PDL 434

FRONTESPIZIO

RELAZIONE

PROGETTO DI LEGGE
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                        Articolo 6
                        Articolo 7
                        Articolo 8
                        Articolo 9
                        Articolo 10

XIX LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

N. 434

PROPOSTA DI LEGGE COSTITUZIONALE

d'iniziativa del deputato GIACHETTI

Modifiche all'articolo 87 e al titolo IV della parte II della Costituzione in materia di separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura

Presentata il 24 ottobre 2022

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Onorevoli Colleghi! — Il tema della separazione delle carriere da anni viene evocato come una delle riforme utili a risolvere alcuni dei mali della nostra giustizia. In particolare la riforma è stata richiamata, durante la recente campagna elettorale, da un numero di forze politiche che a ben vedere rappresenterebbe la maggioranza del Parlamento. Conseguentemente, con la presente proposta di legge costituzionale si intende sottoporre all'esame del Parlamento il medesimo testo, compresa la relazione illustrativa, della proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare presentata dall'Unione delle Camere Penali nella XVIII legislatura, volta a disciplinare la separazione delle carriere, modificando le norme costituzionali sulla magistratura.
La proposta di separare le carriere di giudice e di pubblico ministero ha prodotto nel tempo diversi equivoci ed è stata spesso inquinata da false prospettive ideologiche e da improprie attribuzioni politiche. È, pertanto, opportuno chiarire il significato che questa idea possiede nel contesto ordinamentale che governa la giustizia e la giurisdizione penale in particolare. Cosa si intende per «separazione delle carriere» e perché tale separazione dovrebbe produrre, nel nostro Paese, un migliore assetto della giustizia penale e un aumento della qualità della giurisdizione? La separazione delle carriere, come è bene subito precisare, non è un fine ma un mezzo. Si tratta di un obiettivo la cui realizzazione non è più prorogabile perché è inscritto nella nostra Costituzione ed è quello proclamato dall'articolo 111, il quale impone che il giudice sia non solo imparziale ma anche terzo. E terzietà non può che significare appartenenza del giudice a un ordine diverso da quello del pubblico ministero. Si ritiene che ogni cittadino dovrebbe farsi fautore di un modello di giustizia e di processo penale rispettoso dei diritti e delle garanzie che gli sono propri e misurare l'equità delle regole del processo ponendosi la domanda: «io vorrei essere giudicato secondo quelle regole?». La separazione delle carriere serve a rendere il processo penale più equo perché lo assegna a un giudice terzo a garanzia dell'imparzialità della decisione.
La crisi del diritto e del processo che investe l'intero mondo occidentale assume nel nostro Paese caratteristiche proprie. Se, infatti, nell'intero mondo occidentale il problema è quello della presenza di un giudice che oramai governa con le proprie decisioni, non solo i nodi essenziali dei diritti e delle garanzie individuali, ma anche quelli dell'economia, dell'ambiente e dello sviluppo tecnologico, sostituendosi di fatto al ruolo che un tempo esercitava la politica, improvvisando così soluzioni sul caso concreto, in Italia questa espansione si risolve in un duplice problema. Mentre nel mondo occidentale il problema della modernità riguarda il ruolo del giudice nella società, nel nostro Paese il problema è quello di trovare un «giudice» che possa autorevolmente e legittimamente coprire quel ruolo. L'anomalia, nel nostro Paese, è infatti nei rapporti ordinamentali che distorcono in radice gli equilibri giurisdizionali. È nella figura stessa di una magistratura «onnivora» che assimila giudici e pubblici ministeri, confonde quella che dovrebbe essere la cultura del limite con la lotta ai fenomeni criminali, tiene innaturalmente unite, in una cultura ibrida e ancipite, l'arbitro e il giocatore. Perché, mentre altrove è comunque un «giudice» ad esercitare quei nuovi poteri, nel nostro Paese è «un giudice che non è giudice» (in quanto privo del fondamentale requisito costituzionale della terzietà) a governare questi spazi smisurati: li crea, li alimenta o li elimina a suo piacimento, giovandosi della ricerca del consenso, pur non essendo eletto, governando la politica, pur essendo un funzionario dello Stato, collocandosi, di fatto, al vertice della produzione normativa, pur essendo un burocrate. Collocato all'interno di una magistratura autocratica, questo tipo di giudice-non-giudice si sottrae con ostinazione agli interventi del potere legislativo.
Quello che altrove è, dunque, un problema politico-ideologico ed esclusivamente una questione di delimitazione del ruolo nel nostro Paese assume le dimensioni di un abisso istituzionale all'interno del quale la nostra stessa democrazia lentamente sprofonda. È un motivo sufficiente per tracciare una linea netta fra coloro che, all'interno dell'intera magistratura, ricoprono la figura di giudici terzi e di coloro che svolgono invece funzioni requirenti.
