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Seduta del 2/3/2011


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Audizione del giornalista Antonio Crispino.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del giornalista Antonio Crispino. L'audizione è finalizzata ad approfondire i contenuti di una recente videoinchiesta realizzata dal dottor Crispino e pubblicata dal Corriere della Sera on line in merito al mercato della contraffazione dell'alta moda nel napoletano.
Questa audizione si inserisce nel filone dei due macro approfondimenti che stiamo portando avanti. Abbiamo appena concluso un'audizione sul versante dell'agroalimentare ma anche il mercato del tessile e dell'abbigliamento è un tema che ci sta a cuore.
Abbiamo visto con interesse i contenuti del reportage che lei ha realizzato. Devo ammettere che pur esistendo molti luoghi comuni a proposito di queste attività illecite, soprattutto nei territori oggetto della suo reportage, purtroppo, i contenuti del filmato confermano quasi completamente la realtà.


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Le chiediamo quindi se, a seguito della videoproiezione, ci può relazionare in merito ai contenuti della inchiesta da lei condotta. Le faccio anche presente che dell'audizione odierna verrà redatto un resoconto stenografico, quindi, se in considerazione della delicatezza degli argomenti trattati, lo riterrà opportuno, potremo anche procedere in seduta segreta, sospendendo la trasmissione del circuito chiuso per proseguire in modo riservato. Può partire il filmato.
(Segue filmato).

PRESIDENTE. Dottor Crispino, le immagini sono molto eloquenti. Nel darle la parola la invito ad illustrarci gli inizi della sua indagine, il quadro che si è trovato davanti ed, eventualmente, le azioni che, a suo avviso, sarebbe necessario intraprendere su questa vicenda.

ANTONIO CRISPINO, giornalista. Innanzitutto, vi ringrazio per l'audizione. Questa inchiesta parte un anno fa, a marzo del 2010. Era un nostro desiderio cercare di capire meglio il fenomeno della contraffazione, svolgendo un approfondendo dall'interno: volevamo dimostrare come fosse semplice e a portata praticamente di tutti entrare in un mercato come quello del falso.
Ci siamo documentati sulle prassi, le abitudini e i percorsi da fare. Abbiamo contattato alcuni esperti nel settore della moda e costoro ci hanno descritto che il percorso poteva essere avviato in due modi: o comprando l'oggetto che volevamo riprodurre - falsificare - portandolo in alcune fabbriche - aziende specifiche - del territorio, oppure, in modo più economico - è la strada che abbiamo seguito - contattando uno stilista o un grafico, per far riprodurre in maniera abbastanza similare il modello da copiare e portarlo poi nelle fabbriche o aziende dedicate alla produzione.
Questo è ciò che in effetti abbiamo fatto: abbiamo chiesto di copiare dei modelli provenienti dall'ultima collezione della Dolce e Gabbana e li abbiamo portati, su indicazione, in più di qualche fabbrica. Ovviamente, non avevamo sentore che ci fosse un mercato così vasto e diffuso sul territorio napoletano - a nord di Napoli - ma ci siamo trovati di fronte a diverse realtà di questo tipo. Una fabbrica ci propose - poi l'invito non è andato a buon fine - di fare tutto lei, cioè, portati i modelli, la fabbrica li avrebbe riprodotti, cuciti, confezionati, riproducendo anche le targhette, le etichette e i cartellini con le griffe e avrebbe, infine, immesso sul mercato tali prodotti.
Altre fabbriche, come quelle che abbiamo visto all'inizio della videoproiezione, non sono dedite soltanto al falso ma lavorano, per esempio, per stilisti minori od operatori del settore di piccole dimensioni. Pertanto, non possiamo etichettarle come aziende di falsari, tuttavia, in tempi di crisi, esse cercano di sbarcare il lunario facendo anche questo tipo di produzioni ma con un limite: loro fanno il prodotto, ma non l'etichettatura. In realtà, loro stesse indicano poi quali sono le aziende che fanno il lavoro della etichettatura e della confezionatura.
Accertato ciò, oltre al mercato della contraffazione, ci siamo trovati di fronte ad un'economia sommersa praticamente dilagante favorita dalla estrema difficoltà di individuare queste fabbriche, posto che non si tratta di aziende «normali», riconoscibili per l'insegna fuori dal portone. In realtà, queste fabbriche si trovano letteralmente nei sottoscala delle abitazioni, negli interrati di appartamenti o palazzi anche di tre piani, al chiuso, in modo che nessuno, dall'esterno, possa sospettare che lì vi sia una fabbrica.
Ciò che ci ha colpito è stato anche il tenore di lavoro nonché le condizioni in cui gli addetti lavorano. In particolare, nel caso della fabbrica italiana si deve notare che sono quasi tutte donne: tutte le persone che lavorano nelle fabbriche italiane clandestine, sono donne che vanno dai sedici anni in su.
In questi casi, la ragazza giovane che inizia a lavorare in una fabbrica - lo avete sentito - prende dai 10 ai 15 euro al giorno, per lavorare sei giorni su sette,


