XIX Legislatura

III Commissione

COMITATO PERMANENTE SULLA POLITICA ESTERA PER L'INDO-PACIFICO

Resoconto stenografico



Seduta pomeridiana n. 8 di Mercoledì 6 dicembre 2023

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Formentini Paolo , Presidente ... 2 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA PROIEZIONE DELL'ITALIA E DEI PAESI EUROPEI NELL'INDO-PACIFICO
Formentini Paolo , Presidente ... 2 
Pieranni Simone , giornalista ... 2 
Formentini Paolo , Presidente ... 9 
Quartapelle Procopio Lia (PD-IDP)  ... 9 
Formentini Paolo , Presidente ... 9 
Onori Federica (M5S)  ... 9 
Formentini Paolo , Presidente ... 10 
Boldrini Laura (PD-IDP)  ... 10 
Formentini Paolo , Presidente ... 10 
Pieranni Simone , giornalista ... 10 
Boldrini Laura (PD-IDP)  ... 14 
Pieranni Simone , giornalista ... 14 
Formentini Paolo , Presidente ... 16

Sigle dei gruppi parlamentari:
Fratelli d'Italia: FdI;
Partito Democratico - Italia Democratica e Progressista: PD-IDP;
Lega - Salvini Premier: Lega;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Berlusconi Presidente - PPE: FI-PPE;
Azione - Popolari europeisti riformatori - Renew Europe: AZ-PER-RE;
Alleanza Verdi e Sinistra: AVS;
Noi Moderati (Noi con L'Italia, Coraggio Italia, UDC e Italia al Centro) - MAIE: NM(N-C-U-I)-M;
Italia Viva - il Centro - Renew Europe: IV-C-RE;
Misto: Misto;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-+Europa: Misto-+E.

Testo del resoconto stenografico
Pag. 2

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
PAOLO FORMENTINI

  La seduta comincia alle 14.05.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche mediante la resocontazione stenografica e la trasmissione attraverso la web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di Simone Pieranni, giornalista.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle tematiche relative alla proiezione dell'Italia e dei Paesi europei nell'Indo-Pacifico, l'audizione di Simone Pieranni, giornalista.
  Ricordo che la partecipazione da remoto è consentita alle colleghe e ai colleghi secondo le modalità stabilite dalla Giunta per il Regolamento.
  Anche a nome dei componenti del Comitato, ringrazio per la disponibilità a prendere parte ai nostri lavori il dottor Pieranni, che, tra le altre cose, è il fondatore di China Files, agenzia editoriale, con sede a Pechino, che collabora con media italiani per la realizzazione di reportage e articoli sulla Cina.
  Considerati i tempi ristretti, do subito la parola al dottor Pieranni affinché possa svolgere il proprio intervento. Grazie.

