è ormai irriconoscibile, persino ai vostri occhi, svuotato di ogni sostanza, ridotto ad una canna di bambù vuota. Sì può chiamare questo «Governo di responsabilità»? Avete, di fatto, comprato casa, firmato il compromesso dal notaio, vi state abitando, ma la banca non vi ha dato ancora il mutuo. La Commissione bilancio nel suo parere ha bocciato, per mancanza di copertura, gli articoli 2, 3, 4, 5, 5-bis (riguardante i ricercatori), 8, 9, 14-bis, 19, 21 e 23 e ha imposto l'articolo 25, che abbiamo votato in Commissione e che è una vera «chicca», perché impone il commissariamento del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, ovvero il commissariamento della Ministra Gelmini da parte del Ministro Tremonti.
Per questo, mi scuso se l'ho chiamata Ministra «Tremonti», ma è perché comprendo e capisco il suo disagio. L'articolo 25, come ce lo ha imposto la Commissione bilancio, recita così, Ministra Gelmini: «Il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca provvede al monitoraggio degli oneri (...) e riferisce in merito al Ministro dell'economia e delle finanze» - e prosegue - «Nel caso si verifichino o siano in procinto di verificarsi scostamenti rispetto alle previsioni di spesa (...), il Ministro dell'economia e delle finanze, sentito il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, provvede, con proprio decreto, alla riduzione nella misura necessaria alla copertura finanziaria del maggior onere». Se questo non è un commissariamento, è quantomeno la trasformazione del suo Ministero in un Ministero senza portafoglio.
Ministra Gelmini, lei, in questo caso, praticamente non può neanche aprire la porta del suo Ministero senza il permesso del Ministro Tremonti. Mi permetto di darle un consiglio: abbia uno scatto di orgoglio. Sì, abbia uno scatto di orgoglio! Abbiamo apprezzato l'atteggiamento della sua collega Carfagna, che in questi giorni ha dimostrato di avere molto coraggio. Lasci questa barca, che la sta lasciando sola, anche oggi, di fronte ad un provvedimento così importante!
Noi dell'IdV non voteremo il disegno di legge sull'università, e vi invitiamo ad un gesto di responsabilità: ritiratelo finché siete in tempo. Avremmo potuto non prendere altro tempo, avremmo potuto trovare l'occasione per riaprire un confronto tra maggioranza ed opposizione, ed invece avete pensato di inserirlo nel mentre si discute la finanziaria che non ha completato il suo iter (che quindi è propedeutica al finanziamento di questa legge), e, considerato che il 14 dicembre si discuterà la fiducia, credo che un atto di responsabilità da parte del Governo sarebbe stato quello di fermarsi un attimo per poi ricominciare a discuterlo dopo la fiducia (se mai ve la daranno). Noi dell'Italia dei Valori non voteremo il disegno di legge sull'università perché non ne condividiamo il metodo, il metodo utilizzato oggi, e il merito del provvedimento. Quella che voi millantate come una riforma è invece una controriforma che smantella l'università pubblica, i saperi liberi ed indipendenti, il diritto allo studio. Il regime - Ministra - quando si manifesta con il suo peggior volto una delle cose che fa è controllare l'istruzione e i saperi, quindi esercitare il controllo sulla scuola e l'università, laddove si formano le conoscenze e quindi si è liberi dalle dittature. I regimi devono controllare i cervelli per mantenere il potere, e voi siete un regime. Noi dell'Italia dei Valori vogliamo invece un Paese democratico e quindi vogliamo che l'università e la formazione dei saperi restino libere, indipendenti, pubbliche. Noi dell'Italia dei Valori vogliamo una vera riforma del sistema universitario, e per questo ci saremmo aspettati una volontà da parte della maggioranza di aprire un grande dibattito nel Paese, coinvolgendo tutto il mondo dell'università.
Invece questo disegno di legge ha in calce una firma, anzi due firme chiare e leggibili: quella di Confindustria e quella dei rettori, ovvero proprio quelli che hanno determinato l'affossamento del sistema universitario pubblico, che vogliono asservirlo al mercato, che vogliono esercitare il controllo sul reclutamento e non rinunciano ai privilegi di casta. Confindustria Pag. 14nell'audizione in Commissione considera elementi irrinunciabili nel suo disegno di legge (e che quindi una loro mancata approvazione ne stravolgerebbe lo spirito riformatore del testo) la distinzione del ruolo tra senato accademico e consiglio di amministrazione, il reclutamento così come lei lo ha proposto, gli esterni nel consiglio di amministrazione per il 40 per cento, l'introduzione per le università non statali legalmente riconosciute della premialità non inferiore al 10 per cento del finanziamento pubblico, e il centralismo sulla governance degli atenei.
Per questo Confindustria, insieme ai rettori, ha sempre chiesto un'approvazione rapida del testo a prescindere dal merito. Insomma, Confindustria chiede e la Ministra Gelmini esegue. Noi dell'Italia dei Valori vogliamo una riforma vera dell'università e chiediamo per prima cosa che resti pubblica. Vogliamo un'università certamente più moderna e competitiva, liberata dai baroni e dal nepotismo, ringiovanita nella docenza, capace di fermare la fuga dei cervelli, efficiente nell'uso delle risorse destinate ai progetti di ricerca, che premi il merito, in grado di garantire concorsi trasparenti e diritto allo studio per tutti. Certo, l'università nel nostro Paese è ammalata, e non a caso i dati dicono che è tra le ultime in Europa. Nell'università italiana può accadere di avere corsi senza studenti, di avere più rettori che allievi; sforniamo il numero più basso di laureati in Europa; sempre più ricercatori scappano dal sistema universitario Italia per vincere premi Nobel andando a studiare all'estero; la nostra università è ammalata di nepotismo, e anche di - sì - infiltrazioni mafiose nel Mezzogiorno, come nelle università di Messina, e come i fatti di cronaca hanno più volte raccontato. Esiste una questione morale dell'università che non è solo «parentopoli» ma è anche il controllo - sì - mafioso del reclutamento nelle università (lo dicono autorevoli fonti) con veri e propri padrini e famiglie che si spartiscono il territorio dell'università. L'autonomia degli atenei è diventata un'occasione persa perché sono prevalsi gli sprechi e i bilanci in rosso. In questi anni si sono aperte sedi ovunque, anche laddove sarebbe stato davvero inutile tenerle. Insomma, l'università si è trasformata - è vero - in un elefantiaco organo di privilegi, dove il merito e la formazione dei saperi non hanno avuto domicilio.
Quindi di fronte ai grandi mali dell'università, che lo stesso Presidente della Repubblica sollecitava ad affrontare nel corso dell'inaugurazione dell'anno accademico alla Normale di Pisa, ci saremmo aspettati uno scatto d'orgoglio, una risposta adeguata.
Niente di tutto questo c'è nel vostro disegno di legge. Non ci sono risorse, perché il commissario Tremonti, nella scorsa finanziaria, ha già tagliato 1 miliardo e 300 milioni di euro. Non ce ne sono neppure oggi perché servirebbero, per questo provvedimento, almeno 1 miliardo e 700 milioni di euro e, invece, il Ministro ve ne dà solo 1 miliardo, di cui 200 milioni destinati alle borse di studio e 800 milioni che vanno a finire nel Fondo di finanziamento ordinario che serve per pagare gli stipendi degli atenei e non è detto che finiscano, quindi, ai ricercatori. Ovviamente, avete trovato le risorse per le università non statali, solo dopo che il rettore Ornaghi della Cattolica di Milano ha alzato la voce per poterli avere, mentre nessun rettore di università pubblica mi sembra abbia alzato la voce per chiederne altrettanti nell'università pubblica stessa. D'altronde, nel vostro disegno di legge, passano provvedimenti che premiano le università telematiche e persino il Presidente del Consiglio ha inaugurato l'anno accademico della Cepu. I messaggi sono molto chiari.
Non c'è autonomia per le università nel vostro provvedimento che è chiaramente centralista - lo dico ai colleghi della Lega Nord Padania che del federalismo fanno una grande battaglia - in quanto avevate necessità, invece, di dare risposte a quella Confindustria che vi ha chiesto una gestione più centralista nel provvedimento. Non c'è merito, perché non vengono scardinati quei sistemi corporativi e baronali che hanno caratterizzato la vita di tanti atenei. Pag. 15Il vostro disegno di legge - ripeto: il vostro disegno di legge - continuerà, infatti, a premiare i figli di rettori noti ma «ciucci», facendo scappare all'estero i ricercatori figli di nessuno, ma bravi. Non c'è trasparenza in quanto il reclutamento avviene e continuerà ad avvenire attraverso commissioni scelte all'interno dell'organo docente degli atenei senza ricorrere a quello che abbiamo chiesto a più voci col sorteggio puro. State smantellando le università pubbliche attraverso un processo di aziendalizzazione che porta la didattica a dipendere dal consiglio di amministrazione, ovvero dalla gestione, dove vi sono anche gli esterni. Noi dell'Italia dei Valori crediamo, invece, che i saperi e la didattica devono governare la gestione. Risorse e organizzazione vanno messe al servizio della formazione. Invece, in una logica di mercato, pensate di utilizzare le università a servizio della globalizzazione e dei mercati.
Non garantite il diritto allo studio per i fuorisede e, pertanto, se da un lato riducete le facoltà - cosa sacrosanta -, dall'altro, non consentite ai fuorisede di iscriversi alle suddette facoltà perché non finanziate borse di studio ai meritevoli né sostenete la politica degli alloggi per gli studenti che non hanno possibilità. In questo modo, incentivate solo l'abbandono degli studi e della formazione. Ridurre la formazione significa ridurre la capacità di competizione del nostro Paese e la capacità di far crescere la ricchezza, il prodotto interno lordo, tanto caro al Ministro Tremonti. L'università e la ricerca sono il motore dell'economia di un Paese. Le suggerisco, magari come Vendola, di raggiungere gli Stati Uniti d'America perché Obama, tra i primi provvedimenti, ha investito nell'università e nella ricerca e, in modo particolare, individuando nel filone delle cellule staminali un percorso di crescita economica del suo Paese. Noi, invece, ci dividiamo ancora su questioni ideologiche. La riduzione dei mandati ai rettori è uno specchietto per le allodole perché quando vi chiediamo di impedire a chi ha parenti fino al terzo grado nello stesso ateneo di partecipare alle selezioni di reclutamento, la risposta è stata inesorabile. Un nostro emendamento, dell'Italia dei Valori, è stato, infatti, bocciato ed è stato sollevato un muro di protezione di casta. Questo provvedimento non interviene neppure in uno dei privilegi più insopportabili per quei baroni universitari, ovvero la possibilità di andare in pensione a settant'anni e di non essere trattati alla pari di tanti dipendenti pubblici che, invece, ci vanno a sessantacinque.
Noi dell'IdV non voteremo il disegno di legge sull'università, e vi invitiamo ad un gesto di responsabilità: ritiratelo finché siete in tempo. Avremmo potuto prendere altro tempo, avremmo potuto trovare l'occasione per riaprire un confronto tra maggioranza ed opposizione, ed invece avete pensato di inserirlo nel mentre si discute la finanziaria che non ha completato il suo iter (che quindi è propedeutica al finanziamento di questa legge), e, considerato che il 14 dicembre si discuterà la fiducia, credo che un atto di responsabilità da parte del Governo sarebbe stato quello di fermarsi un attimo per poi ricominciare a discuterlo dopo la fiducia (se mai ve la daranno). Noi dell'Italia dei Valori non voteremo il disegno di legge sull'università perché non ne condividiamo il metodo, il metodo utilizzato oggi, e il merito del provvedimento. Quella che voi millantate come una riforma è invece una controriforma che smantella l'università pubblica, i saperi liberi ed indipendenti, il diritto allo studio. Il regime - Ministra - quando si manifesta con il suo peggior volto una delle cose che fa è controllare l'istruzione e i saperi, quindi esercitare il controllo sulla scuola e l'università, laddove si formano le conoscenze e quindi si è liberi dalle dittature. I regimi devono controllare i cervelli per mantenere il potere, e voi siete un regime. Noi dell'Italia dei Valori vogliamo invece un Paese democratico e quindi vogliamo che l'università e la formazione dei saperi restino libere, indipendenti, pubbliche. Noi dell'Italia dei Valori vogliamo una vera riforma del sistema universitario, e per questo ci saremmo aspettati una volontà da parte della maggioranza Pag. 16di aprire un grande dibattito nel Paese, coinvolgendo tutto il mondo dell'università.
Invece questo disegno di legge ha in calce una firma, anzi due firme chiare e leggibili: quella di Confindustria e quella dei rettori, ovvero proprio quelli che hanno determinato l'affossamento del sistema universitario pubblico, che vogliono asservirlo al mercato, che vogliono esercitare il controllo sul reclutamento e non rinunciano ai privilegi di casta. Confindustria nell'audizione in Commissione considera elementi irrinunciabili nel suo disegno di legge (e una loro mancata approvazione ne stravolgerebbe lo spirito riformatore del testo) la distinzione del ruolo tra senato accademico e consiglio di amministrazione, il reclutamento così come lei lo ha proposto, gli esterni nel consiglio di amministrazione per il 40 per cento, l'introduzione per le università non statali legalmente riconosciute della premialità non inferiore al 10 per cento del finanziamento pubblico, e il centralismo sulla governance degli atenei.
Per questo Confindustria, insieme ai rettori, ha sempre chiesto un'approvazione rapida del testo a prescindere dal merito. Insomma, Confindustria chiede e la Ministra Gelmini esegue. Noi dell'Italia dei Valori vogliamo una riforma vera dell'università e chiediamo per prima cosa che resti pubblica. Vogliamo un'università certamente più moderna e competitiva, liberata dai baroni e dal nepotismo, ringiovanita nella docenza, capace di fermare la fuga dei cervelli, efficiente nell'uso delle risorse destinate ai progetti di ricerca, che premi il merito, in grado di garantire concorsi trasparenti e diritto allo studio per tutti. Certo, l'università nel nostro Paese è ammalata, e non a caso i dati dicono che è tra le ultime in Europa. Nell'università italiana può accadere di avere corsi senza studenti, di avere più rettori che allievi; forniamo il numero più basso di laureati in Europa; sempre più ricercatori scappano dal sistema universitario italiano per vincere premi Nobel andando a studiare all'estero; la nostra università è ammalata di nepotismo, e anche di - sì - infiltrazioni mafiose nel Mezzogiorno - come nella università di Messina - e come i fatti di cronaca hanno più volte raccontato. Esiste una questione morale dell'università che non è solo «parentopoli» ma è anche il controllo - sì - mafioso del reclutamento nelle università (lo dicono autorevoli fonti) con veri e propri padrini e famiglie che si spartiscono il territorio dell'università. L'autonomia degli atenei è diventata un'occasione persa perché sono prevalsi gli sprechi e i bilanci in rosso. In questi anni si sono aperte sedi ovunque, anche laddove sarebbe stato davvero inutile tenerle. Insomma, l'università si è trasformata - è vero - in un elefantiaco organo di privilegi, dove il merito e la formazione dei saperi non hanno avuto domicilio.
Quindi di fronte ai grandi mali dell'università, che lo stesso Presidente della Repubblica sollecitava ad affrontare nel corso dell'inaugurazione dell'anno accademico alla Normale di Pisa, ci saremmo aspettati uno scatto d'orgoglio, una risposta adeguata.
Niente di tutto questo c'è nel vostro disegno di legge. Non ci sono risorse, perché il «commissario Tremonti», nella scorsa finanziaria, ha già tagliato 1 miliardo e 300 milioni di euro. Non ce ne sono neppure oggi perché servirebbero, per questo provvedimento, almeno 1 miliardo e 700 milioni di euro e, invece, il Ministro ve ne dà solo 1 miliardo, di cui 200 milioni destinati alle borse di studio e 800 milioni che vanno a finire nel Fondo di finanziamento ordinario che serve per pagare gli stipendi degli atenei e non è detto che finiscano, quindi, ai ricercatori. Ovviamente, avete trovato le risorse per le università non statali, solo dopo che il rettore Ornaghi della Cattolica di Milano ha alzato la voce per poterli avere, mentre nessun rettore di università pubblica mi sembra abbia alzato la voce per chiederne altrettanti nell'università pubblica stessa. D'altronde, nel vostro disegno di legge, passano provvedimenti che premiano le università telematiche e persino il Presidente Pag. 17del Consiglio ha inaugurato l'anno accademico della Cepu. I messaggi sono molto chiari.
Non c'è autonomia per le università nel vostro provvedimento che è chiaramente centralista - lo dico ai colleghi della Lega Nord Padania che del federalismo fanno una grande battaglia - in quanto avevate necessità, invece, di dare risposte a quella Confindustria che vi ha chiesto una gestione più centralista nel provvedimento. Non c'è merito, perché non vengono scardinati quei sistemi corporativi e baronali che hanno caratterizzato la vita di tanti atenei. Il vostro disegno di legge - ripeto: il vostro disegno di legge - continuerà, infatti, a premiare i figli di rettori noti ma «ciucci», facendo scappare all'estero i ricercatori figli di nessuno, ma bravi. Non c'è trasparenza in quanto il reclutamento avviene e continuerà ad avvenire attraverso commissioni scelte all'interno dell'organo docente degli atenei senza ricorrere a quello che abbiamo chiesto a più voci cioè il sorteggio puro. State smantellando le università pubbliche attraverso un processo di aziendalizzazione che porta la didattica a dipendere dal consiglio di amministrazione, ovvero dalla gestione, all'interno della quale vi sono anche gli esterni. Noi dell'Italia dei Valori crediamo, invece, che i saperi e la didattica devono governare la gestione. Risorse e organizzazione vanno messe al servizio della formazione. Invece, in una logica di mercato, pensate di utilizzare le università a servizio della globalizzazione e dei mercati.
Non garantite il diritto allo studio per i fuorisede e, pertanto, se da un lato riducete le facoltà - cosa sacrosanta -, dall'altro non consentite ai fuorisede di iscriversi alle suddette facoltà, perché non finanziate borse di studio ai meritevoli né sostenete la politica degli alloggi per gli studenti che non hanno possibilità. In questo modo, incentivate solo l'abbandono degli studi e della formazione. Ridurre la formazione significa ridurre la capacità di competizione del nostro Paese e la capacità di far crescere la ricchezza, il prodotto interno lordo, tanto caro al Ministro Tremonti. L'università e la ricerca sono il motore dell'economia di un Paese. Le suggerisco, magari come Vendola, di raggiungere gli Stati Uniti d'America perché Obama, tra i primi provvedimenti, ha investito nell'università e nella ricerca e, in modo particolare, individuando nel filone delle cellule staminali un percorso di crescita economica del suo Paese. Noi, invece, ci dividiamo ancora su questioni ideologiche. La riduzione dei mandati ai rettori è uno specchietto per le allodole perché quando vi abbiamo chiesto di impedire a chi ha parenti fino al terzo grado nello stesso ateneo di partecipare alle selezioni di reclutamento, la risposta è stata inesorabile. Un nostro emendamento, dell'Italia dei Valori, è stato, infatti, bocciato ed è stato sollevato un muro di «protezione di casta». Questo provvedimento non interviene neppure su uno dei privilegi più insopportabili per quei baroni universitari, ovvero la possibilità di andare in pensione a settant'anni e di non essere trattati alla pari di tanti dipendenti pubblici che, invece, ci vanno a sessantacinque.
Sarebbe un modo per svecchiare le università, per permettere a tanti giovani di poter fare la loro carriera e, comunque, non perdendo le risorse che pure possono esserci e che possono essere messe a servizio di altre strutture di formazione. Noi dell'Italia dei Valori chiediamo di equiparare l'età pensionabile dei docenti universitari a quella di tutti i soggetti pubblici essendo tale disuguaglianza del tutto irragionevole. Sulla vicenda dei ricercatori avete toccato per davvero il fondo, credo. Fu proprio la Ministra Gemini ad annunciare in pompa magna il pacchetto per i ricercatori con 800 milioni di euro, notizia sbugiardata immediatamente dopo però dal Ministro Tremonti. Ministra smentita e umiliata dal Ministro Tremonti sino a pochi giorni, fa quando ha annunciato il miliardo per il Fondo di finanziamento ordinario, soldi che serviranno a pagare gli stipendi degli atenei, ma che ad oggi non servono a pagare e a mettere a concorso i novemila posti di ricercatore, che comunque sarebbero molto al di sotto di quella che è un'esigenza che riguarda un mondo di ben 25 mila Pag. 18ricercatori. Oggi, infatti, i fatti dicono che la Commissione Bilancio vi ha cassato quell'articolo 5-bis perché non avete copertura e, per evitare che la Ministra Gelmini potesse in qualche modo allargare i cordoni della borsa, è stato inserito quest'ultimo articolo 25 che dimostra in quale situazione questo Governo si trovi.
Così come, Ministra, va denunciato il pasticcio che avete combinato sull'articolo 23 riguardante i lettori di madre lingua: docenti che vengono trattati come tecnici amministrativi con cui lo Stato e le università hanno aperti numerosi contenziosi giudiziari. E infatti, per non smentirvi, avete inserito una piccola postilla. Alla fine dell'articolo 23 vengono azzerati tutti i contenziosi giudiziari in corso aperti per quanto riguarda la vicenda dei lettori di madre lingua. Ovvero avete chiuso così il destino di 1.800 lettori di madre lingua nelle università italiane la cui dignità è stata calpestata. Però sappia che quell'articolo 23 così com'è sarà impugnato dalla Corte perché incostituzionale.
Avete fatto scempio del diritto allo studio. Noi dell'Italia dei Valori abbiamo invece dimostrato che se c'è la volontà politica i soldi si trovano. Si trovano e come ma voi la volontà politica non ce l'avete. La vostra logica è del troppo a pochi e del pochissimo a troppi. La vostra logica è togliere a chi merita per dare a chi è furbo. I ricercatori e le borse di studio possono essere finanziate recuperando i soldi dalla lotta all'evasione fiscale: 120 miliardi in un anno. Basterebbe un decimo di quei proventi per finanziarli ma si potrebbero recuperare altre risorse tassando le rendite delle banche o ancora tassando le rendite finanziarie, le operazioni speculative. Si potrebbero trovare 800 milioni per finanziare l'assunzione dei ricercatori, la messa a concorso dei ricercatori. Sono solo alcune strade che vi proponiamo. Sull'università va aperta infine una riflessione soprattutto, laddove si consentirà a soggetti esterni di entrare nei consigli di amministrazione e negli organi di gestione. Tra le altre cose entrando negli organi di gestione senza mettere capitali ma gestendo i capitali pubblici, cioè l'impresa senza rischio.
Non solo, io sono preoccupato e vigilate Ministro, semmai questo provvedimento passerà, su quello che potrebbe accadere nel Mezzogiorno, sull'assenza di controlli e sui rischi di infiltrazione di economie illegali all'interno delle strutture universitarie. È un provvedimento pertanto che non può esser sostenuto: va cestinato come il Governo che l'ha proposto e che ancora una volta fallisce i suoi obiettivi.
Noi dell'Italia dei Valori ci auguriamo che il 14 dicembre prossimo vi mandino a casa, e finalmente questo Paese possa ritornare a respirare aria di libertà, partendo proprio dai saperi e dalle università, partendo dalle migliaia di ricercatori in mobilitazione ormai da mesi, che sopravvivono con poco meno di 1.200 euro al mese, partendo dalla mobilitazione dei 200 mila studenti, docenti e ricercatori di questi giorni: costruiremo con loro la vera riforma del sistema universitario.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Capitanio Santolini. Ne ha facoltà.

LUISA CAPITANIO SANTOLINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi e signor Ministro, dopo un vero e proprio tormentato - è il caso di dirlo - iter in Commissione, questa riforma dell'università approda in Aula. È stato un lungo percorso, al quale però la Camera ha partecipato in maniera tormentata ma certamente non in maniera molto lunga, dal momento che abbiamo dovuto fare veramente una specie di tour de force, perché da noi poco è stato il tempo per poter approfondire e migliorare il testo. Per questi problemi di metodo e di merito, come io amo sempre dire, non possiamo essere soddisfatti di quello che sta accadendo. Infatti, avremmo preferito giungere ad una riforma con la «erre» maiuscola, cosa che questa non è, e soprattutto ad una riforma condivisa tra maggioranza ed opposizione perché, come tutte le grandi cose che si devono fare in un Paese, è bene farle con una grande Pag. 19condivisione, con un'apertura e con una fiducia nella possibilità di trovare un accordo sulle cose serie e sulle cose che contano.
Rimango dell'idea che questo sarebbe stato possibile, ma prendo atto che così non è stato, soprattutto per una cattiva volontà del Ministro e del Ministero, e me ne dolgo molto, perché credo che abbiamo tutti perso una grande occasione e credo che di questo porteremo la responsabilità anche davanti al Paese.
Prima di entrare nel merito delle norme - comunque questa è una discussione di carattere generale, non entrerò nel dettaglio dei singoli emendamenti - desidero fare una breve premessa di carattere generale: va riconosciuto al Ministro di aver evitato la strada dei decreti-legge e di avere introdotto principi condivisibili, quali il reclutamento sottoposto al vaglio di meritocrazia di una valutazione nazionale, il tentativo di legare la carriera e la retribuzione dei docenti non ad automatismi ma a produttività e qualità del lavoro, il tentativo di mettere gli studenti al centro del sistema attraverso un fondo per studenti meritevoli, la volontà di legare le risorse ai criteri di valutazione, la previsione di fusioni e federazione di atenei. Sono tutti principi giusti e assolutamente condivisibili, ma che rimarranno assolutamente inapplicati signor Ministro, e lei lo sa, per i macroscopici errori che il provvedimento in esame contiene, per le contraddizioni e per il modo in cui è configurato tutto un sistema che non sarà in grado di porre in essere questi principi condivisibili.
La riforma ci voleva dunque, ma questa riforma non può essere approvata, perché è una riforma che rimarrà sulla carta. Riconosco che era difficile mettere mano ad un organismo così complesso ed articolato come il sistema universitario. Nel corso degli anni si sono accumulati troppi corsi, troppe sedi, troppi sprechi, poca preparazione, poche eccellenze, poca selezione, poca qualità, troppe baronie, troppa parentopoli, troppa confusione, troppa politica: troppo di tutto, in altre parole, e troppo poco di tutto. Allora, accontentare tutti era oggettivamente difficile, anche perché si è sempre dovuta registrare una forte resistenza al cambiamento da parte di chi non aveva interesse a farlo. Il risultato è che il sistema è in stallo, perché in larga parte anche le proposte che sono arrivate in questi anni non sono state attuate o sono state parzialmente applicate. Mi riferisco in particolare alla programmazione, alla valutazione, ai limiti di spesa, all'idoneità nazionale per il reclutamento dei docenti, che ricordo era già proposto dalla Moratti cinque anni fa: niente di nuovo sotto il sole e se è rimasto inapplicato per cinque anni, non si vede il motivo e non si vedono le premesse per cui quello che il Ministro Moratti aveva annunciato cinque anni fa debba essere posto in essere adesso, visto che da cinque anni attendiamo cose che erano già state dette e scritte cinque anni fa.
Perché chiamare in ballo in continuazione il consiglio di amministrazione che dovrebbe avere esclusivamente compiti di gestione?
Infine, l'istituzione dell'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR) è stata fatta con un decreto-legge del Ministro nel 2006, ossia si è ricorso ad un atto straordinario di urgenza per avviare l'Agenzia di valutazione. Ebbene, a novembre 2010, signor Ministro, non sono stati ancora nominati i membri del consiglio direttivo. Quando scatterà davvero questa sbandierata valutazione meritocratica? I decreti delegati potranno essere emanati solo se ci sarà copertura e sappiamo oggi che la copertura non c'è: si deve ammettere, dunque, che oggi la valutazione è tutta da venire.
Concludo questo capitolo del merito con un richiamo doloroso alla voce «diritto allo studio», che desta vivissime preoccupazioni. Le modifiche introdotte dalla Commissione bilancio di fatto cancellano le borse di studio. Esiste un Fondo nazionale del merito: è vero, è stato istituito, ma non ci sarà e lo sappiamo tutti, perché gli emendamenti introdotti di fatto cancellano i livelli essenziali delle prestazioni (LEP) e cancellano il diritto allo Pag. 20studio che, sappiamo, è sempre stato insufficiente, anche se sancito dall'articolo 34 della Costituzione.

PRESIDENTE. La invito a concludere, onorevole Capitanio Santolini.

LUISA CAPITANIO SANTOLINI. Tuttavia, ammesso che si arrivi a questo, non ci sono oltre che criteri generici a dei principi che dovrebbero essere stati sanciti, ma non ci sono.
Quello delle risorse è un capitolo estremamente doloroso che i colleghi hanno già richiamato. È chiaro che nel mese di giugno - e concludo, signor Presidente - i Governi dell'Unione europea hanno ribadito l'impegno a investire in un momento di crisi, approvando il programma della Commissione europea «Europa 2020», tuttavia il Governo italiano ha risposto che non è possibile aderire a questa proposta perché non ci sono i fondi. Come si sa, la depauperazione dei fondi è una cosa grave in quanto non si possono fare riforme a costo zero.
Per quanto riguarda il reclutamento e la carriera dei docenti, ne hanno già parlato i colleghi, ma io intendo sottolineare il fatto che i ricercatori in servizio sono stati particolarmente maltrattati e noi condividiamo tutte le loro preoccupazioni.

PRESIDENTE. La prego di concludere.

LUISA CAPITANIO SANTOLINI. Concludo, signor Presidente. Manca una meritocrazia vera, una valutazione che funzioni, atenei messi in condizione di fare programmazione, collaborazione tra pubblico e privato, certezza di finanziamenti, responsabilità condivise, carriera lineare per i nostri giovani: in sostanza, è un salto nel buio senza risorse. Non possiamo condividere questa riforma e voteremo contro (Applausi dei deputati dei gruppi Unione di Centro e Partito Democratico).
Signor Presidente, chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna di considerazioni integrative del mio intervento.

PRESIDENTE. Onorevole Capitanio Santolini, la Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti.
È iscritto a parlare l'onorevole Di Biagio. Ne ha facoltà.

ALDO DI BIAGIO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor Ministro, è opportuno ricordare che il disegno di legge di riforma dell'università ha incrociato una crisi finanziaria che ne ha rallentato il cammino, costringendo lei, Ministro - a cui va il mio rispetto, poiché la sua presenza questa mattina è volontà concreta di partecipazione - a rinviarne l'approvazione e ad esigere il rispetto degli impegni dell'Esecutivo sulla effettiva disponibilità delle risorse, sollevando non poche criticità da parte degli addetti ai lavori.
Sul versante della disponibilità delle risorse, ricordiamo che nei disegni di legge di stabilità e di bilancio, ora all'esame del Senato, sono stati individuati - grazie ad una iniziativa che, come gruppo, rivendichiamo - quegli stessi stanziamenti su cui si era arenata la discussione presso la Commissione cultura di questa Camera.
Non intendo formulare in questa sede alcun riferimento alla crisi politica della maggioranza, in vista del voto di fiducia del prossimo 14 dicembre. Il gruppo Futuro e Libertà per l'Italia, come ha ribadito il senatore Valditara, che del provvedimento è stato relatore a palazzo Madama, onora l'impegno all'approvazione del provvedimento, se l'intera maggioranza e l'Esecutivo onoreranno quello a completarne il disegno, affrontando i punti in precedenza accantonati per carenza di risorse.
Prima della correzione apportata nella legge di stabilità, il fondo per l'università, che era nel 2009 di circa 7,5 miliardi di euro e ammontava quest'anno a circa 7,2 miliardi di euro, sarebbe sceso nel 2011 a 6,1 miliardi di euro.
Un taglio di quasi un quinto delle risorse dell'università, sarebbe stato incompatibile, non solo con la riforma, ma anche con il corretto funzionamento delle istituzioni universitarie. Pag. 21
Con la legge di stabilità, se verrà approvata nella versione licenziata dalla Camera, si rimedia almeno parzialmente a quel sottofinanziamento, con un incremento del fondo ordinario di funzionamento di 800 milioni per il 2011 e di 500 milioni per il 2012, a cui si aggiungono 100 milioni per le borse di studio e 20 milioni per gli enti e gli istituti nazionali di ricerca.
In questa fase non occorre ribadire i punti di forza di una riforma necessaria per modificare il modello di governance dell'università italiana, ma correggere quelli di debolezza.
L'università che uscirebbe dalla riforma sarebbe di certo più efficiente e trasparente di quella che conosciamo sia rispetto all'amministrazione delle risorse finanziarie che al reclutamento delle risorse umane. La distinzione dei compiti di amministrazione professionale assegnati al consiglio di amministrazione dell'ateneo, da quelli di promozione e controllo delle attività scientifiche e didattiche assegnati al senato accademico renderà meno opachi i processi decisionali. Il sistema delle abilitazioni nazionali dei docenti renderà meno «catturabile» da parte di consorterie locali e nazionali il sistema dei concorsi.
Almeno due delle innovazioni introdotte dalla riforma necessitano però di un completamento, in assenza del quale, le stesse innovazioni rischierebbero di divenire punitive e controproducenti.
La trasformazione a tempo determinato dei contratti di ricerca e l'inserimento dei ricercatori più meritevoli nella cosiddetta tenure track, cioè nella progressione di carriera da ricercatore a professore nell'ateneo di appartenenza, comporta un'assunzione di responsabilità nei confronti degli attuali 26 mila ricercatori italiani sulle cui spalle oggi grava per la gran parte il peso della didattica, e che non possono e non devono essere «rottamati» e confinati nel limbo di un ruolo ad esaurimento.
Al Senato, si è già provveduto ad equiparare per i ricercatori a tempo determinato e di ruolo, in possesso dell'abilitazione nazionale, le procedure di chiamata da parte degli atenei. Ora occorre dotare le università delle risorse necessarie per il passaggio al ruolo di professore dei ricercatori che, pur conseguendo l'abilitazione, non potrebbero essere assunti nel nuovo ruolo perché le loro università, anche quelle più virtuose, non potrebbero economicamente permetterselo. È importante sottolineare a scanso di equivoci e strumentalizzazioni che sui ricercatori non proponiamo affatto una promozione ope legis; in primo luogo, infatti l'abilitazione che i ricercatori dovranno conseguire non è automatica ed è esattamente identica a quella dei ricercatori a tempo determinato e degli studiosi, che, senza essere ricercatori, concorrono per l'abilitazione nazionale al ruolo di associato; in secondo luogo, l'inquadramento previsto non avviene per chiamata diretta, ma per valutazione comparativa dei titoli.
C'è un secondo punto, su cui occorre fare chiarezza, evitando la demagogia e i polveroni. La trasformazione per professori e ricercatori degli scatti di stipendio biennali e automatici in un meccanismo triennale fondato su criteri meritocratici, di produttività didattica e scientifica, non può essere disapplicato, sulla base delle norme contenute nella manovra di luglio, come se fosse un incremento automatico.
Si è giustamente riformata la progressione di stipendio e di carriera del personale docente, privandola di qualunque automatismo. Ora non si può smentire la riforma con un blocco degli stipendi, non solo nelle componenti automatiche ma anche in quelle meritocratiche.
Non sarebbe solo ingiusto, ma anche contraddittorio con il senso di quanto abbiamo già deciso.
Per il gruppo di Futuro e Libertà per l'Italia, dunque, come abbiamo detto e ripetuto in Commissione, e come abbiamo ribadito in Aula, il finanziamento dell'assunzione di almeno un terzo degli attuali ricercatori nel ruolo di associati e lo sblocco del sistema di scatti meritocratici che la riforma delinea sono punti imprescindibili. Pag. 22
E come tali li tratteremo nella discussione parlamentare del provvedimento, che, speriamo sinceramente, giunga a buon fine, per dare delle soluzioni concrete e fattibili ad un comparto che attende da troppo tempo di essere riformato in maniera efficiente e pragmatica.
Dobbiamo capire se le priorità del Governo coincidono con le nostre, qualora questo si verificasse Futuro e Libertà per l'Italia non si tirerà indietro su questo provvedimento.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Goisis. Ne ha facoltà.

PAOLA GOISIS. Signor Presidente, signor Ministro, onorevoli colleghi, il disegno di legge in discussione riforma il reclutamento del personale e la governance delle università secondo criteri meritocratici e di trasparenza.
L'autonomia delle università deve essere coniugata con una forte responsabilità: responsabilità finanziaria, scientifica e didattica; le università sono autonome ma risponderanno delle loro azioni. Se saranno gestite male riceveranno meno finanziamenti - i soldi saranno dati solo in base alla qualità - e, quindi, arriveremo alla fine, finalmente, dei finanziamenti a pioggia. Ci sarà un codice etico per evitare incompatibilità e conflitti di interessi legati a parentele.
Molti dei punti qualificanti del disegno di legge rispecchiano le norme contenute anche in una nostra proposta di legge, e a questo proposito ringrazio il Ministro Gelmini che ha fatto tesoro degli spunti offerti da un componente di un movimento che nell'immaginario collettivo viene considerato incolto e folkloristico.
L'autonomia universitaria, però, è stata abusata, e ha condotto agli sprechi, al dissesto finanziario e alla bassa produttività del sistema universitario.
La legge Berlinguer n. 210 del 1998, che ha introdotto i concorsi locali, ha consentito alle università italiane di fare aumentare il numero dei professori universitari dai 29.000 circa censiti nel 1997 ai 38.928 censiti nel 2006.
La progressione di carriera costa all'università meno del reclutamento di nuovi ricercatori, con il risultato di avere oggi il doppio dei professori rispetto al numero dei ricercatori, ed un'età media dei docenti universitari, compresi i ricercatori, superiore a 51 anni.
L'abuso dell'autonomia universitaria ha condotto anche ad elezioni di rettori che assomigliano all'elezione di sindaci delle città, mentre il rettore dell'università dovrebbe essere un primus inter pares eletto dai professori universitari per guidare la didattica e la ricerca dell'università. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: 55 per cento di abbandoni studenteschi, 17 per cento di laureati nella fascia di età compresa tra i 25 e i 34 anni contro il 33 per cento della media OCSE, 1,7 per cento di studenti stranieri nelle università italiane contro il 20 per cento nelle università statunitensi, due ricercatori per mille lavoratori in Italia contro il 4 per cento in Francia, Germania e Gran Bretagna ed il 6 per cento in Giappone, Svezia e USA.
La riforma da lei proposta, signor Ministro, riprende le disposizioni previste dalla legge Moratti, la n. 230 del 2005, mettendo ad esaurimento il ruolo dei ricercatori prima del 2013, e istituendo l'abilitazione scientifica nazionale soltanto per i professori ordinari e gli associati. Ma l'Italia necessita, al contrario, di più ricercatori e di meno professori, e, soprattutto, occorre perseguire l'obiettivo di indebolire il potere esercitato dalla casta dei baroni delle università.
La carriera di un docente raramente dipende dalle capacità intrinseche della persona, anzi, arbitri della promozione sono sempre stati altri docenti in posizione gerarchica superiore, per i quali i parametri erano ben diversi dalla bravura: fedeltà, cointeressi professionali, appartenenze a determinate scuole, parentele incrociate, restituzione di pregressi favori, e così via, e il motore primigenio era, ed è, il do ut des.
È molto importante dare attuazione all'articolo 34 della Costituzione italiana che recita al terzo comma: «I capaci e Pag. 23meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi».
Occorre ridurre il numero degli atenei, tagliando quasi tutte le sedi distaccate e favorendo il modello della research university (didattica e ricerca devono eccellere in ogni università che si rispetti), nonché ridurre il numero dei corsi di laurea, tagliando quelli inutili.
Dal mio punto di vista sarebbe stato importante, altresì, mettere ad esaurimento gli associati, riunificando le due fasce dell'unico ruolo di professori universitari, posizione condivisa da chi ritiene che sia indispensabile trasformare la struttura cilindrica del corpo docente in una struttura piramidale, con una larga base di ricercatori ed un vertice di professori di eccellenza.
La necessità, avvertita nel corso degli anni anche da altre parti politiche, circa l'istituzione del ruolo unico del professore universitario, è motivata sia dall'unitarietà della funzione docente svolta dai docenti delle due fasce (ordinari e associati), sia dall'uguale garanzia di libertà didattica e di ricerca dei professori di ruolo (ordinari e associati), sia perché lo stato giuridico dei professori associati è disciplinato dalle norme relative ai professori ordinari, salvo che non sia diversamente disposto.
Mi consenta di citare le considerazioni del professor Pier Paolo Civalleri, professore ordinario e redattore di Università Notizie, organo ufficiale del sindacato che rappresenta fondamentalmente i professori ordinari. Il professor Civalleri scriveva che la riforma del 1980 ha introdotto la figura del professore associato. In quell'occasione, però, è mancato il coraggio di dire chiaramente se le due fasce corrispondono a due livelli di funzioni, nel qual caso se ne sarebbero dovuti precisare i compiti, o semplicemente, a due diversi livelli di capacità personali, nel qual caso si sarebbero dovuti prevedere meccanismi di promozione da un livello all'altro, quando tali capacità fossero state acquisite.
Non si è fatta né l'una cosa, né l'altra, e anzi si è perpetuato e ingigantito l'equivoco, creando un diffuso malessere nella categoria dei professori associati. Il disegno di legge governativo che stiamo discutendo sembra privilegiare il modello della teaching university, piuttosto che quello della research university, ed il modello spagnolo, piuttosto che quello franco-tedesco di università.
Infatti, la Spagna ha circa 11 mila ordinari e 40 mila associati e non ha ricercatori di ruolo. La Francia ha circa 20 mila ordinari e 37 mila ricercatori di ruolo, la Germania 37 mila ordinari e 131 mila ricercatori di ruolo e non ha associati.
Il testo di riforma universitaria, secondo noi, penalizza i professori associati perché, mettendo ad esaurimento il ruolo dei ricercatori, il disegno di legge trasforma, di fatto, il ruolo del professore associato nella fascia di ingresso nella carriera universitaria. Pertanto, la seconda fascia degli associati corrisponderà al ruolo degli attuali ricercatori o al ruolo degli assistenti di un tempo.
Oggi, al contrario, l'associato (quindi il professore di seconda fascia) ha lo stato giuridico dell'ordinario di prima fascia e l'unica sottile differenza tra le due fasce è che le cariche di rettore e preside sono riservate ai professori ordinari. Altri motivi di penalizzazione sono l'esclusione degli associati dalle commissioni di concorso per la seconda fascia e la differenziazione degli associati dagli ordinari riguardo all'età pensionabile. La legge Moratti (la legge n. 230 del 2005), al contrario, ha unificato l'età pensionabile delle due fasce a settant'anni.
Il mio auspicio era che arrivassimo ad un convincimento, ossia quello di abbracciare il sistema franco-tedesco.
La legislazione francese prevede che il passaggio di un professore universitario dalla seconda alla prima classe avvenga addirittura dopo nove anni di permanenza in seconda, in base al profilo professionale e scientifico giudicato dal consiglio scientifico di ateneo. La proposta di legge che volevamo discutere insieme prevedeva infatti l'inquadramento dei docenti in un unico ruolo nei vari segmenti della struttura Pag. 24formativa dell'università, con una progressione di carriera in sei classi da conseguire a seguito di valutazioni periodiche complessive dell'attività svolta, compresa la valutazione obbligatoria degli studenti, allo scopo di stimolare e di accrescere le motivazioni e la produttività dei professori.
Il trattamento economico dei professori è rimodulato e delineato sul modello tedesco, il quale prevede dei minimi fissati per legge lasciando poi alla contrattazione individuale la definizione in base al rendimento di ulteriori retribuzioni, premi e incentivi. Un sistema che porterebbe una serie di vantaggi economici.
L'articolo 5 del decreto del Presidente della Repubblica n. 382 del 1980 riconosceva che dopo nove anni di titolarità di insegnamento i professori associati confermati hanno diritto di entrare nella prima fascia dei professori ordinari. Lo stipendio di un professore associato confermato, dopo nove anni nel ruolo, è superiore a quello di un professore straordinario, pertanto il passaggio dalla seconda alla prima fascia non comporta un aumento di spesa ma, al contrario, un risparmio per l'amministrazione dello Stato.
Lo stipendio teorico di professore associato con nove anni di anzianità sarebbe di 52.444,86 euro annui e cioè 960,46 euro più di un professore ordinario appena assunto. Tale risparmio si avrebbe non solo all'atto della presa di servizio nel nuovo ruolo, ma continuerebbe negli anni successivi considerando il differenziale tra lo stipendio del professore associato che permanesse nel suo ruolo e quello che avrebbe se transitato nella prima fascia. Il sorpasso stipendiale si otterrebbe solo a partire dal diciottesimo anno di permanenza nel ruolo di professore ordinario, cosa improbabile considerata l'età media degli associati con 12 anni di anzianità (tre anni prima della conferma più nove anni dopo la conferma), come evidenziato in uno studio del CIPUR.
Un ulteriore risparmio per l'amministrazione dello Stato deriva dalla riduzione del numero di concorsi da espletare. I budget che si liberano, unitamente al differenziale di spesa risparmiato per ciascun associato che transiti nel ruolo unico, possono essere interamente destinati al reclutamento di giovani ricercatori anche al fine di attuare un rapido ricambio generazionale. Se si anticipa che nel disegno di legge Gelmini, che stiamo discutendo, la norma già introdotta con la legge Moratti che ha messo ad esaurimento il ruolo dei ricercatori a partire dal 1o ottobre 2013, con la sottile differenza esistente tra ordinari e associati, diventerebbe un abisso incolmabile perché gli associati sarebbero retrocessi dal secondo al primo livello della carriera universitaria andando a costituire la fascia di ingresso e di reclutamento dei ruoli universitari. Chi conosce l'università sa bene che i motivi per cui un professore associato confermato non diventa ordinario dopo nove anni di titolarità di insegnamento possono essere molteplici e quasi mai riconducibili al demerito didattico e scientifico: non c'è il budget disponibile (il passaggio dalla seconda alla prima fascia costa all'università 30 punti di budget), il maestro è andato in pensione o è morto (nei concorsi universitari il ruolo del maestro è fondamentale) oppure il candidato non fa parte della cordata giusta.
L'ultimo censimento dei docenti universitari italiani ha dato i seguenti risultati: ordinari 19.625, associati 18.733. Nei prossimi otto anni il 50 per cento dei docenti universitari italiani andrà in pensione, pertanto lo scorrimento degli associati con 12 anni di anzianità nel ruolo (nove più tre prima della conferma) nella prima fascia degli ordinari non determina un aumento dell'organico della prima fascia e libera risorse da destinare al reclutamento dei giovani. In merito alla questione dei ricercatori, se però consideriamo il numero di pubblicazioni scientifiche per ogni mille ricercatori otteniamo dei risultati estremamente interessanti.
Questi sono i dati: in Gran Bretagna 356, in Italia 346, in Svezia 344, la media in Europa è 269, in Francia 255, in Germania 227, in Finlandia 226 e negli Stati Uniti 204. Questo per dimostrare che l'Italia, Pag. 25essendo seconda dietro solo alla Gran Bretagna, ha pochi, ma buoni ricercatori. Numerosi sono i ricercatori italiani che emigrano all'estero perché in Italia la carriera è incerta. In Italia l'età media dei ricercatori universitari è 45 anni, mentre la massima creatività scientifica si raggiunge intorno ai 30-35 anni. In Francia esiste il ruolo del ricercatore che, arrivato all'apice della carriera, maître de recherche, può optare per l'attività didattica divenendo professore universitario.
Da parte nostra, c'è la convinzione che soltanto con proposte veramente innovative e senza condizionamenti legati all'esistente l'università potrà trasformarsi profondamente ed essere pronta ad affrontare le sfide che le si presentano soprattutto nel confronto con gli altri Paesi europei, per continuare ad essere un luogo di ricerca e di innovazione tecnologica, un ruolo fortemente compromesso da politiche miopi che non hanno visto nell'università un'occasione di investimento per il futuro.
Il ricercatore potrebbe scegliere se dedicarsi maggiormente all'attività didattica o alla ricerca. Ai ricercatori universitari va garantito il diritto di partecipazione agli organi di governo dei rispettivi atenei e delle strutture universitarie. Vanno assicurate le risorse per la partecipazione all'organizzazione e al coordinamento di gruppi di ricerca e delle strutture e alle procedure di programmazione della ricerca. I regolamenti dei singoli atenei individuano appositi organismi di rappresentanza elettiva dei ricercatori con compiti di consulenza scientifica e di proposta sulla programmazione della ricerca.
L'accesso a ciascun profilo del ruolo avviene esclusivamente previa abilitazione di idoneità e con concorso pubblico nazionale. Un aspetto importante riguarda la garanzia da parte degli enti pubblici di ricerca dell'autonomia dei ricercatori nello svolgimento dell'attività scientifica e di ricerca e il rispetto dei loro valori etici.
Un ulteriore aspetto importante è il rapporto tra i ricercatori universitari e i ricercatori di enti pubblici. Vanno previste, infatti, regole per la mobilità dei ricercatori in entrata e in uscita dalle università e dagli enti pubblici di ricerca in maniera che i ricercatori degli enti siano equiparati ai fini della mobilità ai ruoli universitari del corrispondente profilo di ricercatore in attuazione di quanto previsto nel secondo comma dell'articolo 63 del citato decreto del Presidente della Repubblica n. 382 del 1980. Si tratta di un tema di raccordo tra università ed enti pubblici di ricerca.
La questione relativa a come rendere praticabile la mobilità tra i due settori della ricerca pubblica (quello universitario e quello degli enti pubblici di ricerca) rappresenta in effetti un problema esclusivamente italiano. Occorre rendere più omogenei, quindi, i meccanismi di reclutamento dei ricercatori universitari.
Debbo però purtroppo convenire con il Ministro nell'affermare che il momento di austerità economica non ci consente di prevedere una carriera articolata nei meccanismi di progressione ed uno stato economico consono alla figura professionale del ricercatore.
In ogni caso, noi siamo legati al Governo e al Ministro e, quindi, la nostra posizione sarà sicuramente anche critica (ci riserviamo, infatti, di presentare anche degli ulteriori emendamenti in Assemblea), ma naturalmente sarà sicuramente leale (Applausi dei deputati dei gruppi Lega Nord Padania e Popolo della Libertà).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Mazzarella. Ne ha facoltà.

EUGENIO MAZZARELLA. Signor Presidente, la necessità di un intervento urgente ed efficace sull'università italiana per sovvenire ai problemi che certamente vive, ma anche per potenziarne quanto di buono - ed è tanto - in essa c'è, riconoscendone la funzione imprescindibile che svolge a vantaggio del Paese, era tra gli auspici condivisi di questa legislatura.
Ora siamo a discutere un provvedimento raffazzonato, che non regge ad un approfondimento serio e senza pregiudizi ideologici o politici, avviluppato, dopo tante improvvide fanfare celebrative sulla sua epocalità riformatrice, in criticità non Pag. 26componibili e difficilmente sostenibili per la stessa maggioranza come è emerso dal dibattito di merito in Commissione.
Se si vanno a leggere con onestà intellettuale i resoconti della Commissione cultura, si scoprirà, peraltro, che molti punti di dissenso con il testo proposto dal Governo non erano comuni solo all'opposizione. Certo, i gruppi di maggioranza non potevano smentire apertamente l'impianto complessivo del provvedimento e la retorica presentazione che il Governo ne ha fatto, ma poiché alla fine, in Commissione parlamentare, si è ragionato anche sulle cose - non solo sugli annunci o le intenzioni, più o meno velleitarie della proposta governativa -, su emendamenti fondamentali, tesi a una strategia di riduzione del danno, che il disegno di sede di legge Gelmini prospetta all'università italiana, si è potuto registrare in Commissione una sintonia ben più ampia di quella tra le opposizioni. E solo l'intervento diretto del Ministro Gelmini - che ha voluto e dovuto incontrare, durante il corso dei lavori, la sua maggioranza - e il ricorso al vincolo di maggioranza hanno portato al ritiro di molti emendamenti di maggioranza, del tutto sintonici con quelli delle opposizioni.
Al riguardo va riconosciuto a molti colleghi di maggioranza della Commissione che nell'analisi del testo ricevuto dal Senato ci sia certamente, stata l'urgenza di approvare la riforma universitaria, ma non di meno l'urgenza dei dubbi sulle sue criticità e sui suoi effetti sugli attuali assetti degli atenei italiani.
Non voglio qui riprendere, per biasimarla, l'enfasi che questo Ministero più in pubblico, invero, che in Commissione - dove anche il pudore limita la propaganda - ha posto nel delegittimare l'università italiana, per legittimarne agli occhi dell'opinione pubblica un sostanziale definanziamento, dell'ordine di un miliardo e mezzo dall'inizio della legislatura, ad un sistema già sottofinanziato e ai limiti del tracollo.
Voglio solo ricordare che l'ironia non è mancata sia nella discussione in Commissione, che nel dibattito pubblico su questo tema cruciale del sostegno dello Stato al sistema dell'università e della ricerca. Autorevoli esponenti di Confindustria non hanno mancato di farci notare che il sistema Paese doveva avviare politiche di convergenza con i Paesi europei più avanzati, Francia e Germania, e la riforma dell'università, da approvare - così come confezionata - senza indugio, era un elemento essenziale di questa strategia di convergenza. All'obiezione se una strategia di convergenza di tal fatta potesse coniugarsi con una tattica di divergenza sulle risorse appostate, sui punti PIL destinati all'università, giacché ci allontaniamo ulteriormente con le decisioni del Governo da quanto fanno i Paesi più avanzati, stiamo ancora attendendo una risposta - e con noi, anche il Paese reale che vive nelle università: studenti, docenti, ricercatori e precari della ricerca. Questo spiega e giustifica la durezza della protesta in corso da mesi nelle università italiane e l'ansia sul futuro che l'attraversa.
Mi spiace dire, per la mia personale provenienza accademica, che, a queste ansie delle università italiane sul proprio futuro, poco sollievo è venuto dalle prese di posizione della CRUI, che avrebbe potuto - e a mio avviso dovuto - ben diversamente incidere per sanare dubbi e criticità sull'iter della riforma.
Nessuno ignora lo scambio tra l'adesione all'approvazione della riforma - così come partorita dagli uffici ministeriali - e l'integrazione del previamente depauperato Fondo di finanziamento ordinario per tirare avanti, come arma di pressione cui sono stati sottoposti i rettori. Questo, in parte, li scusa, ma non garantisce sulla loro lungimiranza.
Dico questo, in quest'Aula, perché siano chiari - a futura memoria - le responsabilità o i meriti della salvezza o del dissesto degli atenei italiani, che verranno da questa riforma. Il tempo è galantuomo, siamo qui.
Nessuno nega - e riprendo il filo del mio discorso - l'urgenza di un intervento forte sull'università, ma è inutile nascondere la testa sotto la sabbia davanti a dubbi che minano alla base l'efficacia stessa del provvedimento, anche al di là Pag. 27del dissenso sul suo impianto generale che tanti nutrono, e con essi il Partito Democratico. Un supplemento di istruttoria in Aula, richiesto dal Partito Democratico non in contemporanea con una crisi di Governo, di fatto aperta, tenuto conto che una riforma di tale impegno era stata discussa in soli tre giorni in Commissione - fatto che non ha precedenti - non era inteso a boicottarne l'esame parlamentare, ma ad avere il tempo per migliorare almeno qualche aspetto di un intervento legislativo che resta non condiviso e non condivisibile e magari la testa sulla riforma dell'università, il cui scopo non deve essere soltanto quello di vendere la riforma stessa, in una possibile campagna elettorale, come una delle poche cose fatte, invero, dal Governo del fare.
Ad ogni modo essere riusciti - ed è merito del Partito Democratico e delle opposizioni - almeno a discutere tale disegno di legge dopo la legge di bilancio ha consentito di chiarire al Paese che le millantate risorse che avrebbero dovuto sostenere questa riforma non ci sono e quello che è stato appostato - ristorando solo in parte i tagli precedentemente apportati al Fondo di finanziamento ordinario - basterà a stento a garantire il pagamento degli stipendi e di qualche spesa fissa in essere.
Per gli obiettivi della riforma non c'è nulla, e la locuzione più ricorrente del testo, non a caso, è «senza nuovi e aggiuntivi oneri per la finanza pubblica».
Segnalo le risibili modalità con cui è scomparso dal testo, con un tratto di penna, l'articolo 5-bis, con cui pubblicamente in conferenza stampa il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, sulla base della garanzia del collega Ministro dell'economia e delle finanze Tremonti, annunciava un piano per ricercatori di ruolo e per il merito accademico, che doveva in sei anni garantire risorse per novemila posti di associato e qualche tutela stipendiale per le fasce più deboli, in termini di remunerazione, della docenza.
La garanzia è durata quindici giorni, l'articolo è sparito, e nessuno ne ha tratto le conseguenze politiche che in termini di dignità l'accaduto richiedeva a tutela dell'università e quanto meno dell'onorabilità della parola data a chi giustamente aveva condotto una battaglia nelle università per le proprie legittime aspettative.
Una provvidenza, questa del previsto e cassato articolo 5-bis, che quest'Aula dovrebbe avere la responsabilità di ripristinare e magari integrare, cosa che proponiamo con un nostro emendamento al testo che va al voto, tenendo conto del fatto che i novemila posti di associato promessi in sei anni, e spariti, sono già ben poca cosa rispetto ad attese legittime, giacché gli aspiranti potenziali sono ventisettemila ricercatori di ruolo ed un esercito sconfinato di precari della ricerca con un'anzianità che oscilla ormai tra dieci e quindici anni e che spesso è rappresentato ricercatori sperimentati e di gran valore.
Un approccio di questo tipo del Governo riduce la riforma a mera riforma ordinamentale, senza costi, o meglio li pretende, perché anche questa è una pericolosa illusione: anche una riforma ordinamentale seria costa: valga per tutti gli altri aspetti il richiamo al sistema di valutazione su cui tutto si regge per il controllo di efficacia dell'esercizio degli atenei di una autonomia responsabilizzata, per premiarne il merito e penalizzarne il demerito. Neanche su questo ci sono risorse.
Tutto questo mette in ombra, e sostanzialmente depotenzia, anche qualche aspetto positivo della riforma: la razionalizzazione dell'offerta didattica, già peraltro avviata dall'allora Ministro per l'università e la ricerca Mussi; il depotenziamento del localismo delle scelte dei docenti grazie all'abilitazione nazionale aperta la cui qualità andrà peraltro monitorata per non farne una foglia di fico a scelte che comunque resteranno locali.
Condividendo la necessità per l'università di una riforma urgente, avere una idea diversa di quale riforma realizzare significa sabotare un bisogno del Paese, come pure si è dovuto sentir scrivere sulla grande stampa, che spesso ha condannato in contumacia le posizioni Pag. 28critiche al disegno di legge Gelmini, senza neanche far sapere spesso ai lettori cosa si condannava.
Ora, nel merito, questa annunciata riforma epocale rappresenta, a nostro avviso, un pericoloso attacco al futuro dell'università italiana e un grave passo falso per il suo avvenire. Il millantato rilancio dell'università italiana, che questa riforma doveva favorire, a conti fatti si risolve in una ristrutturazione al ribasso dell'intero sistema italiano dell'università e della ricerca; ci sono solo meno risorse, meno organico docente, meno tutto, e nessuna vera idea di università, se non quella di un disimpegno significativo dal sostegno pubblico nell'università. Alla meglio il progetto del Governo è trasformare una Mercedes asmatica, l'università italiana, di cui si ritiene di non poter pagare i costi di riparazione, e che non ci possiamo più permettere, in una Smart con cui affrontare il confronto con i Paesi nostri competitori.
Questa ristrutturazione al ribasso non solo punta a ridurre l'incidenza sul prodotto interno lordo del comparto università e ricerca, in assoluta divergenza con quanto sono impegnati a fare i Paesi più avanzati nostri competitori sullo scenario internazionale, ma tende ad aggravare consapevolmente l'asimmetria e le debolezze del sistema: anziché implementare le situazioni di eccellenza nel quadro di un innalzamento generale della qualità media degli atenei, punta a sganciarne alcuni, quelli che saranno valutati come eccellenti, con deroga alla governance, e con risorse contrattate caso per caso con il Ministero, e questo in un regime di autonomia sorvegliata proposta a tutti gli altri, per i quali è né più né meno che una autonomia dell'abbandono finanziario da parte dello Stato e insieme dell'occhiuto e disfunzionale controllo sulla loro autonomia di programmazione competitiva. Un modo, in definitiva, di mettere fuorigioco gran parte del sistema universitario, per un default di regole e risorse che rendano possibile competere, in un quadro di equità, in base a chiari criteri di merito, valutazione e responsabilità. Siamo al solito e retrivo scenario di poche università di serie A e una rete di atenei che viene fatta scivolare consapevolmente in serie B.
Si spiega così il clamoroso venir meno dell'articolato legislativo ai principi enunciati come direttive della riforma nelle linee guida che l'avevano preceduta e nello stesso articolo 1 del testo: autonomia, merito, valutazione e responsabilità, compensato da una plateale deroga a quei pochi atenei, prevalentemente a indirizzo tecnologico e biomedico, e collocati nell'area forte del Paese, che per la loro contiguità ad esigenze di mercato si ritiene produttivi e come tali esaurienti la missione culturale, di ricerca e di trasmissione del sapere dell'università.
A ciò è funzionale un drastico ridisegno degli organici non solo al ribasso, ma in senso apicale: l'idea di pochi ordinari, più tanti associati (di fatto equivalenti ai vecchi assistenti ordinari), più i ricercatori precarizzati nel tempo determinato (i vecchi assistenti incaricati negli anni Settanta) e speranzosi di diventare associati assistenti. È il progetto sotteso al disegno di legge Gelmini con l'illusione che questo dia efficienza ad un sistema umiliato nel suo capitale umano, mentre, in deroga, gli atenei eccellenti potranno andare a scegliersi anche il rettore fuori dai loro ruoli, se il designando magari assicuri profili di mediatore con interessi forti, industriali e/o politici.
Ma al di là di questa inemendabile visione dell'università italiana - più che un suo rilancio, un sottosviluppo programmato, e una programmatica divergenza da quanto di meglio stanno facendo altri Paesi europei - restando all'impianto della riforma proposta, c'è in essa un insostenibile ricorso alla delega su materie decisive e caratterizzanti, un'abnorme implementazione normativa di ostacolo a qualsiasi gestione agile ed efficace dell'autonomia in un quadro di assunzione dei vincoli responsabilizzanti di una valutazione terza del sistema, l'assoluta assenza di concreti impegni per il merito e il diritto allo studio, una pericolosa contraddizione, per assenza di risorse, nel modello proposto di selezione Pag. 29dei docenti tra chi aspira ad entrare nei ruoli dell'università e chi già vi opera.
Il modello di selezione dei docenti del disegno di legge Gelmini, innestato senza risorse sugli attuali organici, mette in contraddizione gli impegni per i nuovi docenti e le aspettative di chi lo è già. Con le poche risorse a disposizione degli atenei si dovrà scegliere se finanziare i contratti di ingresso a tempo determinato, perché non siano precariato senza sbocco, ovvero le legittime aspettative di carriera degli associati già in ruolo che si abilitino. A prescindere dall'opinabilità della certezza dello sbocco in ruolo della tenure track, non è equo né sensato credere che solo i docenti selezionati ex novo saranno meritevoli, mentre i docenti già nei ruoli debbano la loro carriera a selezioni immeritevoli e siano da lasciare su binari morti.
Da questa criticità si esce prevedendo, per un congruo periodo transitorio, un piano di finanziamento straordinario sia per la tenure track che per le chiamate nei ruoli degli atenei di ricercatori e associati che conseguano l'abilitazione nazionale. Si offrirebbe una possibilità effettiva di carriera a ricercatori e associati in servizio solo in base a una valutazione di merito standard, con risorse ad hoc, non gravanti sui bilanci di ateneo e non incidenti sulla programmazione triennale del reclutamento. Sarebbe premiato, se meritevole, il reclutamento pregresso degli atenei e si libererebbero risorse per la programmazione del reclutamento e per la tenure track. Si stempererebbe molto la contrapposizione tra personale in ruolo e ingressi conseguenti alle nuove norme. Così pure, per rendere effettiva la mobilità dei docenti, sarebbe necessario un congruo finanziamento della mobilità tra atenei e un ingresso nel sistema di ricercatori e docenti in posizioni equiparabili all'estero.
I nove mila posti di associati in sei anni, un'opportunità destinata a 27 mila ricercatori di ruolo e a decine di migliaia di validi ricercatori precari, operosi nell'università italiana da dieci e più anni in figure tra le più varie (censibili nell'elenco di 93 mila contratti a vario titolo in essere nell'università italiana), sono saltati.

PRESIDENTE. La prego di concludere.

EUGENIO MAZZARELLA. Ed è vero sì che dei potenziali beneficiari se ne sarebbe salvato appena uno su dieci: una decimazione al contrario.
Né si è voluto, nel testo arrivato in Aula, allargare i requisiti di ingresso al secondo contratto di tenure - quello che dovrebbe portare al ruolo - ai precari presenti nel sistema universitario, che lavorano in grigio e in nero e che tengono in piedi le nostre università. È un modo per dire che si saltano due generazioni di ricercatori, di «tagliar fuori», per disegnare su questa infamia generazionale un'astratta ripartenza del sistema, come se sulla pelle delle persone si potesse ripartire da zero.
In Aula invito a porvi riparo. A chi crede nella sussidiarietà, segnalo che la prima sussidiarietà di cui ha bisogno questo Paese è per quelle generazioni di 30-35 anni, che non ce l'hanno fatta ancora, e non per loro colpa. Non c'è in questo provvedimento, per questi lavoratori intellettuali, da parte dello Stato, niente che li riguardi, se non un distogliere lo sguardo.

PRESIDENTE. Deve concludere, onorevole Mazzarella.

EUGENIO MAZZARELLA. Per questo chiediamo al Governo, ascoltando quest'Aula e recependone qualche estesa e condivisa preoccupazione, che si oggettiva negli emendamenti che proponiamo, non di metterci in condizioni di aderire ad una riforma, che, così com'è, è irricevibile, ma di ritirare la riforma di modo che l'università sia almeno in grado di sopravvivere ai suoi errori in attesa di tempi migliori per l'università italiana.
Signor Presidente, chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna del testo integrale del mio intervento.

Pag. 30

PRESIDENTE. Onorevole Mazzarella, la Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti.
È iscritta a parlare l'onorevole Aprea. Ne ha facoltà.

VALENTINA APREA. Signor Presidente, Ministro Gelmini, colleghe e colleghi, come viene ormai riconosciuto da più parti e soprattutto come è apparso chiaro dal dibattito politico fin qui svolto e anche dalle audizioni che la Commissione Cultura ha promosso nell'iter della riforma, il sistema universitario italiano si trova ad affrontare compiti nuovi ma inediti, tipici dell'economia della conoscenza, in un momento difficile, caratterizzato dalla transizione dal precedente sistema di governance centralizzato a una nuova configurazione fondata sulla capacità di competere liberamente per la qualità. Allora per questo è urgente accompagnare tale processo e rafforzarlo, sia mediante un affinamento della governance delle università, sia per quel che riguarda la valutazione di qualità, che attraverso l'eliminazione di tutte quelle norme e vincoli troppo restrittivi al fine di rendere possibile per le università che lo vorranno maggiore autonomia e maggiore responsabilità. Quindi - lo dico soprattutto ai colleghi dell'opposizione - abbiamo bisogno di norme e regole ordinamentali prima ancora che risorse. Questa è l'urgenza, oggi, dell'università. Confondere i piani significa non fare né l'uno, né l'altro. Tra l'altro - e i colleghi che mi hanno preceduto lo sanno molto bene - non possiamo ignorare che negli ultimi anni la collocazione delle università italiane ed europee nel ranking internazionale è andata progressivamente abbassandosi, e d'altra parte il sistema universitario italiano si trova oggi di fronte a molte sfide contemporanee e complesse. Ne cito solo due, Presidente, perché sono le più chiare e quelle con cui facciamo i conti tutti i giorni: gestire i grandi numeri legati alla crescente domanda di istruzione postsecondaria, e quindi riqualificarsi sul piano della formazione e della ricerca di eccellenza, ma anche attrarre studenti e docenti internazionali, se non vogliamo, appunto, rischiare l'emarginazione.
Per stare al passo, allora, con il cambiamento ed evitare il rischio della marginalizzazione le università devono muoversi dinamicamente, con il senso dell'urgenza che la situazione richiede, e con un forte slancio ideale, trasformandosi in organizzazioni capaci di misurarsi a livello internazionale. Questo è il primo obiettivo. Ecco perché abbiamo sostenuto con convinzione e con soddisfazione la proposta del Governo Berlusconi, del Ministro Gelmini, che ha individuato modelli e strumenti di natura ordinamentale - lo ripeto ancora una volta - più adeguati alle sfide odierne. Di fronte a questi problemi e a queste scelte del Governo noi siamo oggi qui a discutere e resi responsabili di dare un disco verde o di bloccare ancora una volta le università con difficoltà, certo, di natura finanziaria ma prima ancora di natura ordinamentale.
Vorrei richiamare velocemente i punti che ritengo maggiormente qualificanti di questa riforma: la responsabilizzazione degli atenei dal punto di vista gestionale, scientifico e didattico; una governance snella ed efficace, con chiara distinzione dei compiti tra senato accademico e consiglio di amministrazione, a cui vengono attribuiti compiti gestionali; il CdA diventa il vero organo di governo dell'università al quale è riconosciuta anche competenza disciplinare, fino ad ora competenza esclusiva del CUN; reclutamento in linea con la migliore prassi internazionale, reclutamento con tempi certi e coperture finanziarie certe (la legge di sviluppo sicuramente ha introdotto dei fatti nuovi da questo punto di vista rispetto al momento in cui la legge è stata approvata al Senato, e dobbiamo ringraziare il ministro Gelmini in primis, tutto il Governo e certamente la Camera dei deputati che già ha approvato questi stanziamenti, e ovviamente le forze politiche che hanno sostenuto questi stanziamenti, ma qualcosa è certamente cambiato, quindi è possibile un reclutamento in linea con la migliore prassi internazionale, guardando a tempi certi Pag. 31e a coperture finanziarie certe); nuovo ruolo dei dipartimenti, cui sono affidati gran parte dei poteri delle facoltà; possibilità di scegliere il presidente del CdA anche tra i rappresentanti esterni; una nuova modalità di reclutamento di giovani ricercatori per accedere in modo trasparente e meritocratico alla docenza; la valutazione del merito; il ringiovanimento del corpo docente; il contenimento del numero dei mandati per i rettori (questa Camera addirittura propone un unico mandato della durata di sei anni).
Per quanta riguarda le modifiche che questa Camera ha apportato al provvedimento in esame, rinvio alla relazione dettagliata presentata dalla relatrice per la maggioranza, onorevole Frassinetti.
Signor Presidente, mi piace concludere richiamando un aspetto che è stato approvato in Commissione su mia proposta, ossia l'istituzione di un Comitato nazionale dei garanti per la ricerca (CNGR), prevista dall'articolo 18-bis del disegno di legge in discussione.
Di che cosa si tratta? Si tratta di uno strumento, il Comitato nazionale dei garanti per la ricerca appunto, di cui viene unanimemente segnalata l'urgenza e l'opportunità, mirato a migliorare la qualità e l'impatto dall'utilizzo delle risorse attualmente dedicate alla ricerca scientifica di base, in particolare quella svolta nelle università e negli enti pubblici di ricerca.
Questo Comitato garantirà l'omogenea e corretta applicazione dei criteri stabiliti al comma 1 dell'articolo citato, sarà composto da sette membri, studiosi di fama internazionale, e andrà a sostituire sia l'attuale Commissione di garanzia per il Fondo per gli investimenti della ricerca di base (FIRB), sia la Commissione di garanzia prevista per i Programmi di ricerca di interesse nazionale (PRIN). Le citate commissioni verranno contestualmente soppresse, producendo sia una maggiore efficacia, sia un risparmio complessivo, considerando, tra l'altro, che da un complesso di ventiquattro membri si passa a sette.
Insomma, uno strumento, quello del CNGR, snello, privo di costi addizionali di struttura, che si avvale delle risorse già disponibili presso il MIUR, e in linea con le migliori metodologie internazionali, diretto a garantire il più efficace utilizzo delle risorse disponibili, nel contesto della competizione internazionale, con l'introduzione di un livello e di una qualità, appunto, internazionali. Si produrranno così le migliori condizioni per un forte aumento nell'efficacia e nella qualità dell'uso delle risorse esistenti, sia finanziarie che umane e strumentali, permettendo con esse di mantenere ed aumentare la competitività del nostro Paese in molti settori anche strategici, attraendo ulteriori risorse europee ed internazionali. Questo, soprattutto, nelle fasi di ricerca precompetitiva, attualmente finanziate attraverso i Fondi disponibili per la ricerca di base nel bilancio del MIUR.
Peraltro, l'unificazione della gestione delle procedure di valutazione in un meccanismo unico di questa qualità e livello permetterà di evitare l'attuale dispersione di risorse su una molteplicità di strumenti, realizzando una maggiore efficacia ed un ulteriore risparmio di costi, altrimenti connessi al funzionamento di comitati diversi e alla moltiplicazione delle pratiche.
Vede, signor Presidente, il richiamo che ho fatto al Comitato nazionale dei garanti per la ricerca è servito anche per dimostrare come abbiamo bisogno di modifiche ordinamentali e non solo, e non tanto, di ricerche destinate a nuove assunzioni o di risorse tout court per l'università, che servono sì, ma non è questo lo strumento unico necessario. Noi confermiamo al Ministro che siamo convinti della strada che lei ha scelto e per questo le diciamo «Vada avanti Ministro Gelmini!» perché queste norme - tra l'altro modificate sia al Senato, rispetto alla proposta originaria, che alla Camera - sono necessarie ed urgenti almeno quanto altrettante risorse.
Ecco perché il Popolo della Libertà in modo particolare, ma anche molti settori della maggioranza - se non tutti - la sosterranno, Ministro Gelmini, e lavoreranno perché si arrivi presto all'approvazione definitiva del disegno di legge in esame, perché siamo convinti di questo passaggio. Pag. 32Grazie, Ministro (Applausi dei deputati dei gruppi Popolo della Libertà e Lega Nord Padania).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Binetti. Ne ha facoltà.

