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Resoconto dell'Assemblea

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XVI LEGISLATURA


Resoconto stenografico dell'Assemblea

Seduta n. 166 di lunedì 27 aprile 2009

Pag. 1

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE ROSY BINDI

La seduta comincia alle 17.

RENZO LUSETTI, Segretario, legge il processo verbale della seduta del 20 aprile 2009.
(È approvato).

Missioni.

PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del Regolamento, i deputati Albonetti, Angelino Alfano, Barbi, Bergamini, Berlusconi, Bonaiuti, Bordo, Bossa, Bossi, Brambilla, Brunetta, Buonfiglio, Casero, Cicchitto, Colucci, Cosentino, Cossiga, Cota, Craxi, Crimi, Crosetto, D'Ippolito Vitale, Dozzo, Gianni Farina, Renato Farina, Fassino, Fitto, Frattini, Galati, Garavini, Gelmini, Gibelli, Alberto Giorgetti, Giancarlo Giorgetti, Giro, Granata, La Malfa, La Russa, Laboccetta, Lupi, Malgieri, Mantovano, Maroni, Martini, Meloni, Menia, Miccichè, Angela Napoli, Andrea Orlando, Leoluca Orlando, Papa, Piccolo, Prestigiacomo, Rigoni, Roccella, Romani, Ronchi, Rotondi, Soro, Stefani, Strizzolo, Stucchi, Tassone, Torrisi, Tremonti, Urso, Vegas, Vitali, Vito, Volontè e Zacchera sono in missione a decorrere dalla seduta odierna.
Pertanto i deputati in missione sono complessivamente settantadue, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.

Ulteriori comunicazioni all'Assemblea saranno pubblicate nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.

Discussione della mozione Franceschini ed altri n. 1-00148 concernente iniziative per il contrasto della povertà e dell'emarginazione.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della mozione Franceschini ed altri n. 1-00148, concernente iniziative per il contrasto della povertà e dell'emarginazione (Vedi l'allegato A - Mozioni).
Ricordo che lo schema recante la ripartizione dei tempi riservati alla discussione è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).
Avverto che sono state altresì presentate le mozioni Pezzotta ed altri n. 1-00153 e Cicchitto, Cota, Lo Monte ed altri n. 1-00155 che, vertendo su materia analoga a quella trattata dalla mozione all'ordine del giorno, verranno svolte congiuntamente. I relativi testi sono in distribuzione (Vedi l'allegato A - Mozioni).

(Discussione sulle linee generali)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali delle mozioni.
È iscritto a parlare l'onorevole Mosella, che illustrerà anche la mozione Franceschini ed altri n. 1-00148, di cui è cofirmatario. Ne ha facoltà.

DONATO RENATO MOSELLA. Signor Presidente, onorevoli colleghi e colleghe, signor sottosegretario, ancora una volta torniamo in Aula a parlare di povertà, e francamente mi fa piacere che sia lei, signor Presidente, a presiedere questa seduta, perché so quanta attenzione ha per i temi di cui parliamo. Pag. 2
La mozione, che reca la prima firma di Dario Franceschini e che proverò ad illustrare nelle sue parti più essenziali, ci riporta ad una riflessione che un po' stancamente in questo primo anno di legislatura abbiamo svolto, con gravi responsabilità spalmate su tutto l'arco costituzionale.
L'Italia, tra i paesi dell'Europa dei quindici, si trova in una delle situazioni peggiori rispetto al tema della povertà: le famiglie che si trovano in questa condizione aumentano e sono davvero povere.
Sono quasi due milioni e mezzo di persone che non riescono a raggiungere un reddito tale da garantire una qualità di vita dignitosa, e che sempre più spesso rischiano di trovarsi in condizioni di miseria. Proverò a fornire una spiegazione con una serie di considerazioni.
Nella mozione abbiamo riportato alcuni dati ISTAT: innanzitutto il numero delle famiglie povere, di cui ho già detto, quindi degli individui poveri, che sono 7 milioni e 537 mila. La situazione è molto critica, come si può immaginare, nelle aree del Mezzogiorno e tra le famiglie numerose, di cinque o più persone. Sempre più rilevante diventa poi il problema della povertà al femminile, che si concentra tra le madri sole e le donne anziane sole. Oltre alla grave situazione delle famiglie, i cui componenti hanno perso il lavoro, sempre più difficoltà incontrano le famiglie che, pur avendo un reddito, non riescono a far fronte a tutte le spese mensili minime, quelle strettamente necessarie per la sussistenza.
Questi dati che abbiamo riportato sono già aggravati dal rapporto ISTAT dello scorso 22 aprile sulla povertà assoluta, quella cioè che si riferisce all'incapacità di acquisire i beni ed i servizi necessari a raggiungere uno standard ed una qualità di vita ritenuti comunemente il minimo accettabile nel contesto di appartenenza.
Anche a tale riguardo i dati sostanzialmente suonano l'allarme: sono 975 mila le famiglie italiane in condizione di povertà assoluta solo nel 2007, ed in queste famiglie vivono 2 milioni e 427 mila persone, vale a dire il 4,1 per cento della popolazione residente.
Il fenomeno, come per i dati precedenti, è diffuso prevalentemente nel sud e nelle isole, dove l'incidenza di povertà assoluta è superiore di circa due volte a quella rilevata nel resto del Paese (5,8 per cento contro il 3,5 per cento del nord ed il 2,9 per cento del centro Italia).
Tra il 2005 - che è stato il primo anno di rilevazione - ed il 2007 l'incidenza di povertà assoluta è rimasta stabile, e sostanzialmente immutate sono anche le caratteristiche delle famiglie povere in termini assoluti. Le incidenze più elevate si osservano tra le famiglie di maggiori dimensioni, in particolare con tre o più figli, soprattutto se questi sono minorenni, o con membri aggregati (nonni, persone diversamente abili ed altre categorie di soggetti).
Anche tra le famiglie con componenti anziani i valori di incidenza sono superiori alla media, soprattutto se si tratta di anziani soli; la povertà è fortemente associata anche a bassi livelli di istruzione, a bassi profili professionali, all'esclusione dal mercato del lavoro.
Ma il fenomeno della povertà assoluta può essere descritto anche rispetto alla sua gravità, come ci spiega l'ISTAT; in questo senso, l'intensità della povertà, che indica in termini percentuali di quanto la spesa mensile delle famiglie assolutamente povere si colloca al di sotto della soglia di povertà, nel 2007 è risultata pari al 16,3 per cento e raggiunge il 18,2 per cento tra le famiglie residenti nel Mezzogiorno.
Abbiamo sempre pensato che tutte le forme di povertà debbano rappresentare un obiettivo primario della politica e del Governo, ancor di più oggi che l'Italia - come il resto d'Europa - è investita da una crisi che non accenna a passare (una crisi che fa scivolare sempre più famiglie sotto la soglia di povertà, soprattutto con la perdita del lavoro).
La crisi è lontana dall'essere finita, ci aspettano mesi ancora difficili: a sostenerlo, Pag. 3giovedì scorso, è stato Dominique Strauss-Khan, direttore generale del Fondo monetario internazionale.
È l'ennesimo segnale che parla di una situazione economica e finanziaria né piccola, né temporanea. C'è chi questa situazione cerca di minimizzarla o di nasconderla, chiedendo che i comunicatori facciano professione di ottimismo: è un po' come nascondere la polvere sotto il tappeto, signor Presidente, un escamotage che non fa altro che peggiorare la vita delle persone. C'è però anche chi la crisi la analizza e la affronta solo in termini di bilancio e di prodotto interno lordo, mentre ci si dovrebbe chiedere, anche preoccupandosene, quali siano i suoi costi sociali.
Quando vi sono congiunture così difficili succede inevitabilmente che si aggravano le disuguaglianze tra i sistemi di vita dei ricchi e dei poveri, tra chi è in grado di proteggersi con disinvoltura dalle difficoltà e chi invece non lo è; si allarga il numero dei poveri ed aumenta il loro grado di impossibilità di vivere la vita in modo dignitoso.
È forse possibile - ma ho qualche dubbio - che le diverse fasce sociali paghino la crisi percentualmente in pari misura: Don Milani diceva che niente è più ingiusto che fare le parti uguali fra disuguali, e questa sua frase mi sembra attagliata.
Il problema si risolve con interventi che, per natura ed estensione, siano in grado di impedire la crescita delle disuguaglianze ed anzi facciano dell'abbattimento della povertà un motore di ripresa generale.
Se la povertà è la vergogna della società del benessere, restare in silenzio di fronte al suo dilatarsi è il tradimento della missione della politica, dei Governi, delle istituzioni.
Ribadisco quanto già affermato proprio in quest'Aula sulla legge finanziaria per il 2009: il benessere e la civiltà di un Paese non si misurano dal reddito medio dei suoi cittadini, ma dal livello della qualità della vita che si riesce ad assicurare ai meno fortunati. La povertà non è necessariamente la fame. La povertà è lo sfrattato costretto a vivere senza un tetto sicuro; il pensionato che va ai mercati rionali al momento della chiusura per acquistare gli scarti a poco prezzo; il malato che si mette in fila, non riesce a farsi visitare in tempo utile dal medico del servizio sanitario e non può ricorrere all'assistenza privata. La povertà è il giovane che vuole crearsi una famiglia e non può farlo perché vive nella precarietà e nello sfruttamento; è il genitore che non può garantire ai figli l'accesso all'istruzione superiore, a quelle pari opportunità che dovrebbero essere la base della democrazia.
Emerge sempre di più il dramma della nuova vulnerabilità. Nel nostro Paese cresce spaventosamente un'invisibile società vulnerabile, con il fiato sul collo, priva di risorse per fronteggiare l'imprevisto che quando accade fa sballare tutto: in pochi giorni, e senza colpa, si può finire dall'ufficio alla strada, dal tavolo di famiglia alla mensa sociale. La precarizzazione della vita, dicono molti ricercatori, è l'incubo fuori statistica che mina la nostra civiltà.
Dobbiamo ritenere l'azione finora svolta come forzatamente inefficace. L'Italia è agli ultimi posti in Europa. Nell'Europa dei 27 noi siamo il fanalino di coda per spesa pro capite e per il contrasto al fenomeno della povertà; sono indicatori di cui dobbiamo necessariamente tenere conto. Nessuna nuova risorsa è stata stanziata anche con l'introduzione della social card. Semplicemente si è trattato di una redistribuzione di risorse già esistenti, visto che, allo stanziamento di 450 milioni di euro annui per la carta, è corrisposta una riduzione almeno equivalente dei trasferimenti statali destinati ai servizi sociali dei comuni e al Fondo per le politiche sociali, di cui all'articolo 20 della legge n. 328 del 2000. Si tratta di un tradimento perché abbia minato uno dei pilastri del nostro Stato sociale.
Già al momento dell'adozione della social card sono state espresse in quest'Aula e nella Commissione affari sociali, mi riferisco anche ai miei colleghi del Partito Democratico e a tante altre voci, Pag. 4tutte le riserve sull'iniziativa. Riteniamo, infatti, che un moderno sistema di welfare sociale e familiare debba procedere secondo politiche integrate e coordinate, capaci di incidere strutturalmente sulle criticità esistenti piuttosto che adottare misure di scarso peso e per di più con effetto umilianti per coloro che ne sono destinatari.
Il 22 aprile, qui alla Camera, mi sono sorpreso, quando il Ministro Sacconi, in risposta ad un'interrogazione della collega Livia Turco sui costi per l'attivazione della social card, ha sostanzialmente glissato ogni risposta, definendo la questione come una polemica infondata. Altro che polemica infondata. Il Ministro ha confermato i nostri dubbi sull'utilità della social card: non ha detto quante persone ne hanno beneficiato fin d'ora (ci risulta che sono meno della metà rispetto al milione e 300 mila le persone inizialmente previste). Inoltre, il dato di 1,4 milioni di euro relativo ai costi dell'attivazione smentisce quelli comparsi in alcune trasmissioni televisive che hanno inondato le case degli italiani (vedi Report) con cifre diverse (si parlava di 21 milioni di euro), e non è credibile visto che le sole spese postali ammontano a 400 mila euro. Abbiamo la sensazione che il Governo continui ad essere reticente su un'iniziativa che, ad oggi, non si capisce quanto sia costata, quanto abbia realmente sostenuto le persone povere (infatti, restano fuori dalla social card tutte le famiglie con bambini al di sopra di tre anni), e che è basata su criteri ingiusti per l'attribuzione: sono infatti criteri burocratici e appositamente restrittivi e ideati per selezionare i poveri tra i poveri.
Noi pensiamo che sia necessario invertire la rotta (e la nostra mozione va in questa direzione), quella che vede l'Italia tra i Paesi europei in una posizione di deficit che sembra ad oggi incolmabile. È necessaria, in particolar modo in questo momento di grande crisi economica ed internazionale, una strategia e nella mozione noi proviamo a tratteggiare una strategia integrata, che garantisca un'interazione positiva delle politiche economiche, sociali e dell'occupazione, sia con misure immediate per fronteggiare le situazioni più drammatiche, sia anche con progetti di più ampio respiro che creino le condizioni per il futuro.
Si tratta di iniziative che comprendono varie possibilità e le abbiamo sostanzialmente individuate nell'occupazione femminile, nell'adozione di misure fiscali e monetarie a sostegno dei figli e mi riferisco anche ad altri temi su cui il collega Misiani, sicuramente più esperto di me, saprà darvi le indicazioni necessarie.
Se la povertà e il rischio di marginalità sono in fase di preoccupante crescita, il microcredito (che è uno dei punti che sono stati indicati) a mio avviso potrebbe contribuire a restituire attenzione e dignità agli ultimi, agli invisibili, a quelli che faticano a far sentire la loro voce. Il credito sociale può essere una strada importante.
Alla Camera sono state presentate diverse proposte di legge che meriterebbero attenzione (io stesso ne ho presentata una) e credo che rappresentino un filone che meriterebbe di essere preso in considerazione particolarmente in questa fase. Al momento della discussione delle prime mozioni sulla povertà, il Governo, proprio attraverso il sottosegretario Roccella, abbia espresso parere contrario su una mozione presentata dal collega Pezzotta nella parte in cui prevedeva l'attivazione di forme sperimentali di concessione di microcrediti per sostenere forme di imprenditorialità sociale. Ciò mi preoccupa molto.
Alcune iniziative riguardano proprio l'aiuto e il potenziamento degli enti locali, dei comuni, i quali, anche in deroga al Patto di stabilità, potrebbero valutare come promuovere e far conoscere nel Paese queste possibilità. È inutile dirvi che le esperienze che si sono consumate nel mondo sono esperienze positive, in cui anche il tasso di rientro dei prestiti è molto ma molto alto. Si tratta di piccole somme che risolvono grandi problemi e che potrebbero nel nostro Paese dare una boccata di ossigeno a chi ha meno. Con questa mozione vogliamo impegnare il Governo Pag. 5a considerare tra le sue priorità la lotta alla povertà estrema anche attraverso l'introduzione una tantum di un contributo di solidarietà del 2 per cento sui redditi superiori a 120 mila euro, e con la creazione di un fondo nazionale per il contrasto delle gravi emarginazioni, con l'obiettivo di implementare il sistema dei servizi dedicati soprattutto all'accoglienza, e con l'accompagnamento e la protezione delle persone in stato di grave emarginazione oltre al contrasto del disagio nelle periferie urbane che sta diventando un tema di grandissima attualità.
Vogliamo inoltre impegnare il Governo ad integrare con risorse economiche adeguate il Fondo nazionale per le politiche sociali - di cui ho già detto - in modo da garantire, su tutto il territorio nazionale, alle persone e alle famiglie una migliore qualità della vita, con la qualificazione e il potenziamento della rete dei servizi degli enti locali, ed infine ad incentivare la lotta all'evasione fiscale attraverso il riavvio delle politiche antievasione, a cominciare dal ripristino della tracciabilità dei corrispettivi e dall'innalzamento del limite massimo dei trasferimenti, in modo da drenare risorse da destinare alla lotta alla povertà. La bussola che deve orientarci e che è contenuta nella nostra mozione è l'agenda sociale europea. È in questo quadro che noi immaginiamo l'Italia si debba muovere.
La dimensione sociale dell'Europa non è mai stata importante come in questo momento, ci ha detto in una recente dichiarazione il Presidente della Commissione europea Barroso. Per questa via l'Agenda sociale europea ha tracciato gli obiettivi di solidarietà e di prosperità attraverso due priorità fondamentali: da un lato, l'occupazione, dall'altro, la lotta contro la povertà e la promozione delle pari opportunità per tutti.
Nel quadro degli obiettivi di Lisbona che prevedono l'eliminazione della povertà entro il 2010 l'attuazione delle politiche di integrazione sociale costituisce una priorità per l'Unione e, quindi, lo deve essere anche per l'Italia. Non possiamo far gravare sulle persone a rischio di marginalità, di per sé già deboli, gli effetti delle ristrettezze del bilancio statale e le conseguenze negative delle contingenze economiche e finanziarie internazionali che, come abbiamo detto, non accennano a finire. È questo il salto di qualità che occorre fare, se uno Stato vuole fregiarsi della dignità di Stato sociale. È necessaria una meditazione attenta sulle indicazioni offerte dall'Agenda di Lisbona, facendo lo sforzo di calibrarle sulle necessità del nostro Paese.
Occorre favorire l'accesso al lavoro delle persone che hanno maggiori difficoltà di ingresso nel mondo del lavoro. Occorre rendere pienamente operativi ed accessibili i sistemi di protezione sociale in grado di assistere e, a volte, anche di stimolare coloro che hanno difficoltà ad accedere all'impiego. È importante promuovere l'accesso delle persone a rischio di marginalità agli alloggi pubblici e all'assistenza sanitaria minima, all'istruzione e alla formazione continua. È importante - ci dice l'Agenda - curare la fase formativa ed educativa adottando misure utili a prevenire la povertà infantile e l'abbandono scolastico. È doveroso programmare strumenti di inclusione sociale dei migranti presenti sul territorio e senza i quali interi settori (si pensi all'assistenza agli anziani o ai lavori in agricoltura) sarebbero sguarniti di persone di buona volontà che fanno attività che nessun altro o pochi connazionali oggi vogliono svolgere. È con grande franchezza che dobbiamo guardarla anche da questa angolatura. Occorre promuovere localmente forme di finanza etica - l'ho già detto - per dare attenzione e dignità agli ultimi, alle donne, alle madri sole, ai lavoratori precari, ai lavoratori che hanno più di quarant'anni e che vengono espulsi dal mercato del lavoro e faticano anche a far sentire la loro voce.
Purtroppo siamo l'unica nazione europea priva di un piano di lotta alla povertà. Credo che questo al Governo pesi, ma credo anche che sia giunto il tempo di cominciare a dirlo: al di là dei libri verdi e dei libri bianchi, noi oggi non abbiamo un piano definito e ci sfuggono molte delle Pag. 6dinamiche che stanno accadendo proprio in queste settimane e in questi mesi. Spesso confondiamo il welfare con la carità e seminiamo soldi invece di organizzare servizi, facendo aumentare così la disuguaglianza tra ricchi e poveri e tra poveri e poveri (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico e Italia dei Valori).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Capitanio Santolini, che illustrerà anche la mozione Pezzotta ed altri n. 1-00153, di cui è cofirmataria. Ne ha facoltà.

