Frontespizio Relazione

Nascondi n. pagina

Stampa

PDL 1866-A-bis

XVII LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 1866-A-bis
   N. 1865-A-bis



 

Pag. 1

DISEGNO DI LEGGE
N. 1866

APPROVATO DAL SENATO DELLA REPUBBLICA
il 27 novembre 2013 (v. stampato Senato n. 1121)

presentato dal ministro dell'economia e delle finanze
(SACCOMANNI)

Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2014 e bilancio pluriennale
per il triennio 2014-2016 e relativa nota di variazioni (1866-bis)

Trasmesso dal Presidente del Senato della Repubblica il 29 novembre 2013

e

DISEGNO DI LEGGE
N. 1865

APPROVATO DAL SENATO DELLA REPUBBLICA
il 27 novembre 2013 (v. stampato Senato n. 1120)

presentato dal ministro dell'economia e delle finanze
(SACCOMANNI)

Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2014)

Trasmesso dal Presidente del Senato della Repubblica il 29 novembre 2013

(Relatore di minoranza: MARCON)
 

Pag. 2

 

Pag. 3

RELAZIONE DI MINORANZA

SOMMARIO

Premessa
    Una legge di stabilità sostanzialmente inutile
    I tagli alla spesa pubblica
    Il taglietto del cuneo fiscale
    La trappola della clausola di salvaguardia
    Nessuna reale misura per lo sviluppo e il lavoro
    Una manovra economica a sovranità limitata
    La politica europea del Governo Letta
    Una politica per il lavoro inesistente e penalizzante per il pubblico impiego
    Nessuna soluzione definitiva sugli esodati, poche le risorse per gli ammortizzatori sociali
    Il rifinanziamento degli ammortizzatori in deroga
    Dove sono le risorse per la scuola, l'università, la ricerca e la cultura?
    Il cuneo fiscale: poco più che uno spot pubblicitario e un'occasione persa per un fisco più equo
    La riforma della tassazione immobiliare
    L'Ambiente rimane Cenerentola
    Per la messa in sicurezza del nostro territorio, un'occasione persa
    Il Governo privilegia il termoelettrico
    Poco per le aree protette ed i parchi
    Risposte insufficienti ai disagi sociali e alla crescente povertà
    L'emergenza abitativa
    Altri tagli al Servizio sanitario

 

Pag. 4


    Ancora risorse per i sistemi d'arma
    Infrastrutture, Trasporti e Comunicazioni
    La strada dei Trulli non s'ha da fare
    Manca una politica industriale sull'autotrasporto
    Il trasporto pubblico locale abbandonato
    Il Piano per la banda larga
    Quale sviluppo?
    Gli enti territoriali sotto pressione
    Per una diversa politica economica: le proposte di SEL
    Conclusione
 

Pag. 5


      

torna su
Onorevoli Colleghi!

PREMESSA
      Numerose le modifiche apportate dalla Commissione Bilancio della Camera e che con ogni probabilità entreranno a fare parte del maxi-emendamento sul quale il Governo porrà la fiducia. In particolare domenica 15 dicembre sono stati presentati 20 emendamenti del Relatore e 34 emendamenti del Governo.
      Il segno complessivo della manovra però non cambia, su alcuni aspetti peggiora, e dunque, non cambia il nostro giudizio negativo.
      Le principali modifiche riguardano:

          1) un molto parziale miglioramento della rivalutazione delle pensioni;

          2) la curva dei tagli al cuneo fiscale nelle buste paga è stata resa più progressiva grazie ad aliquote più basse per i redditi più bassi e più alte per i redditi più elevati;

          3) l'introduzione della «web tax»: i soggetti che offrono servizi on line, pubblicità o vendita di spazi pubblicitari, visualizzati sul territorio italiano, devono essere titolari di partita Iva italiana;

          4) l'ampliamento della platea dei lavoratori esodati cosiddetti salvaguardati fino alla concorrenza di 17 mila lavoratori e comunque nel limite di spesa indicato (950 milioni fino al 2020);

          5) l'introduzione del fondo taglia cuneo, alimentato da due rubinetti: quello dei risparmi di spesa che dovranno arrivare dalla nuova spending review; quello delle maggiori entrate assicurate dalla lotta all'evasione fiscale, ma al netto di quanto già impegnato per interventi di equità sociale e spese indifferibili (5 per mille, libri scolastici, missioni di pace ecc.). Con un meccanismo di funzionamento, almeno sulla carta, di attento monitoraggio da parte del Governo, delle parti sociali e dello stesso Parlamento. La distribuzione delle risorse confluite nel fondo dovrà avvenire in parti eguali tra imprese e lavoratori. Mentre questi ultimi dovranno ripartire la loro quota con i pensionati, la dote spettante alle imprese seguirà tre vie: le attività produttive, i professionisti e le piccole imprese con meno di 181 mila euro di valore della produzione;

          6) una sanatoria dei contenziosi sui canoni del demanio marittimo in base al quale «i procedimenti giudiziari pendenti alla data del 30 settembre 2013 concernenti il pagamento in favore dell'erario statale dei canoni e degli indennizzi per l'utilizzo dei beni demaniali marittimi e delle relative pertinenze, possono essere integralmente definiti» pagando «in un'unica soluzione» il 30 per cento delle somme dovute oppure il 70 per cento, ma con una rateizzazione in nove anni;

          7) semplificazioni per la realizzazione di nuovi stadi ma si «esclude» che con essi possano essere realizzati «nuovi complessi di edilizia residenziale», anche se non sono esclusi interventi commerciali;

          8) l'aumento delle risorse per i lavoratori socialmente utili e quelli di pubblica utilità della regione Calabria, portate da 10 a 25 milioni, anche se il meccanismo di stabilizzazione in pratica è inesistente.

      È stato approvato, poi, in Commissione Bilancio l'emendamento di SEL alla legge di stabilità (comma 15 articolo 1), primo firmatario l'on. Marcon, che esclude che i fondi riassegnati alle legge per l'industria del settore aeronautico (legge 808/1985) possano essere utilizzati per finanziare il programma dei cacciabombardieri F35.

 

Pag. 6


      Si tratta di un importante segnale di chiarezza. A fine giugno Camera e Senato avevano approvato mozioni che sospendevano ulteriori acquisti di F35 fino a nuovo pronunciamento del Parlamento in merito.
      L'emendamento di SEL esclude dunque ulteriori stanziamenti nel 2014 – con la legge che fino ad oggi ha finanziato investimenti nell'aeronautica militare – ad un programma costosissimo e contrario all'articolo 11 della Costituzione. È un risultato dell'impegno di SEL e delle campagne e movimenti che sono impegnati contro la produzione degli F35.
      Già il Senato aveva approvato in aula in maniera concitata la legge di stabilità riscrivendola ampiamente e trasformando i 26 articoli precedenti in 531 commi di un unico articolo.
      Non è la prima volta. Il record spetta al Governo Prodi con la finanziaria del 2007 (1.364 commi in un solo articolo). Ancora una volta un testo da decriptare.
      Si è incrementata non solo la dimensione del provvedimento ma anche il numero degli atti necessari per la sua attuazione. Con l'AS 1120 erano 50, ora con il testo approdato alla Camera (AC 1685) sono diventati più di 70.
      La riscrittura della legge di stabilità aveva fatto salire il «valore» della manovra per il 2014 da 12,4 a 15 miliardi. Ma aveva anche prodotto un rafforzamento del saldo che per il 2014 migliora di quasi 175 milioni.
      Nel complesso i ritocchi raccolti nel maxiemendamento del governo presentato al Senato hanno prodotto maggiori entrate per 1,2 miliardi nel 2014, circa un miliardo nel 2015 e 900 milioni nel 2016 ai fini dell'indebitamento netto.
      Le minori entrate sono pari a 857 milioni per il 2014, 418 milioni nel 2015 e 627 milioni nel 2016.
      Le maggiori spese prodotte dalle modifiche introdotte dal Senato – sempre ai fini del calcolo dell'indebitamento netto, l'indice cui guarda la UE – sono pari a 1,7 miliardi nel 2014, un miliardo nel 2015 e sfiorano i 545 milioni nel 2016.
      Quanto alle minori spese il quadro della Ragioneria generale indica 1,5 miliardi nel 2014, ma soli 296 milioni nel 2015 e 261 milioni nel 2017.
      Le principali modifiche introdotte dal Senato riguardano:

          a) la riduzione del cuneo fiscale concentrato sui redditi fino a 35 mila euro (prima era fino a 55 mila euro);

          b) le modifiche alla tassazione sulla casa con l'introduzione della IUC (Imposta Unica Comunale);

          c) norme più severe per le società partecipate degli enti territoriali;

          d) una piattaforma per la garanzia del credito alle PMI;

          e) più una serie di micro-interventi a pioggia nella più scontata tradizione democristiana.

      Tra i quali segnaliamo la rediviva «legge mancia». Il comma 248 della legge di stabilità (Testo AC 1865) in esame, rifinanzia per 30 milioni di euro per il 2014 la legge mancia (nella versione prevista dal DL 112/2008).
      La cosiddetta «legge mancia» venne istituita (articolo 1, commi 28 e 29), dalla legge finanziaria per il 2005.
      In pratica con questa norma di spesa, si distribuiscono risorse in maniera del tutto discrezionale e clientelare, sulla base delle indicazioni dei partiti per finanziare interventi nei vari collegi elettorali. Basta approvare una Risoluzione in Commissione Bilancio nella quale i gruppi parlamentari indicano le opere che vogliono finanziare. All'assegnazione delle risorse, provvede poi un decreto del ministero dell'Economia.
      Successivamente dette norme sono state abrogate dal Governo Prodi con legge finanziaria per il 2008.
      Quindi detta «legge mancia» è stata «resuscitata» grazie al decreto-legge 112/2008 (Governo Berlusconi), che all'articolo 13, comma 3-quater, ha istituito il «Fondo per la tutela dell'ambiente e la promozione dello sviluppo del territorio» per finanziare «interventi realizzati dagli enti destinatari nei rispettivi territori per il

 

Pag. 7

risanamento e il recupero dell'ambiente e lo sviluppo economico dei territori stessi».
      Al pari di come era previsto dalla vecchia «legge mancia», anche questa norma prevede che alla ripartizione delle risorse e all'individuazione dei beneficiari si provvede con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze in coerenza con apposito atto di indirizzo delle Commissioni parlamentari competenti per i profili finanziari.
      È con questo strumento che – per esempio – per anni è stata finanziata la «scuola bosina» della moglie di Umberto Bossi.

Una legge di stabilità sostanzialmente inutile.

      La legge di stabilità è un provvedimento che non porta equità e sollievo al paese, non combatte la crisi e non rilancia l'economia.
      L'importo complessivo, sul triennio, era inizialmente di 27,3 mld di euro, di cui 12,4 mld per il 2014 (cifra poi modificata dal Senato), a cui si devono aggiungere 1,6 miliardi della manovrina correttiva per traguardare il rapporto indebitamento/Pil del 3 per cento per il 2013 (DL n. 120/2013).
      L'obiettivo è quello delineato nella Nota di aggiornamento del Def (documento economico finanziario di settembre), cioè quello di conseguire un rapporto indebitamento/Pil del 2,5 per cento nel 2014.

      Dopo tanti sacrifici i cittadini italiani attendevano che la manovra economica del governo Letta ridesse fiato all'economia italiana, la quale dal 2007 ad oggi ha perso addirittura il 9 per cento della produzione di beni e servizi e ha visto raddoppiare la disoccupazione, da un milione e mezzo a tre milioni di unità. Si possono avere molti dubbi sul fatto che la manovra riuscirà a portare il Pil a crescere almeno di un punto percentuale nel 2014 come il governo prevede.
      Come più volte sottolineato, anche di recente da Confindustria, Rete Imprese Italia e dalla principali Associazioni Sindacali di categoria, sei anni di crisi finanziaria, prima globale e poi dei debiti sovrani nell'Eurozona, e due recessioni hanno colpito duramente l'economia europea e quella italiana, dove le conseguenze sono state più gravi che nella maggior parte degli altri paesi.
      Rispetto al picco toccato sei anni fa, il prodotto interno lordo italiano si è ridotto del 9 per cento, il PIL procapite è diminuito del 10,4 per cento, ossia circa 2.700 euro correnti in meno per abitante, ed è così tornato ai livelli del 1997, caso unico tra i paesi dell'euro (in Spagna e Francia, il PIL procapite, nonostante la crisi, è comunque più alto di oltre il 15 per cento rispetto al 1997).
      La riduzione della domanda interna è stata di una intensità che dall'Unità d'Italia non ha precedenti in periodo di pace ed è stata la determinante del calo dell'attività economica, dato che le esportazioni sono tornate sopra i livelli del 2007. In seguito alla caduta del reddito disponibile, che in termini reali è sceso dell'11,1 per cento, la contrazione dei consumi delle famiglie è risultata del 7,8 per cento.
      L'occupazione è caduta del 7,2 per cento, pari a 1,8 milioni di unità di lavoro in meno. Molte delle persone che hanno perduto l'impiego non riusciranno a ricollocarsi nel sistema produttivo.
      La produzione industriale è a un livello inferiore del 24,2 per cento rispetto al picco pre-crisi del terzo trimestre del 2007; in alcuni settori la diminuzione supera il 40 per cento.
      Il credit crunch ha trasmesso la crisi dalla finanza all'economia reale. È stato particolarmente severo in Italia, soprattutto dall'estate 2011. Nell'agosto scorso il credito erogato alle imprese italiane è risultato dell'8,0 per cento più basso che nel settembre 2011, con una contrazione media mensile dello 0,4 per cento. In valore si tratta di una riduzione di 74 miliardi di euro.
      La restrizione creditizia sta proseguendo. Tante imprese faticano a ottenere

 

Pag. 8

prestiti bancari: l'indagine ISTAT indica che a settembre l'11,4 per cento di quelle che ne hanno fatto richiesta non li hanno ricevuti, molto più del 6,9 per cento registrato nella prima metà del 2011. Altre imprese hanno rinunciato a domandare credito a fronte di costi troppo alti; la carenza di credito ostacola l'operatività di molte imprese, anche finanziariamente solide.
      Nel manifatturiero la disponibilità di liquidità resta molto ridotta rispetto alle esigenze e le aziende continuano a prevederla in calo, anche se c’è stato un miglioramento negli ultimi mesi, verosimilmente a seguito dell'immissione di liquidità derivante dal pagamento di oltre 11 miliardi di debiti commerciali della pubblica amministrazione.
      A leggere la legge di stabilità 2014, sembra che sia rientrato il divario nella crescita tra l'Italia ed i principali paesi europei. Una previsione davvero troppo ottimistica. Infatti, si prevede per il 2014 un incremento del Pil pari a quello medio europeo; su quali basi si fonda questa previsione non è dato saperlo. Da molti anni il Pil dell'Italia cresce meno di quello medio europeo, ormai stabilmente del meno 1 per cento. L'effetto cumulato è di 16 punti percentuali tra il 2003 e il 2013, con una brusca riduzione a partire dal 2007 di 8 punti percentuali. Per dare un ordine di grandezza della crisi nella crisi dell'Italia, possiamo dire che il nostro paese ha perso per strada qualcosa come 240 miliardi di euro di minore crescita rispetto all'Europa. Gli effetti sull'occupazione, sul tessuto produttivo, sulla dinamica della spesa in consumi, financo nella distribuzione del reddito, è quello di aver fatto retrocedere il tenore di vita degli italiani ai livelli del 1992.
      L'incauto ottimismo del governo ritorna nel delineare i valori dello spread. Nel Def si ipotizza uno spread bassissimo e si costruiscono le politiche economiche in conseguenza.
      Uno dei dati più importanti della nota di aggiornamento al Def 2013 riguarda gli interessi che dovremo pagare sul debito pubblico nei prossimi anni, ovvero lo spread. Ecco i valori dello spread contenuti nel Def: 200 punti nel 2014, 150 nel 2015 e 100 nel 2016 e 2017. Una visione a dire poco ottimista, considerato che da almeno tre anni tale indicatore è costantemente molto al di sopra dei 100 punti, con picchi oltre i 500 nel 2011 e 2012.
      Come sono state calcolate tali cifre? Non sono state calcolate. Nel Def si «ipotizza uno scenario», segnalando che l'intervento della Bce con l'acquisto di titoli di Stato ha permesso di ridurre lo spread. Rimane il fatto che la Bce non è intervenuta unicamente acquistando titoli di Stato dei paesi in difficoltà. Una grossa mano alla diminuzione dello spread è arrivata anche dal prestito (chiamato LTRO) da oltre 1.000 miliardi di euro erogato dalla Bce alle banche europee tra fine 2011 e inizio 2012. Quelle italiane hanno preso in prestito oltre 200 miliardi al 1 per cento – un tasso di fatto negativo se si tiene conto dell'inflazione – usandoli in buona parte per comprare titoli di Stato. Aumenta la domanda di titoli, cala lo spread.
      A fine 2011 gli istituti italiani detenevano 224,1 miliardi di euro di titoli di Stato. Meno di un anno dopo, a settembre del 2012, il totale era salito a 341,1 miliardi. Una boccata d'ossigeno per le banche che si indebitano al 1 per cento e usano questo denaro per acquistare Btp che rendono 5 o 6 volte di più. Non riapriamo qui il dibattito sul perché la Bce non possa finanziare direttamente gli Stati all'1 per cento. Rimane il fatto che il LTRO, il prestito triennale della banca centrale, scadrà tra fine 2014 e inizio 2015, il che significa che le banche italiane dovranno restituire circa 230 miliardi di euro alla Bce. A settembre 2013 ne erano stati rimborsati meno del 10 per cento.
      Cosa succederà tra un anno al nostro debito pubblico se le banche dovranno rivendere Bot e Btp per fare cassa e rimborsare i prestiti con la Bce? Quali effetti potrebbe avere per lo spread l'aumento dell'offerta di titoli di Stato sul mercato? E se al contrario le banche decidessero di non vendere titoli di Stato, quali potrebbero essere gli impatti sul
 

Pag. 9

nostro sistema produttivo, già oggi schiacciato dal credit crunch, ovvero dalla mancanza di accesso al credito?
      Oggi la speranza è «semplicemente» l'arrivo di un nuovo prestito in sostituzione di quello in scadenza.
      I conti pubblici hanno sofferto della contrazione del Pil, anche perché costretti ad assorbire una parte del debito privato legato alle operazioni spericolate delle banche. Tutta la crescita del debito pubblico europeo di questi ultimi 5 anni è debito privato cattivo mutualizzato dagli Stati. Nonostante la crescita del debito pubblico sia direttamente proporzionale alla ri-assicurazione del debito privato, la Commissione europea ha imposto delle misure di contenimento della spesa, quindi una riduzione della domanda aggregata, tale da aggravare la situazione economica e sociale dei paesi sottoposti a questi tagli delle spese e ulteriori forme di flessibilità del mercato.
      L'effetto è stato quello di comprimere la base imponibile, cioè il Pil, quindi di ridurre le entrate fiscali indipendentemente dall'aumento della pressione fiscale (accise, Iva, altro).
      Malgrado nell'area dell'euro l'economia sia tornata a crescere dopo sei trimestri di contrazione, tale andamento non coinvolge l'Italia che rimane in recessione, o per meglio dire, in una profonda depressione, come ha sottolineato il Centro Europa Ricerca nel suo Rapporto n. 2 del 2013.
      Il Pil italiano si ridurrà anche nel 2013, per il secondo anno consecutivo e per la quarta volta negli ultimi cinque anni e la riduzione interesserà anche i valori nominali, come già nel 2009 e nel 2012. Un simile periodo di contrazione della domanda aggregata e di contestuale perdita di capacità produttiva non ha paragoni nella storia della Repubblica italiana.
      Il periodo odierno non è confrontabile con gli episodi recessivi del 1975 e del 1993, né per profondità, né per durata. Oggi, sei anni dopo l'innesco della crisi, il Pil resta oltre otto punti e mezzo al di sotto dei valori di partenza. Con riferimento alla produzione industriale, attualmente essa ha toccato un primo «punto di cavo» nel 2009, scendendo di oltre il 22 per cento rispetto al livello pre-recessivo. L'anno in corso, coincide, dopo l'incompleto recupero del 2010-2011, con uno scivolamento su un nuovo valore di minimo (-23 per cento rispetto al 2007).
      Pochi dubbi si possono avere sul fatto che nel passato biennio, la politica di bilancio non abbia sostenuto la crescita, contribuendo all'approfondimento della recessione. A questo proposito è opportuno segnalare il recente rapporto del Fondo Monetario Internazionale (FMI) – Policy paper – che critica aspramente le politiche di austerità.

I tagli alla spesa pubblica.

      Le misure di contenimento della spesa pubblica adottate tra il 2011 e il 2012, pari a non meno di cento miliardi (governi Monti e Berlusconi), hanno dato il colpo di grazia al Paese. Spesso gli economisti utilizzano il rapporto spesa pubblica/Pil per registrare l'andamento della stessa spesa, pensiamo alla previdenza, alla sanità o alla scuola, ma la capacità di tenere invariato il rapporto nasconde, in realtà, un taglio delle prestazioni pari alla contrazione del Pil.
      Quando il Governo sostiene che la spesa pubblica per la sanità in rapporto al Pil è rimasta stabile, il governo conferma, dunque, i tagli alla spesa. Quindi dobbiamo aspettarci meno servizi, meno stato sociale, meno spesa in conto capitale, meno dipendenti pubblici, con l'effetto di ridurre la domanda aggregata.
      Sei milioni di pensionati, percettori di pensioni mensili lorde comprese tra i 1.500 ed i 2.500 euro, le vedranno rivalutate solo in parte. Infatti, nel solo 2014, la deindicizzazione (parziale per quelle superiori a 3 volte il minimo Inps, totale per quelle superiori a sei volte) vale 580 milioni, che diventano 1 miliardo e 380 milioni nel 2015 e 2 miliardi e 160 milioni nel 2016. Per un totale nel triennio pari a ben 4,1 miliardi. Questo «congelamento» comporterà una perdita secca nel triennio per i diretti interessati – secondo calcoli

 

Pag. 10

dello Spi-Cgil – fino a 615 euro. Il contributo di solidarietà sulle cd. «pensioni d'oro» vale quanto un elemosina: 21 milioni per ciascuno degli anni dal 2014 al 2016 e, ancora una volta, non è scritto in modo tale da non superare i rilievi di incostituzionalità che hanno portato la Corte costituzionale a cassare disposizioni di analogo tenore già per ben due volte.
      In ragione di questa crisi «fiscale» appare in-«comprensibile» la rinuncia del Governo di aumentare la tassazione sulle rendite finanziarie. Saccomanni non ne vuole sapere, come di qualsiasi revisione dell'imposta sulle transazioni finanziarie, introdotta l'anno scorso con la legge di stabilità del governo Monti e che è, in quella versione, una misura modestissima. Ci si è limitati ad alzare l'imposta di bollo (dall'1,5 al 2 per mille) sulle comunicazioni relative ai prodotti finanziari.
      Così facendo, più che rinunciare ad un'entrata aggiuntiva di 2,5 mld di euro, si rinuncia all'obiettivo di una riforma fiscale tesa a trovare un equilibrio superiore di equità tra tasse sui fattori di produzione, e le tasse sui fattori che poco hanno che fare con il lavoro e la produzione di beni e servizi. Una linea di politica economica che precipita nella nuova imposta Uic, che dovrebbe subentrare all'Imu e alla Tarsu.
      La nuova imposta cambia o allarga l'inciso, cioè non sarà solo il proprietario della casa a pagare l'imposta, ma concorreranno anche le famiglie che occupano la casa. Lo spostamento dell'imposta dai proprietari agli affittuari (famiglie) è il segno delle politiche del governo in tema di equità sociale.
      Alla fine, l'Italia sarà l'unico paese in Europa a non avere una imposta patrimoniale sulla proprietà. Di più: l'Italia è l'unico paese in Europa a non avere una tassa sul patrimonio.
      Queste disposizioni della legge di stabilità sono un insieme di misure eterogenee, in cui è difficile trovare il segno distintivo. Per questo la legge di stabilità è inutile, perché non sceglie né la distribuzione del reddito, né lo sviluppo, né il governo della spesa pubblica.
      Non solo. Con le misure restrittive sul pubblico impiego, le cessione di beni immobili e mobili dello stato, rinuncia al compito di guidare i processi di trasformazione dell'economia reale. A questo proposito, è bene non dimenticare il provvedimento denominato «Destinazione Italia» che lega le privatizzazioni agli investimenti diretti esteri, garantendo persino il loro ritorno economico.
      Prima di esaltare i magnifici risultati attesi dall'attuazione della spending review, occorrerebbe riflettere su quanto si afferma in un recente Working Paper pubblicato dal Fondo Monetario Internazionale con riferimento alle economie del G7: il moltiplicatore sul PIL dell'incremento della spesa è pari a 1,7, quindi è superiore al moltiplicatore relativo alla riduzione delle entrate, pari a 1,3.
      Le iniziative che il Governo intende perseguire al fine di risollevare la condizione economica delle imprese appaiono del tutto deludenti. Si doveva viceversa intervenire per aumentare in maniera reale il reddito disponibile delle persone, per restituire competitività alle imprese e mantenere la coesione sociale, per dare sostegno agli investimenti privati in ricerca e innovazione, con interventi semplici da gestire, il rilancio della domanda pubblica e privata di beni di investimento, con l'allentamento del patto di stabilità interno, il rinnovo degli incentivi all'edilizia, il sostegno alla liquidità del sistema e l'allentamento della morsa del credit crunch.