PAOLA BINETTI. Signor Presidente, signor Ministro, onorevoli colleghi, ho ascoltato con molta attenzione quello che hanno detto gli altri colleghi questa mattina in Aula, in modo particolare quello che ha detto in questo momento l'onorevole Aprea, che vanta anche un'esperienza specifica nel settore.
Però, proprio partendo dalle stesse premesse che ha fatto lei, ossia la necessità di un approccio di natura ordinamentale, le conclusioni che raggiungerò sono, perlomeno parzialmente, diverse.
Anche a me interessa molto il tema dell'architettura della governance nelle nostre università. Anche perché credo che la sfida democratica oggi si gioca tutta tra una democrazia di tipo rappresentativo e una democrazia di tipo deliberativo, cioè la possibilità di partecipare il più possibile negli organismi che sono deputati a prendere decisioni, ma a volte succede che quanto più ampia è questa partecipazione tanto più difficile risulta successivamente prendere decisioni.
D'altra parte, credo che da questo punto di vista l'università, anche come modello di vita democratica, possa avere una sua funzione straordinaria nel parlare al Paese, anche per la formazione di quella classe dirigente che poi sarà destinata a compiti di vero presidio di quello che è il bene comune nel nostro Paese. Il tema che stiamo cercando in questo momento di affrontare, perlomeno da parte mia, e l'interesse che io pongo nella riflessione sul sistema della governance, anche come previsto da questo disegno di legge, nasce sostanzialmente da tre argomenti. Il primo è che anche la formazione ha bisogno di un sistema di governance chiaro e lineare. Gli studenti devono sapere, ad esempio, a chi competono le responsabilità su ciò che loro dovranno fare; devono avere un punto di riferimento chiaro per sapere che cosa compete al consiglio di amministrazione e quindi per quanto attiene a tutta l'organizzazione dei servizi, cosa compete invece sul piano dell'organizzazione e della formazione didattica e cosa, a sua volta, competerà successivamente negli sviluppi di carriera che passano per l'attività di ricerca.
D'altra parte, anche la ricerca richiede intelligenze dedicate e per averle dedicate al compito che viene proposto in tutti i diversi settori scientifico-disciplinari è anche evidente che il ricercatore debba essere sollevato da una serie di disagi e di difficoltà. Troppe energie dei nostri ricercatori vengono assorbite da un sistema confuso o da quella che, se si vuole, va sotto lo slogan che dice che la prima attività di ricerca del ricercatore è ricercare i fondi per la propria ricerca, sapendo che in questo modo due terzi delle sue energie però verranno dedicate ad altro, verranno dedicate alla complessa trama dei rapporti burocratici, istituzionali e non alla concreta ed efficace capacità di concentrarsi sugli obiettivi della loro ricerca.
D'altra parte, un altro motivo importante è che l'università rappresenta in alcune regioni in un certo senso l'azienda più grande di cui quella regione dispone: Il numero maggiore di impiegati, il numero maggiore di contatti, il numero maggiore anche di gradi di sviluppo e di innovazione, sia tecnologica che organizzativa e metodologica. Quindi, ragionare sull'architettura della governance dell'università significa poter garantire migliori livelli di formazione, migliori livelli di ricerca, migliori livelli anche della gestione economica.
Proprio per questo però credo che avremmo dovuto avere una maggiore chiarezza sul fatto che questa riforma sarebbe stata realizzata in un contesto in cui le risorse sono ampiamente limitate, ampiamente ridotte. Al di là dell'argomento per il quale potremmo dire che ci troviamo in un momento di crisi, che va ricordato e sottolineato, dobbiamo ricordare che la stragrande maggioranza dei Paesi europei su tutto ha tagliato tranne che sul piano Pag. 33della ricerca e sul piano della formazione. Infatti, la ricerca e la formazione rappresentano, in una società della conoscenza, il vero volano dell'innovazione.
Detto questo, a me pare che anche volendosi concentrare su quegli aspetti della riforma che non avrebbero richiesto necessariamente un eccesso di investimento economico, ci troviamo di fronte al fatto che si è creato un sistema poliarchico in cui i nodi di intersezione e quindi in qualche modo i nodi di conflittualità potenziale sono molti e mi chiedo se qualcuno abbia fatto una simulazione, se qualcuno ha messo in ordine tutti questi organismi che sono venuti fuori immaginando quali potrebbero essere i percorsi e gli itinerari su qualunque tipo di decisione da prendere e se ci si è resi conto fino a dove si spinge la confusione che si può generare.
Mi soffermo su alcuni di questi. La competenza del Senato accademico, la competenza del consiglio di amministrazione, il ruolo giocato tra Senato accademico e consiglio di amministrazione, ad esempio, dalla figura del direttore generale. Quest'ultimo partecipa alle sessioni del consiglio di amministrazione e non ha diritto di voto. Il direttore generale viene nominato chiaramente su segnalazione del rettore perché è persona anche di fiducia del rettore, ma c'è quello sfasamento dei tempi che risulta francamente ambiguo. Il rettore resta in carica sei anni, il direttore generale resta in carica quattro anni, quattro anni del consiglio di amministrazione possono essere ripetuti, che vuol dire che da quattro può andare a otto, ma è evidente che c'è un'interfaccia con il rettore successivo, che potrebbe chiaramente far venire meno sia il rapporto di fiducia sia semplicemente la dinamica contrattuale.
Ma vi sono anche altri aspetti che a me sembrano interessanti da mettere in evidenza, come la ricchezza di funzioni che vengono assegnate all'organo deliberante del dipartimento. La parola «deliberante» è unita soltanto a questa struttura che riguarda i dipartimenti. Oggi si discute tanto in università se in un certo senso la cultura, gli obiettivi e lo sviluppo proprio dell'università debbano stare di più nelle facoltà, quindi in capo ai presidi di facoltà, oppure debbano stare di più nei dipartimenti, quindi, in questo caso, in capo all'organo deliberante dei dipartimenti, ma è certo che le competenze che toccano all'organo deliberante dei dipartimenti possono molto facilmente entrare in rotta di collisione con quelle che possono essere delle decisioni solo successive o che potrebbero non arrivare nemmeno necessariamente nel comitato accademico, posto che, trattandosi di un organo deliberante, la decisione è stata già presa e non si vede come potrebbe essere invalidata.
La dialettica quindi che ancora oggi caratterizza il rapporto fra Senato accademico e consiglio dei dipartimenti, qui in questo caso chiamato organo deliberante dei dipartimenti, non è risolta dal disegno di legge in esame e questo è un elemento di frizione stabile, costante e continua, anche perché poi mentre i consigli di facoltà, e quindi da questo di punto di vista i presidi, non gestiscono materialmente risorse (si dice che gestiscano sostanzialmente concorsi), in realtà chi gestisce veramente le risorse economiche sono proprio i consigli dei dipartimenti, perché è lì, nel dipartimento, che risiede anche l'impatto «economico» che proviene dai progetti di ricerca e proviene da qui una dinamica anche economicamente pesante.
Vi sono poi le competenze che sono tra il Senato accademico, l'organo deliberante dei dipartimenti e il nucleo di valutazione: stiamo parlando di strutture interne ai singoli atenei, che quando si interfacciano sul tema della valutazione possono francamente trovare molte aree di frizione. Infatti, il compito della valutazione è del Senato accademico (ci mancherebbe altro che non fosse così), il compito della valutazione è del dipartimento (ci mancherebbe altro che non fosse così), il compito della valutazione è perfino del consiglio di amministrazione (e sotto certi aspetti si può perfettamente capire anche questo), ma il nucleo di valutazione assorbe in prima persona questo tipo di obiettivo. Pag. 34Dunque, come si snodano queste cose? Il disegno di legge in esame, che dovrebbe fare chiarezza sui modelli organizzativi, per cercare di consegnare l'università al livello più basso possibile di conflittualità, per poterlo recuperare ai livelli più alti possibili di efficacia e di efficienza, non dà risposte su questo e a mio avviso apre la strada sicuramente a contraddizioni interne e sicuramente a piccoli potentati, perché sul tema della valutazione successivamente si impostano le condizioni di merito, le condizioni di accessi concorsuali, nonché le condizioni anche di accesso a quel fondo che è stato istituito, dedicato al merito dei docenti.
È vero quello che diceva la collega Aprea, che adesso ho colto essere la grande ispiratrice di questo Comitato nazionale dei garanti della ricerca, che in qualche modo assorbe precedenti istituzioni, ma anche in questo caso il modello va ad interfacciarsi, anche non poco e non con mano leggera, con quello che riguarda le competenze degli organi deliberanti dei dipartimenti.

PRESIDENTE. La invito a concludere, onorevole Binetti.

PAOLA BINETTI. Due parole ancora, signor Presidente: volevo sottolineare due temi che mi stanno particolarmente a cuore. Il disegno di legge in esame più volte fa riferimento a questo tema: corsi di laurea da aprire o corsi di laurea da chiudere. Quelli tra noi che sono un po' più vecchi e che hanno vissuto la legge n. 509 del 1999, con l'autonomia universitaria, che istituiva in un certo senso la laurea triennale e quindi successivamente la laurea magistrale, hanno assistito alla proliferazione di corsi di laurea nati inizialmente per garantire l'accesso al mondo del lavoro. Infatti molti corsi di laurea in quel momento sembravano orientati a garantire un percorso più rapido per accedere al mondo del lavoro, ma vediamo in questo momento che ciò non accade.

PRESIDENTE. Deve concludere onorevole.

PAOLA BINETTI. Signor Presidente, mi faccia solo dire una cosa che mi sta particolarmente a cuore: in base a che cosa apriamo e chiudiamo? In base al numero degli iscritti? In base alla possibilità di collocamento professionale? In base ad una tradizione culturale?
In Italia, vi sono corsi di laurea che vantano una tradizione culturale antichissima e di estremo prestigio a livello mondiale. Cosa facciamo di essi? Li chiudiamo solo perché non vi sono iscritti, oppure li conserviamo per quel lavoro strumentale che hanno svolto nel consegnarci una tradizione ed una cultura?
Ancora una volta, sui criteri di valutazione in ordine all'apertura o alla chiusura dei corsi di laurea vi saranno molti contrasti e molte possibili difficoltà (Applausi dei deputati del gruppo Unione di Centro).

PRESIDENTE. Grazie, onorevole Binetti.
È iscritto a parlare l'onorevole Bachelet. Ne ha facoltà.

GIOVANNI BATTISTA BACHELET. Signor Presidente, signor Ministro, cari colleghi, è difficile aggiungere qualcosa dopo le molte importanti osservazioni che abbiamo ascoltato questa mattina e, in particolare, in ordine alle mie opinioni e a quelle del mio partito, dopo quanto detto dal mio collega, il professor Nicolais, nella relazione di minoranza.
Vorrei ringraziare il capogruppo del Partito Democratico in Commissione, Manuela Ghizzoni - anche lei è una collega universitaria - per avermi inserito, per la prima volta, nel Comitato dei nove: non lo avevo mai fatto in vita mia, ma spero anche che sia l'ultima volta, perché, pur rispettando il Ministro, ciò vorrebbe dire che, magari, andiamo a casa e che si cambia maggioranza parlamentare.
Vorrei ringraziare, inoltre, chi nel nostro partito ha curato e portato avanti le nostre idee: Maria Chiara Carrozza che, oltre ad essere presidente del Forum nazionale Politiche dell'università e della ricerca, è anche direttore della scuola Sant'Anna di Pisa; Marco Meloni, responsabile Pag. 35della segreteria; Walter Tocci, il quale, quando ero professore universitario, rappresentava la nostra bandiera in Parlamento, e lo è tuttora.
Adesso, tocca a me fare il politico ed andare in giro per l'università. Per esempio, ho dovuto rispondere - questo può essere uno dei temi interessati anche per quest'Aula - ad una domanda che concerneva la posizione del Partito Democratico rispetto alla riforma proposta dal Governo. Il mio vecchio direttore della facoltà di Fisica - che ora è il direttore della Scuola internazionale superiore di studi avanzati (SISSA) - mi ha chiesto come mai avessimo cambiato un po' la nostra posizione nel passaggio dal Senato alla Camera, e cosa fosse accaduto. Gli ho risposto che vi sono state molte discussioni e tentativi di correzione e che non avevamo alcuna opposizione pregiudiziale al Senato, dove si era svolta una lunga discussione; tuttavia, alla fine, a più riprese, anche per bocca del capogruppo, senatrice Finocchiaro, è stato chiesto se e quando sarebbero stati reintegrati i fondi per l'università, che erano stati tagliati all'inizio della legislatura.
Mentre con riferimento al riordino delle scuole primarie e superiori, per ridurre le spese era obbligatorio, data la pianta organica, ridurre l'offerta formativa, nel caso dell'università, invece, i soldi sono stati tolti subito e in una misura percentuale maggiore rispetto alla scuola (quasi un 20 per cento). Questo attraverso i primi provvedimenti, cioè quelli con cui è stata eliminata l'ICI anche sulla prima casa dei più ricchi e con cui si è consentito alla Francia di acquisire l'Alitalia senza debiti. Pertanto, la ragione per la quale alla Camera siamo andati via via ad «incattivirci» è legata al fatto che di tali risorse non si parlava mai.
Sulla stampa on-line del mio iPhone, leggo: Finiani uniti, nessun voltafaccia. Ripercorrerò, dunque, le mie note dal 6 ottobre ad oggi, per poter spiegare a chiunque non sia in quest'Aula, quale sia la nostra posizione. Il 6 ottobre, nelle mie «noterelle» su Facebook, raccontavo ai miei «venticinque lettori» che vi era stata una grande svolta: cioè, che il Governo, che voleva andare in Aula in quei giorni, era stato, invece, costretto ad inserire nella cosiddetta riforma Gelmini qualcosa in ordine ai posti e alle risorse.
I 1.500 posti da associato, ogni anno per sei anni, erano meno di quanto ritenessimo necessario per non diminuire il numero dei docenti che, secondo qualunque standard, è il più basso della maggioranza dei Paesi europei. Tuttavia, questo sembrava un passo avanti e rappresentava una prima crepa nel muro del rifiuto a trattare quantitativamente il tema delle reali opportunità per i capaci e i meritevoli, stabili o precari che fossero, di avere qualche accesso all'università dopo anni e anni di vacche magrissime. Per questo, il Partito Democratico si era astenuto.
Successivamente, il 13 ottobre, sempre nelle mie «noterelle» di Facebook, leggo: Ultime su Gelmini e università. Oggi, in Commissione bilancio, il Governo ha dimostrato che sui soldi scherzava. Non ci sono: niente 1.500 posti l'anno per sei anni.
E ancora. 4 novembre: Partito Democratico e opposizione in Commissione bilancio alla Camera, dove sostituisco un collega assente, hanno visto un grande cambiamento. Tremonti, dopo che il Governo è andato sotto su un emendamento di altro argomento, ha rinunciato al percorso previsto che riguardava anche l'università. Non c'è più il milleproroghe, non c'è più il decreto fiscale, ha accettato di mettere nella legge di stabilità, e non nei decreti successivi, stanziamenti importanti fra cui quelli dell'università.
19 novembre: a sorpresa torna in Commissione alle 14,30. I «finiani» si sono rimangiati tutto; voteranno ciò che un mese fa dicevano inaccettabile. Riforma senza fondi per almeno 1.500 nuovi professori. Il voltafaccia è la tomba di ogni speranza.
19 novembre sera: è finita mezz'ora fa. In due ore i deputati della maggioranza hanno votato con facce impassibili una raffica di emendamenti che annullavano uno per uno gli emendamenti da loro stessi approvati un mese prima. No a Pag. 36nuovi posti di associato, no al recupero degli scatti per le fasce stipendiali basse, no al reintegro della ricostruzione di carriera - particolarmente importante per chi entra tardi in ruolo come capita a quasi tutti in questi anni -, no al reintegro dei tagli per le borse di studio. Lunedì si va in Aula. Però l'onorevole Granata ha detto che se martedì non ci saranno i fondi non voteranno a favore, e oggi anche dall'onorevole Di Biagio abbiamo sentito delle richieste impegnative.
Ora, io mi domando: quale alternativa c'è se non aspettare la fine vera della sessione di bilancio e anche di sapere se questo Governo - e mi scuso per questa infausta previsione - durerà davvero o no? Perché non dimentichiamo che ci sono due cose cruciali. La prima: i decreti attuativi per i concorsi, che storicamente finora hanno richiesto un anno. Pertanto, noi, con emendamenti, proporremo senz'altro un minimo che consenta di mantenere la normativa previgente finché non entra in vigore quella nuova, altrimenti avremo nuovamente, nel caso migliore che il Governo sopravviva, almeno un anno senza altri concorsi, e quindi è anche inutile parlare di risorse, e nel caso peggiore, chissà che cosa succede. Succederà quello che è successo anche con la Moratti: anni senza regolamento e poi si torna alle vecchie regole. Tanto vale mantenere quelle previgenti finché non entrano le nuove.
Ma l'altra questione, più drammatica, è che la meritocrazia purtroppo non c'è, perché se ne tratta in un articolo che dà addirittura una delega al Governo e questo richiederà forse più di un anno.
A proposito dell'ANVUR stessa, non sappiamo ancora come funzionerà, ma mi segnalava proprio Maria Chiara Carrozza che ci sono emendamenti su emendamenti, e cioè a bando aperto si stanno facendo emendamenti anche sull'ANVUR e anche questo non dà l'impressione di una istituzione che sta per decollare.
Quindi ci sono dei problemi. Se tra poco il Governo cade si bloccherà tutto per un tempo lunghissimo, ma, anche se non cade, ci sarà comunque bisogno di tempo, e quindi sembrerebbe più responsabile almeno aspettare di sapere qual'è il quadro di stabilità prima di avviare una cosa così importante, a prescindere dal merito. È chiaro che qualcuno voterà pro, noi voteremo contro, ma sembrerebbe responsabile di fronte al Paese, anche per chi è favorevole, avviare una simile riforma in un quadro di chiarezza di risorse e di stabilità, che solo dopo il 14 dicembre sarà possibile.
I provvedimenti per fermare la fuga dei cervelli e per abbassare l'età media non ci sono. Anche la collega Goisis parlava molto bene del nostro problema, ma non lo si risolve bloccando le assunzioni e togliendo le risorse: questo fa invecchiare quelli che ci sono e fa diventare la piramide un triangolo con la punta verso il basso, e questo è un problema. Il problema non è che si spendeva troppo per le università, e neanche che ci sono troppi docenti sotto qualunque standard, e neanche che sono tutti parenti. Abbiate pazienza, ma il problema è che in tutto il periodo Moratti non c'è stato reclutamento. I due anni di Prodi hanno rappresentato una temporanea boccata di ossigeno in un panorama privo di prospettive italiane anche per i bravissimi, che spesso vanno all'estero. Questa è una cosa positiva, l'ho fatto pure io. Il problema è che noi non attiriamo gli altri bravi da fuori, a causa dei nostri stipendi.
Permettetemi di dire che la vera anomalia italiana non è nessuna delle cose su cui sono state fatte le grandi propagande con cui si sono giustificati i tagli a inizio legislatura. La vera anomalia è che passano anni e anni senza concorsi e all'improvviso se ne fanno tanti. Intere generazioni subiscono l'iniquità e in un'altra, che magari tutta insieme ha a disposizione più posti, ci troviamo anche ad avere alcuni soggetti più mediocri che passano, ma questo è dovuto al fatto di avere lunghi periodi in cui si riforma talmente bene che non si fa nessun concorso per tre o quattro anni.
Ciò, purtroppo, nell'ultimo decennio è capitato un paio di volte. Come ricorda Marco Meloni, responsabile del settore Pag. 37università e ricerca del Partito Democratico, fare una riforma dopo un taglio di risorse tale da compromettere non solo nuovi reclutamenti, ma anche la sostituzione di chi va in pensione, e, in molti atenei, anche il pagamento degli stipendi di chi rimane, significa uccidere il sistema e gettarlo nel caos. Ma forse, visto che ho una certa memoria, potrebbe anche essere un fatto voluto.
Io ricordo che, nel 2003, Alesina e Giavazzi dichiararono che l'università italiana non era riformabile. Vi leggo le parole: «Il sistema universitario e della ricerca in Italia non sono riformabili. Serve un cambiamento radicale, perché riversare più fondi in questo sistema è come buttarli al vento» e «illudendosi che sia possibile migliorare l'esistente, in realtà si fa il gioco dei conservatori, cioè di coloro che sono responsabili del disastro in cui ci troviamo».
Dunque, l'editorialista che più ha incoraggiato la riforma, ritiene che il sistema non sia riformabile: forse ha un'idea malthusiana o, forse, direbbe qualcuno, anarco-rothbardiana dell'economia e dell'università. E lo potremmo dire se non fosse che un'altra delle invenzioni che piacciono a Giavazzi, l'IIT, vive, invece, solo di soldi dello Stato e non è riuscita, in sei o sette anni, ad avere nemmeno un euro di investimento da parte dei privati. Ma se non ci fosse questo, potremmo pensare che si crede che senza lo Stato è meglio tutto.
L'università, invece, avrebbe bisogno di un piano di rientro per le università in crisi di bilancio e un piano di potenziamento per le università che vanno bene. Al contrario, si impone un'unica forma di governance, uguale per tutte le università, e poi, però, si fa un po' «l'occhietto» ai rettori dicendo: però vi valuto discrezionalmente. Come sentirete nella nostra richiesta di una questione pregiudiziale di costituzionalità, si pone anche un problema costituzionale: l'autonomia, infatti, dovrebbe essere regolata dalla legge, mentre in questo disegno di legge il grado di autonomia viene concesso dal Ministro in modo discrezionale. In questo modo, si cerca di fare un po' «l'occhietto» e dire: se state buoni, forse vi concederò quell'autonomia che non concedo agli altri per legge.
È una riforma che potenzia il ruolo dei burocrati del MIUR, introduce molte norme e costringerà tutti a stare fermi nel predisporre non solo nuovi regolamenti dei concorsi, ma anche nuovi statuti. Dell'ANVUR ho già parlato, ma l'aspetto più triste è che i ricercatori pagano per tutti: hanno gli stipendi bloccati, ma gli scatti non sono stati restituiti, sono stati promessi, sono stati fatti balenare, ma non sono stati restituiti. Alla fine, con quest'ultima raffica di annullamenti in Commissione tutti quegli emendamenti sono stati aboliti. I ricercatori sono in esaurimento, sono bistrattati e accusati ingiustamente: è una legge che punisce i più deboli, dei quali, però - come si sono accorti anche alcuni acuti commentatori - si ha bisogno poiché svolgono circa il 50 per cento di tutta la didattica dell'università di oggi.
Anche il tenure track, per chi ha avuto la ventura di trovarsi diversi anni all'estero, è in una forma mai vista nei Paesi stranieri. Il tenure track è un posto che non è sicuro che tu prenderai, ma è sicuro che qualcuno prenderà: è come prendere - scusate, parlo di me stesso con qualche ironia come professionista - un maggiordomo o una domestica in prova e, se poi la prova non va bene, si cambia e se ne prende un altro, ma con il fine di prenderne uno. Dunque, per quel posto, vi è un potenziale stipendio fisso, mentre ciò che si vede qui è una cosa che non si è mai vista. Non vi è nemmeno la certezza di quello che avremo l'anno prossimo, come facciamo a dare a qualcuno il tenure track, non conoscendo i fondi di cui l'università disporrà, non dico tra due anni, ma tra cinque. Dunque, si tratta di una situazione curiosa, in cui i tempi si allungano in maniera tale da far sì che anche i più bravi hanno di fronte decenni, non anni come capita all'estero.

PRESIDENTE. La prego di concludere.

GIOVANNI BATTISTA BACHELET. Infatti, abbiamo sentito da un Ministro di Pag. 38questa Repubblica dire che i ricercatori sono capitani di ventura, mentre in realtà chi ha vissuto davvero all'estero sa che, fino a trentacinque anni, non avere una permanent position è una cosa certamente normale, ma non averla dopo i quarant'anni vuol dire che si è un po' falliti. Dunque, questo mito che le posizioni permanenti si prendono da vecchi è un fatto sconosciuto nei Paesi sviluppati.
Concludo, registriamo parecchie novità che accadono nel frattempo: abbiamo università telematiche che con un decreto del Ministro possono diventare private; Bersani aveva chiesto, per la scuola e l'università, la vendita delle frequenze del digitale terrestre, ma disgraziatamente essa non è servita a ciò che aveva auspicato Bersani, per dare cioè almeno una boccata di ossigeno al sapere.
La mia richiesta alla maggioranza, ed in particolare a quanti in essa hanno onestamente riconosciuto i problemi legati alla prospettiva di stabilità del provvedimento, del suo sviluppo nel tempo e di risorse, è la seguente: fermatevi finché siete in tempo.

PRESIDENTE. Deve concludere, onorevole Bachelet.

GIOVANNI BATTISTA BACHELET. Altrimenti prevedete qualche nuovo posto, reinserite gli scatti, introducete qualcuna delle misure che avete fatto credere che avreste introdotto: anche se noi voteremo contro, voi almeno sarete fedeli a quanto avevate promesso (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Scalera. Ne ha facoltà.

GIUSEPPE SCALERA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, appare chiaro come la riforma in esame si incroci in maniera inevitabile con uno scenario economico certamente difficile e complesso, assolutamente nuovo a livello mondiale. Lo stesso sistema educativo credo debba misurarsi oggi sulla base di compiti inediti, tipici dell'economia della conoscenza, in un mondo in cui il riequilibrio della competizione tra i vari sistemi-Paese si fonda ormai su un crescente ruolo del capitale umano. Guardando infatti alle più accreditate ricerche, anche a livello internazionale, appare chiaro che l'adeguamento del capitale umano innalza inevitabilmente la dinamica del prodotto interno lordo potenziale di ogni Paese, e fornisce una base più ampia alla propria crescita economica.
Ecco quindi all'interno della nostra riflessione un primo utile, importante parametro di riferimento, sul quale si misura la nostra analisi: per uscire rinnovati, per uscire più forti da questa crisi economica, bisogna necessariamente accelerare sull'università, accelerare sulla ricerca, accelerare sull'innovazione. Lo sottolineano tutti gli attori sociali del nostro Paese; lo sottolineano soprattutto larghi settori di Confindustria, che richiedono oggi robuste, significative riforme strutturali, soprattutto legate a quegli aspetti, quali la governance ed il reclutamento, che possono meglio puntare sulla strada di una vera meritocrazia, sulla strada di una sana competitività.
Perché quindi, al di là di criticità che possono anche essere per certi versi insite in un provvedimento così importante ed innovativo per il nostro Paese, la strategia di questa riforma ci convince? Ci convince perché responsabilizza finalmente gli atenei dal punto di vista gestionale, finanziario e scientifico; ci convince perché sviluppa una governance che definirei efficace e snella, con precisi, distinti compiti tra senato accademico e consiglio di amministrazione delle singole università. Ci convince perché offre la possibilità di scegliere il presidente dei singoli consigli di amministrazione anche tra i rappresentanti esterni. Ci convince perché sviluppa finalmente un ringiovanimento del corpo docente; ci convince perché istituisce finalmente un Fondo per il merito; ci convince perché introduce un sistema di valutazione periodica dell'efficienza e dei risultati conseguiti, sia nell'ambito della didattica che della ricerca. Ci convince, infine, perché sviluppa un reclutamento in linea con la migliore prassi internazionale. Pag. 39
Credo che il prezioso lavoro svolto, prima dal Senato e successivamente dalla Commissione cultura della Camera, abbia già incorporato quelle che ritengo siano significative modifiche sollecitate da una larga parte della comunità scientifica; modifiche che hanno contribuito, sicuramente, a sollecitare quel cambio di passo dell'intero sistema universitario, che deve restare oggi la nostra preziosa bussola di riferimento.
È uno sforzo di analisi che mi sembra abbia reso ancor più riformista il nostro disegno di legge, anche, e direi soprattutto, attraverso una serie di proposte formulate da parte dell'opposizione ed accettate della maggioranza.
È certamente un provvedimento delicato, fondamentale per il futuro del nostro Paese; un provvedimento che oggi non può più offrirsi a rigidità e pregiudizi. Le università, infatti, sono oggi grandi intraprese culturali, realtà organizzative estremamente complesse che creano indiscutibili vantaggi competitivi per il proprio territorio, e che rappresentano certamente motori della ricerca e dell'innovazione, contribuendo a costruire concretamente il futuro dei nostri giovani.
Troppe volte in questi anni abbiamo assistito ad una sottovalutazione del percorso tra formazione e sbocchi occupazionali, creando sacche di delusione ma, soprattutto, di sottoccupazione. Ciò ha generato, silenziosamente, all'interno del nostro Paese, una realtà che ha cambiato, mutato e trasformato la società italiana, e che i media nazionali ed internazionali non sono riusciti a comprendere in tutta la sua vastità.
Viviamo chiaramente, all'interno del nostro Paese, quello che è un problema che definirei il mismatch tra esigenze del mercato del lavoro - prevalentemente di carattere tecnico-scientifico - e la composizione della corte di laureati, ancora sbilanciata sul versante umanistico e delle scienze sociali.
Oggi, quindi, il vero tema della formazione universitaria riguarda più l'orientamento e la qualità degli studi piuttosto che la quantità dei laureati. Lo scenario internazionale è oggi sotto gli occhi di tutti: in un sistema universitario che si internazionalizza, rafforzando collaborazioni e programmi in comune con grandi atenei e scuole di alta formazione nel mondo, tutti sono costretti a competere per attrarre i migliori studenti e per strappare finanziamenti per la ricerca e la didattica.
Negli ultimi anni, come tutti noi sappiamo, la collocazione delle università italiane ed europee nel ranking internazionale è andata progressivamente abbassandosi: un chiaro sintomo di ridotta capacità competitiva del sistema europeo e dell'istruzione superiore rispetto a quello statunitense ma, soprattutto, rispetto a quello dei Paesi emergenti.
Pur non negando quelli che sono i limiti oggettivi di alcune grandi classifiche internazionali, bisogna ricordare in questa sede, all'interno del nostro dibattito, che tra le prime 50 università del mondo, quello che è un riferimento importante a livello internazionale, quale il Times higher education supplement, ha inserito soltanto ed esclusivamente cinque università europee, e di queste nessuna italiana.
Giova ribadirlo all'interno della nostra riflessione: il sistema universitario italiano si trova oggi davanti a molte contemporanee sfide, tutte complesse e tutte difficili: la capacità di gestire i grandi numeri legati alla crescente domanda di istruzione post-secondaria, la riqualificazione sul piano della formazione e della ricerca di eccellenza, la capacità di attrarre studenti e docenti internazionali.
In questo quadro appare chiaro che, anche in Italia, oggi, bisogna muoversi rapidamente e dinamicamente, con il senso dell'urgenza che la situazione richiede, con un forte slancio ideale, assumendo rischi e responsabilità, e guardando al nuovo senza incertezze e senza ritrosia.
Al Ministro Gelmini va certamente riconosciuto il coraggio delle sue idee, la determinazione nell'inseguire una riforma difficile e complessa, la volontà di indicare un percorso certo accidentato, ma sicuramente necessario, fondamentale per quello che è il futuro del nostro Paese. Costruire Pag. 40insieme questa nuova fase, in un momento anche di difficile e complessa congiuntura politica, è un traguardo al quale credo tutti quanti noi, al di là delle ideologie e delle bandiere, dovremmo oggi tendere insieme (Applausi dei deputati dei gruppi Popolo della Libertà e Lega Nord Padania).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Lusetti. Ne ha facoltà.

RENZO LUSETTI. Signor Presidente, colleghi, signor Ministro Gelmini, non la chiamo Ministra Tremonti, come ha fatto il collega Zazzera con una punta di sarcasmo, ma giustamente Ministro dell'istruzione, sapendo però che il Ministro Tremonti ha usato una mano pesante nei confronti di questo provvedimento.
Pertanto, sono costretto a fare una considerazione di metodo, prima ancora che di merito, perché lei sa che il metodo è il primo dei contenuti. Allora, non posso non considerare il fatto che il parere della Commissione bilancio ha in qualche modo cambiato i contenuti della riforma universitaria.
La copertura finanziaria del provvedimento sostanzialmente non c'è e, come lei sa, la Commissione bilancio l'altra sera ha in qualche modo soppresso l'istituzione del fondo per il merito accademico e quindi anche quel finanziamento che si era paventato - poi nella replica spiegherà le sue ragioni e cosa intenda fare -, sono costretto, quindi, a ricordarle i passaggi di questo provvedimento.
Il disegno di legge in esame è stato otto mesi al Senato e, alla ripresa dei lavori alla Camera, a settembre, vi è stata una improvvisa accelerazione su sua indicazione, signor Ministro. La Commissione ha fatto le corse ed è stata molto rapida nelle audizioni, fino ad arrivare ad una accesissima discussione con il Presidente Fini sulla calendarizzazione (lei lo ricorderà) del provvedimento. Il Presidente, per mediare tra maggioranza e opposizione, ha individuato una data che lei ha giudicato essere stata fissata troppo tardi rispetto alle sue esigenze.
Successivamente è arrivato un improvviso stop da parte del Governo, dopo l'ennesimo annuncio, per la mancanza della copertura finanziaria del provvedimento. Il Ministro dell'economia ha tolto a questo Dicastero un milione e 350 mila euro; nella legge di stabilità ne ha restituiti circa 800 milioni (se non ricordo male) o forse poco di più, ma mancano ancora tante risorse per poter andare avanti su questa riforma.
Pertanto, le chiedo (mi risponderà eventualmente nella replica): visto il parere della Commissione bilancio e viste anche le difficoltà e le perplessità che sono sorte nel corso di questo dibattito, non sarebbe stato meglio rinviare la discussione sulla riforma dell'università ad altra data? Se le risorse non ci sono, a tal punto da costringere il Governo a presentare il disegno di legge in Aula senza la norma «salva ricercatori», non era meglio fare un passo indietro e aspettare che si reperissero le risorse finanziarie per affrontare questo provvedimento?
Credo che questo rinvio sarebbe la migliore dimostrazione di rispetto nei confronti di migliaia di ricercatori precari da parte di questo Esecutivo. Lei ricorderà come in Commissione, anche rispetto a questo emendamento sul fondo per il merito accademico da lei introdotto, le opposizioni tutte si sono astenute, quindi dando anche una sorta di disponibilità al provvedimento, però, se questo fondo oggi non c'è più, è chiaro che cambia anche l'atteggiamento delle opposizioni.
Affrontiamo questa riforma oggi senza soldi. Una riforma senza certezza di risorse non si può chiamare riforma. Per quanto ci riguarda è poco più di una dichiarazione di intenti. Apprezzo lo sforzo dell'onorevole Aprea che ha cercato di definire i contenuti di questa riforma ordinamentale, ma dico alla collega che le riforme ordinamentali, in questa fase di crisi politica ed economica molto grande, non esistono.
Certo, è importante riformare l'ordinamento, ma quando le risorse finanziarie sono poche e non disponibili attualmente è difficile anche ipotizzare una grande riforma. Pag. 41
Le dico fin da ora, signor Ministro, visto che siamo ancora al metodo preliminare e anche perché credo di aver ben interpretato le parole del collega Di Biagio, che fa parte della maggioranza, e del collega Bachelet, che fa parte dell'opposizione, che, se non ci sarà una replica convincente da parte sua e se domani altri gruppi parlamentari lo chiederanno, noi saremo favorevoli al rinvio della discussione di questo provvedimento a dopo l'approvazione definitiva della legge di stabilità.
Per quanto riguarda il merito, le colleghe Capitanio Santolini e Binetti hanno già parlato prima, però le voglio dire che in questo caso l'UdC vuole dare certezze a ricercatori e studenti del mondo universitario. Tra l'altro, la legge di stabilità, secondo l'idea del Ministro Tremonti, doveva servire per sopperire alle carenze della legge finanziaria, ma la prima prova di applicazione che è questa ha prodotto grandissimi limiti, limitando anche la possibilità alla sua riforma dell'università di andare avanti. Credo che lei, signor Ministro, è la prima vittima illustre di questa riforma del bilancio dello Stato voluta da Tremonti lo scorso anno.
Entrando nel merito, vorrei dire che questa riforma è necessaria, ha fatto bene ad andare avanti, ma è fatta male. Il disegno di legge sull'università in Parlamento, all'articolo 1, che è quello che definisce i principi ispiratori della riforma, prevede un modello organizzativo obbligato e obbligatorio che è valido sia per le università di 140 mila studenti (come «La Sapienza», ad esempio) sia per quelle di 10 mila (come l'università di Camerino, per fare un altro esempio), derogabile solo sperimentalmente tramite un accordo con il Ministro dell'università.
Immagino che il disegno di legge su cui stiamo discutendo abbia il favore della Conferenza dei rettori perché rafforza l'autorità dei rettori che, secondo me, sono entusiasti in ragione inversa alla loro autorevolezza. Tuttavia, si tratta, a mio avviso, di un passo indietro rispetto alla legge sull'autonomia e soprattutto alla legge che lei stessa, Ministro, ha voluto nel 2009, legando l'erogazione dei fondi ai risultati. Infatti, è diverso: qui si erogano, secondo questo modello, i fondi in base al modello di università. Per fare un esempio più terra terra, è come se lei andasse in un negozio e vedendo un vestito non chiede di sapere qual è la fattura del vestito, com'è il prodotto, quanto costa, ma chiede se questo vestito è fabbricato da una Spa, da una Srl o da una cooperativa. Questo è il modello che ci propone ed è ben diverso da quello dell'autonomia che lei ci ha proposto un anno fa e su cui vi era sicuramente un interesse maggiore da parte nostra.
Le norme di cui vi è bisogno devono essere essenziali, fondate sulla responsabilità gestionale e amministrativa, senza voler ridisegnare il mondo accademico intero con appesantimenti burocratici e norme così puntuali da rendere poi estremamente complicata la vita delle università, senza nessun beneficio in termini di efficienza del sistema e della singola università.
Credo che in questo quadro il modello e il rapporto tra gli obiettivi e il controllo dei costi deve esser affrontato in maniera molto seria e organica. In questa logica, la selezione dei docenti, fatta salva l'abilitazione nazionale ma anche una possibilità di selezione dall'estero che è importante, deve essere affidata alle università con la previsione di una penalizzazione economica ex post se è stato assunto un docente «scarso», perché capita anche questo nelle nostre università.
Bisogna poi risolvere il problema dei ricercatori, dei precari, dei ricercatori che sono anche professori aggregati perché poi fanno anche attività didattica anche se in questo caso l'hanno sospesa, perché è un problema che va affrontato anno per anno. Tuttavia, credo che dobbiamo stabilizzare questi ricercatori nella funzione e forse l'idea di proporre non tanto una terza fascia, ma una sorta di funzione che raggruppa e identifica i professori aggregati potrebbe essere, a mio avviso, il modo migliore per affrontare il problema dei ricercatori con poche risorse, forse 150 milioni di euro basterebbero per sistemare Pag. 42almeno parzialmente una parte di questi ricercatori che, come sappiamo, sono un ruolo ad esaurimento secondo questo modello di università. Infine, il reclutamento...

PRESIDENTE. La prego di concludere.

RENZO LUSETTI. Concludo, signor Presidente. Servono norme semplici come l'abilitazione nazionale, ma anche concorsi, espletati come si vuole, dando, a questo riguardo, autonomia alle università. Per questi motivi di merito, di metodo e di contenuto noi, signor Ministro, voteremo contro questo provvedimento.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Tocci. Ne ha facoltà.

WALTER TOCCI. Signor Presidente, ci sono due modi per riformare l'università: quello del riformatore pessimista e quello del riformatore ottimista. Il primo guarda ai difetti dell'accademia - e di certo gli esempi non mancano - e di conseguenza scrive leggi come elenchi di divieti. Il secondo, invece, vede i meriti dell'università - e sono tanti - e scrive leggi per accrescerli, creando opportunità e promuovendo la responsabilità. Nessuno dei due riformatori ha ragione in assoluto: ci sono dati empirici a sostegno sia dell'uno che dell'altro modo.
La scelta attiene, quindi, alle responsabilità politiche. I due approcci, infatti, producono legislazioni molto diverse: il riformatore pessimista è portato a scrivere norme molto dettagliate, cervellotiche e rigide. Egli pensa che la legge debba imporre la virtù, ma in fin dei conti finisce solo per produrre più burocrazia. I furbi si trovano a loro agio in questo ambiente perché più norme ci sono e più aumentano i modi per eluderle, mentre invece gli innovatori vengono scoraggiati dalle burocrazie che frenano le loro iniziative.
Si è fatto così da tanto tempo, anzi l'enfasi normativa è stata la continuità tra le diverse politiche di destra e di sinistra. Sono pronto a riconoscere anche la responsabilità che compete alla mia parte politica: nell'ultimo decennio si è legiferato ogni anno sull'università aumentando un apparato che, secondo alcuni, è arrivato alla ragguardevole cifra di circa 1.500 leggi in vigore.
L'alacrità legislativa non pare abbia migliorato la situazione, se siamo di nuovo a discutere qui di crisi dell'università e pure voi venite a dirci che questa volta avete trovato una soluzione epocale, più o meno con la stessa baldanza di quando prometteste che la legge Moratti avrebbe imposto la meritocrazia proprio in quegli anni «zero» nei quali cominciarono i fenomeni più negativi: dalla proliferazione dei corsi e delle sedi alle promozioni interne, allo scandalo delle telematiche. Errare humanum est, perseverare autem diabolicum. Questo disegno di legge non è affatto nuovo. Anzi, porta all'esasperazione il modello burocratico dell'università.
Il testo contiene circa 170 norme che diventeranno certamente più di 500 con le deleghe e nella fase attuativa richiederanno circa mille regolamenti degli atenei. La vostra capacità propagandistica ha fatto credere che state facendo la politica del merito, ma, se fosse stato vero, dovevate scrivere una legge completamente diversa, capace cioè di suscitare la competizione, di promuovere le differenze e nuovi modelli organizzativi.
Se, invece, ingabbiate gli atenei in un rigido schema ministeriale rimane poco da valutare: otterrete solo l'uniformità burocratica o l'elusione normativa. Per fare un esempio, se gli atenei non possono fare la politica del personale, che condiziona quasi totalmente le performance della ricerca e della didattica, non sarà possibile alcuna valorizzazione dei meriti. Infatti, il Ministro Gelmini ha bloccato qualsiasi attività di valutazione: non vi bastano tre anni per mettere in funzione l'ANVUR e non si capisce perché nelle more non avete lasciato lavorare pace il vecchio CIVR. Mentre sui giornali parlate di meritocrazia avete fatto vedere ai rettori nelle segrete stanze una bozza di decreto che assicura un'oscillazione massima di 2-3 punti nella ripartizione della spesa storica. Pag. 43
La meritrocazia delle chiacchiere non scontenta nessuno e, infatti, i principali sostenitori della vostra proposta sono proprio le burocrazie accademiche che hanno gestito le università nel decennio passato e certo ne sanno qualcosa dei suoi difetti. Tutto cambia perché nulla cambi. C'è nella storia nazionale un'attrazione fatale verso questo esito. Con il disegno di legge Gelmini l'attrazione diventa passione. Si possono fare molti esempi: avete promesso di sbaragliare il localismo dei concorsi facendo credere che si tornava al concorso nazionale. In verità, ci sarà una sorta di abilitazione senza limiti numerici e, quindi, senza alcuna comparazione, cioè un pennacchio che non verrà negato a nessuno: la vera prova comparativa si dovrà svolgere a livello locale con risultati non molto diversi dal sistema attuale.
Si ripete un film già visto nella scuola degli anni Ottanta quando si inventò l'abilitazione agli insegnanti senza alcun riferimento al fabbisogno, creando le graduatorie di 200 mila precari che ancora oggi non si riesce a smaltire. Quando avremo accumulato anche nell'università una lista di 20-30 mila professori abilitati le tentazioni di ope legis saranno incontenibili.
L'insistenza sui membri esterni dei consigli di amministrazione è una banalità oppure è un pericolo. Dipende tutto da chi li nomina, ma guarda caso, questo non si dice pur in un testo molto prescrittivo. Se la nomina è interna si tratta di uno strumento già in vigore ed è servito solo a rafforzare il potere del rettore. Niente di male, è solo il contrario di quanto avete raccontato. Se invece, la nomina avviene dall'esterno il pericolo di cadere dalla padella nella brace è molto forte. Anche negli anni Settanta, per ridimensionare l'autoreferenzialità della classe medica, si aggiunsero ai suoi difetti quelli dei notabili politici e sono venute fuori le ASL.
Anche sul versante imprenditoriale, non sono tutte rose e fiori. Ci sono molte spinte per fare mercimonio dei titoli di studio. A questo proposito, signor Ministro, ci deve qui una spiegazione sulla bozza del decreto per la programmazione che ha inviato alla CRUI poche settimane fa. Lei scrive una disposizione grave, che consentirebbe al CEPU di entrare nel sistema universitario pubblico, tramite la trasformazione della sua telematica E-Campus in università non statale. Lei deve prendere un impegno chiaro in quest'Aula a ritirare quella bozza di decreto. Deve dimostrare questo coraggio, pur sapendo la comunanza di interessi e di sentimenti che intercorrono tra il presidente del CEPU e il Presidente del Consiglio. Spero di ottenere qui una risposta non evasiva da parte sua. In ogni caso sappia che non vi consentiremo di passare dalla «meritocrazia delle chiacchiere» alla «meritocrazia degli affari».
Il CEPU non può assumere lo stesso rango della Bocconi, della Cattolica o della LUISS. Ho citato questi nomi non a caso, perché rappresentano esperienze positive che la borghesia italiana ha saputo realizzare quando ancora c'erano classi dirigenti con qualche ambizione.
Oggi, purtroppo, le cose vanno un po' diversamente e le iniziative imprenditoriali nel campo formativo sono spesso mosse da intenti particolaristici, come si vede appunto nell'esperienza delle telematiche, oppure nella LUM, che ha sede in un supermercato di Bari, dove si vendono titoli di studio, per non parlare dell'assistenzialismo di tanta parte della formazione professionale.
Si fa presto a parlare di stakeholders. Quando si usano parole inglesi c'è spesso il trucco. L'enfasi anglofila serve a coprire fenomeni molto italiani. Portatori di interessi è più chiaro e ci mette subito sull'avviso nel distinguere il grano dal loglio. Ci sono in giro diverse lobbies, pronte a usare gli atenei per interessi di parte, che sperano nelle maglie che aprirebbe la legge Gelmini. Al contrario, le buone esperienze di partenariato tra università, imprese e territorio sono mosse da motivazioni spontanee, che non hanno certo bisogno delle vostre leggi, che anzi considerano una perdita di tempo.
Fin qui ho parlato del testo uscito dal Senato; poi c'è stato il passaggio alla nostra Commissione cultura che ha introdotto alcuni miglioramenti. Il nostro giudizio Pag. 44negativo non era mutato e, tuttavia avevamo apprezzato gli sforzi di alcuni deputati della maggioranza, i quali, però, nella giornata di venerdì, sono stati costretti da Tremonti a recitare una pubblica abiura. Hanno dovuto infatti cancellare quasi tutti gli emendamenti che avevano approvato solo qualche giorno prima. Il grande inquisitore dei conti ha aggiunto un comma finale che spiega quanto è scritto negli articoli precedenti. È stato introdotto il «commissariamento» del Ministero dell'università, che deve monitorare e riferire al Ministro dell'economia, secondo termini inusuali nella legislazione relativa ad attività interministeriali. Il Ministro dell'economia procede poi a spostare i fondi a suo piacimento, limitandosi - bontà sua - a informare il Parlamento.
A questo punto, il pessimismo ha schiantato perfino il riformatore. Non solo non vi fidate dei professori universitari, ma neppure dei vostri Ministri e dei vostri parlamentari. Che cosa ne dicono i colleghi di Futuro e Libertà ? Anche per loro, è arrivato il tempo della coerenza tra le parole e i fatti.
Il testo uscito dalla Commissione cultura non si può neppure chiamare un disegno di legge, è una doppia ordinanza di commissariamento: gli atenei sotto il controllo del Ministero dell'università e questo sotto il controllo del Ministero dell'economia. Se teniamo gli atenei con la capezza attaccata a via Venti Settembre, come pensiamo che possano correre nelle praterie della conoscenza globalizzata?
Nel secolo appena cominciato, le università più innovative giocano le proprie carte nella dimensione internazionale e in quella territoriale, mentre guardano sempre meno alla dimensione statale, che pure è stata decisiva nel secolo passato. Solo da noi si torna a quel centralismo burocratico dal quale tutti gli altri sistemi universitari si vanno allontanando. Questo centralismo oltre tutto è in aperto conflitto con la Costituzione, come dimostra la pregiudiziale che abbiamo presentato.
Ma, soprattutto, questa la dice lunga sullo strumento che avete in mente di utilizzare. Non a caso prevedete di ricorrere ad accordi di programma per dare fondi a singoli atenei, in assoluta discrezionalità, con buona pace della retorica sulla meritocrazia.
Se siete arrivati perfino a peggiorare il testo Gelmini significa che nel vostro approccio non c'è solo il pessimismo o, perlomeno, che esso è rafforzato da un sentimento ostile verso l'università e in genere verso la cultura e la ricerca. D'altronde, Tremonti, ha sostenuto, con la consueta problematicità, che non si mangia il panino con la Divina Commedia come companatico.
Il Capo del Governo poi, in uno dei suoi illuminanti interventi all'estero, si è posto la seguente domanda: perché dovremmo pagare gli scienziati se facciamo le più belle scarpe del mondo? Forse non si tratta di battute da bar. Se pensa questo chi ha governato quasi ininterrottamente il decennio, si capisce meglio perché si è fermata la crescita economica e civile dell'Italia.
E lo conferma l'intero dibattito che si è svolto sul disegno di legge Gelmini. In Europa parlare di università significa confrontarsi sulla ricerca scientifica, la proiezione internazionale, le iniziative verso gli studenti. Solo da noi è ritenuto normale definire riforma un mostro burocratico come questo.
Da almeno venti anni sono in corso formidabili rivoluzioni scientifiche e tecnologiche nella scienza della vita, della materia e dell'informazione. L'Italia non ha nessuna strategia per partecipare a tali trasformazioni, tutto è affidato alle iniziative di singoli ricercatori o delle imprese. Il Paese rischia quindi di mancare la transizione dalla società industriale a quella della conoscenza e di uscirne più povero di saperi. Non è stato sempre così. Nel dopoguerra i nostri padri seppero giocare da protagonisti nel passaggio alla società industriale e colsero formidabili successi conoscitivi: la plastica di Natta, il primo grande computer prima degli americani, il primo satellite spaziale europeo, la scuola di fisica di livello mondiale, i grandi tecnocrati dell'innovazione da Mattei, Pag. 45a Ippolito, a Marotta, al managment dell'IRI, e poi cinema e letteratura di primo ordine.
Tutto ciò avvenne in un Paese povero, quasi analfabeta e distrutto da una guerra. Oggi siamo un Paese più ricco e progredito, perché non riusciamo a fare un balzo in avanti della stessa portata? Le risorse intellettuali non ci mancano, ma continueremo a non vederle seguendo l'ottica del riformatore pessimista.
La vera riforma dell'università richiede innanzitutto un nuovo sguardo sulla cultura italiana. La vera riforma può farla solo il riformatore ottimista che sa dove sono i meriti dell'università, sa come incoraggiarli e come metterli al servizio del progresso civile del Paese.
Nei nostri atenei ci sono scienziati che, nonostante le difficoltà, riescono a tenere il passo delle più avanzate ricerche a livello internazionale. Dal Paese ricevono ben poco, spesso solo le mura dell'edificio, e nel contempo la burocrazia rende ogni giorno più difficile il loro lavoro. Certo non stanno ad aspettare i pochi spiccioli dei fondi PRIN, ma si sono abituati a competere sui finanziamenti internazionali della ricerca. Sarebbero ben felici di mettere a disposizione i loro saperi per il progresso del Paese, ma nessuno li chiama a questo impegno.
Se si visitano i laboratori europei e americani si scoprono vere e proprie colonie di giovani italiani che primeggiano nelle ricerca. Che siano all'estero dovrebbe essere normale, ma spesso si trovano lì non per scelta, ma perché sono fuggiti dall'Italia con rancore e disincanto. Eppure, se sono così bravi, sarà pure per merito di quell'università che li ha formati. Provano, infatti, una gratitudine individuale per i loro maestri, ma tanta sfiducia verso il sistema nazionale che non premia lo studio e l'innovazione. Sanno per esperienza diretta che cos'è una tenure track e per questo non credono a quella procedura che proponete nel testo, per la quale dovrebbero aspettare otto anni, superare un concorso locale e uno nazionale per poi magari vedersi respinti a causa della mancanza di fondi.
E anche nei nostri dipartimenti ci sono giovani eccezionali che con le loro pubblicazioni hanno già ottenuto il riconoscimento scientifico dalle comunità internazionali, e se continua così non lo avranno però dal sistema amministrativo.

PRESIDENTE. Onorevole Tocci, la prego di concludere.

WALTER TOCCI. Signor Presidente, mi avvio alla conclusione, consegnerò il testo integrale dell'intervento. Eppure continuano a fare ricerca con l'entusiasmo di sempre, perché questa è la loro vocazione, e affrontano condizioni di vita incivili, con stipendi da fame e senza alcun diritto. Sono trentenni e si trovano nella fase più creativa della loro vita. Se un Paese tratta in questo modo i suoi giovani più brillanti non può sperare nel futuro.
Questi argomenti erano al centro della mobilitazione dei ricercatori universitari. Voi prima li avete dipinti come dei mangiapane a tradimento e poi li avete blanditi facendo intravedere qualche concessione corporativa. Ma loro, ancora oggi, continuano a chiedere niente di meno che una politica ambiziosa per la cultura. Per questo hanno inventato una forma di mobilitazione intelligente portando gli studenti a fare lezione nelle piazze d'Italia e anche qui, a Montecitorio.
Era un modo per educare i giovani e, allo stesso tempo, per porre al centro della politica nazionale la crescita e la conoscenza. L'università è anche questo in tutto il mondo: il luogo in cui si formano le passioni civili. Quando ciò accade a Teheran, siamo tutti contenti; quando succede da noi, molti fanno finta di non capire (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).
Signor Presidente, chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna del testo integrale del mio intervento.

PRESIDENTE. Onorevole Tocci, la Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti. Pag. 46
È iscritta a parlare l'onorevole Di Centa. Ne ha facoltà.

MANUELA DI CENTA. Signor Presidente, onorevole Ministro Gelmini, vorrei utilizzare questi minuti del mio intervento, focalizzandomi soprattutto su un principio, che questo disegno di legge, da parte mia, assume e utilizza fortemente per guardare il mondo dell'università in prospettiva futura. È il principio del merito.
Vengo dal mondo dello sport e credo di sapere veramente molto bene che cosa voglia dire il merito. Sono fermamente convinta che, attraverso questo valore e questo principio, la nostra università possa guardare davvero in modo corretto verso il futuro. Il merito non è soltanto nello specifico contesto della riforma del reclutamento del personale o della governance, ma è un merito che ancor di più deve andare soprattutto agli attori dell'università, ovvero gli studenti, attraverso il Fondo per il merito, quegli studenti, quindi, che rappresentano veramente un'eccellenza nel nostro Paese. È un merito che deve andare poi anche ai professori e ai ricercatori, attraverso il Fondo per la premialità, perché ciò vale anche per loro, anche se ne non sono studenti: chi è bravo va indubbiamente premiato e questo è un merito che va fortemente riconosciuto.
Permettetemi, tuttavia, onorevoli colleghi, di soffermarmi su un punto, sottolineando in modo particolare il merito relativo ai risultati sportivi dei grandi atleti, che abbiamo avuto e che abbiamo nel nostro Paese. Finalmente la nostra università, attraverso questo disegno di legge, riconosce in modo forte e pieno il loro vero risultato, che non è soltanto il risultato di un podio e di una medaglia, ma di una vita, ovvero un risultato conseguito nell'ambito dello sport, ma attraverso la formazione e l'educazione di loro stessi.
Vorrei ringraziare in modo particolare, in questa sede, il Ministro Gelmini, perché ha avuto la sensibilità, non solo attraverso questo disegno di legge, di inserire nei crediti formativi il riconoscimento di tutti i campioni olimpici e paraolimpici, mondiali, europei e italiani. Si tratta appunto del riconoscimento di una vita condotta nello sport, non solo un risultato agonistico sportivo, ma una carriera, un risultato che rappresenta il percorso della vita di questi atleti e quindi della loro formazione.
Non la ringrazio solo per questo, Ministro Gelmini, ma anche per essersi fortemente impegnata - perché ci crede - dal momento che, innovando in maniera grandiosa e clamorosa, ha voluto inserire anche nella scuola primaria e secondaria superiore il concetto di formazione ed educazione che lo sport riesce ad imprimere. Lo dice tutta l'Europa, lo dice il Trattato europeo e finalmente, grazie al Ministro Gelmini, lo possiamo dire anche noi, in Italia, ovvero che riusciamo, attraverso questo principio, ad educare e a formare i nostri ragazzi.
Così ecco, finalmente, avremo questo principio, e ci tengo a sottolinearlo ancora una volta da persona che ha vestito la maglia azzurra per 25 anni e che quando magari si inscrive all'università non vede riconosciuto questo percorso (l'ho provato personalmente), un percorso di vita di 25 anni nel mondo. Diceva il collega Tocci che dobbiamo guardare alla conoscenza globalizzata. Credo che una conoscenza globalizzata quale quella in chiave sportiva sia proprio una delle più forti e delle più grandi, e soprattutto credo che sia una delle conoscenze assolutamente senza barriere.
Allora grazie, e voglio sottolineare ancora una volta come questi crediti formativi daranno delle possibilità al mondo dello sport. Grazie, anche a nome dello sport, per questa apertura. Finalmente avremo un'università non di secondo, terzo o quarto livello, un'università che anche in questo campo sia paragonabile a tutte le università del mondo. Infatti, già da tantissimi anni in tutte le università del mondo vengono riconosciuti questi crediti formativi.
Ancora più valore hanno questi crediti per i nostri campioni in quanto la riforma porta Pag. 47la possibilità di usufruire di crediti da 60 - come era prima - a 12 (ciò assume maggior valore).
Concludo il mio intervento volendo porre l'attenzione proprio su questo valore del merito, sul modo più profondo e forte con cui finalmente si realizza l'ingresso e la valutazione del merito anche sotto il profilo dello sport come elemento educativo e formativo (Applausi dei deputati dei gruppi Popolo della Libertà e Lega Nord Padania).

PRESIDENTE. Sospendo la seduta, che riprenderà alle ore 15 con gli ulteriori interventi in sede di discussione sulle linee generali.

La seduta, sospesa alle 14,05 è ripresa alle 15,10.

Missioni.

PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del Regolamento, i deputati Dozzo e Gelmini sono in missione a decorrere dalla ripresa pomeridiana della seduta.
Pertanto i deputati in missione sono complessivamente quarantotto, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.

Si riprende la discussione del disegno di legge n. 3687-A.

(Ripresa discussione sulle linee generali - A.C. 3687-A)

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Ciriello. Ne ha facoltà.

PASQUALE CIRIELLO. Signor Presidente, mi lasci esprimere, in apertura di questo mio intervento, un sentimento di profonda e preoccupata delusione derivante dalla circostanza che, di fronte ad una riforma epocale, così come questo disegno di legge è stato malaccortamente presentato, ci troviamo dinanzi all'ennesima occasione mancata. E per chi guarda al mondo universitario con la convinzione che si tratti di uno dei segmenti più importanti per lo sviluppo e la crescita del Paese ed a questo mondo ha dedicato non pochi anni della sua attività professionale, la delusione non può che essere cocente.
Provo a motivare queste affermazioni. Anzitutto, ritengo che quando si pone mano ad una riforma istituzionale - e non v'è dubbio che quella dell'università sia un'importante riforma istituzionale - vi sono due precondizioni, due passaggi, che non è possibile eludere. In primo luogo, definire quale modello di università, adeguato alle necessità dell'oggi si intenda dare al Paese, perché solo se le diverse disposizioni normative sono correttamente finalizzate alla realizzazione di un obiettivo ben delineato e diffusamente condiviso, la proposta compie un salto di qualità e diventa una riforma con la «erre» maiuscola. In secondo luogo, occorrerebbe muovere da un bilancio ragionato, con evidenziazione delle luci e delle ombre, dell'esperienza passata, senza di che si corre il rischio di navigare a vista. A me pare che, in questo caso, manchino tanto l'uno quanto l'altro passaggio. Infatti, quanto al primo punto, non basta dire che si ha in mente un'università efficiente, funzionale, meritocratica e via dicendo, perché non vi è nessuno, ovviamente, che sosterrebbe il contrario e non è in ogni caso da affermazioni così generiche che può discendere il disegno di una nuova università.
Eppure, ho affrontato la lettura di questo disegno di legge sgomberando il campo, come credo si debba fare, da qualunque pregiudizio politico-ideologico. Devo dire che non ho trovato risposta a questo interrogativo, se non in una direzione. Infatti, se il Governo non reagisce ai dati che dallo stesso Ministero di settore in larga parte provengono e che ipotizzano, entro il 2013, il pensionamento di circa 11.500 docenti ed un calo della domanda da parte degli studenti, in parte già in atto, Pag. 48allora un dubbio viene, che si sia, cioè, fatto proprio un approccio maltusiano all'università.
In un'altra circostanza ho definito ciò un tentativo di «miniaturizzazione dell'università» perché, se diminuiscono i docenti e gli studenti, allora è naturale che debbano ridursi anche le risorse, vero ed unico leitmotiv delle politiche governative.
Ma quel che è inaccettabile è lo sforzo subdolo di far passare questa operazione, che agisce solo sulla leva quantitativa, come un tentativo di elevare la qualità media del sistema accademico.
L'impressione è, insomma, che si cammini con lo sguardo rivolto all'indietro, strizzando l'occhio al cittadino quasi a dirgli che l'università tornerà quella di un tempo, con evocazione di quel gusto agrodolce che accompagna tutte le esperienze d'antan. Ora, a parte che resterebbe da dimostrare che le dimensioni quantitative minori comportino di per sé solo maggiore qualità, vorrei ricordare che quella attuale è pur sempre l'università che, secondo un recentissimo rapporto dell'OCSE, colloca l'Italia al secondo posto per la produttività scientifica dei suoi ricercatori, nonostante il Paese si piazzi al penultimo posto nell'Unione europea quanto a volume dei finanziamenti.
E comunque un modello di università come quello che viene fuori dal disegno di legge in questione non si muove certo in sintonia con le indicazioni di tutti gli analisti di settore che sottolineano come la maggior parte della futura occupazione sarà caratterizzata da lavori ad alta intensità di conoscenza. Occorrono insomma più laureati certamente ben qualificati, non meno.
Quanto al secondo punto mi limiterò ad osservare che manca nel disegno di legge qualunque sforzo di riflessione, qualunque pur abbozzato bilancio del sistema del tre più due ormai a circa dieci anni dalla sua introduzione. Manca qualsiasi valutazione se del caso anche critica su come sia stata gestita l'autonomia. Ma anche qui l'obiettivo vero dei proponenti è a mio modo di vedere scoperto. Il non detto è infatti che siccome il sistema non ha brillato da questo punto di vista allora l'autonomia è meglio riprendersela tornando ad una sana ricentralizzazione. Emblematica a questo riguardo è la previsione di cui all'articolo 5, comma 4, lettera d), dove si prevede una programmazione triennale mirante a definire i rapporti di consistenza del personale docente, ricercatore e tecnico-amministrativo di modo che il mancato rispetto di questi parametri comporti per gli atenei la non erogazione delle quote di finanziamento relative alle unità di personale che eccedono. Altro che autonomia: qui c'è da fare impallidire la migliore legislazione dell'Unione Sovietica. Peccato che l'autonomia sia un valore costituzionalmente sancito e dunque non disponibile ad opera del Ministro di turno. Ma d'altra parte come potrebbe il Ministero, a sua volta letteralmente commissariato da parte del Ministero dell'economia e delle finanze, (si veda l'emendamento all'articolo 25 imposto dalla Commissione bilancio) difendere l'autonomia dell'università? Qui si delinea in realtà un sistema di commissariamento a cascata delle università ad opera del MIUR quest'ultimo per mano del MEF. Lascio all'onestà intellettuale di ciascuno valutare la compatibilità di questo assetto con il quadro costituzionale. Ed ancora, vista l'enfasi posta sulla valutazione e sul merito, come mai il Ministero in due anni e mezzo circa di legislatura nulla ha fatto in questa direzione? Come è possibile pensare che si possa ora dare ingresso a un sistema fondato sulla valutazione e sul merito se mancano le strutture, i criteri, le metodologie e i mezzi per avviare un efficace sistema di valutazione. Inoltre mi permetto di dire: prima di avventurarsi in improbabili programmazione triennali perché il Ministero non prova a rispettare le scadenze che già gli sono imposte? Ad esempio, giacché siamo oggi al 22 novembre e quindi quasi in chiusura di anno non sarebbe il caso che il Ministero si degnasse di comunicare agli atenei l'ammontare del loro FFO per l'anno in corso, per il 2010? Altro che programmazione triennale!
Ci sarebbero naturalmente tanti altri rilievi più puntuali da sollevare, ma il tempo Pag. 49non lo consente. Li faremo in sede di discussione dei singoli emendamenti cercando di correggere le storture più evidenti del progetto e, se possibile, di offrire una chance alle legittime aspettative dei tanti e validi giovani che in condizioni di palese disagio e in una situazione di precarietà ormai esistenziale, tuttavia hanno comunque scelto di dedicarsi alla ricerca. Resti però sin d'ora ben chiara la nostra totale e convinta contrarietà non alla riforma dell'università ma a questo disegno di legge che, attraverso i pesanti tagli delle risorse di cui non ho avuto il tempo di parlare, rischia di essere l'ennesima tappa di una via crucis che il Paese e l'università stessa davvero non meritano (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Mario Pepe (PdL). Ne ha facoltà.