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secondo un orario di lavoro non definito (smettono di lavorare quando hanno finito il prodotto), senza nessun tipo di garanzia o assistenza: se si ammalano vengono sostituite. Una di queste ragazze mi diceva che si parla tanto dei cinesi ma, in realtà, loro sono diventate le cinesi italiane: forse è vero.
Ci sono, invece, altre aziende specializzate nel falso, cioè, hanno addirittura i macchinari per riprodurre le etichette e i cartellini, per riprodurre marchi e simboli delle griffe più note.
Questo è il contesto generale. Se mi consentite una valutazione personale, vorrei aggiungere che, molte volte, queste fabbriche - soprattutto quelle italiane - elaborano dei prodotti che sono qualitativamente buoni e validi, nel senso che se uscissero dal sommerso potrebbero competere con i loro omologhi.
Un'altra annotazione riguarda il quantitativo delle merci. Nella seconda fabbrica visitata si fa riferimento a 1.500 capi: significa 1.500 pantaloni più 1.500 giacche, cioè 3.000 capi di abbigliamento, che la piccola impresa non commissiona. A fare ciò è un'azienda più presente sul mercato e, non a caso, escono fuori i nomi di due società che vengono definite territoriali ma non sembrano affatto piccole. Infatti, nel corso della mia ricerca ho verificato che hanno sedi a Catania, a Cava dei Tirreni, Napoli, Salerno, Roma, Palermo, Caserta e Avellino. In particolare, una delle due società fa capo a un gruppo di Brescia.
Insomma, si tratta di aziende che vantano collegamenti con le altre aziende molto radicati. Quale azienda - così mi è stato fatto notare - potrebbe permettersi il lusso di fare una commessa di 3.000 capi d'abbigliamento senza poi avere la logistica per venderli?
Abbiamo inoltre notato che, in effetti, si sono create delle specificità. Tutti coloro che vogliono produrre nel sommerso sanno che se bisogna produrre un paio di scarpe, le aziende «specializzate» si trovano a Grumo Nevano; se bisogna produrre confezioni, si va a Casandrino. In quest'ultimo caso, parliamo di un comune che, fino a qualche anno fa, è stato il più giovane d'Italia - con una popolazione molto giovane - dove quasi tutti lavorano in queste fabbriche. Si tratta inoltre di un comune sciolto, più di qualche volta, per camorra: tutto ciò diventa un mix abbastanza esclusivo. Questo è più o meno il quadro generale.

PRESIDENTE. Procediamo ad un giro di domande. Inizio con una domanda la cui risposta lei ha in parte già anticipato. Ritiene possibile che tutto ciò avvenga in un territorio a così alta concentrazione di criminalità organizzata, la quale, peraltro, ha già dimostrato più volte in passato di non lasciare molto spazio all'iniziativa dei singoli? Mi chiedo se, secondo lei, esista un rapporto tra questa tipologia di attività e la criminalità organizzata di quel territorio. In altri termini, può darsi che la camorra lasci semplicemente lavorare questa gente? Le ricordo che se lo ritiene opportuno, possiamo secretare la seduta. Sappiamo che la camorra ha molti altri interessi (abbiamo visto ciò nell'audizione con la Guardia di finanza, per esempio, a proposito della contraffazione musicale).

ANTONIO CRISPINO, giornalista. Le rispondo riportandole le parole di un capitano della Guardia di finanza con il quale ho potuto confrontarmi sul tema. Anche io partivo dal presupposto che fossero tutti manipolati dalla camorra. Vi riporto ciò che mi è stato riferito (poi, ovviamente, le Forze dell'ordine hanno mezzi, competenze e dati maggiori dei miei per poter dare una risposta definitiva).

PRESIDENTE. Non c'è dubbio ma metteremo la sua esperienza a confronto con quella degli altri.

ANTONIO CRISPINO, giornalista. Così come riferito anche da altri imprenditori, la camorra si occupa ovviamente del settore della contraffazione ma in una fase diversa, cioè, in quella della distribuzione perché lì ha un maggiore guadagno, magari collegando la fabbrica con l'operatore che lavora nei mercati e nei piccoli negozi.