Il taglietto del cuneo fiscale.

      Il cuore economico e politico della Legge di Stabilità consiste nella riduzione del cuneo fiscale, cioè della differenza tra il costo che mediamente le imprese sostengono per ogni lavoratore e il salario netto che entra nelle tasche del lavoratore stesso. Una differenza dovuta, naturalmente, al peso di tasse e contributi che gravano sulle tasche degli imprenditori e dei lavoratori, e che in Italia è piuttosto elevato (secondo l'OCSE il cuneo assorbe il

 

Pag. 11

47,6 per cento del costo del lavoro, contro una media del 35,6 per cento dell'insieme dei paesi OCSE). La riduzione del cuneo fiscale nella misura in cui riduce il costo del lavoro per le imprese, determina una contrazione dei costi di produzione e quindi dei prezzi di vendita delle merci e dei servizi, facendo aumentare la competitività dell'industria nazionale. In questo modo, si rilanciano le esportazioni e si invogliano i consumatori a un maggiore acquisto di merci nazionali, e ciò porta a una riduzione delle importazioni. Dall'altro lato, nella misura in cui aumenta il reddito disponibile dei lavoratori, il taglio del cuneo fiscale determina una crescita della domanda di beni di consumo e ciò spinge le imprese ad aumentare la produzione e l'occupazione. Insomma, l'abbattimento del cuneo fiscale fa crescere la competitività e alimenta la domanda interna, tutte cose di cui abbiamo assoluto bisogno per riprendere la via dello sviluppo.
      Ma il beneficio in busta paga per un lavoratore dipendente è inferiore a 200 euro in un anno. Non si può certo definire utile una simile misura per far ripartire i consumi nel nostro paese. Non dobbiamo dimenticare che la stessa arriva dopo un biennio in cui le politiche di rigore hanno letteralmente stremato il sistema produttivo, fatto lievitare a dismisura il carico fiscale e calare vistosamente il livello della domanda interna.
      L'intervento dunque è solo teoricamente buono. Va chiarito, infatti, che l'intervento del governo – tra sgravi Irpef e Irap, e decontribuzioni Inail – taglia il cuneo di 10,6 miliardi nel triennio, appena 2,5 miliardi nel 2014. A ben vedere, si tratta di un intervento estremamente contenuto, che nel 2014 metterà nelle tasche di un lavoratore medio solo una manciata di euro al mese e ben poco respiro darà alle imprese che non vedranno variare significativamente il costo del lavoro per unità di prodotto. Considerata la sua entità, si tratta dunque di un intervento che avrà effetti limitatissimi e che avrebbe potuto cominciare ad avere un qualche rilievo solo se l'intero importo previsto nel triennio avesse riguardato il solo 2014.
      La manovra per il 2014, nel suo complesso, vale circa 15 miliardi. Le risorse provengono soprattutto da tagli di spesa pubblica, da dismissioni, da qualche maggiore entrata e dal solito blocco della contrattazione e del turnover nel pubblico impiego.
      Ma i tagli della spesa pubblica, gli aumenti delle tasse e la mannaia sui lavoratori pubblici portano con loro una minore domanda di merci e servizi proveniente direttamente o indirettamente dal settore pubblico e da quello privato, e questo azzera i già risicati effetti positivi dell'aumento del reddito disponibile delle famiglie assicurato dal taglio del cuneo. Se, infatti, il taglio del cuneo alimentava la domanda, tagli e tasse la riducono in misura maggiore. E se la domanda complessiva non torna a crescere non possiamo sperare che l'economia riparta. A riguardo è bene ricordare che dal 2002 al 2012 l'Italia ha registrato una dinamica della domanda interna complessivamente negativa (-1,6 per cento), contro valori significativamente in crescita nell'area euro (più 9 per cento) e soprattutto negli USA (più 15 per cento).
      In questo quadro risulta altrettanto risibile la previsione di una riduzione della pressione fiscale di un punto percentuale in tre anni, come è stato fatto osservare, giustamente, dalle stesse associazioni degli imprenditori, a maggior ragione se si considera che l'Iva è appena passata dal 21 al 22 per cento.
      Manca una politica concentrata sulla domanda di lavoro mentre si continua ad operare, e con misure minime, sull'offerta di lavoro. Invece di Piano del lavoro incentrato sul dissesto idrogeologico (per il quale si destinano 30 milioni!), la messa in sicurezza delle scuole, l'innovazione tecnologica, di 20-30 miliardi, si insiste sullo spot puramente pubblicitario della riduzione delle tasse sul lavoro.
      I moltiplicatori della riduzione fiscale risultano, inoltre, di per sé inferiori (più quelli su IRAP che su IRPEF) a quelli attivati con nuovi investimenti pubblici e
 

Pag. 12

attraverso la creazione diretta di lavoro. Allo stesso modo, i moltiplicatori fiscali (negativi) dei tagli di spesa agiscono più pesantemente degli aumenti della pressione fiscale. Questo significa che la retroazione recessiva dei tagli della spesa pubblica e dell'aumento iniquo delle tasse impedirà anche il raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica prefissati, continuando ad aumentare il debito pubblico.
      Secondo gli ultimi dati della Banca d'Italia, nel supplemento al Bollettino Statistico, a ottobre 2013 è stata raggiunta quota 2.085.321 milioni di euro, rispetto ai 2.068.722 milioni del mese precedente e ai 2.016.042 milioni di ottobre 2012.
      Il debito pubblico è in crescita di circa 95 miliardi dai 1.989,431 di dicembre 2012.
      La progressiva crescita dell'avanzo primario, peraltro, rappresenta una contrazione secca della domanda aggregata di circa quattro punti percentuali, quindi di PIL, sempre che vi sia una bilancia dei pagamenti in pareggio e un deflatore del valore aggiunto contenuto. Al contrario, paradossalmente, le risorse dell'avanzo primario (3 punti percentuali di PIL per il 2014) se spese tutte – in modo efficiente – come investimenti, consumi pubblici o reddito da lavoro pubblico, applicando il moltiplicatore «ufficiale» del FMI (1,5), produrrebbero come effetto macroeconomico quello di una domanda in crescita non inferiore a 4,5 punti di PIL. La simulazione, peraltro, mostra come l'effetto positivo non si esaurirebbe con la crescita del PIL: considerando anche le maggiori entrate fiscali a favore dello Stato, applicando l'aliquota media implicita del 37 per cento sui 4,5 punti di PIL, (che valgono 67,500 miliardi di euro correnti), si registrerebbero maggiori entrate tributarie pari a non meno di 25 miliardi di euro. In questo modo, tra l'altro, si raggiungerebbe un saldo prossimo a quello della Legge di Stabilità in discussione.
      In quest'ottica, la spesa destinata a sostegno dei fondi per il welfare e le politiche sociali rappresentano misure di buon senso, anche economico.
      Insomma, il ddl di Stabilità sembra bloccato dall'incapacità di scelte strategiche. Non si sceglie una vigorosa «spinta» per lo sviluppo, non si punta su una solida redistribuzione fiscale per sostenere la domanda e nemmeno si vede un vero impianto per il governo e la riqualificazione della spesa pubblica.
      Questo anche perché non viene programmato nemmeno l'utilizzo del margine esiguo di deficit spending (0,5 per cento al netto degli interessi per il 2014 e, forse, un altro 0,5 per cento alla fine del triennio) previsto dagli stessi vincoli europei.
      Come afferma il documento di sintesi (www.governo.it): «La manovra consente di raggiungere l'obiettivo di indebitamento netto indicato nella Nota di aggiornamento del DEF. Il disavanzo nel 2014 risulterà pari al 2,5 per cento del PIL, per effetto di misure di sostegno all'economia pari allo 0,2 per cento del prodotto. La Legge di Stabilità include inoltre una norma che definisce interventi strutturali dell'ordine di 3 miliardi l'anno nel triennio 2015-17 al fine di raggiungere i saldi programmati per il 2015, 2016 e 2017».
      Se, poi, come è probabile, non venisse raggiunto nemmeno l'obiettivo di crescita del PIL dell'1 per cento per il 2014, così come previsto dal Governo, quel margine di circa 8 miliardi di euro non ci sarebbe, dispiegando tutti gli effetti recessivi e depressivi della manovra.
      Le previsioni del Governo su PIL (presentate nella Nota di aggiornamento del DEF) a cui fa riferimento la manovra (+1 per cento nel 2014; +1,7 per cento nel 2015; +1,8 per cento nel 2016; +1,9 per cento nel 2017), appaiono irrealisticamente sovrastimate se confrontate anche con le previsioni di tutti gli istituti nazionali e internazionali. In altre parole, per effetto della Legge di Stabilità e della supposta congiuntura favorevole a livello internazionale si conterebbe una crescita mai registrata nei 15 anni precedenti. Forse questo contribuisce a spiegare perché il Governo, pur calcolando tale margine, non impegna le risorse.
      Al contrario, le previsioni sui tassi di interesse, pur contando una lieve flessione
 

Pag. 13

(dal 5,5 per cento del 2013 al 5,2 per cento del PIL nel 2017) condizionata all'ipotesi di contrazione dello spread, riportano una previsione di spesa effettiva per interessi, in valori assoluti, che probabilmente nasconde altri margini di spesa primaria (circa 1,7 miliardi di euro in termini reali come differenza fra il 2017 e il 2013), riprendendo così il trucco contabile già visto nelle previsioni del Governo Monti. E per la verità anche da altri governi. Ma attenzione: anche in questo caso, senza una crescita sostenuta la sovrastima del peso percentuale degli interessi sul PIL nei prossimi anni rischia di rappresentare la realtà.
      D'altra parte, con la Legge di Stabilità, stando alle dichiarazioni del Governo, la pressione fiscale dovrebbe ridursi dal 44,3 per cento del 2013 al 43,3 per cento del 2017, mentre in realtà, oggi, come certifica la Corte dei conti, la pressione fiscale è pari al 45 per cento. Eppure, tale riduzione della percentuale delle tasse costituirebbe solo il frutto di un aumento del PIL, che per le ragioni appena illustrate appare discutibile. La diminuzione della pressione fiscale totale, inoltre, non indica una diminuzione generalizzata delle tasse, che invece aumenterà proprio in modo iniquo e diffuso per via di una serie di provvedimenti, di cui i più rilevanti sono la riduzione degli oneri detraibili e la riorganizzazione della tassazione immobiliare (UIC), nonostante il contenuto aumento previsto delle detrazioni per lavoro dipendente e la riduzione del cuneo fiscale.
      Secondo Bankitalia, il fisco ha incassato 1,442 miliardi in meno nei primi 10 mesi dell'anno 2013. Il gettito gennaio-ottobre 2013 si e’ attestato a 307,8 miliardi contro i 309,3 miliardi dello stesso periodo del 2012 (-0,46 per cento).
      In ogni caso, nuovi margini fiscali sono possibili solo attraverso l'allargamento delle basi imponibili (evasione ed elusione fiscale, grandi patrimoni mobiliari e immobiliari, rendite finanziarie, transazioni speculative, ecc.). Lo stesso vale per la riqualificazione e la ricomposizione potenziali della spesa pubblica, anche in relazione alle stesse misure di politica industriale della Legge di Stabilità, che avrebbero potuto concentrarsi su specifici settori e attività economiche (es. fondo garanzia PMI) o rendere più selettivi alcuni benefici fiscali (es. ACE potenziata) in funzione di una maggiore intensità di contenuto innovativo, tecnologico e di conoscenza, oltre che di sostenibilità sociale e ambientale.

La trappola della clausola di salvaguardia.

      «La Legge di stabilità 2014 riduce sin dal 2014 la pressione fiscale su cittadini e imprese ed in totale scenderà dal 44.3 per cento al 43,8 per cento nel 2015 e al 43,3 per cento nel 2016.».
      Di più. Nonostante il Governo si sia prodigato fino ad oggi a comunicare, come un mantra, il mancato innalzamento delle tasse legato alla suddetta riduzione della pressione fiscale possibile grazie ad una ridefinizione della spesa pubblica, nella realtà molti, i sindacati in testa, hanno scoperto l'arcano che si cela nel testo e cioè l'insidiosa clausola di salvaguardia.
      Questa infatti come una spada di Damocle, minaccia il capo dei contribuenti poiché diventerebbe operativa, manco a dirlo, nel caso in cui non dovesse abbassarsi la spesa pubblica, evento, stando allo stato dei conti pubblici, praticamente quasi certo.
      Tax expenditures ( o «spese fiscali») è un termine che suona come un inglesismo tecnico, ma che è destinato a divenire protagonista nel dibattito politico ed economico italiano, con importanti ricadute sui contribuenti, trattandosi, molto più semplicemente di detrazioni o deduzioni all'Irpef oppure ad altre imposte tese, nella loro originaria concezione, a ridurre il carico fiscale su cittadini ed imprese.
      Negli ultimi anni sono tornate alla ribalta perché protagoniste di un progetto virtuoso, frutto dell'allora ministro Tremonti, e della sua creatività, quello di sfrondarle per ampliare la base imponibile e finanziare, attraverso il maggiore gettito che ne deriverebbe, la riduzione delle

 

Pag. 14

aliquote nominali d'imposta. La Commissione nominata dallo stesso Tremonti e presieduta da Vieri Ceriani, ne ha censito un elenco di più di 700 disposizioni normative, con un impatto sul Bilancio dello Stato pari a circa 253 miliardi, ovvero il 17 per cento circa del Pil italiano.
      Oggi, a crisi ancora imperante e con la continua contrazione di gettito, è facile capire come lo sfoltimento lineare delle detrazioni d'imposta finirebbe solo col fare cassa, e di conseguenza ad aumentare la pressione fiscale complessiva.
      Infatti, con la legge di stabilità per il 2014, ritorna di nuovo l'obiettivo del riordino mettendo nel mirino le sole detrazioni al 19 per cento, attraverso la previsione di una clausola di salvaguardia sapientemente e subdolamente inserita tra le disposizioni che stabilisce che se entro il 31 gennaio dello stesso anno non venisse attuata la razionalizzazione delle suddette spese fiscali, che dovrebbe garantire alla casse dello Stato un maggior gettito di 500 milioni di euro, è prevista la riduzione della percentuale di detraibilità per gli oneri attualmente detraibili al 19 per cento, che, con effetto retroattivo, scenderebbe al 18 per cento in sede di dichiarazione dei redditi riferibili al 2013, (in barba, quindi, ad ogni diritto sancito dallo Statuto dei contribuenti), ed al 17 per cento nel 2014.
      La riduzione di un punto percentuale dal 19 al 18 per cento determinerebbe un incremento di gettito di circa 300 milioni di euro (a fronte di un valore totale di tutte le detrazioni pari a circa 5,4 miliardi di euro). Questa misura, se attuata, penalizzerebbe di più le famiglie appartenenti ai decili intermedi, riducendo lo sgravio complessivo da 1,7 a 1,4 miliardi di euro. Le spese detraibili tendono ad aumentare all'aumentare del reddito, sia per quanto riguarda il loro ammontare, sia per quanto riguarda la quota di contribuenti interessati; tuttavia nei decili più elevati è più basso lo sgravio medio dovuto alla revisione della detrazione per lavoro.
      La galassia delle tax expenditures contempla voci di agevolazioni la cui quota maggiore, oltre che a favore delle imprese, si concentra su casa e famiglia, come le spese per mutui, per la sanità, per l'assegno di mantenimento, o per le erogazioni liberali, etc.
      Ma allora per concludere, cos'altro è la riduzione lineare delle detrazioni fiscali se non l'aumento della pressione fiscale?

Nessuna reale misura per lo sviluppo e il lavoro.

      Rimane l'errore economico di assegnare alla riduzione del cuneo fiscale (fatto in questa modo) le prospettive del rilancio economico.
      Le altre misure per lo sviluppo sono poi da cercare con il lanternino, almeno che non si creda che la «riduzione» del costo del lavoro, il «risparmio» di imposta pari a 5,6 mld di euro possano produrre un salto nei consumi delle famiglie e nella capacità di investimento delle imprese.
      Di politiche per il lavoro non c’è traccia (a parte le risorse – del tutto insufficienti – dovute per la cassa integrazione in deroga): anzi ce ne sono, ma con il segno negativo. Il blocco dei contratti dei dipendenti della Pubblica Amministrazione nel 2014 e del turn over fino al 2018 significherà da una parte una perdita netta di reddito di qualche punto di reddito per centinaia di migliaia di lavoratori e delle loro famiglie e dall'altra una diminuzione di efficienza della Pubblica Amministrazione e la perpetuazione di rapporti di lavoro precari e a tempo determinato.
      Di politiche industriali c’è pochissimo (la proroga di un anno del bonus edilizio ed energetico, che ancora non viene stabilizzato) mentre la spesa pubblica continua ad essere massacrata: ben 7-8 miliardi di tagli (in gran parte lineari) nel 2014, ancora tutti da verificare, ma almeno la sanità si è salvata (anche se solo per il 2014). Però di soldi pubblici se ne stanziano per le navi da guerra (ben 5 miliardi nei prossimi 15 anni) e per altri grandi opere (3 miliardi), tra cui i 400 milioni inutili al MOSE. Tra le entrate ci sono le dismissioni: nella legge di stabilità ce ne sono per 3,2 miliardi di euro, anche se la

 

Pag. 15

recente nota di aggiornamento del DEF ci dice che per i prossimi anni il governo prevede di ricavare ben 7,5 miliardi l'anno per abbattere il debito pubblico. Questo significa che dismetteremo o svenderemo una parte significativa del nostro patrimonio pubblico per fare cassa, salvo poi – come è successo in questi anni – pagare affitti capestro (per gli uffici ministeriali e della pubblica amministrazione) per gli stessi immobili appena venduti.
      Forse qualcosa di positivo possiamo trovarla nella legge di stabilità: il nuovo ciclo di programmazione dei Fondi Comunitari e nazionali (2014-20) fornirà al paese 110 mld di euro da spendere in questi 7 anni. La Commissione Europea ha posto un vincolo macroeconomico di struttura, cioè gli aiuti europei devono agire sulla bassa specializzazione delle imprese italiane e, per questa via, competere con le altre imprese europee.
      Speriamo che almeno questa buona politica possa trovare un qualche spazio.
      All'interno della legge di stabilità ci sono alcune altre (ridottissime) misure di buon senso anche se con importi inferiori a quelli stanziati dalla legge di stabilità 2013: 300 mln per il fondo delle politiche sociali (2013: 344 mln); 250 mln per la non autosufficienza (2013: 275 mln); 100 mln per i lavori socialmente utili; la crescita delle spese in conto capitale per 3,1 mld di euro, ancorché per misure non sempre condivisibili; l'allentamento del patto di stabilità interno di 1 mld di euro per i Comuni, a cui deve essere aggiunta una somma di 500 mln per il pagamento di fatture pregresse.
      Ma all'interno delle misure adottate nella legge di stabilità, si cela sempre la stessa voglia di colpire le spese pubbliche: la riduzione degli incentivi alle imprese, meno 210 mln, è in realtà un taglio ai servizi pubblici. Infatti, 152 mln interessano il fondo nazionale per coprire i disavanzi del Trasporto pubblico locale e delle Fs. Cosa si deve tagliare è sempre molto chiaro. Inoltre, l'assenza del taglio di 2,6 mld di euro della sanità, inizialmente previsto, è solo rimandato. Infatti nel 2015 e nel 2016 sono previsti tagli per rispettivamente 540 milioni e 610 milioni di euro.
      I Comuni potranno dal prossimo anno usufruire da una parte dello sblocco assai parziale del patto di stabilità interno e dall'altro potranno usufruire della Uic – la «continuazione dell'IMU con altri mezzi» – che però porterà meno soldi alle amministrazioni comunali dell'IMU ed oltre ai proprietari colpirà anche gli inquilini in affitto.
      I soldi per la cassa integrazione in deroga non bastano, i portatori di gravi menomazioni vedranno ridotti gli ausili, e così via.
      La spending review si farà carico della programmazione del taglio al termine del suo lavoro. Ma sulla spending review occorre uscire dai luoghi comuni. Un conto è armonizzare la spesa pubblica via costi standard, un altro conto è aggredire la formazione della spesa pubblica.
      Oggi nel bilancio dello stato, ma non solo in quello dello stato, ci sono delle poste di spesa che hanno poco a che fare con i costi standard; una parte non trascurabile della spesa pubblica, si pensi alla Tav, agli F35 ed altre opere simili, è soggetta a contratti (privatistici) stipulati dalla pubblica amministrazione. Se non realizzi il progetto, giustamente, si paga una penale.
      La spending review ha senso nella misura in cui aggredisce la formazione della spesa. Si tratta di rivedere le clausole, le tipologie e le modalità dei contratti e delle procedure degli appalti. Una operazione complicata, ma eviterebbe di aggredire la spesa pubblica che sostiene lo stato sociale in senso generale e, probabilmente, migliorerebbe la spesa pubblica in senso generale.
      Magari si potrebbe costituire una Commissione Parlamentare, affiancata da esperti e dalla Corte dei Conti, senza lasciare a fantomatici «nominati» la scelta della selezione della spesa da tagliare.
      Ci sono poi delle partite di giro come quella del trasferimento alla Cassa Depositi e Prestiti di una parte del demanio pubblico (525 mln per il 2013 e 1,5 mld per gli anni successivi). Sono entrate fittizie
 

Pag. 16

che poco hanno a che fare con una sana politica pubblica.
      Tutto ciò conferma che l'obbiettivo vero della legge di stabilità non è la crescita, ma il rispetto dei vincoli previsti nel Patto di Stabilità e «Crescita», come afferma il documento di sintesi: «La manovra consente di raggiungere l'obiettivo di indebitamento netto indicato nella Nota di aggiornamento del DEF. Il disavanzo nel 2014 risulterà pari al 2,5 per cento del PIL, per effetto di misure di sostegno all'economia pari allo 0,2 per cento del prodotto. La Legge di Stabilità include inoltre una norma che definisce interventi strutturali dell'ordine di 3 miliardi l'anno nel triennio 2015-17 al fine di raggiungere il saldo programmato per il 2015, 2016 e 2017 (rispettivamente 1,6 per cento, 0,8 per cento e 0,1 per cento del PIL)».
      Anche a seguito di questi vincoli di austerità, con la depressione in ambito europeo, il nostro paese ha perso 7 punti percentuali di reddito prodotto dal 2008, ed altri 2 circa ne perderà quest'anno, per un totale di 9. Ciononostante il governo Letta, in continuità piena con il governo Monti, rimane «fedele alla linea»: contenimento della spesa pubblica, regressività nella imposizione fiscale, azioni per la crescita scarse e poco efficaci. Gli effetti della legge di stabilità sono risibili sulla crescita. Come volevasi dimostrare, lo afferma lo stesso governo: la legge di stabilità stabilizza l'austerità e con essa la depressione.

Una manovra economica a sovranità limitata.

      Lo scopo principale della manovra è restare dentro i tanto discussi vincoli europei, e in particolare tenere il deficit pubblico (la differenza annua tra uscite ed entrate pubbliche) entro il limite del 3 per cento del Pil. In Europa sono in atto processi cumulativi di divergenza territoriale alimentati dalle politiche di austerità. Questi processi portano a una divaricazione drammatica tra aree centrali in crescita (in primis, la Germania) e aree periferiche in declino (l'Italia e gli altri Piigs).
      I veri vincoli ad adottare politiche fiscali espansive vengono non solo dall'Europa ma anche dalla Costituzione (il nuovo articolo 81) dove abbiamo voluto (Governo Berlusconi, ma con l'appoggio anche del PD) inserire il criterio del pareggio strutturale di bilancio. Per questo la Legge di stabilità contiene il disavanzo nel 2014 al 2,5 per cento, quando l'Europa ci chiederebbe solo di stare sotto al 3 per cento. Così la manovra perde 8 miliardi che potevano essere destinati alla riduzione del cuneo fiscale. Rimarremo uno dei paesi Ocse in cui le tasse su chi lavora e ha figli sono più alte.

La politica europea del Governo Letta.

