XIX Legislatura

Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere

Resoconto stenografico



Seduta n. 17 di Mercoledì 18 ottobre 2023

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Colosimo Chiara , Presidente ... 2 

Audizione di Salvatore Borsellino e del suo legale, Fabio Repici:
Colosimo Chiara , Presidente ... 2 
Borsellino Salvatore  ... 2 
Colosimo Chiara , Presidente ... 5 
Repici Fabio , legale di Salvatore Borsellino ... 5 
Colosimo Chiara , Presidente ... 19 
Repici Fabio , legale di Salvatore Borsellino ... 20 
Colosimo Chiara , Presidente ... 20 
Repici Fabio , legale di Salvatore Borsellino ... 20 
Colosimo Chiara , Presidente ... 20

Testo del resoconto stenografico
Pag. 2

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
CHIARA COLOSIMO

  La seduta comincia alle 14.05.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Buon pomeriggio a tutti. Avverto che se non vi sono obiezioni la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche tramite impianto audiovisivo a circuito chiuso nonché via streaming sulla web-tv della Camera.

Audizione di Salvatore Borsellino e del suo legale, Fabio Repici.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del dottor Salvatore Borsellino che saluto e che è collegato da remoto, e del suo legale, avvocato Fabio Repici, in presenza, a cui do il benvenuto.
  Ricordo che la seduta odierna si svolge nelle forme dell'audizione libera ed è aperta alla partecipazione da remoto dei componenti della Commissione. I lavori potranno proseguire in forma segreta a richiesta degli auditi o dei colleghi. In tal caso non sarà più consentita la partecipazione da me da remoto e verrà interrotta la trasmissione via streaming sulla web-tv.
  Do direttamente la parola al dottor Borsellino, che ringrazio a nome di tutta la Commissione per la sua presenza.

  SALVATORE BORSELLINO. Buongiorno. Chiedo scusa a questa Commissione per non avere potuto assicurare la mia presenza fisica ma purtroppo le mie condizioni di età e di salute non mi permettono di affrontare delle trasferte di questo tipo. Ho chiesto di essere audito dalla Commissione, insieme con il mio avvocato difensore di parte civile Fabio Repici, che è anche avvocato dei sette figli della mia defunta sorella, Adele, nipoti di Paolo Borsellino, per fare sentire anche la mia voce, di fratello di Paolo, dopo quella dei figli di mio fratello. Poiché sono l'ultimo ancora in vita della famiglia di origine di Paolo Borsellino, lo faccio anche a nome delle mie sorelle Adele e Rita, che non ci sono più, e soprattutto lo faccio a nome di nostra madre, Maria Pia Lepanto, che, come tante altre mamme, a cui troppo presto sono stati strappati i figli, ha dovuto chiudere gli occhi per sempre senza potere vedere né verità né giustizia per l'assassinio di suo figlio. Sono stati questi lunghi anni, anni di depistaggi, di mancate indagini, di sentenze spesso contraddittorie, in cui, se sono state assicurati alla giustizia forse alcuni di quelli che materialmente hanno ucciso Paolo Borsellino, la stessa cosa non è avvenuta per quelli che hanno agito nell'ombra, che hanno voluto la sua morte. Non sono stati neanche messi alla luce i veri motivi dell'accelerazione di questa strage che, se fosse stata messa in atto soltanto dall'organizzazione mafiosa, non sarebbe avvenuta soltanto 57 giorni dopo l'altra strage, quella di Capaci, che alla strage di via D'Amelio io credo sia indissolubilmente legata. Paolo, mio fratello, ha cominciato a morire il 23 maggio del 1992. Ma se da un lato ai figli di Paolo mi lega il terribile dolore per questa morte annunziata e l'insopprimibile esigenza di verità su una strage nella quale è stata stroncata la vita del loro padre e di mio fratello, da essi è emersa una posizione processuale che si è venuta a differenziare nel corso dei tanti processi, arrivando purtroppo, e con mio grande dolore, a influire anche sui rapporti personali. Devo dire, da parte mia, che ho ascoltato con sconcerto Pag. 3le dichiarazioni fatte in questa sede nei confronti dei due magistrati o meglio di un magistrato e di un ex magistrato, oggi senatore della Repubblica. Mi riferisco a Nino Di Matteo e a Roberto Scarpinato ai quali mi sento invece di dover manifestare pubblicamente e in questa stessa sede la mia stima e la mia gratitudine per avere in questi lunghi anni ricercato con tutte le loro forze quella verità e quella giustizia per le quali continuo a combattere in nome di quell'agenda rossa che ho scelto a simbolo della mia lotta. Sono ben altri i magistrati verso i quali bisognerebbe puntare il dito. Quel Giovanni Tinebra che avrebbe dovuto essere chiamato a rispondere di aver avallato un evidente depistaggio nel corso di ben due processi e quel Pietro Giammanco che Paolo Borsellino così come Giovanni Falcone ha ostacolato in ogni modo, fino a concedergli la delega per indagare sui fatti di mafia a Palermo soltanto quando la macchina carica di esplosivo che avrebbe dovuto ucciderlo era già pronta davanti al portone di via D'Amelio. Questo, devo dire, è stato evidenziato anche nella deposizione di mia nipote Lucia, ma questi magistrati – e mi pesa chiamarli così – avrebbero dovuto essere chiamati a rispondere del loro operato finché erano in vita e invece, per quanto mi risulta, è stato solo il mio avvocato, Fabio Repici, a chiamare in aula, inserendolo nella sua lista dei testimoni, nel corso del Borsellino-quater, Pietro Giammanco, che poi in realtà non si presentò adducendo motivi di salute. Eppure contro Pietro Giammanco io il dito lo avevo già puntato, ma rimasi inascoltato, in un pezzo che scrissi in una domenica del settembre del 2008, e che fu pubblicato anche sulla rivista MicroMega nel 2010. Si intitolava «Lampi nel buio» e in esso immaginavo via D'Amelio come un set teatrale, completamente immerso nelle tenebre, dove però ogni tanto uno squarcio di luce dal cielo illuminava le scene di quella tragedia. Questo è il pezzo in cui quasi quindici anni fa e quando era ancora in vita, parlavo di Pietro Giammanco. Ve lo leggo. «Ecco, un altro lampo che squarcia le tenebre. Sono le sette del mattino del 19 luglio in via Cilea e a casa del giudice, che è in piedi dalle cinque, arriva una telefonata dal suo capo, Pietro Giammanco. Non gli ha mai telefonato a quell'ora e di domenica. Non lo ha avvisato di un rapporto del ROS in cui si rivelava che era arrivato a Palermo un carico di esplosivo per l'attentato al giudice, che ha potuto conoscere la circostanza per caso, all'aeroporto, incontrando il ministro Scotti e che sui motivi di questa omissione con il suo capo ha avuto un violento alterco. Non gli ha ancora concesso, da quando è rientrato da Marsala, prendendo le funzioni di procuratore aggiunto a Palermo, la delega per condurre le indagini in corso sulle cosche palermitane e in conseguenza la possibilità di interrogare, senza una sua espressa autorizzazione, pentiti-chiave come Gaspare Mutolo e Leonardo Messina. Ora, il 19 luglio quando la macchina per l'attentato è già posteggiata davanti al numero 19 di via D'Amelio gli telefona per dirgli che gli concede quella delega e gli dice una frase che oggi suona in maniera a sinistra: Così si chiude la partita. La moglie del giudice, Agnese, lo sente urlare al telefono e dire: No, la partita comincia adesso. Lo stesso giudice, qualche tempo prima, aveva confidato al maresciallo Canale, che lo affiancavano nelle indagini, che in estate avrebbe fatto arrestare Giammanco, perché dicesse cosa sapeva sull'omicidio Lima, dal recarsi ai funerali del quale lo stesso Giammanco venne dissuaso solo all'ultimo momento da un altro procuratore».
  Perplesso mi ha lasciato anche nella ricostruzione dell'avvocato dei figli di Paolo il diverso peso dato ad alcune parole di Paolo e ad altre parole e circostanze riferite da sua moglie Agnese. Sono state messe quasi sullo stesso piano parole per me evidentemente ironiche, come quelle: «Quei due non me lo raccontano giusta» con parole pesanti, terribili come quelle riferite di aver appreso che il generale Subranni era punciutu, o sulla raccomandazione di chiudere le finestre perché qualcuno da una postazione situata nel castello Utveggio poteva spiarlo. Proprio da quel castello Utveggio, dal quale forse è stata condotta la regia dell'operazione concertata, insieme con l'attuazione della strage, del furto dell'agendaPag. 4 rossa. Forse è da quest'agenda rossa, la scatola nera della strage di via D'Amelio, che si dovrebbe ripartire per arrivare alla verità. Dal furto di quell'agenda compiuto, ne sono certo, proprio da quelle stesse mani che hanno voluto la morte di mio fratello. Non sto parlando della mafia, ma di pezzi deviati dello Stato perché è certo che non siano state mani di mafiosi a portare a compimento quel furto. È proprio da questo che si dovrebbe ripartire, e non da un dossier mafia-appalti che se può essere considerato una concausa, non è sicuramente la vera causa dell'improvvisa accelerazione di una strage che a quel punto non poteva essere più rimandata. Occorreva eliminare, e in fretta, chi rappresentava un ostacolo insormontabile per un disegno criminoso teso con l'ausilio anche dell'organizzazione mafiosa e della eversione nera a cambiare gli equilibri di questo nostro disgraziato Paese che da queste stragi, che io ho chiamato e continuerò sempre a chiamare stragi di Stato, è stato sempre segnato. La chiave di questa accelerazione va cercata semmai nelle parole pronunciate da Paolo alla Biblioteca comunale di Palermo il 25 di giugno, nel suo ultimo discorso pubblico. Paolo chiede di essere sentito dalla Procura di Caltanissetta per dire quello che sa e che ha scoperto sulla strage di Capaci e da quella strage sono ormai passati più di trenta giorni senza che Paolo sia stata ancora chiamato. Paolo dice: «Questi elementi che porto dentro di me debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all'autorità giudiziaria che è l'unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possano essere utili alla ricostruzione dell'evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all'autorità giudiziaria poi, se è il caso, ne parlerò in pubblico». Ebbene, dopo queste parole, la convocazione di Paolo a Caltanissetta non può essere più rimandata. C'è il rischio che Paolo riveli in pubblico quello che i giudici non vogliono ascoltare. Paolo viene convocato a Caltanissetta per la settimana successiva al 19 luglio, ma intanto parte il conto alla rovescia per l'attuazione della strage, per la sua eliminazione. Paolo non arriverà mai a testimoniare in quella Procura in cui a collaborare alle indagini verrà poi irritualmente chiamato quel Bruno Contrada sul quale Paolo sta raccogliendo le rivelazioni di Mutolo. Verrà chiamato soltanto quando la sua morte è stata ormai decisa, quando il suo tempo è ormai arrivato. E qui io penso che bisogna cercare i motivi dell'improvvisa accelerazione della strage, e non in un incontro alla caserma Carini che Paolo non annota neppure nella sua agenda grigia e di cui anche il ROS ha parlato soltanto 5 anni dopo e facendo affermazioni che soltanto Paolo – che però ormai non c'è più – potrebbe confermare o smentire. E a fermare le stragi non poteva essere certo la quantomeno improvvida iniziativa di chi è andato a bussare a certe porte richiedendo a un tramite di Salvatore Riina del perché di questo muro contro muro. È servita anzi a rafforzare l'idea che la strategia stragista pagava, se era in grado di mettere in ginocchio lo Stato, di spingerlo a farsi avanti, a scendere a patti, è servita solo a scatenare altre stragi, a causare altre vittime innocenti, questa volta sul continente, e ad attentare, per aumentare il livello del ricatto, anche al patrimonio artistico dello Stato.
  Sulla sparizione di quell'agenda rossa non si è mai veramente indagato, non c'è stato mai un vero processo, tranne quello in cui, in fase addirittura di udienza preliminare, e quindi senza alcun dibattimento, è stato assolto dall'accusa di aver sottratto l'agenda quel capitano Arcangioli che è stato ripreso e fotografato, mentre si allontana dalla macchina di Paolo ancora in fiamme, portando in mano la borsa di Paolo in cui sicuramente l'agenda era contenuta. Ma a chi è stata consegnata quella borsa, prima di essere rimessa sul sedile della macchina che intanto continuava a bruciare? Nel corso di questi anni abbiamo studiato a fondo ogni singolo fotogramma, ogni ripresa che ci è stato possibile ottenere, girata in via D'Amelio nell'immediatezza della strage. Abbiamo ascoltato e confrontato le diverse testimonianze, spesso discordanti, costellate di «non ricordo» di chi è venuto in qualche maniera in contatto con la borsa di Paolo che conteneva l'agenda.Pag. 5 Abbiamo individuato i fotografi e gli operatori, richiesti i rullini. Alcuni ci sono stati dati, altri, specie quelli in possesso di grandi organi di informazione, ci sono stati inspiegabilmente negati. Siamo andati ogni 19 luglio a rilevare le ombre del sole all'ora della strage sui palazzi per mettere le foto e le riprese nella giusta sequenza. Abbiamo ricostruito i movimenti di che è entrato in contatto con la borsa, abbiamo individuato i personaggi presenti che non sono nemmeno mai stati sentiti come testimoni. Abbiamo studiato le relazioni di servizio, spesso prodotte soltanto tardivamente. Abbiamo individuato a chi, presente in via D'Amelio subito dopo la strage, il capitano Arcangioli può avere portato la borsa, dopo averla prelevata dalla macchina di Paolo e questo ufficiale, oggi generale, Borghini, non è stato mai sentito nemmeno come testimone.
  Il risultato di tutto questo lavoro è stato inserito in un documento audiovisivo che è stato presentato in udienza alla Corte nel Borsellino-quater il giorno dell'arringa finale del mio avvocato per dare il nostro contributo alle indagini che altri, e con ben altri mezzi, avrebbero dovuto portare avanti. Il risultato di tutto questo è stato che i PM presenti in aula, all'inizio dell'udienza, appena cominciata la proiezione del documento, si sono alzati e sono andati via, senza poi tornare in aula nel corso dell'intera giornata. Della raccomandazione della Corte, contenuta nella sentenza, di approfondire le indagini sulla sparizione dell'agenda rossa non è stato dato fino ad oggi alcun seguito. Voglio ricordare che in quel processo è stata soltanto la mia parte civile, insieme con il difensore dell'imputato, a chiedere l'assoluzione di quel Vincenzo Scarantino, anche lui, seppure in forma diversa, vittima della strage di via D'Amelio, processato per calunnie a cui era stato costretto con torture fisiche e psicologiche in un carcere dello Stato e da funzionari dello Stato, troppo tardivamente processati. Così come sono stato soltanto io in tutta la mia famiglia a rifiutare di firmare nei primi due processi la richiesta di un impossibile risarcimento comminato nei confronti di chi, a causa di quel depistaggio, era stato condannato per un delitto che non aveva commesso.
  Voglio precisare che in quei due processi, viziati da quello che è stato definito nel Borsellino-quater il più grande del depistaggio della storia, il mio avvocato non era quello di oggi, Fabio Repici, che in quel dibattimento questo depistaggio non avrebbe sicuramente sostenuto e neppure avallato. Il Borsellino-quater era stata una svolta, aveva fatto sperare di vedere finalmente almeno un barlume di verità, un miraggio di giustizia, ma poi sono arrivate una serie di sentenze contraddittorie, per l'ultima delle quali aspettiamo ancora una motivazione, le quali hanno fatto quasi del tutto svanire questa mia speranza. Nella prima, quella d'appello, si assolvono gli imputati dello Stato perché il fatto non costituisce reato. Nell'altra, quella in Cassazione, si assolvono tutti per non avere commesso il fatto. Ma il fatto c'è, la strage c'è stata, Paolo e i suoi ragazzi sono stati uccisi! Dopo quella strage, altre ce sono state e altre vittime innocenti hanno perso la vita. Quelle che mancano, e ormai sono quasi sicuro di non vedere nel corso di quel destino di vita che mi resta, sono una verità e una giustizia che forse pochi, troppo pochi, in questo Paese vogliono davvero.
  Io ho finito e lascio la parola al mio avvocato, grazie.