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PRESIDENTE. Si inserisce, quindi, nel commercio ma non è interessata alla fase manifatturiera.

ANTONIO CRISPINO, giornalista. Diciamo che la prima fase è quella dove si guadagna di meno.

PRESIDENTE. Su questo non c'è dubbio: se i numeri sono quelli che ci ha riferito, mi sembra abbastanza scontato che nella prima fase si guadagni di meno.

GABRIELE CIMADORO. Vorrei riproporre sostanzialmente la domanda che ha fatto lei. È chiaro che il nostro giornalista non può rispondere al di là dei dati. Penso che tutti abbiano letto Saviano: si parte da lì. Un comune come Casandrino quanti abitanti ha?

ANTONIO CRISPINO, giornalista. Dovrebbero essere circa 13.000.

GABRIELE CIMADORO. Quante di queste attività esistono e come mai non vengono scoperte? Ribadisco - sono convinto di ciò - che queste attività, anche nella prima fase, non solo nella commercializzazione e nel confezionamento, sono controllate dalla camorra: è ovvio. Non c'è altra spiegazione. Se così non fosse, fabbriche di questo tipo, non controllate dalla camorra, sarebbero già state chiuse. È vero che più volte il comune è stato sciolto ma - amministratori compresi - ci sarà pure qualche anima buona tra i Carabinieri, la Guardia di Finanza, la Polizia per andare in queste fabbriche e chiuderle, anche solo per le condizioni di lavoro a cui sono sottomessi i dipendenti: sarebbero già dovuti intervenire. So che lei non può darmi delle risposte in merito perché la sua indagine è giornalistica, quindi, lei effettua dei riscontri, però, ritengo che sia così.

PRESIDENTE. Mi scusi, onorevole Cimadoro, penso che il dottor Crispino le abbia già risposto prima, nel senso che ha preso atto della situazione, esprimendo delle opinioni un po' diverse dalle considerazioni da lei svolte. Egli ha ribadito che si tratta di un settore di per sé povero, quindi, chiaramente il margine sta nella valorizzazione dei prodotti che poi finiscono nel circuito commerciale. È evidente che c'è un forte interesse nella distribuzione (questi dati sono stati confermati anche dalla Guardia di finanza).

ANTONIO CRISPINO, giornalista. Se mi permettete una considerazione, parliamo comunque di comuni dove esiste un'economia molto povera, dove si nota un fenomeno abbastanza strano. Vi assicuro che la Guardia di finanza le operazioni le fa - soprattutto il Comando provinciale di Napoli - e spesso chiudono le fabbriche. Tuttavia, a fronte di ciò, non si assiste a manifestazioni di giubilo da parte degli operai sfruttati, al contrario, si avverte un'avversione nei confronti delle Forze dell'ordine, perché essi vengono a sottrarre l'unica fonte di guadagno per queste persone.

PRESIDENTE. Mancano le alternative legali.

ANTONIO CRISPINO, giornalista. Indubbiamente. Rispondo poi alla sua prima domanda: quante sono queste attività? Sono nato e vissuto a Fratta Maggiore per 25 anni: neanche io sapevo o sospettavo che fosse un fenomeno così diffuso, soprattutto a Casandrino. Ho personalmente fatto un giro a piedi, su indicazione della gente, e trovavo una di queste fabbriche praticamente ogni tre palazzi.

PRESIDENTE. Lei, però, ha girato simulando un'attività, cioè, nessuno aveva intuito la verità. Le indicazioni le ha avute dopo, non prima come giornalista.

ANTONIO CRISPINO, giornalista. Assolutamente, anche perché come giornalista avrei potuto avere solo alcune informazioni.