LUISA CAPITANIO SANTOLINI. Signor Presidente, in linea con quanto detto sinora dal collega Mosella la situazione in Italia si presenta particolarmente grave. Nell'ottobre scorso la Fondazione Zancan ha pubblicato il rapporto 2008 sulla povertà in Italia; l'ISTAT, citato recentemente, ha dato le cifre che aveva a disposizione. Il 13 per cento della popolazione italiana è costretto a sopravvivere con meno della metà del reddito medio italiano, il che significa che è costretta a vivere con 500-600 euro al mese e, rispetto all'Europa, l'Italia presenta una delle più alte percentuali di popolazione a rischio di povertà. Non si possono non sottolineare questi dati ma ciò che più ci preoccupa è che, in particolare, vi sono due fasce di popolazione maggiormente in difficoltà e sono le persone non autosufficienti e le persone con figli: quindi le famiglie che hanno avuto l'avventura di mettere al mondo dei figli.
Risulta infatti che è povero il 30,2 per cento delle famiglie con tre o più figli e di questo 30 per cento circa la metà vive nel Mezzogiorno. In altre parole, avere più di due figli in Italia significa diventare più poveri; significa un rischio di povertà che penalizza in maniera drammatica i genitori, che quindi devono sobbarcarsi da soli - e questo lo dicono le cifre - l'onere e la fatica di crescere i figli.
Questi sono dati antichi: la categoria maggiormente a rischio di povertà oggi in Italia sono i minori, checché se ne dica e checché si affermi in giro. È un dato antico, perché ricordo che dieci anni fa la Banca d'Italia, pubblicando anch'essa rapporti annuali circa la situazione della povertà in Italia, diceva praticamente le stesse cose. Quindi, sono mali antichi i nostri, non sono esiti della crisi, che pure esiste, non sono esiti degli ultimi mesi e delle difficoltà che conosciamo e che tutti abbiamo registrato. Sono mali che vengono da lontano. Ciò significa che il 4,1 per cento delle famiglie versa in condizioni di povertà assoluta, perché è in condizioni di mancato accesso ad un insieme di beni e di servizi: sono circa due milioni e mezzo di persone che sono povere non solo perché dispongono di 500-600 euro al mese, come si diceva, e quindi hanno oggettive difficoltà economiche, ma anche perché sono in famiglie che non riescono ad accedere ai servizi essenziali. Quindi, sono povertà diverse: non solamente povertà di tipo economico e finanziario.
Dunque, la crisi economica di queste famiglie è legata ad altri fattori, fattori che ne aumentano in qualche modo la povertà e la vulnerabilità. Possiamo elencare qualcuno di tali fattori, che destabilizzano le famiglie: uno è senz'altro la precarizzazione del lavoro; un altro è la contrazione del welfare. Non è un mistero per nessuno che questo Governo ha operato tagli sul welfare e comunque la sua contrazione - che anch'essa dura da tempo - incide negativamente sulle persone più fragili e più povere. Poi, vi è la fragilità familiare, perché tutto si tiene, tutto si incrocia e tutto in qualche modo si sostiene: infatti, la fragilità familiare significa crisi, significa difficoltà, significa povertà, significa mancanza di lavoro, significa contrazione di servizi e quindi un circolo perverso, che rende le persone più povere e più fragili. Potremmo aggiungere il disagio psichico, che certamente dobbiamo registrare. Potremmo registrare le dipendenze, potremmo registrare la lacerazione dei legami familiari. In altre parole, questa è una situazione estremamente difficile, lo ripeto, soprattutto per le famiglie.
Allora, sorge spontanea una domanda: non vale la pena intervenire in maniera Pag. 7seria, strutturale, continua e convinta, affinché le famiglie non diventino così povere e non diventino multiproblematiche, quindi con fragilità, con debolezze sociali, con disagi psichici, con dipendenze? Non conviene impedire che tale degrado sociale avvenga?
Infatti, la domanda legittima che una persona si deve porre, anche in quest'aula, è la seguente: quanto costa una famiglia disagiata e povera alla società? Quanto costa agli enti locali? Quanto costa ad un sindaco il disagio sociale, i morti del sabato sera, l'anoressia, il bullismo, le difficoltà che vi sono nel crescere e nell'educare i figli? Quanto costa la povertà in termini sociali?
Quanto vale una famiglia che, invece, sia messa in condizione di crescere i propri figli e di non diventare più povera se ne mette al mondo uno, che abbia accesso ai servizi, che abbia una vita dignitosa e che, quindi, cresca dei cittadini che hanno fiducia nello Stato e nella nazione in cui vivono?
Sembra che questi argomenti non interessino particolarmente, perché è vero che è stata creata la social card, ma sappiamo bene che si è trattato di un esperimento assolutamente limitato e, per alcuni versi, fallimentare.
L'esito di tutto questo è un declino demografico di cui siamo i campioni del mondo, un esito che nel 2050 - i dati sono stati resi noti dalle Nazioni Unite un mese fa - ci vedrà diventare un Paese euroafricano, perché gli immigrati fanno dei figli (meno male), mentre noi non li facciamo più, quindi ci saranno delle grosse novità e delle grosse rivoluzioni da questo punto di vista.
La famiglia, pertanto, è intesa come fattore di stabilità e come fattore di garanzia dello sviluppo di un Paese, una famiglia da cui partire anche per uscire della crisi economica. In tale ottica, le persone senza famiglia, le donne sole con bambini, gli anziani senza sostegno, i precari, coloro che sono afflitti da malattie o da inabilità, i genitori che diventano anziani e, quindi, hanno continuo e costante bisogno di assistenza, costano e portano dei rischi molto seri di impoverimento e ciò significa che, se non si interviene, una fascia di famiglie che ancora non si trova in situazione di povertà e di disagio rischia di scivolarvi.
Il rischio di riduzione della protezione sociale, di questa costante emarginazione, comporterà continui nuovi costi e continui nuovi aggravi di spesa per uno Stato sociale che non ce la farà a rincorrere continuamente queste situazioni di disagio. Certamente abbiamo un problema di risorse, ma abbiamo anche un problema di cattiva utilizzazione delle risorse stesse. Spesso sono state spese male, sono state sprecate e sono state usate in maniera sbagliata, perché non si è andati incontro alle esigenze delle famiglie - e di queste famiglie povere in particolare -, ma si è cercato di adottare una politica «tampone» fatta di provvedimenti d'urgenza di tipo più assistenziale che sussidiario; tali interventi non hanno prodotto praticamente nulla, perché l'assistenzialismo - come è noto - continua a mantenere le famiglie in povertà senza promuoverle e sganciarle dalla situazione in cui versano.
Occorre, allora, riallocare le risorse. Noi non chiediamo un aumento di spesa e non chiediamo di trovare risorse aggiuntive, poiché sappiamo bene che ci troviamo in un periodo di difficoltà. Dobbiamo, però, registrare che le prestazioni erogate finora, anche se per alcuni aspetti sono notevoli, non hanno conseguito l'effetto desiderato. Per quale ragione? Una delle ragioni è che, delle risorse erogate a fini sociali, ben il 66,9 per cento è destinato alle pensioni, mentre le prestazioni per lo Stato sociale ammontano a circa l'1 per cento. È un divario che - a detta del Ministro Turco, che lo denunciò circa dieci anni fa durante la Conferenza sulle politiche familiari organizzata dal Ministro stesso quando era in carica - non si registra in nessuna parte di Europa: spendiamo la stragrande maggioranza delle nostre risorse per il sistema pensionistico, con uno squilibrio funzionale straordinario.
Credo, allora, che ci si debba mettere nell'ottica di combattere la povertà e conoscere Pag. 8gli esiti, avere la possibilità di monitorare questi interventi e di sapere quali sono gli esiti positivi e negativi, per poter poi modificare e raddrizzare gli interventi in caso di situazioni negative.
Sappiamo bene che con la riforma del Titolo V della Costituzione molte delle politiche sociali sono diventate di esclusiva competenza delle regioni, mentre restano in capo allo Stato la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni e le politiche redistributive basate sulla leva fiscale e pensionistica. Dobbiamo pertanto agire a livello regionale, quindi a livello di enti locali e, nei limiti della rispettiva competenza, a livello dello Stato centrale.
Siamo convinti che bisogna cambiare le logiche. Lo ripeto, riallocare le risorse significa non attuare una promozione e un'offerta di servizi indiscriminata e senza un progetto né una linea d'azione, e mettere al centro la persona e la famiglia. Infatti, non è tollerabile, al giorno d'oggi, l'ho già ripetuto numerose volte in quest'Aula, che in Italia, un Paese civile, la povertà sia correlata al numero dei figli. È un'ingiustizia che non possiamo più a lungo tollerare.
Il divario tra nord e sud è sempre più evidente e si conferma, in base ai dati ISTAT, anche rispetto alla povertà infantile, come dicevo, alla disoccupazione femminile e alla mortalità infantile. Si tratta di dati che certamente non ci fanno onore. In altre parole, noi chiediamo che venga messo in campo il principio di sussidiarietà e non solamente quello di solidarietà, che è la bussola di ogni Stato sociale. Ma la solidarietà disgiunta dalla sussidiarietà produce disastri e, quindi, occorre una sussidiarietà che promuova le persone e le famiglie e le porti a svincolarsi dalla situazione di disagio in cui si trovano.
Ricordo che nell'ottobre del 2008 è stata approvata, qui in Aula, una mozione che impegnava il Governo in varie direzioni. Le richiamo rapidamente: considerare la lotta alla povertà, tenendo conto della multidimensionalità del fenomeno e dei processi di impoverimento e non solo della povertà come esito; considerare un obiettivo ordinario e non straordinario della politica del Paese la lotta alla povertà; dare rilievo all'aspetto culturale e valoriale delle scelte, a partire dal riconoscimento della centralità della persona, di una maggiore attenzione alla primaria difesa della vita e alla concreta valorizzazione del ruolo della famiglia e dei minori; elaborare una nuova riqualificazione della spesa sociale, intervenendo soprattutto d'intesa con gli enti locali, laddove gli squilibri territoriali siano maggiori; produrre una riorganizzazione dei servizi di sostegno economico all'inclusione sociale e il superamento dell'erogazione di sussidi una tantum e a pioggia; mettere in atto incisive azioni di contrasto per escludere la povertà e soprattutto - cosa cui tengo moltissimo - l'integrazione tra politiche sociali, politiche del lavoro, politiche per la formazione (quindi politiche scolastiche), politiche abitative e politiche della salute, attraverso accordi locali e patti per l'inclusione sociale.
Questa mozione è stata approvata dalla Camera e, quindi, impegna il Governo. Sono passati molti mesi, abbiamo vissuto la tragedia del terremoto in Abruzzo, non lo dimentichiamo e sappiamo quale sforzo deve essere compiuto per sostenere quelle popolazioni cui non perdiamo occasione per rinnovare tutta la nostra solidarietà. Tuttavia, rimane il fatto che chiediamo al Governo di procedere rapidamente e concretamente ad attuare quelle azioni che sono previste nella mozione che abbiamo approvato in questa sede il 9 ottobre 2008 e a realizzare politiche che vadano incontro alle famiglie con un maggior numero di minori o con persone disabili a carico perché, lo ripeto, non è tollerabile che a pagare siano, alla fine, sempre e solo le famiglie.
Infine, la mozione al nostro esame impegna a prevedere delle risorse aggiuntive - lo sappiamo bene: nei limiti delle disponibilità economiche, che non sono senza fine - al Fondo nazionale per le politiche sociali per il sostegno alla famiglia ed ai soggetti deboli.
Non si tratta di richieste impossibili e, lo ripeto, la Camera ha già impegnato il Governo. Vorremmo davvero avere delle Pag. 9risposte concrete dal Governo, perché questi dati, che ci pongono, come ho già sottolineato, come fanalino di coda in Europa, non fanno onore al nostro Paese, mentre vorremmo davvero che questo fosse un faro di civiltà e di attenzione agli ultimi (Applausi dei deputati dei gruppi Unione di Centro e Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Della Vedova, che illustrerà anche la mozione Cicchitto, Cota, Lo Monte ed altri n. 1-00155, di cui è cofirmatario. Ne ha facoltà.