  PRESIDENTE. Grazie mille dottor Borsellino. Do la parola all'avvocato Repici.

  FABIO REPICI, legale di Salvatore Borsellino. Ringrazio con grande sincerità il presidente e i componenti della Commissione antimafia. Capirete, dopo aver ascoltato Salvatore Borsellino, quanto sia stato un carico morale enorme quello di sostenere la difesa di un uomo che ha fatto della parresia la sua scelta di vita. Proprio per rispetto della Commissione – so che parlando alla Commissione sto parlando al Parlamento della Repubblica – io che sostengo pressoché quotidianamente che le aule di giustizia siano il luogo dove la parresia debba essere coltivata, in questa sede credo che ancora di più questo sia massimamente doveroso ed è con questo Pag. 6spirito che proverò a riferire alla Commissione antimafia ciò che ritengo possa essere utile.
  Come già detto da Salvatore Borsellino, ho assunto la sua difesa per la prima volta nel processo denominato Borsellino-quater. Quel processo prese avvio dalla epifania del depistaggio, avvenuto con le menzogne fate sottoscrivere a Vincenzo Scarantino. La prima cosa che ritengo debba essere tenuta in considerazione è che l'epifania del depistaggio la nostra nazione la deve non a un uomo o una donna dello Stato, ma a un uomo di Cosa nostra, che si chiama Gaspare Spatuzza. L'avvio del disvelamento di ciò che era successo attraverso le losche manovre che avevano condotto, dopo un lungo inseguimento, alla accettazione del ruolo di falso collaboratore di giustizia da parte di Vincenzo Scarantino è avvenuta solo grazie a Gaspare Spatuzza il quale iniziò a collaborare nel giugno del 2008. A onor del vero va ricordato alla Commissione che, mentre si trovava detenuto in carcere e non aveva ancora inteso collaborare con la giustizia, Gaspare Spatuzza già nel giugno del 1998, audito in sede di colloquio investigativo in carcere dall'allora Procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna e dall'allora sostituto procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, aveva detto delle cose che contraddicevano in modo ufficiale il depistaggio Scarantino. Basta solo riportare quello che nel colloquio investigativo Gaspare Spatuzza disse a proposito del furto della FIAT 126, in relazione al quale si era autoaccusato Vincenzo Scarantino. Gaspare Spatuzza riferì a quei due magistrati più o meno la seguente frase: «Guardate, io non so se davvero Vincenzo Scarantino abbia rubato la FIAT 126 utilizzata in via D'Amelio, ma se per caso lui l'avesse rubata io vi posso dire una cosa certa e cioè che a lui poi è stata rubata». Quello che riferiva quelle parole era il vero ladro della FIAT 126, su incarico di Giuseppe Graviano, che è il regista della fase esecutiva per Cosa nostra della strage di via D'Amelio.
  Nel giugno del 2008, finalmente Gaspare Spatuzza decide di collaborare con la giustizia e firma un contratto con lo Stato. Da lì parte il ribaltamento degli accertamenti che avevano portato a delle sentenze irrevocabili e la prima volta in cui questi accertamenti arrivarono a un risultato di pubblica conoscibilità avvenne nel marzo del 2012, allorché fu eseguita una ordinanza di custodia cautelare emessa dal GIP presso il tribunale di Caltanissetta, in relazione a due personaggi in quel momento indagati per la strage di via D'Amelio che non erano mai stati processati. Si tratta di Salvatore Mario Madonia, uno della genia dei Madonia di Resuttana Palermo, che è stato il mandamento che ha avuto la funzione di pilastro per l'arrivo della egemonia di Salvatore Riina e dei corleonesi in occasione della seconda guerra di mafia, e di Vittorio Tutino. Con la misura cautelare del marzo del 2012, tutti coloro che non erano impegnati nello svolgimento delle indagini conobbero per la prima volta il depistaggio Scarantino. Di lì a poco fu celebrato un incidente probatorio, qui a Roma, nell'aula bunker del carcere di Rebibbia, in fase di indagini, come è ovvio per ogni incidente probatorio, per l'audizione di alcuni collaboratori di giustizia, le cui rivelazioni erano ritenute dalla Procura della Repubblica particolarmente rilevanti ai fini del futuro processo. In quell'occasione – questo è il motivo per cui lo ricordo – tanto è l'anelito di verità che muove Salvatore Borsellino che, pur ancora in fase di indagini e quindi in fase in cui le persone offese dal reato – in questo caso i familiari delle vittime della strage – non hanno possibilità di costituirsi parte civile, perché come i giuristi presenti sanno è necessario l'esercizio dell'azione penale, la persona offesa dal reato, Salvatore Borsellino, chiese, naturalmente ottenendolo perché previsto dalla legge, di poter partecipare all'incidente probatorio. Così, il primo difensore di parti private che poté muovere domande ai collaboratori di giustizia, dopo la scoperta del depistaggio Scarantino, fui proprio io. Da lì venne poi il dibattimento del processo Borsellino-quater e l'impegno che a me fu dato da Salvatore Borsellino è quello che, nella sua cifra morale e giuridica, si può trarre da quel suo scritto che vi ha letto poco fa, intitolato «Lampi nel buio». L'incarico che Pag. 7mi fu dato fu quello di fare ogni possibile sforzo al fine di accertare quanta più porzione di verità possibile dopo i cumuli di menzogne che avevano calpestato la giustizia e soprattutto il desiderio e la necessità di verità da parte dell'intera Nazione. Fu per questo motivo, come ricordava Salvatore Borsellino, che nel formulare le richieste di prova, al momento del deposito della lista testimoniale, cercammo di colmare lacune che ancora nel 2013 – questa è la data dell'inizio del dibattimento del processo Borsellino-quater – erano rimaste tali. Questo lo dico perché lo spirito di parresia impone che non si possa riscrivere la storia a cagione degli anni che passano e degli sfumati ricordi che possono essere provocati dal tempo che passa. Quando nel 2013 depositammo la lista testimoniale, indicammo come testimone per la prima volta innanzi a un giudice di Caltanissetta il dottor Giovanni Tinebra, indicammo per la prima volta come testimone innanzi a un giudice di Caltanissetta il dottor Pietro Giammanco, indicammo – e questa è cosa che non è abbastanza ricordata – come testimoni per la prima volta i figli di Paolo Borsellino. Il dottor Manfredi Borsellino e la dottoressa Lucia Borsellino per la prima volta hanno testimoniato innanzi all'autorità giudiziaria, rendendo dichiarazioni importantissime che hanno trovato adeguato spazio nella motivazione della sentenza della Corte d'assise di Caltanissetta del 20 aprile 2017. Per la prima volta dunque il dottor Manfredi Borsellino e la dottoressa Lucia Borsellino furono convocati come testimoni innanzi all'autorità giudiziaria di Caltanissetta. Il dottor Giammanco non fu poi sentito perché i tempi del processo e l'ordine di assunzione delle prove implica che i testimoni delle parti civili vengano sentiti una volta terminata l'assunzione delle prove richieste dalla pubblica accusa. Quindi, quando arrivò il nostro turno – eravamo già nella seconda metà del 2015 – e convocai il dottor Giammanco, egli si trovava già in condizioni di salute che non gli consentivano di presentarsi a Caltanissetta in udienza e quindi la sua audizione saltò. Certo è che noi ce l'avevamo messa tutta, come avrebbero potuto sicuramente fare le altre parti e anche la Procura della Repubblica, sia quella del passato sia quella del processo Borsellino-quater. Non era avvenuto: infatti la prima volta che il dottor Giammanco fu sentito da un magistrato della Procura di Caltanissetta avvenne nel 2017, con un'audizione a domicilio perché egli non era più in grado di deambulare e questo implicò che la sua audizione avvenisse in quella forma.
  Quando nel 2013 depositai la lista testimoniale, io chiesi alla Corte che il dottor Giammanco venisse chiamato a rispondere sui suoi rapporti con il dottor Paolo Borsellino nel periodo successivo alla strage di Capaci, sulle sue interlocuzioni con il dottor Paolo Borsellino sull'assegnazione della delega della DDA di Palermo per gli affari relativi al territorio di Palermo, con specifico riferimento anche alla raccolta delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo, su quanto a lui eventualmente riferito dal dottor Paolo Borsellino circa informali rivelazioni a lui fatte da Gaspare Mutolo, poi naturalmente – come io faccio e come tanti miei colleghi fanno in ogni processo – su quanto a sua conoscenza sui fatti di cui ai capi d'imputazione e sulle persone a vario titolo coinvolte. Questo lo faccio presente per dire che già nel 2013 c'era chi aveva indicato l'importanza di quella audizione che naturalmente sarebbe stata un'audizione non propriamente di comodo per il dottor Giammanco e di questo eravamo ben consapevoli. A quel processo è seguito – non solo sostanzialmente, ma anche formalmente – come conseguenza il processo che convenzionalmente è stato denominato «processo sul depistaggio», a carico di tre appartenenti alla Polizia di Stato Bo, Mattei e Ribaudo, nel quale per uno dei tre imputati c'è stata sentenza di primo grado di assoluzione e per gli altri due imputati di proscioglimento per intervenuta estinzione del reato per prescrizione. La sentenza è stata impugnata dalla Procura della Repubblica e quindi il giudizio di secondo grado avrà inizio il prossimo 31 ottobre. Anche in quel processo ho operato nell'interesse e su spinta di Salvatore Borsellino sempre nella stessa linea di colmare i vuoti nella ricostruzione Pag. 8dei fatti ed è questo il motivo per cui, dopo aver consentito ai due figli maggiori di Paolo Borsellino di testimoniare al processo Borsellino-quater, indicai in lista testimoniale anche la terza figlia, cioè la dottoressa Fiammetta Borsellino, che già da qualche anno aveva assunto un attivismo nel dibattito pubblico, proprio manifestando grande pulsione alla ricerca della verità. Indicammo dunque in quell'occasione in lista anche Fiammetta Borsellino, poi, in corso di dibattimento, sul punto, cioè sull'audizione dei figli di Paolo Borsellino, confrontandomi con il difensore dei tre figli di Paolo Borsellino cioè l'avvocato Vincenzo Greco – come è ovvio, per garbo processuale e umano e per ragioni sostanziali di condivisione dello spirito nel quale ci si muoveva – ho chiesto se ci fosse un interesse a quella deposizione. Alla fine concordammo che non c'era ragione di chiamare a testimoniare la dottoressa Fiammetta Borsellino perché negli ultimi giorni della vita di suo padre, come tutti voi sapete, non era presente, sollecitazione che era venuta in realtà dal padre stesso per cercare, in quei giorni in cui quella famiglia visse l'inferno, di dare la possibilità a uno dei tre figli di poter vivere qualche momento di maggiore serenità.