ANDREA LULLI. Queste inchieste giornalistiche sono sempre utili, essendo un


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modo per aiutare alla conoscenza nonché alla diffusione del problema: quindi, un plauso per questo.
Vorrei però portare anche alcune testimonianze, non solo territoriali, avendo modestamente fatto il sindacalista nel settore tessile per decenni. Purtroppo, questa situazione, in quelle zone, era già presente negli anni Settanta e Ottanta: non c'è proprio nulla di nuovo.
Vorrei ricordare che, più volte, sono stati affrontati i problemi legati ai contratti di emersione in quelle zone (contratti che ha fatto anche il sindacato con le associazioni datoriali). Quella descritta è una situazione molto radicata in certe realtà del Sud e non solo. Bisognerebbe guardarsi in casa, anche in Lombardia e in Veneto (se volete vi porto io nelle zone interessate).
Ciò premesso, il punto vero di tutta la questione, al di là della ovvia considerazione che dove ci sono facili guadagni la criminalità organizzata si dà da fare, su cui bisognerebbe capire qualcosa di più, è un altro. Un'attività così diffusa fa venire il sospetto - non è detto che ciò sia una realtà - che vi sia una certa contiguità tra quel modo di produrre e l'economia legale.
Lei ha detto che si fanno anche dei prodotti di buona qualità (penso agli effetti venissero immessi nel circuito legale). Poiché la capillarità, la quantità di produzione è rilevante e non è pensabile che sia tutta legata al commercio al minuto o al mercato ambulante (sarà così per una parte), è chiaro che questo punto è molto delicato. Infatti, è del tutto evidente che se il processo di valorizzazione di un prodotto - legittimamente, sia chiaro - è legato alla valorizzazione che il marchio può dare, bisogna capire se, eventualmente, ci sono dei legami.
Questo è un punto molto delicato. Penso che uno dei punti principali consista nell'affrontare il tema della tracciabilità dei prodotti, altrimenti, è del tutto evidente che si creano dei circuiti per i quali - senza banalizzare - non c'è necessità di una zona ad alta densità di camorra (o di altra criminalità organizzata) per far lievitare questi tipi di produzione. È del tutto evidente che l'arrotondamento del reddito familiare nelle zone un po' più ricche o la sussistenza economica in zone più povere, non è un dato che può essere escluso.
Il punto vero è se, al di là della necessità di combattere tutte le forme di illegalità (è del tutto evidente che ciò è necessario e nessuno sottovaluta questo fatto), siamo in condizione di garantire trasparenza al processo produttivo. Senza la trasparenza del processo produttivo diventa molto più complicato combattere questi fenomeni, posto che i margini di guadagno sono enormi: se una sciarpa a cui metto un'etichetta la posso vendere a 400 euro, capite bene che cosa significa.
Il problema è molto complesso e bisogna evitare ogni approssimazione, perché si rischia di sbagliare l'analisi e quindi di sbagliare anche le risposte. Il ragionamento che faccio - voglio essere chiaro - non intende criminalizzare nessuno, ma solo porre le basi, anche con ipotesi magari ardite, per cercare di capire meglio il fenomeno. Se si pensa che sia tutto riconducibile al fatto che qualche entità di criminale organizzata si diverte a fare queste cose, siamo fuori tema. Lo stesso libro Gomorra mette in evidenza - teorizzando tale punto - che si parte dallo scantinato per arrivare alla vendita di un capo in boutique.
Quindi, il discorso è complesso. Non siamo qui per condannare a priori nessuno: siamo qui per combattere l'illegalità cercando di capire fenomeni molto complessi, che poggiano anche su una certa base di consenso sociale derivante da tante situazioni di cui, però, bisogna tenere conto.

LUDOVICO VICO. Ho apprezzato molto l'iniziativa del dottor Crispino per due ragioni. Essendo l'oblio nel nostro paese un esercizio ordinario e quotidiano, egli ci ha riproposto, contemporaneamente, due grandi questioni, una che è oggetto della nostra inchiesta, l'altra che concerne la condizione del lavoro in Italia (un problema non secondario).
A proposito di oblio, dimenticare che, solo qualche mese, fa l'Istat ci ha ricordato


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come il lavoro irregolare e nero in Italia riguardi 2.600.000 persone, penso sia un dato da non sottovalutare. Ciò equivale al 17 per cento del Pil: se tutto quel Pil stesse in un'unica macroregione di questo paese, si capirebbe bene che il problema della ricchezza obiettiva e distribuita non è nei termini che invece registriamo secondo altri dati del rapporto Nord, Centro, Sud.
La cosa interessante, che può essere anche oggetto e stimolo del lavoro che ha svolto il dottor Crispino, è capire, rispetto a quell'area grande di produzione di ricchezza non regolare, che evidentemente non può essere esclusivamente controllata dalle organizzazioni criminali (tra l'altro, secondo gli ultimi rapporti dell'antimafia, queste ultime sono più interessate alla commercializzazione che alla produzione, quindi, c'è un'evoluzione negativa), quali trasformazioni stanno avvenendo in determinate aree che vanno bonificate, sia socialmente, sia dal punto di vista della legalità del lavoro (ma anche più in generale) e come tali trasformazioni siano brodo di coltura nell'ambito di processi più grandi.
Concludo apprezzando l'operato del dottor Crispino. In fondo, è il legame Stato-cittadino che si allenta. Le aree piccole o grandi non sono solo geografiche ma si trovano presso ogni condominio di ogni palazzo di questo nostro bel paese: a Nord, come al Centro, come al Sud.
Negli anni Settanta chiamavamo questo fenomeno decentramento produttivo, negli anni Ottanta delocalizzazione incentivata dal Nord al Sud, negli anni Novanta, dopo la caduta del muro di Berlino, delocalizzazione in quei paesi e nel Maghreb. Oggi, nel duemila, dobbiamo dargli un titolo - possibilmente oltre la Cina - che giustifichi come difendiamo il made in Italy.