Testo sostituito con errata corrige volante MARIO PEPE (PdL). Signor Presidente, onorevoli colleghi e signor Ministro, il Governo e il Parlamento sono chiamati ancora una volta al capezzale di un'università in crisi da tempo. La crisi dell'università non è la crisi di una semplice istituzione, ma di quella istituzione che, formando la classe dirigente nei vari settori della medicina, della fisica, delle scienze economiche e giuridiche, contribuisce al progresso del Paese. Ma quali sono le ragioni del male oscuro che turba la vita interiore dei nostri atenei (i quali hanno rivolto a lei, signor Ministro, un grido di dolore: «Fate presto, l'università sta morendo»)? Di che cosa sta morendo la nostra università? La risposta è semplice, signor Ministro: l'università sta morendo di vecchiaia. Sono vecchi i professori, sono vecchi i ricercatori. L'età media dei docenti è sessant'anni e a sessant'anni, tranne poche eccezioni, la mente non è scientificamente fertile per poter produrre, attraverso la ricerca, quella conoscenza che deve trasmettere. Per questo le dicevo poco fa che noi dobbiamo impedire che una persona di sessant'anni possa prendere il posto di un giovane, un posto di ricercatore o peggio un posto di dottore di ricerca, che deve essere comunque un posto riservato alla formazione dei giovani e solo dei giovani.
Devo darle atto, signor Ministro, che grazie a questa riforma torna nella nostra università quello che per tanto tempo è stato un grande assente: il merito, protagonista della storia delle università italiane, università culle di talenti. Signor Ministro, ho nostalgia di quella università che chiamò in cattedra un giovane fuori da ogni baronia, che aveva solo le armi del proprio talento: quella università era l'università di Pisa, quel giovane era Francesco De Sanctis.
Ho nostalgia dei miei maestri, maestri di medicina e di vita: Valdoni, Stefanini, Giunca, Scienza, Mandelli, grandi maestri. Il grande maestro non si sente mai sconfitto quando il proprio allievo non gli chiede più nulla: quello è il suo momento più alto, perché l'allievo può camminare con le proprie gambe. Oggi i grandi maestri nelle nostre università sono scomparsi e sono stati sostituiti dai capi. I capi non favoriscono i meritevoli, cercano solo seguaci. È auspicabile, signor Ministro, che nelle università italiane tornino i grandi maestri. Per questo la invito a rendere stringenti le norme che già sono nella legge sulla chiamata diretta dei professori di chiara fama. Ma saranno i giovani, i giovani che sono stati allontanati dalla nostra università - perché per 15 anni vi è stato il blocco dei concorsi dopo il decreto del Presidente della Repubblica n. 382 - a salvare la nostra università, i giovani che dobbiamo incentivare, stimolare a intraprendere la carriera universitaria e non mortificare con stipendi caritatevoli, affinché le vocazioni scientifiche possano aumentare.
Signor Ministro, devo dare atto al suo coraggio per come ha lottato per questa riforma in un momento di crisi economica. Le crisi, diceva Einaudi, sono il prezzo da pagare perché le nuove idee, le nuove scoperte, i nuovi metodi di organizzazione del lavoro possano affermarsi. Senza le crisi non avremmo avuto le ferrovie, le bonifiche e le città moderne. Pag. 50Ma per fare questo bisogna guardare in alto e lontano e investire sul futuro, sulla ricerca, sui giovani e sull'università. Sono certo, signor Ministro, che portando a casa questa riforma e accogliendo in parte i miei emendamenti anche lei farà la sua parte (Applausi dei deputati del gruppo Popolo della Libertà).
MARIO PEPE (PdL). Signor Presidente, onorevoli colleghi e signor Ministro, il Governo e il Parlamento sono chiamati ancora una volta al capezzale di un'università in crisi da tempo. La crisi dell'università non è la crisi di una semplice istituzione, ma di quella istituzione che, formando la classe dirigente nei vari settori della medicina, della fisica, delle scienze economiche e giuridiche, contribuisce al progresso del Paese. Ma quali sono le ragioni del male oscuro che turba la vita interiore dei nostri atenei (i quali hanno rivolto a lei, signor Ministro, un grido di dolore: «Fate presto, l'università sta morendo»)? Di che cosa sta morendo la nostra università? La risposta è semplice, signor Ministro: l'università sta morendo di vecchiaia. Sono vecchi i professori, sono vecchi i ricercatori. L'età media dei docenti è sessant'anni e a sessant'anni, tranne poche eccezioni, la mente non è scientificamente fertile per poter produrre, attraverso la ricerca, quella conoscenza che deve trasmettere. Per questo le dicevo poco fa che noi dobbiamo impedire che una persona di sessant'anni possa prendere il posto di un giovane, un posto di ricercatore o peggio un posto di dottore di ricerca, che deve essere comunque un posto riservato alla formazione dei giovani e solo dei giovani.
Devo darle atto, signor Ministro, che grazie a questa riforma torna nella nostra università quello che per tanto tempo è stato un grande assente: il merito, protagonista della storia delle università italiane, università culle di talenti. Signor Ministro, ho nostalgia di quella università che chiamò in cattedra un giovane fuori da ogni baronia, che aveva solo le armi del proprio talento: quella università era l'università di Pisa, quel giovane era Francesco De Sanctis.
Ho nostalgia dei miei maestri, maestri di medicina e di vita: Valdoni, Stefanini, Giunchi, Ascenzi, Mandelli, grandi maestri. Il grande maestro non si sente mai sconfitto quando il proprio allievo non gli chiede più nulla: quello è il suo momento più alto, perché l'allievo può camminare con le proprie gambe. Oggi i grandi maestri nelle nostre università sono scomparsi e sono stati sostituiti dai capi. I capi non favoriscono i meritevoli, cercano solo seguaci. È auspicabile, signor Ministro, che nelle università italiane tornino i grandi maestri. Per questo la invito a rendere stringenti le norme che già sono nella legge sulla chiamata diretta dei professori di chiara fama. Ma saranno i giovani, i giovani che sono stati allontanati dalla nostra università - perché per 15 anni vi è stato il blocco dei concorsi dopo il decreto del Presidente della Repubblica n. 382 - a salvare la nostra università, i giovani che dobbiamo incentivare, stimolare a intraprendere la carriera universitaria e non mortificare con stipendi caritatevoli, affinché le vocazioni scientifiche possano aumentare.
Signor Ministro, devo dare atto al suo coraggio per come ha lottato per questa riforma in un momento di crisi economica. Le crisi, diceva Einaudi, sono il prezzo da pagare perché le nuove idee, le nuove scoperte, i nuovi metodi di organizzazione del lavoro possano affermarsi. Senza le crisi non avremmo avuto le ferrovie, le bonifiche e le città moderne. Pag. 50Ma per fare questo bisogna guardare in alto e lontano e investire sul futuro, sulla ricerca, sui giovani e sull'università. Sono certo, signor Ministro, che portando a casa questa riforma e accogliendo in parte i miei emendamenti anche lei farà la sua parte (Applausi dei deputati del gruppo Popolo della Libertà).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Manuela Ghizzoni (PD). Ne ha facoltà.

MANUELA GHIZZONI. Signor Presidente, signora Ministra, onorevoli colleghe e colleghi, intervengo anche se per pochi minuti perché riterrei inaccettabile sprecare anche la più piccola occasione per argomentare il disaccordo del gruppo che rappresento e mio personale nei confronti di questo progetto, che definisco controriforma del sistema universitario.
Sia chiaro, e ci tengo a dirlo come incipit delle mie brevi considerazioni: il Partito Democratico è convinto della necessità di riformare l'università. Lo abbiamo fatto attraverso atti concreti, presentando provvedimenti, e lo faremo presentando anche le nostre proposte emendative, perché abbiamo questa convinzione: riteniamo che si debba dare un concreto slancio alla conoscenza, alla formazione, alla ricerca e al trasferimento tecnologico, cioè a quella filiera del sapere, che costituisce uno dei principali volani di sviluppo sociale ed economico del Paese. Vogliamo questo, anche per dare opportunità e crescita ai nostri ragazzi, ai nostri studenti, le cui prospettive - lo dico con molta preoccupazione - sono rinchiuse nel recinto del timore per il futuro e nel vedere soffocate le proprie aspirazioni. I dati ISTAT sulla disoccupazione dei laureati fanno riflettere e dovrebbero scuotere un Governo responsabile ad assumere azioni conseguenti, mentre invece, ci troviamo per le mani questo testo assai inadeguato. Ad esempio, nel provvedimento in oggetto, non vi è alcuna riflessione che, invece, sarebbe stata necessaria e opportuna, sull'offerta formativa e, quindi, sul cosiddetto processo di Bologna.
Sia mai che su questi temi strategici possa aprire bocca il Parlamento, cioè i rappresentanti dei cittadini italiani! La ragione è semplice e, allo stesso tempo, assolutamente non condivisibile: il Ministro ha preferito intervenire in solitudine su questi temi attraverso il decreto ministeriale del 22 settembre, n. 17, che sancisce un vero taglio - questo sì - epocale alla didattica e alla formazione universitaria. Ciò senza tenere in alcun conto - e credo che questo sia molto grave - delle conseguenze di impoverimento disciplinare di interi percorsi formativi, in particolare, e, più in generale, di decadimento scientifico e culturale.
L'aspetto più grave è che queste scelte avvengono al di fuori di una programmazione e, soprattutto, senza valutazione dei risultati conseguiti dai corsi di studio che saranno chiusi. È in aperta contraddizione con quello slogan, ripetuto ossessivamente dal lei, signora Ministra, ma anche da altri componenti del Governo, come un mantra, circa la valorizzazione del merito. Ci si affiderà, invece, al solito sistema del controllo, delle procedure e della rispondenza a requisiti numerici, con buona pace per la qualità scientifica e la didattica.
E ancora: è necessario riformare il sistema universitario per investire davvero sul valore dei giovani ricercatori e dar loro l'occasione di lavorare per il proprio Paese, inserendosi stabilmente nel sistema universitario. Mi chiedo se, al netto dei principi dell'internazionalizzazione del sapere e della mobilità dei ricercatori, su cui si sono soffermati altri colleghi, il Governo sia davvero consapevole di quanta formazione l'Italia faccia a vantaggio degli altri Paesi. Infatti, sono numerosissimi i nostri giovani che vanno all'estero, perché, naturalmente, qui li aspetta un futuro di precariato e di avvilimento.
È necessario dare fiducia e gratificazione a coloro i quali lavorano seriamente - e sono la stragrande maggioranza - e con passione all'interno del sistema universitario, perché credono nella funzione pubblica e culturale del proprio ruolo. A loro dobbiamo la dodicesima posizione mondiale per qualità e la quarta posizione Pag. 51per accesso nel QS World University Rankings. Sono gli stessi dati che qualche detrattore usa in malo modo per far opinione comune che nel nostro Paese la ricerca non sia di qualità: tuttavia, questi dati li smentiscono chiaramente.
A costoro, dopo averne bloccato il turnover, modificando così le legittime attese di progressione di carriera, e dopo aver congelato il loro stipendio con il provvedimento di questa estate senza possibilità di recupero, il Governo annuncia l'ennesima riforma delle modalità concorsuali e anticipa la rottamazione dei ricercatori, verosimilmente, dal 2013 al prossimo anno. In questo modo, i ruoli della docenza ricorderanno quelli dell'accordo Governo-sindacati del 1977. Non c'è che dire: un bel passo in avanti e indietro di trent'anni.
Su questi aspetti, vorrei svolgere due considerazioni velocissime. La prima fa riferimento al fatto che, a distanza di due anni, discutiamo in questa stessa Aula, nuovamente, di alchimie per il reclutamento dei professori universitari. Dati gli esiti passati e recenti dei concorsi, forse, non sarebbe stato il caso di concentrare le nostre energie e le nostre riflessioni non sulle modalità, ma sulla valutazione delle politiche di reclutamento? Questo tema, invece, sfuggirà, di fatto, alla discussione, perché è inserito nella pervasiva delega prevista all'articolo 5, il vero core del disegno di legge in oggetto.
La seconda considerazione riguarda, invece, l'anticipazione dell'abolizione del ruolo dei ricercatori. Dopo averli sfruttati gratuitamente per far fronte alle necessità didattiche, a fronte del blocco del turnover, gli si dice che non potranno mai diventare professori, sebbene, di fatto, lo siano già, poiché, nella stragrande maggioranza dei casi, associano l'attività di ricerca a quella didattica.E non ci si venga a dire che il disegno di legge di stabilità, ora all'esame del Senato, prevede le risorse necessarie per nuovi posti di professore associato, poiché - lo sappiamo - è una menzogna che le cifre hanno smascherato facilmente, come abbiamo dimostrato in questa stessa Aula non più tardi di giovedì scorso.
Ancora, riformare per dare finalmente al sistema universitario un modello di governance in grado di indicare precisamente i livelli decisionali e in capo a chi vanno le responsabilità, salvaguardando, però, il principio costituzionale dell'autonomia universitaria, che deve basarsi su un forte e autonomo sistema di valutazione per essere davvero responsabile.
Purtroppo, il Governo non si è ispirato ai principi che ho richiamato per elaborare questo provvedimento, che, a mio avviso, è iniquo, centralista, affetto da ipernormativismo paralizzante di tutte le attività, ordinarie e straordinarie. È, ancora, un provvedimento incapace di garantire pari opportunità di accesso e di frequenza degli studenti, come dimostra chiaramente l'assenza di qualsiasi risorsa appostata per il fondo che, non senza demagogia, è stato chiamato Fondo per il merito, ma con gli annunci non si mandano i ragazzi all'università.
Un provvedimento inadeguato a valorizzare la maturità scientifica e didattica del personale docente e ricercatore e che condanna a una condizione di precarietà i tanti giovani di talento che, già ora, offrono le loro competenze e il loro sapere a vantaggio degli atenei, con contratti che non prevedono alcuna tutela sociale. A costoro state dicendo, non senza cinismo, di prendere la via dell'estero o, in alternativa, di iniziare daccapo un nuovo lungo e incerto cammino di precariato, che, forse, dopo dodici anni potrà approdare alla chiamata da parte dell'università.
Signor Presidente, avremmo voluto affrontare con serenità i temi che ho appena richiamato, avremmo voluto farlo con un confronto vero, che sarebbe stato responsabilità del Ministro aprire fra tutte le forze politiche con le componenti dell'università. Così non è stato, e, soprattutto alla Camera dei deputati, il dibattito è stato compresso, concentrato in poche sedute, sottoposto alla pressione del Governo, che voleva addirittura portare in Aula il testo il 4 novembre dopo solo due settimane di Pag. 52esame da parte della Commissione, e che ora ha imposto la discussione prima che il disegno di legge di stabilità venga approvato definitivamente. Questo non è un punto secondario perché, a differenza di quanto afferma la Presidente Aprea, che mi permetterà di non concordare con il suo giudizio, le norme ordinamentali non sono neutre, perché producono effetti che, a mio modo di vedere, sono negativi e che solo adeguate risorse possono, almeno in parte, compensare. Mi riferisco per esempio solo per citare alcuni casi - ma credo che in questo concorderete con me - alla erogazione delle borse di studio, alla possibilità di mettere a bando vere posizioni in tenure track e nuovi posti da professore. Ora, è stata esercitata dal Governo una pressione insopportabile nei confronti dei deputati, evidentemente anche in considerazione delle turbolenze che scuotono la maggioranza, e il collega Bachelet, che è intervenuto nella mattinata prima di me, ha riassunto in modo esemplare, credo, quanto accaduto nei giorni scorsi, nelle concitate sedute della Commissione bilancio e della Commissione cultura. Ma qui voglio ricordare che il Ministro giustificò l'accelerazione all'approvazione del disegno di legge e, uso le stesse parole del Ministro pronunciate in Commissione, con l'opportunità di potersi appuntare un fiore all'occhiello. Lo dico con rammarico, ma penso che l'attenzione che deve essere rivolta da chi ha responsabilità di Governo al sistema universitario, proprio per l'importanza strategica del sistema, che anche tanti colleghi della maggioranza hanno richiamato nei loro interventi, deve trovare una motivazione ben più solida che non la possibilità di aggiungere una mostrina al proprio percorso politico.

PRESIDENTE. La prego di concludere, onorevole Ghizzoni.

MANUELA GHIZZONI. Ho concluso, signor Presidente. E lo faccio ricordando ai colleghi che, pur con tempi strettamente contingentati, non rinunceremo nel prosieguo della discussione a rappresentare le molte ombre di questo testo di legge e le nostre proposte alternative, a dimostrazione del fatto che affrontare un'altra riforma dell'università non è solo possibile, ma è auspicabile per il bene della comunità scientifica e del Paese (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Calgaro. Ne ha facoltà.

MARCO CALGARO. Signor Presidente, secondo il rapporto OCSE del 2010, la spesa italiana per l'università, rapportata al PIL, si colloca al trentesimo posto; l'Italia è al sesto posto come entità di tasse universitarie pagate ed è l'ultima come percentuale di studenti che beneficiano di sostegni economici per lo studio. E, ciò nonostante, il Fondo integrativo statale per le borse di studio scenderà da 246 milioni nel 2009 a 13 milioni nel 2012.
In questo Paese c'è, prima di tutto, una drammatica carenza di investimenti in formazione universitaria. Infatti, siamo trentesimi per percentuale di popolazione tra i venticinque e i trentaquattro anni, che ha conseguito una formazione universitaria.
Tutti condividiamo la preoccupazione che i drastici tagli finanziari aggravino il precipizio dell'università italiana nella mediocrità e nell'inefficienza, e rispetto a questa situazione dobbiamo distribuire equamente la responsabilità tra una classe politica da decenni incapace di affrontare in modo risoluto e complessivo i problemi dell'università, un corpo docente invecchiato e dalla mentalità baronale, e una classe dirigente diffusa nel Paese che, anziché fare pressione perché i problemi vengano affrontati, manda i figli a studiare all'estero.
I pochi pregi della riforma Berlinguer sono stati poco sfruttati, mentre ci si è insinuati in tutte le sue debolezze, esasperandole, con la proliferazione delle sedi e dei corsi di laurea, l'uso autoreferenziale e nepotistico dei concorsi, il pervicace rifiuto della competitività.
Questo provvedimento non è il migliore possibile, ma gli va riconosciuto il merito di affrontare in modo complessivo, dopo Pag. 53decenni, il malfunzionamento dell'università, esperendo un tentativo di razionalizzazione sensato e per molti aspetti inevitabile.
C'è o non c'è bisogno di una riforma che produca una governance più efficiente e meno corporativa, una professionalità docente più adeguata a standard internazionali, diverse e più trasparenti modalità di reclutamento, nonché la premialità del merito come cifra del cambiamento? Ma è possibile raggiungere questi obiettivi, perseguendoli nell'ottica dei tagli e del massimo risparmio?
Con il decreto fiscale del 2008, il Governo ha cancellato circa 1.400 milioni di euro dai fondi previsti per il 2011, non costretto da una situazione finanziaria gravissima, ma facendo scelte di merito precise. Infatti, in quell'anno si è abrogata l'ICI sulla prima casa e si è finanziata l'avventura dell'Alitalia.
Facendo tutte le somme e le sottrazioni necessarie, il taglio totale dei fondi per il finanziamento ordinario del 2011, rispetto al 2010, è di circa 276 milioni di euro. Il diritto allo studio gode di un finanziamento teorico di 100 milioni di euro, ma in un altro articolo della stessa legge di stabilità ne vengono tagliati 96, e questo in una situazione in cui, già oggi, decine di migliaia di giovani non ottengono le borse per mancanza di fondi, pur avendone teoricamente diritto.
Ora, dopo che un mese fa questo progetto di legge si è incagliato sull'assoluta mancanza di copertura, siamo apparentemente punto e a capo. Infatti, con il passaggio in Commissione bilancio e in Commissione cultura di venerdì, sono stati di fatto espunti tutti gli emendamenti precedentemente approvati alla Camera e al Senato, e comportanti impegni di spesa.
Vorrei sottolineare - anche perché era uno degli emendamenti presentati in Senato da Alleanza per l'Italia - che la scomparsa degli emendamenti già approvati e comportanti spesa ha coinvolto anche il taglio di 20 milioni di euro ai rimborsi elettorali spettanti ai partiti. Infatti, al loro posto, per finanziare la maternità delle assegniste di ricerca, si attingerà a risorse interne al sistema, con ciò depauperando ulteriormente le già scarse risorse concesse per il funzionamento ordinario.
È vero che il piano di assunzioni tramite concorso per professori associati è stato inserito all'interno della legge di stabilità, ma si passerà da 9 mila posti in sei anni, previsti dall'articolo 5-bis, a 4.500 in tre anni; inoltre, le spese saranno tutte sostenute a carico del fondo ordinario, mentre era stato ventilato un finanziamento ad hoc.
Le ultime decisioni delle Commissioni hanno soppresso un altro articolo rilevante, il 3-bis, sull'esenzione fiscale per i trasferimenti a titolo di contributo o di liberalità in favore delle università. Sulla sorte delle retribuzioni per gli ex lettori di lingua straniera è stato posto uno stop: decideremo in Assemblea dopo aver acquisito la relazione tecnica del Ministero dell'economia e delle finanze, così come sugli scatti per i docenti e i ricercatori, che la manovra estiva ha cancellato.
A questo proposito, vorrei far notare che il blocco degli stipendi penalizza soprattutto i più giovani: infatti, per un ricercatore non confermato i mancati aumenti valgono fino al 32,7 per cento dello stipendio.
Facciamo allora il punto della situazione: le tempistiche da voi decise ci obbligano a riaffrontare il provvedimento in totale assenza delle garanzie economiche promesse, nel senso che la legge di stabilità non è ancora stata approvata. Il diritto allo studio viene sempre più svilito ed è in atto un chiaro tentativo di trasformarlo nel diritto a finanziamenti agevolati, rifiutando una definizione chiara dei LEP e dei servizi che devono essere forniti per garantirli: borse di studio, trasporti, assistenza sanitaria, ristorazione, alloggi. Anzi, i tagli effettuati negli anni faranno sì che l'entità e il numero delle borse di studio vadano in progressiva diminuzione, e proprio in questi anni di crisi economica e di grandi difficoltà per i bilanci familiari.
Un'altra questione a nostro avviso fondamentale è la sempre più chiara percezione Pag. 54che questa riforma ci regalerà una persistente precarizzazione dei futuri ricercatori, i quali, dopo il percorso del 3+3 e l'abilitazione scientifica, non avranno alcuna garanzia del passaggio a professore associato.
In conclusione il gruppo Misto-Alleanza per l'Italia, che al Senato ha votato a favore di questo disegno di legge, pur mantenendo un giudizio positivo su quelle che sono le linee generali della riforma, pur riconoscendo che questo provvedimento cerca di risolvere alcuni annosi problemi del sistema universitario...

PRESIDENTE. La invito a concludere, onorevole Calgaro.

MARCO CALGARO. Mi occorrono dieci secondi, signor Presidente. Stavo dicendo che pur riconoscendo che questo provvedimento cerca di risolvere alcuni annosi problemi del sistema universitario, quale quello della governance, del sistema di valutazione, del sistema di reclutamento, dell'ambizione a una reale internazionalizzazione, il mio gruppo, come dicevo, ritiene nettamente insufficiente il finanziamento corrispondente a queste ambizioni. Altri Paesi europei, pur in grande difficoltà come noi per la crisi economica mondiale, hanno avuto il coraggio di passare dai tagli lineari alle scelte di priorità, finanziando in modo cospicuo la ricerca, l'università e l'innovazione considerate risorse per una uscita più veloce dalla crisi e per poter competere nel mondo globalizzato.
Signor Ministro, noi presenteremo degli emendamenti a questo disegno di legge e valuteremo quale atteggiamento tenere solo dopo il suo passaggio in Aula.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare, a titolo personale, l'onorevole Giulietti. Ne ha facoltà.

GIUSEPPE GIULIETTI. Signor Presidente, essendo breve l'intervento sarò schematico e rimando agli interventi degli onorevoli Ghizzoni e Cirielli perché mi riconosco nei loro interventi.
Mi rivolgo però a lei Presidente Leone, e chiedo, attraverso di lei, al Presidente Fini, il quale ha detto che è meglio nulla piuttosto che affrontare nella confusione e nella non certezza di risorse questa riforma, se voi ritenete che esistano le garanzie per una discussione su questo tema, in queste condizioni. Parliamo della formazione, dello spirito pubblico, altro che lotta tra vecchio e nuovo, qui è la lotta del nulla. Signor Presidente, lei conosce la gestione che ha avuto questo provvedimento: il caos, il ritiro, l'assenza di finanziamenti, l'intervento successivo della Commissione bilancio, un'incertezza permanente e un trasferimento ad un supercommissario della cultura e della formazione di questo Paese. In cuor suo, lei affiderebbe al Ministro Tremonti o a chiunque altro, con qualunque nome, con qualunque colore, lei affiderebbe ad un supercommissario la gestione della formazione e della comunicazione della cultura di un Paese? È aberrante il metodo, è aberrante la modalità di discussione.
È per queste ragioni, che la mia non è affatto una critica al lavoro della Commissione anzi, riconosco un lavoro serio ai colleghi di ogni schieramento, alla relatrice come alla presidente, non è un problema di polemica, di politica politicante, è un problema di futuro: parliamo di università.
Allora, credo che sarebbe meglio ritirare questo provvedimento, avere la certezza delle risorse, quel decreto cosiddetto milleproroghe, Presidente, ormai lo chiamano un milione di proroghe per quante cose sono state caricate su questo e su altri provvedimenti futuri. Stiamo investendo sull'incertezza, e stiamo parlando di un settore che ha bisogno di certezze, altrimenti sono solo slogan vuoti, sono spot televisivi, ma nulla hanno a che vedere con l'oggetto di cui stiamo parlando. Per questa ragione io voterò gli emendamenti, perché è certo che i danni vanno ridotti, ma converrebbe a questo Parlamento il ritiro del provvedimento, la capacità di discutere in altra sede, di dare davvero la dimensione che merita un provvedimento di questa natura. Per questo, le chiedo di Pag. 55segnalare anche al Presidente Fini come l'auspicio che egli aveva espresso a Perugia è tragicamente deceduto in queste settimane in quest'Aula.

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

(Repliche dei relatori e del Governo - A.C. 3687-A)

PRESIDENTE. Prendo atto che la relatrice per la maggioranza, onorevole Frassinetti e il relatore di minoranza, onorevole Nicolais, rinunciano alla replica.
Ha facoltà di replicare il rappresentante del Governo.

MARIASTELLA GELMINI, Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. Signor Presidente, onorevoli colleghi, approda oggi alla Camera la discussione di uno dei più importanti provvedimenti di questa legislatura che attiene ad un settore strategico per il Paese come l'università. Tutto ciò avviene a coronamento di un percorso avviato ormai più di due anni fa, con le linee guida sull'università cui hanno fatto seguito analisi, dibattiti e approfondimenti commisurati all'importanza della materia e alla complessità del disegno di legge. Si tratta infatti di un disegno di riforma organico che per la prima volta affronta il problema del reclutamento nel contesto di una più generale riforma dei meccanismi di governo, di gestione e di organizzazione degli atenei. La sua forza sta proprio in questa organicità, per la prima volta il Governo e il Parlamento hanno l'occasione di offrire al nostro sistema universitario un modello compiuto e coerente, non disegnato sulla base di pregiudizi ideologici o di irrealistiche fughe in avanti, ma costruito su analisi ampiamente condivise dei problemi dell'università e maturato nella consapevolezza che è venuto il momento di dare risposte concrete ai problemi annosi dell'università. L'autonomia senza la responsabilità, una nuova programmazione dell'offerta formativa, vere politiche di diritto allo studio, valutazione, reclutamento trasparente e meritocratico, diversa allocazione delle risorse: questi sono i temi.
E lo sforzo del Governo, e mio personale, in questa fase di elaborazione e discussione del disegno di legge, è stato quello di ragionare su un tema così delicato non in un'ottica di schieramento, ma sapendo che l'università è un bene di tutti, e la sua organizzazione deve obbedire ad una logica il più possibile condivisa, anche per garantire una ragionevole continuità nel tempo delle disposizioni normative.
Lo spirito con il quale dobbiamo affrontare oggi la discussione è quello indicato dal Presidente Napolitano, che ci suggerisce: «ci sono alcuni problemi, ci sono alcune scelte che esigono condivisione, perché sono scelte non di breve ma di medio e lungo periodo che non possono essere disfatte solo che cambi il colore di un'amministrazione o di un governo (...)».
Ebbene, credo che questo dovrebbe essere - e mi auguro sarà - lo spirito con cui i colleghi di maggioranza e di opposizione affronteranno un tema così delicato, perché il nostro sistema universitario vive, non certo per la prima volta, una fase difficile.
L'analisi dalla quale sono partite le linee guida e le proposte del Governo non lasciava molto spazio all'ottimismo: abbiamo di fronte un sistema che, in molti casi, sembra aver perso la bussola e aver scambiato l'autonomia per licenza.
Troppo spesso ha pensato a se stesso e non alle esigenze dell'Italia. Soprattutto, il prestigio e la considerazione del Paese verso il mondo universitario sembrano offuscati. Troppo spesso le università occupano le pagine dei giornali più per gli scandali che per le scoperte, mettendo a rischio la legittimazione stessa di istituzioni che, piuttosto, dovrebbero essere prese a modello. E l'amarezza di questa riflessione è accentuata, e non temperata, dalla constatazione che nei nostri atenei, giorno dopo giorno, operano con impegno e con ottimi risultati molti professori e molti ricercatori di alto valore, sinceramente Pag. 56dediti al progresso della scienza e al bene comune, e studenti che desiderano acquisire nuove competenze e strumenti per il loro futuro.
È soprattutto a loro che abbiamo il dovere di garantire un futuro all'altezza delle loro aspettative, ed è proprio pensando a queste persone che dobbiamo cogliere questa opportunità di intervenire con decisione sui mali dell'università, senza cercare di nascondere o sminuire la loro portata, ma avanzando soluzioni innovative e, se serve, drastiche.
Veniamo alle critiche che sono state mosse a questo disegno di legge: la prima riguarda un presunto eccesso di dirigismo. Credo si tratti di un'accusa facile quanto ingiusta. Le nostre università sono enti pubblici gestiti sulla base delle leggi in materia. Tutto va normato per legge: le strutture di governo, i diritti e i doveri dei professori, i meccanismi concorsuali, il diritto allo studio e le norme contabili. In questo contesto abbiamo fatto ogni sforzo per snellire, semplificare e delegificare, anche grazie al contributo della VII Commissione che qui voglio ancora una volta ringraziare.
Oltre non è possibile andare e, in effetti, mi sembra che anche le proposte dell'opposizione si muovano tutte all'interno dello stesso perimetro concettuale. Personalmente auspico un futuro in cui la forza della valutazione e il suo impatto pervasivo sui comportamenti dei singoli e delle istituzioni consentano di abbandonare molte delle regole che oggi riscriviamo.
Me lo auguro, ma non credo di peccare di pessimismo se affermo che i tempi per questa rivoluzione oggi non sono ancora maturi. Quello che possiamo fare è iniziare ad imboccare la strada giusta della valutazione.
Nel frattempo, invito gli onorevoli colleghi a considerare con particolare attenzione le norme che già si spingono in quella direzione, per esempio la possibilità che gli atenei in regola con i conti sperimentino proprie modalità di organizzazione e di gestione, la facoltà data agli atenei medi e piccoli di semplificare ulteriormente la struttura interna, una norma che riguarda oltre la metà di tutte le istituzioni universitarie.
Vi è poi la liberalizzazione della governance dalle istituzioni di eccellenza, a partire dalla Normale, alla Sant'Anna, alla SSIS, nonché l'eliminazione di macchinose procedure elettive per la formazione delle commissioni di concorso e la completa libertà data agli atenei di regolare come meglio credono le procedure interne di chiamata, di selezione e di promozione.
Nell'iter parlamentare abbiamo trovato una soluzione ragionevole anche ad uno dei problemi più spinosi che avevamo ereditato. I ricercatori di ruolo lamentano, a ragione, un ritardo trentennale della politica nel definire chiaramente la loro funzione e i loro compiti. La figura del ricercatore è nata, infatti, nel 1980 senza che venissero definiti con la necessaria chiarezza funzioni e stato giuridico. Gli interventi successivi non hanno fatto che complicare questo quadro già di per sé incerto. Oggi, cinque anni dopo che il ruolo è stato messo ad esaurimento, ci siamo trovati di fronte all'alternativa di proporre una qualche forma di ope legis, oppure di rendere possibile un avanzamento di carriera basato sul merito, secondo le regole stabilite dal disegno di legge.
A spingere in questa seconda direzione è stata anche la gran parte dei ricercatori, quella maggioranza silenziosa che chiede di essere valutata per i propri meriti e di non venire accomunata in un provvedimento collettivo che ne svilirebbe il profilo scientifico. Di questa posizione coraggiosa e lungimirante devono essere grati ai ricercatori il Governo, il Parlamento e il Paese.
La risposta a questa esigenza è stata di introdurre una chiara distinzione tra reclutamento e promozione. Per diventare associati od ordinari si deve conseguire un'abilitazione scientifica nazionale che deve essere rigorosa e trasparente, che permette poi di partecipare a rapide procedure di selezione bandite da ciascuna sede. Pag. 57
Questa è la via maestra che, anche a regime, regolerà un momento fondamentale nella vita degli studiosi, che liberiamo così dalla snervante attesa di concorsi banditi a ritmi imprevedibili e senza i quali non possono nemmeno aspirare all'abilitazione. Si tratta di un meccanismo molto simile a quello francese e vicino a quello in uso nei sistemi anglosassoni, dove l'abilitazione non viene assegnata da una commissione nazionale, ma coincide di fatto con l'esito positivo di una consultazione di esperti esterni all'ateneo che garantiscono l'idoneità dei candidati a monte della decisione locale.
Su questo schema di fondo abbiamo innestato specifiche previsioni per consentire che nei prossimi anni si possa dare una risposta concreta alle aspettative dei molti ricercatori che attendono di vedere riconosciuti i propri meriti. Prevediamo, quindi, che nei primi sei anni gli atenei possano chiamare ad un ruolo superiore gli studiosi già in ruolo nell'ateneo stesso con procedure particolarmente rapide e snelle fino alla metà dei posti disponibili, sempre però a valle dell'abilitazione nazionale. A tal fine la legge di stabilità ha previsto che una quota specifica del fondo di finanziamento ordinario sia destinata a cofinanziare un flusso regolare di concorsi, soprattutto per professore associato.
Ai ricercatori, e a quelli più giovani in particolare, chiedo quindi di valutare con serenità e realismo la proposta contenuta nel disegno di legge: quella di un percorso concreto per rimettere in moto un sistema ingessato. Faccio appello al loro senso di responsabilità per evitare che la protesta, sempre legittima quando si svolge in forme accettabili, non si traduca in un grave danno per gli studenti.
Dobbiamo renderci conto tutti che non esistono soluzioni miracolistiche, ma solo sforzi tenaci ed inevitabilmente graduali per raddrizzare le storture che si sono sedimentate negli anni. Esiste in Italia, e non solo in Italia, il problema di come finanziare l'università pubblica. Possiamo oggi parlarne serenamente, forse più serenamente che in passato, perché la legge di stabilità ha dato una risposta efficace ai problemi di finanziamento degli atenei.
Da quando ho assunto la responsabilità del Dicastero della ricerca e dell'università d'altronde mi sono sempre battuta senza sosta perché, pur in un quadro molto serio di riduzione della spesa pubblica, il settore universitario venisse toccato il meno possibile. È doveroso ricordare che il Fondo di finanziamento ordinario per il 2009 è stato superiore dell'1 per cento a quello del 2008, nonostante il deteriorarsi del quadro macroeconomico. Con la legge n. 1 del 2009 abbiamo recuperato, per il periodo 2009-2012, oltre 300 milioni di euro per il turnover, 135 milioni di euro per le borse di studio e 65 milioni di euro per gli alloggi e le residenze universitarie.
Sono riuscita anche a far fronte alla promessa fatta dal mio predecessore e a finanziare per 40 milioni di euro nel 2008 e 80 milioni di euro nel 2009 nuovi posti da ricercatore, anche se - sia chiaro - ho dovuto trovare ex novo quei fondi. Per il 2010 il taglio previsto originariamente era di 672 milioni di euro e si è ridotto a meno della metà grazie ai 400 milioni di euro recuperati in finanziaria.
Il Fondo di finanziamento ordinario per il 2010 sconta, quindi, una riduzione di circa il 3,7 per cento. Si tratta certo di una riduzione dolorosa ma oggettivamente sopportabile, come è sopportabile la riduzione del 2,5 per cento circa che si prevede nel 2011, dopo che la legge di stabilità ha integrato nuovamente il Fondo di finanziamento ordinario con 800 milioni di euro e soprattutto se si considera - come mi sembra doveroso - che le numerose uscite dal servizio ridurranno il fabbisogno degli atenei per una cifra notevolmente superiore.
Spendiamo un po' meno - è vero - ma stiamo iniziando a spendere meglio. L'anno scorso abbiamo distribuito il 7 per cento del Fondo di finanziamento ordinario sulla base di un modello valutativo che mette in risalto soprattutto la qualità della ricerca. Quest'anno la percentuale è salita al 10 per cento e nel 2011 intendo portarla a non meno del 12-15 per cento. Pag. 58
I primi dati di confronto tra la quota premiale del 2009 e quella del 2010 indicano che molte università stanno migliorando la propria performance puntando sulla qualità della ricerca ed è questa la strada da seguire: non un aumento generico e indifferenziato delle risorse, ma una loro rigorosa riqualificazione. Che i soldi siano pochi o tanti, infatti, non possiamo e non dobbiamo più permetterci le follie del passato recente, le spese facili, le assunzioni fuori controllo, le promozioni senza copertura, le gestioni mirate ad acquisire il consenso dimenticando responsabilità e priorità (Applausi dei deputati del gruppo Popolo della Libertà).
Dal 1999 al 2009 gli studenti sono cresciuti del 7 per cento (badate bene, del 7 per cento), ma il corpo docente del 24 per cento, passando da 50700 insegnanti a 62700 unità di ruolo. Solo il costo di questi 12 mila nuovi docenti pesa per oltre un miliardo sul Fondo di finanziamento ordinario di 7,5 miliardi di euro, ma nel complesso il costo degli stipendi è lievitato da 4,5 a 6,8 miliardi di euro, con un aumento di 2,3 miliardi di euro: il 51 per cento in più rispetto a dieci anni fa. Oggi spendiamo in stipendi il 90 per cento di tutte le risorse che il contribuente mette a disposizione del sistema universitario, ma in ben 36 università quel tetto, al lordo dei correttivi prorogati di anno in anno, è già stato sforato.
Questo significa che non solo tutto il Fondo di finanziamento ordinario se ne va in stipendi, ma che anche una parte delle risorse proprie dell'ateneo - penso alla contribuzione studentesca, ai fondi per la ricerca e ai contratti esterni - viene requisita per far fronte a tali spese.
Aggiungo un solo altro dato: nel suo ultimo DPEF l'allora Ministro del tesoro, Tommaso Padoa Schioppa, ebbe a scrivere parole lungimiranti: il sistema universitario non poteva - secondo il Ministro - aspettarsi nuove risorse, ma doveva imparare a spendere meglio quelle che già riceveva. Si tratta di parole che condivido in pieno: era la primavera del 2006, tempi di vacche grasse e non di recessione. Padoa Schioppa e il Ministro dell'università, Mussi, si accordarono per immettere nel sistema risorse fresche per 550 milioni di euro in ciascun anno del triennio 2008-2009-2010. Erano risorse legate a specifici obiettivi di qualità.
Tanto era preoccupato il Tesoro su come sarebbero stati spesi quei denari da imporre la firma congiunta al decreto annuale di ripartizione. Non aveva torto: oggi la maggior parte di quel fondo - ben 468 milioni su 550 - vale a dire l'85 per cento delle risorse che dovevano essere investite nella qualità è assorbita dalla crescita stipendiale automatica del personale universitario. Pertanto, di quelle misure volte a rafforzare la qualità sono rimaste appena le briciole. Su questo fatto, che non è un'opinione o un parere, ma un dato di realtà, credo che ciascuno di noi debba fare le proprie riflessioni.
Dietro tutti questi fenomeni non possiamo non rilevare che si annidano due pericoli di mistificazione nelle quali non dobbiamo incorrere: l'illusione - o per meglio dire la presunzione - che per le istituzioni accademiche la sostenibilità economica non sia un requisito necessario e la strana idea che il numero dei docenti e la loro distribuzione geografica e disciplinare debbano essere parametrati sulle aspirazioni dei docenti stessi o di chi aspira a diventarlo e non sulle effettive esigenze e possibilità del sistema nazionale.
Non è così, non può e non deve essere così. L'università è un servizio pubblico largamente finanziato dal contribuente cui deve rendere conto delle proprie scelte. Anzi, la solidità finanziaria è garanzia primaria di indipendenza e autonomia: chi ha bisogno di prestiti, di piani di rientro, di contributi eccezionali, di salvataggi in extremis rischia inevitabilmente di contrarre obbligazioni che minano il bene più prezioso per un ateneo: la sua autonomia.
Il rischio non è che il Governo voglia commissariare le università, ma che lo facciano le banche, di fronte a bilanci che farebbero impallidire chiunque. Di fronte a questa situazione, onorevoli colleghi, è necessaria una forte e pronta assunzione di Pag. 59responsabilità. È quella che abbiamo oggi di fronte nel momento in cui dobbiamo esaminare e approvare questo disegno di legge, che continuo a ritenere indispensabile se vogliamo dare un contributo concreto a un processo di risanamento di cui già si intravedono i primi significativi segnali. Nei due anni che ci separano dalle linee guida le nostre università non sono state ferme. Pur in un contesto difficile hanno continuato a svolgere la loro insostituibile missione di insegnamento e di ricerca e, soprattutto, hanno avviato importanti azioni di riforma. Hanno messo mano alla governance, accorpato i dipartimenti, eliminato i corsi di laurea inutili, chiuso sedi decentrate insostenibili.
L'elenco delle iniziative virtuose si sta allungando al nord, al centro e al sud. Parlando con i rettori e con i professori universitari mi accorgo di un diverso atteggiamento, di una nuova consapevolezza dei problemi, ma anche delle prospettive che si stanno aprendo. Si parla concretamente di integrazione della rete formativa su base metropolitana o regionale in Veneto come in Campania o in Puglia.
Si parla di accordi di programma per mettere a fattor comune servizi e progetti nelle Marche come in Piemonte, di maggiore attenzione ai servizi di orientamento e tutorato per gli studenti in moltissimi atenei. Numerose università hanno iniziato a distribuire i fondi al loro interno sulla base di una valutazione di produttività scientifica dei docenti e della loro competitività internazionale. Numerose altre stanno rafforzando i programmi di internazionalizzazione e accelerando la costituzione di collegi di merito. Mai come adesso, onorevoli colleghi, la politica ha la possibilità e il dovere di aiutare questi sforzi e di non ostacolarli, perché solo una vera riforma del nostro sistema universitario può consentirci di raggiungere nuovi traguardi di crescita responsabile.
Le polemiche - specie in una materia così delicata - sono inevitabili, ma a una lettura serena, appaiono chiari, non solo l'impianto riformista del disegno di legge, ma anche i numerosi punti di contatto con qualificanti proposte dell'opposizione: la presenza di prestigiosi esponenti della società civile nei consigli di amministrazione, il ruolo centrale affidato ai dipartimenti, la revisione delle norme su tempo pieno o definito, la centralità della valutazione per allocare le risorse, l'accorpamento dei settori scientifico-disciplinari, l'abilitazione scientifica nazionale a numero aperto, la distinzione tra reclutamento e promozione, accompagnata, nel transitorio, da norme specifiche per agevolare la chiamata dei ricercatori di ruolo, la limitazione nell'uso dei contratti di insegnamento per evitare che diventino fonte di precariato, la struttura stessa dei nuovi ricercatori, la tenure track, l'introduzione di un costo standard per studente, al fine di ridurre ed eliminare ingiustificate sperequazioni nell'allocazione delle risorse pubbliche.
Nel passaggio alla Camera, il testo del disegno di legge si è ulteriormente arricchito di novità importanti. Penso alla costituzione di un Comitato nazionale dei garanti della ricerca - che viene incontro ad una richiesta molto sentita dalla comunità scientifica - oppure alla norma che estende anche ai professori associati il voto per la chiamata di ricercatori e associati.
Nei mesi scorsi - è vero - pesava sul destino del disegno di legge l'incertezza sull'entità del Fondo di finanziamento ordinario per il 2011; oggi, la legge di stabilità ha fatto chiarezza in materia, appostando un miliardo di euro per le esigenze del sistema universitario, di cui ben 800 milioni per il Fondo di finanziamento ordinario e 100 per il diritto allo studio.
So quanto questa specificazione, questa dovuta precisazione sulle risorse stia a cuore a ciascuno di voi - mi era stata chiesta una puntualizzazione sia dai gruppi della maggioranza, che da quelli dell'opposizione - ebbene, oggi, queste risorse ci sono. Voglio ringraziare il Ministro Tremonti - e con lui tutto il Governo - che, nella legge di stabilità, ha Pag. 60dimostrato nei fatti di assegnare la giusta priorità al sistema di formazione e di valorizzazione del capitale umano.
Onorevoli colleghi, trovare un miliardo di euro in un momento economico come questo non è stato facile.

GIOVANNI BATTISTA BACHELET. La Commissione bilancio ha votato contro!

MARIASTELLA GELMINI, Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. Credo che più delle parole valgano i fatti. La scelta compiuta dal Governo dopo - non nego - un certo travaglio e molte discussioni è giusta, dovuta e - credo - apprezzabile da ciascuno di voi perché ci consentirà, non solo di garantire il normale funzionamento dell'università, ma anche di dare la giusta considerazione al tema dei giovani ricercatori e il giusto posizionamento di risorse per il diritto allo studio.
Vorrei, peraltro, sottolineare l'importanza - che forse, per il momento, non è stata ancora considerata - dei 100 milioni di euro sull'innovation vaucher.
Può essere un nuovo modo, da sperimentare, ma credo significativo e applicato anche per esempio nel sistema anglosassone, per finanziare la ricerca all'interno dell'università e creare un collegamento fra le imprese, in modo particolare le piccole e medie imprese, e l'università stessa.
Chi chiede oggi - non so in verità con quanto reale convincimento - addirittura il ritiro del disegno di legge, come se anni di dibattiti, di attese, di proposte fossero trascorsi invano, si assume una responsabilità davvero enorme di fronte al sistema universitario e al Paese.
Portare il disegno di legge a termine è un dovere al quale non possiamo sottrarci. Non farlo significherebbe, chissà ancora per quanto tempo, la continuazione di un intollerabile vuoto normativo in materia di reclutamento, che fa dell'Italia oggi l'unico Paese al mondo in cui non esiste un modo per diventare professori di università. Significherebbe tenerci le mille forme di precariato non regolato che affliggono i nostri giovani. Significherebbe rinunciare a nuove regole chiare e trasparenti sulla valutazione. E significherebbe anche il paradosso di avere discusso un anno per recuperare risorse che oggi ci sono e non dare alle università regole certe per poter spendere e investire quella somma di denaro.
Invito davvero ciascun collega ad una riflessione su questo punto. Abbiamo il dovere, infatti, di fronte al Paese e di fronte ai giovani, di costruire un'università che goda pienamente della fiducia di tutti, cui sia riconosciuto fino in fondo il suo ruolo unico e insostituibile di luogo primario della ricerca e di motore dello sviluppo sociale, economico e tecnologico.
Questo oggi dobbiamo fare, e il mio augurio è che la Camera lo sappia fare anche in un clima politico complicato, come quello che abbiamo di fronte, ma oggi, più delle divisioni e più della legittima contrapposizione fra maggioranza e opposizione, mi auguro che la Camera dimostri il suo apprezzamento e il suo interessamento per l'università, che è l'istituzione per eccellenza del Paese che credo meriti rispetto e considerazione da parte di tutti. Quindi dobbiamo anteporre questa importanza dell'università ai legittimi interessi di parte (Applausi dei deputati dei gruppi Popolo della Libertà e Lega Nord Padania).

(Annunzio di una questione pregiudiziale - A.C. 3687-A)

PRESIDENTE. Avverto che, ai sensi dell'articolo 40, comma 1, primo periodo, del Regolamento, è stata presentata la questione pregiudiziale di costituzionalità Vassallo ed altri n. 1 (Vedi l'allegato A - A.C. 3687-A).
Poiché tale questione pregiudiziale non è stata preannunziata nella Conferenza dei presidenti di gruppo, in sede di definizione del calendario, essa sarà discussa e votata prima di passare all'esame degli articoli del provvedimento.
Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

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Discussione della proposta di legge: Antonino Foti ed altri: Interventi per agevolare la libera imprenditorialità e per il sostegno del reddito (A.C. 2424-A) e dell'abbinata proposta di legge: Jannone (A.C. 3089) (ore 16,10).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della proposta di legge, di iniziativa dei deputati Antonino Foti ed altri: Interventi per agevolare la libera imprenditorialità e per il sostegno del reddito e dell'abbinata proposta di legge, di iniziativa del deputato Jannone.
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).

(Discussione sulle linee generali - A.C. 2424-A)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che il presidente del gruppo parlamentare Partito Democratico ne ha chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del Regolamento.
Avverto, altresì, che la XI Commissione (Lavoro) si intende autorizzata a riferire oralmente.
Il relatore, onorevole Antonino Foti, ha facoltà di svolgere la relazione.

ANTONINO FOTI, Relatore. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, alla conclusione di un lungo ed impegnativo lavoro istruttorio che la XI Commissione ha preparato, abbiamo portato oggi in Aula per la sua definitiva approvazione un testo importante e delicato, che si pone l'obiettivo di definire una serie di rilevanti interventi per il sostegno dei lavoratori che, fruendo dei trattamenti di sostegno al reddito, in seguito alla perdita del posto di lavoro, abbiano intenzione di avviare in proprio un'attività di impresa.
Il provvedimento è frutto di una proposta di legge a prima firma del sottoscritto, condivisa e firmata da 114 colleghi, il cui esame in Commissione è partito nel giugno 2009.
Ho sempre osservato con preoccupazione il problema dell'elevato numero dei cassintegrati nel nostro Paese, numero che sembra purtroppo non dover diminuire nell'immediato futuro. Dei lavoratori interessati, oggi quasi 700 mila, quanti avranno l'opportunità di essere reintegrati nel loro posto di lavoro? Quanti lo potranno ritrovare presso altre aziende, il 40, 50, 60 per cento? Non so dire ora quale potrebbe essere la giusta percentuale. Certamente, so e sappiamo quali grandi difficoltà si porranno per coloro che non potranno rientrare nella loro azienda, nel trovare quindi un nuovo lavoro nel settore pubblico o nel settore della media e grande impresa, vista la tendenza di queste realtà a ridurre da anni e in special modo in questi ultimi tempi, la manodopera. Un'ottima soluzione può ravvisarsi nel lavoro individuale, nell'autoimprenditorialità, nell'artigianato, nel piccolo commercio e nella cooperazione. Ritengo possa ripetersi quanto già successo nel nostro Paese nel primo dopoguerra, quando, a seguito della chiusura di molte fabbriche e di massicci licenziamenti, molti operai esperti e capaci nel loro lavoro fecero nascere una miriade di piccole imprese, in gran parte all'inizio individuali e in seguito con pochi dipendenti, fenomeno attraverso il quale si è affermato un sistema economico polverizzato che ha di fatto positivamente inciso sullo sviluppo economico e sociale del nostro Paese, esempio peraltro studiato e tuttora invidiato nel mondo. Certo, tutto ciò non nacque per caso. Il processo fu accompagnato e agevolato. Gli enti locali, specie del centro-nord, indipendentemente dal tipo di amministrazione, disposero allora gli insediamenti produttivi, i vari villaggi artigianali e industriali, accompagnando così la creatività dei nostri operai e della nostra gente. Ad assecondare questa spontanea politica economica non mancò un fatto di grande importanza. Quando nel Pag. 62maggio del 1947 il deputato Michele Gortani presentò all'Assemblea costituente l'emendamento: «la legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell'artigianato», oggi, come sappiamo, secondo comma dell'articolo 45 della Costituzione, fu proprio l'onorevole Giuseppe Di Vittorio, noto sindacalista, ad esprimere per primo parere favorevole a nome del Partito Comunista. L'onorevole Di Vittorio con grande senso dello Stato e del bene comune, pur rappresentando egli con tenacia e vigore la classe operaia, comprese che tanta parte di essa non avrebbe trovato altra occupazione se non nell'artigianato e nella piccola imprenditoria in genere. Le grandi potenzialità occupazionali del sistema della piccola impresa furono chiaramente individuate anche nel 1970, quando l'allora Ministro del lavoro Brodolini, coadiuvato dal professor Giugni, esentò dall'applicazione dello statuto dei lavoratori le aziende al di sotto dei quindici dipendenti.
Oggi la legislazione è diversa da allora. Da una parte, giustamente è cambiata ed è consona ai tempi, alle nuove esigenze e alle direttive europee, ma dall'altra si è affermata una legislazione, specie negli ultimi vent'anni, burocratica, vessatoria, punitiva, pensata, scritta ed approvata per un sistema produttivo formato soltanto da grandi e grandissime imprese, che ha arrecato e sta ancora arrecando notevoli ostacoli alle nostre aziende, che come sappiamo per il 94,5 per cento sono al di sotto dei dieci dipendenti.
Noi legislatori - infatuati dai soli concetti della globalizzazione, spinti spesso da economisti conoscitori soltanto della grandissima impresa, che per anni e anni, in parte sbagliando, ci hanno raccontato che i nostri piccoli imprenditori dovevano ingrandirsi, mentre i grandi tendevano e tendono, in realtà, a diventare sempre più piccoli o a delocalizzare - ed i nostri colleghi prima di noi, abbiamo legiferato, in gran parte, soltanto per realtà imprenditoriali che hanno una parziale incidenza sull'economia del Paese. Come se non sapessimo che il 99,4 per cento del nostro sistema produttivo aveva e ha meno di cinquanta dipendenti, abbiamo continuato a legiferare come se le nostre aziende, invece, ne avessero tutte, come minimo, cinquecento o mille. Quando questa normativa nel tempo è venuta a scontrarsi con la realtà economica italiana, ha in gran parte rallentato, e mi sembra rallenti tuttora, il sistema produttivo, da cui consegue il ritardo della produttività e del PIL rispetto agli altri Paesi europei.
Tant'è che siamo attualmente al quarantottesimo posto nella classifica mondiale della competitività e al settantaquattresimo in quella delle libertà economiche. La volontà e la speranza della mia proposta è quella di ripristinare, per quanto possibile, quel momento storico-economico del primo dopoguerra, quando era più semplice e veloce e, conseguentemente, produttivo iniziare e continuare una attività imprenditoriale. L'alternativa per tanti cassintegrati potrebbe altrimenti essere, nel prossimo futuro, la disoccupazione, il lavoro nero, l'abusivismo, il sommerso, l'evasione fiscale e l'illegalità.
Vorrei ora riassumere brevemente per l'Assemblea l'andamento dell'iter legislativo. Dopo una prima approfondita fase di esame, la Commissione XI (Lavoro) ha elaborato un primo testo, inviato, per l'espressione del parere, alle altre Commissioni competenti, che hanno formulato diversi suggerimenti e proposte. Nel frattempo, la V Commissione (Bilancio) ha deciso di chiedere al Governo la predisposizione di una relazione tecnica in modo da valutare con precisione i profili di onerosità della proposta stessa. A seguito dell'invio della prima relazione tecnica da parte del Governo che poneva alcune questioni problematiche, la Commissione XI (Lavoro) ha, quindi, convenuto sull'opportunità di modificare il testo e ha adottato alla fine del mese di marzo di quest'anno un nuovo testo come risultante dall'approvazione di diversi emendamenti, che recepiva non soltanto i rilievi delle altre Commissioni ma anche le indicazioni poste nella predetta relazione tecnica. Sul nuovo testo sono stati nuovamente acquisiti i pareri delle diverse Commissioni. Nel contempo a questa proposta di legge è stata anche abbinata la proposta di legge Pag. 63n. 3089, dal contenuto sostanzialmente identico a quello della proposta di legge n. 2424. Acquisito l'ulteriore testo del progetto di legge, la Commissione V (Bilancio) ha a sua volta chiesto una nuova relazione tecnica e ha acconsentito alla fine di approvare un parere articolato con il quale finalmente è stato dato il via libera al provvedimento, permettendo alla XI Commissione di concluderne l'esame e di conferirmi per l'appunto il mandato a riferirne favorevolmente in Assemblea.
Riassunto dunque il complesso percorso che ci ha consentito di giungere oggi in Aula, mi sia ora consentito di spiegare sinteticamente il senso di questa proposta di legge. In sostanza l'idea centrale del provvedimento è quella di dare ai lavoratori che hanno perso momentaneamente il proprio lavoro l'opportunità di avviare microimprese con un massimo di tre addetti anche grazie ad appositi incentivi e sgravi in modo che essi possano creare nuovo reddito e determinare un incremento dell'occupazione. Per avviare queste attività il provvedimento concede ai lavoratori in cassa integrazione guadagni di utilizzare parte delle risorse normalmente destinate ad ammortizzatori sociali. Si tratta in pratica di sostituire una spesa che, pur avendo un'importante funzione, è di fatto improduttiva per lo Stato, in quanto diretta a riconoscere le varie forme di indennità di disoccupazione e di cassa integrazione. Come sappiamo, la possibilità di usufruire di un reddito da parte dei lavoratori temporaneamente usciti dal mondo produttivo è possibile solamente per limitati periodi, non potendo così costantemente assicurare loro, nel tempo, un'esistenza dignitosa. Per questo abbiamo pensato di offrire a questi lavoratori un'alternativa, tutta basata sulla propria capacità di impegnarsi e realizzarsi in un'attività imprenditoriale autonoma.
Un altro importante fattore che giustifica la creazione di questi incentivi risiede, infatti, nel potenziale pericolo che i lavoratori disoccupati, per naturali esigenze, alimentino le schiere dei lavoratori in nero. In particolare sussiste il rischio che i lavoratori usciti anche temporaneamente dal sistema produttivo continuino a lavorare con privati o imprese avvalendosi delle proprie esperienze e competenze tecniche, rifugiandosi, però, nel sommerso e nella totale evasione fiscale e contributiva. L'elemento di innovazione e di maggiore interesse della proposta di legge in esame, dunque, consiste nel costruire per un breve e determinato periodo una sorta di percorso protetto del lavoratore che perde il posto di lavoro.
Durante questo periodo, pur tenendo ferme le regole sulla sicurezza sul lavoro, e sull'esercizio dell'attività imprenditoriali, viene applicata una legislazione leggera, basata su agevolazioni, incentivi e sgravi, prevenendo in tal modo la possibile totale illegalità del sommerso.
In relazione a questi obiettivi, il progetto di legge trasferisce, quindi, parte delle risorse, attualmente destinate agli ammortizzatori sociali, a favore di specifici interventi idonei ai fini dell'avvio di nuova imprenditorialità e di nuova occupazione, soprattutto nel settore delle imprese artigiane e delle micro-imprese. In questo contesto, mi limito ad indicare i principali elementi di innovazione che abbiamo introdotto nel testo. Anzitutto, l'articolo 1 ha mantenuto le specifiche agevolazioni ai lavoratori che fruiscono di determinati strumenti di sostegno al reddito, continuando ad usufruire del 50 per cento dell'emolumento previsto dalla cassa integrazione guadagni, e abbiano l'intenzione di iniziare un'attività imprenditoriale, rafforzando il carattere sperimentale ed innovativo delle misure previste. In questo ambito sono state apportate limitate modifiche di coordinamento con la legislazione vigente e alcuni aggiustamenti suggeriti dal Governo nell'ambito della relazione tecnica. Analoga sorte ha avuto l'articolo 2, che disciplina le modalità di finanziamento, mentre l'articolo 3 - relativo alle agevolazioni fiscali - è stato sostanzialmente modificato, anche in base ai suggerimenti della Commissione finanze, e ha assunto un carattere di maggiore compatibilità con la normativa comunitaria, oltre che una sostanziale equiparazione al regime de minimis. La Com Pag. 64missione lavoro ha ritenuto poi opportuno mantenere inalterato l'impianto dell'articolo 4 che reca disposizioni in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro, nonché dell'articolo 5 che tuttavia è stato reso maggiormente conforme alla disciplina comunitaria dei rifiuti, come peraltro confermato anche nel parere della Commissione ambiente. L'articolo 6, che non è stato modificato, prevede al comma 1 che i soggetti interessati ad avviare l'attività di impresa presentino all'ufficio del Registro delle imprese la cosiddetta comunicazione unica, mentre il successivo comma 2 identifica la forma giuridica che le imprese avviate debbano possedere al fine della fruizione dell'agevolazione. Inoltre la Commissione ha inserito 3 nuovi articoli. Con l'articolo 7 si è tentato di individuare una soluzione all'annoso problema dell'inquadramento dei soci lavoratori delle cooperative con qualifica artigiana, con una scelta che vuole anche ridurre sensibilmente il contenzioso in atto. Al contempo l'articolo 8, conforme alle prescrizioni della relazione tecnica, ha individuato una corretta copertura agli interventi proposti. Inoltre, con l'articolo 9 si è pensato di affidare al Governo il compito di presentare al Parlamento una relazione sull'attuazione delle misure sperimentali introdotte dal provvedimento, corredata dai dati sull'effettivo utilizzo, in termini quantitativi e qualitativi, proprio delle misure medesime e dall'indicazione delle risorse destinate allo scopo. Mi permetto di rimarcare che la validità del testo che la XI Commissione propone all'Assemblea è peraltro confermata anche dai pareri espressi dalle diverse Commissioni competenti in sede consultiva, molte delle quali si sono pronunciate sia sul vecchio che sul nuovo testo. In particolare, tutte le Commissioni coinvolte hanno espresso un parere favorevole sul provvedimento definitivo, che ha introdotto significative modifiche ed integrazioni rispetto alla precedente versione del progetto di legge in esame, sul quale peraltro diverse Commissioni in sede consultiva avevano formulato giudizi più incisivi. Oltre al parere della V Commissione (Bilancio), che ha indicato le modifiche necessarie ad assicurare un'idonea copertura finanziaria del testo, le altre Commissioni hanno infatti formulato soltanto limitati e circoscritti rilievi, per lo più sotto forma di osservazione. Mi vorrei soffermare in proposito sul parere della XIV Commissione (Politiche dell'Unione europea), che richiede un intervento soppressivo dell'articolo 5 del provvedimento: in realtà, tale articolo appare sufficientemente valido nella sua attuale formulazione, come dimostra peraltro il parere già richiamato in precedenza dalla VIII Commissione (Ambiente) competente nel merito della materia, la quale si è limitata a formulare due circoscritte osservazioni, con ciò incoraggiando a valutare in termini positivi la riscrittura dell'articolo avvenuta poi con il nuovo testo della proposta di legge.
Con riferimento poi alla condizione posta nel parere della Commissione parlamentare per le questioni regionali, vorrei ribadire che il testo non vieta il pieno coinvolgimento degli enti territoriali negli interventi di sostegno al lavoratore. Al contrario, la Commissione lavoro, proprio per rispetto nei confronti degli enti territoriali, non ha voluto imporre questo coinvolgimento per legge, trattandosi di materia riservata all'autonomia dei rispettivi enti locali che, come è ovvio, saranno liberi di scegliere se aderire o meno a questi interventi mediante proprie misure aggiuntive.
In conclusione, siamo convinti che il provvedimento possa costituire un importante punto di svolta per le politiche sociali e contribuire al rilancio economico e produttivo del Paese, soprattutto in una fase come quella attuale. In questo senso, auspico che il provvedimento possa essere sostenuto in Aula da tutti i gruppi parlamentari. Ricordo, infatti, che, in Commissione, i gruppi di maggioranza e di opposizione si sono pronunciati a favore del testo, con l'eccezione del gruppo del Partito Democratico, che si è astenuto con una motivazione a mio avviso apprezzabile e che anche noi ci auguriamo sia superabile. Pag. 65
Sono certo, quindi, che nel passaggio in Assemblea potremo fare un ottimo lavoro e consegnare al Senato un testo da approvare rapidamente per dotare il Paese di un nuovo agile strumento di sostegno in favore dei lavoratori, della nostra economia, dell'occupazione e della legalità (Applausi dei deputati dei gruppi Popolo della Libertà e Lega Nord Padania).

PRESIDENTE. Prendo atto che il rappresentante del Governo si riserva di intervenire in sede di replica.
È iscritto a parlare l'onorevole Paladini. Ne ha facoltà.