  Questo è lo spettro processuale nel quale mi sono mosso. Devo però fare una segnalazione alla Commissione. Ho potuto, con le mie modestissime, davvero misere capacità, provare a dare un contributo nel processo Borsellino-quater e in quello successivo, nell'esclusivo obiettivo della ricerca della verità, grazie al fatto che, nell'esercizio della mia professione, che purtroppo ormai data da 25 anni, ho tutelato professionalmente le posizioni processuali di altri familiari di vittime di gravissimi delitti di mafia. Quelle sedi processuali mi hanno consentito di avere cognizioni ulteriori rispetto a quelle limitate alla esclusiva ricostruzione della strage del 19 luglio del 1992. In ordine cronologico della commissione di quei delitti di cui mi sono occupato faccio riferimento: all'omicidio del procuratore della Repubblica di Torino Bruno Caccia, commesso il 26 giugno del 1983, all'omicidio di una diciassettenne in provincia di Messina, che si chiamava Graziella Campagna, uccisa il 12 dicembre del 1985, all'omicidio del poliziotto Antonino Agostino, ucciso insieme alla moglie Ida Castelluccio, il 5 agosto del 1989, all'omicidio dell'educatore penitenziario Umberto Mormile, ucciso a Carpiano il giorno 11 aprile del 1990, all'omicidio del giornalista Beppe Alfano, ucciso in provincia di Messina, a Barcellona Pozzo di Gotto, in un luogo particolarmente importante negli equilibri nazionali di Cosa nostra e di altri poteri criminali. Beppe Alfano è l'ultimo giornalista in ordine di tempo assassinato da Cosa nostra e in realtà è l'ultimo giornalista assassinato dalle mafie in Italia. Infine l'omicidio di un urologo barcellonese ucciso fra l'11 e il 12 febbraio del 2004 a Viterbo, il dottor Attilio Manca. È solo grazie alle cognizioni che ho raccolto in quest'ampia fascia di delitti, tutti connaturati dalla presenza operativa della criminalità organizzata e dalla compartecipazione, in alcuni casi, o dalla cointeressenza, di soggetti estranei a Cosa nostra e, alle volte, di soggetti appartenenti ad apparati istituzionali. È stato grazie a ciò che ho potuto dare un contributo anche nel processo per la strage di via D'Amelio e questo mi porta a fare una affermazione. La strage di via D'Amelio ha sicuramente delle peculiarità sue, come ogni crimine ha, tanto più un crimine eccellente, ma più della strage di via D'Amelio è difficile pensare in Italia. Ce ne sono stati altrettanto gravi, ma fare una classifica tra delitti più o meno gravi che hanno portato alla morte di esponenti delle istituzioni, esponenti delle forze di polizia, comuni cittadini, come nelle stragi del 1993 o nelle stragi della strategia della tensione, naturalmente non è possibile fare. Però, se pure ha delle peculiarità sue, la strage di via D'Amelio non è un delitto fuori dalla storia. Sarebbe il più aberrante degli errori che si possano commettere quello di considerare la strage di via D'Amelio un delitto fuori dalla storia. Quel delitto è parte di un percorso che risale almeno al 1989, nella sua fase minima che si può individuare, e che sicuramente si completa nel 1994, ma si completa quanto alla esecuzione di delitti, di progetti Pag. 9esecutivi di stragi propriamente intesi, ma, in realtà, quel percorso vede ulteriori effetti anche nei decenni successivi, almeno fino alla cattura di Bernardo Provenzano, avvenuta, come sapete, nel 2006, e perfino in epoca recente con i tentativi di ricatto operati da una cella al 41-bis, da parte di colui che è stato il regista per conto di Cosa nostra della esecuzione della strage di via D'Amelio, e naturalmente faccio riferimento a Giuseppe Graviano. La strage di via D'Amelio quindi va vista nei suoi dettagli di unicità, ma va vista in un quadro più largo, perché altrimenti la verità non la si trova.
  C'è un'altra cosa che mi preme dire per ossequio a quello spirito di parresia, evocato all'inizio. È da qualche tempo intorno alla strage di via D'Amelio in particolare, ma anche intorno ad altri delitti ai quali hanno partecipato in modo possente Cosa nostra o altre organizzazioni criminali, che si avverte la pratica di un pericolosissimo fenomeno a mezza via fra il negazionismo e il revisionismo. È un tentativo di riscrivere la storia in un'ottica pan-mafiosa che vorrebbe portare alla conclusione per cui certi delitti, e in particolare la strage di via D'Amelio, siano frutto esclusivamente delle azioni poste da uomini d'onore di Cosa nostra, con la esclusione categorica di ogni apporto esterno a quella strage. Al riguardo, è emblematico un fatto procedimentale, nemmeno processuale, che è proprio in corso. Come qualcuno di voi sicuramente sa, è in corso un procedimento presso l'autorità giudiziaria di Caltanissetta, derivato dalle dichiarazioni di un dichiarante, che sarebbe eccessivo oggi chiamare collaboratore di giustizia. Si chiama Maurizio Avola. È stato un killer del clan Santapaola, uomo d'onore di Cosa nostra catanese, Maurizio Avola, che aveva cominciato a collaborare con la giustizia nel marzo del 1994. Senonché, Maurizio Avola, a partire dal 2017, cominciò a rendere nuove dichiarazioni alla Procura della Repubblica di Caltanissetta, in una sostanziale terza vita da pentito, con una terza versione delle storie che raccontava. Questa terza vita ha dato luogo a un procedimento che ha il numero di notizia di reato 372 del 2020 e come titolo di reato ha proprio le due stragi, quella commessa a Capaci il 23 maggio 1992 e quella commessa in via D'Amelio il 19 luglio del 1992. Il procedimento vede indagati, insieme a Maurizio Avola, i mafiosi, perché tali sono, Aldo Ercolano, Marcello D'Agata ed Eugenio Galea, tutti uomini importanti del clan Santapaola, un tempo, e dell'articolazione catanese di Cosa nostra. Perché dico che questa vicenda è emblematica? Perché la Procura di Caltanissetta, nel concludere con la richiesta di archiviazione su quel procedimento, è arrivata alla conclusione che le dichiarazioni rese da Maurizio Avola avevano una portata oggettivamente falsa e calunniosa. Qualcuno di voi ricorderà che addirittura queste dichiarazioni false e calunniose hanno trovato spazio in una trasmissione in prima serata, non troppo tempo fa, con l'intervento in video a mezzo intervista proprio di Maurizio Avola. La Procura di Caltanissetta ha spiegato in questa richiesta di archiviazione che la finalità che ha mosso le calunnie propalate da Maurizio Avola era unicamente quella di escludere la responsabilità di esponenti esterni a Cosa nostra. Quella vicenda è quindi emblematica per questo motivo, è la plastica operatività dell'attività negazionista e revisionista.
  Voi sapete che ci sono degli altri processi in corso in Italia in cui alle volte sono imputati soggetti che con Cosa nostra hanno avuto a che fare. Addirittura, uno di questi soggetti, che si chiama Paolo Bellini, si trova imputato e condannato in primo grado a Bologna per la strage del 2 agosto del 1980, del quale però sappiamo con certezza essere stato un protagonista attivo delle mosse di Cosa nostra nel 1992, protagonista attivo di relazioni con personaggi importantissimi di Cosa nostra in quel momento, addirittura impegnati nella preparazione della strage di Capaci. Faccio riferimento a Giovanni Brusca, a Gioacchino La Barbera e soprattutto a Nino Gioè, che, per conto di Brusca e dell'intera Cosa Nostra, incontrò, dal periodo precedente alla strage di Capaci in Sicilia, Paolo Bellini. In realtà è stato accertato che Paolo Bellini ha avuto una presenza quasi fissa in Sicilia, a Pag. 10partire almeno dal dicembre del 1991 e fino a epoca successiva alla strage di via D'Amelio. Sappiamo con certezza che il suggerimento a Cosa nostra di colpire il patrimonio architettonico con delle stragi è provenuto proprio da Paolo Bellini. C'è una contestualità temporale davvero allarmante fra il suggerimento di Paolo Bellini e la messa in opera delle azioni mirate a colpire il patrimonio architettonico della Nazione. Faccio solo riferimento alla collocazione a opera di Santo Mazzei, uomo d'onore catanese legatissimo proprio nel periodo stragista al gruppo corleonese di Cosa nostra, nella seconda metà del mese di ottobre del 1992, di un proiettile di artiglieria reperito a Torino, con l'intervento di un'importante gruppo che era all'epoca la proiezione del capo mandamento di Cosa nostra di Mazara del Vallo, il capomafia e massone Mariano Agate. A Torino il referente di Mariano Agate era un altro importante mafioso e massone, di nome Giovanni Bastone, ma di questo in realtà sarà il caso di dire quando parlerò delle indagini del dottor Germanà. Il punto è che è ormai pacificamente accertato che le strade dello stragismo esecutivamente commesso da Cosa nostra nella fase iniziata con l'omicidio Lima del 12 marzo 1992, poi proseguita a Capaci e a via D'Amelio, si saldarono con l'intervento di soggetti che avevano tutt'altra provenienza. Naturalmente non devo essere io a ricordare a voi che la provenienza criminale di Paolo Bellini è quella della eversione neofascista, come risulta da una sentenza certamente non irrevocabile, ma molto significativa quanto alla ricostruzione della biografia criminale di Paolo Bellini, emessa dalla Corte d'Assise di Bologna nell'anno 2022. Quel richiamo a certe pulsioni negazioniste e revisioniste, perfino in sede giudiziaria, a proposito dello stragismo di Cosa nostra, mi porta a dire che, oggi, credo per la prima volta dal 1992, si è creata una saldatura con certe pulsioni negazioniste e revisioniste sulle stragi della strategia della tensione, ivi compresa la strage di Bologna del 2 agosto del 1980. Questo avviene proprio quando almeno fra la strage di Bologna e le stragi del 1992-1993 vengono in rilievo i collegamenti esistenti, addirittura i protagonisti condivisi, su entrambi i versanti. Per questo la vicenda che riguarda Paolo Bellini – che oggi è all'attenzione, per quel che so da notizie giornalistiche, anche della Procura distrettuale di Firenze, che procede per le stragi del 1993, oltre che della Procura distrettuale di Caltanissetta che procede per quelle del 1992 – a me pare emblematica.