BENEDETTO DELLA VEDOVA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, credo che non sia possibile discutere del welfare della povertà senza riconoscere che esso, almeno quanto la povertà in sé, costituisce un problema che in Italia, e soprattutto in Italia, mette severamente alla prova la capacità riformatrice della classe politica e la fantasia del legislatore.
Il welfare della povertà, come peraltro il welfare familiare, è totalmente da reinventare. Le esigenze del contrasto alla povertà sono state storicamente sacrificate non perché le politiche pubbliche abbiano riflettuto un'impostazione che un tempo si sarebbe detta di classe, ma perché hanno replicato i rapporti di forza interni alle diverse organizzazioni politiche e sociali e hanno dunque privilegiato in maniera abnorme alcuni interessi contro altri interessi, alcuni diritti contro altri diritti. In Italia il welfare della povertà è caduto vittima degli eccessi del welfare previdenziale, non dell'egoismo delle cosiddette classi agiate. È la struttura del welfare italiano, non l'indifferenza o l'inadempienza dei Governi pro tempore, a mettere gli uni contro gli altri gli occupati e i disoccupati, i vecchi e i giovani, gli uomini e le donne e a stabilire che in ogni caso siano i secondi - i disoccupati, i giovani e le donne - a soccombere.
Del resto su questo punto credo che si debba essere chiari: il Governo attuale ha la responsabilità di dodici mesi di iniziativa, ma credo che per comprendere la situazione attuale, anche rispetto ai dati che abbiamo esaminato e che sono alla base di questa discussione, dobbiamo ricordarci di quello che è successo fino a dodici mesi fa, dal punto di vista degli squilibri interni sul welfare italiano. Lo richiamo solo per buona memoria di tutti: poco più di dodici mesi fa, in quest'Aula, discutevamo del protocollo sul welfare del Governo Prodi che era, è stato e che è nei fatti un protocollo che ha determinato alcuni mutamenti del welfare italiano esattamente nella linea di continuità dello squilibrio a favore della previdenza e a discapito del resto della spesa sociale.
Pertanto la situazione che ci troviamo ad affrontare, e che noi affrontiamo con strumenti straordinari dentro il sistema così come si è delineato, è una situazione che, appunto, ha avuto come ultima spinta quella del Governo Prodi (le pensioni per i cinquantottenni, l'aumento dei contributi per i lavoratori con i salari più bassi ed i contratti meno garantiti). E quelle risorse sono quelle che oggi troviamo caricate sulla spesa sociale nel capitolo della previdenza e che forse sarebbe stato meglio lasciare libere per altre opzioni.
I poveri - e uso il termine secondo l'accezione più comune e, a mio parere, più corretta, che è quella della povertà assoluta, cioè riferita a coloro che non hanno i mezzi economici per soddisfare i bisogni essenziali - non hanno avuto poco perché lo Stato - e qui vengo alla mozione Franceschini ed altri n. 1-00148 - ha tolto poco ai cittadini più ricchi, cioè ai cittadini con i redditi più alti. Al contrario, invece, il massimo di sperequazione e di iniquità nella spesa sociale ha convissuto per anni - e oggi tuttora convive - con una fiscalità pesante e distorsiva sui redditi da lavoro e d'impresa.
Credo che in questo quadro emerga una natura demagogica della soluzione eccezionale che oggi il Partito Democratico propone nella mozione, cioè quella di innalzare del 2 per cento l'aliquota massima sul reddito personale al di sopra dei 120 mila euro. Una misura di questo tipo, peraltro secondo stime non ostili, come quelle apparse su lavoce.info, comporterebbe un aumento del gettito di 530 milioni Pag. 10di euro (probabilmente anche un po' meno, date le condizioni in cui ci troviamo), e anche se questo gettito fosse interamente spostato sui capitoli del welfare accrescerebbe di circa lo 0,15 per cento il complesso della spesa sociale, che corrisponde a circa 375 miliardi di euro nel 2005, secondo i dati Eurostat.
Questa proposta, cioè quella di un'aliquota ulteriore del 2 per cento su tutti i redditi al di sopra dei 120 mila euro, cari colleghi, è una proposta di populismo fiscale, anche perché questa misura, determinando un'accresciuta progressività fiscale, produrrebbe, nella migliore delle ipotesi, una riduzione della disuguaglianza, e non della povertà assoluta, che certamente non si affronta con le poche risorse che deriverebbero da questo ulteriore aumento della pressione fiscale. Si tratta di un populismo che mal si concilia, peraltro, con i propositi di lotta all'evasione fiscale, puntualmente richiamati nella mozione Franceschini ed altri n. 1-00148: la crescita delle aliquote nominali rappresenta, rispetto all'evasione fiscale, un formidabile incentivo.
Si tratta di un aspetto che ormai, a partire dal discorso del Lingotto di due anni fa, è un patrimonio comune tra Popolo della Libertà e Partito Democratico, ossia l'idea che la lotta all'evasione non possa essere portata avanti al grido «aumentiamo le tasse per i ricchi», ma che viceversa - e questo punto era ricordato nel famoso discorso di Veltroni al Lingotto - probabilmente bisogna riflettere, seguendo l'esperienza che si è verificata in tutti i grandi Paesi, sul fatto che una diminuzione delle aliquote - e in particolare delle aliquote marginali - è funzionale all'efficacia della lotta all'evasione.
Certo, il tema che sollevate gode di popolarità, non solo in Italia. È recentissimo il caso del budget del Regno Unito, in cui il Governo Brown ha proposto una misura in qualche modo analoga, dimostrando il coraggio di adottarla in modo molto più drastico e radicale, considerando una crescita dell'aliquota marginale del 10 per cento. Non credo però che questa sia la via. Non solo ne ha preso le distanze, nel Regno Unito, l'opposizione, ma perfino lo stesso Blair. Credo che l'idea di tassare non gli straricchi, ma coloro che hanno un lavoro qualificato sarebbe anche un messaggio sbagliato. Infatti, nel momento in cui avremmo bisogno di incentivare la formazione e la qualificazione delle persone e di portare in Italia il lavoro di qualità, che è accompagnato in misura evidentemente maggiore anche da stipendi elevati, diamo il segnale opposto. Anche per chi deve investire in Italia e portare lavoro di qualità il messaggio dell'aumento della pressione fiscale su questo tipo di redditi, certamente significativi ma non stratosferici, costituirebbe un messaggio sbagliato e distorsivo.
Peraltro, malgrado un'evasione fiscale relativamente alta e pesantemente concentrata nelle regioni meridionali, il gettito fiscale in Italia resta pari al 43 per cento del PIL, superiore a quello di grandi Paesi dalla grande ed efficace spesa pubblica come Francia e Germania. Quindi, questo è il primo dato di partenza: voi chiedete di aumentare la pressione fiscale, seppure in modo quantitativamente non così rilevante, ma molto importante da un punto di vista simbolico, in un Paese in cui la pressione fiscale è al 43 per cento del PIL. Sull'evasione fiscale, che richiamate nella vostra mozione, credo che vada preso atto di quanto è successo nel 2008, nel corso del quale sono aumentati del 29 per cento gli accertamenti e dell'8 per cento le riscossioni derivanti dall'attività di contrasto all'evasione fiscale. Abbiamo i dati di congiuntura, li conosciamo. Credo che prima di dire che i dati deludenti sulle entrate fiscali di questi mesi possano in qualche modo essere attribuibili ad un rilassamento dell'azione di contrasto all'evasione fiscale ci si possa tutti fare grazia di andare a fondo di quei dati e capire quanto, invece, siano influenzati dalla congiuntura negativa. Quindi, da questo punto di vista, con una certa linea di continuità, che peraltro ha attraversato i Governi e le maggioranze, si stanno ottenendo risultati importanti. Pag. 11
Per tornare all'oggetto principale, dobbiamo aprire una discussione seria sui nodi del nostro sistema di welfare, così come su quell'aspetto non separabile dalla questione sociale costituito dalle regole e dalle garanzie nel mercato del lavoro: infatti, molte delle situazioni di difficoltà, di sofferenza e anche di povertà degli working poor, cioè di coloro che il lavoro lo hanno, dipendono in modo diretto dalla struttura duale del mercato del lavoro in Italia. Abbiamo una parte dei lavoratori con contratti solidi e robusti che, al netto evidentemente del rischio della perdita di lavoro in questa congiuntura così particolare e delicata, possiamo perfino dire che hanno un dividendo dalla crisi con la diminuzione dei prezzi e di alcune tariffe importanti; poi tutto si scarica sulle persone che hanno contratti di lavoro più fragili.
Se la percentuale di spesa sociale destinata alle pensioni fosse in Italia pari alla media europea (non lo è, ed è una responsabilità generale, ma da qui secondo me bisogna partire), intorno al 45 per cento, e non oltre il 60 per cento, avremmo 36 miliardi di euro da investire sugli altri istituti di welfare (in particolare in questo caso per la lotta alla povertà, per gli ammortizzatori sociali, per i servizi per la famiglia e l'infanzia). Questa correzione consentirebbe di mobilitare cifre enormi, fino al 10 per cento dell'intera spesa sociale. Sarebbe una misura strutturale di un patto evidentemente assai più significativo, settanta volte l'una tantum che oggi - in via eccezionale - il Partito Democratico propone al Governo e al Parlamento. Quella sulla spesa previdenziale è una correzione che, come è ovvio, non sarebbe possibile né ragionevole proporre di realizzare dall'oggi al domani, ma che in una fase di crisi, in cui occorre evitare che si diffondano oltre il dovuto paura ed incertezza, va maneggiata con cautela. Tuttavia, su questo bisogna aprire la discussione. Se vogliamo guardare ai problemi del sistema dobbiamo indicarli con sincerità e non rifugiarci nella demagogia a buon mercato e nell'ottimismo di maniera. E se vogliamo guardare con realismo alla situazione eccezionale in cui il nostro Paese si trova anche in termini sociali, per effetto di una crisi che è globale, diventa molto difficile - e credo anche poco onesto intellettualmente - rimproverare all'Esecutivo (certo si poteva sempre fare di più e meglio, bisogna imparare dagli errori e faremo di più e meglio) di non aver utilizzato tutti gli strumenti normativi e di bilancio oggi disponibili per rispondere con assoluta tempestività alle situazioni di difficoltà che la congiuntura ha scaricato sui bilanci delle famiglie italiane.
L'estensione degli ammortizzatori sociali in deroga, il bonus straordinario per le famiglie, la social card (con tutto quello che possiamo mettere sul tavolo per polemizzare in modo strumentale sulla social card): sono tutti interventi che comportano trasferimenti straordinari a vantaggio delle fasce più svantaggiate della popolazione, per un importo complessivo di circa 11 miliardi di euro. Per la prima volta beneficiano di misure di sostegno al reddito anche i lavoratori parasubordinati; si sta tentando, in maniera massiccia peraltro, in particolare attraverso le deroghe sulla cassa integrazione, di preservare i livelli occupazionali, e probabilmente, in buona misura, ci si riuscirà. Nell'immediato, per l'emergenza, credo che non sarebbe stato possibile fare di più, e sarebbe stato di certo possibile fare di meno e peggio. Poi, su questa via dell'eccezionalità, in una cornice data, si può lavorare e sicuramente si lavorerà nell'immediato futuro.
Nel medio e lungo periodo, proprio per muoversi lungo la linea di quel welfare inclusivo e non assistenziale su cui dobbiamo spingere le nostre politiche sociali, sarebbe auspicabile che i contributi del Parlamento, dalla maggioranza come dall'opposizione, dessero sostanza all'esigenza di innovazione, e non sfidassero l'Esecutivo da posizioni di retroguardia o con soluzioni di retroguardia. Il nuovo welfare non può ragionevolmente passare, e presumibilmente non passerà, da un aumento della pressione fiscale e della spesa pubblica, ma da una riqualificazione del sistema e della spesa di protezione sociale. Pag. 12
Prima delle misure eccezionali adottate dal Governo il nostro Paese spendeva per gli ammortizzatori sociali meno di un terzo della media UE, il 2 per cento; per i servizi alle famiglie e all'infanzia la metà; per il contrasto alla povertà sette volte di meno, lo 0,2 per cento. È chiaro che quando si tornerà «a regime» bisognerà cambiare questi numeri, che al di fuori dell'emergenza economica rappresentano una vera e propria emergenza sociale.
In conclusione, credo che rispetto alla questione della povertà non deve sfuggire che solo la crescita economica può curare la causa e prevenire in modo sistematico gli effetti. Ma ancora una volta se vogliamo porre le nostre proposte al servizio di obiettivi di crescita dobbiamo chiederci non come aumentare ma, casomai, come iniziare quanto prima a ridurre la pressione fiscale.
La mozione Cicchitto, Cota, Lo Monte ed altri n. 1-00155 impegna il Governo a muoversi nella direzione in cui si sta muovendo nell'emergenza, potenziando, registrando e monitorando gli strumenti che sono stati messi in campo, a partire dal Libro bianco sul welfare, presentato da parte del Ministero del lavoro, con la proposta di un disegno organico affinché non solo nei tempi di emergenza, ma anche nei tempi ordinari, che tutti ci auguriamo tornino al più presto, si cominci a costruire un welfare meno squilibrato, meno iniquo, meno duale e, quindi, un welfare che ordinariamente garantisca gli strumenti per la lotta alla povertà.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Misiti. Ne ha facoltà.

