Doc. XXII, n. 60




RELAZIONE

Onorevoli Colleghi ! — Di scandali e crisi finanziarie che hanno visto protagoniste le banche è piena la storia della nostra nazione. Negli ultimi anni, tuttavia, tali vicende stanno avendo un'intensificazione e, al contempo, un'accelerazione che devono porre in allarme tutti i cittadini, e in particolar modo quelli che hanno la responsabilità di essere legislatori.
Il filo rosso che lega tutte le crisi bancarie degli ultimi anni è stato una gestione quanto meno allegra e disinvolta del credito. E come è vero che sinora si sono registrate con sempre maggiore frequenza pratiche commerciali scorrette, gestioni patrimoniali sospette, operazioni irregolari di acquisizione, fusione, trasformazione o vendita di valori azionari, obbligazionari o addirittura di interi istituti di credito, come nel caso dell'acquisizione della banca Antonveneta Spa da parte della banca Monte dei Paschi di Siena Spa, è altrettanto vero che le autorità che in base alle vigenti normative avrebbero dovuto vigilare evidentemente non hanno agito con sufficienti attenzione, incisività e tempismo.
Per missione istituzionale, infatti, la Banca d'Italia ha il compito di assicurare la «sana e prudente gestione del credito», che spetta anche a ogni singolo banchiere, e funzioni di vigilanza e controllo ha anche la Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), autorità incaricata di verificare la correttezza delle informazioni fornite al mercato dai soggetti che fanno appello al pubblico risparmio, nonché delle informazioni contenute nei documenti contabili delle società quotate.
In principio è stata la banca Monte dei Paschi di Siena Spa, costata all'Italia 4 miliardi di euro di salvataggio attraverso la sottoscrizione, nel febbraio 2013, dei cosiddetti Monti bond, 2 miliardi di euro in sostituzione degli aiuti già concessi nel 2009 e 2 miliardi di euro di aiuti addizionali.
La procedura degli aiuti di Stato era stata avviata dopo che il Governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco aveva segnalato al Ministero dell'economia e delle finanze che la «Banca Monte dei Paschi di Siena (...) ha evidenziato uno shortfall di capitale di 3,3 miliardi di euro, riconducibile alla valutazione ai prezzi di mercato dei titoli di Stato italiani detenuti in portafoglio», una circostanza ribadita a più riprese dai vertici della stessa banca, dalla Banca d'Italia e dal Governo Monti sia davanti al Parlamento, sia di fronte alla Commissione europea.
In realtà quanto emerso in seguito alla conclusione della procedura di salvataggio ha dimostrato che, contrariamente a quanto era stato sino ad allora affermato in tutte le sedi, i 2 miliardi di euro di aiuti addizionali concessi alla banca non erano serviti per coprire le perdite generate dal portafoglio di titoli di Stato italiani ma per ripianare un deficit di capitale generato da due temerarie operazioni di derivati eseguite dalla banca con Deutsche Bank e Nomura, realizzate con il fine - anch'esso illecito - di occultare le perdite di altre operazioni.
Anche la Commissione europea, nel luglio 2013, richiedendo precisi interventi nel Piano di ristrutturazione presentato dalla stessa banca, ha riconosciuto implicitamente che la rappresentazione data dalle autorità italiane circa il fatto che fosse una banca fondamentalmente sana soggetta a «problemi esogeni» e che il deficit di capitale fosse dovuto agli effetti della crisi del debito sovrano sul portafoglio titoli di Stato della banca non fosse corretta. Al contrario, era una banca affetta da «problemi endogeni» nella quale il deficit di capitale era stato generato da temerarie posizioni speculative in derivati e da malagestione.
Peraltro, non può essere dimenticato che, nonostante le gravi irregolarità che avevano visto protagonista la banca anche prima che la sua esposizione debitoria determinasse l'avvio alla procedura di salvataggio, la Banca d'Italia non ha esitato a dare la propria approvazione alla concessione degli aiuti di Stato. E questa non è l'unica mancanza imputabile alla Banca d'Italia, se consideriamo che tra gli ampi poteri di cui dispone il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo n. 385 del 1993, prevede anche quello di disporre lo scioglimento degli organi con funzioni di amministrazione e di controllo delle banche quando: a) risultino gravi irregolarità nell'amministrazione, ovvero gravi violazioni delle disposizioni legislative, amministrative o statutarie che regolano l'attività della banca; b) siano previste gravi perdite del patrimonio. Ma nonostante la banca Monte dei Paschi di Siena Spa nel triennio 2011-2013 dovesse evidenziato perdite per circa 11 miliardi e mezzo di euro i vertici di Palazzo Koch non hanno ritenuto di intervenire in questo senso.
Poco dopo la vicenda della banca Monte dei Paschi di Siena Spa l'Europa ha varato nuove norme in materia di risoluzioni di crisi bancarie, vietando espressamente il ricorso agli aiuti di Stato a fronte di situazioni di insolvenza degli istituti di credito.