  In questo scenario nel quale ci muoviamo, ritengo che sia allora importante evitare di introdurre nella ricerca, parlamentare in questo caso, elementi che creino confusione piuttosto che utilità per l'accertamento della verità, che creino buio, piuttosto che luce che illumini quel percorso di ricerca della verità. Bisogna in tutti i modi evitare di rimettere in gioco elementi che sono oggettivamente depistanti per chi vuole esclusivamente muovere alla ricerca della verità. Occorre muovere da dati consolidati, dati sui quali si può fare sicuro affidamento, non solo perché contenuti in sentenze che hanno il sigillo del giudicato, ma perché pacificamente accertati, e muovere da lì. È un'operazione complessa, che sicuramente mette davanti a una grandissima difficoltà nel raggiungimento degli obiettivi. Però – e questo lo dico per mia esperienza professionale – la difficoltà non è impossibilità, perché questo è dimostrato da ciò che sta avvenendo anche in questo tempo in importanti processi in alcuni dei quali io mi trovo. Non solo nell'anno 2023 ci si trova davanti a due incombenti giudizi d'appello per la strage alla stazione di Bologna di 43 anni fa, ma anche in Sicilia è in corso il processo per il duplice omicidio Agostino-Castelluccio – il poliziotto Nino Agostino e la moglie – che ha avuto sentenza di secondo grado per il capomafia Antonino Madonia, solo poco più di dieci giorni fa, e che ha un dibattimento in primo grado in giudizio ordinario che sta arrivando a conclusione e il 6 novembre prossimo vedrà l'avvio della requisitoria da parte della Procura generale. La requisitoria in primo grado da parte della Procura generale è dovuta al fatto che, così come è avvenuto a Bologna nel processo Bellini, a esercitare l'azione penale a Palermo, nei confronti di Antonino Madonia e Gaetano Pag. 11Scotto, è stata la Procura generale di Palermo dopo l'avvenuta avocazione delle indagini, da me peraltro sollecitata nel 2017, e nell'occasione, per dovere di parresia, mi tocca dirlo, grazie, non dico esclusivamente, ma con grandissima proporzione, all'impegno del senatore Scarpinato, all'epoca Procuratore generale di Palermo.
  Per poter dare un contributo diretto a indicare elementi da ulteriormente acquisire o spunti sui quali operare alla ricerca di ulteriori tasselli di verità, partiamo dai dati certi. Sicuramente, per partire dai dati certi, bisogna partire dalla sentenza emessa dalla Corte d'assise di Caltanissetta il 20 aprile del 2017, all'esito del dibattimento del processo Borsellino-quater. Quello è indubitabilmente l'arresto giudiziario più importante sulla strage di via D'Amelio, sia per la quantità di attività istruttoria svolta in quel dibattimento sia per la qualità delle conclusioni raggiunte con quella sentenza, che poi ha trovato conferma quasi integrale nei successivi gradi di giudizio fino alla irrevocabilità. In questo senso è doveroso secondo me rendere merito ai magistrati che hanno composto quella Corte d'assise nelle persone del presidente Balsamo e del giudice a latere Barlotti. È il provvedimento giudiziario dal quale bisogna muovere. La prima cosa su cui è importante, a mio modo di vedere, centrare l'attenzione a partire da quella sentenza l'ha già preannunciata Salvatore Borsellino. Riguarda la vicenda della collaborazione con la giustizia di Gaspare Mutolo. Si tratta di un fatto decisivo nello svolgimento dei fatti che portarono il 19 luglio alla uccisione di Paolo Borsellino e dei cinque poliziotti che gli facevano da scorta, ed è un fatto importante perché trova avvio in un momento vicinissimo rispetto alla esecuzione della strage, e cioè il primo luglio del 1992. Quella è la data nella quale Paolo Borsellino per la prima volta interroga Gaspare Mutolo. Sul punto la sentenza del processo Borsellino-quater ricostruisce acutamente alcune sfumature. Gaspare Mutolo aveva deciso di collaborare con la giustizia in epoca abbondantemente precedente rispetto a quel primo luglio del 1992 e di questo c'è prova in un incontro che nel carcere di Spoleto, nel dicembre del 1991, Gaspare Mutolo ebbe con Giovanni Falcone. Giovanni Falcone, come tutti voi sapete, a dicembre del 1991 era un dirigente del Ministero allora chiamato di grazia e giustizia, e non era un magistrato, tanto meno un pubblico ministero che poteva svolgere attività di indagine. Però, su richiesta di quel detenuto, andò a incontrarlo. L'incontro di Falcone con Gaspare Mutolo ebbe una conclusione e cioè che a Gaspare Mutolo, che aveva segnalato al dottor Falcone che solo di lui si poteva fidare quale pubblico ministero al quale riversare le sue rivelazioni, il dottor Falcone disse che c'era un altro magistrato, che era ancora in servizio, e che di lì a breve sarebbe arrivato in servizio alla procura di Palermo, il dottor Paolo Borsellino. Gaspare Mutolo raccolse positivamente l'invito del dottor Falcone a indirizzare la sua volontà collaborativa proprio presso il dottor Borsellino. Gaspare Mutolo, per ragioni della sua vita, aveva conoscenza di episodi criminali occorsi in Toscana e questo è il motivo per cui, detenuto, chiese di poter rendere delle dichiarazioni e fu sentito per la prima volta dall'allora Procuratore distrettuale antimafia di Firenze, il dottor Pierluigi Vigna, alla fine del mese di maggio del 1992. Fu il dottor Vigna a informare della intrapresa collaborazione di Mutolo la Procura di Palermo e si arrivò all'interrogatorio del primo luglio del 1992. Quell'interrogatorio è uno dei fatti più rilevanti dell'ultimo periodo di vita di Paolo Borsellino, per vari motivi. Intanto Paolo Borsellino cominciava a raccogliere le dichiarazioni di un importante esponente di Cosa Nostra. Era dal 1989, cioè dal momento in cui aveva iniziato a collaborare con la giustizia Francesco Marino Mannoia, che dall'interno di Cosa nostra non arrivava alcun importante collaboratore di giustizia. In più, Gaspare Mutolo aveva avuto una sua vicinanza anche umana, personale con Salvatore Riina, cioè con il capo di quella Cosa nostra a guida corleonese che, e richiamo le parole pronunciate da Paolo Borsellino il 25 giugno del 1992, sicuramente era stata coinvolta nella strage di Capaci. In quell'occasione, mi piace ripeterloPag. 12 proprio per la denuncia del negazionismo che ho fatto prima, Paolo Borsellino disse: «A Capaci sicuramente è stata la mafia, ma – precisò – vedremo se non è stata solo la mafia, ma la mafia è stata sicuramente». Questa è l'intuizione che pubblicamente formulò Paolo Borsellino il 25 giugno del 1992.
  Non conta nulla, ma forse serve a un po' capire qual era lo spirito del tempo. All'epoca ero uno studente di giurisprudenza e vivevo in provincia di Messina, quindi Palermo non era propriamente mia zona di frequentazione, ma il 25 giugno del 1992, io, avendo saputo che a una conferenza organizzata da MicroMega avrebbe partecipato il dottor Paolo Borsellino, presi un treno e mi recai a Palermo per andare a sentire Paolo Borsellino. Rimasi colpito in un modo che naturalmente non posso più dimenticare, della crudezza con cui quell'uomo, in quel momento, stava dedicando quelle che poi scoprimmo essere le ultime sue forze, nell'interesse di tutti noi cittadini. Mutolo quindi era un pentito importantissimo e questo è il motivo per cui Paolo Borsellino fa di tutto per poter essere lui a raccogliere le dichiarazioni di Mutolo, posto che era stato proprio Mutolo a chiedere il suo intervento e quindi era necessario, a fini di giustizia e di verità, eliminare l'ostacolo derivante dall'assegnazione al procuratore aggiunto Paolo Borsellino, nella organizzazione interna della Procura di Palermo, della delega per i fatti di mafia delle province di Agrigento e di Trapani. Per fortuna Paolo Borsellino andò a interrogare Gaspare Mutolo, però quell'interrogatorio fu interrotto, anzi, fu caratterizzato da due fatti enormi, giganteschi. Il primo è che, fuori dal verbale, Gaspare Mutolo rivelò a Paolo Borsellino che era a conoscenza dell'esistenza di soggetti istituzionali che avevano avuto un ruolo di supporto e di contiguità con Cosa nostra. Fece i due nomi e i due nomi erano: il dottor Bruno Contrada e il dottor Domenico Signorino. Il dottor Bruno Contrada era un importante dirigente del SISDE in quel momento e il dottor Domenico Signorino era un magistrato della Procura generale di Palermo. Il dato era ovviamente enorme. Il secondo fatto enorme è che quell'interrogatorio fu sospeso per una telefonata giunta a Paolo Borsellino dal Viminale, con la convocazione di Paolo Borsellino al Viminale. Paolo Borsellino si reca al Viminale. È il momento di insediamento del neo ministro dell'Interno, Nicola Mancino, ma nella sua visita al Viminale accade un fatto impressionante. Che ciò sia accaduto il primo luglio del 1992 lo attesta la sentenza del processo Borsellino-quater, grazie alla testimonianza di un collega del dottor Borsellino e cioè il dottor Gioacchino Natoli, che apprese la circostanza già il giorno successivo. Quello che avvenne è che Paolo Borsellino, non solo incontrò l'appena insediato Ministro dell'Interno, ma si imbatté nei corridoi del Viminale anche nel dottor Bruno Contrada cioè proprio dell'uomo del quale gli aveva appena parlato, come uomo in relazioni con Cosa nostra, Gaspare Mutolo. Perché il dato è fondamentale? Perché noi sappiamo quanto Paolo Borsellino diede rilievo a quella circostanza e lo sappiamo per il fatto che, oltre che al dottor Natoli, lo riferì anche ad altri colleghi che lo hanno testimoniato dopo la strage di via D'Amelio, ma è importante per una ulteriore ragione. La ragione è che quella circostanza – cioè che Mutolo aveva rivelato al dottor Borsellino che Contrada era uomo contiguo a Cosa nostra – fu riferita il 20 luglio del 1992 al procuratore Tinebra. La legge vigente sui servizi segreti in quel momento era la legge del 1977, che aveva istituito il SISDE e il SISMI, ma in realtà anche la successiva legge del 2007, che ha istituito AISI e AISE, sul punto non ha modificato