Onorevoli Colleghi! - Si ritiene doveroso presentare questa proposta di legge in quanto l'attualità delle norme che essa prevede è stata confermata proprio dal trascorrere del tempo, rendendo necessario uno spassionato esame della tematica in oggetto.
Già antico castelliere, Pola è romana dal 129 avanti Cristo, prima come colonia latina, ai tempi di Silla, con il nome di Pollentia Herculanea, poi come colonia romana, dal 33 avanti Cristo, quando venne denominata Julia e, in seguito, Pietas Julia. In tale zona, su un colle, aveva sede l'antica Nesazio, capitale dell'Istria ai tempi romani, luogo dove il re degli istriani, Epulo, trovò rifugio e si oppose strenuamente ai romani. Fu con la caduta di Nesazio che tutta la penisola istriana divenne romana.
Di questo periodo Pola porta ancora gloriose vestigia derivate dalla prosperità del luogo che veniva a trovarsi in posizione strategica sia commercialmente che militarmente. Pola conobbe grande fortuna al tempo degli Antonini e con Aquileia e Tergeste fu la grande colonia romana a guardia dei confini d'Italia. Fu città con dodici porte, cinque di terra e sette di mare, e circondata da una doppia cinta muraria. Ebbe due teatri ed un anfiteatro augusteo, ingrandito con Vespasiano, di forma tanto elegante e slanciata e talmente ben conservato nella cinta esterna da potersi, per tali motivi, considerare superiore al Colosseo e agli anfiteatri di Capua, Pompei e Verona. Ma ebbe anche un campidoglio, un foro, un arco sontuoso e vari templi.
Arena di Pola, Porta gemina, Porta Erculea - la costruzione più antica della
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cinta di Pola, risalente agli ultimi anni della Repubblica -, Arco dei Sergi - denominato anche «Porta Aurea», uno dei più piccoli ma anche dei più ricchi archi romani che sopravvivono -, Tempio d'Augusto: ecco nomi di vestigia che ancora oggi risuonano, tracce che si possono tuttora ammirare e che nessuno mai potrà cancellare.
Pesantemente sottoposta, alla caduta dell'Impero Romano, a violentissime invasioni barbariche e, in seguito, alle sanguinose incursioni piratesche di saraceni, croati e narentani, fu difesa da Venezia, cui appartenne dal 1148 sino all'arrivo di Napoleone. Grazie a Venezia ebbe difese rafforzate e conobbe prosperità. Già visitata da Dante al principio del XIV secolo, suscitò in lui una tale ammirazione che il poeta la ricordò nei versi 113-115 del IX canto dell'Inferno nella «Divina Commedia».
Nel '500 furono a Pola, a studiarne le vestigia romane, artisti sommi quali Michelangelo, Sangallo, Serlio e il Palladio. La città ebbe in sorte anche la violenza della natura poiché le pestilenze e la malaria la ridussero, a metà del '600, a poche centinaia di abitanti.
Seppe pian piano risollevarsi e ripopolarsi. L'averne fatto piazzaforte militare marina da parte dell'Austria significò indubbiamente un notevole benessere per la città che, alla fine dell'800, riuscì a superare addirittura i 30.000 abitanti.
Ma Pola, città italianissima, se da una parte godette dei benefici derivanti da tale situazione, dall'altra parte, proprio per questo suo essere fortemente di identità italiana, soffrì il metodo di governo della duplice monarchia. Come in tutta l'Istria, così a Pola il governo centrale mirò, negli anni della nascita dei nazionalismi, ad aiutare in tutti i modi l'elemento croato e filotedesco boicottando quello italiano, numericamente preponderante. Vi furono pertanto aspre battaglie culturali per l'affermazione della lingua italiana condotte dalla Lega nazionale, che nel 1900 costituì la sua sezione nella capitale dell'Istria con un'adesione massiccia della popolazione. Nel contempo, la forte presenza operaia navale nella città contribuì a diffondere le idee socialiste Pola: città italiana. Pola: città operaia con un forte tendenza socialista. Si faccia attenzione a queste associazioni poiché serviranno da elemento significativo per interpretare correttamente l'esodo pressocché totale da Pola dopo quel tristissimo trattato di pace del 10 febbraio 1947 che fu umiliante per l'Italia e tragico per le terre giulie.