  SIMONE PIERANNI, giornalista. Grazie. Buongiorno a tutti, intanto, e grazie per l'invito.
  È un po' strano parlare di questi temi proprio oggi, quando l'Italia ha ufficializzato l'uscita dalla Via della seta, insomma il mancato rinnovo del Memorandum of understanding firmato nel 2019; anche alla luce del fatto che domani a Pechino c'è il 24° Summit sino-europeo, che a questo punto diventerà ancora più interessante, date le notizie che arrivano dall'Italia.
  Dato che ho ascoltato alcune audizioni che avete fatto, oggi pensavo di affrontare un tema che ha a che vedere più che altro con la tecnologia e che va ad incrociare due Paesi principalmente: uno è la Cina e l'altro è l'India.
  Per quanto riguarda la Cina, vorrei parlarvi di un'altra forma che ha assunto nel corso del tempo la Via della seta, cioè la Via della seta digitale, di cui forse si parla un po' meno, ma che è probabilmente uno degli aspetti su cui Pechino punta di più, soprattutto nell'area di riferimento di cui parliamo. Ma se allarghiamo un po' il campo diventa la proposizione tecnologica, come modello di sviluppo tecnologico e di gestione delle informazioni da parte di Pechino non solo nei confronti dell'area nella quale la Cina si considera una potenza, cioè l'Asia, ma anche in relazione a quello che ormai chiamiamo un po' tutti come Sud globale, cioè Paesi in via di sviluppo che guardano alla Cina come un potenziale modello di modernizzazione. Parlo soprattutto di Africa e di centro Asia, che sono zone del mondo nelle quali anche l'Italia potrebbe avere degli interessi ad agire, anche sotto il profilo delle eccellenze italiane a livello tecnologico.
  Per quanto riguarda invece l'India, se avrò tempo, vorrei raccontarvi di un progetto interno indiano, che si chiama Aadhaar, che è il sistema di identificazione biometrico più grande del mondo.
  Questo perché quando parliamo di Asia – al di là di Corea e Giappone, che sono Pag. 3potenze che sentiamo in qualche modo più vicine a noi – Cina e India forse sfuggono un po' di più da quelli che sono i nostri parametri di interpretazione di quello che accade lì. Per la Cina abbiamo ormai una posizione appurata, soprattutto da quando è stato eletto Joe Biden alla presidenza degli Stati Uniti e da quando anche l'Unione europea ha cambiato la sua postura rispetto alla Cina, tra l'altro portando all'ordine del giorno un'espressione che è utilizzata ormai anche dall'Amministrazione statunitense, cioè il de-risking. In altri termini, si è eliminato dallo scenario futuro delle relazioni tra Cina e Occidente – usiamo questa terminologia un po' semplicistica – il cosiddetto decoupling, cioè una separazione effettiva tra le due economie. Un'ipotesi che, in realtà, secondo quasi tutti gli analisti, anche secondo i politici, era comunque improbabile e impossibile, avrebbe portato a tutta una serie di conseguenze negative, anche per gli stessi Paesi, cioè Cina e Stati Uniti, se avessero dovuto compiere questa separazione; posto che fosse possibile, perché Cina e Stati Uniti sono molto più intrecciati a livello economico di quanto si possa pensare anche oggi, con in corso una guerra commerciale molto importante, all'interno della quale il motivo principale rimane proprio l'aspetto tecnologico; anche per questo, secondo me, è ancora più interessante vedere come si sviluppa la Via della seta digitale.
  In ogni caso abbiamo un'idea molto chiara di una Cina che oggi è concepita come competitor, ma anche come minaccia, di fatto, sistemica. Cioè il de-risking significa riuscire a trattare a livello commerciale con la Cina senza che il rapporto bilaterale metta a repentaglio la sicurezza dello Stato, in questo caso europeo. È una posizione che ha assunto l'Europa, che ha assunto quindi di conseguenza anche l'Italia e che hanno finito per assumere anche gli Stati Uniti.
  Sull'India ovviamente i ragionamenti sono molto diversi in questo momento, l'India è concepita proprio come l'alleato occidentale di fatto in quell'area, proprio in funzione anti-cinese.
  Anche se l'India, in realtà, ha un comportamento a livello internazionale piuttosto ambiguo, nel senso che è sia all'interno del QUAD – quella che doveva essere inizialmente una specie di prodromo di NATO asiatica –, ma è anche uno Stato fondatore dei BRICS, quindi è intimamente connessa in realtà con l'operare cinese, anche se in qualche modo lo scopo e l'obiettivo che si pone Modi – il Primo Ministro indiano – all'interno dei BRICS è proprio quello di moderare un po' la spinta che la Cina vuole dare a quell'organizzazione, che la Cina concepisce come una specie di anti-G7; tra l'altro, ricordo che di recente sono entrati all'interno dei BRICS anche Arabia Saudita e Iran, quindi abbiamo anche un portato «energetico», se vogliamo, ancora più importante all'interno di quell'organizzazione, senza contare la rilevanza che ha in questo momento a causa della crisi tra Israele e Gaza, a cui stiamo assistendo ormai da due mesi. Però, in generale, l'India viene definita come la più grande democrazia del mondo.
  Secondo me proprio Aadhaar – questo sistema di identificazione biometrica che è il più grande al mondo, più di 1 miliardo e 200 milioni di persone sono registrate in questo sistema – è uno dei tanti aspetti che mettono un po' in discussione il concetto di democrazia applicato all'India, specie da quando c'è Narendra Modi al potere.
  Nel 2024 ci saranno le elezioni, potrebbe ottenere un terzo mandato, tra l'altro Modi è al potere da dieci anni, quanto lo è Xi Jinping, anche se ovviamente Modi ci è arrivato con delle elezioni e Xi Jinping – come sappiamo – no. Però Modi è l'espressione di un nazionalismo indù molto forte – il suo partito, in generale, ha una forte impronta nazionalista –, addirittura non gli era stato consentito di andare negli Stati Uniti a causa delle responsabilità che lui ha avuto in pogrom antimusulmani in India, salvo poi poterci tornare una volta eletto Primo Ministro.
  Questo sistema di identificazione biometrica è comunque molto rischioso dal punto di vista del controllo sulla popolazione, un controllo sociale, che non è solo cinese, in questo caso, ma si riversa anche Pag. 4in quella che è la politica interna indiana. Tenendo presente che se non ci si registra a questo sistema non si può avere la pensione, non si può avere un lavoro, non si può ricevere lo stipendio. È un sistema sul quale, di recente, si è espressa anche la Corte suprema indiana, proprio per limitarne in qualche modo l'uso.
  Senza dimenticare, sempre a livello tecnologico, che in India sono molto frequenti dei blackout, non per un'inefficienza della rete elettrica, che pure c'è, ma sono proprio presenti dei blackout all'interno di alcune regioni dove ci sono magari scontri, dove ci sono tutta una serie di proteste, che oscurano di fatto la vita democratica dell'India.
  Questo giusto per capire come la zona di mondo di cui parliamo non è così bianca e nera come spesso noi magari pensiamo di interpretarla.
  Per quanto riguarda la Via della seta digitale, è un progetto che parte sostanzialmente insieme alla Nuova Via della seta che – attenzione –, nonostante la Cina tra l'altro la stia un po' nascondendo in questo momento – il progetto di Belt and Road Initiative –, in realtà ha aumentato la rilevanza per lo Stato cinese. Semplicemente Pechino l'ha tolta dalla discussione pubblica, avendo capito che portava tutta una serie di conseguenze: la trappola del debito, politiche commerciali coercitive contro certi Paesi, minacce di ritorsioni economiche...Quindi Pechino ha deciso di mettere la Belt and Road Initiative un pochino fuori dai radar dell'opinione pubblica internazionale. Ma è aumentata la rilevanza che la Nuova Via della seta ha per la Cina, prima di tutto perché è inserita all'interno dello statuto del Partito comunista cinese, che è il partito che governa la Cina dal 1949 ad oggi. Di fatto è un Paese a partito unico, anche se esistono in realtà tutta una serie di partiti piccoli, ma che vengono definiti «vasi da ornamento» proprio per definirne l'inutilità, alla fine, a livello politico. Quindi, essendo nello statuto del Partito comunista, è qualcosa che non sfuggirà all'orizzonte politico internazionale cinese.
  Nello stesso tempo, in realtà, ormai qualsiasi tipo di progetto la Cina porta avanti nel mondo finisce sotto l'ombrello della Nuova Via della seta, che se prima era limitata al percorso marittimo e terrestre che collegava l'Asia all'Europa – poi c'è anche la Via della seta polare e quindi quella che ha a che vedere con l'Artico, con lo scioglimento dei ghiacciai e con la possibilità di far arrivare più velocemente le merci cinese sui mercati europei –, ormai anche tutti i progetti che hanno a che vedere con l'America Latina, in cui la Cina ha superato gli Stati Uniti complessivamente come partner commerciale dell'intero continente e anche dell'Africa, che è un continente che spesso ignoriamo nelle nostre riflessioni ma che diventerà sempre più centrale, considerando la rilevanza che hanno oggi le materie prime e anche perché è un grandissimo mercato, a cui soprattutto Cina e Russia probabilmente fanno molta più attenzione di tanti Paesi europei, proprio perché la Cina colma in un certo senso l'assenza o il ritiro da alcune zone del mondo proprio delle potenze europee.