AURELIO SALVATORE MISITI. Signor Presidente, il dibattito sul contrasto alla povertà credo sia una delle questioni principali che dovrebbe affrontare il nostro Parlamento in questo momento, in cui viviamo una fase di crisi che ha aggravato le situazioni precedenti. Sappiamo che quando si parla di povertà assoluta ci si riferisce ad un concetto globale che, se andiamo a vedere, riguarda un po' tutti i Paesi.
In particolare, la povertà assoluta interessa 2,3 miliardi di persone sul pianeta. Quando parliamo di povertà assoluta non ci riferiamo esclusivamente alla sopravvivenza fisica, in quanto in Italia fortunatamente ci si riferisce anche al soddisfacimento di altri bisogni sociali. Quindi, è chiaro che la povertà assoluta, riferita alla sopravvivenza fisica nel mondo intero, concerne redditi estremamente più bassi di quelli relativi alla povertà assoluta nel continente europeo, in particolare in Italia. Dunque, quando ci riferiamo al contrasto alla povertà assoluta dobbiamo sempre guardare il fenomeno in termini relativi.
Il concetto di povertà assoluta nel nostro Paese è stato definito da una commissione di studio appositamente costituita dall'ISTAT che proprio il 22 aprile scorso ha presentato questo nuovo metodo di stima della povertà assoluta. In linea con standard condivisi a livello internazionale la commissione è stata incaricata di rivedere i requisiti del paniere utilizzato per la stima della povertà assoluta. Sulla base di questa nuova metodologia di stima proprio l'ISTAT ha presentato alcuni dati sulla povertà assoluta (sempre riferita al nostro Paese) secondo cui nel 2007 (quindi prima della crisi sia finanziaria, sia economica) nel nostro Paese 975 mila famiglie si trovavano in condizioni di povertà assoluta, ovvero il 4,1 per cento delle famiglie residenti. In queste famiglie, inoltre, vivono circa 2 milioni e 500 mila individui che rappresentano il 4,1 per cento della popolazione. Come è noto il fenomeno è maggiormente diffuso nel Mezzogiorno d'Italia e nelle isole dove l'incidenza della povertà assoluta raggiunge il 5,8 per cento. Per quanto riguarda il nord, invece, la percentuale di famiglie povere in termini assoluti è invece del 3,5 per cento e del 2,9 per cento per il centro Italia.
Secondo l'ISTAT si può notare che le incidenze maggiori si hanno tra le famiglie più numerose e la povertà è associata ai bassi livelli d'istruzione, ai bassi profili professionali e all'esclusione soprattutto dal mercato del lavoro. Vale la pena, quindi, sottolineare che questi dati sulla Pag. 13povertà «assoluta» - sempre tra virgolette rispetto alla povertà assoluta mondiale - del 2007, appena presentati dall'ISTAT, forniscono un quadro che riguarda proprio la vigilia della crisi economica, quindi non scontano gli effetti della crisi economica in atto che oggi non conosciamo con esattezza, né sappiamo gli effetti che si avranno nei prossimi mesi e forse nel prossimo anno proprio sul concetto della povertà assoluta.
Vi è, inoltre, la cosiddetta povertà relativa che individua la condizione di povertà nello svantaggio di alcuni soggetti rispetto agli altri.
Con la povertà relativa si intende una condizione di deprivazione inserita all'interno di una vasta rete di relazioni sociali, cioè le disuguaglianze che caratterizzano una data società in un dato momento; anche questa è una condizione che, evidentemente, va esaminata (in questo caso, individua la disuguaglianza tra poveri e ricchi sulla base di una spesa media mensile fissata per tutti). I dati ISTAT disponibili parlano, invece, di 2 milioni e 623 mila famiglie, che rappresentano l'11,1 per cento delle famiglie residenti.
Si tratta, quindi, di 7 milioni e mezzo di persone, circa il 13 per cento, come hanno messo in rilievo altri relatori che mi hanno preceduto. Sono poco meno di due milioni le famiglie non povere, ma che sono, tuttavia, a rischio di indigenza.
Già nel 2005 un rapporto Eurispes aveva parlato di una società dei tre terzi: diceva che un terzo vive all'interno di una zona di sicuro disagio sociale e indigenza economica, un terzo appare assolutamente garantito e la fascia centrale, i cosiddetti ceti medi, vive in una condizione di instabilità e di precarietà, cioè a dire che può, in casi determinati, scendere verso la fascia che non è garantita e che soffre di disagio sociale.
Le rilevazioni ufficiali e i dati statistici relativi alle persone in difficoltà, se consentono di delineare un quadro chiaro e significativo del problema, spesso riescono a intercettare una ben più vasta area di povertà materiale e di esclusione ufficiale.
Abbiamo visto che il 21 aprile scorso il direttore del Servizio studi della Banca d'Italia, dottor Brandolini, in un'audizione al Senato ha sottolineato, fra le altre cose, come i confronti internazionali, almeno all'interno della parte avanzata dei Paesi, sfavoriscano l'Italia purtroppo anche in questo settore, per quanto riguarda la povertà.
Il livello della povertà e della disuguaglianza dei redditi familiari nel nostro Paese, diceva Brandolini, è di molto superiore a quello delle nazioni nordiche dell'Europa continentale ed in linea con altri Paesi del Mediterraneo, che si affacciano anche sull'altra sponda.
Sempre in quell'audizione è stato ribadito come, in una fase di recessione, i lavoratori a termine e quelli parasubordinati siano chiaramente i più esposti alla perdita di occupazione e contemporaneamente anche i meno protetti dagli ammortizzatori sociali.
Peraltro, in una situazione in cui molte famiglie hanno risorse patrimoniali limitate, assume rilievo la debolezza della rete di protezione sociale italiana e pesa la mancanza di strumenti di sostegno al reddito nelle condizioni di maggiore difficoltà economica.
Vi è, quindi, un fattore casa, una contrazione del welfare, una precarizzazione del lavoro, una riduzione del potere d'acquisto: tutti fattori che favoriscono questo processo di impoverimento e che, diciamo pure, esaltano la vulnerabilità e l'incertezza, estendendole a fasce sociali fino a qualche anno fa relativamente al sicuro.
Secondo questo rapporto ISTAT del 2007, quindi, il 50 per cento dei nuclei familiari vive con meno di 1.900 euro al mese, il 15 per cento delle famiglie non arriva alla quarta settimana e il 6,2 per cento ritiene di non potersi permettere un'alimentazione adeguata.
È vero che non è giusto, che non è necessario, per affrontare questo problema, ricorrere soltanto ad interventi fiscali una tantum, ma ritengo che in questo momento bene ha fatto il PD, nella mozione Franceschini ed altri n. 1-00148, a chiedere un segnale una tantum, è vero, Pag. 14non strutturale, un aumento della fiscalità per i redditi alti, perché in questo momento c'è bisogno di dare un esempio! Sappiamo che in tutti i Paesi, a partire dagli Stati Uniti, dov'è nata la crisi, ai Paesi maggiori dell'Europa, al Giappone, si è intervenuti per aiutare le banche, che erano state poi quelle strutture, quegli enti che avevano provocato la crisi finanziaria che ha portato alla crisi economica, e contestualmente quelli che guadagnavano di più hanno continuato a guadagnare di più: pensiamo ai manager delle banche che fallivano!
Abbiamo quindi necessità di dare anche un'indicazione e un messaggio ai cittadini che hanno poco: invertire la tendenza, non prendere a tutti, e dunque anche ai poveri per dare ai ricchi, ma prendere ai ricchi per dare ai poveri. Quindi, noi non possiamo che fare nostra la misura proposta nella mozione Franceschini ed altri n. 1-00148.
È logico che sono necessari interventi strutturali mirati nei confronti degli incapienti: di queste 5 milioni di persone, di cui oltre la metà pensionati, che proprio per il loro basso reddito sono nell'impossibilità di godere di qualunque deduzione e detrazione. È ovvio che le politiche fiscali non possono esaurire tutto il bisogno di protezione sociale delle famiglie, ma è indispensabile che dette politiche vengano integrate con efficaci politiche dei servizi, nell'ambito dell'istruzione, della salute, del lavoro. E, da questo punto di vista, il Fondo nazionale per le politiche sociali, le cui risorse sono ripartite annualmente con decreto del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, è uno strumento fondamentale per il finanziamento dei servizi sociali e degli interventi di solidarietà sociale. La dotazione complessiva del Fondo risulta però insufficiente, e la legge finanziaria del 2009, non tanto tempo fa, ha ridotto ancora le risorse complessive assegnate ad esso. È vero che abbiamo un alto debito pubblico, le risorse sono limitate, la profonda crisi economica in atto acuisce drammaticamente le disparità sociali, ma è anche vero che non possiamo continuare a prendere ai meno ricchi e dare ai ricchi, oppure a prendere dalle zone del Paese più svantaggiate, come il Mezzogiorno, e trasferire risorse verso le zone meno svantaggiate.
È quindi chiaro che la prima questione, la prima opportunità che si propone è sicuramente quella della lotta all'evasione e all'elusione fiscale; ma noi sappiamo che le scelte di politica economica e fiscale del Governo hanno dimostrato un evidente lassismo in questo senso, se non addirittura un allentamento delle norme in materia. Bisogna ricordare per esempio, fra tutte, la soppressione disposta dal decreto-legge n. 112 del 2008 dell'obbligo di allegare alle dichiarazioni IVA gli elenchi dei clienti e dei fornitori (peraltro, in ragione dell'ormai generalizzata informatizzazione della tenuta delle contabilità, ciò non avrebbe provocato particolari complicazioni gestionali ed oneri aggiuntivi ai contribuenti); l'abrogazione, sempre contenuta nel decreto-legge n. 112 del 2008, della limitazione all'uso dei contanti e degli assegni, rintracciabilità dei pagamenti e di tenuta da parte dei professionisti di conti correnti dedicati. È, inoltre, ben noto anche che molti evasori hanno potuto beneficiare degli effetti favorevoli del condono, senza in realtà pagare le somme ampiamente scontate rispetto a quanto originariamente dovuto, ma limitandosi al pagamento della sola prima rata. (Vogliamo riprendere le altre rate? La Corte dei conti ha invitato il Governo a procedere in questa direzione). Ecco cosa vorremmo noi che il Governo facesse in questo periodo!
Certo è vero che bisogna rimettere in moto l'economia e che questo quindi risolverà il problema; ma non lo risolverà del tutto perché sappiamo che anche quando era in moto l'economia, la crisi non c'era e le esportazioni tenevano, le fasce di povertà esistevano, eccome se esistevano!
Superare la crisi economica significa parzialmente anche superare il problema della povertà, ma non del tutto; bisogna provvedere con strumenti e con decisioni strutturali, in modo tale che sia nei periodi Pag. 15di crisi, sia quando la crisi è superata, si possa continuare ad avere una curva redistributiva più favorevole ai redditi medio bassi, anche attraverso l'incremento delle detrazioni per i carichi familiari, in particolare per i figli minori.
Occorre, ad esempio, restituire il fiscal drag (il drenaggio fiscale) a cominciare dai contribuenti con più basso reddito, prevedere interventi strutturali di carattere fiscale per quei cittadini che in conseguenza del basso reddito sono nell'impossibilità di beneficiare di qualunque deduzione o detrazione, introdurre norme a sostegno dei lavori cosiddetti atipici (ed è questa una questione che riguarda anche il precariato); invece, mi pare che le politiche del Governo in quest'ultimo periodo vanno in tutt'altra direzione.
Occorre poi mettere in atto una seria politica di contrasto all'evasione e all'elusione fiscale (che potrebbe effettivamente recare un contributo), scegliere di ridurre i costi dei servizi per le famiglie che hanno, ad esempio, più di tre figli, aumentare le risorse a favore degli asili nido (confermando il tempo pieno in ambito scolastico), intervenire presso le banche e favorirle a condizione che favoriscano anche loro l'accesso al credito bancario specialmente per i lavoratori atipici e per quelli precari, affinché possano avere una speranza di accedere ad un lavoro più stabile e ad un'abitazione (almeno alla prima abitazione).
Il Governo quindi - questo vorremmo - deve porre al centro la lotta all'aumento del costo della vita come priorità assoluta della propria azione ed intervenire a favore dei lavoratori dipendenti precari, dei pensionati, delle famiglie monoreddito, anche attraverso i provvedimenti cui accennavo prima.
Se si va in questa direzione credo che, a seguito di questo dibattito - questo ulteriore dibattito dell'Assemblea di Montecitorio, che già in un passato anche recente ha approvato atti e dato indicazioni in questa direzione abbastanza unitari, anche e soprattutto da parte dell'opposizione -, il nostro atteggiamento sarà sicuramente molto più favorevole e benevolo. Approveremo dunque quelle mozioni che contengono i concetti che qui abbiamo enunciato. Grazie, signor Presidente (Applausi dei deputati del gruppo Italia dei Valori).

PRESIDENTE. Grazie a lei, onorevole Misiti. È iscritto a parlare l'onorevole Misiani. Ne ha facoltà.