GIOVANNI PALADINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, la proposta di legge che giunge all'esame dell'Aula ha avuto un iter lungo e travagliato a causa della mancanza di copertura per gli interventi che contiene, i quali comportano, tra l'altro, un aumento degli oneri sul bilancio dello Stato.
Riguardo all'iter in Commissione, il testo originario della proposta di legge n. 2424 si componeva di 6 articoli, che sono aumentati a 9 all'esito dell'esame in Commissione. Il primo testo licenziato dalla Commissione lavoro veniva sottoposto ai pareri delle Commissioni consultive con scadenza fissata per ottobre 2009, ma la Commissione bilancio non riusciva ad esprimere il proprio parere in ragione dei maggiori oneri arrecati e non quantificati a carico della finanza pubblica. Veniva, quindi, richiesta una relazione tecnica che, ancora nel febbraio 2010, non risultava preparata dal Governo.
In assenza della relazione e del parere della Commissione bilancio, la XI Commissione costituiva un comitato ristretto ed adottava un nuovo testo base emendato sulla scorta dei rilievi del Governo sugli oneri derivanti. A fine marzo, il testo veniva rinviato alle Commissioni consultive per il prescritto parere.
La V Commissione bilancio, in aprile, chiedeva nuovamente al Governo la predisposizione di una relazione tecnica per la quantificazione degli oneri; una prima relazione veniva inviata dal Governo in data 17 giugno 2010 e un'altra, che integrava parzialmente, modificandola, la precedente, veniva inviata in data 3 agosto 2010.
A seguito della verifica della relazione tecnica, la V Commissione approvava, quindi, a fine settembre, un parere contenente condizioni dirette a garantire il rispetto dell'articolo 81, quarto comma, della Costituzione, nonché un'osservazione, sulla scorta anche degli altri pareri.
Il testo della proposta di legge veniva così ulteriormente modificato ed approvato per la trasmissione all'Assemblea.
In questa Commissione, lo scrivente, il mio capogruppo, aveva annunciato il voto favorevole dell'Italia dei Valori nella votazione per il conferimento del mandato al relatore e aveva ritenuto, peraltro, doveroso sottolineare, proprio in quella realtà, l'inadeguatezza delle risorse stanziate per l'intervento in esame, che giudicavamo e giudichiamo importante soprattutto in questo delicato momento di crisi.
Il Partito Democratico aveva un orientamento inizialmente favorevole nei confronti del provvedimento in esame, nella speranza, alimentata anche dalle dichiarazioni del relatore, che l'intervento in questione sarebbe stato sostenuto con dotazioni finanziarie significative.
Tuttavia dal momento che le risorse disponibili per il finanziamento delle misure in esame si sono progressivamente assottigliate man mano che procedeva l'esame parlamentare o sono state dirottate su altre coperture finanziarie, la valutazione conclusiva del PD non era stata positiva ma di astensione. Considerata tuttavia la condivisione delle finalità dell'intervento, avevano preannunziato l'astensione e quindi naturalmente noi avevamo seguito con molta attenzione questo provvedimento, come il resto dei colleghi dell'opposizione.
Quanto al contenuto del testo deliberato per l'Aula, la proposta in esame contiene misure sperimentali per il biennio. C'è da chiarire un concetto: qui si sta parlando di una misura sperimentale per il biennio 2010-2011 per il sostegno dei lavoratori che, fruendo di trattamenti di Pag. 66sostegno al reddito, in seguito alla perdita del posto di lavoro, abbiano intenzione di avviare un'attività di impresa. Infatti è questo il nocciolo della proposta in esame.
In Commissione è stato inserito un ultimo comma all'articolo 1, con il quale si prevede che le modalità e le condizioni per godere dei benefici previsti dalla proposta di legge sono stabiliti con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze. Nello specifico sono riconosciute specifiche agevolazioni ai lavoratori dipendenti che, essendo destinatari dei seguenti trattamenti di integrazione del reddito, naturalmente vorranno avviare una nuova impresa: per i lavoratori destinatari dell'indennità ordinaria di disoccupazione non agricola con i requisiti normali, di quella con i requisiti ridotti della cassa integrazione guadagni ordinaria, dei trattamenti di cassa integrazione guadagni straordinaria, dei trattamenti di cassa integrazione guadagni straordinaria e di mobilità per disoccupazione speciale, dei trattamenti di cassa integrazione salari straordinaria e di mobilità, ai sensi dell'articolo 1 della legge n. 223 del 1991, e dei contratti di solidarietà stipulati con imprese non rientranti nel campo di applicazione della disciplina della CIGS.
A coloro che vorranno avviare una nuova impresa viene corrisposta, subordinatamente all'effettivo avviamento dell'attività di impresa, un'indennità mensile pari al 50 per cento dell'importo del trattamento al quale hanno diritto i lavoratori che accedono agli ammortizzatori sociali in deroga, di cui all'articolo 19 del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, e in luogo delle indennità rispettivamente previste per ciascuno dei trattamenti individuati.
L'ammissione a tale trattamento, in via naturalmente sperimentale e in deroga alle disposizioni vigenti, è valida per l'anno 2010 e 2011 ed è condizionata all'avviamento di un'attività di impresa.
Dietro specifica richiesta, viene erogata una quota del 25 per cento degli ammortizzatori sociali non corrisposta ai sensi del numero 1), che viene versata in un'unica soluzione. L'erogazione dell'ammontare attualizzato al tasso ufficiale stabilito dalla BCE viene effettuata dalla Cassa depositi e prestiti la quale riceverà con cadenza mensile il 25 per cento del trattamento da parte dell'INPS. Come vede, signor Presidente, l'indennità mensile del 50 per cento è corrisposta peraltro in alternativa alle misure di sostegno al reddito previste dalla legge di conversione del decreto-legge n. 78 del 2009, articolo 1, commi 7, 8, 8-bis e 8-ter.
Il finanziamento in un'unica soluzione del 25 per cento della somma degli ammortizzatori sociali ancora non dovuta è stata ridotta in Commissione, mentre nella proposta di legge originaria era del 50 per cento. Inoltre, è stato specificato - elemento che mancava nel testo originario della proposta di legge - che, qualora il lavoratore al momento della domanda stia già fruendo di una misura di sostegno al reddito, l'indennità mensile compete esclusivamente per il periodo residuo sino al termine stabilito sulla base della legislazione vigente come periodo massimo di fruizione della relativa misura.
Per il periodo di fruizione dell'indennità di cui al numero 1) è posta a carico della gestione prestazioni temporanee dell'INPS la contribuzione figurativa nella misura del 50 per cento della contribuzione obbligatoria dovuta sul minimale reddituale delle rispettive gestioni.
Invece la contribuzione figurativa è posta a carico della gestione interventi assistenziali di sostegno alle gestioni previdenziali, quindi della GIAS dell'INPS, e gli interessati possono integrare mediante apposita domanda da presentarsi entro il 30 giugno del 2011 l'accredito figurativo mediante il versamento alla gestione di appartenenza del restante 50 per cento. È prevista la rateizzazione del pagamento in 36 rate mensili, senza interessi né oneri accessori.
Anche per la contribuzione figurativa si specifica che, qualora il lavoratore al momento della domanda stia già fruendo di una misura di sostegno al reddito, essa compete esclusivamente per il periodo residuo, sino al termine stabilito sulla base Pag. 67della legislazione, con un periodo massimo di fruizione della relativa misura. Resta fermo in ogni caso l'obbligo dell'iscrizione all'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, secondo la legislazione vigente. Trovano inoltre applicazione anche le disposizioni dell'articolo 19 del decreto-legge n. 185 del 2008 in materia di intervento integrativo posto a carico degli enti bilaterali previsti dalla contrattazione collettiva, però con una misura minima ridotta al 10 per cento in luogo del 20 per cento.
È altresì previsto l'esonero dal versamento dei contributi obbligatori a carico del datore di lavoro e del lavoratore ai sensi della normativa vigente, nel caso in cui i soggetti interessati che abbiano intrapreso attività di impresa nel periodo di riferimento assumano altri lavoratori dipendenti che fruiscano di trattamenti a sostegno del reddito. L'esonero è riconosciuto solo per il periodo in cui questi ultimi hanno diritto a fruire dei medesimi trattamenti. Tali periodi sono integralmente coperti mediante la contribuzione figurativa e con oneri a carico della GIAS dell'INPS. Naturalmente resta fermo per i datori di lavoro l'obbligo di iscrivere i lavoratori dipendenti all'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro.
Infine, terminato il periodo sperimentale, è prevista la possibilità sia per i lavoratori che sulla base della legge abbiano intrapreso un'attività imprenditoriale, sia per quelli assunti da tali soggetti e sia per i soci e i familiari che collaborino all'impresa di iscriversi alle liste di mobilità qualora decidano, a causa di comprovate difficoltà di natura economico-finanziario o di un evento improvviso che generi l'impossibilità di mantenere in essere l'attività stessa, di non proseguire più nell'attività di impresa o nell'attività lavorativa alle dipendenze di soggetti che hanno avviato l'attività di impresa ai sensi delle disposizioni in esame. Gli eventi che generano l'impossibilità di mantenere in essere le attività di impresa o lavorative sono determinati con un decreto successivo.
I predetti lavoratori che avviano un'impresa possono accedere solo nel biennio 2010 e 2011 a finanziamenti bancari garantiti dai fondi speciali antiusura e costituiti e gestiti da confidi. I contributi erogati a favore dei fondi speciali antiusura possono essere cumulati con eventuali contributi concessi ai medesimi fondi dalle regioni o dalle province.
Qualora i soggetti che hanno avviato un'impresa successivamente la cessino o tornino a percepire redditi da lavoro dipendente sono tenuti alla cessione del quinto dello stipendio in favore dei soggetti eroganti, a garanzia del residuo debito per i finanziamenti erogati ai sensi del precedente articolo, e in caso di eventuale inadempienza si applicano le disposizioni in materia di recupero dei crediti di cui al testo unico bancario.
La proposta di legge stabilisce che i titolari delle attività di impresa avviate sulla base della medesima possano optare per il regime fiscale dei contribuenti minimi introdotto dalla legge finanziaria per il 2008 qualora ne ricorrano i presupposti oggettivi, le condizioni previste e i requisiti richiesti dalla normativa. Il testo originario della proposta invece introduceva un regime fiscale di favore ad hoc.
L'applicazione del regime agevolato viene subordinato alla preventiva autorizzazione comunitaria.
Si ricorda, a tale proposito, che, ai sensi dell'ex articolo 87 del Trattato che istituisce la Comunità europea, «(...) sono incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi degli Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza». Pertanto, salvo le deleghe espressamente previste dal Trattato medesimo, l'introduzione di qualunque forma agevolativa necessita della preventiva autorizzazione comunitaria.
Nel testo, è stata introdotta, a favore delle imprese che si avvalgono del regime fiscale de minimis, «(...) la possibilità di dedurre dal reddito imponibile, nei limiti di un massimo di 5 mila euro nel primo biennio Pag. 68di attività, le spese sostenute per la loro partecipazione, ovvero per la partecipazione dell'eventuale personale dipendente, a corsi di formazione professionale di apprendimento, purché documentate e coerenti con gli obbiettivi dell'attività svolta dall'impresa».
Anche per i benefici fiscali, è stato inserito un comma in cui si prevede che le modalità e le condizioni per fruirne saranno stabilite con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze.
Le forme giuridiche che le nuove imprese dovranno assumere, al fine di fruire delle agevolazioni, sono le seguenti: impresa individuale o impresa familiare, ai sensi dell'articolo 230-bis del codice civile, società in nome collettivo o in accomandita semplice, e società cooperativa, di cui all'articolo 2522 del codice civile. I soci e i collaboratori familiari, di cui all'articolo 230-bis del codice civile, qualora si trovino in cassa integrazione, sono esonerati dai versamenti contributivi alle rispettive gestioni previdenziali di appartenenza e gli stessi soggetti usufruiscono, altresì, dei medesimi benefici contributivi e previdenziali previsti per i lavoratori che avviano l'impresa.
Infine, per agevolare realmente le forme microimprenditoriali in oggetto, si prevede che, in ogni caso, il numero massimo di addetti complessivamente occupati e, comunque, impegnati nelle imprese, non possa essere superiore a tre unità, compresi gli apprendisti e i soggetti assunti nel contratto di formazione e di inserimento.
Nel provvedimento in oggetto, sono previsti anche interventi relativi alla sicurezza sui luoghi di lavoro. Secondo la relazione illustrativa, il richiamo specifico a determinate norme della legislazione di settore deriva dal fatto che il quadro della tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro prevede un insieme di norme particolarmente complesso. Tale quadro risulta di ardua attuazione entro strutture di piccolissima dimensione, nelle quali un elevato grado di protezione e di prevenzione può raggiungersi solo attraverso la cultura della sicurezza, la collaborazione tra pari e l'assolvimento di semplici e ben definiti obblighi, evitando, per quanto possibile, il ricorso a procedure burocratiche.
In particolare, il riferimento al testo unico in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro concerne la questione che sottopone i titolari e i soci delle imprese costituite, nonché i membri dell'impresa, alle disposizioni dell'articolo 21 del testo unico stesso. Tale disposizione stabilisce che i soggetti che esercitano la propria attività nei cantieri si adeguino, ai fini della sicurezza, alle indicazioni fornite dal coordinatore per l'esecuzione dei lavori; si prevede, inoltre, la tutela dei lavoratori dipendenti delle imprese individuali o societarie, costituite ai sensi dell'articolo 15 del citato provvedimento, che sono, quindi, poste a carico dei datori di lavoro.
Andrebbe valutato se le tutele elencate previste per i lavoratori dipendenti siano effettivamente adeguate alla luce della disciplina del decreto legislativo n. 81 del 2008. Infatti, il testo originario della proposta di legge prevedeva che le imprese costituite da lavoratori in cassa integrazione fossero esonerate, in via transitoria, da alcuni obblighi del decreto legislativo n. 152 del 2006 (codice ambientale), addirittura, in materia di rifiuti, in considerazione della supposta scarsa rilevanza dell'inquinamento che può derivare dall'attività.
I principali tra questi obblighi erano la comunicazione annuale tramite il MUD (modello unico di dichiarazione ambientale) alle camere di commercio, e soprattutto, naturalmente, la possibilità di inserire, su questo specifico punto, quello che era il testo approvato per l'Aula, poi successivamente modificato, che prevedeva l'esclusione delle imprese che trattavano i rifiuti non pericolosi dall'obbligo dell'iscrizione al catasto dei rifiuti. Ciò avrebbe violato, quindi, l'articolo 15 della direttiva 2008/98/CE che vincola gli Stati membri a garantire che ogni produttore iniziale o altro detentore di rifiuti provveda personalmente Pag. 69al loro trattamento oppure li consegni a soggetti responsabili per il loro trattamento.
Lo stesso dicasi per la previsione che consentiva l'assolvimento dell'obbligo di registrazione dei rifiuti pericolosi con la semplice conservazione per 18 mesi di copia dei formulari di trasporto, anziché attraverso misure che consentano la completa tracciabilità dalla produzione alla destinazione finale e il controllo dei rifiuti pericolosi ai sensi dell'articolo 17 della direttiva dell'Unione europea. Va, tuttavia, ricordato, signor Presidente, che il codice ambientale già contempla diversi casi di esonero, proprio finalizzati a semplificare gli adempimenti a carico delle imprese minori. Il testo che va in Aula limita, tuttavia, le esenzioni in materia ambientale per il biennio 2010-2011.
Nel testo è stato aggiunto un articolo finale che prevede che il Governo debba presentare al Parlamento, entro un anno dalla data di entrata in vigore della legge, una relazione sulla attuazione delle misure sperimentali introdotte e che dovrà essere corredata dai dati dell'effettivo utilizzo, in termini quantitativi e qualitativi, delle misure medesime e dalla indicazione delle risorse destinate allo scopo. La relazione di cui al presente articolo deve individuare anche possibili modifiche e integrazioni che, in base all'attuazione della presente legge, si dimostrino necessarie per la semplificazione delle relative procedure, anche ai fini di una valutazione circa la sua possibile estensione dopo il primo anno di applicazione ad altre categorie di lavoratori, quali i lavoratori socialmente utili.
Per quanto riguarda l'inquadramento previdenziale, ci preme molto anche l'articolo 7 che è stato introdotto, articolo che, se non stiamo attenti, si può prestare ad abusi. Detta disposizione, che disciplina l'inquadramento previdenziale dei soci lavoratori delle cooperative con qualifica artigiana, avrà tuttavia efficacia solo a decorre dal 1o gennaio 2012. A proposito di questa norma, nata in una certa maniera, in un determinato contesto economico e, soprattutto, normativo, si è poi evidenziato, con il passare del tempo, quanto di economico non c'è e soprattutto quanto va avanti nel tempo, portandone l'efficacia al 2012, lasciando passare il 2010 e il 2011: una norma, come dire, figurativa.
Quindi, rispetto alla valutazione primaria che avevamo dato in Commissione, naturalmente abbiamo un'idea completamente diversa, oggi che arriviamo ad un testo che poco dice e, soprattutto, poco fa. In detto articolo si prevede che i soci lavoratori delle cooperative artigiane possano essere iscritti nella gestione previdenziale degli artigiani presso l'INPS e, conseguentemente, l'adozione del trattamento economico complessivo quale parametro per la definizione della base imponibile per la contribuzione previdenziale. Se da una parte ci sono contenziosi che sono nati nei confronti dell'INPS da parte di aziende e anche di lavoratori, dall'altra parte bisogna stare attenti a che questa norma non si trasformi in un boomerang e che, poi, si verifichi che i soci lavoratori non sappiano di arrivare in una cooperativa di un settore, come prevalentemente sono le cooperative artigiane e soprattutto quelle edili. Quindi starei molto attento a questa norma, perché nelle cooperative edili i lavoratori arrivano, pensano di essere soci lavoratori e naturalmente hanno un iter come quello degli artigiani - perché nella realtà l'inquadramento previdenziale che viene applicato ai lavoratori delle cooperative artigiane è proprio quello degli artigiani iscritti nei ruoli degli artigiani -, ma la situazione ha generato diversi contenziosi in quanto i lavoratori sono poco edotti della circostanza di essere lavoratori autonomi, ad onta, naturalmente, delle firme regolarmente apposte sul modello di adesione a socio dell'artigianato. Quindi, da una parte si può naturalmente dirimere un contenzioso che nasce da questo contesto. La circostanza può anche essere diversa e potrebbero verificarsi anche abusi al contrario, nei casi in cui il lavoratore guadagni di più, lavori di più e, naturalmente, voglia essere autonomo e quindi voglia differenziarsi su questo. Pag. 70
Tuttavia, bisogna stare anche attenti ai soci lavoratori, i quali, magari, pensano di fare riferimento in primis, ad esempio, alla legge n. 142 del 2001 e alle sue successive modificazioni: ad esempio, la modifica apportata dall'articolo 9 della legge n. 30 del 4 febbraio 2003, concernente l'ordinamento giuridico, che non ha mai definito completamente, da un punto di vista contrattuale, la figura del socio lavoratore, risultando, infatti, determinati solamente alcuni aspetti di natura previdenziale e fiscale.
Quindi, credo che questo articolo 7 non possa essere introdotto così semplicisticamente, senza trattare questa natura giuridica che riguarda i soci lavoratori e l'aspetto autonomo, perché naturalmente si potrebbe prestare ad abusi. Chiedo, dunque, a chi lo ha introdotto, al relatore, di compiere un attento esame su questa norma, al fine di non diversificare e di favorire chi naturalmente ha contenziosi aperti, affinché si possa trovare una soluzione e uno sbocco a questa materia.
Tuttavia, nello stesso ambito specifico, ritengo sia necessario stare attenti ad alcuni aspetti che potrebbero essere quelli che riguardano la prevalenza del rapporto associativo su quello lavorativo: per questo si è andata ormai affermando al riguardo la nuova legislazione, che si presenta come una conferma definitiva e inequivocabile, con la conseguenza che il socio appare vincolato alla cooperativa di appartenenza da un rapporto sociale che non è riconducibile necessariamente allo schema di lavoro subordinato. Le varie possibilità di assimilazione previste dalla legge in campo fiscale e previdenziale della sicurezza, ed altro, avevano indotto alcuni commentatori a considerare erroneamente il socio lavoratore come una sorta di particolare lavoratore subordinato, assimilandolo, altrettanto erroneamente, in tutto e per tutto al dipendente delle imprese non cooperative.
Su questo tema, naturalmente, starei molto attento perché in questo contesto solo l'intervento della giurisprudenza era riuscito a sciogliere una serie di interrogativi connessi alla problematica in questione, così che l'orientamento giurisprudenziale prevalente ha ormai definito il rapporto principale intercorrente tra socio lavoratore e cooperativa quale rapporto di natura societaria, negando, se non in casi del tutto eccezionali, una possibile automatica assimilazione con il lavoro subordinato. Dunque, credo che l'articolo 7 debba essere visto con molta attenzione, soprattutto per quello che riguarda questo tema.
Bisogna poi considerare con altrettanta attenzione la copertura del provvedimento, al di là della relazione tecnica, che quantifica le minori entrate contributive, perché si tratta di 8,8 milioni di euro annui, ed è stata verificata negativamente dalla Ragioneria generale dello Stato in quanto non considera gli ulteriori profili di onerosità connessi all'estensione del contenzioso. Quest'ultimo aspetto, infatti, non è stato inserito nella norma, ma, se da una parte si deve dirimere il contenzioso appunto, dall'altra parte, naturalmente, dobbiamo vedere dove prendiamo i soldi per dirimerlo.
Quanto alla stima delle minori entrate contributive dell'importo di 8,8 milioni di euro annui, è calcolata sulla base di circa 2.600 lavoratori interessati che determineranno un minor gettito per il Fondo lavoratori dipendenti di 22,3 milioni di euro, parzialmente compensato da un maggior gettito, per 13,5 milioni di euro della gestione degli artigiani. Va tenuto presente, inoltre, che l'onere per il primo anno dovrebbe comprendere, diversamente da quello a regime, anche gli effetti derivanti dalla liquidazione degli arretrati relativi al contenzioso pregresso.
Infine, vi è la possibilità che la norma limiti la decorrenza delle disposizioni dal 1o gennaio 2012 potendo determinarsi alcuni presupposti a seguito di pretese avanzate dai soggetti interessati per il riconoscimento del regime contributivo più favorevole anche per i periodi pregressi. Quindi, anche questa, naturalmente, dev'essere una forma di attenzione da portare al provvedimento.
Per quanto riguarda le coperture della legge, alla proposta, è stato aggiunto un Pag. 71articolo che prevede le seguenti coperture: per l'avvio delle nuove imprese, che sono stati valutati in 3,11 milioni di euro per l'anno 2010, 3,52 milioni di euro per l'anno 2011 e 0,4 milioni di euro per l'anno 2012, mediante riduzione delle risorse del Fondo sociale per occupazione e formazione: come sapete, insomma quelle che sono state riduzioni - prendi da una parte e togli dall'altra - e che naturalmente, poi, interessano altri mondi.
Il nuovo articolo 7, invece, contiene l'inquadramento dei soci lavoratori delle cooperative, 10,8 milioni di euro per l'anno 2012 e 8,8 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2013, mediante la riduzione delle proiezioni per l'anno 2012, e così via.
A tal riguardo, signor Presidente, si fa presente che nel disegno di legge di stabilità approvato la scorsa settimana in questa Camera, nella tabella A è stata inserita una dotazione di 40 milioni di euro per ciascuno degli anni 2012 e 2013, nel Fondo speciale di parte corrente relativo del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
In conclusione, vorrei sottoporre quelle che sono le criticità di questa legge che noi riteniamo importanti al di là naturalmente di quelle che ho già evidenziato in precedenza. La proposta contiene misure sperimentali per un periodo di 18 mesi per il sostegno dei lavoratori che fruendo di trattamenti di sostegno al reddito in seguito alla perdita del posto di lavoro, abbiano intenzione di avviare una attività di impresa. A parere del mio gruppo, questa proposta di legge non consente di intraprendere una attività autonoma ai lavoratori in cassa integrazione, nel modo più assoluto, purtroppo. Un esempio potrà chiarire quello che potrebbe accadere, quindi tutti ne dobbiamo poi naturalmente tenere conto: il lavoratore in cassa integrazione continuerà a percepire mensilmente il 50 per cento della cassa integrazione; in un'unica soluzione gli verrà corrisposta una somma pari al 25 per cento calcolata sulla somma delle mensilità di cassa integrazione che ancora gli spettano.

PRESIDENTE. La invito a concludere, onorevole Paladini, ha ancora quaranta secondi a sua disposizione, il tempo è volato.

GIOVANNI PALADINI. Se prendessimo come standard che ogni lavoratore in cassa integrazione percepisce mille euro al mese, ma nella realtà ne percepisce ancora meno, e che è appena entrato in cassa integrazione, e quindi gli devono essere corrisposte ancora dodici mensilità, viene fuori la somma con la quale dovrebbe avviare la sua attività di impresa: 3 mila euro circa. Con questa cifra si riesce a malapena a comprare un motorino usato. E questa somma è stata calcolata con la cassa integrazione di dodici rate, quindi, se si tiene conto che la maggior parte dei lavoratori sarà già in cassa integrazione da diversi mesi al momento dell'entrata in vigore della presente legge, ne viene fuori che il lavoratore percepirà ancora meno di 3 mila euro, paradossalmente potrebbe avere anche solo 250 euro. Se volete avviare un'attività di impresa in questa maniera, credo che, insomma, qualcosa da dire su questo ci sia (Applausi dei deputati dei gruppi Italia dei Valori e Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Dionisi. Ne ha facoltà.

ARMANDO DIONISI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, la crisi economica globale che ha investito l'Italia già nel 2008, ha reso indispensabile intervenire a sostegno delle categorie di lavoratori che maggiormente hanno risentito degli effetti della crisi. Il provvedimento che giunge oggi in Aula ha lo scopo di dare un valido contributo in tal senso ed in particolar modo di sostenere i lavoratori che, fruendo di trattamento di sostegno al reddito in seguito alla perdita del posto di lavoro, abbiano intenzione di avviare un'attività di impresa. A tal fine è previsto il trasferimento di parte delle risorse attualmente destinate agli ammortizzatori sociali a favore di specifici interventi idonei all'avvio di una nuova imprenditorialità Pag. 72e di una nuova occupazione, soprattutto nel settore delle imprese artigiane e delle microimprese. È prevista nel testo la corresponsione, per i lavoratori dipendenti, già destinatari degli specifici trattamenti di integrazione del reddito, e che avviino una nuova attività di impresa, di una indennità mensile pari al 50 per cento dell'importo del trattamento al quale hanno diritto i lavoratori che accedono agli ammortizzatori sociali in deroga. L'ammissione a tale trattamento è valida in via sperimentale, in deroga alle disposizioni vigenti per il biennio 2010 e 2011. Le agevolazioni sono in particolar modo destinate ai lavoratori dipendenti che alla data del primo gennaio 2010 fruivano dell'indennità ordinaria di disoccupazione non agricola con requisiti normali e con requisiti ridotti, nonché dei trattamenti di cassa integrazione ordinaria e straordinaria, di cassa integrazione, mobilità e disoccupazione speciale, di cassa integrazione salari straordinaria e di mobilità, di contratti di solidarietà stipulati con imprese non rientranti nel campo di applicazione della disciplina della cassa integrazione salari straordinaria. Riteniamo che il contenuto del provvedimento possa contribuire in maniera significativa al rilancio economico e produttivo del Paese in un momento di particolare crisi economica e finanziaria.
Inoltre, il testo così come formulato offre soluzioni alternative al probabile mancato ricollocamento sul mercato dei lavoratori interessati dai trattamenti di sostegno al reddito. Il provvedimento risulta in linea con gli impegni presi a livello europeo. Tra l'altro, il Consiglio dell'Unione europea ritiene che in linea con l'Atto sulle piccole imprese per l'Europa, e con il principio «Pensare anzitutto in piccolo», gli Stati membri dovrebbero continuare a migliorare il clima imprenditoriale, sostenendo, ad esempio, le piccole e medie imprese, migliorandone l'accesso al mercato unico, sostenendone l'internazionalizzazione e stimolando l'innovazione, anche attraverso gli appalti pubblici.
Nello specifico con l'Atto sulle piccole imprese per l'Europa, presentato nel giugno 2008 dalla Commissione europea, gli Stati membri sono, tra le altre cose, impegnati a ridurre al minimo spese e oneri per le imprese, ricorrendo a misure specifiche per le piccole e medie imprese e per le micro-imprese.
L'invito del Consiglio dell'Unione europea è quello di sostenere l'occupazione, aiutando le imprese ad applicare formule diverse di licenziamento, come: forme di lavoro flessibile, la riorganizzazione temporanea dell'orario di lavoro ed altre misure di flessibilità interna nell'ambito delle imprese, oltre che a rafforzare le misure per un adeguato sostegno al reddito, mediante l'utilizzazione di sistemi moderni di protezione sociale conformi a principi di flessicurezza, sussidiarietà e sostenibilità delle finanze pubbliche.
A nostro avviso, quello in questione è un provvedimento che dispone in merito non soltanto misure di sostegno al reddito, ma anche di contrasto alla disoccupazione, considerato che i lavoratori in cassa integrazione che diventassero imprenditori potrebbero essere una valida risorsa, oltre che una fonte di lavoro per altri disoccupati.
Non bisogna infatti trascurare che, purtroppo, il numero dei cassintegrati non sembra diminuire: sono quasi 650 mila i lavoratori coinvolti nei processi di cassa integrazione da inizio anno, con riflessi pesanti in busta paga pari a un taglio netto del reddito per oltre 3,1 miliardi di euro (più di 4.900 euro per ogni singolo lavoratore).
Il problema dei cassintegrati è sempre più drammatico, dal momento che una volta perso il posto di lavoro sarà sempre più difficile, per loro, l'inserimento sul mercato del lavoro. Questo provvedimento offre la possibilità di aprire attività imprenditoriali in grado di generare lavoro, non solo per se stessi, ma anche per altri lavoratori.
Pertanto, riteniamo il provvedimento utile, anche ai fini della riduzione della disoccupazione e dell'emersione del sommerso. Pag. 73Non è da sottovalutare, infatti, il ricorso sempre più frequente, per i cassintegrati, al secondo lavoro in nero.
Consideriamo positivo l'impegno di tutte le Commissioni interessate al provvedimento in esame con l'introduzione anche di significative integrazioni rispetto alla versione originaria. Esprimiamo apprezzamento in merito, anche, all'articolo 7 del testo, che ha evidenziato la necessità di definire con chiarezza una norma che disciplinasse una volte per tutte l'inquadramento previdenziale dei soci lavoratori delle cooperative, ponendo fine ad un contenzioso in corso e alle incertezze interpretative sorte nel contesto delle diverse zone territoriali del Paese.
La modifica apportata in tal senso al testo in Commissione permetterà di prevenire e di comporre numerosi contenziosi in tutta l'Italia, alleggerendo le preoccupazioni del mondo del lavoro. L'Unione di Centro ha partecipato al confronto sul provvedimento in maniera costruttiva e, pertanto, il testo oggi in esame in Aula trova la nostra condivisione e il nostro pieno sostegno (Applausi dei deputati del gruppo Unione di Centro).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Fedriga. Ne ha facoltà.

MASSIMILIANO FEDRIGA. Signor Presidente, se mi permette io non andrò a ricordare tutto l'articolato, perché lo hanno fatto meglio di me sia il relatore che i colleghi che mi hanno preceduto.
Cercherò solamente, e anche in breve tempo, di andare a caratterizzare la posizione che la Lega ha assunto in Commissione, e che assumerà in Aula, rispetto alla proposta di legge.
È una proposta di legge che nasce con l'intento, giustamente, di rendere produttivo un investimento, quello degli ammortizzatori sociali, rispetto al lavoratore che vuole attivare una propria attività imprenditoriale. La nostra preoccupazione nella stesura iniziale del testo era quella di rendere, invece, quegli imprenditori piccoli e piccolissimi, che già avevano una propria attività imprenditoriale, meno competitivi rispetto alle agevolazioni che erano riservate a coloro i quali, sotto regime di ammortizzatori sociali, decidevano di aprire una propria attività. A questo timore è stato posto rimedio; infatti, siamo riusciti a limare e sistemare tutta la proposta di legge affinché questo indirizzo, a cui la Lega teneva particolarmente, venisse posto in essere con la nuova stesura del testo.
Oltretutto, devo dire che sono state anche giustamente recepite le osservazioni provenienti dalle varie Commissioni in sede consultiva. Ci stava particolarmente a cuore quella formulata dalla Commissione ambiente che ha permesso di stendere un testo nel quale tutto lo smaltimento dei rifiuti pericolosi fosse estraniato dalla normativa che oggi trattiamo.
Ricordo, inoltre, che si tratta di una misura sperimentale e dunque di una misura che ritengo giusta in un periodo di crisi economica e, in particolar modo, quando i dati internazionali ci dicono che, se c'è l'inizio di una ripresa dell'imprenditoria, degli utili e del fatturato dell'impresa, non è altrettanto vero che vi sia un aumento dell'occupazione, ed è chiaro che per avere una reale ripresa occupazionale come prima della crisi ci vorranno diversi anni.
Per questo credo che una misura di questo tipo, che metta in campo anche l'iniziativa del singolo lavoratore coperto da ammortizzatori sociali, possa essere utile, sempre a livello sperimentale, per trovare nuove strade, per dare tutela alla nostra gente, per dargli un lavoro e quindi un reddito (per sé e per la propria famiglia) che non si esaurisca al termine degli ammortizzatori sociali stessi.
Devo ringraziare ovviamente, oltre al relatore ed estensore della legge, onorevole Antonino Foti, anche la Commissione bilancio che, a differenza di quanto è stato detto da alcuni, ha lavorato alacremente per riuscire a trovare una copertura per questo provvedimento. È chiaro che in un periodo di difficoltà di bilanci, dove anche il singolo milione di euro va ricercato con la dovuta attenzione, visto che è finita l'epoca delle leggi finanziarie che Pag. 74rappresentavano un assalto alla diligenza e l'epoca del debito pubblico incontrollato, la Commissione bilancio ha lavorato in modo approfondito, cercando di dare una soluzione e una risposta alla nostra Commissione che stava lavorando sulla materia.
Con il nuovo testo abbiamo messo riparo alle possibili distorsioni della norma stessa che si potevano configurare. Non a caso abbiamo inserito, per i soggetti percettori di ammortizzatori sociali che decidono di cessare l'attività di impresa avviata secondo le modalità di cui al provvedimento, nel caso in cui tornino a percepire reddito da lavoro dipendente, l'obbligo di cessione di un quinto dello stipendio in favore dei soggetti eroganti, a garanzia del residuo debito per i finanziamenti erogati.
Questo lo abbiamo previsto a garanzia della norma stessa, al fine di evitare distorsioni di soggetti che presentassero delle fittizie auto-imprenditorialità dopo poco tempo (con un'unica soluzione del 25 per cento dell'ammortizzatore sociale e di tutte le agevolazioni economiche previste dalla norma), per cui ritornavano dipendenti e dunque usufruenti a fondo perduto senza garantire la continuità dell'impresa stessa.
Signor Presidente, vorrei concludere, rispettando la premessa iniziale di parlare per breve tempo, solamente ricordando l'articolo 7. Anche a nome della gruppo della Lega nord recepisco l'osservazione fatta dall'onorevole Paladino per una particolare attenzione su questo articolo, però voglio ricordare che si tratta solamente delle questioni previdenziali e quindi del versamento all'INPS.
Sono gli stessi lavoratori che hanno chiesto e chiedono con insistenza, non a caso, le cause attivate in passato e fino adesso, affinché gli venga riconosciuta la possibilità di pagare i contributi da lavoratori autonomi. Questo vuol dire maggiori benefici per il lavoratore stesso e riconoscere una situazione di fatto esistente, ossia quella del lavoratore e dell'artigiano che con la propria professionalità si mette in una cooperativa ma decide di pagare, vuole pagare ed essere riconosciuto anche dall'ente previdenziale quale lavoratore autonomo e quale artigiano.
Abbiamo poi inserito il comma 2 che dà finalmente un termine a tutti i contenziosi pregressi, perché con la stessa norma risolviamo il motivo stesso del contendere. Con questo, quindi, siamo ovviamente a disposizione, anche come gruppo, al fine di valutare possibili modifiche o approfondimenti della norma. Spero comunque che l'iter in Aula sia veloce e possa raccogliere le sensibilità dei vari gruppi, ma possa trovare anche unanimità nel voto finale (Applausi dei deputati del gruppo Lega Nord Padania).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Santagata. Ne ha facoltà.

GIULIO SANTAGATA. Signor Presidente, per noi del Partito Democratico la strada maestra, l'utilità principale degli ammortizzatori sociali e delle varie forme di cassa integrazione e mobilità è e deve rimanere quella di tentare di tenere collegati il più possibile impresa e lavoratore. Tuttavia, all'inizio dell'iter di questo provvedimento abbiamo voluto dare all'onorevole Antonino Foti una chance, una carta bianca, nella speranza che si riuscisse ad allargare in maniera significativa, pure in una forma sperimentale, lo spettro degli strumenti a disposizione di chi tenta di affrontare gli aspetti occupazionali di questa crisi.
Non ci siamo tirati indietro rispetto ad un lavoro di progressivo aggiustamento dei testi, sperando appunto di arrivare a costruire una strumentazione che avesse un significato. Ci troviamo oggi - per la verità ci siamo già trovati in Commissione - a dover purtroppo constatare che le nostre attese sono state in gran parte deluse in parte dal punto di vista dell'ammontare, della quantità e della qualità delle coperture (su cui poi ritornerò), e in parte dal fatto che non si sono voluti affrontare o scegliere altri strumenti quali la partecipazione in forma cooperativa dei lavoratori che assumono rami di aziende in crisi finanziando nuovamente la legge degli Pag. 75anni Ottanta, anche in relazione al fatto che l'onorevole Foti ci ricordava come, in altri tempi, si sia saputo uscire da crisi anche gravi con la forma dell'autoimpiego o con il modello dell'imprenditorialità diffusa. Io vengo da una regione che ha vissuto in prima persona quella stagione, a partire dalla trasformazione in imprenditori di una quantità considerevole di lavoratori espulsi dalle grandi fabbriche dopo la guerra mondiale, fino all'enorme sviluppo di autoimpiego e di sviluppo dell'artigianato degli anni Settanta e Ottanta che ha dato vita ai distretti industriali.
Tuttavia, vi sono elementi che rendono difficile ripercorrere quella storia, perché è cambiato il quadro competitivo, sono cambiate molte cose. Allora coloro che venivano espulsi o chi autonomamente sceglieva la strada dell'autoimpiego e dell'imprenditorialità erano sostanzialmente i lavoratori più forti, i migliori mi verrebbe da dire. Oggi, se vado a vedere i dati qualitativi del mercato del lavoro nella provincia di Modena, scopro che, già in questo momento, al netto della cassa integrazione in corso, ci troviamo con 14 mila lavoratori espulsi.
Quasi il 70 per cento di questi 14 mila lavoratori ha un titolo di studio uguale o inferiore alla licenza media, ha un età superiore ai quarant'anni e in una grande maggioranza, circa il 60 per cento, è costituito da donne. La qualità cioè dell'impatto della crisi sul mercato del lavoro non è la stessa, onorevole Foti, di quando venivano licenziati gli operai sindacalizzati della FIAT che poi hanno fatto grande la meccanica dell'Emilia Romagna.
Qui a perdere il lavoro, purtroppo, sono le fasce più deboli del mercato del lavoro stesso e ciò rende ancora più difficile pensare a modelli di reinserimento positivo nel mercato del lavoro. È una questione che complica l'idea che la strada dell'autoimpiego sia percorribile. Prendiamo per buona la sperimentazione; l'abbiamo presa per buona e continuiamo a volerla prendere per buona.
Noi speravamo però che su questa strada ci fosse un impegno aggiuntivo e forte da parte del Governo e della maggioranza. Invece, ci siamo trovati all'ultima tornata - dopo una lunga e penosa trattativa fatta dalla V Commissione (Bilancio) con i ministeri competenti e con la Ragioneria - a partorire il «topolino» di 3,11 milioni di euro per quanto riguarda la finalità principale della legge e cioè favorire lo sviluppo di autoimpiego. Infatti, non arrivo nemmeno a chiamarle imprese visto che abbiamo voluto stabilire un limite di tre dipendenti.
Sostanzialmente stiamo parlando proprio di autoimpiego. Non sono così pessimista come Paladini che calcola solo quanto ci mette di tasca sua il lavoratore, perché di questo stiamo parlando, cioè di un lavoratore che autonomamente investe il proprio ammortizzatore sociale. Glielo attualizziamo, ma solo in minima parte. Sono soldi suoi, non aggiuntivi. Anzi, l'onorevole Foti ci ha ricordato più volte che si tratta di uno strumento per rendere più produttiva o, al limite, per risparmiare anche sul versante degli ammortizzatori. Ci mette una parte di soldi suoi. Una parte non ce li mette il lavoratore, ma lo Stato con i contributi figurativi e con qualche vantaggio fiscale. Una terza parte la mette il Confidi nella forma di mutui con un basso livello di garanzia reale, ma che come tali vanno comunque restituiti. Quindi, parliamo fondamentalmente di soldi del lavoratore.
Peraltro, oramai dovremmo anche aggiornare i dati, dal momento che è un po' complicato dire che una legge che approviamo a dicembre vale per il 2010. Inoltre, se poi andiamo a vedere le coperture, notiamo che i 3 milioni 110 mila euro previsti provengono dal Fondo che già finanzia la cassa in deroga e tutte le operazioni degli ammortizzatori sociali. Quindi, ancora una volta giriamo sempre intorno a soldi e a risorse che avevamo già stanziato per quell'obiettivo. Non c'è nulla di aggiuntivo.
Se noi pensiamo di dare a vario titolo 10 mila euro per ogni iniziativa stiamo parlando di 311 possibili nuove imprese. Quindi, io che mi sono battuto perché questa legge potesse continuare e non si fermasse al primo giro in Commissione, trovo Pag. 76difficile pensare che facciamo una forma, ancorché di sperimentazione, con 311 iniziative.
Mi sembra francamente che chiamare il Parlamento a legiferare - peraltro con una legge complessa sotto molti punti di vista perché chiama in causa il profilo fiscale, della sicurezza e ambientale - a fare, insomma, questo grande sforzo per 311 iniziative, ci ha portato francamente, alla fine, a partorire qualcosa di meno di un «topolino». Verrebbe da citare Woody Allen quando diceva : «La vita è un ristorante dove si mangia male e le porzioni sono anche molto scarse». In questo caso, si mangia male perché non è esattamente la tipologia di intervento che avremmo voluto e, comunque, la scarsità delle porzioni rende indigesto quasi tutto.
Continueremo, con buona volontà, a non metterci di traverso rispetto a questa norma, nella speranza che si riesca a uscire dalla sperimentalità con qualcosa di più. Abbiamo anche presentato alcuni emendamenti. Mi rendo conto che parlare di soldi in quest'Aula è diventato impossibile, o meglio è vietato, pertanto credo che i nostri emendamenti non arriveranno in Aula perché la Presidenza li riterrà inammissibili, tuttavia ci proveremo.
Prima di passare all'articolo 7 - su cui voglio fare anch'io alcune osservazioni - voglio soffermarmi su un unico dubbio, che abbiamo avuto sin dall'inizio, quando dicevo che, per noi, la via maestra consisteva nel tener legati imprese e lavoratori. Non vorremmo che questo «topolino», veramente minuscolo, dal punto di vista dell'impatto positivo sul mercato del lavoro, aprisse una piccola falla normativa, tale per cui alcuni datori di lavoro trovassero conveniente - perché da un punto di vista economico per il datore di lavoro lo è - spingere i lavoratori verso questa soluzione, risparmiando in maniera significativa ad esempio rispetto alla gestione del lavoratore in mobilità, peraltro arrivando a spezzare da subito il legame con quel lavoratore. Si tratta di un punto che richiamo con attenzione nella fase di sperimentazione. Stiamo molto attenti non solo a quante aziende, a quante imprese riusciranno a vivere e a sopravvivere, ma anche all'uso che qualcuno può voler fare di questa norma.
Faccio un'ultima considerazione sull'articolo 7. Guardando le coperture, verrebbe da pensare che abbiamo costruito tutta questa normativa per l'articolo 7 perché, per esso, abbiamo trovato 10,8 milioni di euro per il prossimo anno e 8,8 milioni di euro a regime.
A parte il fatto che, secondo me, l'INPS non ha fatto bene i conti nel darci questi dati, nel senso che si è dimenticato che, se chiudiamo il contenzioso - e lo chiudiamo riconoscendo ai lavoratori il diritto ad essere iscritti alla gestione degli artigiani - gli restituiamo il pregresso - ipotizzo - e quindi penso che la «zuppa» sia un poco più voluminosa, ma balza agli occhi vedere che abbiamo trovato il triplo per sanare la questione rispetto a quanto previsto negli altri articoli della legge. Ciò è un po' stridente per un articolo che, indubbiamente, è «appiccicato» rispetto agli obiettivi e al restante testo normativo. L'articolo 7 è una norma che può anche essere condivisa, ma che richiama una serie di questioni molto delicate, su cui non abbiamo ancora completamente raggiunto una chiarezza normativa e applicativa, tra le quali quella concernente la figura del socio-lavoratore cooperativo.
Invito anch'io il relatore ad un surplus di attenzione su questo punto.
Arrivo a dire che preferirei, visto che dobbiamo andare al 2012, se questa norma si trasformasse in una delega al Governo o qualcosa di simile, in modo da garantirci che andiamo a fare una cosa che sta insieme alle tante «n» problematiche legate al mondo della cooperazione e alla figura dei soci cooperatori e dei dipendenti delle cooperative.
Mi sembra una soluzione un po' tagliata con l'accetta, che prende sì in conto solo il versante previdenziale, ma che rischia di aprire da quel versante anche qui una piccola falla che non sappiamo dove può portare, ad esempio può portare alcune cooperative, non certo quelle sane e dove la mutualità ha un senso, a trasformare immediatamente quote significative Pag. 77di lavoratori dipendenti in lavoratori autonomi, anche al di là della volontà dei lavoratori stessi.
Mi auguro che, lavorando nel Comitato dei nove, su questo punto riusciamo a trovare un accordo (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. Constato l'assenza dell'onorevole Mosella, iscritto a parlare: s'intende che vi abbia rinunziato.
Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

(Repliche del relatore e del Governo - A.C. 2424-A)

PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare il relatore, onorevole Antonino Foti.

ANTONINO FOTI, Relatore. Signor Presidente, ringrazio i colleghi per gli interventi e per il contributo aggiuntivo che hanno fornito. Vorrei però ricordare che l'anima stessa del provvedimento trae origine dal fatto che questi lavoratori, espulsi dal sistema lavorativo, potrebbero naturalmente essere esposti all'illegalità e spesso al lavoro nero. Noi, anche se con una legge sperimentale, diamo loro una possibilità per riuscire a tornare a svolgere un'attività lavorativa, proprio per evitare tutto ciò.
Ringrazio l'onorevole Santagata, anche perché in parte condividiamo quello che afferma. Anche noi ci saremmo aspettati - e ci auguriamo che in seguito ci saranno - contributi aggiuntivi, anche perché, se anche si trattasse di pochi lavoratori, sarebbe già un fatto positivo. Se la legge sperimentale andasse in rete e dovesse invece attrarre molti lavoratori, significa che saranno molti i lavoratori a pagare le tasse, a uscire dall'illegalità e dal lavoro nero, quindi sarebbe un buon auspicio. Immaginiamo che in questo caso anche il Governo voglia aggiungere altri contributi.
Per quanto riguarda invece l'articolo 7, il cui vero senso è stato ben spiegato dal collega onorevole Fedriga, si limita - rispondo anche all'onorevole Santagata - in realtà a dettare talune disposizioni che esplicheranno i loro effetti soltanto a livello previdenziale e che quindi avranno efficacia, come dicevamo, a partire dal 2012.
In materia di inquadramento dei soci lavoratori delle cooperative con qualifica artigiana, infatti, si stabilisce che essi abbiano titolo, dunque non saranno obbligati, all'iscrizione nella gestione dei contributi e delle prestazioni previdenziali degli artigiani. Si tratta quindi, com'è evidente, di una diversa iscrizione previdenziale e non di un diverso rapporto di lavoro, quindi i lavoratori verseranno alla gestione artigiani solo se lo vorranno e nulla cambierà sull'assetto del loro contratto di lavoro all'interno della società cooperativa.

PRESIDENTE. Onorevole Foti, la invito a concludere.

ANTONINO FOTI, Relatore. Signor Presidente, mi avvio alla conclusione. Vorrei sottolineare l'aspetto chiave, ovvero che l'articolo 7 non interviene sulla struttura solidale né sulla qualificazione del rapporto di lavoro, ma soltanto sul versante previdenziale.

PRESIDENTE. Prendo atto che il rappresentante del Governo rinunzia alla replica.
Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Discussione delle mozioni Bocchino ed altri n. 1-00436, Giulietti, Zaccaria, Tabacci, Evangelisti, Nicco ed altri n. 1-00441 e Sardelli ed altri n. 1-00496 concernenti iniziative per la tutela della qualità e del pluralismo dell'informazione nel servizio pubblico radiotelevisivo, con particolare riferimento al contratto di servizio (ore 17,35).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione delle mozioni Bocchino ed altri n. 1-00436, Giulietti, Zaccaria, Tabacci, Pag. 78Evangelisti, Nicco ed altri n. 1-00441 e Sardelli ed altri n. 1-00496 concernenti iniziative per la tutela della qualità e del pluralismo dell'informazione nel servizio pubblico radiotelevisivo, con particolare riferimento al contratto di servizio (Vedi l'allegato A - Mozioni).
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi riservati alla discussione delle mozioni è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).

(Discussione sulle linee generali)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali delle mozioni.
È iscritto a parlare l'onorevole Della Vedova, che illustrerà anche la mozione Bocchino ed altri n. 1-00436, di cui è cofirmatario. Ne ha facoltà.

BENEDETTO DELLA VEDOVA. Signor Presidente, nell'illustrare questa mozione, vorrei partire da alcuni brevi dati di contesto. Nessuno è così ingenuo da pensare che RAI e politica in Italia possano avere destini differenti. Costitutivamente la RAI è un pezzo della politica italiana, lo è fin dagli inizi, la politica è nel DNA di quest'azienda radiotelevisiva. Credo però che, da un punto di vista di forze politiche moderate e liberali, l'obiettivo debba essere, o dovesse essere, quello di fare una RAI migliore di quella che abbiamo conosciuto negli anni precedenti, tenendo conto che il centrodestra, in particolare il partito di maggioranza relativa, il Popolo della Libertà, è guidato da un grande editore radiotelevisivo.
Noi ci troviamo, però, a dover registrare, dopo oltre due anni e mezzo di questo Governo e di questa maggioranza, che l'obiettivo di fare una RAI migliore di quella precedente è clamorosamente mancato e che, caso mai, dobbiamo fare i conti con la responsabilità di una conduzione dell'azienda di viale Mazzini sotto molti profili peggiore delle conduzioni che hanno preceduto questa attuale. C'è un problema che riguarda i conti della RAI: il 2010 si chiuderà, da quanto si è appreso, con un passivo tra i 115 e i 118 milioni di euro. Erano 80 milioni di euro nel 2009 e rischiano di essere molti di più negli anni a venire. Senza brusche correzioni di rotta, nel 2012 il rosso potrebbe raggiungere i 600 milioni di euro, più del capitale sociale dell'azienda, pari a 550 milioni di euro. Le misure recentemente preannunciate, se ho capito bene, dovrebbero consentire risparmi annuali nell'ordine dei 10 milioni di euro, quindi siamo ad una RAI che si avvia virtualmente al fallimento proprio dal punto di vista dei conti, prima che dell'eventuale fallimento, su cui interverrò successivamente, nell'adempimento della missione di servizio pubblico. Su questa questione, che non è l'oggetto specifico di questa mozione, ma ne rappresenta il contesto, credo che il Governo debba dare risposte, e dovrà darle al più presto. Noi abbiamo assistito, ad esempio - su questo punto ancora nessuno ha dato risposte convincenti - ad una gestione della RAI e dei suoi contratti che ha privato l'azienda (abbiamo parlato dei buchi che si preannunciano già nel bilancio di quest'anno), in un modo che - lo confesso - a me personalmente risulta del tutto incomprensibile, (perché l'unica ragione possibile sarebbe inconfessabile), di un contratto con Sky del valore di 50 milioni di euro l'anno, che sicuramente sarebbe stato rinnovato per cifre non inferiori, 50 milioni l'anno più introiti pubblicitari, stimabili in qualche milione di euro ulteriore.
Ciò in vista della possibilità di trasmettere i canali di RaiSat (Extra, Premium, Cinema, Smash, YoYo eccetera e magari gli altri canali del digitale) sulla piattaforma Sky, dove questi programmi già venivano trasmessi. Inopinatamente non si è voluto rinnovare questo contratto in vista della futura piattaforma satellitare di Tivù Sat che formalmente c'è e da qualche parte prende anche ma non ha paragoni in termini di copertura rispetto a quella che assicurava Sky. Pertanto qualcuno dovrà spiegarci perché, con un'azienda che ha bilanci in rosso come quelli che abbiamo Pag. 79descritto, ad un certo punto si è deciso di cancellare un contratto positivo con Sky, di rinunciare ad introiti per circa 50-55 milioni di euro nel corso di sette anni (tale era la durata del precedente contratto che Sky aveva ereditato) per una nuova piattaforma, con la logica, più o meno rivendicata, di non favorire un concorrente, Sky, e di fare accordi con altri concorrenti, Mediaset e Telecom. L'effetto paradossale è stato quello di privare alcune reti - penso ad esempio a Rai News 24 - di un'audience certa, quella del pubblico che usa la piattaforma Sky: si è trattato di un autogol di dimensioni sesquipedali incomprensibile, perché non credo che la Rai, azienda finanziata grosso modo per un miliardo e 600 milioni all'anno dai contribuenti, debba porsi il problema di fare, per conto proprio o per conto terzi, competizione contro i concorrenti, in questo caso contro Sky. Sarebbe stato molto meglio continuare ad incassare questi soldi e consentire ad un pubblico più vasto possibile l'accesso su tutte le piattaforme: poi, volendo, un'altra piattaforma si poteva fare. È incomprensibile aver abbandonato una piattaforma, mi riferisco alle reti RAI sulla piattaforma Sky, perché ciò rendeva un sacco di soldi e consentiva agli italiani di seguire in misura maggiore le trasmissioni Rai, compresi i cartoni animati e l'informazione.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE ROSY BINDI (ore 17,45)

BENEDETTO DELLA VEDOVA. Qualcuno prima o poi dovrà spiegare perché è stata fatta questa scelta e con quale criterio e prendere atto del danno che si è creato in tal modo all'azienda. C'è poi un problema complessivo di risorse della RAI. In questi giorni tutti abbiamo sicuramente letto sulla stampa che nei tagli del Governo britannico è in corsa anche la BBC. Qui, invece, in prospettiva, abbiamo una Rai cui i contribuenti italiani dovranno versare ulteriori soldi per evitare il fallimento ovvero una Rai, come qualcuno ha evocato sulla stampa, che comincia a vendere gli immobili, magari proprio lo stesso viale Mazzini, per fare fronte ai debiti. Insomma, una situazione difficilmente sostenibile. Probabilmente, il direttore generale Masi può ritenere di rimanere saldamente in sella ma il vero problema è che il cavallo di Viale Mazzini sta morendo e quindi da questo punto di vista bisogna fornire delle risposte. Abbiamo, al riguardo, una proposta, come gruppo di Futuro e Libertà per l'Italia, che è quella di privatizzare la RAI, il che significa grosso modo abbattere il debito pubblico, simbolicamente ma significativamente, di una cifra che varia tra i 4 e i 5 miliardi di euro e abbattere la pressione fiscale sui cittadini italiani di un miliardo e 600 milioni di euro, grosso modo corrispondenti a quella parte di ICI che abbiamo abolito all'inizio di questa legislatura, con un taglio, quello del canone, che favorisce i ceti meno abbienti.
Credo che su tale proposta si dovrà tornare, perché altrimenti la RAI muore come azienda. Ma oltre alle questioni legate al contesto dell'azienda RAI (e ai suoi bilanci fallimentari), e al fatto che si tratta di un'azienda che tiene per quanto riguarda gli ascolti e non cresce in termini di raccolta pubblicitaria, quando i concorrenti magari hanno più problemi sugli ascolti, ma crescono nella raccolta pubblicitaria (sul mercato oligopolistico della pubblicità, prima o poi, bisognerà intervenire per riaprire al mercato e alla concorrenza questo settore vitale, cruciale per il finanziamento dell'informazione), oltre a tutto ciò, c'è il problema più specifico che poniamo al Governo nella mozione, che è quello della informazione RAI. Anche in questo caso, nessuno è nato sotto un cavolo, nessuno pensa che l'informazione RAI sia mai stata, dalle origini prerepubblicane, un'informazione scevra dal condizionamento politico. Credo però che, se noi avessimo potuto dimostrare in questi due anni e mezzo di maggioranza di centrodestra che le cose miglioravano ne saremmo stati felici, dobbiamo prendere invece atto che le cose stanno invece peggiorando, che ci sono anche sanzioni da parte dell'Autorità, e che c'è un sostanziale Pag. 80inadempimento da parte della RAI delle missioni di pluralismo e di qualità dell'informazione assegnate per legge sotto la vigilanza dell'Autorità a qualsiasi radiotelevisione pubblica e privata, ma anche alla missione specificamente contenuta nel servizio pubblico e nel contratto di servizio pubblico. Abbiamo assistito ad un direttore generale che, ad un certo punto, sembrava avesse emanato - o ha emanato - una circolare in cui sembrava dovesse essere lui preventivamente a dare il placet sugli ospiti di alcune trasmissioni di informazione, peraltro con un criterio un po' difficile da gestire - immagino - da parte dei responsabili delle trasmissioni, i quali devono stare sull'attualità e invece devono avere gli ospiti congelati da un giorno o due prima. Si tratta di una RAI che si sta, sul fronte dell'informazione, «balcanizzando» tra le fazioni progovernative, evidenti in molti settori dell'informazione a partire dai telegiornali, e magari quelle antigovernative di altre trasmissioni, definendo una situazione in cui è impossibile discriminare. Ognuno ha la sua parte da difendere, magari quella dei TG o quella delle trasmissioni, e vi è magari il direttore generale che non si occupa di quello che accade nei TG, ma si occupa di quello che accade nelle trasmissioni «antigovernative» (con effetti poi grotteschi per cui alla fine non si volevano fare partire trasmissioni che comunque hanno sfondato negli ascolti, o che sono forti negli ascolti), e non ci si occupa, invece, minimamente di altri aspetti.
Nella mozione ricordiamo che la funzione del servizio di radiodiffusione pubblica, che non comporta necessariamente una gestione statale, è - come è espressamente riconosciuto dal Trattato europeo e dal famoso Protocollo allegato al Trattato di Amsterdam - direttamente collegata alle esigenze democratiche, sociali e culturali di ogni società, nonché all'esigenza di preservare il pluralismo nei mezzi di comunicazione; la completezza dell'informazione rappresenta il presupposto della partecipazione politica dei cittadini, una partecipazione che non si esprime solo in forma militante, ma anche nel giudizio critico sull'operato delle forze e delle istituzioni politiche; un'informazione drogata e reticente, governativa o antigovernativa per partito preso, degrada la qualità della democrazia.
Sfido chiunque a sostenere che la qualità e la rispondenza dell'informazione complessiva che si fa in RAI adempia la missione del servizio pubblico meglio di quella che fanno i privati come LA7 o Sky, dove l'informazione ha sicuramente un criterio di equilibrio che risalta nei confronti dell'informazione che svolge, peggio delle RAI che l'hanno preceduta, la RAI attuale.
Con questa mozione, richiamiamo il Governo e la RAI ad una responsabilità che appartiene loro non solo per ragioni politiche, ma contrattuali. Il fatto che la verifica dell'informazione e della programmazione nel suo complesso non sia in testa alle priorità degli amministratori, di ieri e, ancor più, di oggi, è dimostrato dalla circostanza che la RAI ha meritato una sanzione da parte dell'AGCOM, sicuramente non pregiudizialmente ostile alla RAI ed alla sua condizione politica, per inadempienza dell'articolo 3 del contratto di servizio 2007-2009, con delibera del 2010, per avere attivato un sistema di monitoraggio della qualità dell'offerta radiotelevisiva con gravissimo ritardo e solo alla fine del periodo contrattuale. Questo è uno dei punti su cui vogliamo impegnare il Governo: disporre, cioè, una verifica sull'adempimento, da parte della concessionaria, del contratto di servizio 2007-2009, anche per il periodo successivo alla scadenza, nelle more del suo rinnovo, affidandone la certificazione tecnica, sulla base dei dati raccolti, ad un organismo esterno composto da esperti di riconosciuta autorevolezza scientifica e selezionati con procedure concorsuali.
È un modo per tentare di inserire degli elementi di verifica e verificatori il più possibile sottratti alla logica di appartenenza politica e allo strabismo cui i responsabili della RAI e il suo direttore generale oggi consegnano l'informazione, per cui si difende a prescindere, ad esempio, Pag. 81il TG1 e si attaccano, a prescindere, i programmi di informazione di altre reti.
Le nostre riserve e i nostri rilievi sull'informazione RAI guardano, da una parte, agli indici quantitativi, ma anche agli indici qualitativi. Non sono solo sproporzionati gli spazi riservati alle diverse posizioni e sovradimensionati quelli che fanno riferimento diretto al Governo e al partito di maggioranza relativa, ma sono anche polarizzate ed estremizzate le posizioni rappresentate, per cui il «combattentismo» dei governativi trova riscontro e giustificazione nel «resistentismo» degli antigovernativi. La RAI ha adottato, come modello di riferimento del pluralismo televisivo, la dialettica tra berlusconismo e antiberlusconismo e questo è un fallimento clamoroso della missione del servizio pubblico.
Siamo persuasi che gli effetti dell'oligopolio possano essere scongiurati solo lasciando operare il mercato, non commissariandolo, ma, come ho detto, solo privatizzando la RAI e aprendo la competizione sul mercato digitale. Anche qui si è cercato in qualche modo di interferire con il cammino di altri operatori, che volevano avere la possibilità di entrare nel mercato del digitale terrestre; poi, fortunatamente, ci ha pensato l'Unione europea (pensiamo a Sky).
Non pensiamo sia possibile assicurare un pluralismo perfetto per legge, ma che le violazioni più clamorose del pluralismo e della legalità dell'informazione vadano denunciate e sanzionate con chiarezza.
Per concludere, nel primo punto del dispositivo di questa mozione ricordiamo anche che la RAI - certo, si dirà che non è l'unica prorogatio di questo Paese in quanto siamo stati in prorogatio di ministri e di presidenti di autorità di vigilanza - è in prorogatio per quanto riguarda il contratto di servizio con il Ministero dello sviluppo economico. Il contratto, infatti, è scaduto, mentre quello relativo al triennio 1o gennaio 2010-31 dicembre 2012 non è stato definito, non esiste di fatto.
Noi vogliamo che, sulla scorta del parere della Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi espresso il 9 giugno 2010 e adottando specifici e tempestivi strumenti di controllo sull'adempimento da parte della concessionaria degli obblighi del contratto di servizio e, più in generale, degli atti di indirizzo parlamentare, il Governo arrivi a concludere finalmente, fin quando la RAI sarà titolare del servizio pubblico, un contratto di servizio operante.
Crediamo che la situazione della RAI sia grave, sia sul fronte dei conti pubblici, sia sul fronte dell'informazione che si restituisce complessivamente alla collettività e che non può essere un'informazione dichiaratamente o quanto meno visibilmente di parte. Pertanto, chiediamo un impegno concreto e forte al Governo, perché dobbiamo partire da un dato di fatto, che spero venga condiviso ampiamente in quest'Aula, ossia dai rischi cui la RAI è sottoposta e dall'assoluta insoddisfazione che questo Parlamento deve manifestare rispetto alla gestione attuale dell'azienda di viale Mazzini (Applausi dei deputati del gruppo Futuro e Libertà per l'Italia).

PRESIDENTE. Saluto gli studenti e gli insegnanti del primo circolo didattico Giacomo Matteotti di Gubbio e gli allievi della scuola di formazione professionale per parrucchieri di Arezzo, che stanno assistendo ai nostri lavori dalle tribune (Applausi).
È iscritto a parlare l'onorevole Giulietti, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00441 (Nuova formulazione). Ne ha facoltà.

GIUSEPPE GIULIETTI. Signor Presidente, in qualsiasi altro Paese la nostra discussione sarebbe incomprensibile, perché in qualunque altro luogo dai banchi dei liberali e dei conservatori arriverebbe un consenso pieno e incondizionato alle mozioni presentate, anzi ne chiederebbero un rafforzamento e un allineamento alle direttive comunitarie, qui tutte stravolte.
Vorrei ricordare, signor Presidente, che la mozione che illustro non è a mia firma ma di tutte le opposizioni. Questo accade per la prima volta da Beltrandi all'onorevole Pag. 82Evangelisti dal professor Zaccaria, a Carra, a Rao ed altri delle minoranze. Anche questo è un fatto nuovo. È una mozione molto semplice. Viene da sorridere a presentare una mozione per chiedere il rispetto delle convenzioni internazionali in materia di conflitto di interessi, di libertà di mercato, di antitrust, di autonomia dei servizi pubblici: questioni acquisite in Paesi dove non c'è il conflitto di interessi. C'è un solo esempio: è la Russia di Putin, che non è esattamente ai primi posti nella graduatoria internazionale per la libera circolazione delle opinioni.
Noi chiediamo una cosa semplicissima che in parte coincide con le cose qui dette dall'onorevole Della Vedova ma attraverso percorsi diversi e che nessuno può strumentalizzare. Sono percorsi molto diversi, perché la nostra mozione, che coincide in alcuni punti, tuttavia insiste sull'aspetto dell'allineamento internazionale. Per noi il problema non sono soltanto i Masi o gli altri nomi qui fatti: non è un problema di soggetti. Resterebbe gravissima la situazione anche se non vi fossero le polemiche attorno all'attuale direttore generale, del Tg1 o di qualunque altra testata. Non è il problema di un evento di questa fase: è il problema di una metastasi profonda e che ancor prima di riguardare la RAI, riguarda il tema del conflitto di interessi, che se non viene affrontato, detto e risolto, rischia di diventare una pietra al collo del sistema delle comunicazioni e della democrazia.
Ecco perché la nostra mozione non affronta solo ciò che accade in questi ultimi mesi - scandaloso, vergognoso, qui descritto in modo perfetto -, ma pone un'altra questione. Consiglio di leggere con grande attenzione il dispositivo iniziale, curato con grande competenza scientifica dall'onorevole Zaccaria e dai professori Mastroianni e Broggi, e che ha coinvolto un gruppo di esperti e di professori di diritto internazionale.
Ciò perché le premesse contano e infatti si chiede che il Governo non possa controllare contestualmente il pubblico e il privato. La legge Gasparri prevede che il Governo, oltre a controllare attraverso il Presidente del Consiglio le sue imprese, nomini consiglieri determinanti nel consiglio di amministrazione, con un passo indietro netto rispetto alle sentenze della Corte costituzionale. Si chiede inoltre che a nessuno venga più in mente di stilare liste di proscrizione: ma in quale Paese si discute di Saviano o di Benigni, se possono andare o no in onda? Ma qui siamo oltre il ridicolo: non vi è l'arroganza, vi è il dilettantismo, che peraltro ha prodotto come unico risultato, che dovrebbe spaventare i committenti, la moltiplicazione degli ascolti! Siamo oltre la farsa, l'eterogenesi dei fini, un'idea illiberale della comunicazione!
Allora, con questa mozione si chiede non solo che si regolino - non ci interessa - i conti dell'oggi, ma che si apra una discussione in questo Parlamento. Signor Presidente, nelle Commissioni di merito giacciono ferme proposte di legge - lo dico anche ai colleghi di Futuro e Libertà - che riguardano l'Antitrust, le modalità di elezione delle authority e del consiglio di amministrazione della RAI. Si votino queste mozioni a larga maggioranza, ma si affronti il tema, si affronti in Commissione prima e poi in Aula il tema vero: la risoluzione dei conflitti e l'allontanamento dei Governi e delle forze politiche - tutte, tutte: non è un problema solo di chi oggi ha la maggioranza, ma di tutti! - dal controllo delle autorità e dal controllo del consiglio di amministrazione della RAI.
Questa è la sfida, questo è il confronto che la nostra premessa pone: la necessità che si liberi il mercato da ogni posizione dominante. Signor Presidente Bindi, so quanto le stia a cuore il fatto che il pluralismo - lo dico a me stesso e ai colleghi - non sia un problema di minutaggio tra i partiti, ma significhi anche levare il bavaglio e l'oscuramento a pezzi interi della società italiana. Ma vi sembra normale che noi abbiamo dieci ore al giorno sul delitto di Avetrana e vengano cancellati i grandi movimenti e le grandi questioni sociali ed economiche? Vi pare normale? L'impossibilità di garantire l'accesso a grandi questioni che stanno a Pag. 83cuore alla comunità non è forse qualcosa di più preoccupante del minuto di ciascun partito o di ciascun leader?
Ecco quali sono le questioni nella nostra premessa. Noi chiediamo semplicemente che si arrivi a rompere l'anomalia e ad allinearci alle altre situazioni!
So che nell'altra mozione si parla di un'autorità garante che controlli il rispetto del contratto di servizio e dei principi di pluralità. A titolo del tutto privato, perché non voglio parlare a nome di altre forze politiche, mi pare un'idea forte, un'idea condivisibile, un'idea che rispecchia altre proposte che fecero Beltrandi, il collega Meta ed Enzo Carra. Ricordo pronunciamenti su questo punto, contenuti anche in una mozione dell'Italia dei Valori. Questo è un punto su cui vorrei che tutti convergessimo, fuori da vecchie logiche.
Ma mi permetta, signor Presidente, nell'avviarmi alla conclusione, di segnalare un punto: qui non vi è solo l'arroganza, ma un dilettantismo che mette in crisi l'economia e l'azienda pubblica. Io vorrei che dopo un voto di larga maggioranza si chiamasse in Commissione il Ministro Tremonti per parlare di un'azienda che non è solo un consiglio comunale con il minutaggio dei partiti. Il tracollo di una grande azienda pubblica porta al tracollo dell'industria del cinema, dello spettacolo, del teatro, del digitale e dell'indotto. Noi parliamo di una grande impresa nazionale, non la si può ridurre solo ad un'analisi della «politica politicante». È un'azienda che rappresenta un punto centrale per le comunicazioni di questo Paese. Pensate ad un tracollo simile all'Alitalia nell'indotto delle grandi città e del sistema culturale italiano: una tragedia che arriverebbe in quest'Aula!
Quando daremo un voto favorevole, questo aprirà sia un confronto sulle leggi, sia un confronto urgente con il Ministro Tremonti, dal quale vorrei meno battute sulla cultura (che non si mangia, come dice con queste battute un po' liquidatorie), e che parlasse dell'impresa delle comunicazioni, ponendo il tema. Non spetta ai Ministri chiedere quale artista cacciare, spetta ai Ministri dare indirizzi di politica industriale.
Signor Presidente, sa quali sono i dati sulla RAI? Ce n'è uno che è impressionante: la dinamica registrata dai ricavi pubblicitari è ancora peggiore. La seconda previsione del 2010 contiene una stima di raccolta di circa 1.040 milioni di euro. Ma nel 2000 - 10 anni fa - la Sipra raccolse 1.270 milioni di euro: mancano 500 milioni di euro e gli ascolti sono cresciuti. Com'è possibile? Cosa c'entra la logica di mercato? C'è qualcosa di drogato nel mercato, c'è un'eterodirezione del mercato: come mai ad ascolti che salgono decrescono gli investimenti alla RAI, in molte altre grandi aziende del settore e anche nella carta stampata? C'è qualcosa che non torna in questo libero mercato e c'è scarsa vigilanza delle autorità di garanzia.
A proposito: occhi aperti sulla futura presidenza dell'Antitrust, settore strategico visto che parliamo di libertà dei mercati!
Signor Presidente, in uno studio, diciamo, riservato, si dice che ben peggiore sarebbe l'inerzia dell'indebitamento che, nel 2012, potrebbe superare i 650 milioni di euro. Ciò significherebbe il fallimento. Quale istituto di credito finanzierebbe il fallimento?
Ecco le ragioni di merito (mi sono tenuto alla larga dalle polemiche di vecchio tipo): vi sono ragioni di merito di tipo generale, industriale, di mercato, di conti, di indici di ascolto, di qualità, di etica e di formazione dello spirito pubblico, che sono all'interno delle fibre della mozione in oggetto, che non è di uno: è una mozione di donne e di uomini molto diversi. Persino la mozione che abbiamo presentato mette insieme culture diverse: vi sono persone che credono nella privatizzazione della RAI e altre che non ci credono. Nella mozione in discussione, convergono posizioni diverse, ma unite nel chiedere a questo Parlamento di porre fine, non tanto, allo spettacolo indecoroso di questi giorni - sono veramente «saldi di Pag. 84fine stagione» -, quanto ad una lunga situazione che ci rende un Paese anomalo in Europa.
Concluderò con una sola citazione, che non è mia. Signor Presidente, in quest'Aula, molti colleghi, anche del centrodestra, quando parlano dei temi relativi alla libertà della comunicazione, citano sempre un'associazione che considerano al di sopra di ogni sospetto, e anch'io: si chiama Reporters sans frontières. È l'associazione che ha espresso giudizi durissimi e giusti sulla Cina, sull'Iran e su Cuba. È stata citata da molti colleghi di destra con orgoglio, in quest'Aula e ovunque. Vorrei ricordare a quei colleghi, che saltano sempre una pagina: che in quel rapporto, come in tutti gli altri rapporti internazionali, quando si giunge al passaggio relativo all'Italia, si dice: si colloca fuori dal contesto europeo, retrocede ogni anno di una posizione.
Chi ha a cuore questo Paese, questa Italia, e un sistema della comunicazione diverso lavori votando a favore di questa e di queste mozioni per farci risalire di qualche posizione (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico e Italia dei Valori).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Enzo Carra. Ne ha facoltà.

ENZO CARRA. Signor Presidente, le mozioni di cui discutiamo questa sera si riferiscono al pluralismo che, come tutti gli «ismi», è teoria ed ideologia al tempo stesso. Noi, però non dobbiamo limitarci alla teoria ma dobbiamo pensare alla teoria e alla prassi e la prassi è: «oggi a me, domani a te». Ciò significa che esiste sempre una discriminazione in agguato per ogni forza politica e culturale, basta aspettare.
Tutti, a rotazione, invocano il pluralismo e tendono a dimenticare come si comportavano quando erano maggioranza e facevano il bello e il cattivo tempo televisivo. In questo caso, non c'è bisogno di scomodare Orwell, come si fa spesso in questi dibattiti che, qualche volta, sono anche molto noiosi. Per la vicinanza storico-geografica, consiglierei di avvicinarsi ai resoconti e alla storia di un Ministero simpatico, chiamato Minculpop. Quest'ultimo, ai suoi tempi, con le sue veline, dettava ai direttori dei giornali di regime frasi come: «Domani meno Papa». Questo accadeva, quando il Papa, in piazza San Pietro, pronunciava delle espressioni che non piacevano al Governo di allora.
Oggi, naturalmente, la situazione è ben diversa e migliore, non è di questo che dobbiamo discutere. Eppure, qualcuno abituato male, quando gli si restringe il televisore, scopre o riscopre il pluralismo. Va bene anche così, perché le riscoperte sono sempre utili, soprattutto, in questo caso.
Vorrei fare qualche esempio. Nel 1995, dopo la rottura con l'attuale Presidente del Consiglio, la Lega e, in particolare, il suo leader Bossi, in un libro scritto con Daniele Vimercati, accusava il sistema televisivo italiano e la sua anomalia, dicendo che era «roba da Sudamerica» e anche: «(...) Se tutto questo è democrazia, io sono Toro Seduto». Non risulta che, nel frattempo, sia cambiato molto.
Oggi, è la stessa Lega che lamenta l'assenza di pluralismo della RAI, in particolare, della terza rete, e lo stesso fa il Presidente del Consiglio con riferimento a quanto accade ad Annozero e in altri programmi.
Ricordo che quando nell'estate del 2002 le Camere furono chiamate a discutere, e lo fecero troppo flebilmente e di sfuggita, dell'ultimo messaggio presidenziale di Carlo Azeglio Ciampi, quel messaggio che si concludeva con la constatazione che non c'è democrazia senza pluralismo e imparzialità dell'informazione, in quella occasione il collega Caparini, della Lega Nord Padania disse che quel messaggio era addirittura tardivo: «Abbiamo, invano, sperato di sentire la voce del Quirinale a difesa delle minoranze e per la tutela della democrazia, anche quando la RAI dell'Ulivo cancellava la Lega Nord Padania dalla TV pubblica». Il paradosso è che, allora come oggi, la Lega Nord Padania era saldamente al Governo e però, certo, gli schieramenti politici e i loro argomenti erano, Pag. 85allora come oggi, più o meno simili: da un lato, sul centrosinistra si giocava «a zona» e si puntava al conflitto di interessi del Presidente del Consiglio - lo ricorda qualcuno in questa Aula deserta? Forse no, ma c'è ancora, state tranquilli - in tema di comunicazione e non solo in tema di comunicazione - dall'altra parte del campo si giocava «a uomo», attaccando Biagi, che adesso non c'è più purtroppo, Santoro, Luttazzi. Nella squadra avversaria - avversaria alla destra naturalmente - non c'erano ancora come titolari Fazio, Serena Dandini, Milena Gabanelli. Quest'ultima, forse perché sottovalutata, visto che andava in onda sin dal 1994 con una rubrica che si chiamava Professione reporter e già dal 1997, quindi ben undici anni prima del 2008, con Report. Le scoperte in questo senso, però, sono progressive e quasi generalmente legate a Berlusconi; legate all'«editto bulgaro» del 18 aprile 2002 che «fece fuori» Biagi, Santoro e Luttazzi, e seguite poi da Porta a Porta del 2008 nel quale Berlusconi scomunica anche Fazio, Dandini, Milena Gabanelli. I quali, tuttavia, sono ancora lì! E questo è l'altro paradosso. Si aggiungono, poi, Saviano e Vieni via con me.
Ma il campo del pluralismo è notoriamente una corsa a ostacoli. Rivedendo il periodo dei primi anni del 2000, il messaggio del presidente Ciampi, a cui mi riferivo prima, viene qualche mese dopo l'«editto bulgaro» del 18 aprile dello stesso anno e qualche mese prima della grande legge Gasparri. Le questioni relative al contraddittorio in Annozero e in Vieni via con me, si risolvono, oggi invece, con la sfiducia dei giornalisti RAI al direttore generale Masi, che poi altri accusano di avere impedito le stesse trasmissioni.
E poi ci sono le tensioni nella Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, laddove consiglieri di amministrazione, eletti secondo la legge Gasparri e secondo una struttura di legge che assolutamente riporta la RAI sotto il dominio dei partiti, di fronte a un cortese, ma fermo, invito del Presidente della Commissione, ritengono di non presentarsi in Commissione di vigilanza stessa, infischiandosene del Parlamento.
Per quel che ci riguarda, però, meglio una discussione di un silenzio. Come dire, meglio uno show di ispirazione diversa che nessuna trasmissione, così come è stato alla vigilia delle elezioni regionali di questa primavera, quando con una inconsulta iniziativa di un collega radicale avemmo l'embargo delle trasmissioni di intrattenimento politico, sulle quali, ormai da anni, si forma il pensiero politico del Paese.
Le mozioni che noi voteremo e alcune proposte che condividiamo si riferiscono agli obblighi che la RAI assume anche per il contratto di servizio, lo ha ricordato molto bene il collega Giulietti e anche il collega Della Vedova. Obblighi che la RAI assume con un contratto che stipula con il Governo attraverso il Ministero dello sviluppo economico. Al momento, però - le mozioni quasi lo danno per scontato - quel contratto non è stato ancora firmato, non è stato sottoscritto, sta lì.
Sapete perché? Perché la RAI vuole dal Governo l'assicurazione di un qualche piano antievasione (e qui i colleghi della Lega avranno da sorridere), un piano vero contro l'evasione del canone - ricordo, però, per la verità, che il canone si paga molto meno al sud che al nord, e voi lo sapete benissimo - che potrebbe dare «una boccata d'aria» alla RAI. Ebbene, questo piano non è stato ancora autorizzato dal Governo.
Pertanto, oltre agli impegni, ai propositi e alle proposte presenti nelle mozioni, ci accontenteremmo che quel contratto di servizio venisse firmato presto, prima che la RAI - che attende dal Governo questo piano - non cada sotto i colpi di quanti, in questi anni, un po' da tutte le parti, le hanno remato contro, per usare un topos noto.
Due dati: con un risultato economico che a fine anno registrerà una perdita tra i 100 e i 120 milioni di euro, sarà ancora più preoccupante l'indebitamento. Giulietti parla di un indebitamento, al 2012, di 600 milioni di euro. Speriamo di no. Al momento saranno sicuramente 200 milioni di Pag. 86euro e, quindi, non vorremmo che la RAI fosse in linea con altre strutture pubbliche o semipubbliche, a cominciare da quelle del nostro Stato, e si indebitasse un po'. Questo è un indebitamento gravissimo.