  Contemporaneamente, è stata lanciata questa Via della seta «digitale», la digital silk road, che in realtà ha come al solito un primario scopo di natura commerciale, come è anche la Belt and Road Initiative, che è uno strumento con il quale la Cina punta praticamente a piazzare su mercati nuovi il surplus manifatturiero. Ma la digital silk road segna anche un cambiamento particolarmente rilevante, cioè la Cina non è più oggi la fabbrica del mondo e basta, non è più quella che abbiamo conosciuto fino a dieci anni fa: oggi la Cina è una superpotenza tecnologica che fornisce i suoi servizi sia a livello hardware – quindi banalmente cavi sottomarini, di cui la protagonista è la Huawei, un'azienda di cui sicuramente avrete sentito parlare, e non è una novità che lo sia perché quello è il suo core-business ancora prima che produrre smartphone – e naturalmente poi c'è un aspetto che potremmo definire più software.
  La Cina si pone come un vero e proprio modello di gestione della rete, del digitale, dei big data, attraverso, tra l'altro, un percorso normativo che è aumentato moltissimo negli ultimi tempi con delle leggi ad hoc, che si pone quindi come facilitatore Pag. 5per tutti quei Paesi che non brillano per le loro caratteristiche democratiche e che hanno l'esigenza, però, di tenere sotto controllo in qualche modo il sistema informativo digitale, oltre che naturalmente implementarlo attraverso tecnologia come le telecamere a riconoscimento facciale e tutto quello che oggi la Cina può fornire come superpotenza tecnologica.
  Cioè, lo scontro tra Cina e Stati Uniti nasce nel momento in cui la Cina si pone all'interno della filiera del valore della catena tecnologica mondiale nella posizione che era sempre stata occupata dagli Stati Uniti. A un certo punto Pechino dice: «noi adesso non facciamo più solo l'assemblaggio dell'iPhone, che è design negli Stati Uniti, le componentistiche arrivano da Taiwan, dal Giappone, dall'Europa, da qualunque parte del mondo e noi lo assembliamo; no, noi ci piazziamo nel punto più alto della catena del valore, cioè quello del design, quindi cominciamo a farci noi i semiconduttori, cominciamo a farci noi le telecamere a riconoscimento facciale, cominciamo a farci noi gli smartphone».
  Nel momento in cui la Cina arriva prima al 5G e viene data in vantaggio su tutto quello che noi, un po' semplicisticamente, chiamiamo intelligenza artificiale, ecco che allora gli Stati Uniti reagiscono. Ricorderete, le prime sanzioni nei confronti della Cina sono arrivate durante la presidenza statunitense di Trump, che colpì principalmente prima ZTE e poi Huawei.
  La Cina abbandonò di fatto ZTE, perché era un'azienda statale ed era difficile difenderla dall'accusa di essere praticamente una sorta di longa manus di Pechino all'interno dei Paesi nei quali venivano installate le reti. Cioè, l'accusa era molto chiara: noi installiamo un router o un'infrastruttura di rete cinese e questo significa che il Governo cinese, cioè il Partito comunista cinese, può accedere a tutta una serie di questioni che riguardano la nostra sicurezza nazionale, sia essa statunitense, sia europea, sia italiana; ci sono stati anche dei casi da noi, soprattutto durante il Governo Draghi, di aumento del golden power su tutta una serie di potenziali investimenti cinesi.
  Lì cambia completamente un po' il segno: cioè, se fate uno sforzo di ricordo, prima del COVID la Cina non era vista come un partner pericolosissimo, anzi era un Paese con il quale si facevano ovviamente molti affari, ma che era percepito anche, tutto sommato, come la Cina vorrebbe essere percepita, cioè una potenza responsabile, che aveva dimostrato, anche durante l'epidemia di COVID, in un primo tempo di riuscire a tenere sotto controllo, nonostante poi le accuse che gli sono state rivolte. Poi, all'improvviso, quando arriva Biden alla presidenza cambia sostanzialmente la nostra concezione della Cina, perché Biden procede con quella divisione tra democrazie e Stati autoritari che pone la Cina proprio su un campo avverso al nostro.
  Biden prosegue la politica di controllo, di distanziamento e di tentativo di limitare il peso cinese nel comparto tecnologico mondiale, perché praticamente adatta il modello trumpiano contro Huawei a tutto il comparto tecnologico cinese.
  In particolare, sulla questione legata ai semiconduttori Biden ha spinto per la nascita, di fatto, di due filiere tecnologiche, una filiera che lui definisce democratica a scapito di una filiera dei Paesi non democratici.
  Questo ha portato la Cina, paradossalmente, a spingere ancora di più sulla digital silk road, oltre lo scopo commerciale, cioè vendere prodotti di alta tecnologia a partner stranieri, principalmente asiatici: tra l'altro, come la Belt and Road Initiative ha il principale progetto nel corridoio sino-pachistano, anche la digital silk road rimane un progetto che ha il suo focus principale nella regione Indo-Pacifico o Asia-Pacifico, a seconda da che punto di vista la guardiamo.
  C'è poi, però, un altro obiettivo che si va a mischiare proprio con l'obiettivo principale della Belt and Road Initiative, che non è solo quello del surplus manifatturiero o di un controllo geopolitico degli snodi commerciali, ma che ha a che vedere con un progetto che la Cina ha lanciato ormai da un anno e che è quello dello yuan digitale. Cioè una moneta digitale immessa dalla Pag. 6Banca centrale, quindi non siamo di fronte a una cripto valuta, non siamo di fronte a una blockchain che nasce proprio in contrapposizione al controllo centralizzato da parte delle banche nei confronti di altri veicoli finanziari, ma è proprio una moneta emessa dalla banca centrale, quindi uno yuan digitale vale quanto uno yuan di carta.
  È un progetto sul quale, tra l'altro, sta ragionando anche l'Unione europea da moltissimo tempo, ovviamente con ritmi più lenti di quelli che sono consentiti in Cina, dove non ci sono tutta una serie di problematiche di confronti parlamentari o di confronti con altri Stati. Il Partito comunista, dall'alto verso il basso, decide e diventa una politica effettiva.
  Tenete presente che ormai è da più di un anno che in molti settori della produzione cinese gli stipendi vengono pagati in yuan digitale, sono utilizzabili già per fare acquisti, sono stati sperimentati durante le Olimpiadi invernali e adesso diventerà un progetto nazionale.
  Ovviamente gli scopi sono due: uno interno, la Cina è un Paese di grandi risparmiatori, ma molti dei cinesi non sono all'interno del circuito bancario, cioè non hanno un conto in banca, si tengono i soldi sotto il materasso diciamo, tra l'altro in questo momento non li spendono.
  Faccio un breve excursus: in questo momento la situazione economica cinese non è delle migliori, tant'è che lo «spirito di San Francisco», come l'hanno chiamato in Cina dopo l'incontro tra Biden e Xi Jinping, è stato letto da molti analisti cinesi come un'esigenza da parte di Xi Jinping di garantirsi almeno l'anno elettorale di Biden come un anno senza troppi problemi con gli Stati Uniti, in un clima più disteso, per potersi occupare di quanto sta accadendo all'interno.
  Per il secondo anno consecutivo in Cina c'è una disoccupazione giovanile di più del 20 per cento: mentre l'anno prima si diceva «c'è il lockdown, riapriremo tutto e la disoccupazione giovanile finirà», quest'anno non c'è più quella prospettiva, perché il Paese ha già riaperto tutto, quindi c'è molta sfiducia.
  Parliamo oltretutto di giovani: attenzione, perché ho letto che su un po' di giornali è stata presentata la disoccupazione giovanile come «anche i giovani laureati cinesi non vogliono più fare certi lavori»; in realtà, quella percentuale di giovani – che, ricordiamo, sono figli unici perché la legge sul figlio unico è stata abolita solo nel 2015 – è composta da figli unici, super coccolati, che vengono chiamati piccoli imperatori, hanno tutta la pressione familiare e contemporaneamente anche tutte le attenzioni della famiglia, che punta tutto sul figlio o sulla figlia perché si laurei, vada in un'università prestigiosa e abbia un buon lavoro, perché secondo il confucianesimo poi è il figlio che dovrà farsi carico dei genitori. Ecco, queste persone che sono nate nella Cina del benessere diffuso si laureano e alcuni di loro poi non accettano di andare a lavorare, magari, in linea in una fabbrica a mettere i vetri sopra l'iPhone, ma è una percentuale minima. Di quel 20 per cento la maggior parte sono persone che cercano lavori anche molto più umili, ma sono proprio i lavori più umili, anche nei servizi, che non ci sono, perché il COVID ha dato una mazzata vera all'economia cinese, hanno chiuso moltissime aziende, e questo adesso comporta questo rallentamento economico, da un lato, complice anche l'inflazione che abbiamo vissuto qui in Occidente, che ha fatto sì che siano diminuiti gli ordini nei confronti della Cina, delle esportazioni cinesi, e poi c'è questo problema: questo clima di sfiducia pone un carico molto forte su una crisi endemica cinese che è quella del settore immobiliare, che è una delle leve della crescita cinese, ma è totalmente a debito, non solo grazie alle banche istituzionali, ma grazie a quelle che vengono definite «banche ombra», che sono banche a tutti gli effetti, anche se non sono riconosciute istituzionalmente come tali, e che hanno molta più facilità però a dare prestiti.
  Succede che i cinesi nell'ultimo anno non comprano più le case e ce ne sono invece tante costruite, che sono state già in qualche modo «vendute» da un punto di vista dei prestiti richiesti dai costruttori, ma che non sono realmente vendute: questoPag. 7 è il segnale a mio avviso più grave per la Cina di questi giorni.