ANTONIO MISIANI. Signor Presidente, come hanno ricordato pressoché tutti i colleghi che sono intervenuti, in Italia - secondo gli ultimi dati ISTAT che sono relativi al 2007 - 7 milioni e mezzo di persone (cioè il 12,8 per cento della popolazione) versano in condizioni di povertà, e di questi 2 milioni e 400 mila - è un dato reso noto pochi giorni fa - vivono nella cosiddetta povertà assoluta, cioè non hanno i mezzi economici nemmeno per acquisire beni e servizi essenziali per uno standard di vita definito come minimamente accettabile.
Secondo Eurostat, l'Italia, dopo la Lettonia, e insieme alla Grecia e alla Spagna, tra i Paesi europei, è quello con la maggiore percentuale di cittadini a rischio di povertà: il 20 per cento nel 2007, contro il 16 per cento della media dell'Unione europea. L'OCSE, infine, sempre per fare dei confronti internazionali, in un rapporto di pochi mesi fa, Growing Unequal, ha evidenziato come, tra i trenta Paesi più avanzati del mondo, l'Italia abbia il sesto gap più grande tra ricchi e poveri. Sono numeri preoccupanti perché destinati a peggiorare in relazione alla gravissima crisi economica che noi, come gli altri Paesi, stiamo soffrendo.
Secondo le previsioni dei principali organismi internazionali, la disoccupazione nel nostro Paese nel 2010, dopo parecchi anni, ritornerà a due cifre. Questo vuol dire che, rispetto al 2007, l'ultimo anno di crescita economica, avremo un milione di disoccupati in più, ovvero centinaia di migliaia di famiglie prive di reddito di lavoro, in molti casi senza ammortizzatori sociali e quindi in grave rischio di povertà e di privazione economica.
I dati che sommariamente ho cercato di citare sulla povertà spiegano molte cose Pag. 16sulla realtà sociale del nostro Paese, perché, dietro questa media del 12,8 per cento di cittadini in condizione di povertà relativa, o del 4,1 per cento in povertà assoluta, vi sono gli enormi squilibri della società italiana: l'incidenza della povertà è più che doppia nel Mezzogiorno. Questo dato ci racconta un Paese che continua ad essere spaccato in due, perché quel dato è molto più alto ed in peggioramento per le famiglie numerose, per le coppie con due o più figli, e per le famiglie monogenitoriali. Questi numeri ci dicono quanto sia difficile in Italia creare una famiglia, pensare di diventare genitori o essere donna ed avere figli.
L'aggravamento della situazione di povertà dei giovani tra i 18 e i 34 anni e delle famiglie, che hanno un capofamiglia giovane, ci racconta la disparità tra le generazioni di questo Paese; ci racconta un'Italia che, per tanti, troppi anni, ha scaricato sulle generazioni future i propri problemi economici e sociali. L'aumento di quelli che nei Paesi anglosassoni chiamano working poor (i poveri che lavorano), dimostra ciò che è oggi il mercato del lavoro in questo Paese. Un Paese in cui il fatto di avere un'occupazione non rappresenta più, come in passato, la garanzia di essere fuori dalla condizione di povertà, di avere stabilità economica, di poter guardare al futuro con una ragionevole sicurezza.
Oggi in Italia abbiamo centinaia di migliaia di precari, di lavoratori interinali, a tempo determinato, con contratti a progetto o a collaborazione, che possono essere lasciati a casa da un giorno all'altro e che sono a forte rischio di impoverimento, dato che già in una condizione di lavoro percepiscono redditi spesso irrisori e non tali da metterli in condizione di creare una famiglia e di avere una vita stabile. La Commissione nazionale d'indagine sull'esclusione sociale parla di un modello italiano di povertà, di un ventre molle della fragile società italiana su cui occorrerebbe ridefinire gli assi portanti delle politiche di contrasto della povertà.
Signor Presidente, credo che il problema stia esattamente in questi termini: ridefinire le politiche di contrasto della povertà in questo Paese, perché l'Italia sta affrontando questa gravissima crisi economica con la rete di protezione sociale più fragile tra i Paesi dell'Unione europea. Il nostro è un Paese che, per contrastare l'esclusione sociale, spende 13 euro pro capite contro una media di 80 euro dell'Unione europea che sale a 200 o 300 euro nei Paesi del nord Europa. Noi spendiamo lo 0,2 per cento delle nostre spese sociali per contrastare l'esclusione sociale contro la media dell'1,3 per cento dei Paesi dell'Unione area europea. Siamo l'unico Paese dell'Unione europea, insieme a Grecia e Ungheria, completamente privo di un sistema nazionale di reddito minimo garantito, di inserimento che garantisca una vera rete di protezione per i poveri del Paese. Noi avevamo iniziato, come è noto, nel 1998 a sperimentare il reddito minimo di inserimento; cinque anni dopo questo esperimento è stato bruscamente interrotto e non è stato sostituito da alcunché, anche in virtù - va ricordato - del trasferimento di competenze dallo Stato centrale alle regioni attuato dal titolo V della Costituzione che ha reso più complesso il quadro della ripartizione delle competenze in materia di protezione sociale tra lo Stato e gli enti territoriali.
Fatto sta che vi è oggi un'assenza molto grave, in rapporto a quanto accade negli altri Paesi europei, di strumenti specifici di contrasto alla povertà. Questa povertà, questa debolezza della nostra rete di protezione sociale si riflette in un numero tale che non può non colpirci. Secondo Eurostat in Italia, prima dei trasferimenti sociali (cioè senza la rete di welfare), è a rischio di povertà il 24 per cento dei cittadini; questo 24 per cento scende al 20 per cento dopo l'intervento della previdenza, dell'assistenza e di quel tanto o poco che in Italia esiste per contrastare la povertà (si tratta di quattro punti in meno); la media dei Paesi UE ci dice che nell'Unione europea è a rischio di povertà, prima dei trasferimenti, il 25 per cento della popolazione; quindi l'Europa, prima del welfare sta peggio dell'Italia; questo 25 per cento però scende al 16 per cento (nove punti in meno) con l'intervento di Pag. 17reti di welfare e di protezione molto più strutturati, efficaci ed efficienti di quelle italiane. È questo il dato che deve spingerci ad una riforma strutturale della rete di protezione del nostro Paese. È questo dato che deve dirci quanto sia urgente rafforzare e modernizzare le politiche di prevenzione e di contrasto della povertà, perché la povertà non si contrasta soltanto ex post ma anche ex ante, costruendo una società capace di includere e di dare occupazione di qualità, di garantire reddito, e di mettere le persone in condizione di esprimere pienamente le loro potenzialità.
Modernizzare le politiche vuol dire intervenire con la leva fiscale, i trasferimenti monetari, la previdenza, la sicurezza sociale, i servizi e quelle misure universalistiche, o ispirate all'universalismo selettivo, che esistono negli altri Paesi europei.
In Italia, tra il 2006 e il 2008, nella legislatura precedente (che lei, Presidente Bindi, si ricorderà molto bene, perché ne è stata una protagonista), questo processo di riforma, di rafforzamento di questa debole rete di protezione sociale italiana era iniziato: mi riferisco al miliardo di euro stanziato per il potenziamento degli assegni ai nuclei familiari; al bonus per gli incapienti; alla quattordicesima mensilità per i pensionati con le pensioni più basse; al miglioramento della durata e della forza dell'indennità di disoccupazione; alle detrazioni sugli affitti e ai tanti fondi per le politiche sociali stanziati, appunto, tra il 2007 e il 2008.
Quel processo - mi dispiace dirlo - si è interrotto con l'attuale Governo che, di fronte alle esigenze di una riforma strutturale e alla gravità della crisi economica, sta facendo poco e male. Infatti, da una parte, ha messo in campo due interventi che sono stati ricordati, la social card e il bonus famiglia, che sono partiti tra grandi fanfare, ma, a conti fatti, questi interventi si stanno rivelando nettamente al di sotto delle aspettative, perché la social card doveva andare ad un milione e 300 mila persone, mentre a fine marzo (secondo i dati resi noti dalla trasmissione Report) sono pervenute 700 mila domande e sono state attivate 517 mila carte, con costi amministrativi tra l'altro molto superiori al milione e 400 mila euro ricordato in quest'Aula dal Governo, e soprattutto con l'amara beffa - lasciatemelo dire - di migliaia di persone (molto spesso anziani) che sono andate in coda al supermercato con tessere che ritenevano attive, e che al momento di pagare si sono rivelate non cariche e quindi inutilizzabili. Questo ci dice come sia stata sostanzialmente fallimentare per il momento l'esperienza della social card.
Il bonus famiglie, dal canto suo, doveva andare a 8 milioni di contribuenti (così stava scritto nella relazione tecnica del decreto che lo ha introdotto). Secondo le stime del coordinamento dei CAF della CISL, ad oggi sono due milioni e 900 mila i contribuenti potenzialmente beneficiari del bonus famiglia. Quindi, abbiamo avuto due interventi spot, oltretutto poco mirati in rapporto a quella geografia della povertà cui facevo riferimento in precedenza, perché la social card ha escluso quattro poveri assoluti su cinque (su due milioni e 400 mila l'hanno ricevuta poco più di mezzo milione di persone), e perché il bonus famiglie - come ci ricordano l'Associazione nazionale famiglie numerose, o Avvenire nelle sue inchieste - è andato a famiglie con figli solo nel 18 per cento dei casi. In altre parole, il bonus famiglie in realtà è stato un bonus single in questo Paese e quindi ha escluso, per la gran parte dei casi, proprio quelle famiglie con figli minori che hanno un'intensità e una diffusione della povertà relativa molto superiore alla media, come ricordavo in precedenza.
Quindi, interventi spot, mirati male rispetto alle esigenze e decisamente meno impegnativi dal punto di vista economico rispetto a quanto avevate annunciato. Infatti, a conti fatti, sulla social card e sul bonus famiglie la spesa sarà superiore di poco al miliardo di euro rispetto ai tre miliardi che erano stati annunciati inizialmente. Da una parte, quindi, due misure insufficienti, per essere generosi nel giudizio complessivo su questi interventi del Governo. Dall'altra, silenziosamente, con Pag. 18la discussione della legge finanziaria, voi avete drasticamente tagliato gli stanziamenti veri per le politiche sociali, a partire dal Fondo nazionale per le politiche sociali che valeva un miliardo e 582 milioni nel 2008 e che avete ridotto ad un miliardo e 312 nel 2009. Si scenderà via via per arrivare a 921 milioni nel 2011: 42 per cento in meno, centinaia di milioni di euro, di risorse in meno agli enti locali, al welfare municipale, di stanziamenti contro la povertà e l'emarginazione.
Questo taglio diventa ancora più drammatico se allarghiamo l'orizzonte agli altri fondi destinati alle politiche sociali: quello per l'inclusione degli immigrati, quello per i servizi per la prima infanzia, per le non autosufficienze, per le abitazioni in locazione, per le pari opportunità. Abbiamo un taglio del 70 per cento delle risorse tra il 2008, rispetto a quanto era stanziato nel 2008 dal precedente Governo, e quanto invece sarà disponibile nel 2011.
Dunque, colleghi, la nostra mozione parte esattamente da qui: dall'urgenza in un periodo di crisi di varare anzitutto misure immediate per aiutare chi più ha bisogno. La crisi sta mordendo e morderà ancora di più nei prossimi mesi e noi abbiamo l'esigenza di dare una risposta vera ed efficace, non elemosine, alle centinaia di migliaia di famiglie che si troveranno in grande difficoltà nell'immediato futuro.
Ma, dall'altro lato, abbiamo l'esigenza di definire una strategia di contrasto alla povertà forte, credibile, che integri le politiche sociali del lavoro, della formazione, della casa, le misure fiscali, le misure monetarie. Non bisogna inventarsi granché; è sufficiente guardare alle migliori esperienze dei Paesi europei, a chi, prima di noi, meglio di noi ha saputo fornire aiuto concreto alle persone in condizioni di povertà relativa o assoluta. Questo significa - è la proposta della nostra mozione - che l'Italia ha bisogno di un fondo nazionale per il contrasto della grave emarginazione.
Dobbiamo rafforzare il sistema dei servizi, l'accoglienza, l'accompagnamento, la protezione di chi si trova in condizione di grave emarginazione e l'Italia ha bisogno di reintegrare i fondi per le politiche sociali drasticamente tagliati nel silenzio dell'opinione pubblica, mentre tra le grancasse e le fanfare si varava la social card e il bonus famiglie che sono andati ad un numero minore di persone rispetto agli annunci iniziali.
Certamente queste proposte hanno bisogno di risorse, anche ingenti. Noi avanziamo due proposte molto chiare e semplici: la prima consiste nel riprendere la lotta all'evasione fiscale. Stiamo perdendo miliardi di euro per l'allentamento della lotta all'evasione e all'elusione. Anche i dati delle entrate tributarie nei primi mesi ci dicono esattamente questo: vi è un calo anomalo delle entrate tributarie che nemmeno la pessima congiuntura economica spiega. C'è qualcosa che va oltre l'andamento dell'economia e che si chiama evasione ed elusione fiscale. Bisogna rapidamente restringere i bulloni, le maglie della rete di controllo del rispetto delle norme fiscali e recuperare i miliardi di euro che stanno sfuggendo all'erario italiano.
La seconda proposta è un contributo di solidarietà del 2 per cento sui redditi superiori a 120 mila euro, parlamentari compresi, per dare il segnale di un patto sociale di solidarietà; per dare al Paese il segnale che, in una fase difficile (quella che stiamo vivendo è una fase molto difficile, la più difficile dal dopoguerra), in una fase come questa, chi più ha dà una mano in più a chi rischia di rimanere indietro, a chi non ce la fa e sono tanti in questo Paese.
Infatti, al di là della retorica obbligata dei Capi di Governo - e il nostro bisogna dire che è un maestro da questo punto di vista - l'uscita dal tunnel della recessione, dal tunnel della crisi economica è di là da venire. Il 2009, dal punto di vista economico, sarà il peggiore anno dal dopoguerra. Nel 2010 vi sarà la ripresa, come tutti auspichiamo, ma sarà lenta e faticosa e, nel frattempo, la disoccupazione continuerà a crescere: centinaia di migliaia di famiglie vivono e vivranno tempi di grande incertezza e precarietà. Pag. 19
Nelle fasi di crisi le classi dirigenti sanno tradurre i problemi in opportunità.
Sanno cogliere lo spazio anche politico per compiere scelte coraggiose, che in tempi normali sono più difficili da condurre ad approvazione.
Questo è il momento delle scelte che guardino al futuro, delle scelte strutturali, delle riforme che, per troppo tempo, questo Paese ha accantonato o non ha avuto il coraggio di fare. Signor Presidente, ho concluso: con la propaganda le famiglie italiane non arrivano a fine mese e con gli spot i 7 milioni e mezzo di poveri relativi (mi si passi il termine) ed i 2 milioni e 400 mila poveri assoluti non fanno la spesa, non pagano l'affitto.
Con la mozione in esame chiediamo al Governo di fare di più: di raccogliere questa sfida, di investire le risorse che servono - e si possono trovare, come dimostriamo con la nostra mozione in esame - per aiutare veramente, e sono tanti, coloro che oggi stanno rimanendo inesorabilmente indietro (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico, Italia dei Valori e Unione di Centro).