      Nel momento del suo insediamento, il governo Letta dichiarava che il suo successo lo avrebbe realizzato sul terreno europeo, perché è solo in ambito europeo che è possibile una uscita dalla crisi e l'avvio di una ripresa economica. Ora, dopo sei mesi di governo, Letta sembra ripiegare sulle riforme strutturali, che rimane il mantra delle politiche di austerità espansiva, con l'assicurazione che ciò avverrà nel rispetto della neutralità del bilancio pubblico, in altri termini con il bilancio in pareggio.
      Se questo è l'approccio che Letta adotterà nella sua futura presidenza del Consiglio Europeo dal giugno al dicembre 2014, non dovremo attenderci grandi svolte nella politica dell'austerità espansiva, e vedremo i singoli stati lasciati a dibattersi con i loro vincoli di bilancio.
      L'idea che con le politiche di austerità si contrasti la «dissolutezza fiscale» delle economie periferiche e che con le riforme strutturali si migliorino i fondamentali e si pongano le basi della ripresa successiva appare grandemente infondata. I sacrifici

 

Pag. 17

a breve termine dell'austerità e della recessione pregiudicano in verità i benefici di lungo termine del miglioramento della competitività e delle esportazioni, e compromettono la convergenza verso i paesi virtuosi.
      La crisi economica in Europa continua a distruggere posti di lavoro. Alla fine del 2013 i disoccupati saranno 19 milioni nella sola zona euro, oltre 7 milioni in più rispetto al 2008: un incremento che non ha precedenti dal secondo dopoguerra e che proseguirà anche nel 2014. La crisi occupazionale affligge soprattutto i paesi periferici dell'Unione monetaria europea, dove si verifica anche un aumento eccezionale delle sofferenze bancarie e dei fallimenti aziendali. La Germania e gli altri paesi centrali dell'eurozona hanno invece visto crescere i livelli di occupazione. Il carattere asimmetrico della crisi è una delle cause dell'attuale stallo politico europeo.
      È ormai acclarato – e a questo riguardo si rinvia al «monito degli economisti» pubblicato dal Financial Times – che in Europa sono in atto processi cumulativi di divergenza territoriale alimentati dalle politiche di austerità.
      Questi processi portano a una divaricazione drammatica tra aree centrali in crescita (in primis, la Germania) e aree periferiche in declino (l'Italia e gli altri Piigs). Ebbene, qualunque manovra anche piena di buone intenzioni ma che si muova dentro la cornice attuale dei vincoli non può riuscire a invertire i processi di divergenza in atto, e quindi a metterci al passo delle aree centrali d'Europa. Con la certezza che presto o tardi, in assenza di un cambiamento delle politiche europee, il gioco dell'euro salterà.
      Come ormai rileva anche il Fondo Monetario Internazionale, oggi sappiamo che in realtà le politiche di austerity hanno accentuato la crisi, provocando un tracollo dei redditi superiore alle attese prevalenti. Una stretta violenta su entrata e spesa, che affonda le spese pubbliche d'investimento e comunque produttive, ha effetti depressivi sia sul breve che sul medio termine. È da considerare più efficace un percorso di stabilizzazione del debito più selettivo, stabile e controllato. Il Trattato di Lisbona non ha funzionato perché rimaneva l'asimmetria tra controllo della moneta ed il vuoto delle politiche fiscali, bancarie e di bilancio comunitario.
      Le politiche deflattive praticate in Germania (tra il 2000 e il 2010 in Germania la crescita dei salari nominali è stata del 15 per cento inferiore rispetto alla crescita salariale media dell'eurozona) e altrove per accrescere l'avanzo commerciale hanno contribuito per anni, assieme ad altri fattori, all'accumulo di enormi squilibri nei rapporti di debito e credito tra i paesi della zona euro. Il riassorbimento di tali squilibri richiederebbe un'azione coordinata da parte di tutti i membri dell'Unione. Pensare che i soli paesi periferici debbano farsi carico del problema significa pretendere da questi una caduta dei salari e dei prezzi di tale portata da determinare un crollo ancora più accentuato dei redditi e una violenta deflazione da debiti, con il rischio concreto di nuove crisi bancarie e di una desertificazione produttiva di intere regioni europee.
      Occorre esser consapevoli che proseguendo con le politiche di «austerità» e affidando il riequilibrio alle sole «riforme strutturali», il destino dell'euro sarà segnato: l'esperienza della moneta unica si esaurirà, con ripercussioni sulla tenuta del mercato unico europeo. In assenza di condizioni per una riforma del sistema finanziario e della politica monetaria e fiscale che dia vita a un piano di rilancio degli investimenti pubblici e privati, contrasti le sperequazioni tra i redditi e tra i territori e risollevi l'occupazione nelle periferie dell'Unione, ai decisori politici non resterà altro che una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall'euro.
      È alquanto preoccupante che, nelle discussione preparatorie del Consiglio Europeo del 24-25 ottobre, i rappresentanti di alcuni Stati membri abbiano proposto, per un verso, di attuare un coordinamento rafforzato delle politiche relative ai mercati
 

Pag. 18

del lavoro e dei prodotti e all'efficienza della pubblica amministrazione e, per altro verso, abbiano sottolineato che la dimensione sociale non dovrebbe distrarre i Governi degli Stati membri dall'esigenza di affrontare e risolvere i propri problemi strutturali.
      Questa posizione – che il Governo dovrebbe stigmatizzare e contrastare con forza – sembra volta a riaffermare un approccio basato sulla mera stabilizzazione delle finanze pubbliche e dei mercati finanziari, i cui effetti fallimentari sono evidenti.
      Sono sempre più frequenti i riferimenti ad una richiesta proprio dalla Germania di accelerare sul fronte dei cosiddetti «contractual arrangements» ovvero degli accordi contrattuali che dovrebbero limitare ulteriormente la flessibilità dell'ultimo strumento di politica economica che i singoli Stati hanno ancora a disposizione, quello della politica fiscale, per fronteggiare una recessione che rischia di far esplodere tensioni sociali ed economiche insostenibili, mettendo a repentaglio la permanenza nell'area euro e dunque il progetto europeo.
      È importante che il Governo italiano ponga senza indugi il veto a qualsiasi proposta di ulteriore riduzione dell'autonomia fiscale dei singoli Paesi Stati membri dell'area euro.
      Dobbiamo registrare, invece, la falsa disubbidienza di Letta e Saccomanni rispetto a Bruxelles.
      Dopo che la Commissione europea ha espresso la sua preoccupazione sul progetto di bilancio invitando le autorità italiane «a prendere le misure necessarie» per assicurare che la Finanziaria per il 2014 rispetti le norme del Patto di stabilità e crescita relative alla diminuzione del debito pubblico, Letta rispose affermando che «di troppa austerità si muore». Ma neanche una settimana dopo ha presentato un nuovo Programma per la revisione della spesa: infatti, la legge di stabilità, sanciva che «nessun risparmio» è previsto per il 2014 mentre negli anni successivi i risparmi erano pari a 3,6 miliardi nel 2015, 8,3 miliardi nel 2016 e 11,3 miliardi a decorrere dal 2017.
      Adesso il Programma della spending review arriva a quota 32 miliardi nel solo triennio 2014-2016 (prima erano previsti 11,9 miliardi); ed inoltre si prevede un piano di privatizzazioni di 12 miliardi.
      È importante ricordare che per la prima volta, dalla nascita dell'Europa di Maastricht, il progetto di legge di stabilità sarà prima vagliato dalla Commissione europea, che potrà imporre correttivi e comminare sanzioni in caso di inadempienza, e poi discusso ed approvato dal Parlamento.
      Con l'entrata in vigore del cosiddetto «two-pack», il pacchetto di due regolamenti approvato dal parlamento di Strasburgo nel maggio scorso, si è infatti chiuso il cerchio in tema di «sorveglianza» europea sui bilanci dei paesi dell'Eurozona, con tutto quello che ciò comporta per la «sovranità» e l'autonomia politica degli stessi.
      Dentro un meccanismo così congegnato la funzione dei parlamenti nazionali è quasi del tutto esautorata: le forze politiche parlamentari non avranno grandi margini di manovra per modificare l'impianto e la filosofia del documento di bilancio se alla Commissione europea è stato riconosciuto un sostanziale diritto di veto sui bilanci nazionali.
      La legge di stabilità ed i provvedimenti collegati a differenza che nel passato, sono in primo luogo manovre contabili atte a correggere l'andamento dei conti pubblici, e solo secondariamente strumenti attraverso cui incidere sui processi economici e sociali.
      In Europa c’è un problema di risorse insufficienti, e c’è un problema di democrazia. La linea dell'austerità, combinata con l'esautoramento della democrazia, sta arrecando danni gravissimi alle nostre società, dove crescono disagio sociale e sfiducia nelle istituzioni. Gli unici che finora sembrano guadagnarci da questa situazione sono, su un versante, banche speculatori, sull'altro versante populisti e demagoghi.
 

Pag. 19

Una politica per il lavoro inesistente(1) e penalizzante per il pubblico impiego.

    (1) Vedi audizione della CGIL presso le Commissioni Bilancio di Camera e Senato.

      Data per buona l'intenzione di rilancio di consumi e investimenti, le risorse destinate all'aumento delle detrazioni IRPEF per i lavoratori dipendenti e al taglio del cosiddetto cuneo fiscale (in tutto 10,6 miliardi di euro in tre anni) non possono sortire gli effetti economici desiderati.
      L'aumento relativo del reddito disponibile nelle famiglie di lavoratori – e qui pesa significativamente l'esclusione dei pensionati, oltre 11 milioni di contribuenti IRPEF – non può portare a un forte aumento dei consumi sui prodotti interni (con un ulteriore «effetto di sostituzione» e minori importazioni); mentre il minor costo del lavoro per unità di prodotto potrebbe garantire una maggiore competitività delle nostre produzioni e il rilancio delle esportazioni prevalentemente per le imprese non in crisi, con produzioni ed esportazioni già competitive. Le potenziali nuove assunzioni a tempo indeterminato, per effetto della mirata deducibilità IRAP, potrebbero aumentare monte salari e domanda interna, anche se – in assenza di nuovi investimenti e nuova accumulazione di capitale – i posti di lavoro a disposizione sono esigui e si contano solo tra i «posti vacanti», cioè sull'incontro domanda/offerta, spostando in misura irrilevante il tasso di disoccupazione (-0,1 per cento nel tasso generale e -0,6 per cento in quello giovanile per circa 10mila nuovi occupati).
      In tal senso, la speranza di nuovi investimenti (in quantità e qualità) va riposta sui fondi comunitari, che per l'Italia tra diverse poste valgono 110 miliardi di euro (di cui 54,8 miliardi previsti per il Fondo Sviluppo e coesione) nel periodo 2014-2020. La Commissione europea pone dei vincoli macroeconomici, intesi come crescita della specializzazione produttiva verso settori ad alto contenuto tecnologico e di conoscenza, che possono rilanciare la crescita, così come evidenziato anche dal piano nazionale. Sin da ora si dovrebbe, però, cogliere la questione sollevata dalla Commissione europea orientando il rafforzamento delle imprese in tale direzione, magari non attraverso politiche, trasferimenti o incentivi tradizionali, che hanno dimostrato di non portare ad un apprezzabile aumento dell'occupazione stabile.
      Anche laddove avessero pieno utilizzo i Contratti di sviluppo, i fondi europei, gli sgravi fiscali, l'allentamento del Patto di stabilità interno e le altre leve di politica industriale previste in manovra, i moltiplicatori degli investimenti verrebbero ridimensionati dalla citata contrazione della domanda pubblica, peraltro in continua flessione dal 2008 e diminuita nel 2011 e nel 2012 persino in termini nominali, cosa che non accadeva da 60 anni.
      Nella Legge di stabilità le norme sul pubblico impiego valgono circa 1,5 miliardi (2). Misure ormai abusate, come blocco del turn over e della contrattazione, permettono di contenere la spesa; mancano però gli interventi per una maggiore efficienza del lavoro, a partire dall'abbandono di una politica di tagli lineari nelle pubbliche amministrazioni.

    (2) Vedi articolo di Luigi Oliveri su Lavoce.info.

      Il giudizio di scarsa incisività attribuibile in generale al disegno di Legge di stabilità per il 2014 vale in modo particolare per uno dei suoi capisaldi, l'intervento dedicato al contenimento della spesa del personale pubblico.
      Complessivamente, il valore delle norme relative al pubblico impiego è stimato in circa 1,5 miliardi. Se l'intento della Legge di stabilità non era solo il contenimento della spesa, ma anche il tentativo di rilanciare produttività e capacità di sostenere sviluppo ed economia mediante la maggiore efficienza del lavoro pubblico, i risultati sono molto diversi.
      Il disegno di legge, infatti, sembra caratterizzato da un atteggiamento di difensiva. Il Governo si è ben guardato dall'immaginare strumenti di innovazione organizzativa e ha finito per toccare tasti e leve ormai abusati, per altro incorrendo in non

 

Pag. 20

poche contraddizioni con norme approvate solo negli ultimi mesi e con altre previsioni ordinamentali.
      Si pensi all'immancabile inasprimento delle regole di copertura del turn over del personale cessato. La possibilità di coprire il 100 per cento delle cessazioni nelle amministrazioni statali è rinviata al 2018, per il 2014 e 2015 si potrà sostituire solo il 50 per cento dei dipendenti cessati dal servizio.
      Il blocco del turn over si è rivelato uno strumento essenziale per far scendere il numero dei dipendenti pubblici (e dunque la spesa) nel corso degli ultimi dieci anni, per circa 300 mila unità, senza giungere ai licenziamenti di massa. Ma limitare le assunzioni impedirà di attuare il per altro criticabile disegno di stabilizzare i precari, per i quali gli spazi di ingresso nei ruoli si riducono drasticamente. Ulteriore conferma che il Governo agisce più per dare «segnali mediatici», che non attraverso interventi sostanziali.
      Una prova si è avuto con il decreto per la Pubblica amministrazione (DL n. 101/2013) che era stato reclamizzato come la soluzione al precariato nel pubblico impiego e che invece ha ripiegato su soluzioni normative che determineranno la stabilizzazione di un numero ridotto di persone e, soprattutto, lasciando fuori dalla stabilizzazione le tipologie contrattuali diverse dal contratto a tempo determinato, indipendentemente dalla verifica della rilevanza della specializzazione del personale impiegato o delle motivazioni che hanno portato la P.A. a scegliere una tipologia di contratto al posto di un'altra, spesso dovuta a obblighi o impedimenti normativi.
      Va sottolineato che il sostanziale blocco del turn over ha anche determinato una forte riduzione del ricambio generazionale che incide molto in tutti i settori della P.A., ma in particolare in quelli della conoscenza e della ricerca.
      Più «di sostanza» è la conferma del blocco della contrattazione collettiva fino al 31 dicembre 2014. Secondo l'Aran, la misura, cumulando gli anni di congelamento dei contratti (dal 2010 al 2014), ha determinato un mancato incremento delle spese dedicate al personale pubblico di circa 11 miliardi.
      Anche su questo versante, tuttavia, non mancano le contraddizioni. Da un lato, non è certo possibile far passare una mancata maggiore spesa per un taglio. Si tratta più che altro di una misura di «manutenzione», che corregge il tiro e le conseguenze della poco ponderata «privatizzazione» del lavoro pubblico pensata nel 1998, e che tra il 2001 e il 2011 con i contratti collettivi ha fatto crescere la spesa per il lavoro pubblico di 40 miliardi.
      Dall'altro lato, il disegno di legge conferma il taglio dai fondi della contrattazione decentrata di somme proporzionate al costo del personale che nel frattempo cessa dal servizio. Evitare una crescita del costo del lavoro pubblico incompatibile con la situazione finanziaria è corretto. Ma, imboccata la strada della riduzione del numero dei dipendenti e del blocco dei fondi, poteva considerarsi coerente tenere congelato anche l'importo dei fondi decentrati, senza ridurli in proporzione al costo delle cessazioni.
      Da un lato, infatti, i risparmi conseguiti sono poca cosa rispetto all'effetto del blocco della contrattazione nazionale collettiva. Dall'altro, il leggero aumento delle «fette» di torta per il personale in servizio potrebbe in parte compensare le conseguenze sui carichi di lavoro, che derivano proprio dal costante calo del numero dei dipendenti. Poco più di un segnale, che però potrebbe essere utile anche per evitare il muro contro muro che i sindacati sono tentati di attivare proprio sulle misure sul pubblico impiego.
      Misura ormai abituale è anche la dilazione e il ritardo nei pagamenti delle liquidazioni ai dipendenti pubblici che cessano dal servizio. È evidente che per lo Stato si tratta di un modo per contenere i pagamenti, puntando sulla loro diluizione nel tempo. La cosa curiosa è che da anni una serie di norme, da ultimo tutta la disciplina anticorruzione e trasparenza, insistono per la velocizzazione dei tempi di conclusione dei procedimenti amministrativi. Invece, per la restituzione di salario
 

Pag. 21

differito, denari che quindi sono già dei lavoratori, nel caso di liquidazioni oltre i 50mila euro si passerà dai sei mesi di ritardo a una dilazione di dodici mesi, in due tranche. Non un bellissimo segnale dello stato di salute delle finanze e dell'organizzazione pubblica.
      Sulla reale efficacia, poi, della volontà di porre un tetto alle retribuzioni dei vertici amministrativi e burocratici, parificato alla retribuzione del primo presidente della Corte di Cassazione, meglio non sbilanciarsi troppo. Il disegno di legge, infatti, rinvia a successivi decreti attuativi, che disciplineranno destinatari e modalità. La politica del decidere di decidere in futuro attraverso l'adozione di fonti normative secondarie (decreti, regolamenti, etc.) anche quando non sarebbe necessario, è diventata una cifra caratteristica di questo Governo: basti pensare che il solo decreto legge scuola (DL n. 104/2013) prevede l'emanazione di decine di decreti attuativi, che rinviano, spesso sine die, il momento in cui le disposizioni verranno attuate.
      Decisiva sembra la scelta di considerare il tetto onnicomprensivo di tutti gli incarichi che, anche cumulati, non potranno dunque superare la soglia dei 300mila euro circa previsti appunto per il primo presidente della Cassazione.

Nessuna soluzione definitiva sugli esodati, poche le risorse per gli ammortizzatori sociali.

      La legge di stabilità non prevede nessun avanzamento per la soluzione del problema dei lavoratori cosiddetti «esodati». Riteniamo invece che il problema dei lavoratori «esodati» vada risolto in maniera strutturale con una norma di principio che riconosca il diritto di tutti alla pensione e, in tal senso, abbiamo proposto una soluzione generale che potesse coprire l'intera platea dei 390 mila lavoratori indicati dall'INPS (anche se su tale numero non vi è certezza).
      Viene incrementato di 20.000 unità il contingente numerico dei prosecutori volontari da salvaguardare previsto dal decreto interministeriale del 22 aprile 2013 (attuativo dell'articolo 1, commi 231 e 232 della legge di stabilità 2013).
      Il numero dei prosecutori volontari passa quindi da 1.590 a 7.590. La norma è minimale e sicuramente non risolve l'emergenza sociale della vasta platea dei lavoratori cosiddetti «esodati». Nonostante una certa enfasi attribuita all'incremento del contingente numerico della platea dei lavoratori salvaguardati l'analisi di dettaglio del testo della relazione tecnica della legge di stabilità nella versione del Governo (AC 1865) evidenzia che, nei fatti, non c’è alcun allargamento. Ci si è limitati a dare attuazione a una «interpretazione estensiva» della disposizione esplicitata in sede di decreto attuativo, sulla base degli stessi elementi amministrativi. Ciò è evidente anche dall'impatto minimo in termini d'incremento della spesa pensionistica e dal fatto che la misura non produce alcun maggior onere per il bilancio dello Stato, intervenendo esclusivamente sui saldi delle gestione pensionistica. Nella stessa relazione tecnica si mette in evidenza che, comunque, gli oneri a carico della gestione pensionistica non sono significativi in considerazione del fatto che si è ridotto il potenziale beneficio per il ritardato intervento della salvaguardia.
      Si sono poi aggiunti con un emendamento approvato dalla Commissione Bilancio della Camera circa 17.000 lavoratori ma nel limite di una spesa di 950 milioni di euro da qui al 2020.
      Abbiamo chiesto, dunque, che chiunque, per qualunque ragione, entro il 31 dicembre 2011 abbia perso il posto di lavoro, oppure abbia sottoscritto accordi che avevano come sbocco il licenziamento futuro, possa andare in pensione con i vecchi criteri, se i requisiti pensionistici saranno maturati entro il 31 dicembre 2018. In tal modo si intende sopperire all'assenza nella riforma della previdenza di disposizioni transitorie.
      La grande questione sociale apertasi con i lavoratori cosiddetti «esodati» potrebbe essere risolata utilizzando i maggiori risparmi derivanti dalla «manovra»/

 

Pag. 22

riforma delle pensioni Fornero rispetto a quelli messi a bilancio al momento dell'approvazione del decreto legge 201/2011 se solo ci fosse la volontà politica.
      La relazione tecnica al decreto legge 201 del 2011 indicava infatti risparmi per 22 miliardi circa nel periodo 2012/2021.
      Il Rapporto dell'area attuariale dell'INPS del giugno 2013 indica risparmi, conseguenti alla controriforma Fornero, pari a 80 miliardi nel periodo 2012/2012, già tenuto conto dei costi delle salvaguardie fino ad ora operate.
      Rimane da risolvere, tra gli altri, il problema conosciuto come «quota 96» dei lavoratori della scuola penalizzati dalla riforma «Fornero» che ha posticipato i termini per il pensionamento non tenendo conto del fatto che il comparto scuola segue una periodicità diversa rispetto a tutti gli altri settori, operando sulla base dell'anno scolastico e non di quello solare, quindi terminando il 31 agosto di ogni anno e non il 31 dicembre. Ad oggi qualsiasi soluzione è stata esclusa, prima dal decreto sull'istruzione e poi da quello sulla P.A., per la mancanza di coperture.
      Si segnala che il medesimo Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha trasmesso uno studio del Coordinamento statistico-attuariale dell'INPS, che valuta una platea di circa 9.000 soggetti beneficiari, da cui consegue un onere complessivo, per anticipo dell'erogazione dei trattamenti di pensione e di fine servizio, valutato in 78 milioni di euro nel 2013, 236 milioni nel 2014, 844 milioni nel 2015, 163 milioni nel 2016 e 115 milioni nel 2017.
      Una seconda nota tecnica del MEF del 29 novembre 2013, invece, fa riferimento ad un contingente numerico di 4.000 beneficiari e valuta per oneri INPS per l'anticipo dell'erogazione dei trattamenti di pensione in 35 milioni di euro nel 2014, 105 milioni di euro nel 2015, 101 milioni di euro nel 2016, 94 milioni di euro nel 2017 e 81 milioni nel 2018.
      Occorreva, inoltre, rimediare ad un errore commesso ai danni dei macchinisti, del personale viaggiante e di manovra delle imprese ferroviarie ad opera della riforma Fornero delle pensioni contenuta nel decreto legge 201 del 2011. L'articolo 24, comma 18, di tale decreto mentre ha disposto l'armonizzazione delle regole previdenziali per il settore della pubblica sicurezza e delle forze armate e dello spettacolo, ha determinato che al personale delle imprese ferroviarie si applicasse per intero la riforma Fornero. Il tutto a causa di un errore consistente nell'uso della parola «articolo», anziché «comma», che avrebbe consentito di applicare anche a loro l'armonizzazione.
      La situazione che si è venuta a creare è particolarmente dura, perché va a sommarsi a una coincidenza infelice accaduta pochi mesi prima: negli stessi giorni, il taglia leggi aveva disposto l'abrogazione di norme degli anni 50 che regolavano la previdenza del predetto personale, mentre il decreto legislativo in materia di lavori usuranti, lasciava fuori i lavoratori delle imprese ferroviarie sul presupposto che c'erano le norme speciali previste dalla legge degli anni 50. Ne è venuto fuori un pasticcio, a spese di macchinisti, personale viaggiante e di manovra, che ha visto aumentare di molti anni l'età anagrafica per andare in pensione. Si pensi che l'aspettativa di vita dei macchinisti è di 64,5 anni (rispetto ad una media nazionale di 82 anni), ma dovrebbero andare in pensione a 67!
      Abbiamo chiesto che si applichi l'armonizzazione dei requisiti di accesso al sistema pensionistico, tenendo conto delle obiettive peculiarità ed esigenze dei settori di attività, anche ai lavoratori iscritti al fondo speciale istituito presso l'INPS, ai sensi dell'articolo 43 della legge 23 dicembre 1999, n. 488, tra cui macchinisti personale viaggiante e di manovra. È importante che per l'armonizzazione sia previsto un termine di adozione del Regolamento, per evitare che il Governo lo rimandi sine die.

Il rifinanziamento degli ammortizzatori in deroga.

      Si prevede il rifinanziamento degli ammortizzatori sociali in deroga per 600 milioni di euro. Lo stanziamento si somma

 

Pag. 23

ai 1.000 milioni di euro già previsti dall'articolo 2 comma 65 della 92/2012, per un totale quindi per il 2014 di 1.600 milioni di euro e non di 2.000 milioni di euro come indicato dal Governo nella presentazione della Legge di Stabilità. Si prevede anche il finanziamento per 40 milioni di euro dei contratti di solidarietà (articolo 5, commi 5 e 8, legge 236/1993) e del finanziamento della proroga del trattamento di cassa integrazione straordinaria per cessazione attività per 50 milioni di euro.
      Per gli ammortizzatori le risorse sono insufficienti a coprire il fabbisogno stimato per il 2014.
      Considerato che è necessario privilegiare il ricorso ai contratti di solidarietà per la gestione delle situazioni di crisi aziendali lo stanziamento per le tipologie di cui alla Legge n. 236/1993 è insufficiente, inferiore a quanto complessivamente stanziato per il 2013 (57,5 milioni di euro).
      Grave l'assenza della previsione di finanziamento dell'integrazione dal 60 per cento all'80 per cento (decreto-legge 78/2009) per i contratti di solidarietà stipulati in base all'articolo 1 comma 1 della Legge n. 863/1984.
      Per il finanziamento delle proroghe della CIGS la misura è in linea con quella degli esercizi precedenti.