  Io ancora nel 2019 – l'ultima volta che sono stato in Cina – chiedendo ai cinesi avevo la percezione che avessero comunque la sensazione che domani sarebbe stato meglio di oggi, cioè c'era comunque una sensazione di crescita e di miglioramento della propria vita. Oggi questa sensazione non c'è più, c'è una sensazione di sfiducia, di pessimismo e questo rallenta ovviamente l'economia. Specie nel momento in cui Xi Jinping, fin dall'arrivo al potere – ricordiamo che lui è il Presidente della Repubblica e Segretario del Partito comunista – aveva puntato tutto sulla costruzione di una società dei consumi. Il problema è che se i cinesi non hanno fiducia non spendono e questo provoca deflazione.
  Tra l'altro, ricordiamo che la Cina ha anche un problema legato non solo alla sfiducia delle persone nella crescita, ma anche al welfare: la Cina è un Paese che è in crisi demografica nera, dovuta anche proprio alla legge del figlio unico che ha procurato ovviamente una diminuzione drastica delle nascite; tra l'altro ci sono molti più uomini rispetto alle donne, c'è un gap di genere molto forte. Perché ovviamente la legge del figlio unico, quando è stata attuata agli inizi degli anni Ottanta, la Cina era ancora un paese rurale e tra le varie aberrazioni della pianificazione familiare, oltre ad aborti forzati e sterilizzazioni forzate, c'era anche la morte di feti o di bambine, perché si privilegiava un figlio maschio per lavorare nei campi.
  Tra l'altro, a questo proposito, tanto per dire anche come la Cina ragiona sulla tecnologia e sull'utilizzo della tecnologia come pianificazione sociale di fatto, la legge del figlio unico è stata pianificata da ingegneri che fino a qualche anno prima si occupavano del sistema missilistico: cioè, hanno utilizzato un modello matematico e nel 1979, poco prima che la legge del figlio unico diventi legge, un convegno di demografi a Chengdu ha lanciato praticamente un allarme al Partito comunista, dicendo: «guardate che questo è un errore, perché con le riforme, con le aperture, con i capitali stranieri e con la crescita la Cina diventerà una società del benessere e quindi sarà naturale una diminuzione della popolazione; se ci aggiungiamo l'obbligo di fare un figlio unico avremo una crisi demografica in venti o trent'anni»; che è puntualmente ciò che è avvenuto.
  Tornando alla digital silk road, la questione dello yuan digitale è legata all'obiettivo primario della Cina, che non è detto sia un obiettivo raggiungibile – anzi, secondo la maggior parte degli analisti non lo è –, ma punta a fare dello yuan digitale la moneta di scambio per gli scambi transfrontalieri, cioè a diminuire quindi il potere del dollaro, sostanzialmente, all'interno del mercato mondiale.
  Non è un caso che all'interno dei BRICS è già stato proposto il pagamento, ad esempio, di petrolio con yuan digitale e non è un caso che nelle transazioni all'interno dei Paesi che fanno parte della Nuova Via della seta – di cui l'Italia non fa più parte da oggi – venga suggerito o richiesto il pagamento, per quanto riguarda appunto i pagamenti transfrontalieri, in yuan digitale.
  Questa è una cosa che sarà dirimente nei prossimi dieci anni, sicuramente la sfida più grande che la Cina lancia a quella che per i cinesi è l'egemonia statunitense a livello globale.
  Ovviamente la digital silk Road va proprio ad incrociare questa divisione del mondo in cui in qualche modo – volenti o nolenti – siamo, perché nel momento in cui Xi Jinping dice che la modernizzazione cinese non significa occidentalizzazione sta parlando a una parte del mondo ben preciso che è il Sud globale – come ormai siamo abituati a chiamarlo – e quindi la Cina finisce per fornire anche un modello di governance, di fatto, di tutto quello che è reti, internet e informazioni, che è molto appetibile in realtà da parte di Paesi che sono molto scettici nei confronti dell'Occidente, quindi Paesi che hanno vissuto il colonialismo, Paesi che hanno vissuto le più recenti vicissitudini di invasioni o di esportazioni di democrazia attraverso delle guerre. Quindi ha gioco facile la Cina a proporsi come un modello che funziona rispetto a Paesi che ovviamente – come dicevo prima – non brillano granché per Pag. 8democrazia e hanno bisogno di utilizzare uno strumento di innovazione – come è l'era dell'informazione nella quale viviamo –, ma che può diventare anche un pericolo per chi gestisce il potere.
  Cioè la Cina negli anni Novanta è riuscita a fare una cosa che nessuno si aspettava: ricordiamo che negli anni Novanta Cina e Stati Uniti vanno a braccetto insieme fino al 2001, all'ingresso nel WTO (Organizzazione mondiale del commercio) della Cina; la Cina ci entra a dicembre del 2001. Dopo le Torri Gemelle Jiang Zemin, che allora era il Presidente della Repubblica popolare e il Segretario del Partito comunista, è uno dei primi a chiamare Bush per fare le condoglianze: questo per capire quanto Cina e Stati Uniti erano, in realtà, molto vicini in quel momento rispetto a quello che sta succedendo adesso.
  Anzi, la Via della seta digitale è figlia proprio della cooperazione tra Cina e Stati Uniti, che dal 1979 hanno un accordo di cooperazione tecnologica e scientifica che si rinnova ogni quattro anni, perché negli anni Novanta il principale alleato al mondo della Cina era Bill Clinton, che diceva: «apriamo le esportazioni nei confronti della Cina di tutta quella che è la tecnologia»; fino a poco prima non era possibile, i Paesi occidentali avevano un vincolo che impediva le esportazioni di tecnologia nei confronti dei Paesi vicini all'ex blocco sovietico. Ovviamente, dopo il 1991, con la dissoluzione dell'Unione Sovietica, cambia completamente lo scacchiere, per gli Stati Uniti la Cina è un mercato immenso nel quale portare capitali e utilizzare l'immensa forza-lavoro cinese, per poi rivendere i prodotti sui mercati occidentali a ben altri prezzi rispetto a quelli che vengono dati come salari ai cinesi. Ma diventa anche un mercato dove esportare la tecnologia statunitense, con un doppio obiettivo: quello naturalmente di fare affari e quella che è stata forse l'illusione più clamorosa dell'Occidente nei confronti della Cina, cioè credere che aiutare la Cina a diventare un Paese dove la maggior parte delle persone diventa classe media – come è oggi – avrebbe portato inevitabilmente a delle riforme democratiche, trasformando la Cina da Paese potenzialmente nemico – come è oggi – ad un Paese quantomeno più vicino e amico.
  Il problema è che, sia Deng Xiaoping prima che Jiang Zemin dopo, non hanno mai promesso questa cosa e quindi noi ci siamo ritrovati poi a dare vita a una potenza che non rispecchia poi quelli che sono i valori ai quali facciamo riferimento noi come occidentali.
  È proprio negli anni Novanta che la Cina sviluppa la propria innovazione: il Partito Comunista si ritrova di fronte ad internet che, sì, è un momento incredibilmente importante; tra l'altro, la Cina entra in internet, manda la prima mail nel 1987 grazie ad una collaborazione con la Germania – a proposito di collaborazioni europee –, così come di recente ha effettuato la prima call utilizzando un satellite quantistico con un'università austriaca; questo per dire che, in realtà, la cooperazione scientifica funziona sempre, perché per fortuna la scienza è universale, i cinesi questo devono forse metterselo un po' più in testa, almeno Xi Jinping. Adesso non mi permetto ovviamente di dare consigli a Xi Jinping, quello che deve fare lo saprà perfettamente lui con i suoi modi e i suoi metodi che sta dimostrando in questi dieci anni; però, se c'è una cosa che dimostra anche la postura cinese a livello tecnologico internazionale è che la Cina è sempre cresciuta quando ha cooperato con il resto del mondo, non quando si è ritrovata spalle al muro, dove ha ottenuto i suoi successi – e probabilmente li otterrà ugualmente anche nel campo dei semiconduttori –, ma le svolte vere sono avvenute sempre grazie alla cooperazione internazionale.
  Chiudo dicendo che proprio in quel momento, negli anni Novanta, la Cina crea il suo modello di cosiddetta sovranità digitale. Tenete presente che di sovranità digitale in Cina se ne parla negli anni Novanta, da noi è un'espressione che utilizziamo più di recente.
  Per il Partito comunista sovranità digitale significa che la rete è il territorio, cioè sulla rete valgono le stesse identiche leggi che valgono sul territorio fisico. Quindi è successo che prima sono state escluse delle Pag. 9aziende straniere, come Facebook, perché non rispettavano i dettami di censura del Governo cinese, e questo ha permesso alle piattaforme cinesi di crescere e di diventare leader a livello internazionale, pensiamo solo ad Alibaba. Le stesse aziende, nel momento in cui Jiang Zemin, con la sua teoria delle tre rappresentatività, elimina dallo scenario politico cinese la lotta di classe, che era iniziata con il maoismo nel 1949, fa entrare all'interno del Partito comunista gli imprenditori che saranno quelli che poi garantiranno al Partito comunista di fatto un controllo totale sulla rete e quindi anche, naturalmente, sulla popolazione.
  Questo è il modello, insieme allo yuan digitale e alla vendita di prodotti di alta tecnologia, che la Cina sta spingendo in questo momento, in tutto il mondo, ma soprattutto nell'area di cui stiamo parlando durante queste audizioni.
  Io avrei concluso. Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie mille. Ci sono domande? Do la parola all'onorevole Quartapelle.