Se ci si vuole ricollocare all'interno di un contesto europeo, moderno e avanzato, si deve certamente operare una correzione e immaginare dei nuovi limiti all'agire della magistratura penale e si deve operare perché la politica assuma nuovamente su di sé la responsabilità del governo della società, nella consapevolezza che gli effetti delle decisioni dei giudici sono destinati ad avere ricadute un tempo inimmaginabili sugli equilibri sociali ed economici, sulla sicurezza e sulla promozione e sulla tutela dei diritti e delle garanzie.
Di fronte a questa prospettiva non possiamo non dotarci di un giudice osservante della «cultura del limite». Questa espressione riassume efficacemente tutte le aspettative che una democrazia liberale coltiva nei confronti di un potere giurisdizionale, che sia garante dei diritti di libertà dei cittadini di fronte all'autorità dello Stato, all'azione dei pubblici ministeri, agli atti investigativi della polizia giudiziaria che a quei pubblici ministeri risponde.
Il giudice non può che assolvere istituzionalmente a questo compito essenziale che lo pone come ultimo «controllore» degli esiti dell'azione penale promossa dai pubblici ministeri. Ma se questo è il compito del giudice, non potremo non riconoscere che «controllore» e «controllato», giudice e pubblico ministero, non possono appartenere a un unico ordine, non possono essere sottoposti al potere disciplinare di un unico organo, non possono condividere i medesimi meccanismi di selezione elettorale della loro classe dirigente.
Il profilo di sofferenza del nostro attuale sistema, nato in un contesto nel quale il giudice regolava ancora spazi modesti del contesto sociale e lo poteva fare con un'impronta ancora paternalistica, non è soltanto quello dell'«amicizia» in senso psicologico (riassunta nelle consuete espressioni: «pubblici ministeri e giudici prendono il caffè insieme» o «si danno del tu»), ma soprattutto quello dell'assenza di una necessaria «inimicizia» intesa in senso politico, come condizione di un indispensabile conflitto, di un fisiologico antagonismo fra poteri, volta all'efficienza e all'equilibrio di ogni sistema ordinamentale e istituzionale democratico, complesso e aperto.
Quante volte nell'esperienza giudiziaria capita, infatti, di osservare giudici visibilmente «ostili» ai pubblici ministeri, ma non per questo terzi. Perché vediamo quegli stessi giudici supplire a una presunta incapacità dell'accusa, prendere nel processo il posto del pubblico ministero, assumere su di sé il ruolo, i modi e il sentire dell'accusatore. Un fenomeno reso possibile dall'assunzione da parte dei magistrati, al di là dell'interpretazione delle distinte funzioni, di un'identica cultura del processo visto come strumento di contrasto al crimine. Se, infatti, pubblico ministero e giudice pensano entrambi di essere impegnati – sia pure con funzioni differenti e, magari, «concorrenti» – nella medesima «lotta» contro questo o quel «fenomeno criminale», il giudice non potrà mai essere terzo.
Allora la terzietà non potrà che essere perseguita attraverso una separazione degli ambiti ordinamentali, organizzativi e disciplinari cui appartengono il giudice e l'accusatore, perché solo attraverso tale separazione sarà preservata quella condizione essenziale che i pensatori dell'illuminismo, cultori della separazione dei poteri, chiamavano «inimicizia», ovvero quel sentimento che fa sì che un potere controlli l'altro e che il titolare di un potere, non essendo mosso da alcun sentimento di «amicizia» ordinamentale nei confronti di un altro soggetto, possa sempre diffidarne, verificandone i metodi, falsificandone i risultati, non condividendone mai né gli scopi, né le passioni.
Questo pensiero ci consegna dunque un modello concettuale che, applicato in concreto all'individuazione delle giuste prerogative dei soggetti che agiscono all'interno del processo penale, finisce con il confermare l'idea che un giudice terzo è una vera e propria «condizione di giustizia», capace di garantire l'equilibrata suddivisione delle prerogative e dei poteri fra le parti processuali, e che la terzietà del giudice è dunque caratteristica intrinseca e irrinunciabile del processo accusatorio e in tal senso unica garanzia della sua efficienza e della sua funzionalità. Garanzia, in particolare, del funzionamento di quella macchina gnoseologica, la più moderna e la più efficace di cui disponiamo, costituita dal contraddittorio. In quest'ottica si vede bene come la separazione delle carriere di giudice e di accusatore non sia affatto un fine, ma esclusivamente un mezzo – ragionevole e praticabile – per raggiungere l'indispensabile obiettivo della terzietà del giudice e come esso debba essere dunque correttamente valutato, non come un fine, ma solo come un mezzo per raggiungere il risultato politico di un necessario e più alto equilibrio ordinamentale.
La separazione delle organizzazioni dei magistrati d'accusa e di decisione è, inoltre, il dato essenziale che connota gli ordinamenti giudiziari democratico-liberali e li distingue da quelli a ispirazione autoritaria.
Le funzioni d'accusa e di decisione sono radicalmente incompatibili: non possono essere concepite come due sotto-funzioni di una medesima funzione e neppure possono vedere gli organi dell'una e dell'altra accomunati in un'unica organizzazione ordinamentale.