Il 15 maggio 2014 è stata adottata la direttiva 2014/59/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, cosiddetta Bank Recovery and Resolution Directive (BRRD), al fine di introdurre in tutti i Paesi europei regole armonizzate per prevenire e per gestire le crisi delle banche, regolamentando anche la procedura del bail in, il salvataggio interno che prevede la svalutazione di azioni e di crediti e la loro conversione in azioni per assorbire le perdite e per ricapitalizzare la banca in difficoltà o una nuova entità che ne continui le funzioni essenziali, e che incide anche sui depositi superiori a 100.000 euro.
In base alle nuove norme la procedura di risoluzione deve essere applicata quando una banca è in dissesto, le misure alternative di natura privata come la ricapitalizzazione non possono evitare tale stato e la liquidazione non salvaguarderebbe la stabilità sistemica e l'interesse pubblico.
Il recepimento della BRRD nel nostro ordinamento aveva fissato la sua entrata in vigore al 1o gennaio 2016, ma l'ennesima crisi del sistema del credito, intervenuta nell'autunno 2015, ha spinto il Governo ad anticiparne la vigenza.
È stato così che al dissesto di ben quattro istituti di credito, cioè Banca delle Marche Spa, Banca popolare dell'Etruria e del Lazio - Società cooperativa, Cassa di risparmio di Ferrara Spa e Cassa di risparmio della provincia di Chieti Spa, sono state applicate per la prima volta parte delle disposizioni della BRRD e i risparmiatori di tali banche hanno perso i loro soldi, più di 400 milioni di euro.
Le quattro banche erano già commissariate: la Banca d'Italia aveva destituito i loro amministratori mettendo al loro posto commissari straordinari. La Cassa di risparmio di Ferrara Spa lo era dal maggio 2013, la Banca delle Marche Spa dall'ottobre 2013, la Cassa di risparmio della provincia di Chieti Spa dal settembre 2014 e la Banca popolare dell'Etruria e del Lazio dal febbraio 2015. Molti piccoli risparmiatori avevano già visto una parte dei loro beni trasformarsi gradualmente in carta straccia. Il valore di borsa delle obbligazioni scendeva a mano a mano che venivano alla luce le malefatte degli amministratori revocati. Per quelle trattate in borsa le quotazioni erano precipitate. La più grossa emissione della Banca delle Marche Spa al momento del decreto governativo aveva perso tre quarti del valore nominale e anzi si era già dimezzata un anno prima, dopo che i magistrati di Ancona avevano definito «gruppo criminale» gli ex amministratori.
Ciononostante le ripercussioni sui risparmiatori sono state massicce e, in parte, drammatiche, perché almeno un migliaio di loro hanno visto volatilizzarsi tutti i loro risparmi, non solo una parte. Le persone maggiormente danneggiate sono state vittima di consigli due volte sbagliati: sul tipo di titoli da acquistare e sulla mancanza di diversificazione dell'investimento. Perché quello che è particolarmente grave in questa vicenda è la larga parte di responsabilità che pesa sugli amministratori e sui dipendenti di quelle banche, colpevoli di aver convinto, e in alcuni casi addirittura costretto, ignari clienti a sottoscrivere prestiti subordinati, cioè obbligazioni con un indice di rischio più elevato di quelle ordinarie, senza comunicare agli stessi clienti i rischi che correvano.
E ora, mentre la magistratura sta conducendo decine di inchieste sulle vicende delle quattro banche, tutti questi risparmiatori truffati aspettano ancora di riavere indietro i propri soldi.
In conclusione, nel caso delle quattro banche citate, come già in moltissime altri crisi bancarie, la spiacevole verità è che gli amministratori hanno avuto la possibilità di agire male per anni e anni, mentre le autorità di controllo non si rendevano conto del disastro imminente, e soprattutto non adottavano alcun provvedimento. La Banca d'Italia e la CONSOB escono male da questa vicenda come già anche dalle precedenti. Ognuna si preoccupa di segnalare di aver fatto la sua parte e di aver svolto scrupolosamente il suo dovere, ma la somma di questi doveri scrupolosamente svolti ha prodotto l'inazione e, appunto, il disastro.
Il presente atto è volto a istituire una Commissione parlamentare di inchiesta per indagare e accertare le cause di simili disastri, approfondendo sia le modalità operative della gestione del credito, e le sue eventuali debolezze, sia l'effettività dei poteri di controllo e vigilanza in capo alla Banca d'Italia e alla CONSOB e per quali motivi questi siano spesso esercitati con tempi del tutto inadatti, laddove non sia avvenuto che non sono stati esercitati affatto.
Ci auguriamo che tale lavoro di inchiesta conduca alla proposta di nuove norme che possano offrire maggiori garanzie ai singoli risparmiatori, in ottemperanza al dettato costituzionale che prevede la «tutela del risparmio», all'intero sistema del credito e, con esso, all'economia nazionale.


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