  LIA QUARTAPELLE PROCOPIO. Ho trovato l'audizione di grande interesse e credo anche che il suggerimento sul sistema di identificazione biometrico indiano è una cosa che vale la pena di esplorare, magari anche nella replica.
  Io ho una domanda su un tema che per noi è importantissimo, cioè via della seta digitale e sicurezza nazionale.
  Anche in Parlamento più volte siamo intervenuti, il senatore Sensi e anche noi qui alla Camera abbiamo fatto varie interrogazioni su software e hardware cinesi e acquisti dello Stato, è stato un emendamento che abbiamo fatto al PNRR, cioè utilizzare risorse del PNRR per acquisire tecnologia europea – laddove ci fosse – o di alleati dei Paesi NATO.
  Questo è l'elemento forse più delicato e magari gradirei qualche parola in più su questo, nel senso che poi un conto sono dei progetti commerciali – a cui uno può aderire o non aderire, come abbiamo deciso –, un altro conto sono dei progetti commerciali con una funzionalità di sicurezza nazionale nascosta all'interno.

  PRESIDENTE. Grazie. La parola all'onorevole Onori.

  FEDERICA ONORI. Grazie mille per l'intervento, molto interessante.
  A me faceva piacere fare una domanda sul de-risking, ero curiosa di sapere se secondo Lei nell'ambito della strategia del de-risking si può intravedere un pattern un po' diverso da quello che magari osserviamo invece in altri ambiti, ovvero una situazione in cui forse è stata l'Unione europea a suggerire e magari cominciare a prospettare per prima questa possibilità strategica e che gli USA abbiano seguito o comunque ben visto questo suggerimento, oppure no.
  Riguardo sempre al de-risking, forse è interessante anche sottolineare come non solo la poca praticabilità di una strategia invece di decoupling, ma forse anche la poca opportunità di percorrere una strategia di completa separazione, se uno vuole anche vedere gli eventi passati e quello che è successo anche con alcune aziende canadesi in Cina, rendere i due sistemi completamente indipendenti vuol dire che poi l'altro sistema si rende completamente indipendente da noi; invece in questo modo mantenere dei legami vuol dire assicurarsi anche di poter avere un ruolo su alcune catene del valore.
  Una domanda sulla proiezione culturale e sulla capacità attrattiva che può avere il modello cinese: se condivide con me questa riflessione o comunque se possiamo approfondire questo aspetto, ovvero, sembrerebbe che l'attrattività avvenga per lo più a livello governativo, dei vari Governi, e non tanto delle popolazioni o dei popoli; penso, ad esempio, alle scuole che vengono fatte in Africa – l'ultima in Tanzania nel giugno 2023 – in cui da diversi Paesi africani la futura classe dirigente si è riunita per prendere lezioni di governance, di questo proficuo connubio – per alcuni – tra Stato e Partito che la Cina applica e che in qualche modo alcuni Stati africani vorrebbero replicare, se però questa attrattività si limita Pag. 10in qualche modo a quel livello – che comunque è un livello importante – o se invece Lei vede che il modello cinese sta avendo anche un potere attrattivo a livello dei popoli, della società e magari dei più giovani.

  PRESIDENTE. Prego, onorevole Boldrini.

  LAURA BOLDRINI. Grazie presidente. Saluto Simone Pieranni e lo ringrazio per quanto ci ha voluto esporre. Anche se sono arrivata in ritardo, ho potuto cogliere anche la profonda conoscenza che ha di questa zona geografica, dunque sarei a fare delle domande che magari non sono proprio specifiche, ma che penso possano trovare delle risposte, essendo un conoscitore attento.
  Mi chiedevo se persistono ancora differenze tra lo sviluppo rurale e lo sviluppo urbano: sarei interessata a capire se lo sviluppo rurale ha seguito quello urbano, perché oramai le megalopoli cinesi sono hi-tech, con standard assolutamente ben oltre molte nostre città, hanno grattacieli di straordinaria bellezza, anche un'architettura sofisticata, mezzi di trasporto che ce li sogniamo.
  Allora io vorrei capire – non conoscendo la Cina, io conosco solo il Tibet, quindi una parte che ha poco di Cina – se c'è questa grande differenza ancora oggi, come c'era qualche decennio fa, tra le grandi megalopoli e le campagne.
  Poi la situazione delle minoranze: gli uiguri, questa è un po' una deformazione per me, ma io ci tengo a capire come questo sistema non democratico di accentramento del potere in un solo partito si trasformi poi nel rispetto o non rispetto di tutti i soggetti che vivono in questo immenso territorio.
  Noi abbiamo audito in questa Commissione – e io nel Comitato diritti umani, che presiedo – esponenti uiguri, che hanno parlato di campi di detenzione, di discriminazioni profonde, di torture.
  Si è detto che c'è disoccupazione tra i giovani, ma che non è facile trovare poi persone per tutti i lavori. Io mi chiedo, c'è immigrazione in Cina? Cioè, mentre nei Paesi del Golfo noi vediamo che tutti quei grattacieli sono stati fatti sulla pelle di migliaia e migliaia di lavoratori senza diritti, che vivono nelle shanty towns accanto, gli sequestrano il passaporto; questo vale per gli Emirati Arabi, i Paesi del Golfo diciamo.
  Io mi chiedo se in Cina c'è questo fenomeno di immigrazione di manodopera da altri Paesi o se invece non sia più una situazione da campagne che arrivano nelle città, ma c'è ugualmente una forma di sfruttamento. Ecco, elaborare un po' su questo, perché vedo che dove i cinesi sono presenti – nel continente africano, come diceva la collega Onori e come sappiamo bene, ma anche in America Latina – qualsiasi progetto loro implementino è implementato da cittadini cinesi: essi arrivano non dando lavoro, laddove vanno ad investire, ma portando manodopera con sé, quindi non c'è nessuna mescolanza in questo senso.
  Quindi mi chiedo, di fronte al fabbisogno di manodopera interna, come sopperiscono?

  PRESIDENTE. Grazie. Non vedo altre domande, ne aggiungo una anche io.
  Vista appunto la notizia odierna dell'uscita dalla Via della seta, in questa audizione che si è incentrata su Cina e India chiederei che futuro ha, a suo avviso, in alternativa alla Via della seta, la via del cotone dall'India fino alla penisola arabica e poi a risalire verso la Giordania e Israele, ovviamente in un mutato contesto geopolitico nell'area mediorientale.
  E se questa nuova via – come io credo, ma appunto chiedo un parere – possa essere pertinente con il nostro interesse nazionale.