Le due funzioni sono fra di loro diverse su tutti i piani: i ruoli e le finalità istituzionali, le specifiche culture professionali, la collocazione nella struttura del processo, la relazione con la funzione di difesa.
Per le due funzioni e per gli organi che le esercitano valgono infatti distinti princìpi costituzionali.
Il giudice è terzo e imparziale; il pubblico ministero è parte.
Il giudice è soggetto soltanto alla legge e quindi l'esercizio della giurisdizione è contrassegnato rigorosamente dal principio di legalità; il pubblico ministero è organo dell'azione penale, potere che, nella sua doverosità, annovera ineliminabili momenti di libera discrezionalità.
Il giudice è sovraordinato rispetto alla contrapposizione dialettica fra accusa e difesa; il pubblico ministero partecipa, in un rapporto di parità, alla tensione del contraddittorio delle parti quale strumento gnoseologicamente idoneo alla migliore ricostruzione del fatto.
È dunque improponibile che due soggetti processuali, il giudice e il pubblico ministero, irriducibilmente diversi quanto a configurazione costituzionale, natura istituzionale e funzione, siano identificati in una medesima organizzazione ordinamentale.
L'assetto realizzato dai Costituenti, portato del modello inquisitorio all'epoca vigente, deve essere riformato per acquisire, tramite la separazione delle organizzazioni di giudici e pubblici ministeri, un sistema di amministrazione della giustizia ispirato alle regole del giusto processo.
Il valore fondamentale da perseguire è l'imparzialità della decisione, cioè la decisione giusta, che è tale nei meccanismi che la producono e nell'affidabilità sociale: il cittadino, orientato dall'immediato senso comune, non crede che la decisione presa da un giudice che condivide, con il soggetto che lo accusa, la medesima collocazione istituzionale possa essere una decisione giusta. Il giudice «collega» dell'accusatore è «tecnicamente» inattendibile per come esercita la giurisdizione ed è «politicamente» non credibile per l'imputato e per la società.
Con la riforma dell'articolo 111 (legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2), che stabilisce la formazione della prova in dibattimento, nel contraddittorio delle parti, davanti a un giudice terzo e imparziale, il legislatore ha scelto con chiarezza di voler adottare il modello accusatorio del processo penale, in tal modo abbandonando definitivamente la tradizione inquisitoria del processo che la Carta costituzionale del 1948 aveva perpetuato.
Al fine di dare piena attuazione alla scelta in senso accusatorio del processo penale è pertanto necessario intervenire per rendere effettiva la terzietà del giudice che costituisce, appunto, il presupposto dell'imparzialità della decisione.
È questa, peraltro, una valutazione che è sostenuta autorevolmente dallo stesso Parlamento europeo che, in una delibera relativa al rispetto dei diritti umani nell'Unione europea, afferma come sia «necessario garantire l'imparzialità dei giudici distinguendo tra la carriera dei magistrati che svolgono attività di indagine (examining magistrates) e quella del giudice al fine di assicurare un processo giusto (fair trial)» (A 4-01 12/1997). Non è un caso, quindi, che il Consiglio d'Europa abbia espressamente invitato gli Stati membri ad agire «affinché lo status giuridico, la competenza e ruolo procedurale dei pubblici ministeri siano stabiliti dalla legge in modo tale che non vi possano essere dubbi fondati sull'indipendenza e imparzialità dei giudici», evidenziando lo stretto rapporto tra il ruolo del pubblico ministero nell'ordinamento penale e l'indipendenza e l'imparzialità dei giudici (raccomandazione REC (2000)19 adottata dal Comitato dei Ministri il 6 ottobre 2000, paragrafo 17).
In questo senso si sono autorevolmente espressi numerosi giuristi, tra cui Giovanni Conso: «Per quanto riguarda il nuovo ordinamento giudiziario, per quanto riguarda la separazione delle carriere faccio una confessione, io inizialmente ero contrario, ero contrario un po' perché legato alle tradizioni, al proprio vivere, alla propria mentalità che si era via via estrinsecato, al sacrificio di molti giudici, al sacrificio di molti magistrati, dei pm. Adesso ormai devo dirlo, ritengo che sia ineluttabile, non dico da oggi a domani ma ineluttabile, proprio ineluttabile (...). Il processo deve garantire il contraddittorio, deve essere un processo accusatorio e non più inquisitorio, parità di parti, terzietà del giudice. E terzietà del giudice ha convinto anche me. Questo argomento è l'argomento più forte, sì anche la parità tra le parti, ma soprattutto la terzietà. Come fa un giudice, come può essere veramente terzo un giudice che ha uno stretto legame di origine anche di battaglie comuni, di precedenti, di maestri, eccetera, quindi in buonissima fede, bellezza di sentimenti, a continuare a convivere avendo come parte, quando ci vuole la parità delle parti? Quindi terzietà vuol dire anche rispetto della parità di parte» (Giovanni Conso, professore emerito di diritto processuale penale, già Guardasigilli e Presidente della Corte costituzionale, intervento al Congresso dell'Unione camere penali italiane, Torino, 2009).