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali delle mozioni.
Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.

GIUSEPPE PIZZA, Sottosegretario di Stato per l'istruzione, l'università e la ricerca. Il Governo si riserva di intervenire nel prosieguo del dibattito.

PRESIDENTE. Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Discussione della mozione Volontè e altri n. 1-00152 concernente iniziative in materia di parità scolastica (ore 18,40).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della mozione Volontè e altri n. 1-00152 concernente iniziative in materia di parità scolastica (Vedi l'allegato A - Mozioni).
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi riservati alla discussione è pubblicato in calce al resoconto stenografico della seduta del 23 aprile 2009.
Avverto che in data odierna è stata altresì presentata la mozione Cicchitto, Cota, Lo Monte ed altri n. 1-00154 che, vertendo su materia analoga a quella trattata dalla mozione all'ordine del giorno, verrà svolta congiuntamente. Il relativo testo è in distribuzione (Vedi l'allegato A - Mozioni).

(Discussione sulle linee generali)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali delle mozioni.
È iscritta a parlare l'onorevole Capitanio Santolini, che illustrerà anche la mozione Volontè ed altri n. 1-00152, di cui è cofirmataria. Ne ha facoltà.

LUISA CAPITANIO SANTOLINI. Signor Presidente, nello stesso giorno trattiamo due questioni che stanno particolarmente a cuore all'Unione di Centro, ma credo dovrebbero stare particolarmente a cuore a tutti coloro che si occupano di famiglie e che si occupano del benessere di questo Paese.
Si parlava di povertà prima e dell'emergenza povertà; con la mozione in esame intendiamo accendere i riflettori, invece, sull'emergenza educativa, una formula felice che dice molte cose sul problema dell'educazione in Italia. Si tratta di un'emergenza educativa sempre più preoccupante, che porta sulle pagine dei giornali episodi drammatici, che devono preoccupare tutti e che la crisi economico-finanziaria che stiamo attraversando rischia di accantonare e di considerare assolutamente marginale, mentre invece il fallimento dell'educazione e della formazione delle persone porta a scelte drammatiche, spesso irrimediabili, che producono ferite profonde nel vivere civile. Pag. 20
Quindi, il problema del prestare attenzione all'emergenza educativa non è un problema di qualcuno affezionato al tema, ma è un'esigenza sociale ed è evidente la necessità di trovare non solo più risorse, ma anche di porre maggiore attenzione alla tematica in discussione (so che il sottosegretario Pizza, che è qui presente, di tali questioni nello specifico si occupa e so che è particolarmente attento a tali problemi: mi auguro davvero che ascolti e che poi il Ministro Gelmini o il sottosegretario vorranno rispondere in maniera positiva alla nostra mozione in esame).
La crescita dei giovani (morale, spirituale, di formazione, di educazione, di cultura e di sapere) è una scommessa per il futuro del Paese. Ebbene, per superare l'emergenza educativa vi sono, a nostro avviso, quattro modi che devono essere portati avanti contemporaneamente.
Il primo è costituito dall'attuazione vera e piena dell'autonomia scolastica, che non è ancora in atto, ma è solamente dichiarata, un'autonomia formale che esiste sulla carta, ma che, in realtà, non è attuata perché - è noto a tutti - le migliaia di scuole presenti sul nostro territorio pienamente autonome non sono, come dimostra la loro impossibilità di reclutare gli insegnanti e la loro impossibilità di essere effettivamente responsabili dell'offerta formativa che offrono alle famiglie.
Il secondo requisito indispensabile è costituito dall'attenzione agli insegnanti e alla loro carriera; purtroppo, i tagli del Governo non ci hanno consentito di prevedere nulla di buono, perché ci saranno migliaia e migliaia di precari e noi siamo subissati da e-mail da parte di insegnanti che si lamentano della loro situazione e del loro futuro.
C'è poi il problema della valutazione, per cui le famiglie devono essere messe in condizione di sapere quale scuola funziona e quale no, così come devono essere messe in condizione di scegliere in maniera responsabile e, anche loro, autonoma la scuola più adatta e migliore per i loro figli.
Il quarto aspetto che deve essere portato avanti, insieme a tutti gli altri, è il problema della libertà di scelta educativa delle famiglie. La vera libertà di educazione è la chiave di volta per migliorare il sistema scolastico italiano: noi ne siamo convinti, non mi pare che il Governo lo sia altrettanto, o, se lo è, non mi pare che vi siano in campo delle misure adatte ad affrontare questo problema. Teoricamente, dal 2000 le famiglie sarebbero in grado di compiere tale scelta, perché da quell'anno le scuole paritarie sono qualificate, a pieno titolo, come un servizio pubblico e sono in condizione di erogare un servizio che le famiglie possono tranquillamente scegliere: peccato che tutto ciò non possa avvenire, perché non vi sono risorse a sostegno della legge n. 62 del 2000. Tale legge riconosce piena dignità alle scuole paritarie, ma in realtà, in assenza di fondi, tutto ciò non può essere realizzato o, perlomeno, non viene realizzato appieno, ma solo in alcune regioni, a macchia di leopardo, diventando così un sistema iniquo per quelle famiglie povere che non possono permettersi una scuola da loro scelta, se non quella statale.
La scelta della scuola secondo le proprie convinzioni è fondamentale e non è accettabile che, vigendo la citata legge del 2000 e venendo erogati dei fondi per le scuole paritarie, ogni anno vi debba essere una sorta di tormentone - mi si consenta questa parola - per trovare i fondi che solo ultimamente sono stati stanziati e solo ultimamente il Governo ha stabilito - in seguito a decisioni assunte in sede di Conferenza Stato-regioni - di sbloccare, senza che, comunque, siano ancora tutti, considerato che ne manca una parte. Non è accettabile che la scuola funzioni secondo un apparato centralistico che fa pagare un caro scotto alle famiglie, ciò che significa anche escludere le famiglie da un processo educativo che è decisivo non solo per i ragazzi, ma per tutta la società.
Quale ultima questione, ci sembra fondamentale il problema della formazione professionale. Si tratta di un sistema molto importante, perché realizza quella che alcuni hanno definito l'«intelligenza Pag. 21delle mani», che consente ai ragazzi di poter sviluppare le loro tendenze e i loro desideri in maniera diversa dal tradizionale liceo. Inoltre, è un sistema che certamente riduce la dispersione scolastica e consente ai giovani di inserirsi nel mondo lavorativo, proprio per aver saputo sfruttare l'intelligenza delle mani. Questo è un discorso serissimo, che tuttavia non viene recepito con la doverosa attenzione.
Le questioni sono, pertanto, quelle della responsabilità educativa dei genitori, del pluralismo dell'offerta e anche del pluralismo davanti al problema degli immigrati, che sappiamo essere un problema e che non possiamo assolutamente sottovalutare.
Il mito della scuola unica di Stato ormai deve tramontare. Bisogna mettere in atto un modo nuovo di pensare e di vedere tutte le scuole, statali e private, gestite da religiose o da laici. Qualsiasi tipo di scuola riconosciuto ed evidentemente adeguato, eroga un servizio pubblico e deve poter essere scelto dalle famiglie senza ulteriori restrizioni economiche. Questo non avviene e ciò significa andare contro il principio di sussidiarietà, ciò vuol dire che la libertà di scelta educativa è solo uno slogan che gli attuali partiti di maggioranza hanno utilizzato ampiamente in campagna elettorale.
Siamo ad un anno dalle elezioni e purtroppo le politiche familiari - e questa, al pari della libertà di scelta della scuola è anche una politica familiare - sono ancora lontanissime dall'essere realizzate. Ci troviamo in un momento molto importante: siamo consapevoli della crisi - l'ho detto anche in precedenza - ma questo non ci deve esimere dall'assumerci una responsabilità seria né dal fare scelte coraggiose. Non si può far finta di non sapere che molte famiglie preferirebbero iscrivere i propri figli in qualche istituto vicino a casa, che potrebbe loro garantire un'offerta educativa e un piano di offerta formativa migliori e che non lo possono fare perché, per esse, una scuola paritaria, non statale, rappresenta un lusso.
Chiediamo pertanto al Governo soprattutto una certezza riguardo ai finanziamenti: non è possibile che per mesi - insisto - si corra alla ricerca delle coperture necessarie per queste scuole, che minacciano in continuazione la chiusura. È infatti chiaro che se non hanno fondi e non avendo altra possibilità di sopravvivere se non quella di aumentare le rette, e ciò mi sembra veramente ingiusto, queste scuole rischino in continuazione di chiudere. Occorre prevedere, in tempi rapidi, il ripristino delle risorse sottratte. Ricordo che si tratta di 240 milioni di euro per il 2009, destinati al sistema di istruzione e formazione professionale e di ulteriori 440 milioni di euro relativi ai due anni precedenti, che non sono stati erogati. Non sono cifre piccole, lo sappiamo bene, ma non si può fare una guerra tra poveri e non si possono sottrarre risorse fondamentali alla scuola per sanare altre voci di bilancio.
Autonomia giuridica e didattica delle scuole, un sistema di valutazione certo che consenta alle famiglie di scegliere, gli insegnanti e la carriera degli insegnanti, la libertà di scelta educativa delle famiglie: chiediamo al Governo di intervenire seriamente e convintamente su questi punti che per noi sono cruciali e riguardo ai quali giudicheremo l'operato del Governo.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Garagnani, che illustrerà anche la mozione Cicchitto, Cota, Lo Monte ed altri n. 1-00154, di cui è cofirmatario. Ne ha facoltà.