  SIMONE PIERANNI, giornalista. Perdonatemi se cercherò di essere un po' breve.
  La questione della sicurezza nazionale: ormai la questione della sicurezza nazionale sta diventando una questione utilizzata praticamente da tutti gli Stati per ampliare moltissimo i limiti che si cercano di porre anche appunto nel momento in cui sei in relazione con altri Stati; anche in Pag. 11Cina ormai è tutto sicurezza nazionale. La Cina, come dicevo prima, in un settore che era completamente privo di norme come quello, ad esempio, dei big data, noi sappiamo che oggi viviamo in un'epoca in cui si dice che il nuovo petrolio sono i big data e come dice Lee Kai-Fu – che è questo venture capitalist taiwanese, tra l'altro, che investe moltissimo in Cina – la Cina è l'Arabia Saudita, oggi, sostanzialmente, perché non solo ha tanta popolazione, ma ha anche avuto una libertà totale nella raccolta e nell'utilizzo dei dati, sia da parte di aziende private sia da parte ovviamente del Governo. Di recente, ad esempio, la Cina ha fatto una legge sulla privacy che è molto simile a quella dell'Unione europea, perché proibisce la raccolta e l'utilizzo di dati previa autorizzazione, previa policy assicurata agli utenti; ovviamente è con caratteristiche cinesi, cioè quello che poi può fare il Partito comunista non è molto ben definito, però è considerato da tutti un grande passo avanti.
  Ugualmente c'è una legge sulla sicurezza dei dati che si basa proprio sulla questione di sicurezza nazionale: è una legge che impone a chi raccoglie dati in Cina di lasciarli in Cina. Cioè, se un'azienda italiana raccoglie dati in Cina, per qualsiasi sua operazione, non può praticamente lavorarli poi in un server italiano, a meno che non chieda tutta una serie di permessi che è un po' come chiedere un'estradizione, per capire la complessità del processo.
  Poi di recente è stata fatta anche una legge sugli algoritmi, una legge che vieta gli algoritmi di raccomandazione ad esempio, quindi i dati dei cinesi non possono essere utilizzati: avrete presente quando parlate e poi all'improvviso trovate su internet il banner o la pubblicità di quello di cui stavate parlando, o quello di cui stavate scrivendo su WhatsApp: in Cina questo è vietato, un po' come la proibizione dei videogiochi per i bambini piccoli.
  L'altro lato della medaglia è quello che il Partito comunista dice nella legge che «a fronte di questi messaggi commerciali bisogna invece diffondere messaggi educativi, di amore per la patria, di amore per il Partito comunista...»; insomma, è sempre con caratteristiche cinesi.
  Ovviamente, la sicurezza nazionale come concetto ormai così esteso oggi governa di fatto i rapporti tra gli Stati, anche quelli commerciali ed economici, soprattutto se parliamo di prodotti tecnologici. È normale che uno Stato si tuteli, fondamentalmente, nel momento in cui ha a che fare con un'azienda, nel caso ad esempio cinese, che ha dei collegamenti con il Governo.
  La questione è che bisognerebbe avere anche le prove, ad un certo punto, per dire che ad esempio Huawei spia, ma è molto difficile trovarle, perché sappiamo che ci muoviamo su un territorio nel quale è complicato. Però mi sembra – perché io sono un giornalista, non sono un analista economico o finanziario – che in questo momento – e arrivo poi infatti alla domanda del de-risking – sia il concetto di sicurezza nazionale che ogni Stato si dà a guidare i rapporti con Stati che non vengono considerati politicamente uguali o identici allo Stato di cui facciamo parte.
  Quindi è normale avere diffidenza, però nello stesso tempo – e qui arrivo al de-risking – è necessario anche poi tutelare la sicurezza nazionale a livello di crescita economica o di opportunità.
  Perché i cinesi che cosa rinfacciano alla fine all'Unione europea? Di non essere autonomi.
  Avete presente la famosa questione di: «provo a chiamare l'Unione europea, ma non trovo il numero di telefono»?
  Xi Jinping a Macron una volta ha praticamente detto: «Fammi capire se devo chiamare te o devo chiamare Biden quando parliamo di Paesi europei».
  Allora vedremo domani, perché domani inizia il Summit Unione europea-Cina, non ci si aspetta – come al solito – niente di che, però vedremo, si parlerà ovviamente anche del de-risking. I cinesi contestano il de-risking, perché dicono: «ma io quando devo comprare una macchina tedesca non sto mica a chiedermi se è un rischio per me comprare una macchina tedesca».
  Tra l'altro il de-risking, e anche il concetto di sicurezza nazionale, essendo diverso tra tutti i Paesi europei, poi porta Pag. 12acqua al mulino della Cina, che è quello di privilegiare rapporti bilaterali. Perché, okay, tutta l'Unione europea decide che il de-risking e la sicurezza nazionale sono le linee guida per avere a che fare con la Cina? Poi però la Germania fa... la Francia idem. O, più in grande, sull'Indo-Pacifico il Tilt to Asia della Gran Bretagna è qualcosa di cui dobbiamo tenere conto in quanto Paese europeo, cioè è l'area che cresce di più al mondo ed è chiaro che è l'area su cui tutti mettono gli occhi, ma è anche un'area nella quale ci sono delle potenze regionali.
  La Cina ancora prima di concepirsi come potenza – al di là di quello che Xi Jinping dice a Biden, cioè non vogliamo prendere il vostro posto – quando gli Stati Uniti vanno via dall'Afghanistan e arrivano i talebani per i cinesi è un problema grandissimo, perché loro proprio non vogliono gestire quella roba lì, non vogliono fare i «poliziotti del mondo» e si considerano soprattutto una potenza asiatica. La differenza tra Cina e Russia è che la Cina cerca spazi commerciali, la Russia cercava evidentemente spazi militari. Quindi dobbiamo anche un po' a tentare di vedere come i cinesi guardano a certe cose.
  Il de-risking secondo me è stata un'ottima intuizione da parte dell'Unione europea di uscire da un'impasse nella quale chi avrebbe perso sarebbe stata l'Unione europea. Perché in un'ipotesi di decoupling tra Stati Uniti e Cina chi ci rimetteva di più comunque era l'Unione europea e ci rimettevano moltissimo anche quei Paesi asiatici che si riferiscono alla Cina da un punto di vista commerciale e si riferiscono agli Stati Uniti da un punto di vista della sicurezza, ma non vogliono prendere posizione, non vogliono far propria la crociata americana o la crociata cinese. Ed ecco che quindi il de-risking fornisce una via d'uscita rispetto al decoupling, che era oggettivamente un armageddon e sul quale tra l'altro Biden non era neanche così convinto, ma il rischio a cui secondo me pensava Ursula von der Leyen è: «okay, e se nel 2024 vince Trump?». Noi non possiamo dimenticare che siamo Paesi democratici, in cui c'è una rotazione elettorale, per quanto poi in alcuni Paesi magari sia meno vivace rispetto ad altri.
  Gli Stati Uniti nel 2024 hanno delle elezioni che sono drammatiche se ci pensiamo, perché veramente tutto questo impianto che ha messo in piedi Biden – lasciamo perdere per un attimo le due guerre in corso, due per dire le due più famose, perché poi c'è il Nagorno, in Africa parliamo di Sudan, cioè siamo veramente in un caos internazionale –, gli Stati Uniti nel 2024 potrebbero trovarsi un Presidente che ha appena detto che potrebbe essere per un giorno almeno un dittatore, non so se avete letto un'intervista che è uscita proprio stamattina.
  Quindi, insomma, la politica europeo è una politica di grande tutela, di fatto, in previsione anche che possa succedere qualsiasi cosa a livello internazionale. Questa posizione comunque sopravvivrà in qualche modo da parte dell'Unione europea a qualsiasi sarà la presidenza statunitense, almeno questo è quello che mi auguro.