nulla, e cioè che è vietato dalla legge che esponenti dei servizi di sicurezza possano collaborare alle indagini della magistratura inquirente. E ciò, a chi ha un minimo di cognizione di diritto, è chiaro ed è stabilito dalla nostra Costituzione. La Costituzione prevede che la magistratura sia autonoma e indipendente. All'articolo 101 prevede che i giudici sono soggetti soltanto alla legge – in realtà nella votazione in Assemblea costituente era che i magistrati fossero soggetti soltanto alla legge, non solamente i magistrati giudicanti. Comunque l'articolo 112, con il principio di Pag. 13obbligatorietà dell'esercizio dell'azione penale in capo ai pubblici ministeri, rende vincolati e soggetti soltanto alla legge anche i pubblici ministeri. Questo è tutelato dall'articolo 109 della Costituzione che impone un vincolo funzionale per la polizia giudiziaria rispetto ai pubblici ministeri. È vero che la polizia giudiziaria è fatta da poliziotti, carabinieri, esponenti delle forze dell'ordine che sono in qualche modo incasellati in un Ministero, ma, grazie all'articolo 109 della Costituzione, devono agire in modo esclusivamente vincolato al pubblico ministero che delega le indagini per consentire un accertamento che non sia succube di interferenze di tipo politico-amministrativo. L'appartenente ai servizi segreti, non essendo ufficiale di polizia giudiziaria, non ha la tutela data agli ufficiali di polizia giudiziaria dall'articolo 109 della Costituzione ed è vincolato al potere amministrativo non genericamente, ma addirittura specificamente alla Presidenza del Consiglio, presso cui sono incardinati i servizi di informazione e sicurezza. Quando il 20 luglio del 1992 il dottor Tinebra chiede per le indagini l'aiuto del dottor Bruno Contrada, commette un atto illegale, ma quel che è più sconvolgente è che affida l'incarico di supportare le indagini sulla strage di via D'Amelio a un funzionario del SISDE sul quale Paolo Borsellino voleva indagare, grazie alle rivelazioni di Gaspare Mutolo, e poi i risultati si sono visti. Il paradosso è che le indagini sull'uccisione di Paolo Borsellino furono almeno in parte affidate a uno che sarebbe stato indagato da Paolo Borsellino in un corto circuito che non ha precedenti nella storia. La cosa è ancora più grave per un ulteriore fatto: l'effetto intimidatorio. Quelle dichiarazioni su Bruno Contrada Gaspare Mutolo non le verbalizzò né il 20 luglio, né il 21 luglio, né il 22 luglio, né nel mese di agosto, né nel mese di settembre. Sono convinto che l'effetto intimidatorio non fu solo nei confronti di Gaspare Mutolo, ma fu pure nei confronti dei magistrati. Quelle dichiarazioni su Bruno Contrada furono fissate in un verbale di interrogatorio solo il 23 ottobre del 1992, quindi oltre tre mesi dopo la strage di via D'Amelio.
  Nel corso degli anni abbiamo avuto alcune testimonianze non solo dei colleghi di Paolo Borsellino, ma anche di persone che avevano acquisito con lui un rapporto di amicizia o che per ragioni contingenti si erano trovati a frequentarlo per ragioni private. Il dottor Diego Cavaliero è un magistrato che iniziò il suo lavoro di magistrato alla Procura di Marsala, in coincidenza con l'arrivo alla guida della stessa procura del dottor Paolo Borsellino, all'inizio del 1987. Egli intrattenne con Paolo Borsellino, come testimoniato dalla moglie e dai figli di Paolo Borsellino, un rapporto di così tale vicinanza che non ha eguali fra tutti i colleghi di Paolo Borsellino. Nacque un rapporto quasi paterno di Paolo Borsellino nei confronti del dottor Cavaliero, tanto che in quel triennio 1987-89, quando Paolo Borsellino tornava a Palermo per il fine settimana, portava con sé il giovane suo sostituto il quale dormiva a casa di Paolo Borsellino. È lo stesso amico di Paolo Borsellino che nel luglio del 1992 gli chiede di fare da padrino di battesimo al proprio figlio ed è lo stesso amico di Paolo Borsellino che ospita, dopo la strage, nel mese di agosto 1992, i figli e i familiari più stretti di Paolo Borsellino. Perché dico questo? Perché il dottor Cavaliero ha testimoniato su un episodio apparentemente minimale, ma che ha un grande significato alla luce di quello che avvenne. Si trovava a casa del dottor Borsellino e stavano pranzando, davanti alle immagini del telegiornale. La televisione era accesa ed era presente il figlio di Paolo Borsellino, che all'epoca era minorenne e che aveva la curiosità di qualunque ragazzo, tanto più in relazione al lavoro del padre. Poiché in quel momento il telegiornale, che stava parlando della strage dell'Addaura, dell'attentato fallito ai danni del dottor Falcone del giugno 1989, aveva fatto il nome del dottor Bruno Contrada, il dottor Manfredi Borsellino chiese chi fosse questo Contrada. Il dottor Cavaliero ha riferito ai magistrati come la reazione del dottor Borsellino fu impressionante ai suoi occhi perché reagì con una brutalità che non gli aveva mai visto nel dire a suo figlio di evitare perfino di pronunciare quel nome. Si trattava di cose così Pag. 14pericolose delle quali non si doveva minimamente fiatare. La cosa è stata riferita anche da un poliziotto, che aveva rapporti con Paolo Borsellino fino al momento della sua uccisione, per ragioni assolutamente private. Era il fidanzato della figlia maggiore di Paolo Borsellino, di Lucia Borsellino. Il poliziotto Bartolo Iuppa fu fidanzato con Lucia Borsellino fra il 1990 e il 1997 e nel 1992 frequentava assiduamente la casa della fidanzata. In una occasione anch'egli, vedendo il volto di Contrada in televisione, rivolse al dottor Borsellino la fatidica domanda su cosa pensasse del dottor Contrada. Anche in quella occasione la reazione era stata particolarmente dura. Il dato ha un altro rilievo. È noto a tutti, ed è attestato in sentenze, il rapporto umano e professionale inscindibile che legò Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Giovanni Falcone, come tutti sappiamo, fu vittima di quell'attentato nel giugno del 1989. Sappiamo anche che il 10 luglio del 1989, sul quotidiano «L'Unità», uscì un'intervista a Giovanni Falcone. Vi invito a rileggere quell'intervista perché Giovanni Falcone, alla luce di ciò che ho potuto studiare sugli atti processuali, ma anche alla luce di ciò che ho potuto sapere da parte di chi lo ha conosciuto, era persona particolarmente riservata e non era certo un gran chiacchierone su vicende di mafia e su vicende particolarmente delicate.
  In quella intervista, quindi in una dichiarazione pubblica, parlando dell'attentato ai suoi danni, Giovanni Falcone fece riferimento a menti raffinatissime che sono in grado di indirizzare le azioni di Cosa nostra. «È in questo scenario che dobbiamo guardare per cercare di capire chi ha voluto la mia uccisione con l'attentato all'Addaura». In anni recenti il giornalista che intervistò Giovanni Falcone ha testimoniato, pubblicamente – ma in realtà lo ha fatto sotto giuramento anche al processo per il duplice omicidio Agostino-Castelluccio su mia espressa domanda – ha testimoniato che il dottor Falcone nell'occasione fece il nome del dottor Bruno Contrada e gli chiese di evitare la pubblicazione di quel nome per la delicatezza della circostanza. Richiamando il legame intenso che teneva insieme Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, tanto che a dicembre del 1991 il dottor Falcone suggerisce a Gaspare Mutolo di fidarsi esclusivamente di Paolo Borsellino, noi abbiamo certezza di quale fosse il pericolo che Paolo Borsellino vedeva nel ruolo del dottor Bruno Contrada, quale elemento di apparati istituzionali che colludevano con Cosa nostra ed è il motivo per cui, a proposito della accelerazione che portò alla strage di via D'Amelio, dato di fatto accertato per bocca di alcuni dei soggetti che hanno partecipato alla strage, la sentenza del processo Borsellino-quater indica anche la collaborazione di Gaspare Mutolo. Aggiungo un dato, proprio nell'ottica che dicevo prima per cui non bisogna guardare il singolo fatto perché altrimenti si rischia di vedere un solo albero, pur stando davanti a un enorme bosco. Se si guardano gli atti del processo per la strage all'Addaura, si coglie a piene mani come già nel sostenere l'accusa contro i mafiosi esecutori della strage all'Addaura, furono fatti accertamenti mirati a verificare se una delle causali di quella strage non fosse il rischio che venisse fuori giudiziariamente il rapporto di collusione fra il dottor Bruno Contrada e Cosa nostra. Come tutti voi sapete, in quel processo ha testimoniato una magistrata svizzera che si chiama Carla Del Ponte, che giusto il 20 giugno del 1989 aveva in progetto, insieme al dottor Falcone, di fare il bagno davanti alla villa in uso al dottor Falcone in quel momento. La dottoressa Del Ponte testimoniò circa il fatto che un testimone, o meglio un imputato, industriale bresciano di nome Oliviero Tognoli, dopo anni di latitanza sostanzialmente consegnatosi alla autorità giudiziaria svizzera e alla dottoressa Del Ponte in particolare, incontrando il dottor Falcone in occasione di una rogatoria, presente la dottoressa Del Ponte, aveva rivelato che la notizia che gli aveva consentito di fuggire e darsi alla latitanza per sottrarsi a un provvedimento restrittivo nei suoi confronti gli era venuta proprio dal dottor Bruno Contrada. Questo fu rivelato informalmente a Giovanni Falcone e a Carla Del Ponte, esattamente come informalmente Gaspare Mutolo il primo luglio del 1992 rivelò la Pag. 15collusione del dottor Contrada con Cosa nostra. Però in quella occasione Oliviero Tognoli si era poi rifiutato di metterlo a verbale ed è il motivo per il quale si sospettò che il progetto di uccisione nell'attentato all'Addaura, giusto il 20 giugno del 1992, fosse finalizzato a colpire non solo Giovanni Falcone, ma anche la dottoressa Carla Del Ponte che in quei giorni era a Palermo e che quel giorno sarebbe stata ospite di Giovanni Falcone all'Addaura.