Ragioni condivise e rappresentate, in mirabile sintesi, anche dal magistrato inquirente italiano più noto nel mondo per la sua elevata professionalità, e cioè Giovanni Falcone, che in un'intervista rilasciata nel 1991 ebbe a dire: «Un sistema accusatorio parte dal presupposto di un pubblico ministero che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento dove egli rappresenta una parte in causa. Gli occorrono, quindi, esperienze, competenze, capacità, preparazione anche tecnica per perseguire l'obiettivo. E nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela con il giudice e non essere, come invece oggi è, una specie di “paragiudice”. Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e pubblici ministeri siano, in realtà indistinguibili gli uni dagli altri. Chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze nella carriera, viene bollato come nemico dell'indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell'azione penale, desideroso di porre il pubblico ministero sotto il controllo dell'esecutivo. È veramente singolare che si voglia confondere la differenziazione dei ruoli e la specializzazione del pubblico ministero con questioni istituzionali totalmente distinte» (Giovanni Falcone, sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Palermo, intervista al quotidiano «La Repubblica», 3 ottobre 1991).
Appare inoltre necessario, al fine di evitare che il Consiglio superiore della magistratura (CSM) giudicante e il CSM requirente si atteggino ad organi corporativi e autoreferenziali, che ne sia mutata la composizione con una maggiore partecipazione della componente laica.
Del resto, in seno all'Assemblea costituente, la scelta di prevedere un'ampia maggioranza della componente «togata» non fu per nulla scontata. Al contrario, si trattò solo di una delle possibili soluzioni e prevalse di misura sulle altre. Tra queste ve ne era una, prevista nell'originario progetto della Commissione dei settantacinque e ripresa in seduta plenaria con l'emendamento Conti, Leone, Giovanni, Bettiol, Cassiani, Rossi Paolo, Perassi e Giuseppe Dossetti, che stabiliva, appunto, una composizione paritaria dei componenti «togati» e dei componenti «laici».
In questa prospettiva di un più corretto equilibrio della composizione del CSM giudicante e di quello requirente, si muove la presente proposta di legge costituzionale, con la previsione di un pari numero di membri elettivi «togati» e «laici». In ogni caso, la maggioranza della componente «togata» è assicurata dalla presenza, quale membro di diritto, del Primo presidente della Corte di cassazione.
Inoltre, poiché nel dibattito di questi anni è stata particolarmente avvertita la necessità di escludere che gli organi di governo della magistratura possano esercitare un ruolo particolarmente contiguo alla politica, è specificato che competenze ulteriori rispetto alle assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, promozioni e provvedimenti disciplinari possano essere attribuite solo con legge costituzionale.
Si tratta di un principio di natura liberale che Alexis de Tocqueville riassumeva nei seguenti termini: «quando un giudice, a proposito di un processo, si pronuncia su una legge relativa a questo processo, estende il cerchio delle sue attribuzioni, ma non ne esce, poiché ha voluto in questo modo giudicare la legge, per arrivare a giudicare il processo. Quando invece si pronuncia su di una legge, senza prendere le mosse da un processo, egli esce completamente da quella sfera, e penetra in quella del potere legislativo» (A. De Tocqueville, «La democrazia in America»).
Questa previsione colma una lacuna obiettiva del nostro sistema costituzionale, che ha consentito al CSM di adottare anche atti di indirizzo politico e di esercitare funzioni «paranormative» che, talvolta, hanno determinato contrasti con altri poteri dello Stato.
La presente proposta di legge costituzionale si prefigge, inoltre, lo scopo di riportare l'esercizio dell'azione penale, nei fatti ampiamente discrezionale, nell'alveo della previsione legislativa.
L'Assemblea costituente ha, infatti, disposto che i pubblici ministeri dovessero avere il monopolio dell'iniziativa penale e, nel contempo, il potere di disporre della polizia durante la fase delle indagini. Ha voluto altresì che tale monopolio fosse esercitato in piena indipendenza, vale a dire al di fuori di una qualsiasi delle forme di responsabilità politica, diretta o indiretta, esistente nelle altre democrazie costituzionali.
Per evitare un uso discrezionale o arbitrario del potere inquirente del pubblico ministero, il Costituente ha ritenuto poi che bastasse prescrivere l'obbligatorietà dell'azione penale per tutti i reati.
I Padri costituenti erano fermamente convinti che indipendenza e obbligatorietà dell'azione penale – concepite come due facce della stessa medaglia – sarebbero state il miglior presidio del precetto costituzionale che sancisce l'eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge.
È certamente una soluzione formalmente perfetta, ma che presenta un difetto non da poco: a dispetto della norma costituzionale che impone ai magistrati di perseguire con efficacia tutti i reati, anche in Italia l'azione penale risulta essere di fatto largamente discrezionale, almeno quanto lo è in altri Paesi e, per certi aspetti, anche di più.
Una discrezionalità che con il tempo è divenuta sempre più visibile anche a causa delle crescenti dimensione e complessità dei fenomeni criminali.
A riguardo basti ricordare che:

1) già la Commissione ministeriale per la riforma dell'ordinamento giudiziario, nominata con decreto dell'allora Ministro di grazia e giustizia Conso nel febbraio 1993 e composta in maggioranza da magistrati di varie correnti, aveva riconosciuto l'impossibilità di perseguire tutti i reati, anche laddove fosse attuata un'ampia depenalizzazione, e aveva pertanto ritenuto che fosse necessario stabilire alcune priorità nell'esercizio dell'azione penale. Rimase soccombente tuttavia l'orientamento che, data la natura politica della materia, il compito di fissare le priorità spettasse al Parlamento (proposta di Zagrebelsky). Prevalse, invece, la decisione che fossero le stesse procure della Repubblica a stabilire le priorità (Documenti Giustizia, 1994, pagina 1100);

2) l'esigenza di fissazione delle priorità risulta persino da risalenti sentenze disciplinari, come nel caso in cui la sezione disciplinare del CSM ha giudicato un pubblico ministero che era stato trasferito e che aveva lasciato nel suo ufficio di origine una considerevole mole di lavoro non espletato e che nella scelta delle priorità aveva utilizzato criteri propri. La sezione disciplinare lo aveva assolto affermando che la mole di lavoro non consentiva il pieno smaltimento dei casi a lui assegnati e che la definizione delle priorità effettuata personalmente non costituiva illecito disciplinare in quanto non vi erano priorità stabilite per tutti i sostituti dalla procura in cui l'incolpato aveva prestato servizio (sentenza disciplinare n. 33 del 1997);