PRESIDENTE. La invito a concludere, onorevole Carra.

ENZO CARRA. Concludo, signora Presidente. Ad un futuro immediato, pieno di difficoltà economiche, si accompagna, però, soprattutto, una prospettiva di «squagliamento» organizzativo. Il sostanziale blocco dell'attività aziendale della RAI - senza investimenti né progetti, e questo è gravissimo - annuncia un futuro pieno di rischi, tra diverse esigenze e, quindi, anche questa, dal momento che stiamo parlando, disperatamente, anche di questa vicenda, che pure è importante per la nostra democrazia. Ebbene, tra le esigenze vi è, dunque, quella di riprendere a lavorare su una nuova legge per la governance della RAI.
Senza un servizio pubblico, non c'è una precondizione essenziale per il nostro pluralismo (Applausi dei deputati dei gruppi Unione di Centro e Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Mazzuca. Ne ha facoltà.

GIANCARLO MAZZUCA. Signor Presidente, le premetto che non utilizzerò tutta la mezzora di tempo a mia disposizione, ma sarò più rapido.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, senza voler usare tecnicismi e riferimenti a norme e codici che potrebbero distogliere l'attenzione dal vero obiettivo di questo dibattito, appare chiaro che la RAI, in quanto società interamente di proprietà pubblica, seppure nella veste giuridica di società per azioni, deve rendere conto non già a questa o a quella corrente politica che ne condiziona o ne vorrebbe condizionare il funzionamento, ma al Paese intero, ossia ai cittadini che - con le imposte, e quindi con il canone di abbonamento, che ricordiamo è una vera e propria tassa di possesso sugli apparecchi televisivi - ne finanziano il funzionamento.
È a loro che la RAI - nel rispettare alla lettera i termini della concessione di servizio pubblico - deve dare conto, sia nel fornire una programmazione rispettosa degli ambiti previsti dal contratto di servizio pubblico, sia attraverso gli organismi di controllo pubblico, i Ministeri e gli altri enti chiamati a vigilare sul suo operato, della gestione vera e propria e delle spese.
Se la RAI non rispetta questa regola di base, così come se non rispetta le diverse culture del Paese e dei suoi cittadini nel comporre il variegato e multiforme palinsesto televisivo e di informazione che la caratterizza secondo i parametri precisati dal contratto di servizio, finisce per causare il black-out di una parte del Paese, autorizzando così, per assurdo, gli esclusi ad evitare di pagare il canone di abbonamento. Si vuole arrivare a tanto?
Il cittadino deve, ovviamente, pagare il canone, perché è la legge che lo stabilisce, ma non certo per vedere trasmissioni sbilanciate come Annozero o quasi a senso unico come altre che sono di fatto il megafono di ideologie di parte.
Trasmissioni che poco hanno in comune con il servizio pubblico ma che anzi, usufruendo dei soldi dei cittadini, di tutti i cittadini, che senza distinzioni di colore politico, pagano il canone, finiscono per azzardare la possibilità della contrapposizione politica attuata con ogni mezzo. Ritengo quindi che la linea prioritaria da seguire sia quella di assicurare alla RAI tutti gli strumenti atti a garantire il pluralismo culturale e la libertà di accesso delle diverse espressioni, anche attraverso l'impegno professionale di quei soggetti che appartengono a matrici culturali radicate nella maggioranza dei cittadini ma spesso diverse da quella finora prevalente nell'azienda RAI.
Il vero problema, onorevoli colleghi, non sono infatti le redazioni dei telegiornali; certo soprattutto queste devono sempre avere presente gli ambiti del servizio pubblico e le sue regole, prima fra tutte quella di fornire una presentazione veritiera Pag. 87dei fatti e degli avvenimenti in modo tale da favorire la libera informazione delle opinioni, ma in molti casi questi obiettivi vengono raggiunti. Faccio l'esempio del TG1: molti esponenti politici, della sinistra soprattutto, accusano il TG1 di dare troppo spazio al Governo e alla maggioranza; secondo quanto riprodotto dai più recenti dati dell'osservatorio di Pavia, mi riferisco al settembre 2010, sulle presenze dei politici, proprio nel TG1, risulta che il Presidente del Consiglio e il Presidente della Repubblica siano al primo e al secondo posto, al terzo posto vi è il leader dell'opposizione Bersani, seguito dal Presidente della Camera, Fini e, fra i più presenti, gli onorevoli Casini e Di Pietro. Se riferiti al prime time la graduatoria del TG1 vede nell'ordine Berlusconi, Fini, Bersani, Napolitano, Casini e Di Pietro. Il vero problema, a mio parere, è costituito invece dalle trasmissioni di approfondimento. Contenitori televisivi e talk show dove, troppo spesso, dietro il sacrosanto principio della salvaguardia della finalità del servizio pubblico e dell'informazione pluralista si è nascosto e si nasconde altro e cioè la difesa di uno status quo egemonico, di uno strapotere di una parte politica precisa. Sono quindi da biasimare coloro che dicendosi professionisti della televisione invece assecondano ancora questa linea di condotta che strozza la libertà di espressione in questo Paese.
In Italia si vendono sempre meno quotidiani e la televisione pubblica resta in molti casi lo strumento principale di informazione e il mezzo per i cittadini di formarsi una libera opinione sui fatti che li riguardano. Proprio per questo occorre calibrare molto l'attenzione sulla pluralità di informazione della RAI; mi chiedo se questo sia possibile guardando certi programmi televisivi.
Allora, cari colleghi, è opportuno che quelli che oggi rappresentano la minoranza nel Paese, ma la maggioranza in RAI, facciano un passo indietro per garantire il rispetto di tutte le culture e di tutti i cittadini utenti. Tanto per citare un esempio discutibile di servizio pubblico e di condizionamento a logiche politiche di parte, a proposito del quale peraltro il sottoscritto è intervenuto con specifici quesiti in Commissione di vigilanza RAI, ricordo come, nel corso dell'ultimo festival di Sanremo, si è assistito ad una vera e propria strumentalizzazione a fini politici di parte dello spettacolo canoro e l'allora Ministro dello sviluppo economico fece bene a ricordare che si era nel corso di una trasmissione di uno spettacolo che non poteva prevedere interventi di natura politica. Ma a quella violazione palese, si era in periodo di par condicio, la RAI ha poi dato in Commissione di vigilanza una risposta abbastanza discutibile.
Onorevoli colleghi, il vero nodo da sciogliere è quindi quello di garantire regole per il rispetto del pluralismo anche nelle trasmissioni di approfondimento. Se vi fosse la certezza che in quelle trasmissioni venissero rispettate le regole del pluralismo non potremmo più assistere impotenti ai fatti che si sono verificati a Sanremo o più recentemente durante lo show di un conduttore televisivo, che qualcuno potrebbe definire fazioso, che ha elencato i politici desiderosi di essere invitati quasi stesse leggendo una lista di oppressori politici. Stasera il Ministro Maroni avrà la possibilità di replicare allo scrittore Saviano che aveva accusato la Lega Nord Padania di non affrontare il tema delle mafie al nord. Ma prima del disco verde, giunto dopo una settimana di discussioni, il Ministro dell'interno ha dovuto sottoporsi ad un lunghissimo braccio di ferro con la direzione di Rai Tre e con i vertici dell'ente radiotelevisivo.
Mi chiedo se questo sia il pluralismo televisivo da tutti invocato. È giusto invocare da parte di tutti il pluralismo televisivo, ma bisogna assolutamente che tutti si adoperino per cercare di realizzarlo, cercando di capire quali sono i punti negativi da una parte e dall'altra.
Sul discorso di una parziale privatizzazione della RAI, siamo pronti a discuterne, tenendo anche conto che già nella legge Gasparri era prevista un'apertura in Pag. 88questo senso e, quindi, esso è un terreno che si può assolutamente affrontare assieme.
Tenendo conto di queste osservazioni e di altre che faremo nel corso delle prossime giornate, il PdL ha presentato oggi una sua mozione (Applausi dei deputati del gruppo Popolo della Libertà).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Meta. Ne ha facoltà.

MICHELE POMPEO META. Signor Presidente, inizio con una considerazione che non vuole essere affatto una polemica. Oggi iniziamo l'esame di mozioni importantissime: con tutto il rispetto per il rappresentante del Governo, cui va la mia stima, avremmo preferito avere in Aula il Ministro Romani, che è persona che, non solo detiene le deleghe del Governo, ma è assai competente. Egli è un po' la memoria storica di questi dibattiti in questi anni in questo Parlamento, e io lo ricordo quando presiedevo, nell'altra legislatura, la Commissione che si stava occupando della rivisitazione della legge Gasparri; egli era assai presente e molto assiduo.
Comunque, ripeto che questa non voleva essere una polemica, ma, credo che - lo voglio dire - se ancora una volta in quest'Aula ci troviamo a discutere del tema del pluralismo dell'informazione del servizio pubblico e del suo stato di salute lo si deve in grande parte, ancora volta, purtroppo, all'anomalia che vive il nostro Paese da almeno sedici anni. Un'anomalia evidenziata sistematicamente dagli organismi internazionali e sempre sottolineata, con nostro grande imbarazzo, dagli osservatori internazionali sulla libertà di informazione. Penso - e su questo ci impegniamo - che la nostra non vuole essere una sterile ricerca di un capro espiatorio cui addossare tutta la responsabilità per gli strappi avvenuti nella qualità dell'informazione in RAI negli ultimi anni. Non possiamo perciò consentire che un dibattito sullo stato di salute dell'informazione televisiva del Paese si trasformi in una caccia alle streghe o in una difesa strenua di quel dirigente e di quel direttore di TG.
Credo dovremmo lasciare fuori dalla porta partigianerie e tifo, che potrebbero condizionare in parte la discussione che oggi iniziamo, e che mi auguro possa proseguire in quest'Aula.
In parole povere, con questo confronto credo innanzitutto che si debbano evitare ipocrisie e giri di parole, e riconoscere che un problema vi è se chi ambisce a ricoprire carichi di governi è allo stesso tempo proprietario della principale televisione privata in competizione esclusiva con il servizio pubblico.
Non è solo un aspetto legato alle proprietà, ad una rigida e moderna disciplina delle incandidabilità o dell'Antitrust che, in Italia, stentiamo ancora a definire, purtroppo, ma parliamo, cari colleghi, di un vero e proprio freno a mano tirato all'offerta complessiva del sistema radiotelevisivo del Paese, per lo più in questi ultimi anni nei quali sta avvenendo, e non è una cosa di secondaria importanza, la cosiddetta rivoluzione digitale. Rivoluzione che potrebbe consentire alla RAI di giocare una partita all'attacco viste le risorse, le competenze e l'esperienza maturata in poco più di cinquant'anni di vita.
Cinquantasei anni fa, appunto, quella che per tanti è ancora mamma RAI si affacciava nelle case degli italiani e cominciava una nuova era per l'informazione e per l'intrattenimento televisivo nel nostro Paese. Il rischio oggi che abbiamo davanti è che le inconcludenti polemiche, e la mischia politica, tipica di una lunga stagione berlusconiana, stringano in una morsa la RAI, destrutturando pericolosamente e impoverendo il servizio pubblico radiotelevisivo finanziato dal canone dei cittadini.
Se non si libera la più grande azienda culturale del Paese dall'abbraccio mortale dei partiti e della politica potremmo presto trovarci a fare i conti, oltre che con la mancanza del pluralismo, con un distacco tra Paese reale e gli obblighi del servizio pubblico.
Si è sentito dire in queste settimane dai vertici della RAI che il pluralismo lo si fa per addizione di voci e non per sottrazione. Ecco, cari colleghi, questo è un Pag. 89aspetto sostanziale legato alla discussione di questi giorni sul successo di Vieni via con me che ha battuto ogni record di ascolti per la terza rete, facendo televisione anche di qualità. Aggiungere voci, a mio avviso, al panorama dell'informazione televisiva non significa riconoscere spazi nel servizio pubblico in nome di una par condicio a favore del più forte, come è avvenuto in seguito alla recente polemica alimentata dai membri del Governo e dalla destra contro la trasmissione di Fazio e Saviano.
Una tale accezione del pluralismo, infatti, sarebbe davvero restrittiva e limitata ad una concezione padronale del servizio pubblico, distante anni luce dai problemi veri, dalla vita e dalle speranze degli italiani. Io credo, ad esempio, che si possa tutelare il pluralismo nel servizio pubblico dando voce innanzitutto al Paese reale, quello che viene dimenticato dai principali TG della RAI e dai salotti televisivi, dando voce alla crisi economica, al quotidiano delle famiglie italiane che vengono distratte da quella eccessiva morbosità di fatti di cronaca o di gossip.
Lo stesso tema del contraddittorio, agitato pretestuosamente in questi giorni, corre il rischio di essere distorto se i fatti vengono messi in secondo piano, o persino taciuti, rispetto alla rilevanza che si dà alle opinioni dei politici nei «panini» dei telegiornali e nei salotti televisivi.
Quanto è avvenuto, cari colleghi, prima e dopo la messa in onda di un programma di successo come Vieni via con me, è a dir poco imbarazzante per i vertici RAI. Di fronte ad un successo riconosciuto persino dal vicepresidente Mediaset e salutato con soddisfazione dalla concessionaria di pubblicità Sipra non è scattato alcun anticorpo di difesa dell'autonomia dell'azienda e del lavoro di professionisti come Saviano e Fazio.
Neanche un complimento agli autori e alla direzione di rete, come sarebbe scontato in qualsiasi altra azienda, così come non è normale che un massiccio voto di sfiducia dei giornalisti RAI nei confronti del direttore generale non gli faccia trarre le dovute conseguenze. Ciò non è avvenuto, così come non si è levata alcuna voce da parte dei protagonisti di questa vicenda in difesa di Saviano, vittima dell'ignobile tentativo del quotidiano della famiglia del Premier di buttare nella mischia politica lo scrittore di denunce giuridiche.
Avvertiamo il rischio, insomma, che possa diventare una consuetudine quella di alzare polveroni, alimentando indegne gazzarre contro approfondimenti culturali e trasmissioni di successo per vedersi riconosciuto un improprio diritto di tribuna. Il prurito di alcuni esponenti della maggioranza verso il clamoroso successo di programmi come quello a cui ho fatto riferimento si spiega, credo, solamente con la debolezza e la paura, tipiche degli uomini vicini al Premier, nei confronti della televisione di qualità e dell'informazione trasparente.
Crediamo che questo, però, nell'anomalia di un sistema radiotelevisivo strapazzato dal duopolio ingessato sia buon segno, perché effetto di una ritrovata qualità del servizio pubblico dopo anni di torpore e di omologazione agli stili di Mediaset. Tutto questo accanimento verso un programma che, oltre a fare del bene alla qualità e all'offerta del servizio pubblico, contribuisce con la raccolta pubblicitaria a salvare le casse RAI non è spiegabile, se non con il solito vizietto di andare contro gli interessi della più grande azienda culturale del Paese.
Come pure la recente decisione del consiglio di amministrazione RAI sull'esecuzione di Bella ciao al festival di Sanremo, nell'ambito dei festeggiamenti dei centocinquanta anni dell'unità d'Italia, ha scritto un'altra brutta pagina per la storia del servizio pubblico.
Già è surreale il semplice fatto che qualcuno pensi di proporre Giovinezza dagli schermi della RAI scrostandone l'indiscutibile impronta fascista nell'anno dei festeggiamenti, ma è ancora più paradossale e indicativo dello stato di salute della RAI che si sia preferito lavarsene le mani, bloccando anche l'esecuzione di Bella ciao, perché non può essere prerogativa di viale Mazzini quella di fare revisionismo storico, Pag. 90mettendo sullo stesso piano una canzone simbolo dell'epoca fascista con un'altra simbolo invece della resistenza.
Non è quindi solo questione di pluralismo e di obiettività dell'informazione.
Esiste un tema più complesso che riguarda lo stato di salute del servizio pubblico e le prospettive per il futuro. Non può passare certo inosservata la legittima preoccupazione dei dipendenti RAI che per la prima volta sono costretti ad alzare la voce con uno sciopero generale contro un piano industriale fatto di tanti tagli e poche certezze per la sfida del digitale. La più grande azienda culturale del Paese non gode purtroppo di buona salute e non solo a causa di un certo pluralismo, tra flop annunciati, perdita di ascolti per l'informazione, moltiplicazione di incarichi, dirigenti esterni, ostacoli imposti ai vertici a programmi di successo e qualità.

PRESIDENTE. La prego di concludere.

MICHELE POMPEO META. Concludo, signor Presidente. Il prossimo 10 dicembre, dodicimila dipendenti incroceranno le braccia chiamando in causa le responsabilità dei vertici RAI per le perdite economiche e per il mancato rilancio. Non bisogna perdere tempo - è vero - ma occorre innanzitutto concentrarsi sulla sfida del passaggio al digitale che rischia di essere mancata se si preferisce aggredire solo il costo del lavoro. La cancellazione della terza edizione dei telegiornali regionali potrebbe essere l'anticamera dello smantellamento progressivo dell'informazione di prossimità. Confidiamo nel rispetto degli obblighi di servizio pubblico e nel buonsenso dei vertici di viale Mazzini, finora venuti a mancare, sia per il pluralismo dell'informazione che per atti unilaterali come il piano industriale imposto ai lavoratori con tagli alle retribuzioni, alle consulenze, al personale e ai mille esuberi.
Vista la gravità della situazione sarebbe opportuno insomma per la salvaguardia della mission del servizio pubblico affrontare già nelle prossime settimane il vero nodo della riforma dei meccanismi di governance della RAI che, ostaggio dell'ingombrante presenza dei partiti, viene progressivamente svuotata degli obblighi di una informazione plurale, obiettiva e trasparente. Il Partito Democratico ha presentato una proposta di riforma della governance, che rappresenta una buona base di lavoro per tutti coloro che hanno a cuore l'azienda e che responsabilmente decidono di rilanciare e rinnovare il ruolo del servizio pubblico in occasione della rivoluzione digitale (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Paladini. Ne ha facoltà.

GIOVANNI PALADINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, la lotta per la libertà di informazione è una vicenda che ha origini antiche e che accompagna la nascita dell'opinione pubblica moderna. Questa infatti riesce a strutturarsi e a far crescere la sua influenza proprio grazie a quello che oggi chiamiamo il sistema delle comunicazioni in cui il mezzo televisivo assume un ruolo chiave.
Nella storia della democrazia la stampa prima e l'intero sistema delle comunicazioni poi hanno configurato una nuova forma di rappresentanza della società, rafforzando proprio la funzione di garanzia che, nel dilatarsi del ruolo dello Stato e nell'ampliarsi della sfera pubblica, non poteva essere pienamente assicurata nell'ambito delle tradizionali strutture istituzionali. Tuttavia, questa trasformazione ha portato con sé anche l'allargarsi del conflitto - si tratta di un ricorso diffuso - a strumenti capaci di controllare il sistema dell'informazione nei Paesi democratici, il carattere pervasivo dei doveri dei diversi strumenti di comunicazione che strutturano la sfera pubblica e fa crescere le pretese di un potere politico che considera il sistema della comunicazione come istituzionale, che rischia di produrre un'alterazione del sistema dell'informazione e che potrebbe trasformarsi pericolosamente in uno strumento servente del potere politico proprio per accentuare il controllo di quest'ultimo sulla società.
Un recente rapporto del Censis ha rilevato che il 69,3 per cento degli elettori forma Pag. 91le proprie opinioni in base alle informazioni fornite dai telegiornali; il contro è che questi ultimi rappresentano un veicolo essenziale per l'acquisizione del consenso. L'ambito radiotelevisivo è dunque tra i settori più sensibili in cui è necessario affermare pluralismo e obiettività, e tale settore deve essere gestito e governato con equilibrio, imparzialità e senso istituzionale. In Italia tali linee di condotta in passato non sempre sono state interpretate e attuate con il dovuto rigore. Nel presente esse, ad avviso del nostro gruppo e naturalmente anche dei firmatari del presente atto di indirizzo, sono addirittura calpestate.
Tuttavia, a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta dello scorso secolo si è tentato di raccogliere intorno alla RAI, allora monopolista del servizio pubblico radiotelevisivo, le migliori intelligenze e professionalità della nascente industria culturale integrata, fatta di esperti di cinema, musica, letteratura e gestione. Nel 1975 per tentare di offrire alla RAI spazi maggiori di azione e per metterla al servizio di una collettività diversificata e idealmente divisa come quella che la società italiana già allora esprimeva, si pensò ad assoggettarla alla vigilanza parlamentare, istituendo per questo la Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi.
Tale Commissione è da molti anni presieduta da un esponente dell'opposizione parlamentare, come a sottolineare la natura di zona franca dall'indirizzo politico di maggioranza, luogo di libera discussione e miglior tutela dell'indipendenza dei giornalisti e dei manager che lavorano nella RAI. Il progredire poi delle tecnologie e la progressiva «televisizzazione» della società, della politica e della cultura - a scapito delle forme pregresse della comunicazione culturale quali la scuola, i libri, la cinematografia in sala, il teatro - hanno in pratica reso la proprietà delle reti televisive private un requisito fondamentale per il protagonismo politico ed economico.
Nel contempo quello che doveva essere un nobile controllo politico sul rispetto del pluralismo in RAI è degenerato - secondo i firmatari del presente atto di indirizzo - in una prassi di spartizione partitocratica da cui nessun partito è sottratto sia nella cosiddetta prima che nella cosiddetta seconda Repubblica (fatto salvo il gruppo Italia dei Valori). La legislazione in materia televisiva è oscillata tra la sopraffazione delle esigenze commerciali e politiche della televisione privata. Basti guardare la legge Mammì del 1990, la legge Gasparri del 2004 e le tendenze del compromesso nella legge Maccanico del 1997.
In tutto ciò si colloca il paradosso del nostro sistema di informazione, nonché il presupposto alla base del conflitto di interessi protagonista delle vicende politiche che vede il Presidente del Consiglio dei ministri proprietario di azienda Mediaset che, insieme alla RAI, costituisce un vero e proprio duopolio del sistema radiotelevisivo. Totalmente inefficace a spezzare il duopolio televisivo RAI-Mediaset, ad avviso dei presentatori della presente mozione, si è anche rilevata l'attività del Garante per la radiodiffusione e l'editoria prima e l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni poi.
Nel 2008, anche se siamo lontani ben due anni, si è assistito addirittura di fatto ad un processo che, sempre secondo noi, assomiglia ad una fusione politico-culturale e manageriale tra le due aziende che formalmente dovrebbero essere concorrenti, tanto che oramai è entrato nel comune linguaggio il termine molto importante «Raiset». Tutto ciò è accaduto nonostante il nostro sistema normativo stabilisca che il sistema televisivo debba essere caratterizzato da un pluralismo interno, per cui in ciascuna rete dovrebbero essere trasmessi programmi e contenuti che diano compiuta rappresentazione di tutte le tendenze culturali e politiche del Paese, ed esterno al mercato radiotelevisivo, per cui dovrebbero essere ammessi più operatori possibili compatibilmente con i mezzi tecnologici disponibili in modo da assicurare una varietà di voce e di interessi. Tutto ciò è ovviamente a tutela del pieno significato dell'articolo 21 della Costituzione. Pag. 92
La sentenza della Corte costituzionale n. 466 del 2002 ha tra l'altro affermato l'obiettivo di garantire il pluralismo dei mezzi di informazione che è stato sottolineato in una prospettiva più ampia anche a livello comunitario in recenti direttive. Basta guardare la direttiva 2002/19/CE, relativa all'accesso alle reti di comunicazione elettronica e alle risorse correlate all'interconnessione delle medesime, nonché la direttiva autorizzazioni 2002/20/CE della Comunità europea relativa alle autorizzazioni per le reti e i servizi di comunicazione elettronica. Naturalmente c'è anche la direttiva 2002/21/CE che istituisce un quadro normativo comune per le reti e i servizi di comunicazione elettronica. Vi è, inoltre, la direttiva 2002/22/CE relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di reti di servizi di comunicazione elettronica (la cosiddetta direttiva servizio universale).
In questo quadro, la protrazione della situazione italiana, peraltro aggravata e già ritenuta illegittima con la sentenza n. 420 del 1994, e il mantenimento delle reti considerate ancora eccedenti dal legislatore del 1997 esigono ai fini della compatibilità con i principi costituzionali che sia previsto un termine finale assolutamente certo, definitivo e, comunque, non eludibile.
Le gravi problematiche - come ho accennato - stanno conoscendo, in questi ultimi giorni, anche un'escalation decisiva per le sorti della democrazia italiana, dopo aver ostacolato da quanto risulta dalla stampa, in vario modo, la messa in onda di determinati programmi, quali Annozero, Vieni via con me e altri programmi, che fanno naturalmente capo ad un certo indirizzo e ad una certa tematica. La Corte costituzionale recita che l'imparzialità e l'obiettività dell'informazione possono essere garantite solo dal pluralismo delle fonti e dagli orientamenti ideali, culturali e politici nella difficoltà che le notizie ed i contenuti dei programmi siano in sé e per sé, sempre e comunque, obiettivi.
La rappresentanza parlamentare, nell'ambito della quale tendenzialmente si rispecchia il pluralismo esistente nella società, si pone, pertanto, permanendo l'attuale regime, come la più idonea custode delle condizioni indispensabili per mantenere gli amministratori della società concessionaria, nei limiti del possibile, al riparo da pressioni e condizionamenti che inevitabilmente inciderebbero sulla loro obiettività e imparzialità.
L'evoluzione normativa appena esaminata dimostra come il legislatore si sia conformato ai principi affermati da questa Corte in tema di prevalenza dell'indirizzo e della vigilanza parlamentare sulla gestione delle società concessionarie del servizio pubblico radiotelevisivo.
A tale proposito, si devono porre in rilievo due costanti, particolarmente significative ai fini che qui interessano: appartiene alle scelte politiche del Parlamento disporre che l'intero Consiglio sia designato dall'organo parlamentare di indirizzo o vigilanza e che quest'ultimo abbia il potere di determinare la nomina limitatamente alla maggioranza dei membri e la rimozione dei componenti, in ogni caso assoggettata alla valutazione della Commissione.
Per questo, signor Presidente, in questa mozione si vorrebbe dare seguito effettivo alle indicazioni provenienti dalle organizzazioni internazionali sul tema del pluralismo, della concentrazione e del conflitto di interessi, allineare più scrupolosamente la normativa nazionale ai principi delle direttive di settore, in particolare, a quelle del 2007; a promuovere la modifica delle disposizioni del testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici, nella parte in cui - ad avviso dei sottoscrittori del presente atto di indirizzo - in violazione della direttiva 2007/65/CE, escludono le trasmissioni e impediscono i programmi audiovisivi, consentendo che gli stessi non vengano presi in considerazione nel calcolo dei tetti a tutela del pluralismo; a garantire l'indipendenza del servizio pubblico radiotelevisivo; ad astenersi da ogni interferenza con l'indipendenza editoriale e l'autonomia istituzionale delle emittenti pubbliche secondo le indicazioni dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa; a recepire nello schema di contratto di Pag. 93servizio tra il Ministero dello sviluppo economico e la RAI per il triennio 2010-2012 le indicazioni contenute nel parere della Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi del 9 giugno 2010, in particolare per quanto attiene alla definizione degli indicatori di verifica della qualità dell'informazione e a rendere effettive le condizioni perché l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni possa svolgere, con maggiore efficacia ed indipendenza, la verifica di adempimento dei compiti del servizio pubblico radiotelevisivo, ex articolo 48 del decreto legislativo n. 177 del 2005 (Applausi dei deputati del gruppo Italia dei Valori).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Beltrandi. Ne ha facoltà.

MARCO BELTRANDI. Signor Presidente, colleghe e colleghi, la RAI è in uno stato di disastro, in atto e imminente. Lo è perché mai - credo - in passato, siano state, come oggi, così poco riconoscibili nella sua programmazione i connotati di servizio pubblico, il valore aggiunto del servizio pubblico e una qualità superiore. Lo è perché mai, come in questi ultimi anni, il pluralismo è così negato, pluralismo che - oltre ad essere un obbligo di legge - è il paradigma di un servizio pubblico.
Mi riferisco a quello sociale, politico, tematico, culturale, religioso e, si badi bene, non sono i politici faziosi a dirlo ma l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni che, dal 2000, solo su denuncia radicale, ha certificato la violazione del pluralismo a danno dei radicali per ben oltre 50 volte.
Lo dimostra tutta l'informazione RAI, sia nei telegiornali, sia nei programmi di approfondimento, sia nelle trasmissioni culturali, dalla quale sono stati cancellati interi partiti politici, anche quelli non rappresentati in Parlamento, con vette mai toccate prima che riguardano la testata giornalistica ammiraglia, quel TG1 degli editoriali a senso unico di Minzolini, ma anche e soprattutto con un'agenda politica sovente diversa rispetto a quella di tutte le altre testate e sempre orientata ad avvantaggiare l'attuale maggioranza di Governo.
Lo è, dicevo, perché ha investito meno e con ritardo rispetto a Mediaset sul digitale terrestre, anche se con risultati non disprezzabili, ma sempre ritardo è.
Lo è per il conto economico: non ancora fortunatamente quello certificato, ma ci è stato detto, al massimo livello di autorevolezza, che il conto economico potrebbe chiudere con un buco di 600 milioni di euro, per il calo, in parte incomprensibile, di pubblicità visto che - ci viene detto - gli indici di ascolto sarebbero in salita.
A fronte di questo dato economico, del piano industriale presentato la scorsa primavera nulla è dato più sapere da tanto tempo, secondo anche quanto affermano alcuni componenti del Consiglio di amministrazione RAI.
Tutto questo potrebbe essere utilmente affrontato in un solo modo, con una riforma del servizio pubblico, una riforma per la quale dal 2006 giace in Parlamento anche una proposta radicale, quella che consiste nel definire oggettivamente il servizio pubblico televisivo nella privatizzazione completa della RAI - non a pezzi quindi - e nell'assegnazione all'asta del servizio pubblico radiotelevisivo, con gare separate a livello nazionale e regionale. Altre proposte di altri colleghi giacciono come questa ad impolverarsi nei cassetti del Parlamento.
Su questo piano penso che l'azienda rischi veramente il destino dell'Alitalia, e questo ad una velocità superiore rispetto a quanto anch'io qualche tempo fa prevedevo.
Ma, come sappiamo, l'attuale quadro politico non ci consente di discutere una riforma complessiva, ed allora eccoci ad intervenire con più mozioni, che come sappiamo sono un pannicello caldo.
I radicali hanno sottoscritto con convinzione la mozione a prima firma Giulietti (la mozione Giulietti, Zaccaria, Tabacci, Evangelisti, Nicco ed altri n. 1-00441), assieme a molti altri colleghi illustri anche del Partito Democratico e di altri gruppi. Pag. 94
Questa mozione contiene infatti nelle premesse riferimenti ad atti normativi comunitari, all'OSCE, rispetto ai quali l'Italia costituisce un'anomalia, per molti contenuti del Testo unico della radiotelevisione del 2005.
I primi tre punti della parte dispositiva sembrano condivisibili senza riserve, in particolare nella parte in cui si impegna il Governo a modificare il Testo unico per includere i programmi di pay-per-view nel calcolo dei tetti del pluralismo, oggi esclusi in difformità dalla direttiva 2007/65/CE.
Così come è condivisibile l'impegno del Governo a garantire una vera autonomia del servizio pubblico radiotelevisivo che mai come oggi appare messa in discussione. Anche i due punti successivi della mozione Giulietti sono condivisibili: l'inserimento nella versione definitiva del contratto di servizio RAI - Ministero dello sviluppo economico 2010-2012 del parere reso all'unanimità dalla Commissione di vigilanza RAI, un parere che a mio avviso è migliorativo in parti fondamentali dello schema presentato dal Governo, al contrario in contrasto in tanti passaggi anche con le linee guida dettate dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.
Importantissimo è poi l'ultimo punto della parte dispositiva della mozione Giulietti con cui il Governo dovrebbe garantire una maggiore autonomia all'Autorità nell'applicazione dell'articolo 48 del Testo unico della radiotelevisione.
E qui voglio ricordare che l'Autorità ha aperto il primo, e per quel che so, sinora unico procedimento ai sensi dell'articolo 48 del Testo unico nei confronti della RAI proprio su denuncia radicale, approvando una delibera, la n. 382/09, con la quale l'Autorità certificava tre anni di violazione del pluralismo, completezza, imparzialità e obiettività dell'informazione a danno dei Radicali, e nel dispositivo, invitava la RAI ad adottare idonei criteri e linee operative atte a definire, nel rispetto della libertà di espressione e dell'autonomia editoriale, le modalità di concreta attuazione, erga omnes quindi, dei principi del pluralismo informativo previsti all'articolo 2, comma 3, del contratto di servizio e dal codice etico, nei propri programmi di informazione e di approfondimento informativo.
Quanto segnalato dall'Autorità è il vero nodo centrale del mancato rispetto del pluralismo, perché in attesa che la RAI fissi i criteri di cui sopra - e lo doveva fare entro il 2009 - i principi di completezza, imparzialità, obiettività e pluralismo dell'informazione non sono applicabili immediatamente sul piano legale. Quindi, per sollecitare il Governo a far sì che la RAI faccia quanto chiesto e deliberato dall'Autorità, e che ancora non ha fatto, ho presentato un emendamento in questo senso alla mozione Giulietti, Zaccaria, Tabacci, Evangelisti, Nicco ed altri n. 1-00441, e anche alla mozione Bocchino ed altri n. 1-00436, che mi auguro venga poi approvato. Nel definire i criteri tra l'altro, la RAI, secondo questo emendamento, è invitata ad ispirarsi alle migliori esperienze europee nel settore, in modo che nessuno possa accusarla, magari strumentalmente, di tentazioni censorie. Analogo emendamento, come ho già detto, ho presentato alla mozione a prima firma Bocchino, oltre ad un emendamento soppressivo della parte delle premesse che riguarda il Tg1. Questo emendamento soppressivo è stato presentato non perché non si condividano le critiche al Tg1 e la novità che questo Tg1 ha rappresentato nella storia della testata ammiraglia della televisione RAI, ma perché non è purtroppo possibile ridurre il problema del pluralismo RAI, che - lo ricordo - è, oltre che politico, sociale, tematico, religioso e culturale, al solo Tg1 o alla sola direzione generale di Mauro Masi, che pure tante responsabilità ha. Questo lo ha detto anche il collega Giulietti e lo condivido al 100 per cento. Magari fosse solo quello il problema! Quindi, in sintesi preannunziamo il voto favorevole dei Radicali alla mozione a prima firma Giulietti, che mi auguro sarà emendata e rafforzata nel senso da noi indicato, mentre, per quanto riguarda la mozione Bocchino ed altri, abbiamo presentato due emendamenti importanti e valuteremo, anche in base all'andamento dei lavori, come esprimere il nostro voto. Pag. 95
Concludo ricordando che in Commissione di vigilanza la scorsa settimana si è verificato un fatto assolutamente anomalo e grave, cioè che, convocati dalla Commissione di vigilanza, cinque componenti del consiglio di amministrazione non si sono presentati. Questo, di fronte al quadro disastroso in cui versa l'azienda, ci è sembrato e mi sembra un atto veramente di grave irresponsabilità (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Binetti. Ne ha facoltà.

PAOLA BINETTI. Signor Presidente, credo che questo dibattito, che mi dispiace si svolga in un'Aula vuota, tocchi uno dei punti più qualificanti non solo della democrazia in genere, ma anche del momento politico concreto che stiamo vivendo.
La citazione della mozione che in questo momento mi appresto a difendere ed a rappresentare, per quello che vale come contributo personale, fa riferimento all'articolo 21 della nostra Costituzione, in cui si considera la libertà di espressione principio cardine della nostra democrazia.
Il tema vero, però, è che la libertà di espressione, ciò che succede quando si interfacciano i mezzi di comunicazione, ha bisogno di una sorta di disco verde, come se dovesse di fatto essere accreditata dalle organizzazioni e dalle direzioni generali, piuttosto che da coloro che costituiscono tutta la filiera della comunicazione.
A me sembra - lo dico forse da politico, ma più ancora da utente e cittadino normale - che la nostra televisione manchi, in molti momenti, della possibilità di garantire veramente libertà di espressione. Lo dico, signor Presidente, pensando a ciò che è avvenuto proprio una settimana fa in occasione di una trasmissione televisiva. Non mi riferisco tanto a quello che poi ha determinato il dialogo tra il Ministro Maroni e Saviano, a proposito della presenza di infiltrazioni di mafia e di 'ndrangheta nel nord Italia, che costituisce un fatto noto e conosciuto a tutti.
Mi riferisco piuttosto alla seconda parte della trasmissione, durante la quale abbiamo avuto una carrellata di situazioni umane drammatiche, di persone che in qualche modo toccano la nostra sensibilità e sono capaci di mettere in gioco una fluidità di emozioni molto importanti, e tutte queste testimonianze erano a senso unico, erano tutte testimonianze che nel loro insieme definivano una sorta di spot proeutanasico. Avevamo assistito pochi giorni prima ad una proposta fatta da Telelombardia che intendeva mandare in onda, anche lì, una sorta di appello, e anche quello partiva da un paziente grave, terminale, e in qualche modo comunicava, attraverso l'ansia e l'impatto emotivo ad un pubblico molto più vasto, un'unica alternativa a questo dolore che era la possibilità di riaffermare un principio di autodeterminazione, principio che alla fin fine si concludeva con una sola cosa: lasciatemi morire, fatemi morire. Questo evento, a mio avviso, è uno degli ultimi momenti drammatici in cui abbiamo toccato con mano l'assenza di par condicio: mentre il Ministro Maroni ha potuto ottenere (anche in virtù della forza e della potenza del suo Ministero) di essere ascoltato, e probabilmente sarà ascoltato questa sera, non ci sarà ascolto, perlomeno non per ora, per quelle voci, voci di vita, voci di persone che chiedono il diritto a vivere. Ci troviamo davanti al fatto che un diritto alla verità viene in qualche modo mistificato anche rispetto a quello che è un diritto alla vita. La televisione, massimamente la televisione di Stato, sia pure attraverso la pluralità dei suoi canali, dovrebbe garantire anche in questo modo la par condicio. La par condicio non è prerogativa delle posizioni politiche; oggi come oggi è prerogativa dei modelli culturali, è prerogativa delle scale di valori che vengono proposte al nostro pubblico. Credo che, finché la RAI non si deciderà nei fatti a dare voce a queste storie, a queste persone, a questi valori, continueremo a far sentire forte e chiara la nostra voce, e questa mozione ce ne dà l'opportunità. Questa mozione è stata pensata ben prima della trasmissione di lunedì scorso. Questa mozione tocca un tema generale di ampio respiro, ma a noi sembra che temi Pag. 96generali di ampio respiro di fatto camminino sulle gambe dei progetti concreti di una quotidianità che ci tocca tutti quanti, uno per uno. Ora credo e mi auguro davvero che anche il voto cui questa mozione sarà sottoposta (e che suppongo senza ombra di dubbio sarà positivo perché va ad interfacciare davvero con la libertà di ognuno di noi) abbia una ricaduta pratica. Mi auguro che questa ricaduta pratica permetta alla televisione italiana di mostrare che l'alternativa che gli italiani hanno non è scegliere tra il Grande Fratello di lunedì scorso e Saviano (andato in onda lo stesso giorno). Non voglio scegliere tra una ideologia di morte e un programma televisivo che, invece, sollecita gli aspetti - per così dire - di maggiore e più epidermica sensualità e superficialità. Quindi credo che questa mozione possa servire anche a ristabilire questo equilibrio e questo pluralismo, il pluralismo delle idee, il pluralismo dei valori, il pluralismo della rappresentazione della società civile. Non vorremmo in questo senso - lo dico proprio per questo da cittadino e non da politico - che la voce alta e autorevole del Ministro riuscisse a trovare spazi di ascolto, laddove le associazioni dei malati invece non riescono a trovare una voce di consenso (Applausi dei deputati del gruppo Unione di Centro e di deputati del gruppo Popolo della Libertà).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Giorgio Merlo. Ne ha facoltà.

GIORGIO MERLO. Signor Presidente (intervengo rapidamente perché altri colleghi sono già intervenuti), ritengo che le mozioni presentate oggi sul tema del pluralismo e della completezza dell'informazione siano positive perché pongono un problema vero che caratterizza la democrazia italiana, se non il problema principale che caratterizza la nostra democrazia, cioè il rapporto tra la politica e l'informazione e, nello specifico, il ruolo e la mission del servizio pubblico radiotelevisivo. Credo che sia positivo anche il fatto che questa mozione l'abbiano presentata per primi i colleghi di Futuro e Libertà. Apprezzo molto la conversione tardiva del gruppo finiano, che si è reso conto, dopo circa 16 anni, che nel nostro Paese esiste un problema riconducibile al conflitto di interessi, e che si è reso conto, dopo due anni e mezzo, che c'è un problema anche di completezza e di imparzialità dell'informazione radiotelevisiva: meglio tardi che mai.
Spero che non sia solo un problema legato alla visibilità mediatica di alcuni esponenti di Futuro e Libertà, ma sia una questione che interpella direttamente il cuore del tema e, cioè, come garantire oggi un pluralismo nel servizio pubblico radiotelevisivo e, soprattutto, come garantire, appunto, la completezza e l'imparzialità dell'informazione. Il servizio pubblico, come è già stato detto da chi mi ha preceduto, continua ad essere decisivo, a mio parere, se vogliamo continuare a garantire il pluralismo politico e culturale nel nostro Paese e, soprattutto, se vogliamo far sì che anche l'informazione continui ad essere completa ed imparziale. Se non riusciamo a garantire questi due elementi, ne va di mezzo la stessa credibilità della democrazia e, soprattutto, rischiamo di offrire un'informazione parziale, faziosa e settaria. Del resto, l'informazione e la circolazione delle idee e delle opinioni sono da sempre i cardini essenziali su cui si poggia ogni democrazia e intorno ai quali si sviluppano i diritti fondamentali sanciti dalla nostra Costituzione.
Non a caso, non si contesta agli operatori (giornalisti, artisti, opinionisti) del servizio pubblico il diritto di esprimere opinioni, ma si nega la pretesa di fare del proprio il pensiero di tutti. Occorre, invece, adoperarsi affinché sia sempre garantita la voce dei soggetti chiamati in causa, rispettando la contestualità di ogni intervento. Va aggiunto che tanto più c'è bisogno di un servizio pubblico quanto più il sistema mostri delle lacune nel suo assunto ordinamentale.
Sotto questo aspetto, credo che, quando parliamo di pluralismo, non dobbiamo essere monodirezionali, ma parlarne sia quando ci rivolgiamo ad alcuni telegiornali Pag. 97che nascondono o rallentano le notizie o, a volte, le deformano, sia quando facciamo riferimento ad alcuni talk-show, i cosiddetti talk-show di approfondimento politico e giornalistico, dove non soltanto apprendiamo che il contraddittorio è un optional e non una regola, ma, addirittura, prendiamo atto che, a volte, la propaganda di schieramento o apolitica diventa la regola.
Qui vi è un problema: vanno ripristinate le regole, sia quando sono regole aziendali, sia quando sono regole scritte - verrebbe quasi da dire scolpite - nelle varie delibere della Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi. Le regole non sono un optional, non sono un orpello di cui si può anche fare a meno, ma rappresentano l'abc del servizio pubblico radiotelevisivo. Non c'è bisogno di fare alcuna rivoluzione, basta rispettarle e praticarle, cioè osservarle. Quando le regole, invece, diventano sostanzialmente degli orpelli o dei balzelli inutili, inesorabilmente cadiamo nella faziosità e nel settarismo.
Vi è, dunque, la necessità di riscoprire il servizio pubblico, ma, soprattutto, vi è anche il problema - secondo elemento importante all'interno di queste mozioni - di arrivare al più presto ad una riforma della governance dell'azienda. Il Partito Democratico ha già presentato al riguardo delle proposte di legge - tengo a precisare a costo zero -, che avrebbero il grande merito, a nostro giudizio, di ridare autorevolezza, prestigio e, soprattutto, credibilità all'azienda. Ecco perché, sotto questo punto di vista, mi aspetto molto anche dal dibattito parlamentare; noi, come gruppo parlamentare, ci aspettiamo molto dal dibattito parlamentare, soprattutto dall'impegno che il Parlamento assumerà su questo versante.
Non possiamo fermarci, quando parliamo di pluralismo, di riforma della RAI o di rivalorizzazione del servizio pubblico, al minutaggio o a calcolare se tale esponente passa o meno nei vari pastoni radiotelevisivi; credo che, oggi, ci dobbiamo porre il problema di fondo, che è quello di verificare se esiste o meno la volontà politica di addivenire al più presto ad una riforma complessiva della governance.
Dobbiamo partire anche dal presupposto di capire il ruolo che oggi gioca la RAI. Crediamo che la RAI non debba solo educare gli italiani, ma debba anche interessarli, coinvolgerli, incuriosirli e divertirli. Questo crediamo sia il servizio pubblico.
L'offerta delle reti RAI deve tener conto non soltanto di come si legge la quantità dei dati di ascolto, ma anche di come i palinsesti possono diventare fonte di saperi e di emozioni, risorsa di identità, occasioni di crescita civile. Sono da condannare senza incertezze comportamenti volgari, diseducativi e distruttivi, che andrebbero eliminati da ogni tipo di offerta pubblica.
Il servizio pubblico oggi ha una grande opportunità: abituare i cittadini italiani alla condivisione di valori e assuefarli ad un'integrazione sociale sempre maggiore. Ciò che occorre però è una maggiore coerenza fra la pluralità quotidiana e la stessa mission dell'azienda, che deve essere in grado di ritrovare valori e competenze. Il servizio pubblico, cioè, non può essere estraneo al compito di formare una pubblica opinione che sia esigente nel reclamare i propri diritti, più rispettosa dei propri doveri e più consapevole dei valori da dover difendere.
Il problema da affrontare infine è quello di sapere se la RAI vuole riscoprire una missione per gli anni che viviamo, cioè se vuole caratterizzare il suo ruolo e, di converso, formare i suoi dirigenti in ordine alle responsabilità che attengono alla sua ragione d'essere, che è quella di contribuire alla crescita della vita democratica del nostro Paese. I dirigenti cioè hanno di fronte ai cittadini una responsabilità che va oltre la pur fondamentale formazione dei palinsesti, creazione dei programmi o stipula dei contratti, eccetera.
La TV generalista sta vivendo, come tutti sappiamo, una crisi profonda e la RAI, che si affida al modello generalista, perché è stato ed in gran parte rimane il suo core business, la sua forza e la sua missione, non può che risentire di tali Pag. 98crisi: il generalismo di per sé, poiché va incontro a tutti, ma inevitabilmente alza il tasso di superficialità e sottrae tempo all'approfondimento dei temi.
Rivedere le linee editoriali delle reti RAI diventa quindi un impegno che va interpretato come una grande opportunità per l'azienda. Sotto questo aspetto c'è anche il problema delle risorse e di come si può addivenire ad una soluzione. Anche qui vi sono proposte di legge già presentate dal nostro gruppo, ma anche da molti altri gruppi, come, ad esempio, quello di agganciare il canone RAI, che oggi paga una pesantissima evasione (oltre il 35 per cento dei cittadini italiani non paga il canone) alla bolletta elettrica o comunque alla tassazione generale.
È un problema che va affrontato, è un problema che va risolto perché più entrano introiti pubblici, più il servizio pubblico è in grado di rispondere ai suoi compiti. La sfida è quindi molto alta. È una sfida molto alta, molto ambiziosa ed è una sfida che si intreccia purtroppo con un grande macigno, che già alcuni colleghi hanno ricordato, quello del conflitto di interessi che non possiamo eludere o ridurre ad un problema che non esiste più. È il problema vero soprattutto quando parliamo di servizio pubblico. Su questo c'è un impegno preciso del gruppo parlamentare del Partito Democratico ad affrontare di petto la questione e a risolverla. Infatti, senza la rimozione di questo macigno difficilmente potremmo ritrovare un disegno chiaro nel rapporto tra la politica e l'informazione, nel rapporto tra il servizio pubblico e la democrazia.
Si tratta quindi di porre mano ad una serie di riforme: garantire il pluralismo, garantire la pluralità e la completezza dell'informazione e soprattutto porre mano ad una riforma complessiva della governance dell'azienda. Noi, votando la nostra mozione e le mozioni che rispondono a questi requisiti, ci impegniamo a centrare questi obiettivi e sono convinto che il voto parlamentare, se sarà favorevole, darà un contributo determinante a rilanciare il servizio pubblico, a risolvere il problema del conflitto di interessi e soprattutto a restituire vigore e freschezza alla nostra democrazia (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. Non essendovi altri iscritti a parlare, dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali delle mozioni.
Avverto che sono state presentate le mozioni Lo Monte ed altri n. 1-00503 e Cicchitto ed altri n. 1-00504 (vedi Allegato A-Mozioni) che, vertendo su materia analoga a quella trattata dalle mozioni all'ordine del giorno, verranno svolte congiuntamente. I relativi testi sono in distribuzione.
Avverto altresì che alla mozione Bocchino ed altri n. 1-00436 sono stati presentati gli emendamenti Beltrandi n. 1-00436/1 e Beltrandi n. 1-00436/2 e alla mozione Giulietti, Zaccaria, Tabacci, Evangelisti, Nicco ed altri n. 1-00441 è stato presentato l'emendamento Beltrandi n. 1-00441/1.
Prendo atto che il rappresentante del Governo si riserva di intervenire nel prosieguo del dibattito.
Il seguito della discussione è rinviato ad altra seduta.

Discussione delle mozioni Bersani ed altri n. 1-00471 e Borghesi ed altri n. 1-00497 concernenti iniziative in materia di riforma del sistema fiscale (ore 19,20).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione delle mozioni Bersani ed altri n. 1-00471 e Borghesi ed altri n. 1-00497 concernenti iniziative in materia di riforma del sistema fiscale (Vedi l'allegato A - Mozioni).
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi riservati alla discussione delle mozioni è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).
Avverto inoltre che sono state presentate le mozioni Cicchitto ed altri n. 1-00499, Galletti ed altri n. 1-00500, Reguzzoni ed altri n. 1-00501 e Commercio ed Pag. 99altri n. 1-00502 (Vedi l'allegato A - Mozioni) che, vertendo su materia analoga a quella trattata dalle mozioni all'ordine del giorno, verranno svolte congiuntamente. I relativi testi sono in distribuzione.

(Discussione sulle linee generali)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali delle mozioni presentate.
È iscritto a parlare l'onorevole Fluvi, che illustrerà anche la mozione Bersani ed altri n. 1-00471, di cui è cofirmatario. Ne ha facoltà.

ALBERTO FLUVI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, con questa mozione abbiamo inteso portare in Parlamento il confronto su uno dei temi più sensibili del dibattito politico ed economico, quello del fisco, e lo è ancor di più oggi, nel momento in cui il Paese si trova ad affrontare una delle crisi più pesanti della sua storia recente.
Abbiamo più volte espresso un giudizio negativo su come in questi due anni e mezzo avete gestito - o forse sarebbe meglio dire non gestito - la crisi economica. L'immobilismo del Governo è stato giustificato con la necessità di mettere in salvaguardia i conti pubblici: tutto è stato sacrificato su questo altare. Ancora oggi pesanti tagli a regioni, province, comuni, alla scuola, al trasporto pubblico locale, alla cultura - e potrei continuare - sono giustificati dalla preoccupazione di non finire come la Grecia. Io ho grande rispetto per il Paese ellenico, ma francamente immaginavo che i nostri punti di riferimento fossero altri (la Germania, la Francia, le economie più sviluppate). Soprattutto ritenevo che dopo due anni e mezzo si fosse compreso che, senza interventi per stimolare la crescita, anche la tenuta dei conti pubblici è a rischio.
I fatti purtroppo sono lì a darci ragione: il PIL è crollato e ci vorranno anni e per tornare ai livelli precedenti alla crisi, il deficit viaggia sul 5 per cento, mentre il debito pubblico si incammina verso il 118 per cento del prodotto interno lordo. Ormai non siamo più soli ad affermare che è necessario coniugare le giuste preoccupazioni per la tenuta dei conti pubblici con misure di sostegno all'economia e con interventi tesi a garantire equità.
In questo senso il fisco può giocare un ruolo importante, anche se certamente non esclusivo. Purtroppo, abbiamo perso un'occasione, signor Ministro: venerdì scorso la Camera ha approvato la legge di stabilità, ma di tutto questo non troviamo traccia. Siamo riusciti solo a recuperare, diluendolo in dieci anni, il 55 per cento per l'efficienza energetica. Mi auguro che il Senato riesca a riprendere almeno alcune delle proposte respinte dalla maggioranza alla Camera.
Signor Presidente, come sa, si è appena conclusa la conferenza di Milano sulla famiglia. Sarebbe veramente un brutto segnale se neppure una di quelle proposte venisse presa in considerazione. Del resto, non sarebbe neppure la prima volta che assistiamo al balletto di annunci e ritirate.
Già nel 2003 - era ancora Ministro dell'economia Tremonti - il Parlamento approvò una delega al Governo per la riforma del sistema fiscale, una sorta di manifesto che conteneva sia la promessa della riduzione delle aliquote (il 23 per cento fino a 100 mila euro e il 33 per cento sopra tale soglia), sia la graduale eliminazione dell'IRAP. Naturalmente, non se ne fece niente.
Oggi, il Governo prova a vendere la stessa merce, magari con un'attenzione in più: si fanno commissioni, avendo cura di scegliere i coordinatori, i tavoli tecnici e di stabilire incontri con le parti sociali, con l'unico scopo, a mio avviso, di dilatare i tempi, salvo agitare la bandiera del federalismo fiscale.
Rinviare tutto all'approvazione del federalismo fiscale rischia, però, di apparire come l'ennesimo paravento dietro al quale mascherare l'immobilismo. Rischia di essere un alibi per rinviare ogni intervento ad un futuro indefinito, salvo, poi, domandarsi, sempre a proposito di federalismo fiscale, come faranno regioni, province e comuni ad approvare i bilanci dopo la sforbiciata Pag. 100ai trasferimenti operata con la manovra finanziaria e, soprattutto, a garantire i servizi ai cittadini. Purtroppo, fra qualche settimana, ci renderemo conto di cosa tutto ciò potrà significare.
Signor Presidente, nessuno si sogna di scardinare il bilancio dello Stato, tanto meno il Partito Democratico. Avete di fronte un partito - appunto, il Partito Democratico - che, durante le esperienze di Governo, è sempre riuscito a coniugare il rigore nella gestione della finanza pubblica con misure di stimolo alla crescita e con interventi tesi a garantire l'equità. Abbiamo sempre lasciato i conti pubblici in una situazione migliore di come li abbiamo trovati.
Allo stesso modo, siamo consapevoli del dibattito in corso in Europa sulla riforma del Patto di stabilità e delle recentissime misure adottate per mettere in salvaguardia l'Irlanda. Tuttavia, colleghi, non possiamo fare finta di non vedere che i principi di equità e di progressività - due elementi cardine di ogni sistema fiscale - rischiano di venire compromessi da una pratica che penalizza, in primo luogo, il lavoro e la famiglia. Non possiamo ignorare che oltre il 70 per cento delle entrate IRPEF proviene dal lavoro dipendente e dalle pensioni, che oltre 300 miliardi di euro sfuggono all'imposizione fiscale - stiamo parlando di oltre 100 miliardi di euro di minori entrate - e che il prelievo sulle imprese supera il 50 per cento.
Se questo è vero, possiamo ragionare sulla possibilità di spostare, a parità di gettito, il carico fiscale dal lavoro alla rendita? Possiamo immaginare una sorta di Maastricht della fedeltà fiscale per portare gradualmente l'evasione italiana ai livelli europei? Già ridurla del 50 per cento significherebbe portare 50 miliardi di euro al bilancio dello Stato.
In sintesi, le nostre proposte si pongono l'obiettivo di spostare il carico fiscale da chi paga a chi non paga. Basta, quindi, con i condoni, che non solo rappresentano un'offesa per chi si comporta correttamente con il fisco, ma rappresentano anche un incentivo ad ulteriori comportamenti evasivi.
Dai redditi da lavoro alla rendita, da chi ha più a chi ha meno e, in particolare, verso le famiglie con figli, da attività inquinanti ad attività verdi, dalla dimensione nazionale a quella territoriale: non è un libro dei sogni, colleghi, non è propaganda. È un programma di legislatura sul quale vogliamo confrontarci sia in Parlamento che nel Paese.
Siamo consapevoli - lo dicevo prima - della situazione dei conti pubblici, così come delle difficoltà che l'Italia sta attraversando a causa della crisi economica.
Ecco perché il vincolo della riforma non può che essere la neutralità del gettito. In sostanza, il carico fiscale sul lavoro può essere ridotto contestualmente all'emersione di base imponibile, al potenziamento del gettito da rendite e patrimonio, alla riqualificazione della spesa pubblica.
Non ci nascondiamo dietro a un dito, signor Presidente. Siamo consapevoli che la sfida della riforma è complessa, ma si può, anzi si deve, a nostro avviso, partire subito. E la riforma deve premiare, in primo luogo, il lavoro e la famiglia, recuperare universalità e progressività, semplificare.
Abbiamo raccolto le nostre idee e le nostre proposte sotto il titolo «Fisco 20, 20, 20»: l'aliquota del 20 per cento diventa, quindi, per noi l'aliquota base. Lo diventa per una tassazione personale dove pensiamo di portare dal 23 al 20 per cento l'aliquota del primo scaglione di reddito, e assieme al necessario disboscamento della giungla delle deduzioni e delle detrazioni vigenti immaginiamo di introdurre un bonus per i figli. Il bonus per figli è il riconoscimento per i costi sostenuti dalle famiglie; è un istituto unico, fruibile dai soggetti capienti come sconto d'imposta e dagli incapienti come trasferimento a loro favore. La cifra: 3 mila euro all'anno per ogni figlio e può essere introdotto gradualmente a cominciare dalla fascia di età 0-3 anni. Riguarda tutti coloro che hanno figli minori e non solo i lavoratori dipendenti. Quindi, una misura universalistica, unifica le detrazioni fiscali e l'assegno per il nucleo familiare. Pag. 101
Noi abbiamo seguito con attenzione, come credo tutti, la Conferenza sulla famiglia e le proposte del Forum. Per questo siamo interessati ad un confronto reale di merito sugli interventi a sostegno della famiglia. Noi proponiamo il bonus con le caratteristiche che ho appena illustrato. Una proposta aperta, e siamo disponibili a confrontarci con altri punti di vista, a cominciare dal fattore famiglia.
Per quanto riguarda le imprese, inoltre, sappiamo tutti che l'attuale sistema di tassazione presenta una serie di difficoltà alla crescita delle imprese. L'attuale tassazione disincentiva, per esempio, l'utilizzo del capitale proprio rispetto al capitale di debito, così come il capitale investito è tassato in maniera diversa a seconda della forma giuridica dell'impresa. Per superare questi problemi proponiamo di considerare in maniera diversa il reddito corrispondente alla remunerazione ordinaria del capitale dal reddito eccedente tale remunerazione. E al di là della forma giuridica dell'azienda, pensiamo che il reddito ordinario reinvestito nella propria attività non debba essere tassato; quando, invece, questo viene prelevato e distribuito, pensiamo debba essere equiparato al reddito da capitale e quindi tassato al 20 per cento; il reddito eccedente la parte ordinaria deve essere, a nostro avviso, infine, assoggettato o all'aliquota IRPEF o all'aliquota IRES.
In tale contesto, proponiamo di allineare al 20 per cento la tassazione dei redditi da capitale, con esclusione dei titoli di Stato. È un chiaro tentativo, a nostro avviso, di rafforzare la struttura patrimoniale dell'impresa e di rendere neutro, dal punto di vista fiscale, l'utilizzo del capitale proprio o del capitale di debito. L'innalzamento al 20 per cento dell'aliquota sui redditi da capitale e sulle rendite finanziarie, con esclusione dei titoli di Stato, corrisponde all'abbassamento dal 27 al 20 per cento dell'imposizione sui depositi. In questo modo non solo ci allineiamo agli altri Paesi europei, ma diamo un segno chiaro, inequivocabile, in direzione del lavoro. La priorità deve essere il lavoro. In questo senso la fiscalità rappresenta anche una delle leve decisive per sviluppare la green economy ed orientare l'economia verso la sostenibilità energetica.
Grazie soprattutto ai governi di centrosinistra si sono fatti passi in avanti in tema di fiscalità ambientale. In questi due anni, purtroppo, avete fatto marcia indietro, avete svuotato il credito di imposta per la ricerca e lo sviluppo, avete diluito le detrazioni del 50 per cento per l'efficienza energetica, avete definanziato il programma Industria 2015, dedicato al risparmio energetico, alle fonti rinnovabili ed alla mobilità sostenibile. Vogliamo riprendere con convinzione quel cammino.
Signor Presidente, non è mia intenzione entrare nel dettaglio di tutte le nostre proposte. Per questo, rinvio alla lettura del testo della nostra mozione. Quello che mi preme sottolineare in questa sede è che i capisaldi del nostro progetto di riforma sono il sostegno al reddito, la famiglia, il lavoro. Con uno slogan, potremmo dire: occorre alleggerire il lavoro da un carico fiscale eccessivo; oppure: occorre spostare il carico fiscale dal lavoro alla rendita. Siamo interessati anche a spostare dalla dimensione nazionale a quella locale il sistema della tassazione.
Non vediamo, però, una eguale convinzione da parte della maggioranza, soprattutto da parte di chi - la Lega Nord - dovrebbe, in qualche modo, sponsorizzare questo trasferimento. Si ha l'impressione che si sia scelta la strada delle chiacchiere, anziché quella del confronto, quella degli annunci, anziché quella della ricerca faticosa e della costruzione di una vera autonomia impositiva degli enti territoriali.
Sapete come me che la legge n. 42 del 2009 prevede ventidue decreti legislativi. Ne avete approvati due e mezzo, diciamo così. La delega scade a maggio. Fate voi due conti. Non solo: la Carta delle autonomie - ossia, quello strumento che dovrebbe individuare le funzioni di ciascun ente territoriale - è ferma al Senato. Dei tagli ai trasferimenti a regioni ed enti locali ho già parlato.
Capisco che oggi la vostra unica preoccupazione sia quella di approvare qualunque atto, ad ogni costo, e di farlo in fretta Pag. 102perché la legislatura è in bilico. Avete bisogno del vessillo del federalismo, perché non sapete come giustificare ai vostri elettori il sostegno a questo Governo.
Noi abbiamo creduto e continuiamo a credere nel federalismo fiscale, un federalismo che significa in primo luogo maggiore responsabilità di ogni centro di spesa, un federalismo solidale che si preoccupa di perseguire l'obiettivo di garantire gli stessi servizi a tutti i cittadini di questo Paese. Ma non ne possiamo più degli slogan, delle parole vuote, di chi è solo preoccupato di passare all'incasso alla prossima scadenza elettorale.
Abbiamo le nostre idee sul fisco municipale, provinciale e regionale, ma per favore non fate come avete fatto sul decreto legislativo sui fabbisogni standard di comuni e province. È un provvedimento falso, pieno di contraddizioni, superficiale, che non collega i fabbisogni standard ai livelli essenziali delle prestazioni, che si dimentica delle garanzie finanziarie per far partire effettivamente il processo e per governarlo nel tempo.
Signor Presidente - e concludo - la riforma fiscale per noi assume una valenza particolare, tanto più in momenti di crisi come l'attuale, dove i temi del fisco e dell'equità - e sottolineo, l'equità - dovrebbero essere l'assillo costante del legislatore. Il rischio che vedo è che la crisi, nata sui mercati finanziari e negli eccessi della finanza, si traduca in un forte ridimensionamento dei sistemi di protezione sociale e si scarichi, quindi, sui bilanci familiari. Noi non siamo d'accordo.
Dalla crisi si può uscire in molti modi, cari colleghi: con una società più divisa e diseguale oppure con una comunità più unita e coesa. Il sistema fiscale può fare molto, certo non può fare tutto, ma può fare molto per spostare il piatto della bilancia in questa seconda direzione.
È una sfida per noi, una sfida che vogliamo lanciare in Parlamento e al Paese, è una sfida che vogliamo vincere, è una sfida, e concludo, prima di tutto culturale, prima ancora che politica (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Di Stanislao, che illustrerà anche la mozione Borghesi ed altri n. 1-00497, di cui è cofirmatario. Ne ha facoltà.