Dove sono le risorse per la scuola, l'università, la ricerca e la cultura?

      Cinque anni consecutivi di tagli sui conti della scuola non si cancellano con l'assicurazione che non ce ne saranno altri: un impegno che l'Esecutivo ritiene di mantenere anche nella Legge di Stabilità 2014. Mentre sindacati, insegnanti e studenti danno un'altra lettura: nella Legge di Stabilità non ci sono risorse per la scuola aggiuntive a quelle già previste dal Decreto Carrozza n.104/2013, convertito in Legge n. 128/2013 (Misure urgenti in materia di istruzione, università e ricerca): le risorse già stanziate pari a 450 milioni di euro rappresentano soltanto un primo passo perché, distribuite su tre anni, servono per la stabilizzazione di 27 mila docenti precari di sostegno e per un piano di immissioni in ruolo di 42 mila docenti e 16 mila Ata ma sono assolutamente insufficienti.
      La Legge di Stabilità 2014 avrebbe dovuto andare ben oltre, ma non c’è alcun impegno mentre per la Scuola, ma non solo, servono investimenti, correzioni di rotta reali, investimenti concreti per un piano pluriennale di crescita e sviluppo, compresa la risoluzione reale del problema del precariato.
      Nel contingente riteniamo decisiva, tra le altre questioni, la salvaguardia del Fondo per il Miglioramento dell'Offerta Formativa (MOF) che, invece, corre il rischio di subire e per il secondo anno consecutivo una un'ulteriore decurtazione. Le risorse contrattuali del MOF costituiscono la sola posta finanziaria che, prima dei tagli dei precedenti Governi, ha contribuito a garantire un servizio di qualità e l'esercizio dell'autonomia organizzativa e didattica delle Scuole, consentendo di rispettare il patto sociale sottoscritto con le famiglie.
      Non devono essere reiterati tagli orizzontali di risorse che minerebbe alla base l'esercizio, sia pur assai ridotto, dell'autonomia scolastica, ricercando diversamente e doverosamente la copertura finanziaria per gli scatti di anzianità maturati nell'anno 2012 e 2013 dal personale scolastico, le cui retribuzioni sono ormai ferme dal 2007. Un'ulteriore ingiustizia che, insieme al rinnovato blocco del CCNL, si abbatterebbe sul personale della scuola minandone il senso di responsabilità e la motivazione ad affrontare sempre con meno risorse a disposizione le difficili sfide e la complessità della Scuola di oggi che, invece, tutti a parole mettono al primo posto dei programmi elettorali e degli impegni politici.
      Il mancato rinnovo del contratto nazionale di lavoro si è tradotto, dal 2009 a oggi, in una svalutazione del 10 per cento del salario del personale della scuola; il solo blocco degli scatti di anzianità costa al personale 350 milioni di euro l'anno in termini di mancato guadagno; mentre per la formazione sono previsti pochi milioni

 

Pag. 24

di euro a fronte di un fabbisogno nell'ordine delle centinaia.
      Viene incrementato il Fondo per il finanziamento ordinario (Ffo) delle università di 150 milioni di euro per il 2014, vengono destinati 80 milioni a favore dei Policlinici universitari delle università private, quanto alla scuola ci sono alcuni milioni sul 2015 e 45 milioni sul 2016 sullo sviluppo delle Aree interne, che serviranno a riequilibrare i servizi scolastici di base resi omogenei dai dimensionamenti. Cento milioni sono previsti per il diritto allo studio, ma servirebbero almeno altri 60 milioni per offrire lo stesso numero di borse di studio ai capaci e meritevoli privi di mezzi (il governo Monti aveva lasciato per il 2014 solo 13 milioni). Anche se per il diritto allo studio servirebbero tre volte le risorse date, e cioè 300 milioni di euro.
      Mancano, inoltre, almeno 100 milioni per la ricerca di base.

Il cuneo fiscale: poco più che uno spot pubblicitario e un'occasione persa per un fisco più equo (3).

    (3) Vedi gli articoli di Fernando Di Nicola – Politica e economia – 1o dicembre 2013, e di Ruggero Paladini su www.nens.it.

      In Italia le aliquote della tassazione sono nettamente superiori alla media degli altri paesi dell'area dell'euro anche per l'esigenza di compensare il mancato gettito causato dalle attività irregolari e dall'evasione fiscale. Quest'ultima penalizza i contribuenti onesti, non giova all'efficienza allocativa del sistema economico, ostacola il perseguimento di uno sviluppo solido e duraturo.
      L'imposta sui redditi delle persone fisiche, l'Irpef, copre da sola quasi un terzo delle entrate (crea un gettito pari a 160 mld) ed è il principale strumento in grado di perseguire la progressività del sistema tributario (4). Resta aperta un'ampia gamma di obiettivi che possono essere raggiunti attraverso la modifica della struttura di questa imposta, per esempio: la riduzione del cuneo fiscale sul lavoro, l'attenuazione dell'area della povertà, la realizzazione del profilo desiderato di progressività lungo l'intero spettro dei redditi.

    (4) È stato più volte dimostrato, ad esempio, che la seconda imposta per gettito, cioè l'IVA, è regressiva in rapporto al reddito.

      La Legge di stabilità prevede l'introduzione di tre novità che riguardano l'Irpef: le detrazioni per il lavoro dipendente e assimilato (tra cui figurano i collaboratori continuativi); una modifica delle aliquote degli oneri detraibili; il reinserimento parziale nell'imponibile dei redditi catastali di taluni immobili a disposizione.
      Come è noto i lavoratori dipendenti sono tanti (circa venti milioni), ed i loro redditi reggono il gettito della nostra principale imposta, l'IRPEF. D'altra parte le risorse messe a disposizione dalla legge di stabilità sono quelle che sono, cioè molto scarse. Il governo ha scelto di agire sulla struttura della detrazione per lavoro, il che per un verso è ragionevole, anche se ha il serio difetto di escludere circa quattro milioni di lavoratrici e lavoratori parasubordinati o part-time che già oggi sono ad imposta netta nulla.
      Le detrazioni per i lavoratori sono la variabile principale che modifica l'incidenza del prelievo per il complesso dei redditi del contribuente. A partire dalla scala delle aliquote nominali, tenendo conto delle detrazioni ammissibili, possiamo calcolare le aliquote marginali effettive che misurano quanto varia l'imposta al variare del reddito complessivo del contribuente (5). Influenzano inoltre l'offerta di lavoro del contribuente ed il relativo prodotto e guadagno.

    (5) Incidenza del prelievo individuata dal rapporto tra i totali di imposta e reddito, cioè dall'aliquota media.

      A detta di molti, le aliquote marginali effettive costituiscono oggi uno dei principali difetti dell'Irpef, in quanto assumono livelli già elevati (attorno al 30 per cento per dipendenti, collaboratori, pensionati) per i redditi più bassi, per poi crescere, a partire dalla cifra modesta di 28 mila euro lordi annui, attestandosi su

 

Pag. 25

valori compresi tra il 41 per cento e il 43 per cento per tutti gli altri contribuenti. In altre parole, è come se nel determinare l'azione redistributiva dell'Irpef si ritenesse implicitamente che al di sopra dei 28 mila euro non vi siano motivi per differenziare troppo l'incidenza del prelievo.
      Un esempio può evidenziare la differenza tra aliquota marginale nominale e aliquota marginale effettiva (6): consideriamo un dipendente che percepisca un compenso lordo attorno ai 10 mila euro e incrementi il suo reddito imponibile di altri 1000 euro; in questo caso, il suo debito d'imposta crescerà di 230 euro per l'applicazione della aliquota nominale del 23 per cento ai 1000 euro aggiuntivi. Tuttavia, occorre considerare anche altri 72 euro derivanti dalla riduzione della detrazione da lavoro (7). L'aliquota marginale effettiva è quindi superiore al 30 per cento.

    (6) Si ricordi che l'attuale scala delle aliquote Irpef prevede un'aliquota del 23 per cento per i redditi fino a 15000 euro annui; il 27 per cento, tra 15000 e 28000 euro; il 38 per cento, tra 28000 e 55000 euro; il 41 per cento, tra 55000 e 75000 euro; il 43 per cento oltre i 75000 euro.
    (7) Senza contare le addizionali regionali e comunali, la riduzione delle detrazioni spettanti per carichi familiari e la riduzione degli eventuali assegni familiari, oltre al 9 per cento circa di contributi previdenziali a carico.

      Questo livello rimane sostanzialmente lo stesso fino al raggiungimento dei 28 mila euro (il valore mediano della distribuzione dei redditi). Superata questa soglia, l'aliquota marginale effettiva sale al 41 per cento e sino al 43 per cento, con oscillazioni trascurabili, fino ai massimi livelli di milioni di euro.
      Si viene così a configurare un'imposta sulle persone fisiche che, di fatto, è fondata su una soglia di esenzione (8 mila euro per dipendenti e collaboratori) e su due sole aliquote effettive: quella superiore opera di fatto in maniera indifferenziata non appena si superino i 28 mila euro lordi.
      Questa anomalia, che non trova riscontro nei principali paesi europei, determina anche un innalzamento del cuneo fiscale ed un disincentivo all'offerta di lavoro regolare per i livelli bassi e medi di reddito (quelli cioè più sensibili agli incrementi di reddito disponibile).
      Con la modifica prevista dalla Legge di stabilità, le detrazioni per i lavoratori calerebbero al crescere del reddito, ma di meno rispetto a ciò che prevede la normativa ancora in vigore; di conseguenza, l'aliquota marginale effettiva scenderebbe al 27,6 per cento per i redditi compresi tra 8 mila e 15 mila euro, e si avrebbe dunque una riduzione di 2,6 punti rispetto all'attuale 30 per cento. Si tratta di una riduzione modesta, che in termini di sgravio osservabile in busta paga si spalma sui redditi fino a 55 mila euro; essa però non contrasta con un'idea di riforma dell'Irpef che ridisegni la progressività realizzando aliquote marginali effettive realmente crescenti.
      Il timido ridisegno della progressività appena descritto è stato poi ancora modificato al Senato, per attenuare il carico fiscale di particolari contribuenti (quelli a ridosso dell'attuale soglia di esenzione). Si è ottenuto così un impercettibile aumento del beneficio su un numero minore di beneficiari, che però ha determinato effetti indesiderati, quali un ulteriore innalzamento dell'aliquota marginale fino al 42,5 per cento sui redditi tra 28 mila e 35 mila euro.
      Va notato che questo tipo di interventi – se realizzati con un innalzamento della soglia esente, oppure con un aumento delle detrazioni per carichi di famiglia – contrastano con l'obiettivo della riduzione delle aliquote marginali effettive; in qualche caso ciò potrebbe perfino aggravare la situazione (8).

    (8) È quanto avverrebbe se ad esempio si alzasse la soglia di esenzione, ma poi si accentuasse, per contenere la perdita di gettito, la decrescenza delle detrazioni spettanti, con ciò innalzando l'aliquota marginale implicita e quindi quella effettiva; oppure se fosse semplicemente innalzata la detrazione potenziale per ciascun figlio a carico, per questa via aumentando, e non riducendo, l'aliquota marginale implicita.

      La Commissione del Senato ha infatti approvato una proposta di Rita Ghedini che riformula in modo integrale la struttura

 

Pag. 26

della detrazione, con l'obiettivo di limitare l'aumento della detrazione fino a 35.000 euro, restringendo la platea dei beneficiari di un paio di milioni. La detrazione iniziale sale a 1.885 euro, mentre la spezzata si sposta nettamente in avanti fino appunto ai 35.000 euro. Da 8.000 a 35.000 la detrazione scende di 4,50 euro ogni 100. Dopo i 35.000 (fino a 55.000) invece continua a scendere di 3,34 euro ogni 100, come in precedenza. Il vantaggio medio sale leggermente, ma comunque viene ripartito su circa 14 milioni invece che 16.
      Vi è un leggero aumento della no tax area (8.164 euro), ma la cosa più rilevante è che di fatto, da punto di vista delle aliquote marginale effettive, per i lavoratori dipendenti si è creato un nuovo scaglione, tra i 28.000 ed i 35.000.
      La struttura completa è ora la seguente:

Redditi imponibili Aliquote effettive

          Da 0 a 8.164 0

          Da 8.165 a 15.000 27,50

          Da 15.001 a 28.000 31,50

          Da 28.001 a 35.000 42,50

          Da 35.001 a 55.000 41,34

          Da 55.001 a 75.000 41

          Da 75.001 in poi 43

      Il fatto che si sia passati da una struttura sostanzialmente a due scaglioni (o due e mezzo considerando anche l'ultimo) a sei scaglioni effettivi con aliquote maggiori di zero (cioè a parte la prima) è un fatto che in sé può essere valutato positivamente. Piuttosto è un problema il fatto che il nuovo scaglione da 28.001 a 35.000 abbia un'aliquota maggiore dei due successivi di oltre un punto percentuale. In precedenza il difetto era limitato a meno di mezzo punto. Correggere questo difetto (introducendo formalmente lo scaglione da 28.001 a 35.000 per tutti i contribuenti e abbassando l'aliquota a 37 per cento) costa però un miliardo.
      Occorrerebbe intervenire sulla parte media e alta della distribuzione dei redditi, attenuando l'incidenza del prelievo sui redditi mediani ed accentuandola su quelli davvero elevati (sopra i 100mila o 150mila euro) (9)[6], ottenendo per questa via una significativa progressività.

    (9) Tecnicamente l'effetto desiderato si potrebbe ottenere differenziando le aliquote oggi troppo simili su un range di reddito enorme (41 per cento effettivo dai 28 mila euro in su, e 43 per cento oltre i 75 mila euro) ed assorbendo il contributo di solidarietà (di oscuro impatto in quanto deducibile) operante sopra i 300mila euro.

      La Legge di stabilità prevede anche, a parziale compensazione dello sgravio, una riduzione delle detrazioni da oneri (oggi pari al 19 per cento di quanto speso) che scenderebbero nel giro di due anni al 17 per cento. Si tratta di detrazioni che «premiano» spese di diverso genere (mutui casa, spese sanitarie, donazioni e tante altre fattispecie), sostenute tendenzialmente dai contribuenti con livelli più elevati di reddito; per questi motivi, i benefici delle detrazioni da lavoro (stimati in 1,7 miliardi) e i maggiori carichi da detrazioni per oneri (0,6 miliardi a regime) sarebbero sommabili solo in piccola parte, operando spesso su contribuenti diversi. Anche in questo caso lo sgravio non modificherebbe le aliquote marginali effettive: chi ha sostenuto quelle spese beneficia della relativa detrazione e del conseguente sgravio, ma un eventuale incremento di reddito continuerebbe a subire le stesse aliquote marginali effettive.
      Infine, il reinserimento parziale nella base imponibile Irpef dei soli redditi da abitazioni tenute a disposizione nello stesso Comune di residenza, rappresenta un modo poco coerente e non risolutivo di tener conto delle ragioni di chi – come chi scrive – auspica un'applicazione del principio del reddito complessivo e, al contempo, è sensibile ai problemi derivanti da una molteplicità di imposte sugli immobili senza una ragionata valutazione del carico complessivo ed un'esplicita scelta di politica fiscale (10).

    (10) Si segnala che anche con questa modifica permarrebbe l'inserimento «a macchia di leopardo» dei redditi immobiliari nel reddito complessivo Irpef, con disparità di trattamento tra contribuenti affini, per livello e per tipo di reddito.

 

Pag. 27

      Una osservazione finale sull'IRPEF: la struttura della nostra imposta è molto opaca; nel Libro Bianco del 2008 (L'imposta sul reddito delle persone fisiche e il sostegno alle famiglie) vengono spiegate le varie fasi che ne hanno complicato l'architettura. Un'operazione di trasparenza richiederebbe detrazioni fisse per tutti e stesse aliquote marginali per uguali redditi. Il peso dell'imposta andrebbe ridotto; ma allora servono risorse almeno dieci volte maggiori di quelle messe in campo dal governo.

La riforma della tassazione immobiliare.

      Con la riforma della tassazione immobiliare il sistema impositivo comunale cambia volto per la quarta volta nel giro di un paio di anni: a seguito dell'introduzione dell'Imu, nel 2012, della Tares nel 2013 e dell'abrogazione della prima rata dell'Imu sull'abitazione principale per l'anno in corso.
      La nuova disciplina della «service tax per il 2014» denominata dal provvedimento TRISE costituisce però la vera incognita di questa riforma inclusa nella legge di stabilità per il 2014.
      Infatti l'aliquota base della componente sui servizi indivisibili della TRISE, e denominata TASI è pari allo 0,1 per cento, percentuale che i comuni avranno la facoltà di innalzare fino allo 0,25 per cento per le abitazioni principali e fino all'1,16 per cento, Imu compresa, sugli altri fabbricati.
      La risposta, pertanto, se i cittadini pagheranno di più rispetto alla congedata IMU, che continuerà ad applicarsi su tutti gli immobili ad eccezione delle abitazioni principali, non la scriverà il Governo, ma i sindaci, che dovranno disciplinare nei dettagli i due nuovi tributi – la TARI sui rifiuti e la TASI sui servizi.
      Infatti, i margini di manovra dei Comuni sono molto ampi ma anche molto aleatori. L'esperienza dell'Imu impone cautela di fronte alla facoltà di azzerare la TASI, ed insegna che non sempre uno sconto possibile si traduce in uno sgravio concreto, tanto più se le amministrazioni locali sono in affanno finanziario.
      La manovrabilità dell'aliquota IMU oscillava tra lo 0,2 per cento e lo 0,6 per cento, ma era associata ad una detrazione di 200 euro per l'abitazione principale, maggiorata di 50 euro per ogni figlio.
      Con la TASI, senza queste previsioni, per le abitazioni con rendita catastale molto bassa abitate da famiglie molto numerose, il conto potrebbe anche aumentare. Su tutti gli altri immobili, invece, l'aliquota massima della Tasi sarà determinata in funzione dell'Imu: di fatto, la somma delle due imposte non potrà superare il livello massimo dell'Imu 2013, maggiorato dello 0,1 per cento, quindi l'1,16 per cento in totale.
      A fronte di tale simulazione, lo scenario più verosimile è che i Comuni saranno costretti a centellinare e selezionare con una certa attenzione, le agevolazioni senza poter prevedere esenzioni generalizzate dalla Tasi.
      In questo senso, le delibere adottate nel passato dai Comuni per applicare l'Imu offrono un buon campionario di possibili agevolazioni od aumenti come la differenziazione dell'aliquota in base all'utilizzo dell'immobile (abitazione principale, o immobile locato o a disposizione), in base alla categoria catastale (soluzione adottata per agevolare negozi e laboratori artigianali o per penalizzare le abitazioni di pregio).
      D'altra parte la scelta di rendere i governi locali responsabili della tassazione immobiliare trova sostegno nella letteratura sul federalismo fiscale, poiché la qualità dell'amministrazione locale e gli
investimenti da essa effettuati si riflettono sul valore degli immobili, cosicché essa è incentivata a erogare servizi pubblici in modo più efficace ed efficiente, vedendosi accrescere anche le loro entrate.
      Anche la disciplina di bilancio ne esce rafforzata, perché la tassazione immobiliare risulta assai «visibile» agli elettori, che possono tenerne conto sia al momento del voto che quando scelgono dove risiedere.

 

Pag. 28


      L'introduzione della IUC rafforza questa logica, poiché rende ancora più evidente al contribuente il legame tra l'imposta locale e il servizio finanziato (cosiddetto «principio del beneficio»): l'imposta è infatti, a differenza della precedente TARES, interamente di competenza comunale. Nell'ambito di essa spetterà ai Comuni individuare i servizi indivisibili ed i relativi costi interamente coperti con la TASI.
      Certo si dovrebbe proseguire lungo questa linea, razionalizzando la distribuzione dei poteri di prelievo fra i diversi livelli di governo nell'ottica della separazione delle fonti, rendendo così meno opaca l'imposizione immobiliare e rafforzare l'efficienza del sistema tributario nel suo complesso.
      Un aspetto indubbiamente positivo della riforma, oltreché un messaggio culturale importante, riguarda la potestà accordata ai Comuni di applicare riduzioni tariffarie, attraverso la graduazione progressiva di aliquote e detrazioni, in base alla capacità contributiva delle famiglie, anche attraverso l'applicazione dell'ISEE che contempla nel suo calcolo tutti e tre i parametri di perequazione: nucleo familiare, reddito familiare e patrimonio, nell'ottica di una politica che riequilibri il carico fiscale facendolo pesare di più sulla componente patrimoniale.
      Da questo assunto di partenza occorre rivedere l'intero sistema della fiscalità locale, che continua a presentare delle incongruenze e disomogeneità con la persistenza delle addizionali IRPEF, che gravano soprattutto sui lavoratori dipendenti e pensionati.
      Di contro, il passaggio dall'IMU alla TASI sembra essere supportato dall'idea che i contribuenti pagheranno l'imposta più volentieri, anche se la pagano sul medesimo bene, ma sapendo che la pagano per un motivo diverso. Ed e anche vero che così ridefinita l'imposta peserà anche sugli inquilini che i servizi li consumano.
      Inoltre la TASI si distingue dall'IMU per un differente profilo redistributivo: le famiglie meno abbienti, tra cui molti inquilini, ne escono penalizzate, seppur in piccola misura, mentre quelle più abbienti ci guadagnano, e la ragione di tale impatto regressivo è ravvisabile nel fatto che la riforma sostituisce un'imposta progressiva rispetto alla sua base imponibile (cioè i valori catastali), quale era l'IMU sull'abitazione principale, con un'imposta strettamente proporzionale sulla medesima base, quale è la TASI.
      Sarà dunque necessario aggiustare il meccanismo del nuovo prelievo sull'abitazione principale per evitare di danneggiare i redditi più bassi e scongiurare il risultato di far pagare oggi un'imposta, la TASI, a chi prima ne era totalmente esentato per l'operare delle detrazioni, ed al contempo evitare cadute di gettito non più sopportabili per la finanza locale.
      La definitiva cancellazione dell'Imu sulle abitazioni principali non è certo utile dal punto di vista dell'equità e dell'efficienza del sistema fiscale. Pressoché la totalità dei sistemi fiscali evoluti posseggono una componente di tassazione patrimoniale. Il patrimonio, infatti, è un buon indicatore di capacità contributiva, specie se utilizzato ad integrazione, e non in sostituzione, del reddito. L'Italia, invece, si è progressivamente mossa verso l'eliminazione di qualsiasi tributo patrimoniale. Prima, nel 1997, con la cancellazione dell'imposta patrimoniale sulle imprese. Poi con la progressiva riduzione dell'ambito di applicazione dell'imposta sulle successioni. E, da ultimo, con il superamento dell'Ici sulla prima casa. L'Imu, quindi, che rappresentava l'ultimo anello di questa catena, sanava in qualche modo una lacuna del nostro sistema fiscale.
      La futura revisione delle rendite catastali, prevista dalla delega fiscale, avrebbe superato l'anacronismo del tributo rendendo l'Imu più equa senza perdite di gettito per i Comuni. La natura federale dell'imposta avrebbe poi potuto essere mantenuta prevedendo che il gettito stesso venisse interamente destinato ai Comuni, senza affidare loro la determinazione delle aliquote onde evitare spiacevoli fenomeni di concorrenza fiscale ed assicurare un'omogeneità di trattamento sul piano nazionale.
 

Pag. 29


      Si è invece scelta una strada diversa, suggellata oggi dalla legge di stabilita 2014: quella di una tassazione patrimoniale sulla proprietà degli immobili collegata anche alla produzione dei rifiuti e, più in generale, al semplice possesso degli immobili stessi.
      Alla Corte Costituzionale l'ardua sentenza...

L'Ambiente (11) rimane Cenerentola.

    (11) Prendiamo molto del materiale di questo paragrafo dal documento del WWF sulla legge di stabilità: ovviamente la responsabilità di quanto scritto in questa relazione ci compete.