3) la necessità di fissare priorità risulta anche da verbali del CSM, come ad esempio dall'allegato A al verbale del plenum del 10 giugno 1998, ove si prendeva atto che in alcune procure generali di corte d'appello erano state fissate priorità, peraltro in termini più o meno generici, e in altre no;

4) l'esigenza di fissare priorità nell'esercizio dell'azione penale è stata oggetto di una raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa. In tale delibera si raccomandava l'adozione del principio di opportunità dell'azione penale e si indicavano le garanzie che dovevano accompagnare tale scelta. Agli Stati membri che in Costituzione prevedevano l'obbligatorietà dell'azione si raccomandava di adottare misure in grado di raggiungere gli stessi obiettivi che si ottengono con l'adozione del principio di opportunità e con le garanzie ad esso relative (raccomandazione 17 settembre 1987, n. R(87)18);

5) con la famosa circolare del 10 gennaio 2007 (poi seguita da numerose altre) il procuratore della Repubblica di Torino, Marcello Maddalena, ebbe a dettare criteri «discrezionali» per «accantonare» i procedimenti relativi a reati rientranti nel beneficio dell'indulto e che vanno dalla resistenza al pubblico ufficiale, al commercio di prodotti con segni mendaci. Si tratta di 86 delitti contenuti nel codice penale, più quasi tutte le contravvenzioni, a cui si aggiungono centinaia di reati scelti tra le leggi speciali;

6) un cospicuo numero di procedimenti si esaurisce nella fase delle indagini preliminari ove, secondo i dati ministeriali, matura la più ampia percentuale di prescrizione per circa il 60 per cento, che evidentemente costituisce riprova del fatto che i pubblici ministeri operano delle scelte discrezionali fra procedimenti da trattare e procedimenti, invece, da accantonare negli archivi;

7) sul medesimo tema e sul presupposto che non sia possibile procedere in relazione a tutte le notizie di reato acquisite dall'autorità giudiziaria, il CSM è intervenuto con delibera n. 382/W/2014 in data 9 luglio 2014, con la quale ha riaffermato la necessità dell'utilizzo dei criteri di priorità nell'esercizio dell'azione penale, oltre che nella trattazione dei processi.