AUGUSTO DI STANISLAO. Signor Presidente, vorrei significare che il gruppo Italia dei Valori ha posto il tema del fisco perché si è reso conto amaramente, insieme peraltro alla gran parte degli italiani, che questa problematica non riesce a trovare risposta nell'ambito delle iniziative fiscali, compresa l'ultima manovra, il recente disegno di legge di stabilità, messe in atto dal Governo. La mozione, oltre a porre una questione stringente e strutturale, indica al Governo e alla sua maggioranza il percorso da seguire e le scelte da compiere; il come lo vedremo più avanti.
Intanto, alcune premesse servono anche a ristabilire il contesto entro cui si pone questa nostra proposta e soprattutto questa riflessione che va a scavare dentro la volontà di questo Governo e di alcune forze che si caratterizzano per la lotta per il federalismo fiscale e per la proposta e l'affermazione di questo. Lotta che non è solo una battaglia di bandiera, ma che credo appartenga, come patrimonio, ormai a tutta la nazione e soprattutto a tutti gli oltre 8.106 comuni italiani. Ad oggi la pressione fiscale è pari al 42,8 per cento del PIL, nel 2000 le entrate complessive dello Stato rappresentavano il 45,4 per cento del PIL, mentre nel 2009 questa percentuale è risalita al 47,2 per cento. L'incremento delle entrate dello Stato però non è stato determinato da un incremento omogeneo delle diverse fonti di gettito; infatti, le imposte dirette sono cresciute nel periodo del 33 per cento e le imposte indirette sono diminuite del 2,3 per cento, con una riduzione più accentuata nel 2008 e nel 2009. I contributi sociali sono cresciuti addirittura oltre il 46 per cento. In altre parole, è aumentata di molto la pressione fiscale sul fattore lavoro ed in particolare su quello dipendente, contribuendo alla riduzione della competitività del nostro sistema produttivo.
Ancora, il calo delle imposte indirette può essere attribuito solo in minima parte Pag. 103alla crisi, mentre è da collegare all'espandersi delle attività in nero e ai meccanismi elusivi come quelli, per quanto concerne l'IVA, delle società «carosello», delle società «cartiere» create al solo scopo di emettere fatture false. Sebbene si preveda una sostanziale stabilità delle entrate, in realtà le stesse vanno peggio di quanto si potesse prevedere a giugno. Tale peggioramento ha vanificato un quarto della correzione effettuata con la manovra che, ricordo a me e agli altri in questo Parlamento, non solo agli italiani, valeva e vale lo 0,8 per cento del PIL in un anno, in quanto, nei primi sei mesi dell'anno, le entrate tributarie sono calate - purtroppo - del 3,5 per cento. Tale riduzione di circa tre miliardi di entrate appare molto preoccupante, soprattutto ove si consideri che la manovra adottata dal Governo in primavera contava sulla possibilità di recuperare più di 8 miliardi di evasione fiscale da qui al 2012.
La crescita del nostro Paese viene inoltre frenata dal fenomeno del sommerso, che rappresenta oltre il 20 per cento del prodotto interno lordo. Tale dato porta l'ammontare dell'evasione fiscale su valori molto superiori ai 125 miliardi di euro stimati dal centro studi di Confindustria lo scorso giugno. Anche la stima della pressione fiscale effettiva è rivista al rialzo ad un livello ben superiore al 54 per cento del 2009. Nella situazione presente i costi dell'evasione fiscale e della corruzione divengono ancora più insopportabili. In particolare, il 30 per cento della base imponibile dell'IVA viene regolarmente evaso per oltre 30 miliardi di euro l'anno; cifra che sale vertiginosamente ad oltre 100 miliardi se si aggiunge l'evasione di altre imposte come l'IRPEF o l'IRAP. Secondo il Governatore della Banca d'Italia l'evasione fiscale è un freno alla crescita perché richiede tasse più elevate per chi le paga e riduce le risorse alle politiche sociali. Si è proceduto peraltro, in maniera scellerata, ad un sistematico smantellamento, presentato come semplificazione, di un insieme di strumenti, in parte non ancora operativi, introdotti nelle legislature precedenti, come nel Governo Prodi, che potevano permettere all'amministrazione finanziaria di ottenere, per via telematica, informazioni utili ai fini del contrasto all'evasione.
Faccio alcuni esempi per far capire la portata di quel progetto, che è rimasto inoperoso: è stato soppresso l'obbligo di allegare alla dichiarazione IVA gli elenchi clienti-fornitori; sono state abolite le limitazioni nell'uso di contanti e di assegni; sono state abolite la tracciabilità dei pagamenti e la tenuta da parte dei professionisti di conti correnti dedicati; è stato soppresso l'obbligo di comunicazione preventiva per compensare crediti di imposta superiori ai 10 mila euro; è stata significativamente ridimensionata la solidarietà in materia di versamento di contributi e ritenute tra committente, appaltatore e subappaltatore; sul fronte degli studi di settore, poi, è stato previsto l'obbligo della loro pubblicazione entro il 30 settembre dell'anno a cui devono applicarsi, invece che entro il 31 marzo dell'anno successivo (è evidente che, in questo modo, il contribuente è sempre in grado di conoscere in corso d'opera quali sono le aspettative del fisco nei suoi confronti e, quindi, di adeguarvisi); alle imprese dei distretti industriali viene consentita la possibilità di effettuare un concordato preventivo triennale - ossia, di concordare, in anticipo, per tre anni, le imposte dovute - anche per i tributi locali, specificando che in caso di osservanza del concordato i controlli sono eseguiti unicamente a scopo di monitoraggio e, da ultimo, sono state dimezzate le sanzioni.
Da anni non viene restituito, per esempio, neanche parzialmente il drenaggio fiscale. Il mancato recupero del fiscal drag ha pesato, secondo Banca d'Italia, per due terzi sulla perdita del potere d'acquisto degli ultimi 5 anni.
Inoltre, fra il 2000 e il 2010 i lavoratori italiani hanno perso 5.453 euro in termini di potere d'acquisto, in parte a causa di un livello di inflazione più alto di quanto previsto e conteggiato in sede di rinnovo dei contratti di lavoro ed in parte in ragione della mancata restituzione del fiscal drag, che ha comportato per ogni lavoratore Pag. 104un prelievo aggiuntivo medio di 2mila euro, dovuto al progressivo aumento delle aliquote sui redditi per effetto dell'aumento del costo della vita.
In totale, nei dieci anni presi a riferimento, la perdita del potere di acquisto sulla somma di tutte le retribuzioni ha raggiunto la quota di 44 miliardi di euro, che sono stati sottratti alle famiglie, diminuendo la domanda interna, riducendo i consumi e alimentando la crisi.
Non è un caso se il nostro Paese, a causa della politica fiscale e della precarizzazione crescente delle tipologie contrattuali presenti nel mondo del lavoro, ha un livello di disuguaglianza dei redditi fra i più elevati tra i Paesi sviluppati, un livello di povertà ben superiore alla media dei Paesi OCSE ed è uno dei Paesi in cui la disuguaglianza è cresciuta maggiormente negli ultimi venti anni.
Ancora, la distanza dell'Italia dai parametri di Lisbona sul tasso di occupazione femminile è preoccupante: non riusciremo a raggiungere entro la fine del 2010 l'obiettivo dell'occupazione femminile al 60 per cento, essendo fermi al 46 per cento (i nostri dati sono inferiori rispetto a quello medio dell'Unione europea di circa dodici punti).
Il Governo, peraltro, aveva promesso che i risparmi derivanti dall'aumento dell'età pensionabile femminile nel pubblico impiego sarebbero stati utilizzati per l'incremento di risorse in favore delle donne medesime, delle politiche di conciliazione tra tempo di lavoro e di cura, delle politiche sociali collegate ai servizi alle famiglie; invece, il fondo strategico per il Paese a sostegno dell'economia reale, nel quale questi risparmi sono confluiti, viene utilizzato per finalità che non hanno nulla a che vedere con le finalità originarie, come dimostrano le misure contenute nel disegno di legge di stabilità, che pochi giorni fa abbiamo approvato in questo ramo del Parlamento.
Inoltre, per la ricerca e l'innovazione, la Commissione europea, nell'ambito del programma nazionale di riforma, nel contesto della strategia «Europa 2020», ha indicato nel 3 per cento del prodotto interno lordo il livello minimo di spesa da raggiungere nel prossimo decennio, anche attraverso l'adozione di misure fiscali.
Oggi l'Italia è ancora molto indietro e sarà difficile perseguire questo obiettivo senza prevedere misure strutturali di sostegno, quali il credito d'imposta, per rafforzare i processi di ricerca ed innovazione in tutti i settori e per tutte le tipologie di impresa.
Tutti i Paesi industrializzati stanno sostenendo con misure rilevanti sia la ricerca e l'innovazione tecnologica che l'economia verde, quali fondamentali veicoli di crescita e di opportunità per lo sviluppo di nuove imprese e la conseguente creazione di nuova occupazione.
La politica fiscale del Governo, in questo caso, oltre a produrre un incremento della pressione fiscale ed una generale e continua tensione nella gestione dei conti pubblici, produce, dunque, anche una marcata sperequazione sociale. Di fronte a questa incontestabile situazione, appare prioritaria la necessità di predisporre urgentemente un riequilibrio del carico tributario, per ridurre la pressione fiscale sui redditi da lavoro, sulle pensioni e sugli investimenti delle piccole e medie imprese, misure che sono, invece, totalmente assenti nel decreto-legge n. 78 del 2010 e nel disegno di legge di stabilità.
Proprio in ragione non di queste argomentazioni, ma di questi fatti che hanno trovato capienza nella legge di stabilità, nel senso che non sono previsti, l'Italia dei valori con questa mozione intende impegnare il Governo a fare finalmente qualcosa di concreto. Quali sono queste cose? Prendere, ad esempio, le opportune iniziative fiscali a favore delle famiglie, tra le quali la riduzione progressiva al 20 per cento della prima aliquota dell'IRE; l'aumento delle detrazioni per carichi familiari, prevedendo un'imposta positiva per i contribuenti fiscalmente incapienti; la detrazione delle spese per i servizi di assistenza e cura per i figli minori o in caso di persone non autosufficienti.
La mozione impegna, inoltre, il Governo a prevedere l'alleggerimento del carico IRE sui redditi bassi e medi da lavoro e Pag. 105da pensione, operando sul meccanismo delle detrazioni per la produzione di reddito; l'adozione di disposizioni fiscali per sostenere il lavoro delle donne, detassando parzialmente il reddito da lavoro dipendente delle stesse, dando incentivi diretti alle aziende che assumono donne, favorendo l'accesso al credito delle imprese femminili operanti nel Mezzogiorno e rifinanziando il fondo per il sostegno all'imprenditoria femminile in tutti i settori produttivi. Impegna il Governo a sostenere fiscalmente lo sviluppo, la riconversione ecologica dell'economia e, in particolare le piccole e medie imprese, con le seguenti misure: la riduzione graduale, per le piccole e medie imprese, del peso del costo del lavoro nel calcolo dell'imponibile IRAP; la previsione del pagamento dell'IVA al momento in cui si incassa effettivamente il corrispettivo della cessione di beni o di servizi e non in anticipo; agevolazioni fiscali per favorire la capitalizzazione delle piccole e medie imprese, nonché la defiscalizzazione parziale degli utili reinvestiti da parte delle stesse piccole e medie imprese.
Inoltre, si chiede l'estensione della contabilità semplificata e agevolata; la riduzione progressiva al 20 per cento dell'aliquota dell'IRES; il ripristino del credito d'imposta per gli investimenti e per le assunzioni di lavoratori a tempo indeterminato nelle aree sottoutilizzate; il rifinanziamento delle disposizioni in materia di credito d'imposta per gli investimenti in ricerca e sviluppo, con particolare riguardo alle imprese che investono nei settori dell'ambiente, delle energie rinnovabili, del risparmio energetico, dei servizi collettivi ad alto contenuto tecnologico e, inoltre, la messa a regime della detrazione del 55 per cento dell'IRE delle spese sostenute per il risparmio energetico nel settore dell'edilizia.
La mozione impegna, inoltre, il Governo a recuperare le risorse necessarie con le seguenti misure: il ripristino delle norme di contrasto all'evasione fiscale introdotte dal Governo Prodi, anche al fine di ridurre la pressione fiscale sui contribuenti fiscalmente onesti secondo il principio di «pagare tutti per pagare meno»; l'introduzione di un meccanismo di determinazione sintetica del reddito delle persone fisiche e delle società di capitali minori; il recupero, con decorrenza immediata, delle somme dovute dai contribuenti che hanno aderito ai condoni fiscali 2003-2004 e che non hanno pagato buona parte delle rate da loro dovute, secondo quanto già da tempo denunciato dalla Corte dei conti; la previsione dell'addizionale del 7,5 per cento sui capitali regolarizzati tramite lo scudo fiscale; l'incremento delle aliquote IVA per i beni di lusso; la tassazione con l'aliquota del 20 per cento delle plusvalenze finanziarie speculative, con l'esclusione dei rendimenti dei titoli di Stato; la riduzione della percentuale di deducibilità degli interessi passivi per banche ed assicurazioni; l'istituzione di un'imposta sulla pubblicità sulle emittenti televisive nazionali; l'aumento delle aliquote per la determinazione del prelievo erariale unico sugli apparecchi da intrattenimento e misure relative al mancato collegamento degli apparecchi di gioco alla rete telematica; il forte sostegno, in sede europea e internazionale, della praticabilità di un'intesa sulla tassazione delle transazioni finanziarie che permetterebbe di raccogliere fondi sufficienti sia per la lotta alla povertà e all'ingiustizia nel sud del mondo, sia per finanziare politiche sociali nei Paesi del nord.
Tutto questo per dire che la vera sfida dei prossimi anni per le economie avanzate come quella italiana non sarà quella della crescita, che pure rimane un imperativo, bensì quella della coesione sociale, che sarà messa a dura prova non solo dalla conseguenza della recessione, ma anche dalla contemporanea necessità di risanare i conti pubblici e di mettere mano finalmente ad una vera riforma fiscale, cosa che il Governo fino ad ora non ha fatto (Applausi dei deputati del gruppo Italia dei Valori).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Ventucci, che illustrerà anche la mozione Cicchitto ed altri n. 1-00499, di cui è cofirmatario. Ne ha facoltà.

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COSIMO VENTUCCI. Signor Presidente, il nostro Paese, pur attraversando un periodo di grave instabilità economica che investe l'intera economia mondiale, tuttavia nel suo complesso dimostra una apprezzabile capacità detenuta grazie soprattutto agli sforzi dei lavoratori, delle famiglie, dei comuni e degli altri enti locali.
È positiva anche la strategia di politica tributaria del Governo che è stata responsabilmente orientata dall'esigenza di assicurare la gestione dei nostri conti pubblici nel rispetto degli obblighi derivanti dal Patto di stabilità europeo e alla luce del vincolo che condiziona le scelte di finanza pubblica, costituito dall'imponente ammontare del debito pubblico accumulatosi nel passato, che ammonta a circa 1.860 miliardi di euro.
In tale contesto, con tutte le critiche alla presunta lesina del Ministro Tremonti, l'azione di contrasto all'evasione fiscale e contributiva costantemente perseguita dal Governo nel corso della legislatura ha determinato effetti positivi rilevanti, ulteriormente rafforzati dalle misure da ultimo adottate con il decreto-legge n. 78 del 2010, con interventi specifici che, fra gli altri, riguardano l'accertamento sintetico dei redditi, l'introduzione della fattura telematica, l'introduzione della tracciabilità dei movimenti in contanti, oltre a numerosi interventi di alleggerimento fiscale a favore delle fasce più esposte alla crisi in atto, inseriti nella legge di stabilità recentemente approvata dalla Camera.
A questi si aggiungono le scelte di politica economica del Governo con le quali ci si è fatti carico, sia pure nei limiti imposti dalle esigenze di stabilizzazione della finanza pubblica, della richiesta di sostenere la domanda in una fase recessiva destinando risorse significative per alcuni interventi prioritari quali l'esenzione dall'ICI, il finanziamento e l'ampliamento degli ammortizzatori sociali, la detassazione dei contratti di produttività, interventi a sostegno della domanda in particolari settori, misure a sostegno diretto in favore delle fasce più deboli della popolazione. Constatiamo dei segnali di ripresa, anche confortati dai dati della Banca d'Italia, che si sono evidenziati nella prima parte dell'anno corrente, ma che non consentono ancora di considerare superata la crisi in cui si trovano anche le economie dei Paesi avanzati, soprattutto con le notizie che arrivano dall'Irlanda e dal Portogallo.
È necessario quindi, per quanto concerne il nostro Paese, concentrare gli sforzi sui temi di sostegno allo sviluppo e alle famiglie con scelte di politica fiscale che debbono sempre più tener conto dell'elemento evolutivo rappresentato dal completamento del processo di attuazione del federalismo fiscale, il quale consentirà, da un lato, una maggiore responsabilizzazione delle regioni e degli enti locali rispetto alle proprie decisioni di allocazione delle risorse e, dall'altro, attribuirà a tali livelli di governo maggiore autonomia nella gestione degli strumenti di prelievo tributario.
Ciò è quanto previsto già nei primi decreti legislativi di attuazione delle deleghe in materia di federalismo fiscale che il Governo sta completando e nel decreto inerente la materia del federalismo municipale si prevede la riduzione del numero delle imposte dei comuni introducendo, a partire dal 2014, un'imposta municipale propria ed un'ulteriore imposta facoltativa che consentirà di convergere responsabilità amministrative e decisioni tributarie, nonché di rendere verificabili i risparmi di spesa determinati dai recuperi di efficienza realizzati dalle diverse amministrazioni.
Inoltre, nello stesso decreto legislativo in materia municipale è previsto un meccanismo di imposizione forfetaria ai fini IRPEF, con aliquota al 20 per cento, sui redditi da locazione relativi a contratti concernenti immobili adibiti ad abitazione, mentre sul decreto legislativo volto a disciplinare l'autonomia impositiva delle regioni a statuto ordinario e delle province, il Governo prevede, tra l'altro, l'attribuzione alle regioni, oltre ai tributi propri, di una compartecipazione all'IVA, di un'addizionale IRPEF, nonché la possibilità di ridurre o eliminare l'IRAP. Pag. 107
Il processo federalista è uno degli obiettivi primari del programma di questo Governo, che ovviamente deve affiancarsi ad una riforma del sistema fiscale nazionale secondo l'impegno dell'Italia già presentato alla Commissione europea nel quadro del semestre europeo, in quanto la riforma fiscale costituisce lo snodo politico fondamentale sia nel rapporto tra l'economia, i cittadini e lo Stato, sia perché oggi si sta operando con un modello fiscale adottato in un sistema economico sociale e politico del tutto diverso dall'attuale.
Infatti, stiamo scontando l'audace finanza pubblica praticata negli anni passati dal Parlamento (maggioranza con opposizione), su di un modello fiscale elaborato negli anni Sessanta e introdotto nei primi anni Settanta, quando cominciarono ad entrare nel nostro corpus iuris i primi regolamenti del mercato comune europeo, divenuto poi Unione europea con Maastricht, imponendoci riforme amministrative e fiscali per le quali l'Italia non era ancora preparata, vuoi per l'assenza di un sistema Paese, vuoi perché la nostra burocrazia era strutturata e conformata secondo l'esperienza del passato regime.
Si passò dall'imposta generale delle entrate e dall'imposta conguaglio all'IVA, eliminando anche l'imposta comunale gestita con antiquati rituali da diecimila dipendenti che furono contestualmente allocati presso l'amministrazione delle dogane e delle entrate.
Allora l'economia nazionale ebbe un'impennata grazie all'inventiva delle nostre piccole e medie imprese con la creazione dei distretti industriali nel triangolo del nordest. Purtroppo, quell'iniziativa, che fece sorgere il made in Italy, fu resa evanescente dalla politica che assecondò una spesa pubblica assistenziale di cui oggi paghiamo le conseguenze con un eccessivo debito pubblico, che deve impedire soluzioni che ci porterebbero a riproporre quel sistema di vita scaturito dalle false prospettive di allora.
Quindi, è indubbio che siamo in un'epoca che ha bisogno di mutamenti profondi così come quelli avvenuti nello scorcio del secolo XIX, fino allo scoppio della prima guerra mondiale, quando l'economia chiuse il tragico periodo del protezionismo con la nascita di nuove industrie dall'inventiva di imprenditori che, pur diventando monopolisti, si rivelarono dei veri innovatori. Oggi il grande strumento innovativo è la velocità con la quale la notizia viene trasportata in tempo reale in tutto il mondo e come la tecnologia possa mettere in grado di immagazzinare i dati ed il loro utilizzo in una interazione istantanea.
Di contro, sta emergendo un'economia soggetta a conflitti globali, non solo fra grandi gruppi, ma fra intere aree del nostro pianeta. Ciò ci spinge ad augurarci che non sia possibile il ritorno di veri e propri blocchi con tutte le conseguenze sul primario concetto della libertà individuale. Quindi, di fronte ai grandi mutamenti dei modelli economici competitivi, sociali, ambientali e istituzionali è necessario un ripensamento anche del nostro sistema fiscale secondo le direttrici già delineate nel libro bianco sulla riforma fiscale del 1994.
È auspicabile che la riforma del sistema tributario sia realizzata in una prospettiva di ampio respiro che veda più possibile la condivisione di tutte le forze politiche e di tutti i protagonisti del tessuto economico, almeno rispetto ai principali obiettivi. In tal senso, in sede governativa i lavori sono stati già avviati attraverso l'inizio di una fase di consultazione con le parti sociali e attraverso la creazione di una commissione di esperti in materia.
Il tutto comunque ruota sulla consapevolezza dell'elevato livello del debito pubblico italiano che impone una strategia di riforma tendenzialmente neutrale sul piano finanziario e punta ad adeguare il fisco ai nuovi modelli che coinvolgono la società a ridistribuire il carico tributario trasferendo una parte della tassazione diretta a quella indiretta e a tal proposito precisiamo che non debbono verificarsi gli effetti negativi per i più deboli a causa di imposte sui consumi più essenziali, come avvenne per il risanamento dei conti pubblici nel nascente Stato italiano. Pag. 108
Quindi, dopo il richiamo storico continuiamo ad indicare le strategie su come semplificare il sistema fiscale e gli adempimenti, ridurre gli effetti distorsivi della crescita terminale della tassazione, nonché responsabilizzare maggiormente tutti i soggetti che operano decisioni di spesa anche mediante il coinvolgimento delle amministrazioni locali. Occorre, inoltre, un sistema fiscale maggiormente orientato alla tutela dell'ambiente e non solo ad obiettivi di gettito, superando in particolare il paradosso per cui i combustibili a maggiore impatto ambientale sono gravati da una tassazione relativamente più favorevole.
È auspicabile, infine, che la predetta riforma fiscale diversamente da quanto avvenuto negli ultimi quindici anni risulti stabile nel medio e lungo periodo, onde evitare di esporla alle polemiche tra opposti schieramenti e al rischio di essere smantellata ad ogni cambio di maggioranza per consentire ai contribuenti, agli operatori e all'amministrazione finanziaria di assimilare le nuove regole, ma soprattutto che possa permettere agli operatori economici di definire le proprie strategie imprenditoriali in un contesto normativo stabile e prevedibile.
Il dettaglio dei diciotto impegni che con il nostro atto di indirizzo chiediamo al Governo di realizzare sono il riferimento ad una riforma fiscale che nell'attuale contingenza è possibile realizzare.
Signor Presidente, poiché l'elenco è abbastanza lungo - se lei me lo consente - chiedo che la Presidenza autorizzi la sua pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna.

PRESIDENTE. Onorevole Ventucci, la Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti.
È iscritta a parlare l'onorevole Capitanio Santolini, che illustrerà anche la mozione Galletti ed altri n. 1-00500, di cui è cofirmataria. Ne ha facoltà.

LUISA CAPITANIO SANTOLINI. Signor Presidente, signor sottosegretario, colleghi, siamo ad un capitolo importante con questa mozione, un capitolo che riguarda il fisco, i conti pubblici e il bilancio dello Stato. Da una parte, certamente, il risanamento dei conti pubblici è un dovere di questo Governo - e non solo di questo Governo - infatti, sappiamo che ci troviamo in un momento di crisi e che abbiamo dovuto affrontare momenti molto difficili. Dall'altra parte, c'è l'assoluta urgenza di rilanciare lo sviluppo di questo Paese, di adottare misure per una ripresa vera e reale, dal momento che non possiamo continuare a trovarci in una situazione di stallo e di mancato rilancio dell'economia. Quindi, siamo perfettamente consapevoli che il Governo deve trovare una composizione di queste due esigenze, che sembrano in contraddizione.
Consapevoli di questa difficoltà, tuttavia non possiamo non registrare alcune dolenti note che caratterizzano in questo momento il sistema Italia, cominciando dalla povertà: ci sono quasi 11 milioni di persone che sono a rischio di povertà - quindi quasi un quinto della popolazione - per non parlare della disoccupazione. Ricordo che dal 2008 al 2010 circa ottocentomila persone hanno perso il lavoro e, di queste, solamente 250 mila l'hanno ritrovato e sono ritornate nel sistema-lavoro; ci sono addirittura 15 milioni di persone inattive, il tasso di disoccupazione è all'11 per cento, ma la disoccupazione giovanile reale è al 30 per cento, quindi i giovani hanno pagato maggiormente la crisi che stiamo attraversando. Esiste una grossa percentuale di lavoro irregolare e - dolente nota che mi sta molto a cuore - come è noto, le politiche familiari in Italia sono assolutamente inesistenti, malgrado vi siano interi articoli della Costituzione che dovrebbero indicare una strada completamente diversa.
La spesa per le famiglie è solamente dell'1,2 per cento del PIL. Siamo il fanalino di coda in Europa rispetto alla media europea, che si attesta attorno al 2,1 per cento del PIL. Questi sono i dati noti, i dati ISTAT, ripetuti in varie sedi e occasioni. La spesa per la famiglia che riguarda il welfare è, inoltre, appena del 4,7 per cento rispetto all'8 per cento della media europea Pag. 109e ci colloca, pertanto, al ventiseiesimo posto rispetto ai 27 Paesi membri dell'Europa. Devo dire che mi sono molto stupita delle affermazioni del Ministro Sacconi alla Conferenza nazionale della famiglia, quando ha affermato che si spendono 16 miliardi di euro (erogati dall'INPS) per la non autosufficienza, 110 miliardi per il servizio sanitario nazionale, 62 miliardi per l'abolizione dell'ICI sulla prima casa e 23 miliardi (stimati nel 2010) per gli ammortizzatori sociali.
Si tratta di cose assolutamente vere, ma che non hanno nulla a che fare con le politiche per la famiglia e mi stupisce che, una persona come il Ministro Sacconi, sia caduta in un errore di questo genere, errore che - ad onor del vero - accomuna molti colleghi e ministri di tutti i Governi perché si tende a confondere azioni doverose di sostegno ai cittadini, ai lavoratori, agli anziani e ai disabili con le politiche familiari, che sono tutta un'altra cosa.
Le politiche familiari dovrebbero distinguere tra chi ha carichi familiari e chi non ne ha, tra chi ha doveri di cura e di assistenza e chi non ne ha.
Quindi, le politiche familiari dovrebbero essere distintive e proporzionali, perché se non si adoperano questi criteri tutto diventa politiche familiari; andando avanti di questo passo anche sistemare un marciapiede diventa una politica familiare perché è chiaro che su quel marciapiede ci passano anche le mamme con la carrozzina, ma non possiamo far passare l'idea che le politiche familiari sono quelle di questo tipo.
In compenso, abbiamo il record europeo per la spesa pensionistica, il 69,9 per cento della spesa del welfare va alle pensioni, ed è un primato europeo noto, ma che ci deve fare riflettere.
Va fatto inoltre solamente un accenno, visto che ne parliamo sempre, al problema demografico: la scarsa natalità di questo Paese per cui si mettono al mondo 1,2-1,3 figli per donna, contro una media europea molto più alta.
Vale la pena anche fare un breve accenno al fatto che il disegno di legge di stabilità che abbiamo approvato la settimana scorsa alla Camera e che è in discussione al Senato ha dimenticato completamente le famiglie italiane; credo di poter dire che non c'è neanche la parola famiglia in questo disegno di legge.
Come riconosciuto anche dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali Sacconi e dal Ministro dell'economia e delle finanze Tremonti, le famiglie sono state tra i principali protagonisti e artefici stante il fatto che, se abbiamo sopportato una crisi così drammatica senza eccessivi scontri sociali e senza drammi come è avvenuto altrove, è proprio dovuto al risparmio delle famiglie ed alla loro capacità di finanziare il debito pubblico e di sostenere un Paese che invece offre a queste famiglie dei servizi assolutamente non all'altezza dei bisogni e delle necessità.
Sappiamo che il sistema fiscale giustamente, in base anche al dettato costituzionale, si basa su una progressività delle imposte in base al reddito e si basa anche su una tassazione individuale ma si dimentica anche troppo facilmente l'articolo 53 della Costituzione che, com'è noto, sostiene che ognuno deve contribuire alle tasse in base alla propria capacità contributiva. È diventato quasi noioso continuare a ripetere che la capacità contributiva di un padre con tre figli, a parità di reddito, non può essere la stessa di un padre che figli non ne ha.
Sembrano cose assolutamente elementari, noi le sosteniamo ormai da svariati anni, ma sembra che tutti i Governi che si succedono siano assolutamente sordi ad alcuni articoli della Costituzione ed a questo in particolare.
Le detrazioni per i familiari a carico sono assolutamente una briciola rispetto a quello che avrebbero dovuto essere negli anni, non solo negli ultimi anni ma nel corso di lunghi anni, poiché le trattenute che sono state fatte e che sarebbero dovute andare agli assegni familiari e quindi che l'INPS aveva in cassa per gli assegni familiari, sono state letteralmente saccheggiate perché quei soldi sono stati girati in buona parte su altri capitoli di bilancio. Pag. 110
È noto quindi il fatto che le famiglie sono state private di risorse che erano un loro diritto perché venivano trattenute delle imposte proprio per questo scopo, ma non andavano a buon fine.
Credo che, sull'equità verticale, vi sia una sostanziale condivisione, doverosa e giusta, da parte di tutti, mentre sull'equità orizzontale siamo praticamente all'anno zero. Vorremmo che finalmente si cominciasse ad avviare una sorta di patto sociale per le famiglie, per il ruolo che hanno, non considerandole semplicemente come una somma di individui che lavorano e producono reddito, ma come autentici soggetti economici. Ricordo che le maggiori decisioni di risparmio, di investimento e di consumo avvengono all'interno delle famiglie e che sono le famiglie la vera spina dorsale di questo Paese. Bisognerebbe cambiare questo sistema di tassazione e cominciare a vedere la famiglia come un'autentica risorsa.
È stata citata la Conferenza nazionale della famiglia, di cui abbiamo nel complesso condiviso i contenuti, a parte - lo ripeto - questo scivolone del Ministro Sacconi. Ci ha trovato favorevoli al famoso piano per la famiglia che è stato varato. La nostra paura è che rimanga una sorta di elenco di buone intenzioni che non avranno mai un'attuazione concreta. In particolare, siamo favorevoli al «fattore famiglia», che è stato presentato dal forum delle associazioni familiari, che presenta la no tax area in base ai carichi familiari. Non è questa la sede e non c'è tempo per illustrare questa proposta, però è assolutamente condivisibile e devo dire che anche il Governo, da questo punto di vista, non si è mostrato contrario.
Siccome siamo in ballo con il federalismo fiscale, l'Esecutivo ha annunciato una rivisitazione del sistema fiscale, che però, come è stato detto, dovrà essere affrontato nel rispetto del confronto con il nuovo ruolo che gli enti locali andranno a rivestire, nel caso in cui ci fosse questa concretizzazione del federalismo fiscale. Ho qui davanti il Ministro Calderoli, che saluto, che si occupa in maniera specifica di questo problema ed esprimo a lui la preoccupazione che noi abbiamo di capire come il Governo intenda muoversi sul fronte di questa nuova riforma del federalismo fiscale. La nostra paura è che, se non si attua in maniera seria un federalismo solidale, si rischia di avere regioni che hanno competenze su questo fronte che agiscono in maniera completamente diversa da altre regioni. Ci saranno regioni più virtuose e meno virtuose, più ricche e meno ricche, più popolose ed altre invece con meno famiglie nel territorio. Quindi, si rischia una disparità di trattamento nell'ambito del federalismo fiscale. Questa è una preoccupazione che ci sentiamo di esprimere e vorremmo essere tranquillizzati da questo punto di vista.
L'intenzione strategica del Governo sembra essere quella di spostare l'asse del prelievo, come è stato detto, dalle persone alle cose, quindi, ipotizzando - immagino - un aumento percentuale di imposte indirette come l'IVA. Questa è una domanda che pongo. L'intenzione dovrebbe essere anche quella di spostare il prelievo dai carichi fiscali per i lavoratori dipendenti alle rendite finanziarie speculative. Questa sarebbe una buona proposta. Poiché noi abbiamo questa attenzione e ci preme capire come si muove il Governo, la disparità evidente dell'Italia rispetto agli altri Paesi sul piano del carico fiscale sul lavoro - noi abbiamo un carico fiscale sul lavoro maggiore della media europea - potrebbe essere un altro argomento da mettere sul tavolo che il Governo ha aperto sulla riforma fiscale.
Noi rimaniamo dell'idea che le risorse che dovrebbero essere reperite per avviare una riforma fiscale degna di questo nome a favore delle famiglie potrebbero esser trovate, intervenendo sulle rendite finanziarie e speculative, e in parte sulle imposte indirette. È stato già detto anche da altri colleghi: le rendite finanziarie e speculative, che sono tassate al 12 per cento, dovrebbero arrivare ad una media europea, semplicemente a quello che viene fatto negli altri Paesi europei, quindi dovrebbero essere portate al 20 per cento. Tra l'altro, il nostro Paese incassa il 3 per cento in più della media europea rispetto Pag. 111al PIL da IRPEF e IRES, e il 3 per cento in meno dall'IVA. Anche su questo si potrebbe ragionare e si potrebbe lavorare. Noi con questa mozione intendiamo chiedere al Governo di adeguare il sistema di tassazione al sistema europeo per la tassazione sulle rendite da capitale relative alle operazione finanziarie, di adottare nel sistema fiscale, o perlomeno di cominciare a ragionare sul fattore famiglia, così come è stato presentato studiandone tutte le possibili applicazioni e anche la possibile gradualità, perché ricordo che nel fattore famiglia viene contemplata anche la presenza di soggetti non autosufficienti, anziani, disabili, quindi tutti quei soggetti deboli che in qualche modo gravano sulle famiglie. Noi chiediamo di spostare il carico fiscale dal lavoro alle cose attraverso la diminuzione dei carichi contributivi verso l'INPS che gravano su lavoratori dipendenti ed imprese attraverso una riduzione del cuneo fiscale.
Ne gioverebbero i lavoratori dipendenti, ne gioverebbero le imprese, e credo che si potrebbe ragionare - lo ripeto - su un aumento dell'imposta dell'IVA in modo da avvicinarla ai valori europei. Occorrerebbe infine diminuire il carico fiscale sulle imprese che investano su innovazione, ricerca e sviluppo, attraverso varie misure che noi stiamo proponendo. Non ci sembra di chiedere la luna, ci sembra di andare nella direzione delle promesse del Governo, che a suo tempo ha promesso il famoso quoziente familiare. Noi non siamo favorevoli al quoziente familiare, se arriva ovviamente va benissimo, ma riteniamo che il fattore famiglia sia più adeguato perché può essere più graduale, perché contempla situazioni diverse, e quindi noi speriamo che il Governo raccolga quanto ha seminato con la Conferenza nazionale della famiglia e ci dia notizie tranquillizzanti, dei percorsi possibili e futuri sul federalismo fiscale e su quello che avverrà quando questa grande riforma sarà messa a regime. Le famiglie - concludo - non possono più aspettare. Siamo davvero in condizioni di poter rilanciare l'economia attraverso il sostegno alle famiglie che, avendo a disposizione più risorse, potranno anche eventualmente consumare di più. Sono conti molto semplici, ma credo che un Governo abbia il dovere di rispondere a milioni di famiglie italiane che negli anni sono state veramente maltrattate.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Comaroli, che illustrerà anche la mozione Reguzzoni ed altri n. 1-00501, di cui è cofirmataria. Ne ha facoltà.

SILVANA ANDREINA COMAROLI. Signor Presidente, abbiamo affrontato una crisi globale, importante sotto l'aspetto economico, ma ora vi sono diversi segnali di miglioramento. Le previsioni relative ai principali saldi di finanza pubblica del bilancio confermano gli ottimi risultati conseguiti dal Governo nella sua azione di stabilizzazione della finanza pubblica, che ha ottenuto il pieno consenso dagli organismi dell'Unione europea. Le previsioni relative al 2011 registrano una riduzione del saldo netto da finanziare rispetto all'assestamento per il 2010, determinata da una riduzione delle spese finali e da un incremento delle entrate finali.
Nonostante il difficile quadro economico, che sta certamente incidendo in modo molto negativo sull'andamento del gettito, non si sono aumentate le tasse per continuare a fare l'azione di Governo, al contrario di quello che ha messo in atto l'Esecutivo precedente. E sono davvero ingenerosi gli interventi secondo i quali questo Governo non ha fatto nulla per risollevare il nostro Paese dalla crisi. Ritengo sia importante e necessario fare un quadro di sintesi, ma esaustivo, dell'azione del Governo in questi mesi, dall'inizio della crisi economica, che ha colpito i mercati finanziari mondiali, ad oggi.
Innanzitutto, è necessario precisare che, come è stato detto in questi mesi nei vari dibattiti sulla politica economica che si sono svolti nel Paese e in quest'Aula, l'azione del Governo si pone all'interno di un quadro macroeconomico che riteniamo fondamentale. Questo quadro ha come obiettivo prioritario la stabilizzazione triennale dei conti pubblici e del bilancio Pag. 112pubblico. Ciò non tanto perché vi è una mania nel mantenimento di questo obiettivo, ma perché il fatto di riuscire a raggiungere l'azzeramento del deficit, rispetto al PIL, con gli impegni presi in sede internazionale e in sede comunitaria, diventa un elemento fondamentale per la credibilità finanziaria del nostro Paese sui mercati internazionali.
Sicuramente, l'evolversi della situazione dei mercati finanziari, con l'inserimento di nuovi competitori nel mercato finanziario internazionale, porta al fatto di dover fare della credibilità finanziaria l'obiettivo principale. Inoltre, la percezione sia dei mercati internazionali sia dei singoli investitori che devono investire nel debito pubblico italiano, diventa un dato importante. Per questo, come dicevo, l'obiettivo prioritario è quello del contenimento dei conti e del mantenimento degli obiettivi adottati in sede internazionale e si deve fare della credibilità finanziaria internazionale, in un mercato aperto come quello dei titoli del debito pubblico, una delle priorità, se non la priorità fondamentale per poter proseguire a fare una politica economica interessante. Di fronte a questa situazione, un Governo che ha il terzo debito pubblico mondiale da gestire e che subisce pesantemente l'impatto degli interessi del debito pubblico sui conti complessivi del Paese, può fare quello che può, sulla base dei vincoli del Trattato di Maastricht.
Il Governo ha introdotto aiuti per le famiglie, il bonus famiglie, la social card e l'intervento sul prezzo dell'energia. È intervenuto dando un preciso segnale ai mercati della volontà di tutelare i risparmiatori e salvaguardare la stabilità del sistema bancario e finanziario. Ha ampliato gli strumenti a disposizione dello Stato per entrare nel capitale delle banche e garantire la possibilità di finanziamenti subordinando gli interventi alla necessità e alla volontà dei singoli istituti. Il Governo ha agito aumentando il reddito disponibile per le famiglie e, nella fase in cui i tassi di interesse stavano ancora salendo, è intervenuto fissando il tetto del 4 per cento per il tasso variabile dei contratti di mutuo, senza tralasciare la moratoria sui mutui, essenziale strumento per garantire il superamento degli effetti della perdita del lavoro e l'esenzione totale dell'imposta comunale sugli immobili per l'unità immobiliare adibita ad abitazione principale.
Ricordiamo anche tutto ciò che il Governo ha fatto in tema di ammortizzatori sociali. Per quanto riguarda le imprese, è stato fatto ciò che si poteva fare in questo momento, pur non nascondendo, da parte del mio gruppo, alcune criticità sugli studi di settore. Sono state detassate le prestazioni di lavoro straordinario, sono state introdotte l'IVA per cassa e la deduzione IRAP, ed è stata prevista la cancellazione della commissione di massimo scoperto, così come voluto dalla Lega Nord Padania. È stata concessa la rivalutazione degli immobili iscritti a bilancio a fronte del pagamento di un'imposta sostitutiva; è stata introdotta la cosiddetta Tremonti-ter, che ha consentito di riavviare gli investimenti in macchinari da parte delle imprese. In alcuni tra i settori industriali più importanti, quali quelli automobilistico, tessile ed elettrodomestici, sono stati eliminati alcuni adempimenti introdotti dal Governo Prodi, come l'elenco clienti e fornitori.
Diverse riforme sono pronte ora e in fase finale di gestazione. È pronto lo sblocco dei lavori pubblici e privati, è pronto il piano per il sud, è stata istituita l'Agenzia per il nucleare, sono stati nominati il Ministro dello sviluppo economico e il presidente della CONSOB, così come sono stati indicati i componenti dell'Autorità per l'energia elettrica e il gas, mentre la riforma fiscale si sta iniziando a scrivere con il fine di ridurre la pressione fiscale per le famiglie e per le imprese.
Ed è proprio relativamente a questo progetto di riforma del sistema fiscale che noi chiediamo con la nostra mozione un impegno al Governo di portare a compimento rapidamente la riforma in senso federalista del fisco italiano. Questa riforma fiscale dovrà necessariamente tenere conto del progressivo completamento Pag. 113del processo di attuazione del federalismo fiscale, in quanto esso costituisce l'unico modo per razionalizzare e controllare in modo efficace una parte vasta della finanza pubblica italiana, dove per controllo si intende, oltre al meccanismo di stabilizzazione finanziaria, soprattutto il controllo democratico esercitato dai cittadini sui diversi livelli di Governo che sono a loro più prossimi. È l'unica riforma in grado di porre rimedio alla stortura politica ed economica della nostra finanza pubblica. Il rapporto democratico fondamentale «no tasse senza rappresentanza» che è presente, seppur in varie forme, in tutti gli altri Paesi europei, in Italia è stato chiaramente distorto, provocando la crescita esponenziale del debito pubblico; a livello locale chi rappresenta spende e non tassa; a livello centrale, all'opposto, si tassa ma non si rappresenta per l'intero e non si spende per l'intero, essendo il Governo centrale in questo ruolo in vasta parte asimmetricamente sostituito dai Governi regionali e locali.
Il graduale passaggio dal criterio della spesa storica a quello del fabbisogno standard è tra i principi fondamentali della delega, il più importante. Attraverso una metodologia basata sui forti elementi di accompagnamento e condivisione, debitamente strutturata e mirata riguardo all'ambito dei fabbisogni standard si riuscirà là dove nel passato hanno ripetutamente fallito le formule calate dall'alto. Il decreto in materia di autonomia di entrata delle regioni traccia un quadro in positivo più chiaro e più semplice, con la rimodulazione dell'addizionale regionale dall'IRPEF, che andrà a garantire al complesso delle regioni entrate corrispondenti ai trasferimenti statali e alla quota derivante dalla compartecipazione all'accisa sulla benzina e darà la possibilità alle regioni di introdurre diverse detrazioni o deduzioni per meglio caratterizzare le singole politiche fiscali. Potranno ridurre l'IRAP e godranno di una maggiore compartecipazione all'IVA.
Anche il decreto relativo all'autonomia impositiva dei comuni, nel quale si prevede la devoluzione ai comuni del gettito delle imposte sugli immobili ubicati nei loro territori, è importantissimo, in quanto saranno trasferite l'imposta di registro e di bollo, quella ipotecaria e catastale, l'IRPEF in relazione ai redditi fondiari (escluso il reddito agrario), l'imposta di registro e di bollo sui contratti di locazione degli immobili, i tributi speciali e catastali, tasse ipotecarie e la cedolare secca sugli affitti ordinari con un'aliquota pari al 20 per cento. La cedolare sostituirà l'IRPEF sugli affitti, l'imposta di registro e di bollo e consentirà l'emersione di una grossa fetta di locazioni in nero.
Dal 2014 arriverà poi l'imposta municipale che toccherà il possesso degli immobili, prima casa esclusa, e il loro trasferimento in caso di vendita, donazione o eredità. La nuova imposta municipale sostituirà le imposte applicate agli immobili e l'aliquota potrà essere ritoccata dai comuni in aumento o in diminuzione.
Quindi, il progetto complessivo di riforma del sistema fiscale, necessariamente collegato alla riforma federalista in itinere, sarà indubbiamente fondamentale per rendere concrete le prospettive di sviluppo del nostro Paese. La riforma dovrà necessariamente adeguare il fisco ai nuovi modelli economici competitivi, sociali, ambientali e istituzionali; dovrà trasferire parte della tassazione diretta a quella indiretta, semplificare il sistema fiscale e gli adempimenti e, coerentemente con l'assetto federalista, responsabilizzare maggiormente tutti i soggetti che operano decisioni di spesa, anche mediante il coinvolgimento delle amministrazioni locali.
Sempre con la nostra mozione chiediamo l'impegno del Governo a proseguire nell'azione di contrasto all'evasione e all'elusione fiscale, incentivando una sempre maggiore partecipazione dei comuni al fine di recuperare gettito e non incrementare la pressione fiscale sui contribuenti onesti.
In questo quadro di contrasto all'evasione, attenzione va posta anche nei termini di non accanirsi verso i piccoli contribuenti che fanno errori formali, ma nel senso di scovare i grandi evasori e soprattutto Pag. 114gli evasori che sono completamente ignoti al fisco, soprattutto in certe zone del nostro Paese, dove il sommerso è particolarmente di dimensioni rilevanti.
Chiediamo di proseguire nell'azione di contrasto all'evasione contributiva, al lavoro nero e alle false pensioni di invalidità: fanno rabbrividire certe notizie di evasione o false pensioni ai danni dei nostri anziani, che dopo una vita di versamenti contributivi percepiscono pensioni minime; chiediamo di avviare un processo di riforma complessiva del sistema tributario, semplificando la normativa, e di alleggerire gli oneri amministrativi gravanti sui contribuenti e sugli intermediari, riducendo il numero di imposte e tasse esistenti.
Chiediamo di favorire una sempre più stretta collaborazione tra le amministrazioni coinvolte nell'attività di rilievo fiscale mediante l'integrazione delle banche dati pubbliche: spesso dati semplici - ma non comunicati, purtroppo - potrebbero far scovare gli evasori.
Chiediamo di ridurre progressivamente la pressione fiscale, in modo particolare sulle imprese di piccole e medie dimensioni, sulle famiglie e sul lavoro dipendente, con una graduale introduzione del principio del quoziente familiare, sul quale il nostro gruppo ha già presentato una proposta di legge.
Chiediamo di distribuire in maniera migliore il carico impositivo, alleggerendo i redditi da lavoro dipendente, i redditi di impresa di natura non speculativa e i redditi da lavoro autonomo, anche attraverso il progressivo passaggio dalla tassazione sui redditi alla tassazione sui consumi e sulle rendite, mantenendo comunque immutata la tassazione sui titoli di debito pubblico.
Chiediamo di privilegiare alcuni obiettivi prioritari per lo sviluppo del nostro Paese, quali il sostegno alla famiglia, il sostegno all'imprenditoria giovanile, la promozione della ricerca e dell'innovazione, la capitalizzazione delle imprese, il miglioramento del capitale umano.
Chiediamo di rivedere la tassazione energetica al fine di incentivare minori consumi energetici e l'impiego di combustibili a minore impatto ambientale.
Chiediamo di valutare l'opportunità di apporre ulteriori correttivi alla disciplina sulla rateizzazione dei debiti tributari e contributivi.
Chiediamo anche di assumere tutte le iniziative necessarie in sede comunitaria al fine di tutelare il made in Italy e di censurare e contrastare le azioni messe in atto dai paesi extracomunitari per alterare la leale concorrenza, in modo che le nostre aziende possano concorrere con quelle dell'estremo oriente ad armi pari. È recente la notizia dei prodotti cinesi fabbricati con lo sfruttamento di persone relegate in condizioni disumane e disperate, a paga quasi zero. Sono prodotti contro cui è difficile competere in termini di prezzo, ma non certo di qualità.
Chiediamo di riformare la giustizia tributaria, riducendo i tempi del contenzioso, al fine di contribuire a migliorare il contraddittorio tra fisco e cittadini - il fisco non è il nemico - e di assicurare il giusto equilibrio tra le esigenze di tutela dei diritti dei contribuenti e gli interessi dell'erario.
Infine, chiediamo di proseguire in un'azione di politica economica che coniughi l'esigenza di garantire la sostenibilità di lungo periodo degli equilibri di bilancio con quella di sostegno alla domanda, senza tralasciare gli interventi infrastrutturali e la vigilanza sul sistema bancario, affinché venga garantito al sistema produttivo e alle famiglie l'accesso al credito, fondamentale in questa fase di crisi acuta.
Queste sono le azioni che chiediamo al Governo di considerare nella riforma fiscale che sta approntando: un fisco vicino ai cittadini, alle famiglie e alle imprese; un fisco, con il federalismo fiscale, che può fare la differenza. Pertanto, per le ragioni sopra citate, auspico vivamente che il Governo accolga la nostra mozione e che l'Assemblea la voti (Applausi dei deputati del gruppo Lega Nord Padania).

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PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Strizzolo. Ne ha facoltà.

IVANO STRIZZOLO. Signor Presidente, il gruppo parlamentare del Partito Democratico ha presentato la mozione in oggetto, che prima è stata illustrata dal collega Fluvi, perché ci si rende conto che il tema di una revisione e di una ristrutturazione dell'intero sistema fiscale e tributario del nostro Paese rappresenta una questione centrale per affrontare e risolvere una serie di problematiche.
È necessario rivedere l'attuale sistema fiscale e renderlo più vicino allo spirito dell'articolo 53 della Costituzione, in cui si prevede che ciascun cittadino debba concorrere, in base alla propria capacità, al reperimento delle risorse per far funzionare lo Stato e i servizi pubblici. Riteniamo, quindi, che oggi come non mai, vi sia la necessità di intervenire in maniera strutturale in materia fiscale.
Pertanto, con la mozione in oggetto, sosteniamo tale necessità, non solo spiegando le motivazioni che ci hanno portato a questa iniziativa, ma anche individuando proposte concrete. Vogliamo lavorare e vogliamo che questo Parlamento ed il Governo si impegnino per realizzare un livello di giustizia sociale più alto. Infatti, oggi - lo sappiamo, è stato detto in più occasioni - tanto per fare un esempio, circa l'80-85 per cento degli introiti dell'IRPEF deriva dai redditi da lavoro dipendente o dalle pensioni. Questo rappresenta un dato di iniquità sociale, perché è dimostrato che la partecipazione, ai sensi di quanto previsto dall'articolo 53 della Costituzione, non è uniforme né equa nel nostro Paese.
È importante portare avanti una revisione del sistema fiscale, anche per sostenere una nuova stagione di sviluppo e di crescita. Si è parlato, per esempio, della green economy: nei giorni scorsi e nelle scorse settimane, prima in Commissione, poi in quest'Aula, abbiamo lottato per chiedere al Governo che venisse reintrodotta la misura della detrazione fiscale del 55 per cento con riferimento agli investimenti nel settore del contenimento energetico.
Abbiamo dovuto condurre una battaglia e, per la verità, siamo stati sostenuti anche da associazioni di categoria, come quella dei consumatori: vi è stata una mobilitazione, un movimento di popolo - oserei dire -, rispetto al quale, alla fine, il Governo è stato indotto, in «zona Cesarini», a reintrodurre tale misura, seppur diluita non più in cinque anni, bensì in dieci.
Ciò per dire che, anche di fronte ad un'iniziativa che era stata portata avanti, a suo tempo, dal Governo Prodi, non vi era stata la volontà di proseguire in questa impostazione, che portava effetti benefici sotto tutti i punti di vista, non solo, perché essa faceva emergere buona parte del lavoro nero - portando, quindi, nuove risorse nelle casse dell'erario -, ma anche perché contribuiva ad innescare un processo virtuoso di crescita, di sviluppo di attività di ricerca e di sostegno alle piccole e medie attività artigianali ed industriali, e a dare anche - non ultimo per importanza - un contributo serio e concreto alla diminuzione delle emissioni di CO2 nell'atmosfera, andando incontro a quanto previsto dal Protocollo di Kyoto.
Questo Governo e questa maggioranza, dunque, avevano pensato bene di interrompere con il 31 dicembre questa misura che, sostanzialmente, si autofinanziava. Per questo, si è dovuto fare una battaglia incessante attraverso proposte emendative ed interventi al fine di modificare l'orientamento.
Ma vi è un altro punto da considerare, che noi richiamiamo nella nostra mozione.
Questo nostro Paese, il sistema Paese, può diventare maggiormente competitivo ed attrattivo anche verso gli investitori stranieri se ci dotiamo di un sistema fiscale e tributario che abbia non solo la caratteristica della trasparenza e della semplicità, ma anche quella della certezza e della stabilità nel tempo delle norme; ciò perché nessun imprenditore verrebbe dall'estero ad investire nel nostro Paese sapendo che qui si modificano vari punti del Pag. 116sistema fiscale e tributario a ogni provvedimento finanziario portato all'attenzione del Parlamento. Anche questo è un elemento che, oggi, rende debole il sistema Paese nei confronti della competitività a livello internazionale e, pertanto, anche su questo punto invitiamo il Governo ad intervenire.
È vero, Tremonti ha annunciato la costituzione di un grande tavolo per impostare una grande riforma del sistema fiscale e tributario, ma, a mio modo di vedere, come giustamente ha ricordato prima anche il collega Fluvi illustrando la nostra mozione, abbiamo l'impressione che questa iniziativa sia stata posta in campo solo per prendere tempo, anche perché - e diciamo anche questo nella nostra mozione - noi evidenziamo una discrasia. Non è che lo diciamo perché siamo all'opposizione, ma perché ci rendiamo conto che può creare grossi problemi. E mi riferisco al fatto che si va avanti a tappe forzate con il federalismo fiscale, che sarebbe, comunque, in sé una buona cosa per la modernizzazione del Paese e per rivedere il rapporto tra finanza locale e quella nazionale. Tuttavia, siccome vengono introdotti degli elementi di novità in campo, in positivo per gli enti locali, riteniamo che tutto questo non possa avvenire in assenza di un disegno strategico chiaro di livello nazionale per quanta riguarda una nuova impostazione del fisco. Perciò, anche da questo punto di vista, cerchiamo di mettere in evidenza, in termini costruttivi e propositivi, questa discrasia e vogliamo sottolinearla.
Ma c'è un altro aspetto che riguarda proprio quanto ho richiamato un attimo fa, ossia la capacità attrattiva del sistema Paese con un sistema fiscale e tributario trasparente, certo e stabile nel tempo. Abbiamo avuto in questi ultimi anni, per quanto riguarda - cito un solo esempio - l'abuso del diritto e del contrasto all'elusione fiscale, delle sentenze della Cassazione che hanno messo in difficoltà grave il rapporto tra i contribuenti e il fisco, sentenze che sono intervenute in materie che dovrebbero essere oggetto di attività e di iniziativa legislativa. Queste sentenze, che hanno avuto un percorso ondivago circa la certezza del diritto e del rapporto tra contribuente e l'erario, contribuiscono a mettere in difficoltà un rapporto chiaro anche verso le attività economiche e produttive.
È stato detto che un Paese non può reggere anche per un altro semplice motivo: non è tollerabile che si prosegua con una evasione fiscale così ampia. È stato ricordato che siamo a circa 120-130 miliardi di euro di evasione annua, non di imponibile, ma di imposta non pagata, e non credo possa esistere un Paese normale in grado di sopravvivere ad una condizione di siffatta evasione. Ed è chiaro che poi ci siamo trovati anche con il disegno di legge di stabilità, proprio in questa Aula alla fine della scorsa settimana, a litigare perché si doveva mettere qualche risorsa in più su questo o quel capitolo, sul 5 per mille, sulla SLA, su altri settori, per non parlare della scuola, dell'università e della ricerca.
È chiaro, quando hai un Governo, una maggioranza che fa una regalia colossale con il provvedimento dello scudo fiscale, oltre al fatto negativo di regalare sostanzialmente il 38 per cento di imposte a chi ha utilizzato quello strumento, pagando solamente il 5 per cento, rispetto al 43 per cento che, in media, avrebbe dovuto pagare, oltre al mancato introito, rimane il dato di fondo, e cioè che si tratta di un elemento diseducativo, di disaffezione, un esempio negativo per il contribuente, il quale dice: ma chi me lo fa fare di pagare doverosamente e correttamente le tasse, tanto poi so che ci sarà qualche provvedimento, qualche condono, qualche nuovo scudo fiscale.

PRESIDENTE. Onorevole Strizzolo, la invito a concludere.

IVANO STRIZZOLO. Signor Presidente, non so quanti minuti ho ancora a disposizione, ma credo di avere ancora qualche...

PRESIDENTE. Ha già superato di 50 secondi il tempo a sua disposizione.

Pag. 117

IVANO STRIZZOLO. Rispetto a quale tempo?

PRESIDENTE. Rispetto al tempo assegnato dal suo gruppo.

IVANO STRIZZOLO. Allora, signor Presidente, mi avvio alla conclusione...

PRESIDENTE. Rapidamente, onorevole Strizzolo.

IVANO STRIZZOLO. ...riservandomi, comunque, nelle prossime occasioni di riprendere questi aspetti. Non da ultima, vi è la questione dello statuto del contribuente - ossia della legge n. 212 del 2000, varata da un Governo, da una maggioranza di centrosinistra - che, oggi, tra l'altro, viene richiamato da un quotidiano economico, ma non in positivo: viene richiamato perché, in questi ultimi dieci anni, dal 2001 al 2010, vi sono state pesantissime interferenze e contrasti normativi rispetto ai princìpi sanciti dallo statuto del contribuente, soprattutto in termini di retroattività dei provvedimenti e, in particolare, per quanto riguarda i meccanismi degli accertamenti.
Pertanto, noi crediamo che con questa mozione possiamo dare un contributo, un apporto al Governo, affinché vada avanti in termini celeri con l'elaborazione di un progetto di riforma complessivo del sistema fiscale e tributario, rendendolo più equo e più condivisibile, anche alle forze economiche, alle imprese, alle categorie del mondo del lavoro, ma soprattutto in grado di «restituire» a quelle categorie sociali - soprattutto quelle del lavoro dipendente - le quali, in questi anni, si stanno sobbarcando in larga misura il rimpinguamento delle casse dello Stato.

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e, pertanto, dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali delle mozioni.
Avverto che è stata testé presentata la mozione Sardelli ed altri n. 1-00505, che, vertendo su materia analoga a quella trattata dalle mozioni presentate, verrà svolta congiuntamente. Il relativo testo è distribuzione (Vedi l'allegato A - Mozioni).
Prendo atto che il rappresentante del Governo si riserva di intervenire successivamente.
Il seguito della discussione è rinviato ad altra seduta.

Sull'ordine dei lavori (ore 20,50).

ROBERTO GIACHETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ROBERTO GIACHETTI. Signor Presidente, rubo solo pochi secondi, anche perché penso che queste cose vanno sempre misurate, ovviamente anche in relazione alla valenza che possono avere, non vanno sottaciute, non vanno neanche esaltate, tuttavia, a mio avviso, vanno considerate per la loro portata.
Questo pomeriggio, all'ANSA di Bari, sono arrivate minacce che la riguardano direttamente - e che riguardano anche il collega D'Alema - le quali si aggiungono a minacce che, dobbiamo dirlo, nel corso dei mesi sono arrivate a personalità politiche anche di altri gruppi e di altri partiti.
È ovvio che noi, di fronte a tali minacce - così come abbiamo fatto in passato e tanto più approfittando del fatto che lei sta presiedendo la seduta in questo momento - non possiamo che opporre la nostra contrarietà con fermezza ed esprimerle tutta la nostra solidarietà, rivolta anche al collega D'Alema.
Ovviamente, rivolgiamo un invito a tutte le istituzioni preposte a valutare la dimensione di tali minacce e l'eventuale esigenza di porre protezione rispetto ad esse, affinché ciò sia fatto nel più breve tempo possibile, sapendo - visto che lei presiede e conoscendola personalmente, signor Presidente - che non saranno certo queste minacce a limitare la sua iniziativa politica e il libero manifestare del suo pensiero (Applausi).

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PRESIDENTE. La ringrazio, onorevole Giachetti.

SIMONE BALDELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SIMONE BALDELLI. Signor Presidente, approfitto anch'io dell'occasione, in questo dibattito, della sua Presidenza per esprimere personalmente ed a nome del gruppo che in questo momento rappresento, la solidarietà personale, umana, politica, a lei, all'onorevole D'Alema e a quanti altri, in questo periodo di contrapposizione politica, difficile, anche forte, sono stati oggetto di attenzione, di messaggi, di minacce o addirittura, peggio ancora, di aggressioni fisiche (penso all'onorevole Capezzone). Invito le forze politiche, le istituzioni a una riflessione in ordine ad un clima, brutto che si sta respirando nel Paese. Mi richiamo alla saggezza proverbiale del Capo dello Stato che, anche egli, autorevolmente ha stigmatizzato quest'ultimo gesto di minacce e che ha posto evidentemente l'attenzione anche sul clima di tensione politica che rischia di trascendere. Credo che questo sia il luogo per eccellenza della democrazia, del confronto anche duro, ma quando il confronto viene meno e ad esso si sostituiscono gesti vili di minacce fisiche, o anche semplicemente verbali, scritte, l'aggressione sostituisce la democrazia, sostituisce il confronto e questo è un male rispetto al quale tutte le forze politiche, democratiche, le forze sociali devono tenere la guardia alta in un Paese che crede nella democrazia e vuole continuare a testimoniare questa democrazia nei luoghi che sono deputati alla stessa, come questo, signor Presidente. Esprimo quindi, a nome del mio gruppo, la più vicina e seria solidarietà a lei e all'onorevole D'Alema che nella giornata di oggi siete stati oggetto di questa vile minaccia (Applausi).

CAROLINA LUSSANA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAROLINA LUSSANA. Signor Presidente, mi associo ai colleghi Giachetti e Baldelli per esprimere la mia solidarietà personale e la solidarietà del gruppo Lega Nord Padania per le vigliacche intimidazioni e minacce che le sono state rivolte insieme all'onorevole D'Alema. Come è stato ricordato purtroppo non sono le sole; altri colleghi, altri esponenti politici e non solo, sono stati oggetto di un clima di intimidazione. La contrapposizione politica non deve mai alimentare un clima di odio. Faccio quindi un appello di responsabilità a tutte le forze presenti in Parlamento a confrontarsi nelle sedi opportune, ma con grande attenzione ai toni utilizzati perché purtroppo possono armare la mano di qualche violento. Quindi, piena solidarietà a lei, signor Presidente e invito tutti a combattere e a contrastare insieme la violenza (Applausi).

PRESIDENTE. Ringrazio tutti i colleghi che sono intervenuti e colgo l'occasione per ringraziare i numerosi attestati di solidarietà che sono pervenuti. Volevo rassicurare il collega Giachetti che, come giustamente ha preannunciato, non saranno queste minacce a scoraggiare l'impegno, a farlo venire meno. Anzi, dovrà intensificarsi da parte di tutti noi un impegno a contrastare e a condannare con forza ogni ricorso all'uso della violenza o alla minaccia dell'uso della violenza (Applausi).

Discussione della mozione Di Pietro ed altri n. 1-00475 concernente revoca di deleghe al Ministro per la semplificazione normativa, senatore Roberto Calderoli (ore 20,55).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della mozione Di Pietro ed altri n. 1-00475, concernente revoca di deleghe al Ministro per la semplificazione normativa, senatore Roberto Calderoli (Vedi l'allegato A - Mozioni).
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi riservati alla discussione Pag. 119della mozione è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).

(Discussione sulle linee generali)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali della mozione.
È iscritto a parlare l'onorevole Evangelisti, che illustrerà anche la mozione Di Pietro n. 1-00475, di cui è cofirmatario.
Ne ha facoltà.

FABIO EVANGELISTI. Signora Presidente, non era certo per farle mancare la solidarietà del gruppo dell'Italia dei Valori che poc'anzi ho rinunciato a prendere la parola, mi ripromettevo di farlo appunto in questo momento sapendo di dover illustrare la mozione che porta la mia firma e quella dell'onorevole Di Pietro. C'è anche un altro motivo, e lei mi perdonerà, signora Presidente se non ho preso la parola, perché avrei dovuto in qualche modo e magari mancando anche di garbo nei confronti di qualche collega, replicare. A lei e all'onorevole D'Alema va tutta la nostra solidarietà; a lei e a chiunque sia oggetto di violenza o anche soltanto di intenzioni violente o malevoli, a cominciare dal Presidente del Consiglio, Berlusconi che il 14 dicembre dell'anno scorso è stato raggiunto da una statuetta. Non dimenticherò mai quella scena. Però immaginare che possano essere le espressioni libere, le voci, il dissenso, le parole, a volte anche alte, a volte esagitate, usate da esponenti politici anche in questa Aula a provocare la violenza, francamente ce ne corre.
Non siamo noi - intendo i parlamentari, coloro che si esprimono in quest'Aula - ad armare le mani e, soprattutto, ad agitare la mente - non so se sempre malsane - di chi manda certi messaggi che hanno un vago sapore terroristico.
Signor Presidente, davvero lei ha tutta la nostra solidarietà, e sa quanto la apprezziamo; mi verrebbe quasi da dire: devono stare attenti loro, rispetto alla fermezza e al modo con cui il Presidente Rosy Bindi sa sempre essere dalla parte della democrazia, di cui è alfiere e difensore attenta.
Vengo al punto, e saluto lei e i pochi nostri onorevoli colleghi che hanno voluto attendere l'illustrazione di questa mozione. Come lei sa, e come sanno i nostri colleghi, questa mozione nasce a seguito delle polemiche e delle contro-verità che sono emerse in seguito ad una interrogazione posta dal gruppo dell'Italia dei Valori, mercoledì 13 ottobre, durante un question time, quando abbiamo interrogato il Ministro per la semplificazione normativa, Roberto Calderoli, per sapere come mai il Governo avesse deciso di abrogare una legge per la quale diversi esponenti leghisti erano sottoposti a giudizio con l'accusa di aver organizzato un'associazione di carattere militare con scopi politici, e se fosse consapevole di questo gesto, o meglio atto.
Il decreto legislativo abrogato di cui si parla nell'interrogazione è il n. 43 del 1948, ovvero quella legge che punisce - forse è il caso di dire puniva - chiunque «promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni di carattere militare, le quali perseguono, anche indirettamente, scopi politici, costituite mediante l'inquadramento degli associati in corpi, reparti o nuclei, con disciplina ed ordinamento gerarchico interno analoghi a quelli militari, con l'eventuale adozione di gradi o di uniformi, e con organizzazione atta anche all'impiego collettivo in azioni di violenza o di minaccia», toh!, anche quelli che mandano lettere minatorie.
La punizione di cui al citato decreto legislativo del 1948 deriva direttamente dall'articolo 18 della Costituzione, che vieta espressamente le associazioni che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare e protegge valori fondamentali come la democrazia, l'integrità dello Stato, l'unità nazionale, la sicurezza dello Stato e dei suoi cittadini e dei suoi autorevoli esponenti e l'ordine pubblico. Io so, e lo sa anche lei, signora Presidente, Pag. 120che queste parole suonano arabo alle orecchie di certi nostri colleghi; tuttavia, proviamoci.
L'abrogazione di cui stiamo parlando è contenuta nel decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, all'articolo 2268, n. 297 dell'elenco, recante il codice dell'ordinamento militare. Le disposizioni che riguardano l'ordinamento militare sono state rivisitate alla luce della delega contenuta nella legge 28 novembre 2005, n. 246, sulla semplificazione e il riassetto della legislazione, conosciuta da tutti come taglia-leggi.
Il riferimento alla legge delega sulla semplificazione normativa è contenuto nel preambolo di quel decreto del 2010, dove è richiamato in particolare l'articolo 14, il quale, da un lato, esclude esplicitamente dalla delega data al Governo quelle disposizioni la cui abrogazione comporterebbe lesione dei diritti costituzionali e, dall'altro, stabilisce che con decreti legislativi il Governo deve individuare le disposizioni legislative, pubblicate anteriormente al 1o gennaio 1970, delle quali si ritiene «indispensabile» - espressione testualmente contenuta tra i principi e criteri direttivi della delega - la permanenza in vigore, secondo i principi e criteri direttivi fissati nel comma 14 dello stesso articolo 14.
È dunque sulla base della delega citata che il 1o dicembre 2009, il Governo ha approvato un decreto legislativo, il n. 179 del 2009, il cui schema è stato approvato dal Consiglio dei ministri il 12 giugno 2009, recante appunto l'elenco delle leggi anteriori al 1970, la cui permanenza in vigore è ritenuta indispensabile.
Tra queste leggi vi era anche il decreto legislativo n. 43 del 1948, oggetto della questione di questa nostra mozione, che vuole il ritiro delle deleghe attribuite al Ministro Calderoli.
Come è noto, il decreto legislativo n. 43 del 1948 si ritrova successivamente nell'elenco delle leggi abrogate dal codice dell'ordinamento militare, il cui schema è stato approvato dal Consiglio dei ministri il 15 dicembre dell'anno scorso e pertanto, in soli sei mesi, quel decreto legislativo è passato dall'essere una legge «indispensabile» per l'ordinamento italiano, ad essere invece abrogato, nonostante non sia stata data nessuna delega al Governo per la sua abrogazione, e per di più in un atto, il codice dell'ordinamento militare, con il quale nulla aveva da condividere dal punto di vista sistematico e logico-giuridico.
Infatti, scorrendo la relazione generale al codice dell'ordinamento militare, che accompagna lo schema di decreto legislativo inviato alle Camere per il parere, è del tutto evidente, ove mai ci fossero stati dubbi, l'incongruità della presenza del decreto legislativo n. 43 del 1948 rispetto alla materia che veniva riordinata.
Tra l'altro il Parlamento, lo ripeto, non aveva delegato il Governo ad abrogare il decreto legislativo citato per espressi riferimenti legislativi, in quanto avrebbe violato diritti costituzionali perché era inserito nell'elenco delle leggi la cui permanenza in vigore, lo ripeto, era ed è ritenuta indispensabile.
È curioso come in uno stesso giorno, il 2 ottobre 2010, due quotidiani di orientamento politico sensibilmente diverso come il Fatto Quotidiano e de la Padania recassero la notizia dell'inserimento del decreto legislativo n. 43 del 1948 nell'elenco delle leggi abrogate dal codice dell'ordinamento militare.
Cito in proposito la mozione, laddove si sostiene che rischia di apparire non casuale che sia stato proprio uno degli avvocati che difende gli imputati della guardia nazionale padana la prima persona ad accorgersi dell'abrogazione di questo reato (ma guarda caso), ritrovandolo nascosto in un elenco di migliaia di leggi (il solo elenco recato dall'articolo 2268 del codice dell'ordinamento, lo ricordo, contiene 1085 norme primarie abrogate), prima ancora, dunque, che se ne accorgessero i ministeri coinvolti nella redazione dei decreti, la commissione scientifica che non ha inserito il reato nell'elenco, il Parlamento chiamato a dare il parere e la stampa.
Durante l'udienza, svoltasi presso il tribunale di Verona il 1o ottobre di quest'anno, l'avvocato ha preso la parola per comunicare che il reato non sarebbe più esistito a partire dal 9 ottobre. Se quell'avvocato Pag. 121nulla avesse detto, forse ci si sarebbe accorti di questa abrogazione soltanto tra qualche anno.
Allora, a seguito della pubblicazione de il Fatto Quotidiano e de la Padania come gruppo dell'Italia dei Valori abbiamo chiesto al Governo di far pubblicare in Gazzetta Ufficiale un avviso di rettifica, tecnicamente un comunicato - per il quale bastava un solo rigo - per evitare che il predetto decreto legislativo n. 43 del 1948 fosse presente nell'elenco di quelli da abrogare. Al Governo, quale organo costituzionale, è infatti sempre riservato uno spazio in Gazzetta Ufficiale per pubblicazioni urgenti e dell'ultim'ora e ho qui un elenco, che poi depositerò, di tanti comunicati che in questi mesi sono stati fatti a correzione proprio di quel tipo di errore (sono una serie di esempi).
Detto questo, ritorno al question time del 13 ottobre in Assemblea alla Camera dei deputati, durante il quale il Ministro Calderoli, oltre a mentire, ha usato anche toni sarcastici per riferire che l'abrogazione del decreto legislativo n. 43 del 1948 non aveva nulla a che fare con la delega contenuta nel cosiddetto taglia leggi, ma (testualmente) faceva «parte della realizzazione del codice dell'ordinamento militare», che il suo inserimento nell'elenco delle leggi da abrogare era stato deciso da un comitato scientifico e che il Governo non poteva cancellarlo dall'elenco delle leggi abrogate, facendo pubblicare in Gazzetta Ufficiale un proprio avviso di rettifica prima che il codice dell'ordinamento militare entrasse in vigore.
Le risposte del Ministro sono risultate del tutto destituite di fondamento, come poi è risultato sia attraverso le smentite del Ministero della difesa sia del presidente della commissione scientifica che ha redatto gli schemi dei provvedimenti normativi recanti il codice dell'ordinamento militare.
Infatti, il Ministero della difesa, intervenuto con proprio comunicato stampa il 2 ottobre, ha fatto sapere di aver chiesto alla Presidenza del Consiglio dei ministri la possibilità di fare una rettifica al codice dell'ordinamento militare, per eliminare proprio l'abrogazione del decreto legislativo n. 43, mentre il consigliere di Stato, Vito Poli, presidente del comitato scientifico che ha provveduto all'elaborazione degli schemi dei provvedimenti normativi recanti il codice dell'ordinamento militare, con lettera del 15 ottobre 2010, indirizzata sia allo stesso Ministro Calderoli che all'onorevole Donadi, presidente del gruppo Italia dei Valori alla Camera, ha comunicato: che nessun componente del comitato scientifico ha proposto o inserito nel relativo elenco l'abrogazione del decreto legislativo n. 43; che l'inserimento del decreto legislativo n. 43 costituisce evidente errore materiale occorso nella redazione del documento, risultando assolutamente incoerente dal punto di vista logico giuridico con quanto dallo stesso legislatore delegato disposto nella stesura del decreto legislativo n. 179 del 2009 (il cosiddetto salva leggi), che ha espressamente salvato il decreto legislativo n. 43 dal cosiddetto effetto ghigliottina previsto per il 15 dicembre 2010; infine, che, in ogni caso, quanto alla praticabilità dell'avviso di rettifica tempestivamente attivato dal capo dell'ufficio legislativo del Ministero della difesa e condiviso dalla Presidenza del Consiglio, poi interrotto per esplicito diniego opposto dall'ufficio legislativo del Ministro per la semplificazione normativa - come già riferito dallo scrivente, dottor Poli, alla Presidenza del Consiglio dei ministri - si segnala la pacifica giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di cassazione in base alla quale il Governo può intervenire a eliminare errori materiali, nonché per correggere originari fraintendimenti del legislatore.
Resta il fatto grave che il giorno 9 ottobre 2010, con l'entrata in vigore del codice dell'ordinamento militare, il reato previsto e punito dal decreto legislativo n. 43 del 1948 è sparito dal nostro ordinamento. Pertanto, tutti i procedimenti penali attualmente in corso per i reati di cui al citato decreto verranno terminati con un'archiviazione o una sentenza di assoluzione, perché il reato non esiste più, anche se il Parlamento, in futuro, dovesse reintrodurre quel reato. Dunque, liberi Pag. 122anche 36 leghisti facenti parte delle brigate della guardia nazionale padana per il reato di associazione a carattere militare con scopi politici.
Alla luce di tutto questo, in particolare della lettera del consigliere di Stato, appare evidente la responsabilità di chi ha inserito o fatto inserire il decreto legislativo n. 43 nell'elenco delle leggi da abrogare, oppure si è attivamente opposto alla sua eliminazione da quell'elenco e ha voluto mantenere l'eliminazione del reato di associazione di carattere militare con scopi anche indirettamente politici nel nostro ordinamento, in assenza di qualsiasi delega e in violazione del precetto costituzionale. Più grave è la responsabilità in oggetto perché assume peculiare rilevanza, innanzitutto politica, se messa in relazione con i procedimenti in corso a Verona a carico di 36 leghisti. Si tratta di un procedimento nel quale erano indagati anche diversi deputati e Ministri leghisti, tra cui Bossi, Maroni e lo stesso Calderoli, usciti dal processo grazie all'immunità parlamentare.
Appare dunque verosimile, infatti, che l'inserimento del decreto legislativo n. 43 del 1948 nell'elenco delle leggi da abrogare, sia stato finalizzato a favorire i leghisti facenti parte delle brigate della guardia nazionale padana e a far terminare il processo contro di loro con un'archiviazione o una sentenza di assoluzione perché il reato non esiste più.
In tutta questa vicenda appaiono dunque chiare, gravi e incontrovertibili le responsabilità del Ministro Roberto Calderoli, il cui ufficio legislativo ha opposto diniego alla pubblicazione dell'avviso di rettifica, tempestivamente attivato dal capo dell'ufficio legislativo del Ministero della difesa e condiviso dalla Presidenza del Consiglio. Il Ministro, dunque, ha mentito al Parlamento rispondendo al question time dell'Italia dei Valori ed ha abusato della sua funzione di Ministro opponendosi nei primi giorni di ottobre a far eseguire una rettifica, che solo pochi giorni prima, il 30 settembre, aveva invece autorizzato con riferimento alla rettifica relativa ad altre leggi inserite nel codice dell'ordinamento militare.
Inoltre, nella lettera aperta che il Ministro Calderoli il 22 ottobre ha inviato al Presidente della Camera ha affermato che il supposto erroneo inserimento del decreto legislativo n. 43 del 1948 nell'elenco degli atti di legislazione primaria da abrogare è da ascrivere unicamente al Ministero della difesa, che avrebbe gestito da solo, anche informaticamente, la preparazione dello schema di decreto legislativo. Tuttavia, tale affermazione, insieme a tutte le altre fatte dal Ministro Calderoli nella lettera citata, dimostrano incontrovertibilmente che, se pur si volessero non ascrivere a malizia i suoi comportamenti, egli ha quantomeno esercitato con palese negligenza le funzioni di coordinamento, di indirizzo, di vigilanza e di verifica relative alla semplificazione normativa, delegategli dal Presidente del Consiglio dei ministri con suo decreto del 13 giugno 2008.
Inoltre, il Ministro fa di più: si diverte e dice che pur considerando esistente un evidente errore materiale «forse qualche componente della Commissione» «durante questi mesi era distratto da altri componenti della stessa Commissione, magari dalla moglie. Ma, d'altronde, tutti tengono famiglia». Questa affermazione in una lettera al Presidente della Camera appare a nostro avviso molto grave e per nulla attinente al contenuto costituzionale che avrebbe dovuto riguardare l'ambito.
Sembrerebbe che il Ministro muova delle accuse ad un membro del comitato scientifico, in particolare al suo presidente il consigliere Vito Poli, perché, da informazioni recuperate su Internet sembrerebbe che il consigliere Vito Poli sia marito del consigliere Rosanna De Nictolis, anch'essa membro del comitato e dall'11 marzo 2008 vicepresidente dello stesso. Il Ministro Calderoli sembrerebbe fare delle insinuazioni su questo legame, mentre entrambi i consiglieri, al di là dell'eventuale rapporto coniugale, sono considerati tra i migliori consiglieri di Stato e hanno fatto parte del comitato ab origine. Se in tutto ciò Pag. 123avesse riscontrato un limite o un possibile vulnus, forse sarebbe potuto intervenire tempestivamente.
Concludendo, le deleghe attribuite al Ministro Calderoli il 13 giugno 2008 al varo del nuovo Governo Berlusconi stabiliscono, tra l'altro, che egli: coordini tutte le attività di attuazione del cosiddetto taglia leggi e competenze connesse; predisponga e co-proponga le iniziative dirette al riordino o alla semplificazione della normativa vigente, anche per mezzo di testi unici (qual è il caso del testo di cui si discute) e - cosa ancora più rilevante - segnali, negli schemi di atti normativi, le eventuali complicazioni, ovvero le proposte che non appaiono giustificate in relazione agli obiettivi nazionali o comunitari di semplificazione.
In conclusione, il Ministro Calderoli non solo poteva, ma anzi doveva ed era responsabile - ancora prima che il Consiglio dei ministri approvasse lo schema di decreto legislativo, oltre che successivamente - dell'eliminazione dagli elenchi delle leggi da abrogare del decreto legislativo che puniva il reato di associazione di carattere militare con scopi anche indirettamente politici.
È per questi motivi, che chiediamo che al Ministro Calderoli vengano revocate immediatamente dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri le deleghe di funzione in materia di semplificazione normativa, di coordinamento, di indirizzo, di promozione di iniziative, anche normative, di vigilanza e verifica, delegategli in base alla legge e al decreto del Presidente del Consiglio dei ministro sopra citato.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Orsini. Ne ha facoltà.