Nei primi anni del '900, sino allo scoppio della guerra, numerose furono le manifestazioni di italianità di Pola: ogni occasione che si presentava veniva adeguatamente utilizzata. Una di queste fu la morte di Giuseppe Verdi nel 1901, a seguito della quale fu bloccato ogni tipo di attività cittadina e il municipio espose la bandiera abbrunata. Allora, oltre a sospendere varie manifestazioni, i tricolori comparvero in vari punti della città. Similmente accadde nel 1907 per la morte di Giosuè Carducci.
Nel maggio del 1915 la furia austriaca si scatenò contro gli italiani: circa 400 persone in «odore» di irredentismo furono deportate nei campi di internamento di Mittergraben, Oberhollabrun e in altri. Qui essi furono vittime di privazioni e di stenti e oggetto di scarsissime cure mediche: in moltissimi, infatti, morirono a seguito o a causa della deportazione.
Contemporaneamente furono chiusi tutti i giornali italiani e fu disciolta la Lega nazionale, che tanto bene aveva fatto alla popolazione con l'apertura di scuole e di asili, ritenendo che essa svolgesse un'attività pericolosa per lo Stato.
Tutte le associazioni sportive o culturali che in qualche modo potevano ritenersi filoitaliane furono soppresse.
Il 23 maggio fu ordinato lo sgombero degli abitanti di tutto il capitanato di Pola, e cioè, oltre che di Pola stessa, anche di Dignano, Valle, Canfanaro, Rovigno e di altre cittadine.
In quest'epoca ha inizio la vicenda della numerosa schiera dei polesani che, durante la prima Guerra mondiale, disertarono l'esercito austriaco e varcarono i confini per venire a combattere da volontari irredenti nelle file italiane. Anche Pola
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diede in questo modo il suo tributo di sangue alla Madre Patria.
Quattro furono le medaglie d'argento al valor militare: Dante Donà, capitano di fanteria, che fu insignito anche della croce di guerra, Giuseppe Lebeda, tenente di artiglieria, ferito per due volte, decorato anche con la croce di guerra, Mario Mozzato-Morelli, tenente degli alpini, ferito, già decorato con la croce di guerra, Francesco Rizzo, sergente di fanteria, già decorato con la croce di guerra, che perse la vita in un'azione bellica il 20 luglio 1915.
Ancora quattro furono le medaglie di bronzo: Luciano Feruglio, capitano medico, già decorato con la croce di guerra, Umberto Moranti, soldato di fanteria, insignito anche della croce di guerra, Giovanni Muzzatti-Simon, tenente d'artiglieria, già decorato con la croce di guerra, Aldo Smareglia, sottotenente degli alpini, pure lui già decorato con la croce di guerra.
E in quel turbine violento della Grande guerra, Pola contò ancora numerosi suoi figli che diedero la vita: Vladimiro Cerlenizza, sottotenente dei bersaglieri, già ferito, caduto il 16 giugno 1917, Giacomo Dean, soldato di fanteria, già ferito, caduto il 23 luglio 1915, Pietro Fanio, soldato di fanteria, già ferito, caduto il 27 luglio 1917, Giacomo Fornasar, decorato con la croce di guerra, caduto il 24 novembre 1917, Ernesto Gramaticopolo, tenente dell'aviazione, decorato con la croce di guerra, caduto in cielo il 23 giugno 1916 e di cui scrisse Gabriele D'Annunzio, Giovanni Grion, tenente dei bersaglieri, decorato con la croce di guerra, caduto il 16 giugno 1916, i fratelli Giovanni Liani, tenente di artiglieria, e Pietro Liani, sottotenente medico, entrambi decorati con la croce di guerra e caduti a pochi giorni di distanza, rispettivamente l'11 e il 30 giugno 1917, Adriano Pozzatti, caporale di fanteria, decorato con la croce di guerra, caduto nel 1918, Edoardo Tiengo, soldato di fanteria, decorato con la croce di guerra, caduto il 2 giugno 1916, e Giuseppe Vidali, sottotenente di fanteria, già ferito, decorato con la croce di guerra, caduto il 16 dicembre 1916.