DEBORAH BERGAMINI. Vedere attraverso le immagini ciò che sino ad oggi abbiamo ascoltato a parole cambia tutto (almeno per me è stato estremamente utile). Apprezzo molto il lavoro da lei fatto perché ci ha dato, tra l'altro, la misura di certe situazioni di degrado.
Questo documentario si riferisce ad un comparto specifico, quello dell'abbigliamento. In realtà, questa Commissione rivolge la sua attenzione su diversi comparti - forse anche troppi - interessati dalla contraffazione (poco prima dell'inizio dell'audizione, ragionavo con il presidente sulla difficoltà di mettere tutto a sistema).
Abbiamo appena ascoltato le tematiche inerenti alla contraffazione nel settore agroalimentare ed ora siamo passati all'abbigliamento e ai beni di lusso. Ciò che emerge - che ritengo meriti una riflessione approfondita - al di là delle iniziative concrete che dovremmo prendere, riguarda la strana, inquietante contiguità tra settori emersi, ben visibili, quasi beatificati dal sistema del consumo (penso ai beni di lusso, all'abbigliamento codificato dall'etichetta), appartenenti ad un mondo che crea ricchezza, benessere, immagine (insomma, un mondo che viene esaltato in tutti i modi) e ciò che sta all'origine di tutto questo. Nel mercato nero vi è come una sorta di perversione data dal fatto che si creano due mercati: il mercato nero e il mercato iper nero.
Mi ha molto colpito il discorso che lei faceva: 7 euro qui ma dal cinese 5. Ormai, c'è una stratificazione sempre più cupa di questo sistema, del quale non si riesce a vedere l'uscita (probabilmente succederà che di questo passo si arriverà anche ad 1 euro).
Infine, non voglio tediare i miei colleghi maschi con il discorso sul lavoro femminile.

GABRIELE CIMADORO. Siamo con te!

DEBORAH BERGAMINI. Grazie. Che sulla moda, la quale ancora, per larga parte, è tutta orientata ad un mercato femminile, si crei un sistema come questo di sfruttamento del lavoro femminile, cinese o italiano, lo trovo un elemento sicuramente non primario per i lavori di questa Commissione ma primario per quanto riguarda la civiltà del consumo, non solo quella del nostro paese.
Ritengo che dovremmo trovare il modo di farci spiegare questa inquietante contiguità:


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non è possibile che le stelle e le stalle di una filiera siano così vicine e apparentemente così distanti e così invisibili l'una all'altra.

PRESIDENTE. Ritengo che non sia compito del nostro ospite di oggi darci una risposta su questo tema (anche perché dovremmo darla noi). Mi auguro di riuscire, come presidente di questa Commissione, prima della fine della legislatura, ad avere una risposta su tale quesito (è forse la vera missione di questa Commissione d'inchiesta).
Vorrei anch'io rivolgere una domanda al dottor Crispino. Abbiamo ascoltato le considerazioni dei colleghi, quindi avrà capito con quale attenzione consideriamo queste tematiche e quanto interesse stiamo riservando ad esse. Mi associo al coro di favore rispetto all'attività che lei ha svolto.
Vorrei porle una domanda sul contesto sociale in cui tutto ciò avviene perché, se è pur vero che tutto potrebbe essere frutto di una macchinazione più generale e che i rapporti fra la grande distribuzione, anche di alto livello, lecita e ciò che sta dietro ad essa, al di sotto non sono chiari, è altresì vero che stiamo però parlando di un contesto - così appare dalle immagini e risulta dalle sue dichiarazioni - fortemente degradato. Lei ci ha detto che quando le Forze dell'ordine intervengono facendo chiudere una fabbrica, nessuno giubila, anzi, è il contrario, perché la percezione a livello locale è che, per degradato o avvilente che sia, quello è il lavoro e le alternative sono poche.
Lei avrà visto che in queste settimane il Ministero dello sviluppo economico ed altre strutture hanno dato vita ad iniziative comunicative che cercano di spiegare ai cittadini in cosa si incorre quando si comprano articoli falsi. Sarebbe bello capire fino a che punto, quando comperiamo qualcosa, sappiamo che è falso. Un conto - lo ricordava giustamente il collega Lulli - è avere questa percezione quando si acquista un prodotto da un venditore ambulante, molto più difficile è capire quando il prodotto contraffatto te lo rifila qualche grande negozio, anche del Nord.
Insomma, posto l'impatto sociale che questi tipi di attività hanno, come pensa che la nostra attività su quel territorio possa essere percepita dalla popolazione?