      Questo Governo ha deciso di destinare alle misure in campo ambientale – difesa mare, difesa suolo, bonifica siti inquinati, depurazione delle acque, aree protette, CITES, convenzione internazionale sul commercio delle specie a rischio, e finanziamento ISPRA, Istituto per la Protezione e la Ricerca ambientale, 140 milioni di euro complessivi, in cifre assolute.
      Il Governo, nel solco dei vari Governi Berlusconi e Monti, sulle politiche di intervento nei settori tradizionali delle infrastrutture e dei trasporti e dell'energia, non fa alcuna proposta innovativa e non si discosta dagli indirizzi pianificatori dettati rispettivamente dal Primo programma delle infrastrutture strategiche del 2001 e dalla Strategia Energetica Nazionale, approvata definitivamente nel marzo 2013.
      Se poi si va a vedere cosa ci sia dietro a quei 140 milioni destinati dalla Legge di Stabilità 2014, si nota che nulla c’è di nuovo per gli interventi nelle Aree protette che rimangono inchiodati in Tabella C attorno ai 5,8 milioni di euro, mentre nulla è ancora una volta è garantito per le Aree marine protette, avendo per fortuna già portato in salvo negli anni passati il funzionamento ordinario dei parchi terrestri.
      Anche per contrastare il commercio illegale delle specie a rischio, protette dalla Convenzione internazionale CITES nel 2014 si destinano in Tabella C solo 47.000 euro quando nella Legge di Stabilità 2011 la cifra destinata a contrastare uno dei traffici illeciti che più alimenta gli affari della criminalità organizzata era circa 5 volte superiore (218.000 euro).
      Nessun segnale invece sulla attuazione della Strategia Nazionale della Biodiversità, approvata nell'ottobre 2010, che doveva portare ad una più diffusa protezione della natura, a cominciare dai siti della Rete Natura 2000, di derivazione comunitaria, e delle reti ecologiche e tutelare le risorse che forniscono i servizi eco sistemici che garantiscono il progresso del nostro Paese (l'Italia è il paese europeo con la più ricca biodiversità d'Europa).
      Sui controlli ambientali, che fanno capo all'ISPRA, le cifre destinate dalla Legge di Stabilità 2014 sono decisamente troppo contenute, attestandosi per l'anno prossimo in Tabella C in poco più di 25,5 milioni di euro. Erano 90 milioni nella Legge di Stabilità 2011, con una riduzione in questi anni di oltre i 2/3.
      Da registrare, infine, un elemento positivo di novità nei 10 milioni di euro destinati dal comma 67 dell'articolo unico del Ddl sulla Legge di Stabilità 2014 (AC 1865) a potenziare prioritariamente la depurazione dei reflui urbani, nell'ambito delle attività per la tutela e la gestione della risorsa idrica. O anche i 30 milioni di euro stanziati nel comma 68 per il piano per la messa in sicurezza, bonifica e riparazione del danno ambientale delle discariche abusive finanziato con un apposito Fondo costituito presso il Ministero dell'ambiente.
      Ma, come dicevamo, non c’è alcuna revisione sostanziale delle politiche in materia di infrastrutture e di trasporti, quando si consideri che poco più di 2,8 miliardi di euro vengono destinati alle cosiddette infrastrutture strategiche, garantendo ancora lo sviluppo, in gran parte indiscriminato e incontrollato, delle grandi opere, che ha visto lievitare il Primo Programma delle Infrastrutture Strategiche dai 125,8 miliardi di euro, per 115 opere, del 2001 ai 390 miliardi di euro, per 375 opere, del settembre 2012, pur di soddisfare gli appetiti dei potentati locali, dei grandi studi

 

Pag. 30

di progettazione e delle grandi aziende di costruzione. Un Programma che è anche inefficiente, posto che al settembre 2012 risultavano ultimate, a partire dal 2001, opere del valore di soli 7 miliardi di euro, equivalenti all'1.8 per cento del valore attuale dell'intero programma (come documentato nel VII Rapporto sull'attuazione della legge Obiettivo, redatto dal Servizio Studi della Camera dei Deputati).
      C’è da rilevare, inoltre, che se l'impennata dei finanziamenti resi disponibili per le infrastrutture strategiche sembrava essere stata raggiunta con la Legge di Stabilità 2013, che aveva previsto già lo scorso anno un impiego di 2,7 miliardi di euro è, in realtà nel 2014 che questo plafond viene ampiamente superato, grazie all'incremento di 405 milioni di euro – che porta l'investimento previsto nel prossimo anno per le grandi opere a 3,2 miliardi di euro – destinato al pot pourri di interventi (perlopiù strategici), individuato nell'articolo 18 del decreto del fare, decreto legge 69/2013.
      La scelta è chiara in favore dei giganti delle costruzioni e delle clientele politiche per opere onerosissime dal punto di vista ambientale, sociale ed economico-finanziario (quali la Torino-Lione, che da sola si vede assegnati nel solo triennio 2014-2016 oltre 568 milioni di euro) di cui non si conoscono nella generalità dei casi i piani economico-finanziari, quale sia il termine dei lavori, né il margine di variazione dei costi a consuntivo. Il Governo tollera tutto ciò mentre rimane lettera morta il programma per le piccole e medie opere, deliberato dal CIPE nel 2009 su richiesta dell'Associazione Nazionale Costruttori Edili, che prevedeva di investire 825 milioni di euro in interventi diffusi sul territorio, con lavori da avviare e completare in tempi certi, in funzione anticongiunturale.
      Da quest'ultimo punto di vista, il testo della Legge di Stabilità 2014 (AC 1865) non crea alcuna cesura rispetto al passato e non si pone il problema di sfiorare il ridicolo stanziando in Tabella E la cifra simbolica di 29,5 milioni di euro per le piccole e medie opere nel Mezzogiorno.
      Le scelte trasportistiche si deducono proprio dall'ammontare dei finanziamenti dedicati alle infrastrutture strategiche che sono prevalentemente dedicati alla realizzazione di linea ad AV e autostrade (nel 2012 il 45 per cento dei finanziamenti è destinato ancora strade e autostrade e il 38 per cento alle ferrovie, con il 70 per cento degli investimenti è destinato alle linee ad AV) e quindi per rispondere alle esigenze di un'utenza privilegiata minoritaria che viaggia sulle lunghe distanze (il 75 per cento dell'utenza si muove sulla media o corta distanza).
      Per sostenere il trasporto pubblico locale, a parziale compensazione di queste scelte irrazionali, una volta istituito con la legge di Stabilità 2013 il «Fondo nazionale per il concorso finanziario dello Stato agli oneri di trasporto pubblico locale» (che stanzia nel 2014 443 milioni di euro) con il comma 50 dell'articolo unico del disegno di legge (Ddl) sulla Legge di Stabilità 2014 (AC 1865) si decide un incremento, destinando 100 milioni di euro per l'acquisto di materiale rotabile su gomma e 200 milioni di euro per l'acquisto di materiale rotabile ferroviario.
      Se questo può essere considerato un fatto positivo, discutibile è, al contrario, la conferma delle sovvenzioni in favore dell'autotrasporto che nella Legge di Stabilità 2014 ammontano a 330 milioni di euro, come disposto dal comma 52 dell'articolo unico del Ddl sulla Legge di Stabilità 2014 (AC 1865).
      Rispetto, poi, alle questioni energetiche l'unico caposaldo della Manovra rimane quello delle detrazioni per l’efficientamento degli edifici, stabilite in origine del 55 per cento, ed ora, grazie alla modifica introdotta con l'articolo 14 del decreto legge n. 63/2013, trasformate in un ecobonus che consente di detrarre sino al 65 per cento (per interventi che riguardano l'efficienza energetica delle case, delle parti comuni dei condomini, la ristrutturazione edilizia, il conseguimento degli standard antisismici). Nel comma 87 dell'articolo unico del disegno di legge sulla Legge di Stabilità 2014 approdato alla Camera (AC 1865) si proroga per un
 

Pag. 31

biennio, e quindi sino a tutto il 2015, il termine previsto in un primo tempo nel 2013, fissando, in particolare, per gli interventi di efficienza energetica le seguenti aliquote: il 65 per cento per le spese sostenute nell'anno 2014; il 50 per cento per le spese sostenute nell'anno 2015.
      Ma al di là di questa misura che è la sola ad aver garantito, con andamenti economici e occupazionali negli anni molto positivi, un minimo di sostegno al settore edile, rispetto alle scelte di fondo in campo energetico il Governo Letta (con il Ministro dello sviluppo economico Zanonato) non si discosta dalla linea decisa dal Governo Monti (con l'allora ministro Passera), che prevede la semplice, pedissequa applicazione della Strategia Energetica Nazionale – SEN, nella quale non ci si esprime chiaramente sul futuro delle rinnovabili, mentre, nel contempo, si dichiara di volere una Penisola che diventi un hub del gas, un Paese che punti sulla estrazione e produzione nazionale di idrocarburi e che continui a garantire le centrali alimentate a combustibili fossili.
      Dal Governo si attende, inutilmente sinora, l'abbandono della SEN e la stesura di un nuovo Piano energetico nazionale che contempli una Roadmap per la decarbonizzazione, nella quale si punti sullo sviluppo delle fonti rinnovabili, lo stop a nuove centrali a combustibili fossili e la progressiva dismissione di quelle esistenti.
      Nella Legge di Stabilità 2014 mancano interventi circostanziati sulla mitigazione e sull'adattamento ai cambiamenti climatici anche se il 29 ottobre il Ministro dell'ambiente Andrea Orlando ha lanciato un segnale interessante, sancendo l'avvio del percorso per la definizione della Strategia di adattamento ai cambiamenti climatici, richiestaci dall'Europa – su cui il ministero ha aperto una consultazione pubblica, che si concluderà alla fine del 2013 – segnalando come «gli impatti economici dei cambiamenti climatici potrebbero costare all'Italia fino a 30 miliardi di euro, pari a una perdita compresa tra lo 0,12 per cento e lo 0,16 per cento del Pil, al 2050».

Per la messa in sicurezza del nostro territorio, un'occasione persa.

      Con la legge di stabilità in esame, si è ancora una volta persa l'occasione per avviare un piano pluriennale per la messa in sicurezza del nostro territorio e per il contrasto al dissesto idrogeologico quale vera e prioritaria «grande opera» infrastrutturale in grado non solamente di mettere in sicurezza il nostro fragile territorio, ma di attivare migliaia di cantieri distribuiti sul territorio, con evidenti ricadute importanti dal punto di vista economico e occupazionale.
      I sempre più frequenti fenomeni alluvionali e calamitosi – la Sardegna rappresenta l'ultimo e drammatico esempio – che colpiscono il nostro Paese, mettono in luce drammaticamente l'estrema fragilità del nostro territorio e la necessità di una sua ormai improcrastinabile messa in sicurezza complessiva, contestualmente a una sostenibile pianificazione urbanistica.
      Peraltro gli effetti conseguenti ai cambiamenti climatici in atto, sono ormai tali che gli eventi estremi in Italia hanno subito un aumento esponenziale, passando da uno circa ogni 15 anni prima degli anni ’90, a 4-5 l'anno.
      Ricordiamo che il Ministero dell'Ambiente, sulla base dei dati dell'Ispra, ha valutato che il costo complessivo dei danni provocati dagli eventi franosi ed alluvionali dal 1951 al 2009, rivalutato in base agli indici Istat al 2009, risulta superiore a 52 miliardi di euro, quindi circa 1 miliardo di euro all'anno e, complessivamente, più di quanto servirebbe per realizzare l'insieme delle opere di mitigazione del rischio idrogeologico sull'intero territorio nazionale, individuate nei piani stralcio per l'assetto idrogeologico e quantificate in 40 miliardi di euro.
      La legge di stabilità, pur individuando positivamente opportune modalità e un crono programma volto ad accelerare l'utilizzo delle risorse (circa 1,4 mld.) già previste per dette finalità, stanzia risorse «nuove» per la difesa per solo 30 milioni per l'anno 2014, 50 milioni di euro per il 2015 e 100 milioni per l'anno 2016.

 

Pag. 32


      Risorse chiaramente del tutto insufficienti e inaccettabili per consentire alle regioni e agli enti locali di poter programmare un qualunque straccio di credibile lavoro di messa in sicurezza del territorio;
peraltro le risorse per la difesa del suolo continuano a non essere escluse dai vincoli imposti dal patto di stabilità interno.
      Va altresì evidenziato come il previsto fondo per il finanziamento (30 milioni di euro per ciascuno degli anni 2014 e 2015) di un piano straordinario di bonifica delle discariche abusive, seppure vada valutato positivamente, risulta essere insufficiente negli importi stanziati.
      Seppure sono positive le numerose norme volte a sostenere con diverse modalità, la ricostruzione dei territori colpiti da calamità naturali, non possono che considerarsi del tutto insufficienti le risorse assegnate in particolare alla regione Sardegna colpita dal violento nubifragio del 18 novembre scorso. Dopo i primi 20 milioni subito stanziati per il 2013 con decreto, la legge di stabilità in esame, stanzia per l'anno 2014 poco più di 51 milioni, dei quali: fino a 27,6 milioni di euro «giacenti sulla contabilità speciale intestata al Commissario straordinario per il dissesto», nonché 23,52 milioni relativi alle spese effettuate a valere sulle risorse assegnate alla Regione Sardegna dalla delibera Cipe 8/2012 (e che non vengono assoggettate per il 2014 al patto di stabilità interno). Per il 2015 si prevede uno stanziamento di 50 milioni di euro. Si prevede inoltre che l'ANAS per il ripristino di ponti e strade danneggiate, possa anticipare le risorse (non quantificate) autorizzate per il «programma degli interventi di manutenzione straordinaria di ponti, viadotti e gallerie della rete stradale di interesse nazionale in gestione ad ANAS SpA».
      Al di là dell'esiguità delle suddette risorse stanziate (poco più di 100 milioni in due anni) a fronte di un evento calamitoso drammatico che ha provocato morti e distruzione in molti comuni sardi, laddove, per la sola Gallura, è plausibile parlare di 500 milioni di danni, va evidenziato che le gran parte delle suddette risorse non sono «risorse nuove», ma spostamenti di risorse già esistenti e già finalizzate per interventi a favore della difesa del suolo, delle infrastrutture e del Ministero dell'Ambiente. Infatti, di tutte le risorse stanziate:

          i 27,6 milioni di euro per il 2014 sono risorse già giacenti sulla contabilità speciale per il dissesto;

          i 23,52 milioni stanziati, sono risorse già assegnate alla Regione Sardegna dalla delibera Cipe 8/2012 sul dissesto idrogeologico;

          l'esclusione dal patto di stabilità dei suddetti 23,52 milioni di euro, sono coperti con una diminuzione per il 2014 delle risorse a favore del Ministero dell'Ambiente (riportate dalla Tabella B della legge di stabilità) e che sono finalizzate principalmente a interventi a favore della difesa del suolo, interventi di bonifica e ripristino dei siti inquinati;

          le risorse per il ripristino di ponti e strade danneggiate, altro non sono che l'anticipazione delle risorse previste per il «programma degli interventi di manutenzione straordinaria di ponti, viadotti e gallerie della rete stradale di interesse nazionale in gestione ad ANAS SpA».

Il governo privilegia il termoelettrico.

      È positiva la proroga delle detrazioni per le ristrutturazioni edilizie e per l'efficientamento energetico, anche se non si prevede alcuna stabilizzazione nel tempo di dette detrazioni come da sempre richiesto, e come ha previsto il comma 1, articolo 15, del decreto legge 63/2013: «Nelle more della definizione di misure ed incentivi selettivi di carattere strutturale, da adottare entro il 31 dicembre 2013, finalizzati a favorire la realizzazione di interventi per il miglioramento, l'adeguamento antisismico e la messa in sicurezza degli edifici esistenti, nonché per l'incremento dell'efficienza idrica e del rendimento energetico degli stessi ...».

 

Pag. 33


      Per quanto riguarda le norme in materia energetica, si ritiene grave quanto previsto dal comma 99 della legge di stabilità, laddove si interviene in materia di remunerazione delle capacità di produzione di energia elettrica, prevedendo che L'Autorità per l'energia elettrica e il gas, definisca un'integrazione del corrispettivo «per la remunerazione della disponibilità di capacità» prevista dal decreto legislativo 379/2003.
      Si tratta di fatto in un supporto al termoelettrico che potrebbe configurarsi come aiuto di Stato, e che introduce una forma di capacity payment attraverso la remunerazione della capacità non utilizzata per le centrali termoelettriche (in difficoltà a causa della concorrenza del fotovoltaico, e per la crisi), allo scopo di garantire la redditività degli impianti pur agli attuali tassi di utilizzo.
      Questa remunerazione dell'energia da fonti fossili, che altro non è che una forma di sostegno, non sarà finanziata con un «appesantimento» della bolletta elettrica, ma finanziato dal contributo di tutte le fonti di energia, rinnovabili incluse, ai costi di mantenimento in sicurezza del sistema elettrico.
      L'effetto paradossale della norma è quello per cui le fonti rinnovabili andrebbero a finanziare l'energia da fonti fossili. Peraltro si segnala che sia il Ministro Orlando che il Ministro Zanonato («sono assolutamente contrario a questo emendamento») si erano impegnati a togliere questa norma dal testo.
      Così come si ritiene negativa la norma di interpretazione autentica contenuta nei commi 74 e 75, che esclude le centrali termoelettriche e turbogas, alimentate da fonti convenzionali, sopra i 300 MW realizzate dal 10 febbraio 2002 in poi, dall'obbligo di corrispondere ai Comuni gli oneri di urbanizzazione.

Poco per le aree protette ed i parchi.

      Le risorse assegnate alle aree protette e ai parchi, si confermano anche quest'anno del tutto insufficienti. Con le risorse assegnate dalla legge di stabilità, dovrebbero essere assicurati non soltanto il funzionamento dei parchi nazionali esistenti, ma anche quello delle Riserve Naturali dello Stato, del Parco tecnologico ed archeologico delle colline metallifere grossetane, del Parco museo delle miniere dell'Amiata, ecc.
      Peraltro i parchi e le aree protette rappresentano, tra l'altro, un motore economico di aree talora depresse e forma di tutela della natura che oltretutto attira turisti con conseguente giro d'affari.
      Insufficienti si rivelano anche le risorse assegnate all'ISPRA. Risorse che non consentono all'Istituto di poter svolgere compiutamente gli importanti compiti di controllo che è tenuto a svolgere.
      Per quanto riguarda lo Stato di previsione del Ministero dell'ambiente si rileva un aumento delle risorse a favore del Programma 18.12 (Tutela e conservazione del territorio e delle risorse idriche, trattamento e smaltimento rifiuti, bonifiche) e del Programma 18.13 (Tutela e conservazione della fauna e della flora, salvaguardia della biodiversità e dell'ecosistema marino). Contestualmente si ha una riduzione del Programma 18.3 (Prevenzione e riduzione integrata dell'inquinamento) di circa 17 milioni di euro; una riduzione del Programma 18.5 (Sviluppo sostenibile) di 10,9 milioni di euro (-16,3 per cento); una diminuzione del Programma 18.8 (Vigilanza, prevenzione e repressione in ambito ambientale) per circa 1,9 milioni di euro; una riduzione del programma 17.3 (ricerca in materia ambientale) di 2,7 milioni di euro rispetto alle previsioni assestate 2013 (pari al 3,1 per cento).

Risposte insufficienti ai disagi sociali e alla crescente povertà.

      La legge di stabilità in esame non da adeguate risposte al crescente impoverimento di ampi strati della nostra società e all'acuirsi delle condizioni di vita di moltissime persone, nonché agli inaccettabili

 

Pag. 34

livelli di disuguaglianza raggiunti nel nostro Paese, dove la forbice tra poveri e ricchi si è andata sempre più allargando.
      Una crisi economica iniziata nel 2007-2008, e che sembra non avere fine; sotto questo aspetto le politiche sociali messe in campo per contrastare il diffuso impoverimento sono troppo deboli.
      Uno dei principali e più efficaci strumenti per il finanziamento degli interventi e dei servizi sociali è rappresentato dal Fondo nazionale per le politiche sociali, le cui risorse sono stabilite annualmente dalla legge di stabilità. Un Fondo che in questi ultimi anni, ha visto ridurre le risorse a sua disposizione. La legge di stabilità in esame stanzia per il 2014, 317 milioni di euro, a fronte di 344,2 milioni di euro stanziati per il 2013 dalla legge di stabilità dello scorso anno.
      Lo stesso Fondo nazionale per l'infanzia e l'adolescenza, ha visto ridurre negli anni la sua dotazione finanziaria: se la legge di stabilità per il 2012 stanziava quasi 40 milioni di euro per il 2012, e la legge di stabilità dello scorso anno stanziava per il 2013 circa 39,6 milioni, la legge di stabilità in esame, stanzia per il 2014 meno di 28,7 milioni di euro. Ciò si è tradotto in una riduzione del 28 per cento delle risorse assegnate al medesimo Fondo per l'infanzia.
      Si ricorda in proposito come nell'ultima Relazione al Parlamento dell'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza si sottolineano: «i già richiamati costi sociali ed economici dei mancati investimenti sull'infanzia e l'adolescenza e quello che sarà l'impatto di essi sull'Italia del presente ma soprattutto del futuro».
      Lo stesso Fondo per le politiche della Famiglia, seppur lievemente incrementato rispetto allo scorso anno, subisce comunque un sensibile taglio se confrontato a quanto era stato stanziato dalla legge di stabilità per il 2012, ossia 32 milioni di euro a fronte degli attuali 20,9 milioni.
      Al forte ridimensionamento dell'intervento pubblico in questi ambiti, si aggiunga la mancata definizione dei livelli essenziali delle prestazioni da garantire su tutto il territorio nazionale; pur in presenza di norme che mirano a dare un qualche sostegno alle classi sociali più deboli ed esposte alla crisi, nulla si prevede con riferimento alle politiche di social housing, a un piano nazionale per il contrasto alla povertà, a un serio programma di sostegno alle famiglie e agli anziani anche attraverso il rafforzamento dell'assistenza domiciliare; a un piano per la realizzazione di asili nido e l'implementazione dei servizi socio educativi per la prima infanzia al fine di incrementare la presa in carico degli utenti di detti servizi.
      Seppure vada valutato positivamente l'incremento delle risorse per le non autosufficienze a seguito delle modifiche apportate dal Senato, le risorse disponibili sono ancora del tutto insufficienti. Parliamo infatti di complessivi 350 milioni di euro per l'anno 2014, laddove sia nel 2010 che nel 2011 poteva contare su 400 milioni di euro.
      Il comma 130 della legge di stabilità in esame, incrementa di 20 milioni, per ciascun anno 2015 e 2016 il Fondo nazionale per l'accoglienza dei minori stranieri non accompagnati, istituito dal decreto-legge n. 95/2012, con una dotazione di 5 milioni di euro per l'anno 2012. La dotazione è stata quindi incrementata di 20 milioni per l'anno 2013, dal decreto legge n. 120/2013.
      Il Fondo per l'accoglienza dei minori stranieri non accompagnati, non risulta quindi finanziato per l'anno 2014.
      Va peraltro detto che le risorse assegnate al medesimo Fondo sono del tutto insufficienti. I dati del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali riportano, al 30/09/2013, la segnalazione di 7821 minori stranieri non accompagnati. Ricordiamo come i Comuni hanno sempre maggior difficoltà a far fronte agli oneri derivanti dalla presenza di minori stranieri non accompagnati sul proprio territorio: si tratta di ragazzi stranieri che arrivano o si trovano soli sul territorio e che il Comune, per competenza, deve provvedere a collocare temporaneamente in un luogo sicuro sino a quando non si possa provvedere in modo definitivo alla loro protezione.
 

Pag. 35

L'emergenza abitativa.

      Nulla si prevede inoltre in materia di politiche abitative e di social housing, in grado di fornire una prima efficace risposta all'emergenza abitativa e un sostegno alle classi sociali più deboli ed esposte alla crisi.
      Si prevede, peraltro, un piano di dismissioni di immobili pubblici al fine di consentire introiti non inferiori a 500 milioni l'anno nel triennio 2014-2016, laddove si sarebbe potuto disporre la destinazione di una quota parte degli introiti all'edilizia residenziale sociale pubblica.
      Non è previsto alcuno stanziamento del Fondo nazionale di sostegno per l'accesso alle abitazioni in locazione, di cui alla legge 431/1998, in materia di locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo, un importante strumento legislativo in mano agli enti locali per consentire una integrazione economica per quella famiglie con redditi molto bassi che hanno difficoltà a pagare i canoni d'affitto.

Altri tagli al Servizio sanitario.