  Corre peraltro l'obbligo, l'ha già fatto Salvatore Borsellino, di citare le parole di Agnese Piraino Borsellino. Noi sappiamo una cosa – la sappiamo perché lo ha verbalizzato la signora Borsellino a partire dal 2009 e negli anni successivi davanti ai magistrati, ma in realtà lo ha fatto anche nelle sue conversazioni con un giornalista che hanno portato alla pubblicazione di un libro edito pochissimo tempo dopo la morte di Agnese Borsellino perché morì prima che il giornalista Salvo Palazzolo riuscisse a completare il lavoro. Quel libro contiene anche le rivelazioni di Agnese Borsellino, in relazione a certe piccole confidenze che il riservatissimo marito si era sentito in animo di farle nelle ultime settimane di vita. Una di quelle più impressionanti è che Paolo Borsellino negli ultimi giorni di vita disse alla moglie che aveva respirato aria di morte. Senonché quell'aria di morte Paolo Borsellino disse di averla respirata non nell'incontrare magari per qualche interrogatorio dei mafiosi, ma disse di averla respirata al Viminale, cioè al palazzo della polizia, nello stesso palazzo della polizia presso il quale, del tutto a sorpresa, si imbatté un giorno nel dottor Bruno Contrada, il quale, ed è la cosa più grave, fece mostra a Paolo Borsellino di sapere già che Gaspare Mutolo aveva iniziato a collaborare con la giustizia. Il dato è senz'altro gravissimo, è gravissimo senz'altro che quella circostanza fosse conosciuta da uno dei soggetti che sarebbe stato accusato da Gaspare Mutolo ma io ho prova documentale della gravità di ciò che accadde. Su mia sollecitazione, la Procura generale di Palermo, nel processo sul duplice omicidio Agostino-Castelluccio, ha acquisito le agende del dottor Bruno Contrada dal 1976 al 1992. Sono le agende che gli furono sequestrate al momento del suo arresto, avvenuto il 24 dicembre del 1992. Quelle agende sono quindi diventati atti giudiziari e sono un patrimonio – le notizie che emergono da quelle agende – che io invito la Commissione antimafia a utilizzare in questo difficile percorso alla ricerca della verità. Alla pagina del 27 luglio 1992 il dottor Bruno Contrada scrive di una cena a cui partecipò con dottor A. De Luca – il dottor Antonio De Luca come molti sanno in quel momento era un funzionario di polizia in servizio al SISDE – e dottor Angelo Sinesio, ufficio Alto commissariato. C'è una parentesi: «discusso questione Mutolo». Quindi otto giorni dopo la strage di via D'Amelio già il dottor Contrada preparava la propria difesa dalle accuse di Gaspare Mutolo che ancora non avevano trovato verbalizzazione. È un caso unico nella storia giudiziaria di questo Paese. Ma c'è una cosa che è ancora più impressionante, perché se si va avanti si arriva al 31 luglio, quattro giorni dopo. Si legge: visita al dottor D. Signorino. Ricorderete che il dottor Domenico Signorino è il magistrato della Procura generale di Palermo in quel momento, era stato il pubblico ministero che aveva sostenuto l'accusa nel primo maxi processo dinnanzi alla Corte d'Assise di Palermo, ma era soprattutto il secondo nome istituzionale fatto da Gaspare Mutolo nelle confidenze del primo luglio 1992 al dottor Borsellino, come soggetto colluso con Cosa nostra. Nella pagina del 31 luglio dell'agenda del dottor Contrada si legge: «Visita al dottor D. Signorino a casa» – c'è l'indirizzo di casa – e, fra parentesi, «questione Mutolo». Vi ho già detto che le dichiarazioni su Gaspare Mutolo trovano ufficializzazione solo il 23 ottobre del 1992. Capite voi cosa accadde in quei giorni, in quelle settimane e in quei mesi? C'era un uomo che sarebbe stato sicuramente indagato da Paolo Borsellino. Difficile che gli esiti sarebbero stati diversi da quelli che lo colpirono il 24 dicembre del 1992, sarebbe stato arrestato su richiesta di Paolo Borsellino, evidentemente. Quell'uomo, prima che quelle accuse trovino ingresso in un verbale, con un ritardo derivato dalla strage Pag. 16di via D'Amelio, quando aveva già ricevuto l'incarico di collaborare con il Procuratore di Caltanissetta per la strage di via D'Amelio, nel frattempo tramava sulla questione Mutolo, cosa che – consegnerò alla Commissione l'agenda del 1992 del dottor Contrada insieme ad altri documenti – voi vedrete farà sostanzialmente fino ai giorni precedenti al 24 dicembre del 1992 allorché è attestato che continuava in particolar modo a tenere i contatti con alti esponenti del ROS dei carabinieri, oltre che con importanti esponenti politici.
  La sentenza del processo Borsellino-quater assegna anche molta attenzione a un episodio che aveva visto la testimonianza di due magistrati, la dottoressa Camassa e il dottor Russo, due magistrati di prima nomina alla Procura di Marsala, che erano stati sostituti del Procuratore della Repubblica Paolo Borsellino e che erano stati sostanzialmente cresciuti come dei giovani colleghi da accudire e far crescere, come egli già aveva fatto con il dottor Cavaliero, con il quale addirittura era nato un rapporto personale, e come fece anche con altro giovane magistrato in quel momento di prima nomina, arrivato alla Procura di Marsala, cioè il dottor Antonio Ingroia. La testimonianza della dottoressa Camassa e del dottor Russo viene affrontata a proposito di un episodio occorso nel giugno del 1992 quando quei due magistrati si erano recati a Palermo e avevano incontrato nella sua stanza il dottor Paolo Borsellino. Nell'occasione, in un frangente drammatico nel comportamento del dottor Borsellino – ed era stata una cosa che lo aveva portato addirittura alle lacrime – aveva pronunciato una frase qualcosa di simile a questa: «Non posso credere che un amico mi abbia tradito», ma è un'espressione che non era una negazione era un'espressione intesa nel senso che un amico lo aveva tradito, ed era cosa che egli non si aspettava. I due magistrati testimoni non hanno saputo riferire a chi Paolo Borsellino alludesse con la locuzione dell'amico che aveva tradito. Noi però abbiamo conoscenza di alcuni fatti e ne abbiamo conoscenza grazie all'istruttoria del processo Borsellino-quater. Il dottor Diego Cavaliero in più occasioni quando gli è stato chiesto chi fossero gli ufficiali di polizia giudiziaria in assoluto più vicini a Paolo Borsellino, ha fatto sempre ed esclusivamente due nomi. Per intenderci nessun ufficiale o sottufficiale del ROS, ma un carabiniere che era in quel momento il comandante della sezione di polizia giudiziaria della Procura di Marsala, il maresciallo Carmelo Canale, che accompagnò il dottor Borsellino fino agli ultimi giorni di vita. Il secondo era un funzionario di polizia, il dottor Calogero Germanà. Abbiamo appreso, ed è un dato certo, che Paolo Borsellino, dopo la strage di Capaci, aveva espresso, anche in sede istituzionale, il desiderio di ottenere la collaborazione investigativa del dottor Rino Germanà. Chiunque abbia letto le parole del discorso pronunciato a Casa Professa il 25 giugno del 1992 ha chiaro quale fosse in quel momento l'atteggiamento di Paolo Borsellino e quindi ha chiaro di cosa potesse significare per Paolo Borsellino desiderare la collaborazione investigativa di un uomo specifico, un funzionario di polizia specifico con nome e cognome, al di là di quale era il ruolo che in quel momento aveva. Il desiderio accertato di Paolo Borsellino è che il dottor Rino Germanà venisse aggregato alla Criminalpol di Palermo. La Criminalpol in quel momento era l'organismo della polizia di Stato tipicamente destinatario delle deleghe di indagini sui più gravi fatti di mafia e sui più gravi fatti criminali. Il dottor Germanà però, fino a poco prima della strage di Capaci, era stato impegnato in una indagine che gli era stata delegata dalla Procura di Marsala proprio dalla dottoressa Alessandra Camassa. L'indagine era partita da un fatto gravissimo che si era verificato a margine di un processo in corso presso la Corte di assise di appello di Palermo, il processo per l'omicidio del capitano Basile. Era accaduto che uno o due giorni prima che la Corte si ritirasse in camera di consiglio, un notaio massone, Pietro Ferraro, si era presentato a casa del presidente della Corte d'assise d'appello e aveva di fatto sollecitato una risoluzione bonaria del processo in favore degli imputati. Gli imputati in quel momento erano i componenti della commissione provinciale Pag. 17di Palermo di Cosa nostra e gli esecutori materiali del delitto. Il processo aveva avuto un provvedimento di riunione, come dice il codice, fra il giudizio celebrato nei confronti dei componenti della commissione provinciale e il giudizio, arrivato alla Corte d'assise d'appello di Palermo in sede di rinvio, su annullamento da parte della Corte di Cassazione della precedente condanna. I tre imputati che erano divenuti tali grazie al lavoro del giudice istruttore Paolo Borsellino, erano accusati di aver ucciso nella sera fra il 3 e il 4 maggio 1980 il capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Dei tre imputati, in realtà, in vita sappiamo oggi era rimasto uno solo, perché Vincenzo Puccio era stato ufficialmente ucciso, nel senso che risultava ovviamente la sua uccisione, l'11 maggio del 1989, in una cella del carcere dell'Ucciardone. Armando Bonanno, un altro dei tre componenti della pattuglia di killer, era stato ucciso, anche se risultava latitante. Il terzo era ancora vivo e si tratta di Giuseppe Madonia, fratello di Antonino Madonia e figlio di Francesco Madonia, capo mandamento di Resuttana.