  Quindi, da un punto di vista strategico – per venire alla domanda – il decoupling era poco praticabile e l'Unione europea ha prospettato una strada che è stata presa di fatto anche da Biden, cioè Biden l'ha assunta come propria e diventa quindi una sorta di modus operandi da provare ad utilizzare con la Cina.
  Ma non è semplicissimo, perché la Cina ha un potere economico fortissimo.
  La Cina imperiale si considerava al centro del mondo, l'imperatore aveva il mandato del cielo e la Cina si muoveva su un'espressione che si chiama tianxia, cioè tutto quanto è sotto il cielo, non c'era nell'idea imperiale cinese un sopra e un sotto, c'era un centro che era la Cina e poi, a cerchi concentrici, si irradiava il potere della civiltà cinese e del commercio cinese, non prevedeva un'espansione a livello militare, anche se in parte della propria storia l'ha fatto, in particolare durante l'ultima dinastia.
  Quindi la Cina ha sempre esercitato questo modo, che quasi la nascita degli Stati-nazione gli ha creato dei problemi nel relazionarsi sia al di fuori sia all'interno. Prima veniva citato il Tibet: il Tibet è un Pag. 13problema che nella Cina imperiale si risolveva con un matrimonio, ovviamente la Cina Stato-nazione non può fare la stessa cosa, deve avere delle politiche alla fine coercitive, in qualche modo. Pensiamo a cosa è successo alla Lituania, nel momento in cui un Paese fa uno sgarro politico la Cina ha il potere economico per metterla in difficoltà.
  Quindi ovviamente il de-risking assunto dall'Unione europea bisogna cercare di fare in modo che sia accettabile come proposta alla Cina.
  Per dirlo alla romana, la cosa su cui «rosicano» di più i cinesi è quando in qualche modo non gli viene riconosciuto quello che loro hanno fatto per il loro Paese, il benessere che hanno portato alla loro popolazione, a considerarsi un junior partner.
  Nel momento in cui Xi Jinping diventa Segretario del Partito dice: «è tempo di una nuova relazione tra grandi potenze», intendendo gli Stati Uniti, cioè una relazione da partner uguali, contiamo uguali perché siamo ormai quasi uguali.
  Hanno chiesto più spazio negli organismi internazionali, come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, nel momento in cui hanno capito che quegli spazi non arrivavano, arriva la Nuova Via della seta, che non è solo infrastrutture, è un Fondo e una Banca a guida cinese, all'interno del quale ci sono tutti i Paesi del mondo, praticamente.
  Quindi de-risking è giusta come strategia, ma deve essere probabilmente ammorbidita, se si vuole naturalmente continuare a collaborare, e credo che non se ne possa bene o male fare a meno, almeno in tanti settori. Io mi auguro che questo Summit Cina-Unione europea di domani riesca un po' a sciogliere questo nodo, anziché trovarsi ad un muro contro muro.
  Perché se noi diciamo de-risking e i cinesi dicono «io leggo il tuo de-risking, in realtà, come una discriminazione nei miei confronti», tanto più una discriminazione neanche autentica perché imboccata dagli Stati Uniti – è questo il modo con il quale la Cina sta vedendo tutte queste dinamiche – allora lì diventa un problema.
  Il compromesso – siete dei politici e lo sapete meglio di me – è la cosa sulla quale ci si muove per arrivare a degli accordi e credo che anche tra Unione Europea e Cina si possa arrivare.
  Tenendo presente che per l'Unione Europea la Cina è comunque ancora un'opportunità, perché pensiamo al discorso dei semiconduttori o pensiamo proprio alla politica di Biden, che dice che gli Stati Uniti devono tornare ad essere un Paese manifatturiero.
  L'Europa a che punto è? Il Chips Act statunitense e quello cinese hanno dei numeri altissimi, quello europeo va bene, è un primo piccolo passo.
  La gestione dei dati, la gestione delle infrastrutture di rete...Servono, come viene detto spesso, dei campioni europei, okay, ma forse bisogna essere un po' più veloci.
  Anche nella moneta digitale, nel momento in cui i Paesi più importanti avranno una moneta digitale emessa dalla Banca centrale, l'Unione europea come si pone?
  Bisogna accelerare per forza di cose e, nei limiti dei concetti di sicurezza nazionale, riuscire quasi direi a sfruttare la Cina come partner commerciale per muoversi anche in alcuni settori, in alcune parti del mondo, anche in maniera più autonoma forse rispetto a quelli che sono gli interessi degli Stati Uniti, che non per forza sono gli interessi economici quantomeno dell'Unione europea; anzi, in alcuni casi siamo in competizione pura.
  Sulla proiezione culturale cerco di essere breve, perché è un discorso gigantesco. Noi non ci possiamo aspettare dalla Cina un soft power né tipo quello statunitense dopo la Seconda guerra mondiale dalle nostre parti, né come quello coreano per dire, attraverso Squid Game, Parasite, Bts, cantanti, la cosiddetta Korean Wave. La Cina non si muove in quel modo.
  La prima domanda a cui dobbiamo rispondere è: alla Cina interessa ancora fare soft power, ad esempio in Europa? Perché la Cina soft power lo fa, ma lo fa in altre zone del mondo. Lo fa in Asia centrale, ad esempio, dove ci sono scambi di studenti continui – a proposito di popolazioni e non di Governi – e lo fa anche con l'Africa, a Pag. 14suo modo, nel senso che non dobbiamo pensare che il Partito cinese sia monolitico e che la Cina si comporti in ogni circostanza nello stesso modo. Non è così.
  La Cina ha un'incredibile flessibilità nel modo con il quale si relaziona a territori, Stati, classe politica. Ad esempio, per il principio di non interferenza negli affari interni che la guida, la Cina non guarda in faccia il colore di nessuno a livello politico, fa affari con i sauditi, fa affari con Israele...Israele ora ovviamente l'ha messa in una posizione complicata perché ha una posizione storicamente filopalestinese, ma la Cina è il secondo partner commerciale di Israele. Mi collego un attimo alla questione dello Xinjiang, che è la regione nord-occidentale a maggioranza uigura, che è un'etnia turcofona musulmana. La Cina, per riuscire a reprimere quella comunità musulmana, ha chiesto aiuto ai consulenti antiterrorismo israeliani, ad esempio.
  Quindi quando noi diciamo: la Cina come si pone rispetto ad Hamas? Ha un bel problema con Hamas e la causa palestinese, perché in Cina i musulmani sunniti, come quelli di Hamas, che sono uiguri, la Cina li reprime, ma li reprime violentemente, parliamo di gravi violazioni dei diritti umani. Parliamo addirittura, secondo alcuni studiosi, di un meccanismo molto simile a quello a cui abbiamo assistito in Cisgiordania, quindi un'accumulazione primaria praticamente, un'occupazione di fatto e una repressione che avviene attraverso un controllo tecnologico fortissimo nella regione dello Xinjiang. Dove la Cina ha sperimentato le sue strumentazioni più evolute da un punto di vista tecnologico di controllo della popolazione è stato proprio nello Xinjiang. Ma guardate che adesso improvvisamente abbiamo scoperto lo Xinjiang perché Biden ha accusato la Cina di genocidio, ma questa repressione va avanti da vent'anni.
  Lo Xinjiang è un territorio che tradotto significa «nuova frontiera», è stato conquistato dall'ultima dinastia cinese, quella dei Qing, che ha unificato l'impero cinese come lo conosciamo noi oggi. Ha conquistato Taiwan – che per fortuna non è nelle domande sennò finivamo tra due giorni – Xinjiang, Hainan e la Mongolia. Sono state conquiste recenti, di fatto, praticamente degli ultimi due secoli.
  Tra l'altro, i gruppi autonomisti uiguri che la Cina considera terroristi sono stati inseriti nella lista nera del terrorismo internazionale dagli Stati Uniti, che alla Cina hanno detto «benissimo, a noi va benissimo, avete ragione, quelli sono i musulmani cattivi e quindi noi possiamo massacrarli».