      Va presa piena consapevolezza che il nostro Servizio sanitario in questi anni ha già dato, e non può sopportare ulteriori tagli e definanziamenti, pena il rischio di non poter garantire i livelli di assistenza e quindi l'equità nell'accesso alle prestazioni sanitarie da parte dei cittadini. Già adesso le regioni sottoposte a piani di rientro, faticano a garantire la qualità dell'assistenza e la stessa erogazione dei LEA.
      A fronte di tagli pesantissimi volti a ridurre il peso della spesa sanitaria sul bilancio statale, il nostro servizio sanitario pubblico rimane comunque tra i meno costosi al mondo. Nelle statistiche internazionali, l'Italia si presenta con una spesa più bassa della media OCSE e della media Unione europea.
      Nella precedente legislatura, il Governo Berlusconi ha previsto 20 miliardi di tagli, ai quali si aggiungono altri 10 miliardi di euro previsti dal successivo Governo Monti.
      Per il periodo 2010-2015 si sono e saranno realizzati tagli rispetto alla spesa tendenziale che arrivano ad una cifra impressionante, intorno ai 30 miliardi di euro.
      Dal 2001 al 2011 sono quasi 100 mila i posti letto tagliati negli ospedali del SSN, senza che contestualmente sia avvenuto un rafforzamento della medicina e dell'assistenza territoriale.
      Se è vero che non vi sono tagli pesanti alla nostra sanità pubblica nella quantità imposta dai precedenti governi, è pur vero che la legge di stabilità per il 2014, non introduce alcuna inversione di tendenza rispetto alla prosecuzione del definanziamento del nostro Servizio sanitario nazionale.
      Accanto ai prossimi previsti tagli che avverranno con la spending review sulla quale sta lavorando il Commissario Cottarelli, vi è comunque – in questa legge di stabilità – una riduzione complessiva di un miliardo e 150 milioni dal 2015 del livello statale di finanziamento del Servizio sanitario nazionale. Una riduzione conseguente al risparmio derivante dalle norme sul blocco dell'indennità di vacanza contrattuale sui valori in godimento al 31 dicembre 2013, e ad una serie di interventi sul trattamento accessorio del personale del Servizio sanitario nazionale.
      Non è quindi vero che la legge di stabilità non impone ulteriori tagli alla sanità, come ha fin qui sostenuto anche la Ministra Lorenzin. Sul personale sanitario si applicano le stesse disposizioni che sono previste per tutto il pubblico impiego (indennità di vacanza contrattuale, blocco della contrattazione, trattamento economico accessorio, ecc.), disposizioni che si aggiungono a quelle già introdotte negli anni passati e che rendono ancora più critica la situazione del personale.
      Questi «tagli» sul personale sanitario incidono inevitabilmente sui livelli di assistenza. Dopo anni di riorganizzazioni, incertezze, restrizioni e blocchi stipendiali, i professionisti della sanità risultano quasi ovunque sempre più penalizzati.
      È evidente che oltre certi limiti, la richiesta di continui sacrifici non può che

 

Pag. 36

tradursi in un peggioramento delle condizioni di lavoro e, di conseguenza, in una riduzione della quantità e della qualità dei servizi sanitari erogati.
      La legge di stabilità in esame inoltre, non prevede alcuno stanziamento aggiuntivo, e quindi non dà alcuna soluzione all'annoso problema degli specializzandi e al diritto alla formazione post-laurea delle giovani generazioni di laureati in medicina e nelle altre discipline dell'area sanitaria.
      Attualmente le risorse finanziarie destinate alla formazione post-laurea è sufficiente a finanziare circa 2500 nuovi contratti di specializzazione a fronte di 7500 aspiranti specializzandi che nel 2014 concorreranno per l'accesso alle scuole di specializzazione di area medica. Inoltre non consente l'equiparazione contrattuale degli specializzandi di area sanitaria laureati in altre discipline e dei corsisti in medicina generale.
      A fronte di detti mancati stanziamenti, il governo ha invece trovato 400 milioni di euro per finanziare i Policlinici universitari gestiti da università non statali con 50 milioni per il 2014 e 35 milioni annui per gli anni dal 2015 al 2024.
      Si stanziano quindi 400 milioni di euro (seppure in 10 anni) per i policlinici privati, mentre non si trovano risorse per gli specializzandi, per la stabilizzazione dei precari nella sanità, per allentare il blocco del turn over, per la messa in sicurezza degli ospedali pubblici.
      Per quanto riguarda specificatamente lo Stato di previsione del Ministero della salute (Tabella 14), si evidenziamo complessivamente delle riduzione di stanziamenti rispetto alla legge di Bilancio dello scorso anno:

          il programma 20.1 – Prevenzione e comunicazione in materia sanitaria umana e coordinamento in ambito internazionale –, viene ridotto per il 2014 di 4,7 milioni euro;

          una diminuzione di 8 milioni di euro riguarda il programma 20.2 – Sanità pubblica veterinaria, igiene e sicurezza degli alimenti (quasi tutta a carico degli interventi, soprattutto a carico del capitolo 5391 – Spese per il potenziamento della sorveglianza epidemiologica delle encefalopatie spongiformi trasmissibili, delle altre malattie infettive e diffusive degli animali, nonché del sistema di identificazione e registrazione degli animali);

          il capitolo di bilancio n. 2406 – Progetto Ospedale territorio senza dolore non presenta stanziamenti nel triennio in esame; il programma 20.4 – Regolamentazione e vigilanza in materia di prodotti farmaceutici ed altri prodotti sanitari ad uso umano e di sicurezza delle cure – che nel 2013 presenta un dato assestato pari a 481 milioni di euro, sconta una diminuzione visto che le previsioni per il 2014 per il suddetto programma 20.4, si attestano ora a 448,4 milioni di euro.

Ancora risorse per i sistemi d'arma.

      I commi da 21 a 24 dell'articolo 1 del disegno di Legge di Stabilità, a seguito delle modifiche intervenute al Senato, recano disposizioni in materia di programmi industriali di interesse delle Difesa. In particolare si dispone che, al fine di assicurare il mantenimento di adeguate capacità nel settore marittimo a tutela degli interessi di difesa nazionale e nel quadro di una politica comune europea, consolidando strategicamente l'industria navalmeccanica ad alta tecnologia, sono autorizzati contributi ventennali, di 40 milioni di euro a decorrere dall'anno 2014, di 110 milioni di euro a decorrere dall'anno 2015 e di 140 milioni di euro a decorrere dall'anno 2016, da iscrivere nello stato di previsione del Ministero dello sviluppo economico.
      Inoltre è previsto che parte dei contributi già assegnati per il consolidamento della flotta navale siano destinati al finanziamento:

          1) di programmi di ricerca e sviluppo di cui all'articolo 3 della legge 808/1985 prevedendo due contributi ventennali rispettivamente di importo di 30 milioni di euro a decorrere dall'anno 2014 e di 10 milioni di euro a decorrere dall'anno 2015;

 

Pag. 37

          2) della prosecuzione degli interventi in favore degli investimenti delle imprese marittime, già approvati dalla Commissione europea con decisione notificata con nota SG (2001) D/285716 del 1° febbraio 2001, è autorizzato un contributo ventennale di 5 milioni di euro a decorrere dall'esercizio 2014;

          3) di progetti innovativi di prodotti e di processi nel campo navale avviati negli anni 2012 e 2013 ai sensi della disciplina europea degli aiuti di Stato alla costruzione navale n. 2011/C364/06, in vigore dal 1° gennaio 2012, con un contributo ventennale di 5 milioni di euro a decorrere dall'esercizio 2014.

      Detti finanziamenti, in buona sostanza, sembrano confermare la prova provata della volontà di costruire nuove navi, non uscire dal costoso Programma FREMM, il che appare del tutto inaccettabile, se solo si considera l'aumento considerevole della tassazione previsto a copertura del provvedimento in esame, anche a seguito delle modifiche approvate in sede di esame del provvedimento presso il Senato della Repubblica.
      Il comma 162 dell'articolo 1 provvede al rifinanziamento di 614 milioni per il 2014 del fondo per missioni internazionali di pace senza alcuna specificazione in merito alle missioni internazionali a cui il nostro Paese intenda partecipare.
      Tale rifinanziamento, in mancanza di norme quadro sulle partecipazioni alle missioni internazionali appare ancora una volta vago e indeterminato anche alla luce della previsione nello stato dell'economia e delle finanze al capitolo 3004, nel fondo di riserva per le spese derivanti dalla proroga delle missioni internazionali di pace l'importo di 1.318,7 milioni di euro.
      Tale importo a bilancio presupporrebbe la proroga di missioni come quella in Afghanistan in mancanza di una deliberazione del Parlamento, sottraendo risorse che potrebbero essere dispiegate per la cooperazione allo sviluppo ed i processi di pace anche in quel Paese.
      La prospettiva dovrebbe essere quella del ritiro da tutte quelle missioni a chiara valenza aggressiva e di guerra e che non si iscrivono in una condizione, coordinata dalla comunità internazionale, di reale appoggio a situazioni in via di soluzione politica.
      Il comma 170 dell'articolo 1 rifinanzia il fondo per la tenuta in efficienza dello strumento militare.
      Tale fondo è finalizzato alla tenuta in efficienza dello strumento militare, mediante interventi di sostituzione, ripristino e manutenzione ordinaria e straordinaria di mezzi, materiali sistemi, infrastrutture, equipaggiamenti e scorte, per assicurare l'adeguamento delle capacità operative e dei livelli di efficienza ed efficacia delle componenti militari; nel testo originario al Senato, tale fondo veniva rifinanziato con 50 milioni, mentre nel testo licenziato viene ridotto a 30 milioni.
      La scelta appare incoerente. Alla luce anche degli ingenti investimenti nel settore della difesa viene da chiedersi su quale modello di difesa sono riferiti tali investimenti se si riducono le spese per la manutenzione e l'esercizio.
      Considerato il programma di spending review attuato anche al Ministero della Difesa, nella prospettiva di contenere le spese, tali ulteriori investimenti sopra richiamati e gli ulteriori tagli all'esercizio previsti nella legge di Stabilità evidenziano una visione strategica della difesa totalmente sbagliata e non in linea con le esigenze di un paese moderno e civile orientato al perseguimento della pace come anche sancito dal dettato costituzionale.
      Andrebbero cancellati i programmi d'armamento iscritti a bilancio nel Ministero della difesa, come la partecipazione italiana al programma del cacciabombardiere F-35 Joint Strike Fighter, inutile considerato il programma già avviato per acquisire i caccia Eurofighter; come andrebbe cancellato l'acquisto della seconda serie di sommergibili U-212.
      Le somme liberate da tali inutili investimenti potrebbero essere impegnati per la riconversione dell'industria a produzione militare, sfruttando il già eccellente know-out accumulato in questi anni; per

 

Pag. 38

aumentare le risorse destinate al servizio civile, nonché quelle da destinare alla cooperazione allo sviluppo.
      Tutte le misure intraprese non sembrano andare nella prospettiva della riduzione delle spese militari, portandola auspicalmente sotto i 20 miliardi annui, che potrebbe essere già realizzata a partire dal 2014 con gli interventi già citati.

Infrastrutture, Trasporti e Comunicazioni.

      Per quanto riguarda lo Stato di previsione del Ministero delle Infrastrutture si segnala che la missione relativa a «Infrastrutture pubbliche e logistica», stanzia circa 3,8 miliardi di euro per il 2014, con una diminuzione di 360,2 milioni di euro rispetto all'assestamento del 2013.
      Il programma relativo ad «Opere strategiche, edilizia statale ed interventi speciali e per pubbliche calamità», con uno stanziamento di 2,7 miliardi di euro, risulta inferiore di 192,8 milioni di euro rispetto alle previsioni assestate 2013.
      Accanto al finanziamento di interventi infrastrutturali condivisibili, per esempio l'autostrada Salerno-Reggio Calabria, i provvedimenti in esame, continuano a stanziare ingenti risorse per le grandi opere laddove la vera e urgente priorità infrastrutturale dovrebbe essere individuata in un programma di messa in sicurezza del nostro territorio.
      Il sistema «MOSE» viene finanziato con 151 milioni di euro per il 2014, 100 milioni per il 2015, 71 milioni per il 2016 e 79 milioni di euro per l'anno 2017.
      Il progetto TAV può contare su 49 milioni di euro per il 2014, 243 milioni per il 2015, 141 milioni per il 2016, e 2 miliardi di euro dal 2017.
      Si conferma così il consistente rifinanziamento per gli anni 2016, 2017 e successivi, della nuova linea ferroviaria Torino-Lione fino al 2019, opera inutile rispetto a quanto previsto dall'Europa, e del tutto incompatibile con l'ordine di priorità di destinazione delle risorse che dovrebbe essere applicato nell'agenda politica del Governo.
      Nello stato di previsione del Ministero delle infrastrutture e trasporti, la missione 13 «Diritto alla mobilità» subisce una serie di tagli in termini di competenza, che rischiano di avere pesanti effetti sul diritto alla mobilità dei cittadini. In particolare, alla missione relativa al «Diritto alla mobilità» sono destinate, per il 2014, risorse pari a 7,4 miliardi di euro, che sconta una riduzione di 795,8 milioni di euro rispetto alle previsioni dell'assestamento 2013. In tale ambito, il programma 13.6 (corrispondente al n. 2.7 della Tabella 10) relativo allo «Sviluppo e sicurezza della mobilità locale», sono appostati 5,6 miliardi di euro, con una riduzione di circa 245 milioni rispetto alle previsioni assestate.
      Ciò appare particolarmente grave e preoccupante considerato l'impegno più volte manifestato dall'attuale Governo a reperire, nel rispetto dei vincoli di finanza pubblica, le risorse necessarie per realizzare il rilancio del trasporto pubblico locale e corrispondere alle esigenze ripetutamente manifestate dai cittadini ed in particolare dai pendolari, garantendo al contempo, la piena funzionalità e lo sviluppo del settore dei trasporti per via aerea, marittima e terrestre e corrispondere alle esigenze ripetutamente manifestate in particolare dalle imprese e dai cittadini.
      E questo indipendentemente dal fatto che le variazioni apportate dal Senato al disegno di legge di stabilità 2014 abbiano limitato tale riduzione principalmente in relazione ai programmi 13.2 autotrasporto e intermodalità e 13.6 sviluppo e sicurezza della mobilità locale.
      Nell'ambito della missione relativa a «Infrastrutture pubbliche e logistica», seppur non di diretta competenza della Commissione IX ma della VIII, si rileva come siano stanziati circa 3,8 miliardi di euro per il 2014, con una diminuzione di 360,2 milioni di euro rispetto all'assestamento 2013.
      In virtù delle risultanze della nota di variazione lo stanziamento relativo alla missione 14 per l'anno 2014, inizialmente pari precisamente a 3.852,6 milioni di euro, risulta incrementato di 618,4 milioni,

 

Pag. 39

per cui risulta pari a 4.471 milioni di euro. Nell'ambito di tale missione, il 70 per cento delle risorse è concentrato nel programma 14.10 (opere strategiche, edilizia statale ed interventi speciali e per pubbliche calamità) con 3.131 milioni di euro (tale importo è la risultante di un incremento di 280,8 milioni disposto dalla nota di variazioni).
      Nell'ambito di tale ultima missione, gran parte delle risorse sono concentrate nel programma relativo ad «Opere strategiche, edilizia statale ed interventi speciali e per pubbliche calamità» (n. 14.10, che corrisponde al n. 1.7 della Tabella 10), con uno stanziamento di 2,7 miliardi di euro, inferiore di 192,8 milioni di euro rispetto alle previsioni assestate 2013.
      Per il programma relativo a «Sistemi stradali, autostradali, ferroviari e intermodali» (n. 14.11, corrispondente al n. 1.2 della Tabella 10), si rileva che le risorse di tale programma, inizialmente pari a 961,3 milioni di euro (-159,3 milioni di euro rispetto al dato assestato 2013, pari al 14,2 per cento), risultano elevate di 338 milioni in virtù della nota di variazioni. Lo stanziamento di competenza risultante per il 2014 è quindi pari a 1.299,3 milioni di euro.
      Pur tuttavia, se si confronta la serie storica dal 2008 al 2013 agli stanziamenti previsti per la missione 14 emerge che le risorse disponibili si sono ridotte drasticamente, con ciò impedendo la realizzazione di importanti interventi per migliorare e potenziare la dotazione infrastrutturale del Paese.
      Anche tale aspetto appare particolarmente criticabile considerati gli impegni recentemente assunti dall'attuale Governo a reperire le risorse necessarie, anche di provenienza comunitaria, da destinare al miglioramento e al potenziamento della dotazione infrastrutturale del Paese in termini di reti e nodi, di plurimodalità e di logistica, e soprattutto di grandi assi di collegamento, nonché ad adottare specifici interventi per lo sviluppo sia dei sistemi portuali sia di quelli aeroportuali italiani, che rispetto ai principali sistemi concorrenti in Europa e nel mondo, accusano un forte ritardo competitivo, potenziando il loro raccordo intermodale con la rete ferroviaria.
      Con riferimento alla disposizioni contenute nel disegno di legge di stabilità del Governo si rileva inoltre che all'articolo 1 comma 43 si interviene in modo assai curioso in materia di lavori del sistema Mose, TAV e SS172 dei Trulli stralcio funzionale.
      Nella versione originaria del testo questa norma autorizzava la spesa di 200 milioni di euro per l'anno 2014, 100 milioni di euro per l'anno 2015, 71 milioni di euro per l'anno 2016 e 30 milioni di euro per l'anno 2017 per consentire:

          a) la prosecuzione immediata dei lavori del sistema MO.S.E. previsti dal 43° atto attuativo alla Convenzione generale sottoscritta tra il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti – Magistrato alle Acque di Venezia e il Consorzio Venezia Nuova, con presa d'atto da parte del CIPE;

          b) il completamento dell'intero sistema MO.S.E., con atto aggiuntivo alla Convenzione generale di cui alla lettera a) da sottoporre al CIPE entro il 30 giugno 2014.

      Nel testo successivo approvato dal Senato della Repubblica tale spesa viene ridotta a 151 milioni di euro per l'anno 2014, 100 milioni di euro per l'anno 2015, 71 milioni di euro per l'anno 2016 e 79 milioni di euro per l'anno 2017. In buona sostanza le risorse sottratte al Mose nel 2014 sono date al TAV. Si tratta di 49 milioni di euro nel 2014, cui corrisponde analoga riduzione di 49 milioni di euro nel 2017 in Tabella E.
      Secondo la Relazione tecnica presentata dal Governo tale rimodulazione non pregiudica il completamento del sistema Mose e sempre in relazione al TAV segnala che in Tabella E vengono assegnati 8 milioni di euro per l'anno 2014 in favore delle opere e misure compensative dell'impatto territoriale e sociale correlate alla realizzazione di progetti pilota nei territori interessati dal nuovo collegamento ferroviario Torino-Lione (TAV). Le relative risorse

 

Pag. 40

sono sottratte al Fondo per le infrastrutture ferroviarie e stradali e relativo ad opere di interesse strategico.
      Pur tuttavia la Relazione tecnica depositata dal Governo evidenzia che conseguentemente a tale stanziamento in favore del TAV, l'assegnazione disposta di 9 milioni di euro per la strada statale 172 dei Trulli I stralcio funzionale disposta per il 2014 con delibera CIPE 97/2013 è stata rimodulata in 1 milione di euro per il 2014 e 8 milioni di euro per il 2016.

La strada dei Trulli non s'ha da fare.

      Di fatto quindi viene sostanzialmente azzerata o rinviata alle calende la disponibilità delle risorse già previste per la realizzazione di un'opera che attende di essere completata da anni; la strada statale 172 (cosiddetta «dei Trulli») è una importante via di comunicazione che unisce Taranto a Casamassima, ove si raccorda alla strada statale 100 che da Taranto conduce a Bari; tale strada, nel suo primo tratto (Taranto-Orimini) è già stata oggetto, ormai molti anni fa, di lavori di adeguamento ed allargamento della sede e, attualmente, si presenta a quattro corsie. Il restante percorso, nonostante l'intenso traffico che l'attraversa, soprattutto durante i mesi estivi, è invece tuttora a due sole corsie.
      In data 21 novembre 2003 veniva sottoscritta fra la regione Puglia e l'ANAS una convenzione che prevedeva, tra l'altro, due importanti interventi sulla strada statale 172: l’«adeguamento e ammodernamento in sede ed in variante – IV corsia Orimini superiore», dell'importo di 15,494 milioni di euro; i «lavori di costruzione della variante di Martina Franca e del tronco Casamassima-Putignano» dell'importo di 35,537 milioni di euro. Entrambi con finanziamento ad intero carico dell'ANAS.
      L'ANAS ha previsto per la strada statale 172 i seguenti interventi: adeguamento ed ammodernamento in sede e in variante, costruzione della quarta corsia sull'Orimini superiore e variante all'abitato di Martina Franca; tronco Casamassima-Putignano, lavori di ammodernamento ed adeguamento; adeguamento della strada statale 172-dir da Fasano a Laureto, in particolare nel tratto compreso dal chilometro 6 al chilometro 9,5.
      L'adeguamento ed ammodernamento in sede e in variante, costruzione della quarta corsia sull'Orimini superiore e la variante all'abitato di Martina Franca hanno livello di progettazione definitivo.
      L'adeguamento della strada statale 172-dir da Fasano a Laureto, in particolare nel tratto compreso dal chilometro 6 al chilometro 9,5 ha un livello di progettazione preliminare.
      L'intervento relativo al tronco Casamassima-Putignano, lavori di ammodernamento ed adeguamento della sede stradale alla sezione C1, del decreto ministeriale 5 novembre 2001, esclusa la variante di Turi, ha un livello di progettazione preliminare, secondo le informazioni acquisite, da ultimo nel mese di ottobre 2011, dalla struttura di missione del Ministero della infrastrutture e dei trasporti.
      L'adeguamento ed ammodernamento in sede e in variante – costruzione della quarta corsia sull'Orimini superiore, e la variante all'abitato di Martina Franca hanno un costo stimato in 70 milioni di euro, per i quali la delibera CIPE n. 62 del 3 agosto 2011 ha assegnato complessivamente un finanziamento di 51 milioni di euro così articolato: 36 milioni di euro per l'adeguamento e ammodernamento in sede ed in variante, costruzione della quarta corsia tra i chilometri 56 e 60,5 ed asse di penetrazione a Martina Franca; 15 milioni di euro per il superamento del centro di Martina Franca.
      L'adeguamento della strada statale 172-dir da Fasano a Laureto, in particolare nel tratto compreso dal chilometro 6 al chilometro 9,5 ha un costo di 15 milioni di euro ed è integralmente finanziato con fondi messi a disposizione dalla Regione Puglia.
      I lavori di ammodernamento ed adeguamento della sede stradale alla sezione C1 del decreto ministeriale 5 novembre 2001, relativa al tronco Casamassima-Putignano,

 

Pag. 41

hanno un costo di 50,50 milioni di euro, e una copertura finanziaria indicata in 35 milioni di euro.
      I dati statistici elaborati dall'ACI e dall'ANAS per il periodo 2006-2010 evidenziano che sul tratto Putignano-Turi-Casamassima si rileva un tasso di incidentalità e di mortalità particolarmente elevato, peraltro in aumento nel corso degli ultimi anni.
      La regione Puglia ha destinato 15 milioni di euro per il finanziamento della strada statale 172 DIR e 51 milioni di euro di fondi FAS di competenza regionale per la costruzione e adeguamento della quarta corsia sull'Orimini superiore e la variante all'abitato di Martina Franca.
      Sull'infrastruttura in progetto è stimato un traffico giornaliero medio pari a circa 21.570 veicoli-giorno, l'ammodernamento del tratto Casamassima-Putignano consentirebbe di migliorare le condizioni di sicurezza della circolazione, l'adeguamento degli svincoli e la regolarizzazione degli accessi ai fondi, anche con l'introduzione di viabilità di servizio.
      Il CIPE nella seduta del 6 dicembre 2011 ha assegnato le risorse finanziarie a valere sulle disponibilità di cui all'articolo 32, comma 1, del decreto-legge n. 98 del 2011 per vari interventi.
      Lo stesso articolo 32 stanzia le risorse da finalizzare prioritariamente ai lotti costruttivi dell'AV/AC ed ai contratti di programma ANAS ed RFI.
      Il consiglio regionale della Puglia nella seduta del 24 gennaio 2011 ha approvato all'unanimità un ordine del giorno che impegnava il Presidente della giunta regionale e l'Assessore ai lavori pubblici a farsi parte attiva presso il Governo nazionale affinché fossero garantiti il finanziamento del tronco Putignano-Turi-Casamassima e l'avvio dell’iter di approvazione del progetto preliminare da parte del CIPE.
      Grazie a tale impegno, l'opera infrastrutturale è stata prima inserita nel contratto di programma ANAS 2007-2011 approvato dal CIPE nella seduta del 20 luglio 2011 e, successivamente, nella riunione del 23 marzo del 2012, il CIPE ha individuato l'ammodernamento e l'adeguamento di tale viabilità stradale come priorità, approvando il progetto e stanziando le risorse economiche necessarie per effettuare i miglioramenti all'opera infrastrutturale in questione.
      L'approvazione delle modifiche intervenute al Senato dimostrano con tutta evidenza che il Governo non intende procedere rapidamente all'assegnazione delle risorse già stanziate e destinate ai lavori di adeguamento e ammodernamento della strada statale 172 nel tratto Putignano-Turi-Casamassima, al fine di rispondere all'improcrastinabile bisogno di sicurezza delle comunità dei paesi interessati, e di fermare una ormai decennale catena di incidenti, spesso mortali, considerato che le risorse economiche precedentemente stanziate per vari interventi su tutto il territorio nazionale, e in particolare per «la statale dei trulli», siano state spostate su altre infrastrutture ritenute più meritevoli e urgenti.
      Nonostante le riduzioni previste dalla Legge di Stabilità si prevede, infatti, in Tabella E un consistente rifinanziamento per gli anni 2016, 2017 e successivi, della nuova linea ferroviaria Torino-Lione fino al 2019, opera che, anche ai più convinti sostenitori del progetto infrastrutturale, stante la drammatica crisi economica in cui versa il nostro Paese, dovrebbe apparire evidente come la realizzazione di un progetto così impegnativo per le finanze dello Stato e perfettamente inutile rispetto a quanto previsto dall'Europa, sia del tutto incompatibile con l'ordine di priorità di destinazione delle risorse che dovrebbe essere applicato e tale principio dovrebbe entrare con forza nell'agenda politica di qualsiasi Governo.