  Quella visita del notaio Ferraro al presidente della Corte d'assise d'appello fu da quest'ultimo, il dottor Scaduti, segnalata al dottor Borsellino che gli consigliò di fare una relazione di servizio e di far poi sapere alla persona incontrata che egli aveva fatto una relazione di servizio. Così avvenne. Nella relazione di servizio del dottor Scaduti si fece riferimento a un personaggio che era stato evocato dal notaio Ferraro, quale soggetto che aveva attivato il suo interessamento e aveva indicato questa persona in un esponente politico della corrente manniniana a nome Vincenzo, qualificandolo come trombato politicamente nel recente passato. La vicenda, dopo la relazione di servizio del presidente Scaduti, era stata oggetto di indagini da parte della Procura di Palermo. Delle indagini fu titolare l'allora procuratore aggiunto Vittorio Aliquò. Consiglio vivamente alla Commissione antimafia di acquisire tutta l'attività di indagine svolta dal procuratore aggiunto Aliquò in conseguenza di quella relazione di servizio, attività di indagine che naturalmente aveva come bersaglio il notaio Pietro Ferraro e il personaggio che aveva sollecitato l'attivismo del notaio Ferraro. Furono disposte anche delle intercettazioni dalle quali risultarono i contatti dei soggetti con i quali il notaio Ferraro in quel momento operava. Emersero due nomi di persone chiamate Vincenzo in contatto con il notaio Ferraro, entrambi esponenti politici. Si trattava di tal Vincenzo Culicchia che in quel momento era, credo, sindaco del comune di Partanna, ed era comunque originario di quel comune e di un soggetto all'epoca quasi sconosciuto alla grande platea ma che era stato assessore al comune di Palermo e consigliere comunale. Si chiama Vincenzo Inzerillo. Si tratta di persona che alle elezioni del 5 aprile del 1992 aveva fatto ingresso in Parlamento. Non solo aveva fatto ingresso in Parlamento, ma, grazie alle indagini del dottor Germanà, abbiamo scoperto che la qualifica di trombato atteneva al fatto che nel 1991 il suo partito, la Democrazia cristiana, lo aveva scartato nella scelta dei candidati per le elezioni regionali del giugno del 1991. Però forse fu una cosa fortunata per lui perché trovò ingresso nelle liste per le elezioni politiche del 1992 e fu eletto al Senato se non ricordo male. Anni dopo abbiamo scoperto che il senatore Vincenzo Inzerillo, come da condanna irrevocabile per concorso esterno in associazione mafiosa, era personaggio a disposizione, secondo quella sentenza, di un preciso capo mandamento di Cosa nostra, Giuseppe Graviano, cioè proprio l'uomo che ha gestito la fase esecutiva della strage di via D'Amelio.
  Siamo in un periodo precedente alla strage di Capaci e si può arrivare a un politico che è in contatto con uno degli stragisti di via D'Amelio. Senonché accade che il procuratore aggiunto Vittorio Aliquò trasmette il fascicolo per una parte a Caltanissetta, in relazione alla posizione del notaio Ferraro, perché l'eventuale suo ruolo di contiguità con Cosa nostra da qualificare giuridicamente atteneva però a una condotta che vedeva sostanzialmente come persona offesa dal reato un magistrato del distretto di Palermo, cioè il presidente della Corte d'assise d'appello e quindi il fascicolo per quella parte andò a Caltanissetta. La Pag. 18parte relativa al Vincenzo politico manniniano, anziché essere trattata dalla Procura di Palermo in relazione alla posizione di Vincenzo Inzerillo, fu assegnata alla Procura di Marsala perché fu ritenuto che il Vincenzo fosse l'onorevole Vincenzo Culicchia, sindaco di Partanna, e la competenza territoriale su Partanna spettava alla Procura di Marsala. Il dottor Germanà concluse le sue indagini delegategli per la individuazione del Vincenzo mandante del notaio Ferraro con una informativa del 19 maggio 1992 – che io vi lascerò – alla cortese attenzione della dottoressa Camassa. Questa informativa è di epocale importanza perché le indagini del dottor Germanà individuarono il Vincenzo manniniano nella persona di Inzerillo Vincenzo, nato a Palermo il 24 luglio del 1947, ma aggiunse dell'altro. Aggiunse anche alcuni accertamenti sia sul notaio Ferraro sia sui contatti del notaio Ferraro, attraverso suo padre, con la massoneria di piazza del Gesù palermitana. Emerse un ristorante di Palermo che veniva utilizzato sostanzialmente come camera di contatto fra il mandamento di Mazara del Vallo, il capo mandamento Mariano Agate ed esponenti della massoneria. In quella informativa emerge un nome veramente clamoroso, il nome di Luigi Savona. Luigi Savona, come risulta dai processi denominati Grande Oriente, era stato indicato dal confidente, che non ebbe il tempo di diventare collaboratore di giustizia, Luigi Ilardo, come il soggetto originario della Sicilia, ma trapiantato a Torino, che aveva curato l'ingresso della massoneria in Cosa nostra. Nelle confidenze di Luigi Ilardo era il soggetto che aveva avviato l'indirizzo di Cosa nostra verso una strategia stragista in contatto con esponenti di apparati istituzionali ed esponenti del mondo massonico.
  In anni successivi, gli accertamenti giudiziari diedero conferma alle parole di Luigi Ilardo. Abbiamo chiamato il dottor Germanà a testimoniare al processo Borsellino-quater. Egli ha testimoniato che il giorno in cui depositò alla procura di Marsala questa informativa, non ebbe neanche il tempo di tornare al proprio ufficio che ricevette una telefonata dal vicecapo della polizia, il dottor Luigi Rossi, che lo convocò immantinente al Viminale e nella stessa giornata si dovette adoperare per recarvisi. Al Viminale fu sottoposto a domande dal vicecapo della polizia. L'esito di quelle domande fu che il dottor Germanà non si era occupato della posizione del ministro Mannino – era ciò che interessava al vicecapo della polizia. Però, tornato in ufficio il giorno dopo, fu costretto a telefonare di nuovo al dottor Rossi per riferirgli che l'unico accenno al ministro Mannino non riguardava un'indagine che interessava il ministro ma riguardava proprio la informativa sul Vincenzo che aveva mandato il notaio Ferraro presso il presidente Scaduti. Di lì a poche settimane, la polizia, anziché assecondare il desiderio manifestato dal dottor Borsellino di aggregare il dottor Germanà alla Criminalpol di Palermo perché collaborasse con il procuratore aggiunto di Palermo Borsellino, fu sostanzialmente retrocesso, essendo mandato a dirigere il commissariato di Mazara del Vallo che egli aveva diretto già addirittura nel 1984, come se la sua carriera in quel momento dovesse regredire di otto anni di onorato servizio prestato in polizia con risultati assolutamente ammirevoli.
  Perché segnalo questa circostanza? Perché in realtà quelle indagini, come ho detto, avrebbero potuto portare alla individuazione di un grumo operativo di Cosa nostra che in quel momento stava lavorando per la strage di via D'Amelio. Forse non è un caso che il 14 settembre del 1992, proprio sul lungomare di Mazara del Vallo il dottor Germanà fu bersaglio di una squadra di killer mai vista nella storia di Cosa nostra. A condurre l'autovettura era Matteo Messina Denaro e a sparare, anche con un kalashnikov, all'indirizzo del dottor Germanà, erano addirittura Giuseppe Graviano e Leoluca Bagarella, cioè i due soggetti di vertice assoluto – solo Totò Riina in quel momento era superiore a loro – al centro dell'ala stragista di Cosa nostra, per commettere un omicidio in un territorio del quale non era mafiosi operativo nessuno dei tre componenti della squadra di killer. Il conducente dell'auto infatti era facente funzioni di capo mandamento di Pag. 19Castelvetrano, per conto del padre, Francesco Messina Denaro, che era ben vivo – morì da latitante solo nel 1998 – Giuseppe Graviano era il capo mandamento di Brancaccio e Leoluca Bagarella, che era il cognato di Totò Riina, era uno degli esponenti di vertice del mandamento di Corleone. Eppure, per uccidere il dottor Germanà, vengono mandati tre capi mandamento esterni. Forse questa fu la fortuna del dottor Germanà che riuscì, con grande abilità e con grande prontezza, a sfuggire all'attentato, lasciando l'auto, correndo verso la spiaggia e buttandosi in acqua, con i colpi delle armi da fuoco che rischiarono di colpire dei bagnanti. È un tentato omicidio che evidentemente aveva ragioni particolarmente importanti se nel commetterlo, per assumersi una medaglia, sono tre personaggi della élite di Cosa nostra fuori dal loro territorio. Il mandamento di Mazara del Vallo naturalmente aveva squadroni di killer utili da attivare e però ciò non avvenne. Di quella indagine del dottor Germanà era titolare la Procura di Marsala, proprio la procura della dottoressa Camassa e del dottore Russo, ed era un'indagine che era stata svolta da un funzionario di polizia che stava a cuore al dottor Borsellino. Sappiamo che quei due giovani magistrati avevano in Borsellino il loro nume tutelare. Per chi ha pratica della vita dei palazzi di giustizia, non è difficile comprendere come i due giovani magistrati, che in quel momento si trovavano senza un procuratore capo, vedessero nel dottor Borsellino l'esponente di maggiore fiducia al quale fare riferimento per vicende così delicate. Tanto più che quei due giovani magistrati erano in una condizione particolarmente scomoda perché, da un lato, in relazione a un procedimento penale, si trovavano – e ne avevano parlato con il dottor Borsellino – a dover chiamare come persona informata sui fatti un magistrato, e cioè il dottor Domenico Signorino, e quel magistrato addirittura, con decisione veramente ineffabile dell'allora Procuratore generale, era stato designato come facente funzioni di procuratore capo a Marsala. Quindi quei due giovani magistrati si sarebbero trovati a dover interrogare come testimone colui che avrebbe fatto da capo a loro. Dall'altro lato, si trovavano a gestire questa attività sulla individuazione del Vincenzo politico manniniano, che aveva portato a quella informativa che aveva avuto quelle conseguenze così incredibili sul dottor Germanà, perché naturalmente il trasferimento del dottor Germanà alla guida del commissariato di Mazara del Vallo fu noto ai magistrati. Fu evidentemente nota la connessione temporale fra il deposito di quella informativa, la convocazione quasi manu militari al Viminale e il successivo trasferimento disposto senza alcuna ragione.
  Questo il motivo per cui io credo che nel momento in cui il dottor Borsellino fece riferimento all'amico che lo aveva tradito, il riferimento era non certo a un carabiniere o un ufficiale dei carabinieri, ma certamente a un suo collega. Ci si è dovuti fermare nel Borsellino-quater davanti alla mancata conoscenza da parte della dottoressa Camastra e del dottor Russo circa il nome a cui si riferiva il dottor Borsellino. Devo confessare che sembra abbastanza implausibile che un uomo come il dottor Borsellino si fosse aperto a una confidenza così forte tanto da portarlo addirittura alle lacrime, però mantenendo il riserbo su quel nome, ma queste sono le cose che sono risultate nel processo e a quelle bisogna attenersi. Penso che la vicenda dell'attività investigativa svolta dal dottor Germanà e del successivo attentato ai suoi danni sia uno di quei capitoli della storia di Cosa nostra intrinsecamente collegato all'attività del dottor Borsellino e anche alla strage di via D'Amelio.
  Naturalmente il fuoco dell'attenzione della sentenza del processo Borsellino-quater è stato il depistaggio Scarantino.