ANDREA ORSINI. Signor Presidente, mi consenta, prima di entrare nel merito del mio intervento, di unire le mie personali espressioni di solidarietà per l'ignobile atto di intimidazione a cui lei e l'onorevole D'Alema sono stati sottoposti.
Signor Presidente, signor Ministro, onorevoli colleghi, tratterò brevemente il merito della mozione prestata dai colleghi dell'Italia dei Valori. Non occorre, infatti, molto tempo per dimostrare l'assoluta infondatezza sul piano del merito. D'altra parte, il senso politico di questa iniziativa è del tutto strumentale e - mi consenta onorevole Evangelisti - anche piuttosto «rozzo» (non è forse da lei presentare questo tipo di atti). Tale senso, infatti, è ben evidente a tutti e ai presentatori di questa iniziativa per primi e non ha nulla a che vedere con le questioni di merito sollevate. Voglio fare comunque una premessa.
La questione di cui tratta la mozione non riguarda i provvedimenti «taglia leggi» promossi dal Ministro Calderoli, ma nasce - come ricordava l'onorevole Evangelisti - dalla realizzazione del nuovo codice dell'ordinamento militare. Come ben noto ai colleghi dell'Italia dei Valori, tale operazione ha comportato l'abrogazione di diverse norme e, tra queste, del decreto legislativo 14 febbraio 1948, n. 43. Va sottolineato che la riforma del codice dell'ordinamento militare è stata decisa nel 2007 - quindi dal Governo Prodi - e, su questa approvazione, si sono espressi favorevolmente sia il Consiglio di Stato che il Parlamento.
Forse è bene ricordare anche di cosa stiamo trattando: il decreto legislativo 14 febbraio 1948, n. 43, è stato varato immediatamente dopo la fine della seconda guerra mondiale per fronteggiare i pericoli e le paure di una ricostruzione armata di partiti e movimenti parafascisti e - come la parte sinistra di quest'Aula non avrà certamente dimenticato - per fronteggiare la militarizzazione del Partito comunista, allora curata dall'onorevole Secchia.
Fortunatamente, la nostra democrazia è maturata ed è ormai ben salda. Non esistono più pericoli imminenti da fronteggiare, né pericolose formazioni politiche militarmente organizzate. Solo nella fantasia di alcuni colleghi - e purtroppo di qualche magistrato - le guardie nazionali padane possono essere assimilate ai tragici fenomeni eversivi di quell'epoca o degli anni Settanta e Ottanta come le Brigate rosse. L'accostamento sarebbe, in verità, comico se non fosse irriverente verso la Pag. 124memoria delle tante vittime di quella stagione. Per fortuna, tutto questo è alle nostre spalle e, comunque, sono ben presenti nel nostro codice penale norme dirette a contrastare, con la dovuta durezza ed efficacia, la costituzione di bande armate e qualunque manifestazione violenta con connotazioni politiche di qualsiasi colore.
Non si vedrebbe, quindi, come sia possibile trarne un pretesto per attaccare personalmente il Ministro Calderoli, al quale invece voglio dare atto di svolgere le proprie funzioni nel modo migliore, dando con la sua opera un contributo importante alla modernizzazione del nostro Paese e all'attività complessiva del Governo Berlusconi.
Aggiungerò che il fatto che il Ministro Calderoli sia anche capace di usare l'ironia - virtù rara nella vita pubblica italiana - va vieppiù a suo onore e dà una ragione in più per apprezzarlo.
Il Ministro Calderoli, con una lettera inviata al Presidente della Camera dei deputati, aveva già avuto modo di esporre chiaramente e analiticamente i fatti, come il collega dell'Italia dei Valori ha poco fa ricordato. Mi sono premurato, comunque, di esaminare la documentazione a sostegno di quanto affermato dal Ministro. Ebbene, i fatti dimostrano la veridicità di quanto da lui sostenuto in sede di question time, nonché la sua correttezza, l'assoluta buona fede e la completa estraneità alla faccenda.
Veniamo ai fatti: il testo del codice dell'ordinamento militare è stato elaborato e proposto da un comitato tecnico istituito dal Ministero della difesa del precedente Governo, ma non vi è stato solo il comitato tecnico. Lo schema è stato poi approvato, in via preliminare, dal Consiglio dei ministri l'11 dicembre 2009 e inviato al Consiglio di Stato e alle Commissioni parlamentari per i prescritti pareri. L'abrogazione del decreto legislativo n. 43 del 1948 risulta essere stata presente in tutti i testi sottoposti a questo lungo e complesso iter di approvazione. È stata, quindi, esaminata dal Consiglio dei ministri, dalle competenti Commissioni parlamentari e dal Consiglio di Stato.
Mentre su altre norme sono state sollevate alcune obiezioni e riserve, nessuna di queste istituzioni ha mai formulato - neanche in pareri di minoranza - alcuna osservazione su questa, né ha chiesto la modificazione della disposizione soppressiva.
Lo schema di codice è stato poi approvato definitivamente dal Consiglio dei ministri nel 2010 e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale.
Chiedo allora agli onorevoli colleghi sottoscrittori della mozione: perché mai un Ministro, accusato di avere voluto con malizia perseguire l'obiettivo di abrogare una disposizione legislativa, avrebbe dovuto salvare proprio quella norma laddove proponeva un provvedimento di sua esclusiva competenza?
Mi stupisco che i colleghi dell'Italia dei Valori citino questa circostanza nella loro mozione di accusa al Ministro Calderoli, perché è una circostanza che dimostra semmai esattamente il contrario, cioè la sua totale buona fede in questa vicenda.
Ma un altro profilo, onorevoli colleghi, appare pure stupefacente: l'affermazione, che leggo nella mozione Di Pietro ed altri n. 1-00475 e che l'onorevole Evangelisti ha poco fa ribadito, che sarebbe stato possibile, con una semplice rettifica sulla Gazzetta Ufficiale, salvare - in extremis - dall'abrogazione il decreto legislativo in questione.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, come possiamo solo per un attimo credere nella legittimità di un simile intervento? La rettifica, come è noto, può riguardare esclusivamente errori di stampa ininfluenti sul contenuto normativo degli atti pubblicati, errori occorsi nella promulgazione, errori comunque non influenti sul contenuto normativo degli atti pubblicati. Vogliamo sostenere, signor Presidente, che con una semplice rettifica, predisposta in gran fretta e all'ultimo momento, il capo di un ufficio legislativo di un Ministero possa modificare un testo normativo che Pag. 125abbia seguito un regolare iter di approvazione, bypassando in tal modo la volontà esplicita del legislatore?
È evidente che una simile affermazione evidenzia quanto meno una pessima conoscenza delle procedure legislative, o peggio un'assoluta indifferenza verso il processo democratico di formazione delle leggi.
Mi stupisce infine - non me ne vogliano i colleghi dell'Italia dei Valori - che fra i sottoscrittori della mozione vi sia il vicepresidente della Commissione parlamentare per la semplificazione, l'onorevole Formisano.
La Commissione parlamentare per la semplificazione, competente ad esprimersi su tutti i testi operanti riordini e codificazioni normative, si è espressa con parere favorevole sul codice dell'ordinamento militare, non osservando assolutamente nulla riguardo alla vicenda di cui stiamo ora discutendo. Vogliamo ancora sostenere che anche l'onorevole Formisano, in concorso con il Ministro Calderoli, abbia complottato per l'abrogazione del decreto legislativo 14 febbraio 1948, n. 43?
Signor Presidente, onorevoli colleghi, da quanto detto si evince - credo con grande chiarezza - il carattere pretestuoso di questa mozione. Ma di questo non devo convincere nessuno, perché i primi a saperlo sono proprio l'onorevole Di Pietro e i suoi colleghi dell'Italia dei Valori.
In realtà, il significato politico di quest'atto è tutt'altro, e mi avvio alla conclusione. È un tentativo, in verità piuttosto rozzo, di sfruttare le difficoltà politiche della maggioranza per introdurre elementi di divisione e forzare le scelte di qualche gruppo politico.
Ebbene, onorevole Di Pietro, che non è presente, che presenta le mozioni e poi non viene ad illustrarle, onorevole Evangelisti che invece ha la cortesia di ascoltare il mio intervento, vi dovete rassegnare: esiste un percorso parlamentare di verifica, concordato con il Capo dello Stato, che pone al riparo la legge di stabilità, e quindi i soldi degli italiani, dalle turbolenze della politica. A legge di stabilità approvata, e non prima, il Governo sarà in Aula per le opportune verifiche politiche. A quel punto ogni gruppo e ogni singolo parlamentare farà le proprie scelte.
Non condivido il processo che ha portato alla formazione del gruppo di Futuro e Libertà per l'Italia, ma rispetto profondamente i colleghi che hanno fatto questa scelta.
Il tentativo dell'opposizione di metterli in difficoltà, forzando i tempi con questa mozione e con l'altra contro il Ministro Bondi, è un atto di piccola e mediocre tattica politica che non produrrà nessun effetto.
Tutti i parlamentari della maggioranza, quali che siano state le loro scelte, sono persone responsabili e sono certo che non porrebbero mai in discussione l'approvazione della manovra economica, né verrebbero meno agli impegni presi con il Quirinale.
Che l'onorevole Di Pietro e il suo partito, alla disperata ricerca di visibilità, ricorrano anche a questi mezzucci, è purtroppo nell'ordine delle cose. Che a questo si presti un grande partito di opposizione, come il Partito Democratico, è molto preoccupante. Ne dimostra ancora una volta la soggezione politica all'Italia dei Valori e alle parti meno responsabili della politica italiana.
Per quanto riguarda il Popolo della Libertà, questa mozione rafforza, non indebolisce di certo, il rapporto leale, stretto, costruttivo con la Lega Nord Padania, rapporto del quale il Ministro Calderoli è uno degli artefici più significativi.
L'impegno a cambiare insieme l'Italia, con il concorso di tutti quelli che condividono i nostri valori, esce rafforzato proprio da questa difficile stagione e anche da episodi come questo (Applausi dei deputati dei gruppi Popolo della Libertà, Lega Nord Padania).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Lussana. Ne ha facoltà.

CAROLINA LUSSANA. Signor Presidente, signor Ministro, onorevoli colleghi, è di tutta evidenza, come è stato anche detto nell'intervento del collega che mi ha preceduto, Pag. 126l'assoluta infondatezza nel merito di questa mozione presentata dai colleghi dell'Italia dei valori. È una mozione che, invece, ha un fortissimo carattere strumentale, una forte connotazione politica, che evidenzia però un certo malessere, una sempre crescente insofferenza, che stiamo notando nei deputati appartenenti alla minoranza, nei confronti della straordinaria azione di riforma del Paese di cui questo Esecutivo è interprete.
Comprendiamo, colleghi, il vostro disagio quando i risultati del far bene si manifestano nella quotidianità della vita dei cittadini, neutralizzando quindi con la forza dei fatti le vostre polemiche strumentali, sterili e pretestuose. Però, non possiamo non reagire con una certa durezza di fronte all'assurdità e alla assoluta falsità di questa mozione.
Prima di entrare nel merito della questione, vorrei ricordare ai colleghi - perché è tutta qui la questione centrale - l'operato del Ministro per la semplificazione normativa, Calderoli, in questi anni. Si vuole colpire il Ministro Calderoli perché è uno fra i maggiori portatori, all'interno di questo Governo, della volontà riformatrice del Paese, che si è concretizzata in questi due anni e mezzo di Governo in una miriade di atti normativi abbattuti. Ha abbattuto, come dice il Ministro Calderoli, o incendiato, perché ha usato anche questa simpatica ma calzante espressione, un muro di inutili atti normativi, che inficiavano la vita dei cittadini in un caos normativo assurdo, nel quale era difficile orientarsi.
Ha cancellato di fatto dall'ordinamento circa 375 mila atti normativi assolutamente inutili e superati. La soddisfazione dei cittadini e delle imprese, non più schiacciati da montagne di carte e liberati da innumerevoli complicazioni, è il risultato più immediato. L'altro, ancora più significativo, è il grande risparmio di denaro che questa operazione comporta.
Si stima che, a regime, la semplificazione e il taglio netto alla burocrazia inciderà in maniera positiva sui conti dello Stato, con un risparmio di circa 800 milioni di euro. Abbiamo recentemente approvato la legge di stabilità, una legge anche di sacrificio, quindi è importante ricordare il risparmio che si ha grazie proprio all'opera della semplificazione normativa. È una somma - è bene ricordarlo - pari quasi ad una mezza finanziaria, che potrà essere utilizzata per aiutare le famiglie o anche per alleggerire la pressione fiscale. Oltre al «taglia-leggi», le misure di semplificazione adottate sono numerose. Ne posso ricordare alcune: la riduzione degli enti pubblici, il blocco e la riduzione delle tariffe, l'implementazione del ricorso all'autocertificazione, la semplificazione e l'accelerazione dello start up delle imprese, l'abolizione del libro soci nelle Srl, la promozione dell'uso della posta elettronica certificata.
Proprio per questo, di fronte a tutto quello che il Governo sta facendo, la nostra indignazione è veramente forte per dover discutere autentiche azioni di disturbo come questa mozione, la cui finalità è unicamente quella di alimentare lo scontro politico e cercare magari visibilità da parte di qualcuno.
Il Ministro Calderoli ha sempre sottolineato come semplificare, riducendo drasticamente la normativa esistente e migliorando la qualità della regolazione, non significa certo venir meno ai principi dello Stato di diritto e del rispetto del cittadino. Si mette ordine al caos legislativo con interventi scrupolosi e mirati allo snellimento del sistema nel costante rispetto delle regole di diritto e di complesse procedure che coinvolgono tutti i soggetti istituzionali. Questo è avvenuto anche con l'approvazione del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, codice dell'ordinamento militare, che qui si contesta.
Noi non abbiamo bisogno di difendere il Ministro dall'accusa strumentale che gli viene mossa, la cui infondatezza e falsità è semplicemente dimostrata dall'effettivo svolgimento dei fatti. Non so come abbiano fatto i colleghi dell'Italia dei Valori a ricostruire questo iter fantasioso con questa loro mozione. Probabilmente non hanno letto con attenzione oppure hanno letto con l'attenzione che volevano mettere loro, con un'attenzione - consentitemi Pag. 127il termine - «deviata», gli atti parlamentari, da una lettura trasparente dei quali si evince l'assoluta e totale estraneità del Ministro Calderoli alla vicenda con riferimento alla quale si è presentata la mozione.
Però non possiamo, signor Presidente, accettare che la polemica politica, seppur strumentale, possa degenerare fino ad affermazioni gravissime come quella per la quale il Ministro per la semplificazione avrebbe detto il falso in Parlamento. Ha fatto bene il Ministro Calderoli ad indignarsi di fronte a questa accusa, a scrivere anche una lettera al Presidente Fini e a dire da subito che, se avesse mentito veramente al Parlamento, sarebbe stato lui il primo a dimettersi proprio per la gravità dell'atto. Ma così non è e sappiamo che il Ministro Calderoli ha già dimostrato, anche in passato, di poter presentare le dimissioni (a differenza di qualcuno che magari fa tante chiacchiere), dimostrando il disinteresse per le poltrone.
Comunque veniamo ai fatti. Come è noto, il codice dell'ordinamento militare di cui al decreto legislativo n. 66 del 2010 è stato predisposto da una commissione tecnica, istituita con decreto del Ministro della difesa del 29 novembre 2007, quindi dal Governo precedente, dal Governo Prodi. Questa commissione tecnica è stata incaricata di provvedere al riassetto delle norme d'interesse dell'Amministrazione della difesa, in attuazione della legge delega n. 243 del 2005. La commissione quindi, nominata dal precedente Esecutivo e confermata senza modifiche da quello attuale, non è composta da alcun rappresentante del Ministero per la semplificazione normativa. Lo dico per obiettare contro l'accusa al Ministro Calderoli di non essere l'artefice materiale dell'abrogazione, ma di essere stato negligente, perché anche questo si dice nella mozione dell'Italia dei valori (è chiaro, si devono arrampicare sui vetri).
Nel corso dell'operazione di riassetto, la commissione tecnica ha incluso tra le norme da abrogare il decreto legislativo 14 febbraio 1948, n. 43, in questione, recante disposizioni in materia di divieto di associazioni di stampo militare con scopi politici, provvedimento che ha avuto peraltro scarsissima applicazione nell'arco della storia costituzionale.
Come documentato dall'iter legislativo (i cui dettagli non possiamo riportare tutti in questa sede), lo schema di decreto, recante tra le 1.085 abrogazioni espresse anche quella del decreto n. 43 del 1948 relativo alle associazioni di carattere militare, è stato sempre trattato e gestito all'interno del Ministero della difesa. L'elenco delle disposizioni legislative soggette ad abrogazione è stato più volte modificato nel corso dell'iter, ma l'abrogazione del decreto n. 43 non è mai stata messa in discussione, né sul punto sono state formulate osservazioni nei pareri espressi dalle competenti Commissioni parlamentari (la Commissione difesa del Senato si è espressa il 27 gennaio 2010; la Commissione bicamerale per la semplificazione - come si è ricordato -, della quale fanno parte anche i colleghi dell'Italia dei Valori, il 24 febbraio 2010) e dal Consiglio di Stato (commissione speciale difesa - 10 febbraio 2010). Quindi, sta qui il fatto dirimente. Quale sia stata la ragione dell'originaria inclusione del decreto legislativo n. 43 del 1948 fra le abrogazioni (volontà dei redattori, errore giuridico, errore materiale sopraggiunto nella predisposizione del documento) essa, comunque, è stata effettuata sin dal primo testo ufficialmente inviato al Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei ministri all'interno del Ministero della difesa in quanto soggetto competente, ed è rimasta ininterrottamente presente, pur tra le varie modifiche, in tutte le bozze circolate.
Quindi, in quasi un anno di iter approvativo, da aprile 2009 a marzo 2010, questo presunto errore non è mai stato segnalato, mentre dobbiamo dire, per contro - e qui sono chiare la buona fede e l'assoluta estraneità del Ministro Calderoli e la falsità, invece, delle affermazioni dei colleghi dell'Italia dei Valori -, che nel provvedimento adottato, sotto la responsabilità del Ministro Calderoli, nelle more dell'iter di perfezionamento del codice Pag. 128militare, cioè il decreto legislativo n. 179 del 2009 - qui sì - era stato individuato tra le disposizione da sottrarre all'effetto ghigliottina proprio il decreto n. 43 del 1948.
Se ciò non è avvenuto e se l'abrogazione è stata confermata ed è stata voluta fin dall'inizio, è proprio perché questa è stata la decisione originaria del Ministero della difesa. Questa è la realtà dei fatti.
Non voglio entrare nella querelle familiare del consigliere di Stato che presiede la commissione incaricata di redigere il codice militare, ma - scusate - un presidente di un comitato scientifico, che lavora per molti mesi, anni, su un'operazione di grande valore e, come dice addirittura l'onorevole Donadi, si trattava di un'abrogazione che inficia le garanzie costituzionali, non si accorge che è stata abrogata una norma così importante? Se ne accorge solo dopo che lo legge su Il Fatto Quotidiano? Questa è un'affermazione estremamente grave e dovrebbe farci riflettere, da un certo punto di vista, sulla serietà e sull'attenzione delle persone che compongono i comitati scientifici.
Dopo che viene pubblicata questa notizia, si voleva operare in fretta e furia la correzione dell'errore materiale. Insomma, mi sembra veramente esagerato, anche perché qui non si tratta di un piccolo errore materiale, ma di una modifica sostanziale di un testo legislativo, peraltro passato al vaglio, come ho ricordato, del Parlamento e del Consiglio di Stato. Questo dimostra, quindi, l'assoluta pretestuosità e falsità delle argomentazioni dei colleghi dell'Italia dei Valori.
Non volevo neanche entrare nel merito del processo, in corso a Verona, della cosiddetta Guardia nazionale padana, però, caro onorevole Donadi, una cosa la devo dire: innanzitutto, questo è un processo che dura da 16 anni e, quindi, l'intervento semmai doveva avvenire in precedenza, non certo adesso. Un fatto, però, deve restare chiaro: la Lega Nord Padania e, quindi, tutti coloro che si ispirano al suo movimento, non ha mai portato avanti bande armate o associazioni di carattere e di tipo militare. Abbiamo sempre fatto un'azione politica utilizzando gli strumenti e i mezzi della democrazia, senza mai ricorrere alla violenza perché non appartiene alla nostra cultura giuridica. Se lì ci sarà assoluzione, è perché nel merito non esiste nulla. Questo è importante ricordarlo e ribadirlo.
Da ultimo, cari colleghi dell'Italia dei Valori, non si capisce neanche bene, sotto il profilo formale, che cosa rappresenti questa mozione che avete presentato. L'abbiamo dovuta definire, per accettarla e poterne discutere, una mozione di censura; poi, se la si va a leggere, si vede che, in realtà, volete il ritiro di pressoché tutte le deleghe del Ministro Calderoli. Rimarrebbe un Ministro senza deleghe e, quindi, di fatto volete arrivare alla sfiducia, ma formalmente non siete neanche stati capaci di presentare una mozione di sfiducia, perché non siete stati capaci di raccogliere le firme che sarebbero occorse per poterla presentare! Questo perché? Perché, chiaramente, anche gli altri colleghi si sono resi conto della falsità delle vostre affermazioni! Un Ministro mente al Parlamento e voi non siete in grado di presentare una mozione di sfiducia? Allora, colleghi, solo da questo si dimostra l'assurdità della mozione che oggi voi ci state portando a discutere e, chiaramente, a contrastare.
Da ultimo, un invito al Ministro Calderoli: la Lega Nord Padania le rinnova la sua più totale fiducia e la esorta ad andare avanti nella realizzazione delle riforme che la gente ci chiede, perché queste assurde polemiche basate sul nulla indeboliscono solo chi le solleva ed incoraggiano, invece, l'operato di chi contribuisce al miglioramento del Paese e, lontano dalle questioni di palazzo, lavora nell'interesse dei cittadini mettendo davanti a tutto la verità, la verità dei fatti e dei risultati che si impongono, come in questo caso, con abbagliante evidenza. Grazie per il suo lavoro, signor Ministro, vada avanti (Applausi dei deputati dei gruppi Lega Nord Padania e Popolo della Libertà).

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PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Amici. Ne ha facoltà.

SESA AMICI. Signor Presidente, anch'io, come hanno già fatto gli altri colleghi, mi associo, per la stima che le porto, nel testimoniarle l'enorme solidarietà per quell'atto intimidatorio che ha ricevuto insieme al collega D'Alema, segno evidente di un laceramento del rapporto fra cittadini e istituzioni, ma anche di un nervo malato della politica in questo momento del Paese. Nel rinnovarle questo invito, a me tocca fare un intervento (Commenti del deputato Fedriga)...

FABIO EVANGELISTI. Signor Presidente, per cortesia, una camomilla per il collega!

PRESIDENTE. Onorevole Evangelisti, ero distratta, le chiedo scusa. Prego, onorevole Amici, vada avanti.

SESA AMICI. È del tutto evidente che ci troviamo di fronte ad una situazione che ritengo che sia giusto e doveroso affrontare con la pacatezza e la razionalità più fredda possibile. Infatti, colleghi, la mozione che ha illustrato e ha ricostruito nel dettaglio il collega Evangelisti e che ha portato l'Italia dei Valori alla richiesta di ritiro delle deleghe nei confronti del Ministro Calderoli, si fonda su una serie di elementi di cui tutti noi siamo chiamati a capire il portato, la veridicità della ricostruzione e anche la scansione temporale secondo la quale sono avvenuti.
Ma proprio per fare questo emergono anche dagli interventi dei colleghi che mi hanno preceduto due dati incontrovertibili. Il primo: abbiamo l'abrogazione del decreto legislativo n. 43 del 1948, di un reato del codice militare. Il decreto legislativo n. 43 del 1948 faceva espliciti riferimenti e fondava gran parte della sua portata in un articolo della Costituzione: l'articolo 18, secondo comma.
Proprio l'origine costituzionale mi porta a dire che ancora una volta i nostri costituenti erano stati molto lungimiranti, onorevole Lussana. Ritengo che non dobbiamo compiacerci che questo articolo non sia stato così efficace nel corso del tempo. Vuol dire che c'è stata una democrazia che, dopo l'avvento del fascismo, ha avuto al proprio interno gli anticorpi per impedire la costituzione, tramite aspetti di rilievo politico, di bande armate o comunque di chi dentro quel procedimento voleva forzare le decisioni politiche e conformarsi ad una decisione politica attraverso metodi violenti.
È talmente vero questo aspetto che il disposto di cui al secondo comma dell'articolo 18, che vieta espressamente la costituzione di associazioni segrete, che sono proibite, e di quelle che perseguono anche indirettamente scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare, senza dubbio non presenta elementi di difficoltà interpretative sul piano giurisprudenziale. Lo voglio affermare perché la riflessione più importante è stata fatta da un importante costituzionalista, Mortati, il quale dice che lo scopo del divieto è squisitamente politico e consiste nell'eliminazione di tutti i fattori di turbamento nel processo di decisione politica e, in primo luogo, di quelli che sostituiscono alla suggestione delle idee quella della forza. Quindi, c'era già all'interno della Costituzione un elemento molto preciso e importante.
Che cosa è accaduto anzitutto come dato oggettivo? Il decreto legislativo n. 43 (e il divieto richiamato) viene abrogato con un iter che, come minimo, presenta elementi di legittimo sospetto.
Non vi è dubbio che con il decreto legislativo n. 179 del 2009 il Ministro per la semplificazione aveva ritenuto che questo decreto fosse indispensabile e quindi non l'aveva previsto come elemento suscettibile di abrogazione. Quindi, il Ministro in quel momento aveva decretato la validità del decreto legislativo n. 43 del 1948. Il problema nasce esattamente nel momento in cui si formula il codice militare, ossia la novella del codice militare. Anche qui è necessario dire alcune verità: non è vero che il Parlamento e le Commissioni sono state messe in grado di esprimere un parere. L'iter Pag. 130di quel provvedimento, il testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare, ci dice che la Commissione per la semplificazione non ha espresso il parere perché nella seduta del 24 febbraio è stata presentata una proposta di parere da parte del relatore non votata dalla Commissione per mancanza del numero legale. Anche nella seduta del 3 marzo 2010 la stessa Commissione non era in numero legale per esaminare l'atto del Governo e pertanto il Presidente ha dato quindi comunicazione della lettera con la quale il Ministro per i rapporti con il Parlamento ha comunicato che il Ministero della difesa non avrebbe più potuto attendere il parere della Commissione sull'atto n. 165.
Insieme a questo aspetto, occorre rilevare che il decreto legislativo è stato trasmesso il 15 dicembre del 2009 e in quel momento era sprovvisto del parere del Consiglio di Stato, della Conferenza Unificata e la Commissione bicamerale per la semplificazione, cui spettava un parere, è stata messa nelle condizioni di dare il parere con riserva, a partire dal 16 dicembre.
Si dirà: sono i tempi con i quali noi spesso lavoriamo, anche di fronte a schemi di pareri che vengono sottoposti alle Commissioni. Ma a me non interessa tanto questo, quanto cercare di capire come, con riferimento a questa vicenda, togliere un dubbio, il dubbio della correttezza delle nostre informazioni, della correttezza con la quale gli atti vengono seguiti.
Sa benissimo il Ministro Calderoli e lo sa il collega Orsini (è stato anche relatore del provvedimento «taglia leggi»), che, anche se si è trattato di un atto meritorio, nei confronti del quale anche noi abbiamo espresso una posizione convinta, perché era necessario in questo Paese produrre il risultato di tagliare norme non più attuali, si sono prodotti degli errori materiali. Valga un caso per tutti: il caso della soppressione del comune di Campione. Ce ne siamo resi conto, tanto che l'abbiamo reintrodotto anche grazie ad una collaborazione; quindi, non si discute il fatto che in relazione ad una mole di provvedimenti non si possano determinare degli errori, anche materiali, su cui, tuttavia, è bene ragionare con grande serenità.
Dove sta il dubbio per il quale il Partito Democratico oggi interviene in questa discussione? Non lo facciamo per accodarci a nessuno, non è nello stile né nella cultura di questo partito, ma nella risposta del Ministro Calderoli al question time vi sono due interrogativi di fondo; se il Ministro aveva deciso, con il decreto legislativo n. 179, che si trattava di un decreto legislativo che non andava abrogato e si accorge, nell'iter seguito dal comitato tecnico per il codice militare, che è presente invece questo elemento, perché in questa stessa vicenda, con la stessa attenzione e determinazione, il Ministro Calderoli dà una risposta che ha due elementi di grande dubbio? Il primo riguarda esattamente l'asserita autoapplicatività dell'articolo 18 della Costituzione, che vieta la costituzione delle associazioni militari aventi scopi politici, senza una precisa norma del codice penale che ne dia attuazione, considerato che quella in oggetto ha provveduto proprio ad abrogare la norma penale relativa alle bande armate. Qui sta l'attualità, perché quel reato oggi non è più perseguibile e anche chi da 16 anni aveva quella imputazione per quel reato, alla luce di questo elemento, per quel reato non è più possibile perseguirlo. Ma il Ministro lo sa, perché è un Ministro intelligente, le questioni le conosce e sa benissimo che le disposizioni costituzionali, allorché hanno un carattere precettivo, necessitano di un'attuazione e di implementazione ad opera di specifici atti normativi.
In questo caso primario è necessaria una legge che ne dia attuazione, al fine di poter essere utilizzata in giudizio. Il giudice di un processo può impiegare una disposizione del codice penale perché è una legge, ma è a sua volta attuativa di una disposizione costituzionale, per risolvere un conflitto, non per interpretare la Costituzione. Quindi sa - e lo sa benissimo il Ministro Calderoli - che l'unico interprete della Costituzione non è il singolo Pag. 131giudice, ma la Corte costituzionale. Questo è il dubbio che noi abbiamo avuto in relazione a questa vicenda, insieme ad un altro elemento, Ministro Calderoli. Glielo dico perché - lei lo sa - noi in Commissione abbiamo avuto sempre rapporti reciproci di stima e vi sono stati anche elementi a volte di contrasto, ma che in fondo hanno avuto sempre il tentativo di trovare il punto vero di mediazione anche politica. Però Ministro, come si fa nella risposta all'interrogazione a risposta immediata che lei ha dato - e lo ha fatto anche la collega Lussana - a dire che il problema è che il Ministro per la semplificazione non ha nessuna responsabilità? Questa responsabilità viene data al comitato tecnico, appositamente istituito e che ha proceduto in prima battuta a redigere la famosa abrogazione dell'articolo 43 e lo fa attraverso due elementi.
Il primo elemento consiste nel fatto che gli atti di qualsiasi commissione tecnica, ma che attengono ed afferiscono alle questioni di un Ministero - il Ministro lo sa, perché lo prevede la Costituzione all'articolo 95 - hanno sempre una responsabilità che fa capo alla politica e al Ministro competente.
Credo che questo sia un elemento a cui non possiamo derogare. Allo stesso modo, non si può derogare dal fatto che, proprio alla luce di questo elemento, la responsabilità politica è in capo anche al Ministro Calderoli, anche per l'emanazione del provvedimento concernente il codice militare. Infatti, il provvedimento che lo aveva istituito è stato fatto di concerto tra il Ministero della difesa e il Ministero per la semplificazione normativa, che emanano i decreti.
Ecco perché all'interno di questa vicenda, credo che avremmo bisogno - e ne ha bisogno il Parlamento - non di assumere un dato di strumentalità, ma che, di fronte a quanto è accaduto nella ricostruzione dei singoli fatti, vengano messe in chiaro le responsabilità. Tuttavia, le responsabilità in politica non significano togliere la responsabilità propria per attribuirla ad un altro Ministero. Infatti, sicuramente, un dato apparirà davanti agli occhi di tutti: in questa vicenda, quel provvedimento ha subìto una sorte di mistero: una volta c'era, mentre sei mesi dopo non c'era più. E chi anche se ne è reso conto, nel momento in cui è stato denunciato - e questa è l'opera meritoria dell'interrogazione e, prima ancora, dell'interrogazione a risposta immediata dell'Italia dei Valori - aveva tutto il tempo di trovare una soluzione. Quella soluzione non si è voluta trovare e siamo di fronte ad un provvedimento che lede un «pezzo» dell'articolo 18 della Costituzione e che oggi rende non perseguibile quei reati che, credo, rappresentino uno degli elementi dell'attualità politica che, invece, ci riguardano tutti (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico e Italia dei Valori).

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali delle mozioni.

(Intervento del Governo)

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il Ministro per la semplificazione normativa, onorevole Roberto Calderoli.

ROBERTO CALDEROLI, Ministro per la semplificazione normativa. Signor Presidente, colgo l'occasione per associarmi ai colleghi nell'esprimerle la solidarietà e la vicinanza, che sicuramente sono sinceri. Conoscendo la sua fibra, so che queste cose non possono che stimolarla, anche se, ovviamente, possono fare sempre male.

PRESIDENTE. Se ne potrebbe fare anche a meno!

Testo sostituito con errata corrige volante ROBERTO CALDEROLI, Ministro per la semplificazione normativa. Purtroppo, le minacce arrivano, sono giunte anche a me, e ne giungeranno, perché, purtroppo, la mamma degli imbecilli è sempre in attesa; mi scusi per la battuta. Pag. 132
Mi spiace dover intervenire a quest'ora e chiedo scusa, tuttavia, ho ancora la presunzione che le parole possano contare qualcosa in Parlamento, se non ascoltate, perché siamo proprio tra pochi intimi, perlomeno lette; soprattutto, credo che vadano verificati anche gli strumenti di prova, che impropriamente devo produrre in questa sede per vedere se, alla luce di questo, vi siano anche delle riflessioni rispetto alla mozione in oggetto.
Il codice dell'ordinamento militare discende da una delega risalente al novembre del 2005 ed è il frutto di un lavoro intrapreso dal precedente Governo - come hanno detto diversi colleghi - che ha deciso di incaricare della redazione un comitato tecnico istituito con decreto del 29 novembre 2007 del Ministro della difesa pro tempore.
Tra i suoi componenti non vi era, né all'epoca vi poteva essere, alcun rappresentante del sottoscritto quale Ministro per la semplificazione normativa. Detto comitato, insediatosi in data 31 gennaio 2008, è stato confermato senza modifiche dall'attuale Ministro della difesa con decreto del 3 dicembre 2008.
Il testo del provvedimento è stato predisposto dal comitato tecnico. Il suo elaborato è stato ufficialmente consegnato al Ministro della difesa in data 21 aprile 2009, nell'ambito di una cerimonia aperta anche alla stampa ed è stato trasmesso lo stesso giorno, alle ore 19,24, dall'ufficio legislativo del Ministero della difesa, a mezzo posta elettronica istituzionale, al Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei ministri.
Per documentare tale ultimo invio, con l'autorizzazione della Presidenza, metto a disposizione la ricevuta elettronica di avvenuta trasmissione del testo in cui si producono le date, gli orari e la dichiarazione del capo dell'ufficio legislativo, in cui dice: il testo che ho ricevuto è questo, metto a disposizione la ricevuta, l'estratto del verbale che è stato trasmesso e il verbale della riunione plenaria con cui venne consegnato il testo al Ministro della difesa.
In quel primo schema di codice, e sottolineo in quel primo schema di codice, era già presente, nell'ambito dell'elenco delle disposizioni da abrogare espressamente, il decreto legislativo n. 43 del 1948. Risulta, pertanto, per tabulas, che l'inserimento della disposizione da abrogare è stato compiuto dal comitato tecnico che ha predisposto lo schema di codice.
Il giorno dopo la cerimonia di consegna del testo del comitato, ovvero il 22 aprile 2009, la stessa bozza è stata per la prima volta diramata dal Dipartimento affari giuridici e legislativi con posta certificata delle ore 18,43. Quel testo è stato sottoposto a svariate riunioni di coordinamento tra le amministrazione interessate. L'elenco dell'abrogazione è stato più volte modificato in altre parti nel corso del successivo iter, ma l'abrogazione del decreto legislativo n. 43 del 1948 non è stata mai, sottolineo mai, posta in discussione ed è rimasta una costante di tutte le successive versioni trasmesse dal Ministero della difesa alle amministrazioni coproponenti e concertanti.
Lo schema è stato nuovamente diramato con posta certificata dal Dipartimento affari giuridici e legislativi a tutti i Ministeri il 25 novembre 2009 ed è stato approvato in via preliminare dal Consiglio dei Ministri in data 11 dicembre 2009. Entrambi i testi, quello diramato e approvato, recavano l'abrogazione del decreto legislativo n. 43 contenuta al n. 297, rispettivamente, dell'articolo 2256 del testo diramato e dell'articolo 2258 del testo approvato e inviato al Consiglio di Stato e alle Camere per i prescritti pareri.
L'indicazione soppressiva del decreto n. 43 non ha subìto modifiche neppure nel seguito dell'iter approvativo, né sullo specifico punto sono state formulate osservazioni da parte delle competenti Commissioni parlamentari (Commissione difesa del Senato con il suo parere del 27 gennaio 2010), né specifiche osservazioni sono state rese dal Consiglio di Stato (Commissione speciale difesa, parere del 10 febbraio 2010). A tale proposito, deve esser opportunamente evidenziato come i suddetti organi consultivi, in sede di espressione Pag. 133dei pareri di competenza, abbiano più volte preso in considerazione la norma relativa alle abrogazioni espresse contenute nel codice sotto molteplici profili, nulla osservando, però, in relazione alla specifica soppressione del decreto legislativo n. 43 del 1948; ad esempio, la Commissione difesa ha rilevato la necessità di un coordinamento tra l'articolo 2268 e le proroghe contenute nell'articolo 4, comma 3, del decreto-legge n. 194 del 2009 in tema di reclutamento e stato giuridico degli ufficiali dell'Arma dei carabinieri; del pari, il Consiglio di Stato, nel parere rilasciato nell'adunanza del 10 febbraio 2010, al paragrafo 15, con riferimento alle disposizioni contenute nel libro IX degli schemi di codice e di regolamento, osserva testualmente che le disposizioni racchiuse in entrambi gli schemi costituiscono il logico corollario del riassetto operato nei precedenti libri. Nel merito, appaiono rispettose degli specifici criteri direttivi in materia di abrogazione e di codificazione sanciti dall'articolo 14 della legge n. 246 del 2005 e coerenti rispetto ai contenuti delle disposizioni sostanziali riassettate nei libri da I a VIII.
Ci si trova di fronte a pareri articolati e approfonditi recanti anche osservazioni di merito relative alle materie dell'abrogazione disposte dal codice dell'ordinamento militare. Tuttavia, non si rinviene alcun riferimento, diretto o indiretto, alla soppressione o alla sopravvivenza del decreto legislativo n. 43 del 1948. Lo schema di codice, previa ultima diramazione dell'8 marzo 2010, ore 20,02, è stato finalmente approvato in via definitiva da parte del Consiglio dei Ministri il 12 marzo 2010 ed è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale dell'8 maggio 2010, n. 106, con gli estremi di decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66. L'abrogazione del decreto legislativo n. 43 del 1948 risulta definitivamente disposta dal n. 297 dell'articolo 2268 nell'ultimo testo.
Dall'analitica ricostruzione qui effettuata, emerge un unico, inequivoco e dirimente elemento di fatto: l'inclusione tra le abrogazioni espresse del decreto legislativo n. 43 del 1948 risponde ad una scelta effettuata dal comitato tecnico incaricato della redazione dello schema di codice dell'ordinamento militare, scelta che non risulta essere stata mai più modificata. Pertanto, è di evidenza solare che la volontà di procedere a tale abrogazione non appartiene all'ufficio di cui sono responsabile quale Ministro per la semplificazione normativa.
Sono stato accusato di aver mentito al Parlamento, ma i fatti sin qui analiticamente e documentalmente ricostruiti dimostrano che a mentire è stato qualcun altro: il presidente del comitato tecnico, nella sua lettera del 15 ottobre 2010, quando ha candidamente affermato che «nessun componente del comitato scientifico ha proposto o inserito nel relativo elenco l'abrogazione del decreto legislativo n. 43 del 1948» o ignorava cosa fosse avvenuto durante i lavori del comitato, o - il che è molto più grave - ha voluto scientemente attribuite ad altri responsabilità che erano e non possono che rimanere proprie.
L'abrogazione è rimasta ininterrottamente presente, pur tra tante modifiche, in tutte le bozze circolate, cambiando soltanto nel riferimento al numero dell'articolo o al numero dell'elenco delle abrogazioni.
In oltre un anno di iter approvativo ufficiale (da aprile 2009 a maggio 2010), questo errore, o presunto tale, non è stato mai evidenziato né dal comitato tecnico che lo aveva inizialmente inserito, né dagli altri uffici del Ministero, né dalle autorevolissime istituzioni che hanno espresso gli approfonditi pareri di rispettiva competenza.
Ma vi è un'altra circostanza che viene usata come atto d'accusa e che, invece, io credo sia una assoluta testimonianza di buona fede, nonché della correttezza del mio operato. Nelle more dell'iter di perfezionamento del codice militare, entro la fine del 2009, doveva essere emanato, sotto la mia esclusiva competenza, un decreto legislativo che individuasse tutte le disposizioni legislative statali da mantenere in vigore e da sottrarre all'effetto cosiddetto ghigliottina previsto dall'articolo 14, comma 14-ter, della legge n. 246 del 2005. Pag. 134
Ebbene, questo provvedimento, tempestivamente adottato (decreto legislativo 1o dicembre 2009, n. 179), aveva espressamente «salvato» anche il decreto legislativo n. 43 del 1948, ritenendolo - alla stregua di tutte le centinaia di provvedimenti poi definitivamente abrogati con il codice dell'ordinamento militare - una normativa ancora oggetto di valutazione. Lo stesso Ministero della difesa aveva richiesto, per diverse centinaia di leggi, che fossero salvate proprio per poter essere esaminate nel codice delle autonomie. Difatti, lo specifico riferimento compare al n. 1001 dell'allegato 1 al suddetto decreto legislativo, che elenca le normative da mantenere in vigore.
Per dirla molto chiaramente, il decreto legislativo n. 43 del 1948 lo avevo salvato nel dicembre del 2009. Le indagini del processo di Verona che vengono richiamate nella mozione erano iniziate dal 1996: se avessi voluto abrogare quella norma, avrei avuto ben altre sedi e opportunità per farlo e, quindi, appare veramente offensivo attribuirmi oggi una qualunque responsabilità in merito alla sua abrogazione.
Il testo predisposto dal Ministro della difesa è stato approvato successivamente al mio decreto legislativo e - secondo gli ordinari principi di successione delle leggi nel tempo - ha operato un preciso, espresso e consapevole cambiamento di rotta rispetto alla conservazione, in via cautelativa, della norma da me effettuata con il decreto del 1o dicembre 2009.
Questi i fatti ricostruiti alla luce delle risultanze documentali, senza retrospettive e illazioni fantasiose. Di fronte a questa evidenza, non si poteva sostenere che, dopo l'approvazione definitiva del Consiglio dei ministri e addirittura dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, il Governo avrebbe potuto salvare da abrogazione il decreto legislativo n. 43 del 1948 con una semplice «rettifica». Tale rettifica è stata richiesta, per la prima volta, soltanto il 1o ottobre 2010, dopo quasi cinque mesi dalla pubblicazione del codice sulla Gazzetta Ufficiale e dopo un anno e mezzo dell'iniziale inserimento del decreto legislativo n. 43 del 1948 tra le norme da sopprimere.
Detta richiesta non poteva comunque avere seguito, poiché la rettifica (disciplinata dagli articoli da 14 a 17 del decreto del Presidente della Repubblica del 14 marzo 1986, n. 217, recante il regolamento di esecuzione del testo unico delle disposizioni sulla promulgazione delle leggi, sulla emanazione dei decreti del Presidente della Repubblica e sulle pubblicazioni ufficiali della Repubblica italiana) può riguardare soltanto: gli errori di stampa influenti sul contenuto normativo degli atti pubblicati, come dice all'articolo 14; gli errori occorsi nella promulgazione delle leggi o nell'emanazione dei decreti del Presidente della Repubblica per difformità tra il testo pubblicato e quello effettivamente approvato dai competenti organi legislativi (articolo 15);, gli errori non influenti sul contenuto normativo degli atti pubblicati (articolo 17).
Nel nostro caso, come ho ampiamente dimostrato e documentato, il testo pubblicato, recante l'abrogazione in questione, non conteneva errori di stampa (il riferimento normativo è corretto); né errori privi di contenuto normativo (il riferimento è giuridicamente rilevante, poiché dispone l'abrogazione espressa di una normativa salvata solo pochi mesi prima); né tantomeno conteneva errori di promulgazione poiché era identico all'ultimo testo approvato dal Consiglio dei ministri, conformemente al parere del Parlamento e del Consiglio di Stato.
La collega ha fatto riferimento - ricordandomelo - al salvataggio, per esempio, del comune di Campione, ma ricorderà anche che non abbiamo proceduto al salvataggio del comune di Campione con il bianchetto, ma l'intervento è stato inserito in un decreto legislativo correttivo. Su di un dato non vi possano essere dubbi: chiunque intenda oggi emendare la scelta sostanziale sottesa ad un'abrogazione espressa disposta dal codice dell'ordinamento militare non può prescindere dall'unica via istituzionale conforme alla legge di delega approvata dal Parlamento: un iter Pag. 135legislativo identico a quello percorso per approvare il codice ai sensi della legge n. 246 del 2005, ovvero l'adozione di un decreto correttivo, come abbiamo fatto per il comune di Campione, o integrativo del decreto che ha approvato il codice, da inserire magari in uno degli schemi di decreto correttivo che già sono all'esame delle Commissioni parlamentari. Visto che ve ne è uno proprio in questo senso, in questo periodo, basta inserirlo proprio in quella sede.
In circa due anni e mezzo di attività, quale Ministro per la semplificazione normativa non solo ho ridotto il numero di leggi vigenti nel nostro Paese a circa 10 mila - che oggi sono consultabili per prima volta e gratuitamente sul sito www.normativa.it - ma ho eliminato circa 375 mila atti normativi, sia primari che secondari, e introdotto anche centinaia di misure di semplificazione in favore di cittadini e di imprese.
Con l'autorizzazione del Presidente, intendo mettere a disposizione della Presidenza - per chi volesse consultarlo - un documento riassuntivo di tali misure di semplificazione già approvate o proposte, dal quale si evince l'enorme sforzo profuso, gli importanti obiettivi raggiunti elogiati dall'OCSE nel suo rapporto sull'Italia, e un lavoro in progress che sarebbe assurdo fermare proprio ora.
Mi riservo di fare ulteriori rilievi in sede di espressione del parere, tuttavia mi auguro che qualcuno, dopo aver detto che ho dichiarato il falso, voglia prendere atto e consultare i documenti che avrò la possibilità di depositare, perché le parole sono parole e i fatti restano.
Mi dispiace che qualcuno invii lettere dicendo esattamente il contrario, quando la prova provata è esattamente un'altra.
ROBERTO CALDEROLI, Ministro per la semplificazione normativa. Purtroppo, le minacce arrivano, sono giunte anche a me, e ne giungeranno, perché, purtroppo, la mamma degli imbecilli è sempre in attesa; mi scusi per la battuta. Pag. 132
Mi spiace dover intervenire a quest'ora e chiedo scusa, tuttavia, ho ancora la presunzione che le parole possano contare qualcosa in Parlamento, se non ascoltate, perché siamo proprio tra pochi intimi, perlomeno lette; soprattutto, credo che vadano verificati anche gli strumenti di prova, che impropriamente devo produrre in questa sede per vedere se, alla luce di questo, vi siano anche delle riflessioni rispetto alla mozione in oggetto.
Il codice dell'ordinamento militare discende da una delega risalente al novembre del 2005 ed è il frutto di un lavoro intrapreso dal precedente Governo - come hanno detto diversi colleghi - che ha deciso di incaricare della redazione un comitato tecnico istituito con decreto del 29 novembre 2007 del Ministro della difesa pro tempore.
Tra i suoi componenti non vi era, né all'epoca vi poteva essere, alcun rappresentante del sottoscritto quale Ministro per la semplificazione normativa. Detto comitato, insediatosi in data 31 gennaio 2008, è stato confermato senza modifiche dall'attuale Ministro della difesa con decreto del 3 dicembre 2008.
Il testo del provvedimento è stato predisposto dal comitato tecnico. Il suo elaborato è stato ufficialmente consegnato al Ministro della difesa in data 21 aprile 2009, nell'ambito di una cerimonia aperta anche alla stampa ed è stato trasmesso lo stesso giorno, alle ore 19,24, dall'ufficio legislativo del Ministero della difesa, a mezzo posta elettronica istituzionale, al Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei ministri.
Per documentare tale ultimo invio, con l'autorizzazione della Presidenza, metto a disposizione la ricevuta elettronica di avvenuta trasmissione del testo in cui si producono le date, gli orari e la dichiarazione del capo dell'ufficio legislativo, in cui dice: il testo che ho ricevuto è questo, metto a disposizione la ricevuta, l'estratto del verbale che è stato trasmesso e il verbale della riunione plenaria con cui venne consegnato il testo al Ministro della difesa.
In quel primo schema di codice, e sottolineo in quel primo schema di codice, era già presente, nell'ambito dell'elenco delle disposizioni da abrogare espressamente, il decreto legislativo n. 43 del 1948. Risulta, pertanto, per tabulas, che l'inserimento della disposizione da abrogare è stato compiuto dal comitato tecnico che ha predisposto lo schema di codice.
Il giorno dopo la cerimonia di consegna del testo del comitato, ovvero il 22 aprile 2009, la stessa bozza è stata per la prima volta diramata dal Dipartimento affari giuridici e legislativi con posta certificata delle ore 18,43. Quel testo è stato sottoposto a svariate riunioni di coordinamento tra le amministrazione interessate. L'elenco dell'abrogazione è stato più volte modificato in altre parti nel corso del successivo iter, ma l'abrogazione del decreto legislativo n. 43 del 1948 non è stata mai, sottolineo mai, posta in discussione ed è rimasta una costante di tutte le successive versioni trasmesse dal Ministero della difesa alle amministrazioni coproponenti e concertanti.
Lo schema è stato nuovamente diramato con posta certificata dal Dipartimento affari giuridici e legislativi a tutti i Ministeri il 25 novembre 2009 ed è stato approvato in via preliminare dal Consiglio dei Ministri in data 11 dicembre 2009. Entrambi i testi, quello diramato e approvato, recavano l'abrogazione del decreto legislativo n. 43 contenuta al n. 297, rispettivamente, dell'articolo 2256 del testo diramato e dell'articolo 2258 del testo approvato e inviato al Consiglio di Stato e alle Camere per i prescritti pareri.
L'indicazione soppressiva del decreto n. 43 non ha subìto modifiche neppure nel seguito dell'iter approvativo, né sullo specifico punto sono state formulate osservazioni da parte delle competenti Commissioni parlamentari (Commissione difesa del Senato con il suo parere del 27 gennaio 2010), né specifiche osservazioni sono state rese dal Consiglio di Stato (Commissione speciale difesa, parere del 10 febbraio 2010). A tale proposito, deve esser opportunamente evidenziato come i suddetti organi consultivi, in sede di espressione Pag. 133dei pareri di competenza, abbiano più volte preso in considerazione la norma relativa alle abrogazioni espresse contenute nel codice sotto molteplici profili, nulla osservando, però, in relazione alla specifica soppressione del decreto legislativo n. 43 del 1948; ad esempio, la Commissione difesa ha rilevato la necessità di un coordinamento tra l'articolo 2268 e le proroghe contenute nell'articolo 4, comma 3, del decreto-legge n. 194 del 2009 in tema di reclutamento e stato giuridico degli ufficiali dell'Arma dei carabinieri; del pari, il Consiglio di Stato, nel parere rilasciato nell'adunanza del 10 febbraio 2010, al paragrafo 15, con riferimento alle disposizioni contenute nel libro IX degli schemi di codice e di regolamento, osserva testualmente che le disposizioni racchiuse in entrambi gli schemi costituiscono il logico corollario del riassetto operato nei precedenti libri. Nel merito, appaiono rispettose degli specifici criteri direttivi in materia di abrogazione e di codificazione sanciti dall'articolo 14 della legge n. 246 del 2005 e coerenti rispetto ai contenuti delle disposizioni sostanziali riassettate nei libri da I a VIII.
Ci si trova di fronte a pareri articolati e approfonditi recanti anche osservazioni di merito relative alle materie dell'abrogazione disposte dal codice dell'ordinamento militare. Tuttavia, non si rinviene alcun riferimento, diretto o indiretto, alla soppressione o alla sopravvivenza del decreto legislativo n. 43 del 1948. Lo schema di codice, previa ultima diramazione dell'8 marzo 2010, ore 20,02, è stato finalmente approvato in via definitiva da parte del Consiglio dei Ministri il 12 marzo 2010 ed è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale dell'8 maggio 2010, n. 106, con gli estremi di decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66. L'abrogazione del decreto legislativo n. 43 del 1948 risulta definitivamente disposta dal n. 297 dell'articolo 2268 nell'ultimo testo.
Dall'analitica ricostruzione qui effettuata, emerge un unico, inequivoco e dirimente elemento di fatto: l'inclusione tra le abrogazioni espresse del decreto legislativo n. 43 del 1948 risponde ad una scelta effettuata dal comitato tecnico incaricato della redazione dello schema di codice dell'ordinamento militare, scelta che non risulta essere stata mai più modificata. Pertanto, è di evidenza solare che la volontà di procedere a tale abrogazione non appartiene all'ufficio di cui sono responsabile quale Ministro per la semplificazione normativa.
Sono stato accusato di aver mentito al Parlamento, ma i fatti sin qui analiticamente e documentalmente ricostruiti dimostrano che a mentire è stato qualcun altro: il presidente del comitato tecnico, nella sua lettera del 15 ottobre 2010, quando ha candidamente affermato che «nessun componente del comitato scientifico ha proposto o inserito nel relativo elenco l'abrogazione del decreto legislativo n. 43 del 1948» o ignorava cosa fosse avvenuto durante i lavori del comitato, o - il che è molto più grave - ha voluto scientemente attribuite ad altri responsabilità che erano e non possono che rimanere proprie.
L'abrogazione è rimasta ininterrottamente presente, pur tra tante modifiche, in tutte le bozze circolate, cambiando soltanto nel riferimento al numero dell'articolo o al numero dell'elenco delle abrogazioni.
In oltre un anno di iter approvativo ufficiale (da aprile 2009 a maggio 2010), questo errore, o presunto tale, non è stato mai evidenziato né dal comitato tecnico che lo aveva inizialmente inserito, né dagli altri uffici del Ministero, né dalle autorevolissime istituzioni che hanno espresso gli approfonditi pareri di rispettiva competenza.
Ma vi è un'altra circostanza che viene usata come atto d'accusa e che, invece, io credo sia una assoluta testimonianza di buona fede, nonché della correttezza del mio operato. Nelle more dell'iter di perfezionamento del codice militare, entro la fine del 2009, doveva essere emanato, sotto la mia esclusiva competenza, un decreto legislativo che individuasse tutte le disposizioni legislative statali da mantenere in vigore e da sottrarre all'effetto cosiddetto ghigliottina previsto dall'articolo 14, comma 14-ter, della legge n. 246 del 2005. Pag. 134
Ebbene, questo provvedimento, tempestivamente adottato (decreto legislativo 1o dicembre 2009, n. 179), aveva espressamente «salvato» anche il decreto legislativo n. 43 del 1948, ritenendolo - alla stregua di tutte le centinaia di provvedimenti poi definitivamente abrogati con il codice dell'ordinamento militare - una normativa ancora oggetto di valutazione. Lo stesso Ministero della difesa aveva richiesto, per diverse centinaia di leggi, che fossero salvate proprio per poter essere esaminate nel codice delle autonomie. Difatti, lo specifico riferimento compare al n. 1001 dell'allegato 1 al suddetto decreto legislativo, che elenca le normative da mantenere in vigore.
Per dirla molto chiaramente, il decreto legislativo n. 43 del 1948 lo avevo salvato nel dicembre del 2009. Le indagini del processo di Verona che vengono richiamate nella mozione erano iniziate dal 1996: se avessi voluto abrogare quella norma, avrei avuto ben altre sedi e opportunità per farlo e, quindi, appare veramente offensivo attribuirmi oggi una qualunque responsabilità in merito alla sua abrogazione.
Il testo predisposto dal Ministro della difesa è stato approvato successivamente al mio decreto legislativo e - secondo gli ordinari principi di successione delle leggi nel tempo - ha operato un preciso, espresso e consapevole cambiamento di rotta rispetto alla conservazione, in via cautelativa, della norma da me effettuata con il decreto del 1o dicembre 2009.
Questi i fatti ricostruiti alla luce delle risultanze documentali, senza retrospettive e illazioni fantasiose. Di fronte a questa evidenza, non si poteva sostenere che, dopo l'approvazione definitiva del Consiglio dei ministri e addirittura dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, il Governo avrebbe potuto salvare da abrogazione il decreto legislativo n. 43 del 1948 con una semplice «rettifica». Tale rettifica è stata richiesta, per la prima volta, soltanto il 1o ottobre 2010, dopo quasi cinque mesi dalla pubblicazione del codice sulla Gazzetta Ufficiale e dopo un anno e mezzo dell'iniziale inserimento del decreto legislativo n. 43 del 1948 tra le norme da sopprimere.
Detta richiesta non poteva comunque avere seguito, poiché la rettifica (disciplinata dagli articoli da 14 a 17 del decreto del Presidente della Repubblica del 14 marzo 1986, n. 217, recante il regolamento di esecuzione del testo unico delle disposizioni sulla promulgazione delle leggi, sulla emanazione dei decreti del Presidente della Repubblica e sulle pubblicazioni ufficiali della Repubblica italiana) può riguardare soltanto: gli errori di stampa influenti sul contenuto normativo degli atti pubblicati, come dice all'articolo 14; gli errori occorsi nella promulgazione delle leggi o nell'emanazione dei decreti del Presidente della Repubblica per difformità tra il testo pubblicato e quello effettivamente approvato dai competenti organi legislativi (articolo 15);, gli errori non influenti sul contenuto normativo degli atti pubblicati (articolo 17).
Nel nostro caso, come ho ampiamente dimostrato e documentato, il testo pubblicato, recante l'abrogazione in questione, non conteneva errori di stampa (il riferimento normativo è corretto); né errori privi di contenuto normativo (il riferimento è giuridicamente rilevante, poiché dispone l'abrogazione espressa di una normativa salvata solo pochi mesi prima); né tantomeno conteneva errori di promulgazione poiché era identico all'ultimo testo approvato dal Consiglio dei ministri, conformemente al parere del Parlamento e del Consiglio di Stato.
La collega ha fatto riferimento - ricordandomelo - al salvataggio, per esempio, del comune di Campione, ma ricorderà anche che non abbiamo proceduto al salvataggio del comune di Campione con il bianchetto, ma l'intervento è stato inserito in un decreto legislativo correttivo. Su di un dato non vi possano essere dubbi: chiunque intenda oggi emendare la scelta sostanziale sottesa ad un'abrogazione espressa disposta dal codice dell'ordinamento militare non può prescindere dall'unica via istituzionale conforme alla legge di delega approvata dal Parlamento: un iter Pag. 135legislativo identico a quello percorso per approvare il codice ai sensi della legge n. 246 del 2005, ovvero l'adozione di un decreto correttivo, come abbiamo fatto per il comune di Campione, o integrativo del decreto che ha approvato il codice, da inserire magari in uno degli schemi di decreto correttivo che già sono all'esame delle Commissioni parlamentari. Visto che ve ne è uno proprio in questo senso, in questo periodo, basta inserirlo proprio in quella sede.
In circa due anni e mezzo di attività, quale Ministro per la semplificazione normativa non solo ho ridotto il numero di leggi vigenti nel nostro Paese a circa 10 mila - che oggi sono consultabili per prima volta e gratuitamente sul sito www.normattiva.it - ma ho eliminato circa 375 mila atti normativi, sia primari che secondari, e introdotto anche centinaia di misure di semplificazione in favore di cittadini e di imprese.
Con l'autorizzazione del Presidente, intendo mettere a disposizione della Presidenza - per chi volesse consultarlo - un documento riassuntivo di tali misure di semplificazione già approvate o proposte, dal quale si evince l'enorme sforzo profuso, gli importanti obiettivi raggiunti elogiati dall'OCSE nel suo rapporto sull'Italia, e un lavoro in progress che sarebbe assurdo fermare proprio ora.
Mi riservo di fare ulteriori rilievi in sede di espressione del parere, tuttavia mi auguro che qualcuno, dopo aver detto che ho dichiarato il falso, voglia prendere atto e consultare i documenti che avrò la possibilità di depositare, perché le parole sono parole e i fatti restano.
Mi dispiace che qualcuno invii lettere dicendo esattamente il contrario, quando la prova provata è esattamente un'altra.

PRESIDENTE. Signor Ministro, come lei sa, il materiale che intende depositare presso la Presidenza sarà visionabile dai colleghi che vorranno farlo ma non sarà pubblicato in calce al resoconto della seduta.
Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Ordine del giorno della seduta di domani.

PRESIDENTE. Comunico l'ordine del giorno della seduta di domani.

Martedì 23 novembre 2010, alle 10:

1. - Discussione del disegno di legge:
Ratifica ed esecuzione del Protocollo che modifica il Protocollo sulle disposizioni transitorie allegato al Trattato sull'Unione europea, al Trattato sul funzionamento dell'Unione europea e al Trattato che istituisce la Comunità europea dell'energia atomica, fatto a Bruxelles il 23 giugno 2010. Procedura per l'assegnazione all'Italia del seggio supplementare nel Parlamento europeo (C. 3834-A).
- Relatori: Calderisi, per la I Commissione; Migliori, per la III Commissione.

2. - Seguito della discussione del disegno di legge (previo esame e votazione della questione pregiudiziale di costituzionalità presentata):
S. 1905 - Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l'efficienza del sistema universitario (Approvato dal Senato) (C. 3687-A)
e delle abbinate proposte di legge: TASSONE ed altri; GHIZZONI ed altri; BARBIERI; GRIMOLDI ed altri; BARBIERI; MARIO PEPE (PdL); NARDUCCI ed altri; GRASSI ed altri; PICIERNO; FUCCI ed altri; GARAGNANI ed altri; GARAVINI ed altri; FIORONI ed altri; GOISIS; CARLUCCI; LA LOGGIA ed altri; LORENZIN ed altri; ANNA TERESA FORMISANO (C. 591-1143-1154-1276-1397-1578-1828-1841-2218-2220-2250-2330-2458-2460-2726-2748-2841-3408).
- Relatori: Frassinetti, per la maggioranza; Nicolais, di minoranza.

Pag. 136

3. - Seguito della discussione della proposta di legge:
ANTONINO FOTI ed altri: Interventi per agevolare la libera imprenditorialità e per il sostegno del reddito (C. 2424-A)
e dell'abbinata proposta di legge: JANNONE (C. 3089).
- Relatore: Antonino Foti.

4. - Seguito della discussione della mozione Di Pietro ed altri n. 1-00475 concernente revoca di deleghe al Ministro per la semplificazione normativa, senatore Roberto Calderoli.

5. - Seguito della discussione delle mozioni Bocchino ed altri n. 1-00436, Giulietti, Zaccaria, Tabacci, Evangelisti, Nicco ed altri n. 1-00441, Sardelli ed altri n. 1-00496, Lo Monte ed altri n. 1-00503 e Cicchitto ed altri n. 1-00504 concernenti iniziative per la tutela della qualità e del pluralismo dell'informazione nel servizio pubblico radiotelevisivo, con particolare riferimento al contratto di servizio.