Manca una politica industriale sull'autotrasporto.

      Il comma 52 dell'articolo 1 autorizza poi la spesa di 330 milioni di euro per l'anno 2014 per interventi in favore del settore dell'autotrasporto.

 

Pag. 42


      Sotto tale profilo si segnala come risulti assolutamente inutile continuare a rifinanziare sussidi all'autotrasporto in termini di pedaggi, spese non documentate, premi RC Auto, che tendono sostanzialmente al mantenimento sul mercato di imprese marginali e non competitive.
      Da più di dieci anni a questa parte, lo Stato paga cifre esorbitanti per sostenere il settore dell'Autotrasporto. Solo nel decennio 2000-2009 sono stati spesi 3,5 miliardi di euro in favore della categoria degli autotrasportatori. Ciononostante il settore dell'autotrasporto in Italia continua a rivelarsi molto poco competitivo nell'ambito sistema economico europeo per crescita dimensionale, organizzativa e tecnologica, anche e soprattutto a causa dell'assenza di una strategia complessiva della politica nazionale in materia che dia il quadro di riferimento all'interno del quale si possano individuare finalità, priorità e risorse per il rilancio del settore, con precisi impegni dello Stato e dei diversi livelli di articolazione della Repubblica, al fine di orientare le strategie dei diversi soggetti imprenditoriali coinvolti. Sarebbe, dunque, opportuno che il Governo vari quanto prima ad una riforma organica della disciplina del settore dell'autotrasporto nel pieno rispetto dei principi della concorrenza, della trasparenza, della tutela della sicurezza stradale e della sicurezza sui luoghi di lavoro. Una riforma, dunque, che sia in grado di rilanciare concretamente un asset strategico della nostra economia attraverso il perseguimento di obiettivi mirati che non possono ridursi al semplice riordino e valorizzazione delle funzioni del Comitato centrale per l'autotrasporto introdotta al Senato con i commi da 54 a 56 dell'articolo 1.

Il trasporto pubblico locale abbandonato.

      In tema di trasporto pubblico locale si rileva che nonostante la Nota Integrativa al disegno di legge di Bilancio di previsione il trasporto pubblico locale sia considerato «l'emergenza primaria su cui concentrare le azioni di intervento», le risorse destinate al trasporto pubblico locale rimangono comunque ampiamente insufficienti e tali da non garantire il rilancio e la piena funzionalità a livello nazionale.
      Il comma 50 dell'articolo 1 dispone provvidenze per il servizio di trasporto pubblico locale, regionale e interregionale incrementando, al fine di favorire il rinnovo dei parchi automobilistici e ferroviari, la dotazione del Fondo per l'acquisto di veicoli adibiti al miglioramento dei servizi offerti per il trasporto pubblico locale istituito dall'articolo 1, comma 1031, della legge finanziaria 2007 (296/2006) di 100 milioni di euro per ciascuno degli anni del triennio 2014-2016, da destinare all'acquisto di materiale rotabile su gomma; di 200 milioni di euro per l'anno 2014 da destinare all'acquisto di materiale rotabile ferroviario. Al relativo riparto tra le Regioni si provvede entro il 30 giugno di ciascuno degli anni del triennio con le procedure di cui all'articolo 1, comma 1032, della citata legge 296/2006 sulla base del maggiore carico medio per servizio effettuato, registrato nell'anno precedente.
      Sotto tale profilo si segnala che i relativi pagamenti sono esclusi dal patto di stabilita interno, nel limite del 45 per cento, mentre nella versione iniziale del testo l'esclusione ammontava al 50 per cento dell'assegnazione di ciascuna regione per l'anno 2014. Inoltre, si evidenzia come la Conferenza delle Regioni abbia sollecitato un incremento delle risorse attualmente previste per l'acquisto del materiale rotabile gomma-ferro per un ammontare pari a almeno a 300 milioni di euro per il 2014 e più in generale abbia manifestato l'esigenza di rendere maggiormente flessibile la gestione delle risorse disponibili nell'ambito di una programmazione integrata dei servizi di trasporto pubblico locale, consentendo un utilizzo più coerente con le specifiche esigenze di servizio dei singoli territori. Ciò anche alla luce della recente riprogrammazione dei servizi di TPL, effettuata ai sensi dell'articolo 16-bis della legge n. 135/2012.
      Nell'ambito dello stato di previsione del Ministero dello Sviluppo economico per l'esercizio 2014, le spese per le missioni di

 

Pag. 43

interesse della IX Commissione trasporti, ammontano a complessivi 131,56 milioni di euro in conto competenza, suddivisi tra le seguenti missioni: Missione 15: Comunicazioni (programmi 15.5, 15.7 e 15.8): 121,33 milioni di euro; Missione 17 (programma 17.18): Innovazione tecnologica e ricerca per lo sviluppo delle comunicazioni: 8,88 milioni di euro Missione 18 (programma 18.10): Prevenzione e riduzione dell'inquinamento elettromagnetico: 1,35 milioni di euro.
      Rispetto alle previsioni assestate 2013, che complessivamente recavano per questi programmi uno stanziamento di 354,81 milioni di euro, si registra una riduzione complessiva di spesa di 223,25 milioni di euro, rimodulata in senso positivo per 26,95 milioni di euro dopo la Nota di variazioni.
      La riduzione della previsione di spesa è imputabile principalmente, per 221,45 milioni di euro, al programma 15.8 Servizi di comunicazione elettronica e radiodiffusione.
      La riduzione in particolare afferisce al capitolo 7230 (Spese per lo sviluppo delle infrastrutture di reti di comunicazione), per 150 milioni di euro e al capitolo 3121 (Contributi e rimborso oneri sostenuti dalle emittenti radiofoniche e televisive in ambito locale) per 57,38 milioni. Lo stanziamento di competenza del bilancio 2014 relativo alla missione Comunicazioni reca, come detto, previsioni di spesa per complessivi 121,33 milioni di euro. Tali spese sono così ripartite: Pianificazione, regolamentazione, vigilanza e controllo delle comunicazioni elettroniche e radiodiffusione (Programma 15.5): 53,46 milioni, ridotti a 53,38 dopo la Nota di variazioni; Regolamentazione e vigilanza nel settore postale (Programma 15.7): 3,82 milioni di euro; Servizi di comunicazione elettronica e di radiodiffusione (Programma 15.8): 64,04 milioni di euro aumentati a 90,99 milioni dopo la Nota di variazioni. Con riferimento alla missione 17, Ricerca e innovazione, la spesa prevista per il Dipartimento delle comunicazioni è pari a 8,88 milioni di euro, con una riduzione, rispetto alle previsioni assestate 2013 di 0,6 milioni di euro.

Il Piano per la banda larga.

      Per quanto di competenza, relativamente al disegno di legge di stabilità per l'anno 2014, la norma principale per il settore delle comunicazioni è prevista dall'articolo 1, comma 58, nel quale si autorizza la spesa di 20,75 milioni di euro per il 2014 al fine di completare il Piano nazionale per la banda larga, già definito dal Ministero dello sviluppo economico ed autorizzato dalla Commissione europea.
      Su questo punto si evidenzia la totale inadeguatezza da parte del Governo nel voler adottare misure immediate per l'implementazione della banda larga e ultra larga, infrastruttura di fondamentale importanza per l'ammodernamento delle imprese e per lo sviluppo dei servizi della pubblica amministrazione.
      Per la modernizzazione del Paese è fondamentale, infatti, garantire una dotazione adeguata di infrastrutture di comunicazione avanzata su tutto il territorio nazionale puntando a superare il digital divide esistente e soprattutto ad assicurare connessioni ad alta velocità a territori a più alta densità di imprese come ad esempio i distretti industriali. Si tratta di infrastrutture e tecnologie abilitanti con un chiaro effetto, diretto e indiretto, sullo sviluppo economico complessivo.
      Infatti, secondo quanto riferito dal Sottosegretario allo Sviluppo economico Catricalà, oltre ai venti milioni di euro stanziati dal provvedimento in esame ne servirebbero altri 2,5 miliardi per i prossimi quattro anni, allo scopo di raggiungere gli obiettivi dell'Agenda digitale europea fissati per il 2020.
      Sotto tale profilo si rammenta che, in data 20 settembre 2010, la Commissione Europea ha, presentato un pacchetto di misure finalizzate al raggiungimento dell'obiettivo, nel quadro dell'agenda digitale europea, di fornire ai cittadini europei l'accesso alla banda larga (base per il 2013 e veloce per il 2020).

 

Pag. 44


      Del sopra citato pacchetto sulla banda larga fa parte anche la raccomandazione relativa all'accesso regolamentato alle reti di accesso di nuova generazione (next generation networks-nga), C(2010)6223) che ha lo scopo di favorire lo sviluppo del mercato unico rafforzando la certezza del diritto e promuovendo gli investimenti, la concorrenza e l'innovazione sul mercato dei servizi a banda larga, in particolare nella transizione alle reti di accesso di nuova generazione (nga).
      Le reti di accesso di nuova generazione sono reti di accesso cablate costituite, in tutto o in parte, da elementi ottici e in grado di fornire servizi d'accesso a banda larga con caratteristiche più avanzate (quale una maggiore capacità di trasmissione) rispetto a quelli forniti tramite le reti in rame esistenti; dette reti, definite anche come delle vere e proprie «autostrade informatiche» per veicolare il traffico dati a grande velocità, in sicurezza e senza strozzature, secondo quanto emerge dal secondo rapporto dell'Osservatorio I-com sulle reti di nuova generazione, potrebbero rappresentare non solo uno strumento di sviluppo e crescita dell'economia, ma anche e soprattutto una modalità di investimento per evitare il cosiddetto «sotto-sviluppo» dei Paesi.
      Non a caso, proprio sulle reti di nuova generazione, si sono indirizzati importanti investimenti sia di carattere pubblico, che privato nei principali Paesi del mondo e, in particolare, negli Stati Uniti, in Cina, in Corea, in India e in Australia.
      Anche i Paesi europei a più elevato tasso di digitalizzazione quali il Regno Unito, l'Olanda e le economie scandinave hanno recentemente investito sulle reti di accesso di nuova generazione.
      Numerosi studi di caratura nazionale e internazionale dimostrano come le reti di nuova generazione (fisse e mobili) possono promuovere la crescita almeno di un 1 punto di prodotto interno lordo ogni 10 per cento aggiuntivo di diffusione della banda larga e, al contempo, generare importanti risparmi che, a regime, per l'Italia corrisponderebbero a quasi 40 miliardi all'anno. Sul punto, si segnala come la Banca Mondiale stimi, infatti, in 1,21 per cento l'impatto per i Paesi ad alto reddito di prodotto interno lordo aggiuntivo per ogni 10 per cento di diffusione della banda larga (Qiang e Rosotto, «Economic impacts of broadband», in Information and Communication for Development 2009: Extending Reach and Increasing Impact, Word Bank). Con riferimento specifico all'Italia, inoltre, il Progetto Italia digitale 2010 di Confindustria quantifica i risparmi grazie al telelavoro (in 2 miliardi di euro), e-learning (in 1,4 miliardi di euro), e-government e impresa digitale (in 16 miliardi di euro), e-health (in 8,6 miliardi di euro), giustizia e sicurezza digitale (in 0,5 miliardi di euro), gestione energetica intelligente (in 9,5 miliardi di euro). Analoghe considerazioni sono contenute nel rapporto Oecd (2009) «Network developments in support of innovation and user needs» – Directorate for science, technology and industry.
      Attuare l'agenda digitale in Italia appare quindi quanto mai urgente anche per il fatto che nel nostro Paese i dati di alfabetizzazione informatica, di copertura di rete fissa e di sviluppo dei servizi on line, sia sotto il profilo di utilizzo da parte dei consumatori che delle imprese, sono nettamente al di sotto della media europea. Inoltre, ad avviso dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, nel 2015, nel nord Europa il peso sul prodotto interno lordo dell'economia internet raddoppierà, mentre per l'Italia il peso dell'economia digitale rischia di rimanere modesto, qualora non si proceda rapidamente ad interventi che garantiscano una netta inversione di tendenza.
      Non si riscontrano tuttavia interventi tesi a ad assicurare un'adeguata copertura internet su tutto il territorio nazionale evitando i grossi disagi denunciati da numerosissimi utenti e Comuni, considerato che la diffusione delle risorse di connettività e delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione influenza direttamente la qualità di vita dei cittadini, le condizioni di lavoro e la competitività delle imprese e dei servizi di tutto il territorio nazionale.
 

Pag. 45

Quale sviluppo?

      Al comma 31 dell'articolo 1 del disegno di Legge di Stabilità, a seguito delle modifiche intervenute al Senato, vengono dettate nuove norme in materia di finanziamenti a imprese e famiglie attraverso la costituzione di un sistema nazionale di garanzia che a sua volta ricomprende:

          a) il Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese di cui all'articolo 2, comma 100, lettera a), della legge 23 dicembre 1996, n. 662;

          b) la Sezione speciale di garanzia «Progetti di Ricerca e Innovazione», istituita nell'ambito del Fondo di garanzia con una dotazione finanziaria di euro 100.000.000 a valere sulle disponibilità del medesimo Fondo;

          c) il Fondo di garanzia per la prima casa, per la concessione di garanzie, a prima richiesta, su mutui ipotecari o su portafogli di mutui ipotecari, istituito presso il Ministero dell'economia e delle finanze, cui sono attribuite risorse pari a euro 200 milioni per ciascuno degli anni 2014, 2015 e 2016, nonché le attività e le passività del Fondo di cui all'articolo 13, comma 3-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, che viene contestualmente soppresso.

      Al comma 32 del medesimo articolo 1, inoltre, si dispone che mediante riduzione delle risorse del Fondo per lo sviluppo e la coesione siano assegnati 200 milioni di euro per ciascuno degli anni 2014, 2015 e 2016 al Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese. Con apposita delibera del CIPE sono poi assegnati al predetto Fondo di garanzia, a valere sul medesimo Fondo per lo sviluppo e la coesione, ulteriori 600 milioni di euro. Viene, inoltre, ridotta la dotazione del Fondo per la compensazione degli effetti finanziari non previsti a legislazione vigente conseguenti all'attualizzazione di contributi pluriennali, di cui all'articolo 6, comma 2, del decreto-legge 7 ottobre 2008, n. 154, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 2008, n. 189, e successive modificazioni per 15 milioni di euro a decorrere dall'anno 2015.
      Infine, al comma 33 dell'articolo 1, per favorire l'accesso al credito delle piccole e medie imprese, si destina in parti uguali una quota del diritto annuale di cui all'articolo 18, comma 1, lettera a), della legge 29 dicembre 1993, n. 580, e una quota del Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese di cui all'articolo 2, comma 100, lettera a), della legge 23 dicembre 1996, n. 662, per un ammontare complessivo di euro 100 milioni di euro per l'anno 2014, 150 milioni di euro per l'anno 2015 e 200 milioni di euro per l'anno 2016 per costituire un Fondo presso Unioncamere con la finalità di patrimonializzare i Confidi sottoposti alla vigilanza della Banca d'Italia ovvero i Confidi che realizzeranno operazioni di fusione finalizzate all'iscrizione nell'elenco o nell'albo degli intermediari vigilati dalla Banca d'Italia, nei successivi 24 mesi dalla data di pubblicazione della legge di stabilità.
      I predetti interventi seppur condivisibili nel merito, rappresentano la summa di un sostanziale trasferimento e riallocazione di fondi che gravano, in parte, su coperture assolutamente inaccettabili considerato che a copertura di tali oneri viene decurtata di ben cinque punti percentuali l'esclusione dal patto di stabilità interno dei fondi destinati all'acquisto del materiale rotabile del trasporto pubblico locale da parte delle Regioni. I relativi pagamenti, infatti, nel testo della legge di stabilità trasmesso dal Governo al Senato venivano esclusi nel limite del 50 per cento dell'assegnazione di ciascuna regione per l'anno 2014 e integralmente per gli anni 2015 e 2016. Con le modifiche introdotte dal Senato tale percentuale viene quindi ridotta dal 50 al 45 per cento.
      È sempre a copertura di tali oneri, alla Tabella E, missione «Competitività e sviluppo delle imprese», programma «Incentivazione per lo sviluppo industriale nell'ambito delle politiche di sviluppo e coesione», voce Ministero dello Sviluppo Economico, decreto-legge n. 201 del 2011 –

 

Pag. 46

articolo 3, comma 4, Dotazione/Incremento Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese – Interventi a favore delle imprese industriali (1.3 – cap. 7342) sono decurtati in termini di cassa e di competenza ben 200 milioni di euro per ciascun degli anni 2014, 2015 e 2016.
      In buona sostanza per attivare il circuito virtuoso di questo sistema di garanzie e ricostituzione delle disponibilità dei fondi si va ad attingere agli stessi soldi che la stessa Legge di Stabilità in entrata al Senato già attribuiva alla imprese; e ciò deve considerarsi tanto più grave, considerato le risorse finanziarie complessive a disposizione del Ministero dello sviluppo economico appaiono decisamente ridotte rispetto alle previsioni assestate per l'anno finanziario 2013.
      Gli interventi in materia di ricerca e innovazione appaiono del tutto assenti, come sono assenti le indicazioni di carattere programmatico che pure ci sarebbero dovute essere in relazione alle politiche economiche e di settore da adottare in tal senso.
      Le misure volte a sostenere direttamente il sistema delle imprese sono contenute quasi unicamente nei primi 65 commi della Legge di Stabilità e, nonostante le modifiche approvate dal Senato, non sembrano riuscire a sortire gli effetti economici positivi e anticiclici sperati.
      Al netto della previsione della dotazione aggiuntiva del Fondo per lo Sviluppo e la Coesione di 54, 810 milioni di euro, le misure introdotte al Senato appaiono del tutto irrilevanti e di bassa efficacia. E anche in relazione a questa ultima misura relativa, come si è detto, all'incremento della dotazione del Fondo per lo Sviluppo e la Coesione, il Servizio del Bilancio del Senato ha segnalato, che pur essendo l'onere per il bilancio dello Stato limitato all'entità dello stanziamento, il prospetto riepilogativo rende conto solo degli effetti finanziari per il triennio 2014-2016, mentre non è illustrato la ripartizione dell'onere, di notevole entità, che graverà sugli esercizi 2017-2020.
      I commi da 21 a 24 dell'articolo 1 recano disposizioni in materia di programmi industriali di interesse delle Difesa. In particolare si dispone che, al fine di assicurare il mantenimento di adeguate capacità nel settore marittimo a tutela degli interessi di difesa nazionale e nel quadro di una politica comune europea, consolidando strategicamente l'industria navalmeccanica ad alta tecnologia, sono autorizzati contributi ventennali, di 40 milioni di euro a decorrere dall'anno 2014, di 110 milioni di euro a decorrere dall'anno 2015 e di 140 milioni di euro a decorrere dall'anno 2016, da iscrivere nello stato di previsione del Ministero dello sviluppo economico. Inoltre è previsto che parte dei contributi già assegnati per il consolidamento della flotta navale siano destinati al finanziamento:

          1) di programmi di ricerca e sviluppo di cui all'articolo 3 della legge 808/1985 prevedendo due contributi ventennali rispettivamente di importo di 30 milioni di euro a decorrere dall'anno 2014 e di 10 milioni di euro a decorrere dall'anno 2015;

          2) della prosecuzione degli interventi in favore degli investimenti delle imprese marittime, già approvati dalla Commissione europea con decisione notificata con nota SG (2001) D/285716 del 1° febbraio 2001, è autorizzato un contributo ventennale di 5 milioni di euro a decorrere dall'esercizio 2014;

          3) di progetti innovativi di prodotti e di processi nel campo navale avviati negli anni 2012 e 2013 ai sensi della disciplina europea degli aiuti di Stato alla costruzione navale n. 2011/C364/06, in vigore dal 1 gennaio 2012, con un contributo ventennale di 5 milioni di euro a decorrere dall'esercizio 2014.

      Detti finanziamenti, in buona sostanza, sembrano confermare la prova provata della volontà di costruire nuove navi, non uscire dal costoso Programma FREMM; il che appare del tutto inaccettabile, se solo si considera l'aumento considerevole della tassazione previsto a copertura del provvedimento in esame, anche a seguito delle modifiche approvate in sede di esame del

 

Pag. 47

provvedimento presso il Senato della Repubblica.
      Si segnala, infatti, che in Tabella E il finanziamento del perseguimento del programma di sviluppo per l'acquisizione delle unità navali FREMM ammonta a 785 milioni di euro per il 202014, 778 milioni di euro per il 2015, 526 milioni di euro per il 2016, 899 milioni di euro dal 2017 in poi.

Gli enti territoriali sotto pressione.

      L'Associazione dei Comuni ha presentato un'elaborazione che dimostra come il concorso del sistema dei Comuni negli anni sia stato di gran lunga superiore al peso finanziario sull'intero Comparto della PA. Allo stesso tempo altri Comparti, come quello delle Amministrazioni centrali, evidenziano una crescita esponenziale della spesa e poi nell'ultimo triennio una sostanziale invarianza, a fronte invece di interventi normativi che avrebbero dovuto avere come esito riduzioni percentualmente rilevanti. I dati dimostrano, inoltre, che i Comuni hanno subito una manovra finanziaria pari a circa 16 miliardi, come i vincoli del Patto di Stabilità stiano deprimendo gli investimenti locali ( nel periodo 2007-2012 si registra -28 per cento di spesa per investimenti) e che l'aumento della pressione fiscale sulla casa, introdotto dal cd. Decreto legge «Salva Italia» ha determinato un aumento di risorse per lo Stato ed una riduzione di risorse per i Comuni, anche a causa dei cosiddetti «tagli occulti».
      Vogliamo pertanto, richiamare la massima sulla reale situazione finanziaria dei Comuni, caratterizzata ormai da troppi anni da instabilità ed emergenza e da una costante riduzione di risorse, derivanti dai gravissimi tagli subiti negli ultimi anni e dagli effetti di una confusa gestione dei continui mutamenti della disciplina in materia di imposta sulla casa, così come sugli effetti perversi dei vincoli del Patto di Stabilità.
      Rileviamo come la spesa dei Comuni ammonta a solo il 7,6 per cento della spesa complessiva della P.A. (Stato 29.9 per cento; Regioni e sanità 18,00 per cento; Province 1,3 per cento; Enti previdenziali 39,0 per cento; Altre amministrazioni locali e centrali 4,2 per cento), mentre il debito dei Comuni pesa per il 2,5 per cento sul debito totale della P.A..

La manovra del comparto comunale
(2007-2014)

Manovra, di cui: 16.177
Patto di stabilità interno 8.727
Taglio DL 201/2011 1.450
Taglio DL 78/2010 2.500
Spending review 2.500
Taglio occulto ICI/IMU 1.000

Elaborazione IFEL su dati MEF e Ministero Interno.

      L'obiettivo del Patto di stabilità interno per i Comuni dal 2007 al 2014 aumenta di 8,7 miliardi di euro, risorse che i Comuni avrebbero potuto utilizzare per fornire servizi ai cittadini e realizzare investimenti. Se sommiamo le altre quattro voci presenti nella tabella, ci accorgiamo che le risorse statali trasferite ai Comuni nello stesso periodo subiscono una riduzione di 7,45 miliardi.
      Se poi guardiamo i saldi di finanza pubblica relativi all'anno 2012, constatiamo che lo Stato presenta un deficit di 52, 38 miliardi, pari al più del 13 per cento delle proprie entrate totali, mentre il comparto dei Comuni presenta un avanzo di 1,7 miliardi, pari al 2,6 per cento delle proprie entrate totali. Questo avanzo dei Comuni è determinato dai vincoli del Patto di stabilità interno, che obbliga i Comuni a generare avanzi di bilancio, fornendo spazi finanziari che vanno a beneficio delle altre pubbliche amministrazioni e che potrebbero invece essere utilizzati per servizi ed investimenti.
      Per rispettare gli stringenti vincoli di bilancio imposti, i Comuni hanno ridotto del 28 per cento gli investimenti negli ultimi 6 anni (si sono persi complessivamente 4,4 mld dal 2007 al 2012).