FABIO GARAGNANI. Signor Presidente, signor sottosegretario, questa mozione fa riferimento alla mozione sottoscritta dai colleghi del PdL e della Lega, fra i quali gli onorevoli Cicchitto, Cota e altri. Direi che, per molti aspetti, è analoga a quella illustrata dalla collega Capitanio Santolini, facendosi carico di un'esigenza profondamente sentita nel Paese.
Prima c'è stato un dibattito sulla povertà e - consentitemi questa espressione vivace - credo che quando si parla di scuole paritarie si parli di una realtà povera ovvero della voce dei poveri. Si tratta di porre rimedio a una situazione di Pag. 22palese disuguaglianza che, fra l'altro, rende l'Italia pressoché l'unico fra i Paesi europei nel quale c'è ancora un monopolio statale della pubblica istruzione e della scuola, di lontana origine giacobina o se si vuole marxista, e che comunque pensa che il monopolio statale debba essere sinonimo di servizio pubblico scolastico: ciò oggi non è più comprensibile e soprattutto non è più attuabile in nessun Paese, stante la complessità dei meccanismi che riguardano la scuola, il sistema scolastico, la formazione e, direi, la necessità di attuare, a tutti gli effetti, un autentico pluralismo educativo.
Siamo in presenza di una legge, la legge n. 62 del 2000, che riconosce il servizio pubblico delle scuole paritarie non riconoscendo, però, nel contempo, un'adeguata copertura economica che è ciò che rende questo un servizio pubblico essenziale.
Di fronte al 13 per cento della popolazione scolastica, circa un milione di studenti che frequentano questi istituti scolastici, credo che lo Stato non possa fare a meno di ripensare la propria politica scolastica in presenza anche di un rischio evidente. Mi riferisco al venir meno di queste istituzioni culturali che, ovviamente, occupano intanto una tradizione gloriosa nel corso dei secoli facendo riferimento a momenti di assenza dello Stato o degli Stati preunitari e soprattutto a gloriose tradizioni che hanno formato generazioni e generazioni di nostri concittadini.
Di fronte a ciò lo Stato non può limitarsi a riconoscere alcuni principi di fondo senza essere conseguente ricordandosi che, se questo 13 per cento di studenti dovesse frequentare le scuole statali lo Stato, si troverebbe in condizioni di estrema difficoltà per farsi carico dei problemi nuovi che emergerebbero da questa realtà. È bene, inoltre, ricordare che il risparmio per l'erario è di circa 5,5 miliardi a fronte di un contributo di circa 500 milioni di euro: si tratta dei dati del MIUR, del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca.
A fronte di ciò credo che occorra realizzare un autentico pluralismo educativo che parifichi l'Italia ad altri Paesi europei e che, soprattutto, favorisca la libertà di scelta della famiglia e renda questa libertà di scelta un diritto, non più una possibilità, un diritto di fronte ad una situazione nella quale si richiede anche una maggiore competitività in un sistema scolastico come il nostro che è ingessato in forme ottocentesche che non sono più tollerabili.
Credo che si imponga una sana competizione nell'interesse della formazione delle giovani generazioni e anche nell'interesse dei docenti che devono vedere premiate determinate eccellenze e penalizzate, invece, determinate disfunzioni. A maggior ragione essa si impone all'interno del sistema pubblico in cui deve esserci la coesistenza tra strutture statali e paritarie su un piede di parità a tutti gli effetti. A mio modo di vedere proprio in ciò consiste la realizzazione della Carta costituzionale laddove si parla di principi dell'educazione e che è disattesa in questo momento.
Dicevo prima che il rischio del venir meno di queste importanti tradizioni culturali non può essere sottaciuto e non può essere disatteso nemmeno dal Governo.
Di qui la presentazione di questa mozione che fa riferimento tra l'altro, signor sottosegretario Pizza, a proposte di legge che il gruppo Popolo della Libertà ha presentato in questa e nelle precedenti legislature. Tali proposte concernono sia un'autentica parità scolastica sia il diritto allo studio di competenza delle regioni che presenta aspetti particolarmente difformi che non garantiscono quei livelli essenziali di assistenza imposti dalla legislazione. Ci sono regioni che coprono tutte le problematiche inerenti al diritto allo studio ed altre che le evadono tranquillamente.
Questa mozione, pertanto, impegna il Governo a rendere effettiva la libertà di scelta educativa della famiglia a parità di condizioni economiche fra scuole statali e paritarie - ecco: a rendere effettiva - e di conseguenza a recuperare le risorse ancora mancanti, affinché la situazione dei finanziamenti alla scuola paritaria per Pag. 23l'esercizio finanziario del 2009 ammonti almeno a quelli assegnati nell'esercizio finanziario del 2008.
In questo senso si sottolinea l'esigenza, pur rendendosi conto della difficoltà. La collega del gruppo Unione di Centro che mi ha preceduto, infatti, ha accusato il Governo di non essere conseguente nel riconoscimento nei fatti del pluralismo educativo, tuttavia dobbiamo tutti fare un atto di mea culpa.
In questi anni abbiamo assistito ad un'implementazione degli organici della scuola di Stato anche laddove non c'era la necessità con un milione e trecentomila dipendenti, sottosegretario mi corregga se sbaglio, che incidono sul bilancio dello Stato.
Quando giustamente - e mi batto da sempre, fin dal 2001, per la parità scolastica contro il monopolio statale - ci si batte per un effettivo pluralismo educativo bisogna anche fare mea culpa e riconoscere che, in questi anni, lo Stato ha dilatato a dismisura la propria presenza nel campo scolastico, anche laddove non ve ne era bisogno. Occorre, invece, invertire una tendenza preoccupante per cui l'insegnamento non è più una funzione educativa ma un'occupazione come tante altre. E qui credo che il discorso ci porterebbe lontano, ma la brevità del tempo a disposizione non mi consente di andare oltre.
Pertanto, in questo senso credo, pur nella realistica consapevolezza della difficoltà del Governo che si trova a fronteggiare una situazione occupazionale ben precisa, che occorra cominciare ad affrontare il problema delle risorse destinate al sistema paritario, elevandole almeno a 600 milioni di euro, con un aumento del 10 per cento rispetto al 2008, e a predisporre strumenti legislativi che realizzino interventi speciali, se si vuole realizzare un mix di interventi a sostegno della libertà educativa delle famiglie.
Si può cominciare, sperimentalmente, con l'adozione dei buoni scuola per la copertura, in tutto o in parte, dei costi di iscrizione e di frequenza in scuole paritarie; con le detrazioni fiscali a favore delle famiglie che iscrivono i figli presso scuole paritarie, in misura adeguata a ridurne significativamente gli oneri; oppure, un'altra ipotesi che sperimentalmente può essere adottata e che è in vigore, ad esempio, in Francia e nei Paesi del Benelux, è favorire il passaggio degli insegnanti statali, che lo desiderano, nelle scuole paritarie, ovviamente sulla base della condivisione degli orientamenti culturali e ideali delle medesime, basandosi, appunto, su una condivisione che favorisca il mantenimento della identità di queste scuole e di cui, ovviamente, lo Stato deve farsi carico. Il mio richiamo all'esperienza europea è molto preciso e lineare. Infine, bisogna garantire i livelli essenziali delle prestazioni che debbono essere fornite dalle regioni in modo paritario, su tutto il territorio nazionale, perché - lo ripeto - non è possibile vedere queste diversità di trattamento dalla Sicilia all'Alto Adige, passando per realtà completamente diverse.
Il diritto allo studio, che non rientra solo tra le competenze delle regioni, perché lo Stato deve garantire tale diritto se la regione non lo garantisce, deve costituire un interesse primario dello Stato, anche perché oggi la concezione del diritto allo studio si è allargata enormemente rispetto agli anni Ottanta, quando le regioni dettarono norme in questo settore di loro competenza.
Mi avvio a concludere il mio intervento, perché il tempo è tiranno, ricordando che il sottoscritto da tempo insiste su questi temi ma anche il gruppo del Popolo della Libertà è, in prima persona, impegnato per rendere effettiva la libertà di educazione, il principio di sussidiarietà e per smantellare quella elefantiasi burocratica che oggi sta distruggendo la scuola. Il servizio pubblico non è sinonimo di servizio statale. Questo è il concetto fondamentale che è sotteso a questa mozione che abbiamo presentato nell'interesse della scuola e su cui desideriamo anche il consenso di tutto il Parlamento perché, quando sono sub iudice e in questione diritti di libertà e di crescita culturale, Pag. 24credo che ognuno di noi debba misurarsi con intento costruttivo, come quello che noi auspichiamo.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Di Giuseppe. Ne ha facoltà.

ANITA DI GIUSEPPE. Signor Presidente, signor sottosegretario, anche l'Italia dei Valori presenterà una mozione su questo argomento. Lo farà soprattutto per sottolineare quello che è il valore della scuola, sia pubblica sia privata, nel pieno rispetto della Costituzione italiana e anche nell'ambito del sistema di decentramento e di sussidiarietà perché, in effetti, con la parità si è formato un sistema scolastico composto sia da scuole statali sia da scuole private che comunque svolgono, entrambe, un servizio pubblico. Anche gli articoli 33 e 34 della Costituzione sottolineano questo perché affermano che «la scuola è aperta a tutti» e che «i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi».
Questo lo dice la Costituzione italiana, ed è bene sottolinearlo. È evidente anche che i principi della nostra Costituzione comunque mirano ad un sistema educativo che sia strumento di imparzialità e anche di giustizia sociale, di promozione e di sviluppo non solo individuale, ma anche collettivo. Occorre una scuola che abbia perciò una funzione fondamentale: trasmettere ai giovani conoscenze e abilità, cioè le competenze indispensabili per assicurare sia l'integrazione sociale sia l'inserimento nel mondo del lavoro. È necessaria una scuola che abbia, quindi, soprattutto e in maniera specifica, il ruolo di educare e formare.
In Italia esiste una concreta libertà di educazione, però lo Stato è e deve essere garante dell'educazione e della formazione dei propri cittadini. È certamente giusto e anche utile riconoscere l'iniziativa privata, che deve essere incentivata e sostenuta. A dire il vero, in Italia le scuole non statali ricevono già denaro pubblico sotto forma di sussidi diretti rivolti alle scuole dell'infanzia e primarie, finanziamenti di progetti che sono tesi ad elevare soprattutto la qualità e l'efficacia dell'offerta formativa e poi contributi alle famiglie, i cosiddetti buoni scuola (che però sono rivolti soltanto agli alunni della scuola dell'obbligo). Ed è giusto che sia così perché un processo educativo deve soprattutto valorizzare il ruolo dell'alterità, sia perché la scuola deve tendere alla costruzione dell'identità collettiva e di genere, sia perché deve esserci l'evoluzione culturale degli studenti.
Quindi, l'educazione ha il compito specifico di consolidare la consapevolezza, di riconoscere la qualità che esiste nella diversità degli individui e di sviluppare soprattutto la capacità di collaborare con l'altro. Dico questo perché è proprio l'evoluzione alla quale la nostra società è soggetta che fa ripensare il rapporto tra scuola pubblica e privata. Tale rapporto ci porta a considerare che, nonostante le caratteristiche specifiche di ciascuna scuola sia privata che pubblica, esse si possono completare - questo è importante - in maniera tale che il compito di ambedue sia rivolto ad educare al rispetto delle diverse culture.
È anche evidente il riconoscimento che lo Stato ha verso l'iniziativa privata scolastica ed universitaria, che tutela anche costituzionalmente. Perciò la funzione educativa dello Stato non è soltanto una prerogativa esclusiva dello Stato stesso, che però deve comunque controllare la scuola privata. Questa, come le scuole pubbliche, deve promuovere la solidarietà universale e, come tutte le comunità scolastiche, deve favorire lo scambio fra le culture. I tagli previsti dalle ultime manovre finanziarie - questo lei, sottosegretario, lo sa perfettamente - hanno coinvolto innanzitutto la scuola pubblica, che ha visto ridimensionare in maniera evidente le risorse che gli erano state destinate precedentemente, e poi anche le scuole private.
Questo ridimensionamento delle risorse ha chiaramente penalizzato tutto il complesso dell'offerta formativa del sistema scolastico italiano. C'è però da dire che nei giorni scorsi la Conferenza Stato-regioni Pag. 25ha espresso parere favorevole sul decreto interministeriale che stanzia 120 milioni per le scuole paritarie, ripristinando - anche se non completamente - il finanziamento che era stato loro precedentemente assegnato.
A nostro avviso, comunque, è fondamentale che tutte le scuole, pubbliche e private, debbano tendere all'obiettivo europeo di realizzare una società globale dello scambio del sapere. Proprio in quest'ottica bisognerebbe mirare, signor sottosegretario, ad una scuola italiana che però sia aperta all'Europa e che apra le porte all'Europa.
Riteniamo comunque che la libertà di scelta formativa da parte delle famiglie non debba mettere assolutamente a rischio la coesione e l'integrazione sociale, anche perché questo è un obiettivo che la scuola deve sempre garantire. L'evoluzione formativa in senso prevalentemente privatistico potrebbe aprire le porte ad un percorso che potrebbe realizzare una contrapposizione tra scuola pubblica e scuola privata, e questo non deve avvenire. Ad esempio, alle scuole cattoliche si potrebbero affiancare quelle islamiche o di qualsiasi altra confessione religiosa. Tutto questo potrebbe avere elementi non unificanti ed integranti come quelli rappresentati dal sistema formativo della scuola pubblica italiana, e questo è un rischio che non dobbiamo e non possiamo assolutamente correre, perché un sistema formativo deve tendere principalmente all'integrazione e non alla contrapposizione. Riteniamo fondamentale esaltare il principio di eguaglianza nei confronti di tutti gli utenti della scuola; la scuola pubblica, sotto tale aspetto, svolge questo compito importante di coesione sociale e di integrazione che serve alla crescita civile del nostro Paese.
Intendo sottolineare - perché sono un insegnante, una dirigente scolastica - la funzione della scuola pubblica, ma non a discapito di quella privata. La scuola pubblica è basata sui principi di neutralità e di laicità, anche nel rispetto dell'articolo 3 della Costituzione, in virtù del quale lo Stato deve rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Non si può negare questo alla scuola pubblica: attraverso la flessibilità, attraverso il rapporto con gli enti locali e con quella parte destinata al curricolo locale, si mette in rapporto stretto con le singole realtà, però ha anche un progetto culturale unico che rispetta a livello nazionale.
Il sistema scolastico italiano deve comunque essere rivisitato e valorizzato, perché la questione più importante è quella della qualità. Questo è il punto cruciale della scuola: la qualità. Il sistema scolastico deve essere costituito da una scuola di tutti e per tutti. Dobbiamo pure considerare che ormai la nostra società è multiculturale e multietnica, e in essa si confrontano diverse culture e concezioni di vita, e quindi la scuola deve tendere proprio alla formazione di coscienze critiche che siano aperte al confronto, che siano aperte alla multiculturalità.
Si deve riconoscere che il sistema pubblico del nostro Paese attua il diritto all'istruzione per tutti e di tutti, proprio in collaborazione con il territorio con il quale si rapporta, però senza alcuna discriminazione, né di genere, né di lingua, né di religione, né di condizioni socio-economiche e culturali.
Quindi, una cosa è certa, e la sottolineo di nuovo, signor sottosegretario: occorre promuovere una scuola di qualità. La vera qualità non si costruisce con la concorrenza tra il sistema pubblico e il sistema privato, perché l'istruzione e la formazione non sono un diritto di pochi, ma un diritto di tutti i cittadini italiani.
Quindi, bisogna fare molta attenzione e il discorso della qualità richiede anche molte garanzie. Per ottenere, infatti, la qualità per la scuola pubblica bisogna promuovere quello che c'è già di buono nella scuola pubblica stessa e bisogna fare attenzione ai suoi punti di forza, come ad esempio il tempo pieno, i laboratori, le compresenze, i progetti per le varie educazioni (ci sono tante educazioni e, quindi, ci sono altrettanti progetti da tenere presenti), Pag. 26l'integrazione dei disabili e le sperimentazioni (quelle che funzionano).
A nostro avviso, quindi, è importante restituire il giusto valore all'istruzione e alla cultura, in quanto a tutti gli effetti la scuola pubblica è un luogo dove si realizza la crescita umana e la formazione civile e culturale dei cittadini italiani. Sempre rimanendo nel tema della qualità esiste, tuttavia, anche l'effettiva necessità di modificare il sistema dell'istruzione e della formazione, perché vi sono dei punti di debolezza per quanto riguarda la qualità di tutto il sistema scolastico: la dispersione scolastica, gli abbandoni, i percorsi scolastici stentati. Quindi, bisogna veramente mettere mano a questi punti di debolezza che la scuola presenta.
Di conseguenza, bisogna prestare attenzione ai contenuti, realizzare più strutture come laboratori e attrezzature, ma soprattutto bisogna ridare dignità alla professione docente e a tutti coloro che operano all'interno della scuola. Ho sentito parlare di una scuola che è soltanto luogo di occupazione, ma ciò non è assolutamente vero, perché ritengo che il corpo docente italiano sia tra i migliori in Europa.
Quindi, noi dell'Italia dei Valori siamo d'accordo: i genitori scelgano di far frequentare ai propri figli altre scuole rispetto a quella pubblica. Tuttavia, dobbiamo prestare la giusta attenzione al fatto che un sistema di scuole private rischierebbe di collocare gli studenti e le famiglie in luoghi separati dal contesto sociale nel quale vivono, ovvero la società italiana.
Comunque è certo che i sistemi formativi sono in difficoltà in molti Paesi, anche in quelli europei. Quindi, bisogna affrontare con politiche specifiche il problema dell'istruzione e della formazione in Italia. Quello della formazione e dell'istruzione è un mondo vicino ai temi più importanti per l'individuo, direi addirittura immerso in essi. Si tratta, infatti, di un mondo dove l'individuo decide proprio quale sia il suo futuro e la propria esistenza.
Dunque, credo che su questo argomento vi sia bisogno di iniziare un serio dibattito, anche tra tutte le forze politiche, per mettere mano ad una riforma scolastica che tenda soprattutto a far diventare la conoscenza il fulcro essenziale per la formazione dei nostri giovani. Questi ultimi, infatti, hanno bisogno di sapersi orientare e di scegliere una strada sicura per il loro futuro, soprattutto una strada che sia adeguata alle proprie esigenze e al proprio futuro.
Per questo motivo noi dell'Italia dei Valori presenteremo una mozione, signor sottosegretario, perché vogliamo impegnare il Governo a garantire l'efficienza scolastica a tutti i livelli (ciò credo sia veramente importante); a garantire il ruolo di aggregazione sociale e civile svolto dal sistema formativo italiano; a sostenere anche lo sviluppo dell'iniziativa privata nel settore formativo. Noi, infatti, non mettiamo in dubbio questo aspetto, tuttavia nel sistema scolastico il pubblico e il privato devono essere coordinati nell'ottica di un unico sistema. Inoltre, vogliamo impegnare il Governo (questa è la nota dolente) a mettere in atto tutti gli investimenti e le risorse economiche necessari a far sì che il sistema scolastico nazionale sviluppi le sue potenzialità di aggregazione, di integrazione, di educazione e di formazione.
Signor sottosegretario, non si possono tagliare i fondi a questo settore del nostro Paese, perché non è soltanto un problema di fondi alle scuole private, ma è un problema di assegnazione di fondi a tutto il sistema scolastico, perché, come dicevo all'inizio, sia le scuole private sia le scuole pubbliche svolgono ed offrono, tutte, un servizio pubblico (Applausi dei deputati dei gruppi Italia dei Valori e Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole De Pasquale. Ne ha facoltà.