È di tutta evidenza che le scelte che si effettuano nell'esercizio dell'azione penale e nell'uso dei mezzi di indagine sono, per loro natura, scelte di grande rilievo politico. Dal loro concreto esercizio dipende non solo l'effettiva protezione di valori che riguardano la libertà e la dignità dei cittadini, ma anche la definizione di una rilevantissima parte delle scelte di politica criminale relative alla repressione dei fenomeni delittuosi e, quindi, anche l'efficacia complessiva dell'azione repressiva. È una discrezionalità che, a differenza degli altri Paesi democratici, viene da noi esercitata in piena indipendenza da chi in nessun modo può essere chiamato, neppure indirettamente, a rispondere delle scelte politiche sia pur privo di qualsivoglia potere di rappresentanza.
Paradossalmente, quindi, proprio l'obbligatorietà dell'azione penale, che era stata voluta dal nostro Costituente per tutelare il valore dell'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, è divenuta il principale impedimento alla possibilità di rendere quella tutela effettiva.
Se l'obbligatorietà dell'azione penale è un valore da salvaguardare, la sua concreta modulazione deve essere però affidata alla legge ordinaria.
Poiché non è possibile perseguire tutti i reati, anche in ragione della crescita del penalmente rilevante, dovrà essere la legge a stabilire forme e priorità dell'esercizio dell'azione penale.
La proposta di legge costituzionale intende, dunque, in primo luogo riformare l'assetto costituzionale delineato dalla sezione I del titolo IV della parte seconda della Costituzione, prevedendo due distinti organi di governo della magistratura: uno per la magistratura giudicante e uno per la magistratura requirente, senza alcuna subordinazione o dipendenza dal potere esecutivo.
La finalità della riforma non è, infatti, quella di porre la magistratura requirente nella sfera di influenza del potere esecutivo, bensì quella di assicurarne la piena autonomia, garantendo però al contempo l'effettiva autonomia della magistratura giudicante, attraverso una sua separata e ben distinta collocazione ordinamentale. Le ragioni sopra esposte si traducono nella proposta di legge costituzionale con la modifica agli articoli 104, 105, 106, 107, 110 e 112 della Costituzione, con l'introduzione degli articoli 105-bis e 105-ter.
Sono, altresì, modificate, nella parte seconda della Costituzione, le rubriche del titolo IV e delle sezioni I e II dello stesso titolo.
L'articolo 104 viene modificato con l'espressa previsione che l'ordine giudiziario è costituito dalla magistratura giudicante e dalla magistratura requirente, governate da distinti CSM.
I pubblici ministeri continueranno, quindi, ad essere magistrati e a godere delle garanzie di autonomia e indipendenza proprie dei magistrati, ma apparterranno a un ordine giudiziario distinto da quello dei giudici.
Coerentemente con tale previsione il modificato articolo 106 prevede che i magistrati giudicanti e requirenti siano nominati in base a concorsi separati.
Al fine di scongiurare che, da organi autonomi e indipendenti di governo della magistratura, i CSM giudicante e requirente operino quali organismi corporativi e autocratici, ne è mutata la composizione.
La modifica all'articolo 104, che disciplina il CSM giudicante, nel mantenere quali componenti di diritto il Presidente della Repubblica e il Primo presidente della Corte di cassazione, dispone che gli altri componenti siano scelti per la metà tra i giudici ordinari e per l'altra metà dal Parlamento in seduta comune, tra i professori ordinari in materie giuridiche e gli avvocati con quindici anni di esercizio della professione.
L'articolo 105-bis prevede il CSM requirente, del quale sono componenti di diritto il Presidente della Repubblica e il Procuratore generale della Corte di cassazione. La restante parte è delineata con le medesime proporzioni del CSM giudicante, salvo che la componente togata è scelta tra i pubblici ministeri ordinari.
A entrambi gli organismi spettano le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le promozioni dei magistrati che da loro dipendono, nonché i provvedimenti disciplinari.
L'articolo 112, regolante l'obbligatorietà dell'esercizio dell'azione penale, è modificato con la previsione che essa è esercitata nei casi e secondo i modi previsti dalla legge.

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PROPOSTA DI LEGGE COSTITUZIONALE

Art. 1.

1. Al decimo comma dell'articolo 87 della Costituzione, dopo le parole: «Presiede il Consiglio superiore della magistratura» sono inserite le seguenti: «giudicante e il Consiglio superiore della magistratura requirente».

Art. 2.