6. - Seguito della discussione delle mozioni Bersani ed altri n. 1-00471, Borghesi ed altri n. 1-00497, Cicchitto ed altri n. 1-00499, Galletti ed altri n. 1-00500, Reguzzoni ed altri n. 1-00501, Commercio ed altri n. 1-00502 e Sardelli ed altri 1-00505 concernenti iniziative in materia di riforma del sistema fiscale.

7. - Seguito della discussione della proposta di legge costituzionale:
Donadi ed altri: Modifiche agli articoli 114, 117, 118, 119, 120, 132 e 133 della Costituzione, in materia di soppressione delle province (C. 1990)
e delle abbinate proposte di legge costituzionale: CASINI ed altri; PISICCHIO (C. 1989-2264).
- Relatore: Bruno.

La seduta termina alle 22,10.

CONSIDERAZIONI INTEGRATIVE DELLA RELAZIONE DEL DEPUTATO PAOLA FRASSINETTI IN SEDE DI DISCUSSIONE SULLE LINEE GENERALI DEL DISEGNO DI LEGGE N. 3687-A

PAOLA FRASSINETTI, Relatore per la maggioranza. Con un emendamento proposto dal relatore, allo scopo di premiare il merito e le performance organizzative, vengono attribuite al Nucleo di valutazione, in raccordo con l'ANVUR, le funzioni previste dall'articolo 14 del decreto legislativo 150/09 proprie dell'«Organismo indipendente di valutazione della performance» che verifica e monitora le performance di ogni Pubblica Amministrazione.
Al fine di rafforzare l'internazionalizzazione, è prevista l'attivazione di insegnamenti e prove di selezione impartiti in lingua straniera.
Per le università a statuto speciale, che presentano particolari esigenze e peculiarità, al fine di snellire le disposizioni in materia di governance, con un emendamento del relatore si è stabilito che queste possano adottare, senza ulteriori oneri per la finanza pubblica, proprie modalità di organizzazione sempre nel rispetto dei principi di trasparenza, semplificazione ed efficacia.
Per le università ancora prive di codice etico è prevista l'adozione, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, di un codice della comunità universitaria costituita dal personale docente e ricercatore, dal personale tecnico-amministrativo e dagli studenti dell'ateneo.
L'articolo 2, comma 10-bis, introdotto da un emendamento del relatore, al fine di assicurare una maggiore semplificazione ed efficienza delle attività, dispone che l'elettorato passivo per le cariche accademiche sia riservato ai docenti che assicurano un numero di anni di servizio almeno pari alla durata del mandato prima del collocamento a riposo; la norma allinea l'accesso alle cariche accademiche alla Pag. 137disciplina già prevista per gli incarichi giudiziari al fine di garantire una più funzionale gestione degli atenei.
Per quanto riguarda l'articolo 3, al comma 3, un emendamento dell'opposizione ha introdotto la previsione che i fondi risultanti dai risparmi prodotti dalla realizzazione della federazione o fusione degli atenei possano restare nella disponibilità degli atenei che li hanno prodotti, purché indicati nel progetto e approvati dal Ministero.
Per quanto riguarda l'articolo 4 inerente al Fondo per il merito, è stato novellato da un emendamento del relatore che, al fine di promuovere e premiare la meritocrazia, raccogliendo al contempo le diverse esortazioni provenienti da varie componenti di rappresentanza degli studenti, ha escluso dall'obbligo della restituzione dei buoni studio gli studenti che abbiano conseguito il titolo di studio entro i termini di durata normale del corso e con il massimo dei voti, anche se nei limiti delle risorse disponibili sul Fondo.
Inoltre, allo scopo di allargare i beneficiari dei premi studio, un emendamento dell'opposizione ha previsto l'erogazione di detti premi anche per le esperienze di formazione svolte presso università e centri di ricerca di Paesi esteri.
Per quanto riguarda l'articolo 5 inerente delega in materia di interventi per la qualità e l'efficienza del sistema universitario, una modifica proposta dall'opposizione, alla lett. a) del comma 3, ha previsto un sistema di accreditamento delle sedi e dei corsi universitari fondato sull'utilizzazione di specifici indicatori definiti ex ante dall'ANVUR sulla base anche dell'attivazione di corsi di studio e prove selettive impartiti in lingua straniera circoscritto dalla Commissione Bilancio nei limiti delle risorse umane finanziarie e strumentali disponibili
Si dispone su proposta dell'opposizione che nell'esercizio della delega per la valorizzazione della qualità ed efficienza, il sistema di valutazione delle Università debba essere coerente con quanto concordato in ambito europeo.
Per quanto riguarda l'articolo 6 concernente lo stato giuridico dei professori e dei ricercatori di ruolo, emendato su proposta della maggioranza, al comma 3 si è disposto che ai ricercatori di ruolo che svolgono attività curriculare, nei limiti delle disponibilità di bilancio di ciascun ateneo, venga corrisposta una retribuzione aggiuntiva. Allo stesso comma 3, con una modifica proposta dal relatore, è stato previsto che i ricercatori che hanno svolto corsi e moduli curriculari possano utilizzare il titolo di professore aggregato non solo per il periodo di durata del corso ma per tutto l'anno accademico in cui detti corsi si siano tenuti.
Inoltre con un emendamento del PD si prevede che i docenti e i ricercatori a tempo pieno possano svolgere attività esterne e di consulenza, anche retribuite, purché in maniera saltuaria e per una durata limitata.
Per quanto riguarda l'articolo 14 in riferimento alla disciplina dei crediti formativi, con un emendamento della maggioranza è stato concesso alle università di riconoscere quali crediti formativi il conseguimento da parte dello studente di medaglia olimpica o paraolimpica o titolo di campione assoluto in ambito mondiale, europeo o nazionale.
Per quanto riguarda 1'articolo 16, alla lettera a-bis), comma 3, viene introdotta con emendamento del relatore la possibilità di fissare con decreto ministeriale un numero massimo di pubblicazioni che il candidato potrà presentare ai fini della valutazione per il conseguimento dell'abilitazione scientifica nazionale. In ogni caso tali pubblicazioni non potranno essere di numero inferiore a dodici.
Per quanto riguarda l'articolo 17, la lettera d, novellata da un emendamento del relatore, consente ai professori di seconda fascia di poter partecipare alle votazioni per la chiamata dei professori appartenenti alla seconda fascia, prima riservata solamente ai professori di prima fascia. inoltre è anche intervenuta una modifica per la quale per le procedure di chiamata dei professori di prima e di seconda fascia possono partecipare anche Pag. 138studiosi che lavorano all'estero e che ricoprono posizioni di pari livello a quelle indicate dal bando, secondo determinate tabelle di corrispondenza definite dal MIUR e aggiornate ogni tre anni.
Con modifica del relatore è stato introdotto l'articolo 17-bis recante disposizioni in materia di dottorato di ricerca. Per meglio precisare si consente, previo accreditamento dal parte del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, che università qualificate e istituzioni italiane di formazione e ricerca di livello post laurea possano attivare corsi di dottorato di ricerca secondo un proprio regolamento; si prevede una maggiore flessibilità nella determinazione del numero massimo delle borse di studio e dei contratti di apprendistato da assegnare la cui determinazione è rimessa ad un decreto del Ministro; si stabilisce inoltre che i pubblici dipendenti possano usufruire una sola volta del collocamento in congedo straordinario retribuito per la frequenza del dottorato di ricerca.
Per quanto riguarda l'articolo 18 viene introdotto l'articolo 18-bis da un emendamento del Presidente della Commissione Cultura, al fine di promuovere la qualità della ricerca e assicurare il buon funzionamento delle procedure di valutazione tra pari, si istituisce il Comitato nazionale dei garanti per la ricerca composto da sette studiosi, italiani o stranieri, nominati dal Ministro dell'istruzione, dell'università e ricerca, che abbiano una elevata qualificazione scientifica internazionale.
Per quanto riguarda l'articolo 19 si stabilisce, grazie ad un emendamento del relatore, che la durata dei rapporti di lavoro a tempo determinato nelle università non possa essere superiore a 12 anni.
Inoltre, è stato recepito quanto espresso dal parere della Commissione Bilancio, anche in considerazione di un'osservazione formulata dal Ministero dell'Economia e delle Finanze in sede di verifica della relazione tecnica del disegno di legge approvato al Senato ed è stato chiarito che alle titolari degli assegni di ricerca durante i periodi di astensione obbligatoria di maternità spetta un'integrazione della specifica indennità corrisposta dall'INPS.
Per quanto riguarda l'articolo 20 è stato approvato un emendamento dell'opposizione che consente alle università di stipulare contratti per attività di insegnamento con esperti che siano dipendenti da altre amministrazioni, enti o imprese, ovvero titolari di pensione, ovvero lavoratori autonomi in possesso di un reddito annuo non inferiore a 40.000 euro lordi.
Per quanto riguarda l'articolo 21, novellato da un emendamento del relatore, consente a coloro che non riescano ad accedere alla fascia di docenza dopo l'espletamento dei contratti di tre anni prorogabili di altri due, e dei successivi contratti triennali, previsti rispettivamente dalle lettere a) e b), comma 3 dell'articolo 21, di godere di un titolo preferenziale per l'accesso alle Pubbliche Amministrazioni.
Per quanto riguarda l'articolo 25 modificato con emendamento del relatore, sono state apportate una serie di sostanziali modifiche: il comma 2-bis modifica la disciplina relativa alla formazione delle commissioni giudicatrici nelle procedure di valutazione comparativa per il reclutamento dei professori universitari di I e II fascia in corso, al fine di sbloccare quelle procedure per le quali non è stato possibile procedere alla formazione delle commissioni per l'esiguo numero o per l'assenza di professori ordinari appartenenti al settore oggetto del bando. La norma consente il sorteggio diretto dei commissari (senza l'elezione), nel caso in cui il numero dei professori ordinari appartenenti al settore oggetto del bando sia inferiore a quattro.
Il comma 3 è stato modificato per consentire la chiamata degli idonei nelle procedure di valutazione comparativa per il reclutamento di professori ordinari o associati, svoltesi secondo la vecchia disciplina (legge 210 del 1998 e successivi provvedimenti di reviviscenza), nel caso in cui l'università che ha emesso il bando, pur avendo proceduto alla chiamata dell'idoneo, si trovi nelle condizioni di non poterlo assumere: viene introdotto un limite Pag. 139di tempo (90 giorni) per l'effettiva presa di servizio dell'idoneo chiamato, decorso il quale, il soggetto stesso può essere chiamato da altre università senza precludere la possibilità per l'università banditrice di procedere all'assunzione ove verificatesi le condizioni richieste dalla normativa vigente.
Il comma 10-ter modifica l'articolo 6, comma 12, del decreto-legge n. 78 del 2010, al fine di autorizzare le università e gli enti di ricerca ad effettuare spese per missioni oltre il limite stabilito, a condizione che tali ulteriori spese siano collegate allo svolgimento di attività istituzionali previste a legislazione vigente e che vengano utilizzate risorse derivanti da finanziamenti dell'Unione Europea ovvero di soggetti privati. Il comma 10-quater prevede la cessazione del mandato dei componenti dell'organo direttivo e del Presidente dell'ANVUR al compimento del settantesimo anno di età.
Il comma 10-quinquies stabilisce le regole da attuare nel caso in cui l'ANVUR non abbia provveduto in tempo utile a formulare la lista di studiosi ed esperti in servizio al'estero.
Il comma 10-sexies modifica le quote di personale universitario che gli atenei possono assumere ciascun anno con le risorse a disposizione, prevedendo che ciascuna università destini le predette risorse per una quota non inferiore al 50 per cento (anziché 60) all'assunzione dei ricercatori e per una quota non superiore al 20 per cento (anziché 120) all'assunzione di professori ordinari.
Il comma 11-bis, introdotto in seguito al parere della Commissione bilancio, procede alla redazione della clausola di salvaguardia, ai sensi dell'articolo 17, comma 12, della legge 196 del 2009 per la copertura di eventuali scostamenti rispetto alla previsione di spesa prevista dall'applicazione del disposto di cui all'articolo 19, comma 5, inerente l'integrazione della specifica indennità corrisposta dall'INPS alle titolari degli assegni di ricerca durante i periodi di astensione obbligatoria per maternità. A tal scopo il Ministro dell'istruzione, università e ricerca provvede al monitoraggio dei relativi oneri e riferisce in merito al Ministro dell'economia e delle finanze che, nel caso di scostamenti di spesa rispetto alle previsioni, adotta le misure previste nella clausola di salvaguardia e riferisce alle Camere con apposita relazione.
In conclusione, intendo svolgere anche qualche breve riflessione su questo disegno di legge che ha suscitato un grande interesse a dimostrazione, finalmente, di una crescente attenzione intorno alle sorti dei livelli più alti della nostra formazione.
Parole di apprezzamento sono venute da tanti ambienti accademici, dalla Conferenza dei Rettori, dal mondo dell'impresa, dal mondo universitario sano (quel mondo universitario che non teme la sfida della qualità), dal mondo del lavoro che ha bisogno di giovani laureati, qualificati e preparati, da organi di stampa non ascrivibili al centro-destra e tutti sono concordi nell'individuare in questa riforma un momento di discontinuità con il passato, il tentativo finalmente di mettere mano a modifiche strutturali e organiche dopo trent'anni di tentativi di aggiustamenti frammentari e disarticolati.
Certo se diamo uno sguardo allo scenario più generale vediamo un'università devastata da proteste, manifestazioni, scioperi di studenti, ricercatori e docenti con la particolarità che si percepisce in queste proteste tanta pretestuosità e tanta voglia di conservare gli usurati meccanismi del nepotismo e degli sprechi ingiustificati che di questo stato di cose sono i principali responsabili. Una protesta «a prescindere» che sottintende l'intenzione di lasciare le cose come stanno, senza la volontà di presentare alcuna proposta alternativa.
Eppure mai come in questa legge sono presenti gli strumenti per riqualificare il nostro sistema universitario: la modifica della governance interna per migliorare la gestione e la trasparenza, la possibilità per gli atenei di federarsi, la previsione di istituire un fondo per il merito per gli studenti capaci e meritevoli, il nuovo reclutamento con il conseguimento di un'abilitazione nazionale, l'individuazione Pag. 140di un percorso per indurre i giovani ricercatori ad ottenere un contratto a tempo determinato, la ristrutturazione delle vecchie facoltà per favorire i dipartimenti incentivando in modo omogeneo didattica e ricerca.
Le critiche più diffuse avanzate dalla sinistra riguardano l'eccesso di dirigismo che sarebbe presente nel provvedimento, il presunto pericolo della privatizzazione e i cosiddetti tagli indiscriminati.
L'accusa di eccesso di dirigismo è a parer mio ingiustificata in quanto la normativa così dettagliata dipende dall'attuale inoperatività del sistema valutativo che costringe ad una regolamentazione alquanto stringente; va da sé che quando la valutazione, come avviene in altre nazioni, sarà attivata di conseguenza si alleggerirà il sistema e aumenterà conseguentemente l'autonomia. L'impianto della riforma va già nella direzione dell'autonomia virtuosa ed infatti c'è la possibilità che gli atenei virtuosi sperimentino proprie modalità di organizzazione e gestione, c'è la facoltà data agli atenei medi e piccoli di semplificare ulteriormente la struttura interna, oltre all'eliminazione di macchinose procedure elettive per la formazione delle commissioni di concorso e la completa libertà data agli atenei di regolare, come meglio credono, le procedure di chiamata, selezione e promozione.
Anche le accuse di privatizzazione mi sembrano del tutto ingiustificate in quanto, a meno che non si voglia imputare il processo di privatizzazione alla presenza di tre membri esterni nel consiglio d'amministrazione, non si scorgono nel provvedimento derive privatistiche di alcun genere.
Ha invece un suo fondamento la preoccupazione sulla mancanza di risorse che minaccia la possibilità di riqualificazione del nostro sistema universitario. Anche se, su questo punto, mi pare importante sottolineare che l'attuale situazione di emergenza e il numero consistente di ricercatori « precarizzati» dipendano da politiche sbagliate messe in atto soprattutto negli anni settanta-ottanta quando si tendeva a garantire a tutti la progressione di carriera ope legis e dove è iniziata la politica degli sprechi indiscriminati che ha portato la nostra università sull'orlo del collasso. Per quanto riguarda la soluzione al problema dei ricercatori, mi riporto a quanto già detto sulle risorse presenti nella legge di stabilità.
Credo che a nessuno possa sfuggire l'incidenza che anche in questo settore così nevralgico per il nostro sviluppo abbia avuto la crisi economica e questo accade anche in Inghilterra, nazione che viene sempre indicata ad esempio per la qualità del sistema universitario.
Approvare questa riforma è un primo significativo passo per creare le premesse necessarie per riportare la nostra università ad occupare nel mondo la posizione di prestigio che le compete in considerazione delle sue gloriose tradizioni storiche. Inoltre ritengo che in questo provvedimento si intraveda un filo rosso che lega concetti fondamentali quali il merito, la trasparenza e la qualità, principi essenziali per superare lo status quo che ha portato il nostro sistema universitario, molte volte imprigionato in logiche contorte e burocratiche, al collasso.
Siamo di fronte ad una riforma strutturale dell'università e mi emoziona pensare che il buon esito della stessa dipenderà dalla nostra attività parlamentare; abbiamo la possibilità ed il dovere di restituire ai nostri giovani ed al mondo del lavoro la consapevolezza che attraverso lo studio e la ricerca si possano risolvere problemi, affrontare innovazione e progresso in una Nazione che riscopra il gusto di far corrispondere il successo all'impegno, al senso di responsabilità e al merito.

CONSIDERAZIONI INTEGRATIVE DELL'INTERVENTO DEL DEPUTATO LUISA CAPITANIO SANTOLINI IN SEDE DI DISCUSSIONE SULLE LINEE GENERALI DEL DISEGNO DI LEGGE N. 3687-A

LUISA CAPITANIO SANTOLINI. È vero che ci sono molte distorsioni nel sistema universitario accumulatesi negli anni ed è vero che qualcuno voleva cambiare perché Pag. 141non cambiasse nulla con le famose rendite di posizione: tuttavia è semplicistico ricondurre al cosiddetto baronato tutte le responsabilità di un sistema che non ha saputo rinnovarsi.
Il MIUR, il mondo produttivo e gli Enti locali hanno le loro responsabilità e se non si cambia mentalità la riforma è destinata a fallire. Un esempio può essere dato dall'analisi delle disposizioni che hanno introdotto i principi di allocazione e programmazione delle risorse in base al merito. Sin dal 1999 si chiede agli Atenei di programmare le attività entro il mese di luglio per consentire al MIUR di allocare le risorse in base ai programmi per l'anno successivo. Siamo a novembre 2010 e nonostante gli Atenei abbiano elaborato i programmi per il 2010 nel 2009, ancora oggi a fine esercizio non sanno l'esatto ammontare del FFO per il 2010! Un accentramento preoccupante e assenza di responsabilità. Altro esempio: il MIUR dal 2006 ha di fatto bloccato i comitati di valutazione esistenti dalla fine degli anni novanta (CIVR e CNVSU), in diversi casi ha rimandato le erogazioni di risorse per i Progetti di ricerca di base, nazionali e di ricerca e competitività, altre volte ha allocato risorse senza tener conto dei risultati distribuendo nel corso dell'esercizio finanziario le risorse con il contagocce sotto forma di anticipazioni di cassa. Infine ora nella riforma mancano le norme che vincolino anche il MIUR a rispettare tempi e procedure e vi è il sospetto, se non la certezza, che la elefantiasi del ministero ricadrà sul corretto andamento del sistema.
Altro esempio di inefficienza: che fine hanno fatto gli svariati miliardi di euro per il Programma operativo nazionale competitività e ricerca 2007-2013, che avrebbero dato alle Università e agli Enti di ricerca e alle imprese del Meridione uno slancio straordinario e che rischiamo di restituire a Bruxelles?
Non si mettono regole per la inefficienza del Ministero e il tutto dipenderà da due Ministeri che avranno in pugno l'Università italiana. Invocare il senso di responsabilità di tutti è un obbligo ma lo diciamo solo noi.
Risorse. Un capitolo doloroso e il peccato originale di tutta la riforma. Il resto del mondo e l'Europa investono sui saperi e l'Italia risparmia. Viene da chiedersi: sono virtuosi o irresponsabili i Ministri del Governo? Ho l'impressione che il disegno di legge non miri alla manutenzione, alla razionalizzazione e al rilancio dell'esistente, ma al risparmio sulla voce cultura. È un arretramento rispetto al possibile sviluppo qualitativo delle Università italiane se è vero che esse sono l'asse portante dello sviluppo culturale ed economico e se è vero che esse hanno una funzione sociale strategica. Nel mese di giugno i Governi UE hanno ribadito l'impegno ad investire anche in un momento di crisi approvando il programma della Commissione europea 2020: la risposta del Governo italiano è stata quella di ridurre il FFO con il DL 112/2008 e di intervenire pesantemente sugli stipendi dei docenti e in maniera permanente. Una parte delle risorse sottratte viene restituita ora al FFO da Tremonti, che però impone una riforma come condizione per recuperare parte dei soldi sottratti (800 milioni di euro su 1 miliardo e 500 milioni).
La mia idea è che le riforme a costo zero sono impensabili. Qui addirittura si sottrae.
Reclutamento e carriera dei docenti: siamo d'accordo sull'abilitazione nazionale, ma i ricercatori sono in agitazione da mesi e hanno le loro ragioni: coloro che sono assunti a tempo indeterminato avranno difficoltà a diventare associati perché «possono» essere valutati ed eventualmente chiamati mentre i ricercatori al termine della tenure track hanno il diritto di essere valutati ed è anche previsto che per questi ultimi ci siano risorse certe e stanziate, mentre per coloro che oggi sono in servizio, insegnano e svolgono attività di ricerca, le risorse relative non sono previste. È chiaro che nei loro confronti c'è una discrezionalità che i ricercatori al Pag. 142termine del tre più tre non hanno e sono comprensibili il loro disagio e la loro preoccupazione.
Inoltre i ricercatori al termine del percorso tenure track non verranno chiamati ope legis (e ciò è giusto) ma in caso di mancata chiamata non hanno alternative accettabili perché è chiaro che essere riciclati nella pubblica amministrazione non sarà possibile per tutti, vista l'alta specializzazione delle competenze. Si rischia così un precariato al termine di 8 o 10 anni di studi!
Non è questa la sede per entrare nel merito del provvedimento, cosa che faremo durante la votazione degli emendamenti, ma è chiaro che ci sono decine di migliaia di persone, i migliori cervelli del Paese che si sentono abbandonati e non vedono soluzioni condivisibili.
In conclusione, non si può fare una riforma con la pregiudiziale delle risorse che hanno svuotato ogni pur encomiabile desiderio di cambiare.
Noi vorremmo, in conclusione, una proposta più coraggiosa che risolvesse i problemi di fondo, meritocrazia vera, una valutazione che funzioni davvero, gli Atenei messi in condizione di fare programmazione, collaborazione tra pubblico e privato, certezza dei finanziamenti, responsabilità condivise ma ruoli distinti e chiari, carriere lineari e un futuro per i famosi cervelli, che poi sono i nostri figli, che vanno all'estero. Invece, purtroppo, siamo in procinto di fare un salto nel buio senza risposte. Noi non possiamo condividere questa riforma per questioni di metodo e di merito perché non risolverà i gravi problemi che si sono accumulati sulle università.

TESTO INTEGRALE DELL'INTERVENTO DEI DEPUTATI EUGENIO MAZZARELLA E WALTER TOCCI IN SEDE DI DISCUSSIONE SULLE LINEE GENERALI DEL DISEGNO DI LEGGE N. 3687-A

EUGENIO MAZZARELLA. La necessità di un intervento urgente ed efficace sull'università italiana, per sovvenire ai problemi che certo vive, ma anche per potenziarne quanto di buono, ed è tanto, in essa c'è, riconoscendole la funzione imprescindibile che svolge a vantaggio del Paese, era tra gli auspici condivisi di questa legislatura. Ed ora siamo a discutere un provvedimento raffazzonato, che non regge ad un approfondimento serio e senza pregiudizi ideologici o politici, avviluppato com'è, dopo tante improvvide fanfare celebrative sulla sua epocalità riformatrice, in criticità non componibili, e difficilmente sostenibili per la stessa maggioranza, come è emerso nel dibattito di merito in Commissione.
Se si vanno a leggere, con onestà intellettuale, i resoconti della Commissione Cultura si scoprirà peraltro che molti punti di dissenso con il testo proposto dal Governo non erano comuni solo alle opposizioni. Certo i gruppi di maggioranza non potevano smentire apertamente l'impianto complessivo del provvedimento e la retorica presentazione che il Governo ne ha fatto, ma poiché alla fine in Commissione parlamentare si è ragionato anche sulle cose, e non solo sugli annunci e le intenzioni più o meno velleitarie della proposta del Governo, su emendamenti fondamentali tesi a una strategia di riduzione del danno che il disegno di legge Gelmini prospetta all'università italiana, si è potuta registrare in Commissione una sintonia ben più ampia di quella tra le opposizioni; e solo l'intervento diretto del Ministro Gelmini, che ha voluto o dovuto incontrare durante il corso dei lavori la sua maggioranza, e il ricorso al vincolo di maggioranza, ha portato al ritiro di molti emendamenti di maggioranza del tutto sintonici con quelli delle opposizioni.
In questo va riconosciuto a molti colleghi di maggioranza della Commissione, che nell'analisi del testo ricevuto dal Senato ci sia certo stata l'urgenza di approvare la riforma universitaria, ma non di meno l'urgenza dei dubbi sulle sue criticità e sui suoi effetti sugli attuali assetti degli atenei italiani. Non voglio qui riprendere, per biasimarla, l'enfasi che questo Ministero - più in pubblico invero, che in Commissione, dove anche il pudore limita la Pag. 143propaganda - ha posto nel delegittimare l'università italiana, per legittimarne agli occhi dell'opinione pubblica un sostanziale definanziamento, nell'ordine di un miliardo e mezzo dall'inizio della legislatura, ad un sistema già sottofinanziato e ai limiti del tracollo.
Voglio solo ricordare che l'ironia non è mancata nella discussione sia in Commissione che nel dibattito pubblico su questo tema cruciale del sostegno dello Stato al sistema dell'università e della ricerca.
Autorevoli esponenti di Confindustria non hanno mancato di farci notare che il sistema Paese doveva avviare politiche di convergenza con i paesi europei più avanzati, Francia e Germania, e la riforma dell'università da approvare così come confezionata senza indugio era un elemento essenziale di questa strategia di convergenza. All'obiezione se una strategia di convergenza di tal fatta potesse coniugarsi con una tattica di divergenza sulle risorse appostate, sui punti PIL destinati all'università, giacché ci allontaniamo ulteriormente con le decisioni del Governo da quanto fanno i paesi più avanzati, stiamo ancora attendendo una risposta, e con noi l'attende il Paese reale, che vive nelle università: studenti, docenti, ricercatori e precari della ricerca.
Questo spiega e giustifica la durezza della protesta da mesi nelle università italiane, e l'ansia sul futuro che l'attraversa. Mi spiace dirlo, per la mia personale provenienza accademica, che a queste ansie sul proprio futuro dell'università italiana poco sollievo è venuto dalle prese di posizione della CRUI, che avrebbe potuto - e a mio avviso dovuto - ben diversamente incidere, a sanare dubbi e criticità, sull'iter della riforma. Nessuno ignora lo scambio adesione all'approvazione della riforma così come partorita dagli uffici ministeriali a fronte dell'integrazione al previamente depauperato FFO per tirare avanti, come arma di pressione cui sono stati sottoposti i rettori. Questo in parte li scusa, ma non garantisce sulla loro lungimiranza. Dico questo in quest'aula perché sia chiaro a futura memoria sulle responsabilità o i meriti di salvezza o dissesto degli atenei italiani, che verranno da questa riforma. Il tempo è galantuomo. Siamo qui.
Nessuno nega, e riprendo il filo del mio discorso, l'urgenza di un intervento forte sull'università, ma è utile nascondere la testa sotto la sabbia davanti a dubbi che minano alla base l'efficacia stessa del provvedimento, anche al di là del dissenso sul suo impianto generale che tanti nutrono, e con essi il PD? Un supplemento di istruttoria in aula richiesto dal PD non in contemporanea con una crisi di Governo di fatto aperta, tenuto conto che una riforma di tale impegno era stata discussa in soli tre giorni in Commissione, un fatto che non ha precedenti, non era inteso a boicottarne l'esame parlamentare, ma ad avere il tempo per migliorare almeno qualche aspetto di un intervento legislativo che resta non condiviso e non condivisibile; e magari la testa sulla riforma e sull'università, e non al vendersela, in una possibile campagna elettorale, tra le poche invero cose fatte dal Governo del fare. Ad ogni modo essere riusciti, ed è merito del PD e delle opposizioni, almeno a discuterla dopo la legge di bilancio, ha il merito che si è potuto chiarire al Paese che le millantate risorse che avrebbero sostenuto questa riforma non ci sono, e quello che è stato appostato, ristorando solo in parte tagli precedentemente apportati al FFO, basterà a stento a garantire il pagamento degli stipendi e di qualche spesa fissa in essere. Per gli obiettivi della riforma non c'è nulla, e la locuzione più ricorrente nel testo non a caso è «senza nuovi e aggiuntivi oneri per la finanza pubblica».
Segnalo le risibili modalità con cui è scomparso dal testo, con un tratto di penna, l'articolo 5-bis, con cui pubblicamente in conferenza stampa il Ministro Gelmini, con la garanzia del collega dell'Economia il Ministro Tremonti annunciava un piano per i ricercatori di ruolo e per il merito accademico, che doveva in sei anni garantire risorse per novemila posti di associato e qualche tutela stipendiale per le fasce più deboli, in termini di remunerazione, della docenza. La garanzia è durata quindici giorni, l'articolo è sparito, Pag. 144e nessuno ne ha tratto le conseguenze politiche che in termini di dignità l'accaduto richiedeva a tutela dell'università e quanto meno dell'onorabilità della parola data a chi giustamente aveva condotto una battaglia nelle università per le proprie legittime aspettative. Una provvidenza, questa del previsto e cassato articolo 5-bis che quest'aula dovrebbe avere la responsabilità di ripristinare e magari integrare, cosa che proponiamo con un nostro emendamento al testo che va al voto, tenendo conto del fatto che i novemila posti di associato promessi in sei anni, e spariti, sono già ben poca cosa rispetto ad attese legittime, giacché gli aspiranti potenziali sono ventisettemila ricercatori di ruolo ed un esercito sconfinato di precari della ricerca con un'anzianità che oscilla ormai tra dieci e quindici anni e che spesso sono ricercatori sperimentati e di gran valore.
Un approccio di questo tipo del Governo riduce la riforma a mera riforma ordinamentale, senza costi, o meglio vi pretende. Perché anche questa è una pericolosa illusione: anche una riforma ordinamentale seria costa; valga per tutti gli altri aspetti il richiamo al sistema di valutazione su cui tutto si regge per il controllo di efficacia dell'esercizio degli atenei di un'autonomia responsabilizzata, per premiarne il merito e penalizzarne il demerito. Neanche su questo ci sono risorse.
Tutto questo mette in ombra, e sostanzialmente depotenzia, anche qualche aspetto positivo della «riforma»: la razionalizzazione dell'offerta didattica, già per altro avviata da Mussi; il depotenziamento del localismo delle scelte dei docenti grazie all'abilitazione nazionale «aperta», la cui qualità andrà per altro monitorata, per non farne una foglia di fico a scelte che comunque resteranno «locali».
Condividendo la necessità per l'università di una riforma urgente, avere un'idea diversa di quale riforma realizzare, significa «sabotare» un bisogno del Paese, come pure si è dovuto sentir scrivere sulla grande stampa, che ha spesso condannato in contumacia le posizioni critiche al ddl Gelmini, senza neanche far sapere spesso ai lettori cosa si condannava?
Ora nel merito questa annunciata «riforma epocale», rappresenta, a nostro avviso, un pericoloso attacco al futuro dell'università italiana, e un grave passo falso per l'avvenire dell'intero Paese. Il millantato rilancio dell'università italiana, che questa «riforma» doveva favorire, a conti fatti si risolve in una ristrutturazione al ribasso dell'intero sistema italiano dell'università e della ricerca: ci sono solo meno risorse, meno organico docente, meno tutto, e nessuna vera idea di università, se non quella di un disimpegno significativo dal sostegno pubblico nell'università; alla meglio il progetto del Governo è trasformare una Mercedes asmatica, l'università italiana, di cui si ritiene non poter pagare i costi di riparazione, e che non ci possiamo più permettere, in una Smart con cui affrontare il confronto con i Paesi nostri competitori.
Questa ristrutturazione al ribasso non solo punta a ridurre l'incidenza sul PIL del comparto università e ricerca, in assoluta divergenza con quanto sono impegnati a fare i paesi più avanzati nostri competitori sullo scenario internazionale, ma tende ad aggravare consapevolmente le asimmetrie e le debolezze del sistema: anziché implementare le situazioni di eccellenza nel quadro di un innalzamento generale della qualità media degli atenei, punta a sganciarne alcuni - quelli che saranno valutati come «eccellenti» - con deroghe alla governance, e con risorse contrattate caso per caso con il Ministero, e questo in un regime di autonomia sorvegliata proposta a tutti gli altri, per i quali è né più né meno che un'autonomia dell'abbandono finanziario da parte dello Stato e insieme dell'occhiuto, e disfunzionale, controllo sulla loro autonomia di programmazione competitiva: un modo, in definitiva, di mettere fuori gioco gran parte del sistema universitario, per un default di regole e di risorse che rendano possibile competere, in un quadro di equità, in base a chiari criteri di merito, valutazione e responsabilità; siamo al solito e retrivo scenario di poche Pag. 145università di serie A e una rete di atenei fatta scivolare, consapevolmente, in serie B.
Si spiega così il clamoroso venire meno dell'articolato legislativo ai principi enunciati come direttivi della riforma nelle linee guida che l'avevano preceduta e nello stesso primo articolo del testo: autonomia, merito, valutazione, responsabilità; compensato da una plateale deroga a quei pochi atenei, prevalentemente ad indirizzo tecnologico e bio-medico, e collocati nelle aree forti del paese, che per la loro contiguità ad esigenze di mercato si ritiene «produttivi» e come tali esaurienti la missione culturale, di ricerca e di trasmissione del sapere dell'università.
A ciò è funzionale un drastico ridisegno degli organici non solo al ribasso ma in senso apicale: l'idea di pochi ordinari più tanti associati, di fatto equivalenti ai vecchi assistenti ordinari, più i ricercatori precarizzati nel tempo determinato (i vecchi assistenti incaricati degli anni settanta) e speranzosi di divenire associati=assistenti, è il progetto sotteso al ddl Gelmini, con l'illusione che questo dia efficienza ad un sistema umiliato nel suo capitale umano; mentre in deroga gli atenei eccellenti potranno andare a scegliersi anche il rettore fuori dai loro ruoli se il designando magari assicuri profili di mediatore con interessi forti industriali e/o politici.
Ma al di là di questa inemendabile visione dell'università italiana - più che un suo rilancio, un sottosviluppo programmato, e una programmatica divergenza da quanto di meglio stanno facendo altri paesi europei - restando all'impianto della riforma proposta, c'è in essa un'insostenibile ricorso alla delega su materie decisive e caratterizzanti, un abnorme implementazione normativa di ostacolo a qualsiasi gestione agile ed efficace dell'autonomia in un quadro di assunzione dei vincoli responsabilizzanti di una valutazione «terza» del sistema, l'assoluta assenza di concreti impegni per il merito e il diritto allo studio, una pericolosa contraddizione, per assenza di risorse, nel modello proposto di selezione dei docenti tra chi aspira a entrare nei ruoli dell'università e chi già vi opera.
Il modello di selezione dei docenti del ddl Gelmini, innestato senza risorse sugli attuali organici, mette in contraddizione gli impegni per i nuovi docenti e le aspettative di chi lo è già. Con le poche risorse a disposizione degli atenei si dovrà scegliere se finanziare i contratti di ingresso a tempo determinato, perché non siano precariato senza sbocco, ovvero le legittime aspettative di carriera dei ricercatori e associati già in ruolo che si abilitino. A prescindere dall'opinabilità della certezza dello sbocco in ruolo della tenure track, non è né equo né sensato credere che solo i docenti selezionati ex novo saranno meritevoli, mentre i docenti già nei ruoli debbano la loro carriera a selezioni immeritevoli, e siano da lasciare su binari morti.
Da questa criticità si esce prevedendo, per un congruo periodo transitorio, un piano di finanziamento straordinario sia per la tenure track che per le chiamate nei ruoli degli atenei di ricercatori e associati che conseguano l'abilitazione nazionale. Si offrirebbe una possibilità effettiva di carriera a ricercatori e associati in servizio solo in base a una valutazione di merito standard, e con risorse ad hoc, non gravanti sui bilanci di ateneo e non incidenti sulla programmazione triennale del reclutamento. Sarebbe premiato, se meritevole, il reclutamento pregresso degli atenei e si libererebbero risorse per la programmazione del reclutamento e per la tenure track. Si stempererebbe molto la contrapposizione tra personale in ruolo e ingressi conseguenti alle nuove norme. Così come pure, per rendere effettiva la mobilità dei docenti, è necessario un congruo finanziamento della mobilità dei docenti tra atenei, e in ingresso nel sistema di ricercatori e docenti in posizioni equiparabili all'estero.
I novemila posti di associato in sei anni, un'opportunità destinata a ventisettemila ricercatori in ruolo e a decine di migliaia di validi ricercatori precari operosi nell'università italiana da dieci e più anni in Pag. 146figure le più varie (un'assurdità cui abbiamo proposto di porre rimedio con il contratto unico di formazione e ricerca) che sono censibili nell'elenco di 93.000 contratti a vario titolo in essere nelle università italiane (fonte MIUR), sono saltati. E sì che dei potenziali beneficiari se ne sarebbe salvato meno che uno su dieci. Una decimazione al contrario. Questo piano di assunzioni andrebbe ripreso e potenziato. Né si è voluto, nel testo che arriva in aula, allargare i requisiti di ingresso al secondo contratto di tenure, quello che dovrebbe portare al ruolo, ai precari presenti nella base di lavoro grigio, ai limiti del nero, che tiene in piedi le nostre università. Un modo come dire che si saltano due generazioni di ricercatori, da tagliar fuori per disegnare su questa infamia generazionale un'astratta ripartenza del sistema, come se sulla pelle delle persone si potesse ripartire da zero. In aula invito a porvi riparo. A chi crede nella sussidiarietà, segnalo che la prima sussidiarietà di cui ha bisogno questo paese è per quelle generazioni di trentenni/trentacinquenni che non ce l'hanno fatta ancora, e non per loro colpa. Non c'è in questo provvedimento, per questi lavoratori intellettuali, da parte dello Stato niente che li riguardi, se non un distogliere lo sguardo, illudendosi sul loro sacrificio di poter offrire un percorso di realizzazione professionale più riconoscibile alle generazioni più giovani, che solo adesso si affacciano alla condizione e alle speranze che sono state di questi giovani non più giovanissimi. Nel nuovo edificio dell'università italiana che questo ddl ambisce a costruire non dovranno mettere piedi quelli che hanno impedito che crollasse il vecchio edificio. Bene che vada, se fosse riproposto il piano ex articolo 5-bis, se ne estrarrà a sorte uno su dieci. Così pure lo stesso destino di mortificazione, è quanto aspetta i cinquantamila tra ricercatori ed associati che svolgono in grandissima parte con grande dignità il loro ruolo da decenni, quasi tutti dopo un precariato che solo chi ha vissuto l'università conosce. Per la maggior parte di loro, a prescindere da ogni dovuto accertamento di merito, la corsa finisce qui. Nelle università lo sanno e lo percepiscono tutti, meno che gli astratti estensori dei diagrammi di preteso sviluppo dell'università che così venisse riformata da questo disegno di legge.
Per questo chiediamo al Governo, ascoltando quest'aula e recependone qualche estesa e condivisa preoccupazione, che si oggettiva negli emendamenti che proponiamo, non di metterci in condizione di aderire ad una riforma, che così com'è è irricevibile, ma di votare contro una riforma che almeno sia in grado di sopravvivere ai suoi errori, in attesa di tempi migliori per l'università italiana.

WALTER TOCCI. Ci sono due modi di riformare l'università: Quello del riformatore pessimista e quello del riformatore ottimista.
Il primo guarda ai difetti dell'accademia - certo gli esempi non mancano - e di conseguenza scrive leggi come elenchi di divieti.
Il secondo, invece, vede i meriti dell'università - sono tanti benché oscurati dalla campagna mediatica - e scrive leggi per accrescerli creando opportunità e promuovendo la responsabilità. Nessuno dei due riformatori ha ragione in assoluto, ci sono dati empirici a sostegno sia dell'uno sia dell'altro approccio. La scelta attiene quindi alla responsabilità politica e dovrebbe essere al centro di questa discussione parlamentare. I due approcci, infatti, producono legislazioni molto diverse.
Il riformatore pessimista è portato a scrivere norme molto dettagliate, cervellotiche e rigide. Egli pensa che la legge debba imporre la virtù, ma in fin dei conti finisce solo per produrre più burocrazia. I furbi si trovano a loro agio in questo ambiente perché più norme ci sono più aumentano i modi per eluderle, mentre invece gli innovatori vengono scoraggiati dalle burocrazie che frenano le loro iniziative.
Si è fatto così ormai da tanto tempo. Anzi, a ben vedere, questo metodo è stato il punto di contatto tra le diverse politiche di destra e di sinistra. Sono pronto a Pag. 147riconoscere anche la responsabilità che compete alla mia parte politica. Nell'ultimo decennio si è legiferato ogni anno sull'università, alimentando un apparato che è arrivato secondo alcuni alla ragguardevole cifra di circa 1.500 leggi in vigore. L'alacrità legislativa non pare abbia migliorato la situazione, se siamo di nuovo a discutere di crisi dell'università. Eppure, voi venite a dirci che stavolta avete trovato la soluzione epocale al problema, più o meno con la stessa baldanza di quando prometteste che la legge Moratti avrebbe imposto la meritocrazia. Proprio in quei primi anni zero in cui cominciarono i fenomeni più negativi, dalla proliferazione dei corsi e delle sedi, alle promozioni interne, allo scandalo delle telematiche, eccetera.
Errare humanum est, perseverare autem diabolicum! Questo disegno di legge non è affatto nuovo, anzi porta all'esasperazione il modello burocratico dell'università. Avete superato voi stessi. Il testo contiene circa 170 norme che diventeranno più di 500 con le deleghe e nella fase attuativa richiederanno circa mille regolamenti degli atenei. Ci penserà poi il ministro della semplificazione Calderoli a risolvere l'ingorgo amministrativo?
La vostra capacità propagandistica ha fatto credere che state facendo la politica del merito. Ma se fosse vero dovevate scrivere una legge completamente diversa, capace cioè di suscitare la competizione, di promuovere le differenze, le sperimentazioni e nuovi modelli organizzativi. Se invece ingabbiate gli atenei in un rigido schema ministeriale rimane ben poco da valutare, otterrete solo l'uniformità burocratica o l'elusione normativa. Per fare un esempio, se gli atenei non possono fare la politica del personale, la quale condiziona quasi totalmente le performance della ricerca e della didattica non sarà possibile alcuna valorizzazione dei meriti. Infatti, il ministro Gelmini ha bloccato le attività di valutazione: non vi bastano tre anni per mettere in funzione l'agenzia Anvur e non si capisce perché nelle more non avete lasciato lavorare in pace il vecchio organismo ministeriale, il Civr. Mentre sui giornali parlate di meritocrazia, avete fatto vedere ai rettori nelle segrete stanze una bozza di decreto ministeriale che assicura un'oscillazione massima di due-tre punti nella ripartizione della spesa storica. La meritocrazia delle chiacchiere non scontenta nessuno. E infatti i principali sostenitori del vostro disegno di legge sono proprio le burocrazie accademiche che hanno gestito l'università nel decennio passato e certo ne sanno qualcosa dei suoi difetti.
Tutto cambia perché nulla cambi. C'è nella storia nazionale un'attrazione fatale verso questo esito. Con il disegno di legge Gelmini l'attrazione diventa passione.
Si possono fare tanti esempi.
Avete promesso di sbaragliare il localismo dei concorsi facendo credere che si tornava al concorso nazionale. In verità ci sarà una sorta di abilitazione senza limiti numerici e quindi senza alcuna comparazione, né selezione, cioè un pennacchio che non verrà negato a nessuno.
Poi la vera prova comparativa si dovrà svolgere a livello locale, con risultati non molto diversi dal sistema attuale. Si ripete un film già visto nella scuola degli anni ottanta, quando fu inventata l'abilitazione degli insegnanti senza alcun riferimento al fabbisogno, creando le famose graduatorie di duecentomila precari che ancora oggi non si riesce a smaltire. Quando avremo accumulato anche nell'università una lista di venti-trentamila professori abilitati, le tentazioni di ope legis saranno incontenibili.
L'insistenza sui membri esterni dei consigli di amministrazione è una banalità oppure è un pericolo. Dipende tutto da chi li nomina, ma guarda caso questo non si dice pur in un testo molto prescrittivo. Se la nomina è interna si tratta di uno strumento già in vigore ed è servito solo a rafforzare il potere del rettore. Niente di male, è solo il contrario di quanto avete raccontato. Se invece, la nomina avviene dall'esterno il pericolo di cadere dalla padella nella brace è molto forte. Anche negli anni settanta per ridimensionare l'autoreferenzialità della classe medica, si aggiunsero ai suoi difetti quelli dei notabili Pag. 148politici e sono venute fuori le Asl. La peggiore università e la peggiore politica sono due energie che vanno subito in risonanza e tendono ad esaltarsi a vicenda. Tutte le cose negative di cui si è parlato nel dibattito, dalle sedi locali alle vecchie ope legis, sono state sempre frutto della cooperazione negativa tra queste due forze. Se ora le mettiamo insieme nel consiglio di amministrazione le cose possono solo peggiorare. Invece esse vanno separate e costrette ad assumersi le reciproche responsabilità ciascuna nel proprio campo di competenza. Anche sul versante imprenditoriale non sono tutte rose e fiori. Ci sono molte spinte per fare mercimonio dei titoli di studio. A questo proposito, signor ministro, ci deve qui una spiegazione sulla bozza di decreto per la programmazione che ha inviato alla Crui nelle settimane passate: È una disposizione molto grave che consentirebbe al Cepu di entrare nel sistema universitario pubblico, tramite la trasformazione della sua telematica E-Campus in università non statale autorizzata a svolgere sia la didattica a distanza sia quella tradizionale. Lei deve prendere un impegno chiaro a ritirare quella bozza di decreto. Deve dimostrare questo coraggio, pur sapendo la comunanza di interessi e di sentimenti che intercorrono tra il presidente del Cepu e il Presidente del Consiglio. Spero di ottenere qui una risposta non evasiva da parte sua. In ogni caso sappia che non vi consentiremo di passare dalla meritocrazia delle chiacchiere alla meritocrazia degli affari.
Il Cepu non può assumere lo stesso rango della Bocconi, della Cattolica o della Luiss. Ho citato questi nomi non a caso, perché rappresentano esperienze positive che la borghesia italiana ha saputo realizzare nel secolo passato quando ancora c'erano classi dirigenti con qualche ambizione. Oggi, purtroppo, le cose vanno un po' diversamente e le iniziative imprenditoriali nel campo formativo sono spesso mosse da intenti speculativi, come si vede appunto nell'esperienza delle telematiche, oppure della Lum che ha sede in un supermercato di Bari dove appunto vende titoli di studio, per non parlare dell'assistenzialismo di tanta parte della formazione professionale.
Si fa presto a parlare di stakeholders. Quando si usano parole inglesi c'è spesso il trucco. L'enfasi anglofila serve a coprire fenomeni molto italiani. «Portatori di interessi» è più chiaro e ci mette subito sull'avviso nel distinguere il grano dal loglio. Ci sono in giro diverse lobbies pronte a usare gli atenei per interessi di parte e sperano nelle maglie che aprirebbe il disegno di legge. Al contrario, le buone esperienze di partenariato tra università, imprese e territorio scaturiscono da motivazioni spontanee e non hanno certo bisogno delle vostre leggi che considerano una perdita di tempo. Mi ha colpito la dichiarazione del rettore di Trento, una delle migliori esperienze in questa direzione, che candidamente ha dichiarato tutto il suo disinteresse per le discussioni romane sulle norme universitarie.
Fin qui ho parlato del testo uscito dal Senato, poi c'è stato il passaggio alla nostra Commissione cultura che ha introdotto alcuni miglioramenti, pur senza modificare l'impianto della legge. Il nostro giudizio negativo non era mutato e tuttavia avevamo apprezzato gli sforzi di alcuni deputati della maggioranza, i quali però nella giornata di venerdì sono stati costretti da Tremonti a recitare una pubblica abiura. Hanno dovuto infatti cancellare quasi tutti gli emendamenti che avevano approvato solo qualche giorno prima. Il Grande Inquisitore dei conti ha aggiunto un comma finale che spiega quanto è scritto negli articoli precedenti. È stato introdotto il commissariamento del ministro dell'Università che deve «monitorare» e «riferire» al ministro dell'economia (secondo termini inusuali nella legislazione relativa ad attività interministeriali), il quale procede a spostare i fondi a suo piacimento limitandosi, bontà sua, a informare il Parlamento. A questo punto il pessimismo ha schiantato perfino il riformatore. Non solo non vi fidate dei professori universitari ma neppure dei vostri ministri e dei vostri parlamentari. Che cosa ne dicono i colleghi di Futuro e Pag. 149Libertà? Arriva anche per voi il tempo della coerenza tra le parole e i fatti.
Il testo uscito dalla Commissione cultura non si può neppure chiamare un disegno di legge, è una doppia ordinanza di commissariamento: gli atenei sotto il controllo del Ministero dell'Università e questo sotto il controllo del Ministero dell'economia. Se teniamo gli atenei con la capezza attaccata a via Venti settembre come pensiamo che possano correre nelle praterie della conoscenza globalizzata? Nel secolo appena cominciato le università più innovative giocano le proprie carte nella dimensione internazionale e in quella territoriale, mentre guardano sempre meno alla dimensione statale che pure è stata decisiva nel Novecento. Solo da noi si torna a quel centralismo burocratico dal quale tutti gli altri sistemi universitari si vanno allontanando.
Il centralismo discrezionale oltre tutto è in aperto conflitto con la Costituzione, come dimostra la pregiudiziale che abbiamo presentato.
È lo strumento vero che avete in mente di utilizzare. Non a caso prevedete di ricorrere ad accordi di programma per dare fondi a singoli atenei, in assoluta discrezionalità, con buona pace della retorica sulla meritocrazia.
Se siete arrivati a peggiorare perfino il testo Gelmini significa che nel vostro approccio non c'è solo il pessimismo o perlomeno che esso è rafforzato da un sentimento ostile verso l'università e in genere verso la cultura e la ricerca. D'altronde, il commissario Tremonti, ha sostenuto - con la consueta problematicità - che non si mangia il panino con la Divina Commedia come companatico. Dieci anni fa profetizzava che la Cina ci avrebbe superato nella produzione di magliette e invece oggi si appresta ad investire in ricerca più dell'Europa e in futuro a insidiare perfino gli USA. Il Capo del Governo poi, in uno dei suoi illuminanti interventi all'estero, si è posto la seguente domanda: «Perché dovremmo pagare gli scienziati se facciamo le più belle scarpe del mondo?». Forse non si tratta solo di battute da bar. Se questo pensa chi ha governato quasi ininterrottamente nel decennio si capisce meglio perché si è fermata la crescita economica e civile dell'Italia.
E lo conferma l'intero dibattito che si è svolto sulla proposta. In Europa parlare di università significa confrontarsi sulle strategie della ricerca scientifica, la proiezione internazionale della didattica, le iniziative verso gli studenti e via di questo passo. Solo da noi è ritenuto normale definire riforma un mostro burocratico di cinquecento norme e mille regolamenti. Dovremmo discutere a cose ben più importanti.
Da almeno venti anni sono in corso formidabili rivoluzioni conoscitive e tecnologiche nella scienza della vita, della materia e dell'informazione. L'Italia non ha nessuna strategia per partecipare a tali trasformazioni, tutto è affidato alle iniziative di singoli ricercatori o imprese. Il paese rischia di mancare la transizione dalla società industriale a quella della conoscenza e di uscirne più povero di saperi. Non è stato sempre così. Nel dopoguerra i nostri padri seppero giocare da protagonisti nel passaggio alla società industriale e colsero formidabili successi conoscitivi: la plastica di Natta, il primo grande computer prima degli americani, il primo satellite spaziale europeo, la scuola di fisica di livello mondiale, i grandi tecnocrati dell'innovazione da Mattei a Ippolito, a Marotta, al managment dell'Iri, e poi cinema e letteratura di primo ordine. Tutto ciò avvenne in un paese povero, quasi analfabeta e distrutto da una guerra. Oggi che siamo un paese più ricco e progredito perché non riusciamo a fare un balzo in avanti della stessa portata? Le risorse intellettuali non ci mancano. Ma continueremo a non vederle seguendo l'ottica del riformatore pessimista.
La vera riforma dell'università richiede innanzitutto un nuovo sguardo sulla cultura italiana. La vera riforma può farla solo il riformatore ottimista che sa dove sono i meriti dell'università, sa come incoraggiarli e come metterli al servizio del progresso civile del paese. Nei nostri atenei ci sono scienziati che nonostante le difficoltà riescono a tenere il passo delle Pag. 150più avanzate ricerche a livello internazionale. Dal Paese ricevono ben poco, spesso solo le mura dell'edificio, e nel contempo la burocrazia rende ogni giorno più difficile il loro lavoro. Certo non stanno ad aspettare i pochi spiccioli dei fondi Prin che arrivano sempre in ritardo, si sono abituati a competere sui finanziamenti internazionali della ricerca. Sarebbero ben felici di mettere a disposizione i loro saperi per il progresso del Paese, ma nessuno li chiama a questo impegno.
Se si visitano i laboratori europei e americani si scoprono vere e proprie colonie di giovani italiani che primeggiano nella ricerca. Che siano all'estero dovrebbe essere normale, ma spesso si trovano lì non per scelta, ma perché sono fuggiti dall'Italia con rancore e disincanto. Eppure se sono così bravi sarà pure merito di quell'università che li ha formati. Provano infatti una gratitudine individuale per i loro maestri, ma tanta sfiducia verso il sistema nazionale che non premia lo studio e l'innovazione. Sanno per esperienza diretta che cos'è una tenure-track e per questo non credono a quella procedura che proponete nel testo, per la quale dovrebbero aspettare otto anni, superare un concorso locale e uno nazionale per poi magari vedersi respinti a causa della mancanza di fondi.
E anche nei nostri dipartimenti ci sono giovani eccezionali che con le loro pubblicazioni hanno già ottenuto il riconoscimento scientifico dalle comunità internazionali, ma se continua così non lo avranno mai dal sistema amministrativo. Eppure continuano a fare ricerca con l'entusiasmo di sempre, perché questa è la loro vocazione, e affrontano condizioni di vita incivili, con stipendi da fame e senza alcun diritto. Sono trentenni e si trovano nella fase più creativa della loro vita. Se un paese tratta in questo modo i suoi giovani più brillanti non può sperare nel futuro.
Questi argomenti erano al centro della mobilitazione dei ricercatori universitari. Voi prima li avete dipinti come dei mangiapane a tradimento e poi li avete blanditi facendo intravedere qualche concessione corporativa. Ma loro ancora oggi continuano a chiedere niente di meno che una politica ambiziosa per la cultura. Per questo hanno inventato una forma di mobilitazione intelligente portando gli studenti a fare lezione nelle piazze d'Italia e anche qui davanti a Montecitorio. Era un modo per educare i giovani e allo stesso tempo per porre al centro della politica nazionale la crescita della conoscenza. L'università è anche questo, in tutto il mondo è il luogo in cui si formano le passioni civili. Quando accade a Teheran siamo tutti contenti, quando succede da noi molti fanno finta di non capire. E l'Italia di oggi, invece, ha grande bisogno di passioni civili se non vuole regredire nel rancore sociale.
Su queste risorse positive punta il riformatore ottimista. Solo dal suo approccio poteva scaturire una grande riforma dell'università. E allora l'agenda dei problemi sarebbe stata completamente diversa: in primo luogo una strategia per la ricerca, poi la qualità della didattica e alla base di tutto una nuova sensibilità per la condizione degli studenti. Da dieci anni seguiamo l'illusione che si possa acquistare l'innovazione tecnologica senza crearla, ma ciò non era vero nella fase industriale, figuriamoci nell'economia dell'immateriale. Bisogna recuperare il ritardo creato da questa illusione puntando a riposizionare il paese nelle frontiere più avanzate della conoscenza. Inoltre, la crisi del petrolio spinge ad una riconversione ecologica dell'organizzazione sociale e produttiva e questo richiede soprattutto ricerca scientifica. La sanità affronta nuove sfide determinate proprio dai progressi scientifici e tecnologici della medicina. Tanti servizi pubblici e privati hanno bisogno di compiere un salto di qualità, che richiede soprattutto conoscere. In grandi aree geografiche, come l'Asia, il Sudamerica e l'Europa dell'est, si investe come mai in passato sulla cura dei rispettivi patrimoni culturali e noi abbiamo le competenze e la tradizione per diventare un centro di formazione e di ricerca di livello mondiale nel campo della tutela e del restauro, se non diamo il cattivo esempio di Pompei. Siamo il paese in cui si conserva grande Pag. 151parte della memoria della civiltà occidentale e dovremmo avere qualcosa da dire quando gli archivi affrontano la transizione al digitale. Nei territori abbiamo sempre espresso la nostra creatività, da ultimo con i distretti nella fase industriale, e oggi si aprono nuove opportunità nell'incontro tra un antico saper fare e le moderne conoscenze, puntando sul pieno sviluppo della green society. Sono tutti obiettivi che dovrebbero costituire una strategia nazionale di lungo periodo per la ricerca e l'innovazione. Se un giorno dovessimo percorrere questa strada scopriremmo straordinarie risorse depositate nelle nostre università e non ancora utilizzate.
Inoltre, nel vostro disegno di legge manca completamente la qualità della didattica. Eppure veniamo da una riforma del 3+2 che ci tiene impegnati da dieci anni. Gli obiettivi individuati a suo tempo non sembrano raggiunti: la riduzione degli abbandoni non c'è stata nella quantità attesa e il doppio livello di formazione è vanificato dal fatto che quasi tutti gli studenti sono portati a continuare gli studi perché non trovano sbocchi professionali con la laurea breve. A questa riforma hanno dedicato energie decine di migliaia di persone con risultati diversi: ci sono state buone pratiche, innovazioni preziose, ma anche uno stanco procedere che cambiava solo il nome dei corsi. È curioso che il bilancio di questa operazione sia affidata ai servizi scandalistici dei giornali. Ci vorrebbe un Libro bianco sull'offerta didattica sul quale riflettere tutti insieme, come fanno i francesi con i famosi dibattiti nazionali, per poi estendere le migliori esperienze e correggere gli errori più evidenti. Tutto si può fare tranne che ignorare questo lungo lavoro. E non sono sufficienti i numeri cabalistici che scrivete nei vostri decreti - da ultimo il decreto ministeriale 17 del settembre scorso - perché possono produrre risultati anche dannosi o almeno paradossali. Con le soglie che avete stabilito, ad esempio, in teoria 14 premi nobel non sarebbero autorizzati a istituire un corso e invece 15 incompetenti otterrebbero certamente l'autorizzazione. Non bastano i numeri, bisogna puntare sulla qualità organizzando un moderno sistema di accreditamento che valuti gli obiettivi formativi e ne verifichi i risultati, come lo stesso Governo italiano si è impegnato a fare sottoscrivendo accordi europei, di cui però non vi è traccia nel disegno di legge.
Infine, nel decennio passato c'è stata una formidabile crescita delle immatricolazioni. I giovani e le famiglie hanno creduto nell'università. Era una buona notizia per un paese come il nostro, che sconta un ritardo storico di alta formazione rispetto agli standard internazionali. Era una piantina da innaffiare e da coltivare e invece siete passati col diserbante, cancellando gli investimenti sull'edilizia universitaria e sulle residenze per gli studenti, facendo mancare le risorse per i laboratori e i servizi per la didattica, mantenendo l'ingiustizia di tanti giovani che non ottengono la borsa pur avendone i diritti secondo le leggi vigenti e i principi della nostra Costituzione. Nello stesso periodo diminuiva costantemente la percentuale di laureati occupati.
Le famiglie hanno recepito i messaggi negativi. Quest'anno sono diminuite le immatricolazioni e probabilmente sono proprio i figli dei ceti popolari a rinunciare agli studi sotto i colpi della crisi economica.
C'era è c'è bisogno di un programma ambizioso per il diritto allo studio, per portare la condizione studentesca al passo con gli standard europei. E voi venite qui a proporre un fondo che dovrebbe essere alimentato non dallo Stato ma da improbabili benefattori, ai quali comunque avete cancellato perfino le agevolazioni fiscali.
Ecco, di queste cose avrebbe dovuto trattare la riforma, non dei posti nei consigli di amministrazione o nelle commissioni di concorso. Si doveva scrivere un testo del tutto diverso da quello qui in esame. Ci voleva una legge per cancellare le leggi esistenti, senza appesantire il sistema con nuove norme. L'unica regola del riformatore ottimista deve essere la verifica dei risultati della didattica e della ricerca con la conseguente ripartizione dei Pag. 152finanziamenti secondo il merito riconosciuto. Proprio questo passaggio cruciale nel vostro disegno di legge è quanto mai vago e affidato ad una delega a quel ministro che in tre anni di tempo non ha fatto nulla per valutare la produzione scientifica degli atenei.
Siete ancora in tempo, abbandonate questo brutto testo e torniamo in Commissione per concordare una legge sobria con pochi argomenti davvero prioritari: valutazione, finanziamento, accesso dei giovani e diritto allo studio. Come opposizione saremmo pronti a prenderci le nostre responsabilità per un vero cambiamento.
Altrimenti, abbiamo il dovere di lasciare scritta negli atti parlamentare una previsione. Purtroppo molto facile. Questo provvedimento ripeterà il fallimento della legge Moratti. E forse peggio, perché allora gli atenei erano ancora in buona salute. Oggi sono stremati dai tagli e dalla burocrazia e potrebbero non reggere l'urto di un'altra alluvione normativa. L'università con questa legge rischia il collasso burocratico. I professori passeranno le giornate a fare i conti con le nuove norme e a scrivere i mille regolamenti. D'altronde, senza soldi avranno più tempo per queste attività amministrative. C'è coerenza nel vostro far male.
Sappiate che il Pd non vi darà tregua. Farà di tutto per spiegare le responsabilità della crisi che si prepara e allo stesso tempo continuerà a lavorare per una vera riforma dell'università, che è ancora da pensare, da condividere e da scrivere. Il riformatore ottimista non è ancora venuto.

CONSIDERAZIONI INTEGRATIVE DELL'INTERVENTO DEL DEPUTATO COSIMO VENTUCCI IN SEDE DI DISCUSSIONE SULLE LINEE GENERALI DELLE MOZIONI IN MATERIA DI RIFORMA DEL SISTEMA FISCALE

COSIMO VENTUCCI. La nostra mozione impegna il Governo: a proseguire in un'impostazione di politica economica che coniughi l'esigenza di garantire la sostenibilità di lungo periodo degli equilibri di bilancio con quella di liberare il più possibile risorse da destinare al sostegno della domanda e ad interventi infrastrutturali; a proseguire nell'azione di contrasto all'evasione ed all'elusione fiscale, privilegiando le attività di accertamento di carattere non formale ed incentivando una sempre maggiore partecipazione degli enti locali, in specie dei comuni, a tale azione, non solo per incrementare il gettito erariale, ma, soprattutto, per realizzare una più equa ripartizione dell'imposizione tributaria e reperire risorse aggiuntive senza incrementare la pressione fiscale sui contribuenti onesti; ad avviare un processo di riforma complessiva del sistema tributario, che deve essere prioritariamente orientato alle seguenti finalità: perseguire l'obiettivo programmatico della progressiva riduzione della pressione fiscale, in particolare sulle imprese di piccole e medie dimensioni, sulle famiglie e sul lavoro dipendente, in un quadro di piena responsabilità di bilancio; perseguire una migliore distribuzione del carico impositivo, alleggerendo i redditi da lavoro dipendente, i redditi d'impresa di natura non speculativa ed i redditi da lavoro autonomo, anche attraverso il progressivo passaggio dalla tassazione sui redditi alla tassazione sui consumi e sulle rendite, mantenendo comunque immutata la tassazione sui titoli del debito pubblico; concentrare gli strumenti di sostegno di natura tributaria su alcuni obiettivi prioritari per lo sviluppo del Paese, quali il sostegno alla famiglia, la promozione della ricerca e dell'innovazione, il superamento dei divari territoriali, il miglioramento del capitale umano, la razionalizzazione del sistema delle detrazioni e delle deduzioni, che risulta oggi particolarmente complesso e farraginoso; confermare l'esenzione dall'imposizione tributaria della prima casa di abitazione già introdotta dal Governo; favorire una maggiore capitalizzazione delle imprese; adeguare l'ordinamento tributario ai nuovi modelli economici, sociali, ambientali ed istituzionali; ridurre gli effetti distorsivi dell'imposizione sulla crescita e sulle scelte strategiche delle imprese; rivedere la tassazione Pag. 153energetica, al fine di incentivare minori consumi energetici e l'impiego di combustibili a minore impatto ambientale; favorire una sempre più stretta collaborazione tra le amministrazioni coinvolte nell'attività di rilievo fiscale, in particolare attraverso un maggiore coinvolgimento dei comuni e degli altri enti locali, alla luce del connesso processo di attuazione della delega sul federalismo fiscale, nonché mediante l'integrazione delle banche dati pubbliche; dare piena attuazione allo statuto dei diritti del contribuente, sia al fine di assicurare una maggiore stabilità della normativa tributaria, sia sotto il profilo di un maggiore equilibrio nei rapporti tra fisco e contribuenti; semplificare la normativa ed alleggerire gli oneri amministrativi gravanti sui contribuenti e sugli intermediari per la semplice attività di compliance fiscale, anche riducendo le imposte e le tasse esistenti, nonché il numero imponente di atti normativi che appesantisce l'ordinamento tributario.
Inoltre, si impegna il Governo: a vigilare affinché le necessarie attività di accertamento e di verifica fiscale da parte dell'amministrazione finanziaria siano sempre svolte nel pieno rispetto del contribuente, anche al fine di minimizzare gli oneri burocratici sulle imprese, soprattutto di piccole dimensioni, garantendo, inoltre, un'equilibrata distribuzione sul territorio nazionale delle attività di accertamento, tenendo conto a tal fine del fatto che in alcune aree del Paese il fenomeno del sommerso presenta dimensioni particolarmente rilevanti; a valutare l'opportunità di apportare ulteriori correttivi alla disciplina sulla rateizzazione dei debiti tributari e contributivi, in particolare introducendo in tale ambito alcuni ulteriori elementi di flessibilità, tali da consentire agli agenti della riscossione, in presenza di condizioni oggettive ed in un quadro di garanzia degli interessi erariali, di tenere conto delle difficoltà che alcuni contribuenti ed imprese incontrano ad onorare i propri debiti tributari a causa della crisi economica in atto, al fine di evitare che il mancato pagamento di una sola rata comporti la decadenza dal beneficio della rateizzazione, con conseguenze negative sia per il contribuente interessato sia per lo stesso erario; ad assumere tutte le iniziative in sede comunitaria al fine di favorire una maggiore armonizzazione dei regimi fiscali tra gli Stati membri dell'Unione europea, definendo linee di politica economica comune a livello comunitario, sia al fine di evitare che le pratiche di concorrenza fiscale comportino turbative alle condizioni di concorrenza tra le economie dei diversi Stati, sia in quanto tali fenomeni rischiano, come dimostrato dagli eventi dell'attuale crisi economica, di determinare elementi di debolezza ed instabilità all'interno dell'area dell'euro; a promuovere, nel quadro complessivo della riforma della giustizia, un riassetto della giustizia tributaria, riducendo i tempi del contenzioso e riaffermando la capacità di tale settore di fornire un servizio adeguato alle evoluzioni del contesto economico e normativo, al fine di contribuire a migliorare il contraddittorio tra fisco e cittadini e di assicurare il giusto equilibrio tra le esigenze di tutela dei diritti dei contribuenti e gli interessi dell'erario.

CONSIDERAZIONI INTEGRATIVE DELL'INTERVENTO DEL DEPUTATO FABIO EVANGELISTI IN SEDE DI DISCUSSIONE SULLE LINEE GENERALI DELLA MOZIONE CONCERNENTE REVOCA DI DELEGHE AL MINISTRO PER LA SEMPLIFICAZIONE NORMATIVA

FABIO EVANGELISTI. La richiesta è stata avanzata dall'Italia dei Valori a più riprese, a partire dal 3 ottobre 2010, e il Governo poteva apportare tale modifica fino al 9 ottobre 2010, data di entrata in vigore del «Codice dell'ordinamento militare». Dopo tale data, infatti, al Governo non sarebbe più stato possibile intervenire con un avviso di rettifica, ma sarebbe stato necessario approvare una nuova legge o un atto avente forza di legge, per reintrodurre il reato che dal 9 ottobre 2010 è abrogato a tutti gli effetti. È da sottolineare che dall'8 maggio 2010, data di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto legislativo, Pag. 154il Governo ha apportato ben 196 correzioni tra codice e regolamento dell'ordinamento militare e numerose di queste riguardano proprio l'eliminazione di leggi e atti aventi forza di legge dall'elenco di quelle abrogate.
Nel comunicato del 7 settembre, per esempio, sono stati salvati dall'abrogazione articoli di svariate leggi e atti aventi valore di legge, come il decreto del Presidente della Repubblica 3 maggio 1957, n. 686 (testo unico delle disposizioni sullo statuto degli impiegati dello Stato); il decreto legislativo 30 aprile 1997, n. 165 (in materia di armonizzazione al regime previdenziale generale dei trattamenti pensionistici del personale militare, delle forze di polizia e del corpo nazionale dei vigili del fuoco, nonché del personale non contrattualizzato del pubblico impiego); la legge 29 ottobre 1997, n. 374 (norme per la messa al bando delle mine antipersona); o, infine, la legge 11 agosto 2003, n. 231 (differimento della partecipazione italiana a operazioni internazionali). Sono solo alcuni esempi.