ANTONIO CRISPINO, giornalista. Ho accennato al caso di Calandrino. Questo comune è stato, fino a qualche anno fa, il più giovane d'Italia, per cui ci si aspetterebbe una cultura diversa da parte dei giovani, invece è proprio ciò che manca: manca la cultura d'impresa, manca una formazione d'impresa. Forse sono carenti gli istituti tecnici - non è mio compito dirlo - però si sente forte anche l'analfabetismo di ritorno, l'incoscienza di molti ragazzi.
Infatti, chi alimenta il mercato del falso, chi compera la cinta falsa della Louis Vuitton piuttosto che il maglione della Dolce e Gabbana è il ragazzo giovane e lo compera spesso nei mercatini, in alcuni negozi, oppure per la strada sulle bancarelle.
Ciò che manca, a mio avviso, è forse un'azione di recupero del degrado sociale. La scuola svolge certamente il suo compito ma mi appare una fatica di Sisifo, nel senso che si chiede alla scuola uno sforzo spropositato rispetto alle emergenze del territorio.
Ovviamente, parlo della scuola perché mi sono occupato anche di questo aspetto, cioè, della scolarizzazione di questi ragazzi. Quasi tutti i giovani che lavorano in queste fabbriche - parliamo di giovani tra i sedici e i diciotto anni - sono ragazzi che hanno abbandonato la scuola, con storie travagliate dal punto di vista educazionale. Se dovessi porre l'accento su una problematica, lo porrei su questa. È vero - come affermava l'onorevole Lulli - che si tratta di dati e situazioni conclamate negli anni, che risalgono agli anni Settanta - forse anche prima - però è anche vero che, con il ricambio generazionale, non si è assistito ad alcun miglioramento di queste situazioni Al contrario, c'è spesso una cultura che tende a tramandarsi da padre in figlio. Ho conosciuto figli che, ancora oggi, fanno i calzolai in fabbriche abusive perché i padri, i nonni e i nonni dei nonni facevano


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questo. Pertanto, non c'è stato un progredire, neanche dal punto di vista dei diritti e della consapevolezza dei medesimi.

LUDOVICO VICO. Tenga conto che anche la mobilità sociale si è bloccata nel paese.

ANTONIO CRISPINO, giornalista. Ho citato questi esempi per illustrare il contesto in cui si vive. Molto spesso - come osservava l'onorevole Bergamini - la donna è la più colpita, la più «massacrata» in questo senso, perché è colei che deve stare a casa il prima possibile, dovendo portare a casa il guadagno il prima possibile, in ciò scontando minori opportunità degli uomini, avendo questi ultimi la possibilità di andare fuori (per la donna, invece, resiste la cultura che deve restare vicino casa).
D'altra parte, sono stato qualche settimana fa a Padova ed ho parlato con alcuni imprenditori della riviera i quali conoscevano il comune di Grumo Nevano, dove si fabbricano scarpe, non tanto perché ci sia un connubio tra legale e illegale ma perché, effettivamente, sul territorio di Grumo Nevano c'è ormai un'esperienza maturata che consente a quest'area di produrre scarpe e stivali di ottima qualità.

PRESIDENTE. La ringrazio. Se lo riterrà utile, saremo ben lieti di ricevere, anche nei prossimi giorni, documenti o altro materiale che lei riterrà importante per gli approfondimenti che andremo a svolgere nell'ambito della nostra inchiesta.
Penso di interpretare il sentimento di tutti nell'esprimerle un ringraziamento per il lavoro che ha svolto. I problemi del nostro paese sono tanti e compito dell'informazione è anche quello di portarli all'attenzione di coloro che, vivendo lontano, non vi prestano l'attenzione adeguata.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15,55.

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