  PRESIDENTE. Chiedo scusa avvocato, solo per organizzare i lavori. Le chiedo se mi sa indicare di quanto tempo avrà ancora bisogno per capire se dobbiamo aggiornarci o se invece possiamo proseguire. Ciò ai fini dell'organizzazione dei lavori, anche a beneficio dei colleghi che hanno altri impegni.

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  FABIO REPICI, legale di Salvatore Borsellino. Ne avrò ancora per circa un'ora.

  PRESIDENTE. Bene, tenuto conto che lei stava affrontando il capitolo su Scarantino e delle domande che immagino i colleghi intenderanno porre, le chiedo se è disponibile a tornare nei prossimi giorni per concludere l'audizione.

  FABIO REPICI, legale di Salvatore Borsellino. In effetti lei ha compreso perfettamente che il capitolo Scarantino è forse l'argomento più complesso da trattare. Sono naturalmente a disposizione della Commissione.

  PRESIDENTE. In una successiva seduta, come è stato fatto finora, ci sarà tutto il tempo per lei per concludere la sua relazione e per i colleghi per porre domande e richieste di chiarimento. Nel prossimo Ufficio di presidenza stabiliremo la data per il prosieguo dell'audizione.
  Ringrazio ancora gli auditi. Il seguito dell'audizione è rinviato a una successiva seduta.

  La seduta termina alle 16.20.