  LAURA BOLDRINI. Anche gli uiguri?

  SIMONE PIERANNI, giornalista. Sì. L'ex Turkmenistan, i gruppi armati. Perché tra l'altro sono quelli che venivano allenati dai talebani. Quindi l'altro problema che la Cina ha avuto è il momento in cui i talebani sono arrivati al potere e tutti han detto: «i cinesi saranno contenti»; Mica tanto, perché la loro principale preoccupazione era che non andassero a fomentare proprio l'insorgenza, che in realtà è molto più sbandierata dalla Cina di quanto i realtà non sia.
  Io sono stato la prima volta nello Xinjiang nel 2008 subito dopo un attentato, poi ci sono stati alcuni attentati a Pechino e in altre città, ma parliamo di attacchi con i coltelli, non parliamo di attentati tipo Bataclan per capirci, o neanche simili.
  Quindi la Cina aumenta molto il pericolo terrorismo perché sapeva in un certo momento storico, che è quello praticamente dopo l'11 settembre, che la repressione dei musulmani sunniti era un qualcosa che poteva anche essere accettato da tutti come motivo per mantenere la stabilità, e la Cina ha approfittato di quello. Però vedete quanti cortocircuiti si creano poi in tutte le situazioni anche internazionali.
  Dunque la repressione è assolutamente portata avanti con grandissimo impeto e con grandissima forza; si parla di arresti arbitrari e di arresti di massa. Si è parlato anche di sterilizzazioni forzate, ma non ci sono in questo momento le prove. Ed è sicuramente uno degli aspetti più oscuri e terribili di quello che accade in quella zona del Paese, che era tra l'altro a maggioranza Pag. 15uigura fino a un po' di anni fa e che ormai invece è stata sinizzata. In Cina ci sono più di cinquanta etnie, quelli che noi chiamiamo cinesi sono gli Han che è l'etnia maggioritaria.
  Tornando all'attrattività – che ho sviato per rispondere all'altra domanda – Xi Jinping la prima visita di Stato che ha fatto appena è arrivato all'apice del potere è stata in Africa. Quando i leader africani vanno in Cina trovano tappeti rossi, c'è un'accoglienza... Anche quello è soft power, far sentire importanti dei leader che poi invece da altri Paesi non sono presi minimamente in considerazione.
  La Cina ha fatto questo, di fatto, si è inserita all'interno di un contesto nel quale l'Occidente viene visto negativamente, quindi la Cina, che magari tra vent'anni potrà essere accusata di colonialismo tanto quanto, in questo momento viene vista, ad esempio in Africa, ancora come un motore di sviluppo e di miglioramento della vita delle persone. Non in tutti i Paesi, perché in alcuni Paesi invece ci sono già state delle contestazioni. L'Africa è il secondo continente cinese, come viene definita in un libro di Howard French, proprio perché arrivano anche tanti cinesi. Quindi ha creato anche tutta una serie di problematiche, in alcuni Paesi la popolazione ha detto: «ci costruite le strade, gli ospedali e le scuole dove però noi non possiamo andare, perché non ci lavoriamo noi, non guadagniamo i soldi e poi a cosa ci servono?».
  Quando noi parliamo di soft power cinese dobbiamo pensare a chi interessa in questo momento arrivare con il soft power alla Cina, quindi non noi, che siamo considerati un mondo con il quale avere delle relazioni commerciali, ma che non è al centro secondo me degli interessi cinesi.
  Se noi ci aspettiamo che arrivi il libro o il film cinese che cambi culturalmente il nostro approccio della Cina siamo fuori strada, magari invece alla Cina interessa molto di più quanti studenti studiano cinese. Qui entriamo nel campo degli Istituti Confucio, che però non sono tutti uguali, dipende molto da chi li gestisce, dipende molto da chi è la controparte italiana, insomma è tutto un po' più complicato.
  La Cina dal 2011 è un Paese a maggioranza urbana, per la prima volta un censimento effettuato nel 2011 ha stabilito che sono più le persone che vivono nelle città di quanto non siano quelle che vivono nelle zone rurali, ormai il 60 per cento è inurbato. Diciamo che se vogliamo riassumere il processo interno cinese più importante degli ultimi trent'anni è l'urbanizzazione, quindi proprio la creazione di città che uniscono città che già esistevano a quelle che erano le parti più rurali della Cina.
  Ce n'è ancora ovviamente di parti rurali in Cina, ma ormai sono una minoranza del territorio cinese e della composizione anche demografica cinese, dove esistono ancora sacche di povertà, che a un certo punto hanno creato anche un dialogo un po' impettito tra Xi Jinping e quello che era l'allora Premier, Li Keqiang, perché Xi Jinping ha detto che la povertà praticamente in Cina era stata eradicata e Li Keqiang diceva che veramente ci sono ancora delle zone nelle quali c'è. Però diciamo che quella Cina degli anni Sessanta e degli anni Settanta non esiste più, è una Cina completamente diversa.
  Tra l'altro, ad esempio, Alibaba e tante altre aziende di e-commerce hanno sviluppato il proprio e-commerce prima in quelle zone lì, mettendo insieme cooperative o contadini che hanno cominciato a usare l'e-commerce.
  Più in generale, in quelle zone la Cina punta a creare quelle città di terza o quarta fascia, parliamo quindi non di megalopoli da 15-20 milioni di abitanti, ma magari comunque 5 o 3,5 milioni, non stiamo parlando proprio di posti piccoli.
  Sono importantissimi per l'andamento economico cinese, perché moltissime aziende prima si sperimentano sui mercati di terza o quarta fascia, quindi le città di terza o quarta fascia, poi vanno nelle grandi città.
  La Cina è trentatré volte l'Italia, ha più di cinquanta etnie, c'è una differenza abissale tra il nord e il sud, tra l'est e l'ovest, è un continente e viene percepita dai cinesi stessi come un continente. Quindi, ad esempio, un'azienda dice: «andiamo in una città di quarta fascia in Cina e andiamo in Africa e vediamo come va il nostro prodotto,Pag. 16 poi quando lo riteniamo competitivo lo “spariamo” sui mercati più evoluti, come quelli ad esempio occidentali o quelli invece delle grandi metropoli cinesi».
  La disoccupazione in Cina: l'immigrazione è tutta interna, sono i cosiddetti lavoratori fluttuanti, mingong come vengono chiamati; in Cina c'è ancora un sistema che si chiama hukou, che è un certificato di residenza che fa sì che nel momento in cui io, ad esempio, che sono genovese vengo a lavorare a Roma, a Roma non ho i diritti sociali, non ho welfare, quindi sono un clandestino, di fatto. Si sta cercando di sistemare, addirittura volevano eliminare l'hukou, finché c'è un processo inverso oggi, cioè molti giovani dalle città – dal momento che la loro vita è stressata, lavorano un sacco, ma non guadagnano abbastanza per vivere poi nelle città – tornano nei luoghi d'origine e mettono magari in piedi delle imprese che uniscono le competenze che hanno assunto nelle città con la realtà che si trovano di fronte.
  Adesso faccio un esempio che sembra stupido: ci sono dei ragazzi che sono tornati nel loro luogo di nascita, una zona abbastanza rurale, si son dati all'allevamento dei bovini, però vengono dalla città, lavoravano per delle start-up e hanno utilizzato il riconoscimento facciale per le mucche. Questo ha portato alla diminuzione della moria degli animali, perché non è che serve per vedere se la mucca si comporta bene o male, serve per vedere se mangia, se è malata, eccetera. Ma ci sono tantissimi casi di alta tecnologia applicata all'agricoltura e applicata all'allevamento che costituisce un po' l'ambito nel quale potrebbe nascere la next big thing, come dicono quelli che si occupano di tecnologia.
  Quindi comunque l'immigrazione c'è, interna; per quanto riguarda l'immigrazione dall'esterno, c'è il grande dilemma: io ho vissuto dieci anni in Cina, ero un expat, quelli che vengono magari da Paesi che sono «immigrati».
  L'immigrazione esterna che c'è è un'immigrazione di alto livello, ad esempio ingegneri. C'è stato un momento in cui moltissimi ingegneri andavano dagli Stati Uniti in Cina perché guadagnavano di più, a metà degli anni Duemila e anche più di recente, quindi è un mercato che è appetibile per molti profili, soprattutto quelli tecnologici.
  Finisco con la sua domanda, presidente: secondo me, a parte i limiti – mi sembra che ci siano tutta una serie di problematiche logistiche in questo progetto – dipenderà molto dagli Stati Uniti. Nel senso che Biden all'ultimo incontro in ambito APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation) che c'è stato – quello dove poi a margine si è incontrato con Xi Jinping – doveva presentare l'inizio del cosiddetto framework per l'Indo-Pacifico; non c'è riuscito, perché i democratici gliel'hanno bocciato. Quindi dipende in questo caso secondo me dagli Stati Uniti, che sono il driver di questo, è stata presentata proprio come alternativa alla Nuova Via della seta, ma vedremo. Mi sembra più un desiderata in questo momento, considerando anche che abbiamo zone geopoliticamente piuttosto insidiose che deve attraversare questo nuovo corridoio.
  Perdonatemi, ho cercato di essere il più veloce possibile.

  PRESIDENTE. Grazie mille. Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15.10.