 

Pag. 48


      Ma anche per la spesa corrente i Comuni sono «virtuosi». Infatti, mentre lo Stato dal 2009 si assesta su un livello di spesa corrente del + 8 per cento rispetto al 2008 senza mai riuscirla a ridurre, i Comuni dal 2010 hanno ridotto la spesa corrente del 2,5 per cento, tornando ai livelli del 2008.
      Sui Comuni si scarica l'onere di aumentare le tasse. Nel 2012 – per citare un solo esempio – il DL «Salva Italia», al fine di rientrare nei parametri europei, ha aumentato il prelievo dell'IMU e nel contempo ha ridotto i trasferimenti ai Comuni: i cittadini hanno visto aumentare la pressione fiscale, mentre per i Comuni vi è stata una invarianza di risorse, e lo Stato ha registrato un aumento di entrate di 8 miliardi, lasciando peraltro invariata la sua spesa corrente.
      Ma non è finita qui: nel 2013 le risorse dei Comuni subiscono un ulteriore riduzione di un miliardo rispetto al 2012. I Comuni hanno infatti esercitato un ulteriore sforzo fiscale sull'IMU di un miliardo di euro, che non ha compensato la riduzione di oltre 2 miliardi subita dal comparto con la spending review 2013.
      Le Regioni e le Province autonome evidenziano due ordini di problemi che condizionano il parere sul disegno di legge che, se non risolti, comprometteranno tutte le politiche regionali oltre a quelle che il legislatore ha cercato di programmare nel provvedimento:

          1. il disegno di legge prevede stanziamenti incongrui rispetto al fabbisogno come ad esempio per la «Cassa in deroga» e stanziamenti ampiamente sottostimati quali il Fondo per la non autosufficienza; il Fondo nazionale per le politiche sociali; il Fondo nazionale per il Trasporto pubblico locale; acquisto autobus e materiale rotabile; solo per citare quelli principali;

          2. il concorso delle autonomie regionali al miglioramento del saldo netto da finanziare è pari a 800 milioni (560 milioni per le RSO e per 240 milioni per le RSS) mentre la riduzione dell'obiettivo programmatico del patto di stabilità (accompagnate da tagli ai trasferimenti dello Stato alle Regioni) è pari a 1 miliardo (700 mln RSO; 300 mln RSS) per il 2014 e a decorrere dal 2015 è pari a 1,344 miliardi (941 mln RSO e 403 mln RSS).

      Un simile taglio sull'obiettivo programmatico del patto e l'insostenibile contributo al saldo netto da finanziare si aggiungono ai tagli di trasferimenti (o riversamenti allo Stato) previsti dal DL 95/2012 per 1.050 miliardo nel 2015 e ai tagli delle precedenti manovre dal DL 78/2010 (8,955 miliardi per il 2013).
      Per quanto riguarda il contributo al saldo netto da finanziare, a legislazione vigente, le Regioni non hanno più trasferimenti statali, continuativi e ricorrenti, da poter ridurre; ne consegue che parte delle proprie risorse tributarie dovranno essere versate allo Stato. Tale contributo compromette inevitabilmente gli equilibri dei bilanci regionali (e impedisce di svolgere le politiche regionali). Si richiede di riversare un totale di entrate correnti pari al 6,5 per cento medio con punte prossime al 10 per cento in alcune Regioni. Ne consegue l'impossibilità di reperire nei bilanci regionali anche delle risorse per i cofinanziamenti regionali agli interventi finanziati dall'UE (per il periodo di programmazione 2014/2020 dovrebbero concorrere per il 30 per cento). Le Regioni chiedono la soppressione del contributo sul saldo netto da finanziare, altrimenti si vedranno costrette a rinunciare a quegli stanziamenti previsti dal disegno di legge e finanziati (peraltro solo in termini di saldo netto) con lo stesso contributo che viene richiesto alle medesime.
      L'utilizzo delle risorse dei programmi europei è pregiudicato, altresì, dall'ulteriore riduzione dell'obiettivo del patto di stabilità in quanto il cofinanziamento dei programmi UE non può essere escluso dal patto di stabilità (attualmente per il 2014 è possibile solo per 1 miliardo – comma 7, articolo 2, del DL 35/2013- somma inferiore anche al 2013). La stessa problematica si riscontra sul Fondo per lo Sviluppo e coesione.

 

Pag. 49


      Le Regioni chiedono, dunque, la totale esclusione dei cofinanziamenti dal patto di stabilità.
      Stante queste criticità, le norme previste dal disegno di legge stabilità 2014 risultano inapplicabili per le Regioni.
      Le Regioni, ritengono necessario concentrarsi prioritariamente su queste proposte imprescindibili:

          1. per la sostenibilità dell'equilibrio di bilancio delle regioni eliminando il contributo sul saldo netto da finanziare utilizzando altre risorse attribuite alle regioni;

          2. sul patto di stabilità interno attraverso:

              a) l'eliminazione del tetto di competenza finanziaria;

              b) l'esclusione dei cofinanziamenti nazionali ai programmi UE;

              c) l'introduzione del patto di stabilità integrato.

      Richiedono altresì l'emanazione del decreto attuativo per l'attribuzione del gettito IVA in base all'attività di recupero fiscale.

Per una diversa politica economica: le proposte di SEL.

      Premesso che le misure nazionali non sono sufficienti e a volte nemmeno realizzabili senza modifiche importanti delle politiche dell'Unione europea, riteniamo che una manovra di finanza pubblica che corrisponda alle reali esigenze del Paese, in termini di stimolo all'occupazione e per la realizzazione di una maggiore equità nella distribuzione dei redditi, debba basarsi su due pilastri fondamentali: un Piano per il lavoro per realizzare il Green New Deal; una riforma fiscale per operare una ridistribuzione del reddito e stimolare i consumi.
      Il Gruppo SEL della Camera ha presentato 285 emendamenti alla legge di stabilità su cinque temi principali:

          1) un piano per il lavoro per realizzare il Green New Deal;

          2) un forte aumento delle risorse per contrastare il dissesto idro-geologico finanziato con la drastica riduzione delle spese per i sistemi d'arma e per le grandi opere inutili;

          3) redistribuzione del reddito a favore dei lavoratori e dei pensionati;

          4) l'aumento delle risorse per scuola e università;

          5) un pacchetto di misure per la casa.

1. Un piano per il lavoro per realizzare il Green New Deal.

      Proponiamo la realizzazione di un Piano sperimentale triennale per il lavoro con una dotazione in tre anni di circa 25 miliardi di euro provenienti dalla soppressione delle misure previste nella legge di stabilità per la riduzione del cuneo fiscale, misure che riteniamo carenti e, nelle modalità previste, del tutto inutili, e da altre proposte di copertura.
      Il Piano per il lavoro può determinare l'assunzione di circa di circa 1, 5 milioni di disoccupati in tre anni.
      Inoltre, prevediamo che le spese in conto capitale degli enti territoriali relative ad interventi collegati al Piano del lavoro siano tenute fuori dai saldi del patto di stabilità interno per 1.300 milioni annui.
      Agli interventi per prevenire il dissesto idrogeologico destiniamo 1.000 milioni l'anno per il triennio 204-2016 (+ 970 mln nel 2014; + 950 mln nel 205 e + 900 mln nel 2016, rispetto a quanto previsto dalla legge di stabilità).
      Prevediamo un piano di 1,2 miliardi nel triennio per la realizzazione di asili nido pubblici e la messa in sicurezza di quelli esistenti.
      Finanziamo un piano di efficientamento energetico degli edifici pubblici per 300 milioni l'anno.
      Prevediamo ulteriori risorse per 300 milioni l'anno per il triennio 2014-2016 per la messa in sicurezza degli edifici scolastici.

 

Pag. 50


      Per incrementare l'occupazione non serve tanto agire prevalentemente sull'offerta (alcune misure in tal senso sono comunque utili) quanto sulla domanda di lavoro. Se il mercato è in questa fase inefficiente al riguardo, deve intervenire il pubblico.
      Proponiamo dunque che ci sia un insieme di misure organiche di politica economica che superino le politiche di austerity a favore di interventi ed investimenti di sostegno alla domanda, al lavoro, ai redditi, alla lotta alla povertà.
      Occorre una spesa pubblica aggiuntiva di 25-30 miliardi di euro (oltre ai già previsti rimborsi dei loro crediti alle imprese) per i prossimi due-tre anni, in particolare per promuovere un Piano straordinario per il lavoro fondato su una politica di investimenti pubblici, di sostegno alle imprese, sulla riconversione ecologica dell'economia, la promozione di un piano straordinario di «piccole opere», il sostegno al welfare.
      Il Piano straordinario per il lavoro deve prevedere misure per creare da subito centinaia di migliaia di posti di lavoro veri, qualificati, utili. Esso si basa su tre assi:

          a) lavori pubblici qualificati,

          b) una politica industriale di riconversione ecologica dei settori portanti della nostra economia,

          c) un nuovo welfare.

      A. L'asse di un Piano per il lavoro, deve consistere innanzitutto nella messa in sicurezza del nostro territorio e degli edifici scolastici, la cura e la valorizzazione del paesaggio e dei beni culturali, il rilancio di un'agricoltura multifunzionale, la riqualificazione delle città, l'efficienza energetica degli immobili.
      Proponiamo, in particolare, di avviare un Piano pluriennale per la difesa del suolo e la messa in sicurezza del territorio, prevedendo che l'utilizzo delle necessarie risorse provenienti dallo Stato da parte di regioni ed enti locali, sia escluso dal Patto di stabilità interno.
      Occorre anche allentare il patto di stabilità interno per rilanciare il settore dell'edilizia, con l'apertura di mille piccoli cantieri, garantendo al contempo un migliore utilizzo dei fondi strutturali europei.
      Serve una revisione del sistema fiscale che finalmente adegui il nostro Paese agli obiettivi di tutela ambientale che l'Europa ci chiede da tempo, spostando progressivamente il carico fiscale dal lavoro e dalle imprese al consumo di risorse energetiche e naturali (cosiddetto «riciclaggio del gettito»).
      Proponiamo di stabilizzare l'attuale detrazione prevista per gli interventi finalizzati al risparmio e all'efficientamento energetico degli immobili, e prorogare le attuali detrazioni previste per gli interventi di adeguamento antisismico, estendendole anche a immobili ubicati in aree a rischio sismico che non rientrano nelle zone sismiche 1 e 2.

      B. Proponiamo un programma nazionale che punti al rilancio del settore manifatturiero fondato sugli investimenti in innovazione e ricerca, sulla green economy, sulle produzioni ed i consumi sostenibili nella direzione di un nuovo modello di sviluppo, attraverso l'adozione di molteplici iniziative volte a:

          una politica di investimenti nella cultura, nella formazione, conoscenza e nella ricerca, aumentando le risorse per la scuola e l'università, combattendo la dispersione e l'abbandono scolastico;

          realizzare una politica energetica più concorrenziale, in linea con le direttive dell'Unione Europea, fondata sull'efficienza e sul risparmio energetico, sulla diversificazione delle fonti, sulla riduzione dei combustibili fossili, sullo sviluppo delle fonti rinnovabili, sul potenziamento delle infrastrutture, e favorire il raggiungimento degli obiettivi della Strategia Europa 2020 sulla quota del 20 per cento di fonti rinnovabili e sull'efficienza energetica;

          riallocare le energie lavorative sui livelli più alti della filiera produttiva e sui livelli più raffinati dal punto di vista tecnologico con l'innovazione e la sostenibilità

 

Pag. 51

delle reti (trasporti, energia, digitalizzazione del Paese,...);

          ridurre il carico fiscale per liberare risorse da destinare alla produzione e al lavoro;

          sostenere concretamente la domanda interna procedendo velocemente alle liberalizzazioni dei settori protetti;

          modernizzare il sistema produttivo con lo sviluppo delle tecnologie ambientali e dei servizi sociali, settori che possono offrire interessanti sbocchi occupazionali;

          adottare con urgenza specifiche misure di rilancio della politica industriale, affinché Finmeccanica modifichi la propria strategia industriale attraverso investimenti ed anche con trasferimento di tecnologie dal militare al civile, fermando qualsiasi ipotesi di cessione degli asset civili;

          adottare con urgenza specifiche misure volte a riqualificare il trasporto pubblico utilizzando Breda Menarini, di IRISBUS, evitandone la chiusura, come polo di sviluppo della mobilità pubblica, nonché a porre in essere ogni atto di competenza volto a far sì che la FIAT condivida e persegua pienamente e chiaramente con l'Esecutivo ed il Paese impegni concreti in Italia in termini di investimenti, prodotti, allocazioni di risorse e tutela dell'occupazione;

          esercitare i poteri speciali che per legge competono al Governo per tutelare l'interesse nazionale in caso di passaggio di proprietà straniera di importanti aziende italiane come Telecom, ma anche nella denegata ipotesi di cessione di Alitalia o di imprese con il marchio Ansaldo del Gruppo Finmeccanica;

          attivare ed accelerare le procedure di scorporo della rete Telecom per salvaguardare un asset strategico per il nostro Paese, garantendo il controllo nazionale dell'infrastruttura di rete e i posti di lavoro della più importante compagnia telefonica del Paese;

          evitare che la compagnia di bandiera Alitalia Compagnia Aerea Italiana S.p.a. venga di fatto «svenduta» ad Air France o che la stessa fallisca, con danno enorme per i lavoratori e i cittadini venendo trasformata in un vettore regionale e, quindi, con grave nocumento per il sistema economico italiano.

      C. Servono anche misure per l'innovazione tecnologica, la riforma e il rinnovamento della PA e del welfare. E occorre procedere per ottenere un effettivo snellimento burocratico, in un contesto caratterizzato da un eccesso di leggi, scarsità o duplicazione dei controlli, sovrapposizione di competenze.
      Il nuovo welfare deve saper offrire ammortizzatori sociali universali (reddito minimo garantito), asili nido in maniera diffusa, misure per la vecchiaia attiva, risorse e figure professionali per gestire una popolazione anziana e spesso non autosufficiente, favorire l'integrazione scolastica e sociale dei portatori di handicap. Il nuovo welfare può diventare fonte di occupazione qualificata contribuendo con i suoi servizi a favorire l'inserimento effettivo di centinaia di migliaia di donne nel mondo del lavoro.
      In quest'ambito occorre procedere al rifinanziamento su base triennale del Fondo per la non autosufficienza, incrementando le risorse ad esso assegnate, attualmente del tutto inadeguate, ed incrementare le risorse assegnate al Fondo per le politiche sociali, e più in generale, reintegrare i tagli alle risorse per le politiche socio-assistenziali e di sostegno alla famiglia.
      Da subito auspichiamo interventi sulle emergenze sociali quali la proroga delle CIG e delle mobilità in deroga, garanzie reddituali per tutti gli «esodati», la stabilizzazione dei precari della PA impiegati in servizi.
      L'incentivazione alla riduzione dell'orario di lavoro con i contratti di solidarietà può essere un utile alternativa in molti casi di crisi aziendali, così come utili possono risultare misure che destinino risorse al finanziamento del credito di

 

Pag. 52

imposta per le assunzioni a tempo indeterminato attuate dalle imprese che operano innovazioni.
      Proponiamo di recuperare risorse per il Piano per il lavoro anche da:

          il riordino e la riduzione dell'ammontare delle agevolazioni e dei trasferimenti alle imprese a fronte della loro incerta efficacia mediante una revisione delle cd. «spese fiscali» o «tax expenditures»;

          l'utilizzo di una parte delle risorse delle fondazioni bancarie, in particolare per quanto concerne il welfare;

          l'utilizzo programmato dei Fondi europei;

          l'utilizzo dei Fondi pensione attraverso progetti per favorire la canalizzazione dei flussi di risparmio verso il finanziamento degli investimenti di lungo periodo, garantendone i rendimenti previdenziali;

          un nuovo ruolo per la Cassa Depositi e Prestiti, sull'esempio francese, che deve consolidare la missione di utilizzare le sue emissioni obbligazionarie di lungo e lunghissimo termine per attirare i capitali, su investimenti strategici e di lungo periodo, modificando il ruolo del Fondo strategico italiano. Si dovrà prevedere l'istituzione di una banca d'investimento d'interesse pubblico, di una «banca verde», sull'esempio della Green Investment Bank inglese;

          l'utilizzo dei beni confiscati ai membri delle organizzazioni criminali il cui valore stimato è pari a 80 miliardi;

      Possiamo recuperare altre risorse per il Piano del lavoro da una politica di contenimento della spesa pubblica:

          riducendo i finanziamenti per le cd. «infrastrutture strategiche» con la revisione delle priorità della legge obiettivo: investire le limitate risorse pubbliche disponibili in opere infrastrutturali che siano realizzabili in tempi certi e con modalità sostenibili, sia in termini di vincoli di bilancio, che, soprattutto, dal punto di vista ambientale e sociale, procedendo innanzitutto a riequilibrare le risorse di provenienza pubblica tra quelle destinate alla costruzione di grandi opere e quelle devolute ad un programma di opere pubbliche di piccole e medie dimensioni, con particolare riferimento ad interventi di manutenzione in ambito stradale e ferroviario;

          riduzione delle spese militari a partire delle spese per sistemi d'arma (Fregate FREMM e F35, e fine della missione militare in Afghanistan;

          chiusura dei Centri di identificazione ed espulsione (CIE);

          uso di software open source per le pubbliche amministrazioni;

          riduzione dei costi della politica riducendo i livelli di governo (a partire dall'abolizione costituzionale delle province, dell'aggregazione dei piccoli comuni), le auto blu, decurtando le società partecipate dallo Stato e dagli enti decentrati, riducendo il numero dei membri dei relativi CdA e contenendo la proliferazione dei servizi «esternalizzati», riducendo drasticamente le consulenze, provvedendo altresì alla revisione dei compensi per i rappresentanti politici, nonché riformando radicalmente le attuali norme per i rimborsi elettorali ai partiti, nonché la progressiva eliminazione del ricorso agli arbitrati per quanto concerne le pubbliche amministrazioni, ecc...

2. Redistribuzione del reddito a favore dei lavoratori e dei pensionati.

      Proponiamo di istituire un fondo denominato «Fondo per l'equità e la riduzione strutturale della pressione fiscale» alimentato dalle maggiori entrate afferenti dall'aumento dell'aliquota delle rendite finanziarie, dalla revisione della Tobin Tax, dall'introduzione di due nuovi scaglioni IRPEF, per redditi fino a 100.000 euro e per redditi oltre 150.000 euro, ed aumento della cosiddetta «minipatrimonialina».
      Il Fondo è destinato alla realizzazione dei seguenti obiettivi: aumento delle detrazioni

 

Pag. 53

fiscali per i carichi familiari; aumento degli assegni per il nucleo familiare; aumento delle detrazioni dell'imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) per il lavoro dipendente e per le pensioni, concentrando il massimo beneficio sui redditi fino a 28.000 euro; attenuazione della decrescenza della detrazione da lavoro.
      La nostra proposta prevede l'erogazione di un bonus (una sorta di 14a) per i pensionati a più basso reddito e una più efficace rivalutazione delle pensioni.
      Serve dunque una diversa politica fiscale che alleggerisca la pressione sul lavoro e le imprese, spostando il peso fiscale dai redditi bassi alle rendite ed ai patrimoni, redistribuzione che avrebbe un benefico effetto espansivo mediante:

          3. la riforma del catasto e il superamento dell'arretratezza del sistema di attribuzione delle rendite catastali;

          4. No alla UIC;

          5. l'abolizione dell'IMU sulla prima casa per i proprietari meno abbienti e l'introduzione di aliquote progressive per la determinazione dell'IMU sui patrimoni immobiliari, garantendo parità di risorse agli enti locali ai quali andranno anche garantiti margini di autonomia nella definizione dell'imposta stessa;

          6. la revisione dell'applicazione dell'IMU sugli edifici strumentali per agevolare le attività produttive delle PMI e delle aziende agricole;

          7. la revisione della tassazione IMU sugli immobili degli enti ecclesiastici e degli enti non commerciali, preservando quelli strumentali alle attività di tipo istituzionale (es. culturale, ambientale, ricreativa, sociale, assistenziale, di solidarietà, ecc.);

          8. l'alleggerimento graduale a favore delle piccole e medie imprese del carico fiscale sui fattori di produzione consentendo loro di dedurre dalla base imponibile IRAP la quota corrispondente al costo del lavoro;

          9. l'aumento dell'aliquota dell'imposta sostitutiva sulle rendite finanziarie;

          10. un imposta patrimoniale ordinaria per le ricchezze superiori agli 700 mila euro;

          11. una maggiore progressività permanente dell'imposta per i redditi superiori ai 150.000 euro di imponibile;

          12. l'incremento dell'aliquota attualmente prevista per la determinazione del prelievo unico erariale sui giochi;

          13. la reintroduzione dell’«accisa mobile» sui carburanti, ridefinendo, secondo le indicazioni europee, la tassa sulle transazioni finanziarie;

          14. la riorganizzazione della Tares per favorire pratiche virtuose nella gestione dei rifiuti;

          15. maggiori oneri per l'utilizzo di risorse pubbliche (concessioni);

          16. più efficaci misure di contrasto all'evasione ed all'elusione fiscale a partire dalla reintroduzione delle misure predisposte dall'ultimo Governo Prodi e soppresse dal successivo Governo Berlusconi (responsabilità solidale tra appaltatore e subappaltatore, elenco di clienti e di fornitori, trasmissione telematica all'Agenzia delle entrate dei corrispettivi giornalieri da parte delle imprese esercenti il commercio,...), da una maggiore tracciabilità dei pagamenti, dal sanzionare il reato di falso in bilancio, facendo nuovamente confluire nell'alveo delle fattispecie delittuose tutte le ipotesi di false comunicazioni sociali, dall'introduzione del concetto di abuso di diritto tributario, dall'introduzione del reato di auto riciclaggio come proposto dalla Commissione Greco del Ministero di Grazie e Giustizia (aprile 2013) che colpirebbe gli evasori fiscali e potrebbe stimolare il ritorno in Italia di una massa di denaro che secondo le stime si aggirerebbe sui 250 miliardi;

          17. prevedere una sanatoria fiscale e contributiva degli immigrati non in regola nell'ambito di una più complessiva riforma delle leggi in materia di immigrazione e cittadinanza, orientate sulla base del principio dello «ius soli»;

 

Pag. 54

          18. prevedere l'erogazione di una quattordicesima per i pensionati a più basso reddito, riprendendo quanto fu previsto dall'articolo 5 del DL n. 81/2007 (Governo Prodi) per incrementare i consumi ed alleviare la situazione difficile di molte famiglie.

3. L'aumento delle risorse per scuola e università.

      Proponiamo di incrementare le risorse a disposizione del Fondo integrativo statale per la concessione di borse di studio, ed incremento del Fondo per il finanziamento ordinario delle università per 40 milioni.
      Prevediamo ulteriori risorse per il triennio 2014-2016 destinate a rifinanziare il Fondo unico per l'edilizia scolastica, per gli interventi di bonifica da amianto e di messa in sicurezza degli edifici scolastici.
      Sui 220 milioni destinati alle scuole non statali proponiamo di impegnare 100 milioni di euro a favore degli asili nidi e scuole materne comunali e destinare gli altri 120 milioni al miglioramento dell'offerta formativa pubblica. Il contributo alla scuole private paritarie che si somma a quello previsto nel DDL di bilancio per il 2014, pari a 274,1 milioni di euro e per un totale di 494 milioni è del tutto insensato. Dopo il taglio degli ultimi anni di oltre 10 miliardi di euro della spesa alla scuola statale e nel contesto di una politica che chiede sacrifici ai cittadini e limita le spese per il sociale, è inaccettabile incrementare il contributo, già consistente oltre che illegittimo, alle scuole private paritarie; è fatto salvo il contributo alle scuole comunali, per lo più scuole materne e asili nido.

4. Un pacchetto di misure per la casa.

      Proponiamo di destinare la metà degli introiti annui (250 mln) per il triennio 2014-2016 derivante dalle dismissioni immobiliari al recupero di alloggi popolari ex-Iacp inutilizzati.
      Sollecitiamo l'istituzione presso la Cassa Depositi e Prestiti del Fondo per le Politiche Abitative (FPA) con dotazione annuale pari a un miliardo di euro. Il FPA ha la facoltà di acquisire crediti bancari derivanti da mutuo ipotecario o fondiario in condizione di sofferenza ad un prezzo pari al 50 per cento della residua quota capitale, acquisendo la titolarità della relativa ipoteca. Gli immobili acquisiti dal FPA sono concessi in affitto a canone concordato. Le entrate derivanti dai canoni sono destinate al servizio del debito relativo all'immobile oggetto dell'operazione. I crediti acquisiti da CDP sono riscadenzati in un termine di 15 anni, con ammortamento a rate costanti a scadenza trimestrale. Il tasso applicato è quello determinato da CDP per i mutui fondiari agli enti locali maggiorato di 50 punti base.
      Proponiamo, inoltre, un aumento delle risorse a favore del Fondo nazionale di sostegno per l'accesso alle abitazioni in locazione (cosiddetto Fondo affitti), così come delle risorse del Fondo destinato agli inquilini morosi incolpevoli.

Conclusione.

      È una manovra senza qualità, che più che stabilizzare l'economia, prova a stabilizzare la maggioranza delle ex-larghe intese: non dà uno scossone all'economia in crisi, non porta aiuto alla parte più sofferente del paese, non crea posti di lavoro e non ha alcun segno di equità. È una manovra economica che fa galleggiare il governo e però non impedisce al paese di continuare ad affondare. È una deriva pericolosissima, regressiva ed attendista, che deprime l'economia e impoverisce la società. Per questo la legge di stabilità del governo Letta va rifiutata e sostituita con altre misure che abbiano il segno del lavoro, della giustizia sociale, della sostenibilità.

Giulio MARCON,
Relatore di minoranza.


Frontespizio Relazione
torna su