1. La rubrica del titolo IV della parte seconda della Costituzione è sostituita dalla seguente: «L'Ordine giudiziario».
2. La rubrica della sezione I del titolo IV della parte seconda della Costituzione è sostituita dalla seguente: «Ordinamento dei magistrati».
3. La rubrica della sezione II del titolo IV della parte seconda della Costituzione è sostituita dalla seguente: «Norme per la giurisdizione».

Art. 3.

1. L'articolo 104 della Costituzione è sostituito dal seguente:

«Art. 104. – L'ordine giudiziario è costituito dalla magistratura giudicante e dalla magistratura requirente ed è autonomo e indipendente da ogni potere.
Il Consiglio superiore della magistratura giudicante è presieduto dal Presidente della Repubblica. Ne fa parte di diritto il Primo presidente della Corte di cassazione.
Gli altri componenti sono scelti per la metà tra i giudici ordinari con le modalità stabilite dalla legge e, per l'altra metà, dal Parlamento in seduta comune tra i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo quindici anni di esercizio. Durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili.
Il Consiglio elegge un Vicepresidente fra i componenti designati dal Parlamento.
Non possono, finché sono in carica, essere iscritti negli albi professionali, né far parte del Parlamento o di un Consiglio regionale o provinciale o comunale ovvero di un ente di diritto pubblico».

Art. 4.

1. L'articolo 105 della Costituzione è sostituito dal seguente:

«Art. 105. – Spettano al Consiglio superiore della magistratura giudicante, secondo le norme dell'ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei giudici. Altre competenze possono essere attribuite solo con legge costituzionale».

Art. 5.

1. Dopo l'articolo 105 della Costituzione, come sostituito dall'articolo 4 della presente legge costituzionale, è inserito il seguente:

«Art. 105-bis. – Il Consiglio superiore della magistratura requirente è presieduto dal Presidente della Repubblica. Ne fa parte di diritto il Procuratore generale della Corte di cassazione. Gli altri componenti sono scelti per la metà tra i pubblici ministeri ordinari con le modalità stabilite dalla legge e, per l'altra metà, dal Parlamento in seduta comune tra i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo quindici anni di esercizio. Durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili. Non possono, finché sono in carica, essere iscritti agli albi professionali, né far parte del Parlamento o di un Consiglio regionale o provinciale o comunale ovvero di un ente di diritto pubblico. Il Consiglio elegge un vicepresidente fra i componenti designati dal Parlamento».

Art. 6.

1. Dopo l'articolo 105-bis della Costituzione, introdotto dall'articolo 5 della presente legge costituzionale, è inserito il seguente:

«Art. 105-ter. – Spettano al Consiglio superiore della magistratura requirente, secondo le norme dell'ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati requirenti. Altre competenze possono essere attribuite solo con legge costituzionale».

Art. 7.

1. Il primo comma dell'articolo 106 della Costituzione è sostituito dal seguente:

«Le nomine dei magistrati giudicanti e requirenti hanno luogo per concorsi separati».

2. Il terzo comma dell'articolo 106 della Costituzione è sostituito dal seguente:

«La legge può prevedere la nomina di avvocati e di professori ordinari universi- tari di materie giuridiche a tutti i livelli della magistratura giudicante».

Art. 8.

1. Al primo comma dell'articolo 107 della Costituzione, dopo le parole: «I magistrati» sono inserite le seguenti: «giudicanti e requirenti», dopo le parole: «se non in seguito a decisione» è inserita la seguente: «rispettivamente» e dopo le parole: «del Consiglio superiore della magistratura» sono inserite le seguenti: «giudicante o del Consiglio superiore della magistratura requirente».
2. Il terzo comma dell'articolo 107 della Costituzione è abrogato.

Art. 9.

1. All'articolo 110 della Costituzione, dopo le parole: «Ferme le competenze del Consiglio superiore della magistratura» sono inserite le seguenti: «giudicante e del Consiglio superiore della magistratura requirente».

Art. 10.

1. All'articolo 112 della Costituzione, dopo le parole: «Il Pubblico Ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale» sono aggiunte le seguenti: «nei casi e nei modi previsti dalla legge».

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