ROSA DE PASQUALE. Signor Presidente, signor sottosegretario, onorevoli colleghi, il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione da parte di soggetti privati è proclamato dall'articolo 33, terzo comma, della Costituzione. Tale articolo statuisce la spettanza a chiunque del diritto di istituire scuole ed afferma la Pag. 27possibilità per le scuole private che si conformino alle disposizioni legislative appositamente dettate di ottenere la parità giuridica con le scuole statali per quanto riguarda il valore degli studi in esse compiuti e dei risultati conseguiti. Di seguito, il quarto comma dell'articolo 33, nel prevedere una riserva di legge per la fissazione dei diritti e degli obblighi delle scuole che richiedono la parità, prescrive categoricamente al legislatore di assicurare ad esse piena libertà ed agli alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali.
La Costituzione, nel sancire l'obbligo per lo Stato di istituire scuole di ogni ordine e grado, assegna ad esso, cioè allo Stato, la funzione fondamentale di garantire a tutti l'accesso ad un'istruzione libera e pluralista e, nel rispetto dei principi di libertà che caratterizzano la Costituzione stessa, rifiuta ogni forma di monopolio statale dell'istruzione ed afferma il principio di libertà per tutti di istituire scuole. In applicazione del dettato costituzionale, il Governo D'Alema proponeva la legge 10 marzo 2000, n. 62, recante norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all'istruzione. In questa sede vogliamo ricordarne la genesi e rivendicarne la paternità, oltre che sostenere e comprendere come poter dare piena attuazione alla logica che vi si sottende.
La legge n. 62 del 2000, inoltre, non è estranea al terremoto che investe la scuola di questi tempi, poiché si potrebbe supporre che l'indebolimento in corso della scuola statale è teso anche ad accrescere il peso delle scuole non statali e potrebbe contenere il pericolo di uno scenario, tipo quello statunitense, dove vi sono ottime istituzioni scolastiche private e le scuole pubbliche si fanno carico, se così posso dire, dei ragazzi più problematici. Ora, la società americana si ritiene molto meritocratica, come oggi va di moda dire, favorendo ragazzi particolarmente dotati e permettendo mobilità sociale; questo, da un certo punto di vista, è vero (basti pensare a Barack Obama). Però, una società forte, e tali vorrebbero essere le società meritocratiche, suppone un sistema forte di scuola pubblica, che abbia delle eccellenze proprio nelle scuole statali. Il Partito Democratico sostiene convintamente un sistema dove servizi eccellenti sono frutto di una ritrovata dimensione pubblica, capace di ricercare e realizzare l'orizzonte più ampio del bene comune.
Del resto, come afferma il professor Alici, presidente nazionale dell'Azione cattolica, in un suo intervento alla quarantacinquesima settimana sociale dei cattolici, una cultura sedotta da un'interpretazione individualistica dell'autonomia rischia di non accorgersi che quest'ultima, se intesa in senso improprio come assoluta autoaffermazione, genera soltanto anomia, e dunque perdita del senso dei legami, delle norme, delle identità e dei soggetti collettivi.
Da ciò, se i servizi non sono erogati direttamente dall'ente pubblico, lo vedono però non in una posizione minimale, immaginando piuttosto il pubblico leggero, sussidiario, che incentiva il privato a prendere iniziativa, ma sa di dover essere forte perché ha il compito di garante dell'intero sistema: il compito di essere sempre dalla parte dei cittadini, soprattutto di quelli più deboli, ma di tutti i cittadini, affinché ad essi arrivi un servizio che rispetti pari opportunità, qualità, trasparenza e lavoro di rete, quindi bene comune. Quelle sopra espresse sono considerazioni importanti, poiché si sta in generale andando verso un sistema più sussidiario, e ciò è ovviamente bene, ma richiede però una grande consapevolezza del pubblico, che ancora nel nostro Paese non c'è nella sua pienezza.
La legge n. 62 del 2000 all'articolo 1 recita: «Il sistema nazionale di istruzione, fermo restando quanto previsto dall'articolo 33, secondo comma, della Costituzione, è costituito dalle scuole statali e dalle scuole paritarie private e degli enti locali. La Repubblica individua come obiettivo prioritario l'espansione dell'offerta formativa e la conseguente generalizzazione della domanda di istruzione dall'infanzia lungo tutto l'arco della vita». Da quando, quindi, è in vigore la legge n. 62 del 2000, che delinea il sistema Pag. 28nazionale di istruzione, viene individuata nell'ambito della scuola pubblica tanto quella statale quanto quella paritaria, con eguale dignità che conduce ad eguali diritti e doveri e ad un pieno sostegno del diritto allo studio per ogni cittadino italiano, dalla scuola dell'infanzia e per tutto l'arco della vita.
Vi sono infatti in tutte le regioni della nostra Italia diverse zone in cui lo Stato non è in grado, a causa dell'enorme onerosità, di garantire l'apertura di scuole soprattutto dell'infanzia e primarie, tante quante sarebbero necessarie per coprire la richiesta delle famiglie. In questi casi, che sono davvero numerosi, il sistema integrato di scuola pubblica, come normato dalla legge n. 62 del 2000, garantisce un servizio che nasce proprio nelle singole comunità, che possono così assicurare anche la qualità del servizio offerto e garantire sul territorio spesso l'unico presidio di socializzazione, educazione ed istruzione pubblica. Normalmente le scuole paritarie sono dislocate un po' dovunque, ma vi sono forti presenze in luoghi disagiati che si prendono sempre più cura dei ragazzi diversamente abili, delle situazioni di difficoltà familiare, di casi difficili, realizzando quella proficua relazione di sussidiarietà che non vuole sopprimere la dinamica dell'istruzione statale, ma in un certo qual modo la integra, appunto, come con lungimiranza è stato normato dalla legge n. 62 del 2000.
Ora però i drastici tagli di risorse economiche all'istruzione e le conseguenti misure adottate dal Governo con il decreto-legge n. 112 del 2008, convertito nella legge n. 133 del 2008 mediante la fiducia, e gli altri successivi provvedimenti conseguenti hanno determinato un impoverimento di tutta la scuola pubblica. Infatti, prevedendo un così forte taglio di risorse (8 miliardi di euro) nel corso di un così lungo periodo di tempo (tre anni), il Governo ha posto le basi per un totale smantellamento dell'istruzione pubblica di qualità nel nostro Paese: smantellamento che non consentirà, se non verranno rimodulate le dissennate scelte governative, di assicurare ai cittadini un reale diritto all'istruzione come costituzionalmente garantito, né da parte delle scuole statali né da parte delle scuole paritarie.
Occorre pertanto ritrovare e riproporre una visione alta della scuola tutta, quale comunità che educa istruendo, principale risorsa per la crescita sociale e lo sviluppo del nostro Paese, e che non può essere ridotta ad una gestione di mero conto economico. Ma, per giungere ad una piena ed effettiva attuazione della legge n. 62 del 2000, non è condivisibile la strada della quota capitaria, che divide le risorse in parti uguali tra studenti che si trovano in situazioni profondamente diverse. «Fare parti uguali tra disuguali è la più grande ingiustizia», diceva don Lorenzo Milani, ed è la seconda volta che stasera in Aula viene citato: dev'essere proprio il periodo in cui ciò dev'essere ricordato con forza. Una simile previsione non consente di fatto a ciascuna famiglia di scegliere liberamente la scuola migliore per i propri figli, ma quella che può permettersi in base al proprio censo.
Inoltre lo Stato, qualora venisse adottata la quota capitaria, non si adopererebbe per rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana (come recita l'articolo 3 della Costituzione che oggi, a sessant'anni di distanza, rimane un monito pressante per il Paese).
Per questo occorre continuare - così come iniziato in modo deciso dall'ultimo Governo Prodi - a dare attuazione alla legge n. 62 del 2000 tanto nella sua parte giuridica - per esempio, l'anagrafe delle scuole paritarie, che ha regolarizzato e censito le scuole nel loro effettivo funzionamento, dando peso alla qualità e valorizzando le migliori esperienze, o il decreto ministeriale sui contributi del 21 maggio 2007 che ha messo ordine nella parità ed ha attribuito finanziamenti diretti, o le sezioni primavera, che costituiscono un progetto educativo sin dalla prima infanzia e rispondono anche ad un'esigenza sociale - quanto nella sua parte economica. Sono stati, per esempio, Pag. 29ripristinati 155 milioni di euro, per ogni anno, destinati alle scuole paritarie che il precedente Governo Berlusconi aveva tagliato; sono stati stanziati circa 10 milioni di euro per l'obbligo d'istruzione e il diritto allo studio per le scuole paritarie, portando reale parità nell'erogazione di un servizio pubblico; sono, inoltre, stati stanziati 30 milioni di euro, per ogni anno, per le sezioni primavera.
Per concludere - come sopra detto - occorre dare piena, completa e monitorata attuazione alla legge n. 62 del 2000, tanto per quanto attiene alle previsioni di carattere giuridico quanto per quelle di carattere economico, sostenendo con concrete azioni legislative ed amministrative la scuola pubblica che individua nel suo ambito tanto quella statale quanto quella paritaria, con eguale dignità, e che conduce ad eguali diritti e ad uguali doveri. Per questo, anche il Partito Democratico presenterà una mozione in questo senso (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico e Italia dei Valori).

PRESIDENTE. Avverto che è stata testé presentata la mozione Maurizio Turco ed altri n. 1-00156 (Vedi l'allegato A - Mozioni). Il relativo testo è in distribuzione.
È iscritto a parlare l'onorevole Baldelli. Ne ha facoltà.

SIMONE BALDELLI. Signor Presidente, intendo svolgere solo alcune brevi considerazioni, dopo aver ascoltato questo dibattito su un tema così importante, delicato e sentito dall'opinione pubblica italiana, dalle famiglie ed ovviamente anche dagli studenti, quello della parità scolastica.
Chi, come me, si è occupato di questo tema anche in passato, da responsabile di un movimento giovanile, ed ha partecipato per diversi anni ad un dibattito che vedeva contrapposti laici da un lato e cattolici dall'altro, oggi - in virtù di un cambio dei tempi, della concezione di alcune esperienze ed anche di un dibattito politico che si è venuto svolgendo nel corso degli ultimi quindici-venti anni - ha ascoltato una discussione di natura molto diversa, un confronto politico più concreto e meno ideologico sulla questione della scuola paritaria, che ha visto superare alcune vecchie incrostazioni ed alcune vecchie accuse, come la questione del censo (chi parla viene dall'esperienza della scuola cattolica salesiana, con la quale Don Bosco iniziava un'esperienza formativa di scuola di formazione professionale, raccogliendo i ragazzi dalle strade per dare loro la possibilità di imparare un mestiere). È evidente, quindi, che in questo momento stiamo dibattendo di qualcosa di diverso rispetto a ciò di cui dibattevano sullo stesso argomento, venti anni fa, coloro che sedevano tra questi stessi banchi.
Stiamo dibattendo della competitività tra pubblico e privato e di un servizio pubblico che può essere offerto con pari dignità dal sistema pubblico, da un lato, e dal sistema privato, dall'altro; stiamo dibattendo della libertà di scelta educativa e formativa delle famiglie e della qualità della formazione degli studenti, che è e resta il miglior investimento per il futuro del nostro Paese; stiamo dibattendo del principio di sussidiarietà, che è un principio basilare ed importante che fonda - per quello che ci riguarda - anche il manifesto culturale e politico del Popolo della Libertà, che del principio di sussidiarietà fa esperienza attraverso il Partito Popolare Europeo.

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali delle mozioni.
Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.

GIUSEPPE PIZZA, Sottosegretario di Stato per l'istruzione, l'università e la ricerca. Signor presidente, il Governo si riserva di intervenire nel prosieguo del dibattito.

PRESIDENTE. Il seguito del dibattito è pertanto rinviato ad altra seduta.

Pag. 30

Ordine del giorno della seduta di domani.

PRESIDENTE. Comunico l'ordine del giorno della seduta di domani.

Martedì 28 aprile 2009, alle 11,30:
1. - Svolgimento di interpellanze e interrogazioni.

(ore 14)

2. - Seguito della discussione del disegno di legge:
Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile (Approvato dalla Camera e modificato dal Senato) (1441-bis-C).
- Relatori: Bernini Bovicelli, per la I Commissione; Corsaro, per la V Commissione.

3. - Seguito della discussione delle mozioni Franceschini ed altri n. 1-00148, Pezzotta ed altri n. 1-00153 e Cicchitto, Cota, Lo Monte ed altri n. 1-00155 concernenti iniziative per il contrasto della povertà e dell'emarginazione.

4. - Seguito della discussione delle mozioni Volontè ed altri n. 1-00152, Cicchitto, Cota, Lo Monte ed altri n. 1-00154 e Maurizio Turco ed altri n. 1-00156 concernenti iniziative in materia di parità scolastica.

5. - Seguito della discussione del disegno di legge:
Norme in materia di intercettazioni telefoniche, telematiche e ambientali. Modifica della disciplina in materia di astensione del giudice e degli atti di indagine. Integrazione della disciplina sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche (1415-A).
e delle abbinate proposte di legge JANNONE; CONTENTO; TENAGLIA ed altri; VIETTI e RAO; BERNARDINI ed altri. (290-406-1510-1555-1977).
- Relatori: Bongiorno, per la maggioranza; Palomba e Ferranti, di minoranza.

La seduta termina alle 19,35.