Lunga è ancora la schiera dei volontari i cui nomi dovrebbero essere patrimonio nazionale: Giovanni Albo, Giorgio Benussi, Luigi Bilucaglia, ferito e decorato con la croce di guerra, Vittorio Bon, Michele Bonari, Attilio Buttignoni, decorato con la croce di guerra, Giorgio Carmol, Augusto Ceriani, Fiore Cleva, ferito e decorato con la croce di guerra, Augusto Collenz, Ernesto Corrado, Giuseppe Depangher-Manzini, Ercole Diminich, Sergio Faretto, Virgilio Fabro, decorato con la croce di guerra, Italico Fullin, ferito e decorato con la croce di guerra, Antonio Lovrich, Piero Marincovich-Marinelli, Narciso Marinoni, Nicola Marussich, Alessandro Maurich, Marcello Medel, Carlo Mendel, Bruno Menetto (uno dei più giovani, classe 1902), Bruno Micol, Antonio Pirz, Antonio Poduje, ferito e decorato con la croce di guerra, Andrea Rispondo, ferito e decorato con la croce di guerra, che morirà nel 1923 per le ferite riportate in guerra, Guglielmo Robba, Mario Rotarovich, Luigi Sanzin, Anselmo Scremin, Romeo Settulin e Mario Stanich; ma l'elenco di questi patrioti, che con gli altri volontari delle Alpi Giulie e della Dalmazia formarono la Compagnia dei volontari giuliani e dalmati, è sicuramente incompleto.
Pola, come tutta l'Istria, soffrì pesantemente durante la seconda Guerra mondiale e in particolare, modo dopo l'8 settembre 1943 quando, pur per un breve periodo, caduto l'ordine italiano, imperverseranno per tutta la regione le bande slavo-comuniste di Tito che inizieranno a far sparire, deportandoli e poi infoibandoli, numerosi cittadini. Per lo più gente comune, in odio solo perchè italiana.
Tra l'ottobre e il novembre del 1943, saranno i pompieri di Pola, agli ordini del maresciallo polesano Armando Harzarich, una volta ripristinato l'ordine, a recuperare numerose salme di infoibati: 84 solo a Vines, 26 dalla foiba di Terli. Vari altri corpi emersero dalle cave di Pisino, dalla foiba di Treglevizza, presso Castellier di Visinada, da quella di Cregli, denominata anche «Paglion» (8 salme), da Gimino (190 corpi straziati), dalla foiba Pucicchi (11 salme). Tremendo fu il lavoro dei
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pompieri di Pola che estrassero le vittime i cui polsi spesso erano saldamente legati con il filo spinato e i cui corpi presentavano ripetute tracce di baionettate.
Nel 1944 si susseguirono ripetuti bombardamenti su Pola: il 9 gennaio si contarono 77 morti e un centinaio di feriti, il 25 febbraio e, in seguito, il giorno del Corpus Domini, l'8 giugno, si contarono altri 17 morti e il 25 dello stesso mese, altri ancora. Nel frattempo agli attentati partigiani seguirono le rappresaglie tedesche: Pola pianse la morte di Aldo Fosco e di Lugi Almerigogna, uccisi il 13 di aprile. A tutto ciò si aggiunse la distruzione a causa dei bombardamenti aerei di pregevoli monumenti: lo stesso Duomo, opera del XV secolo, colpito da una bomba, ha tuttora l'abside distrutto. Colpito fu anche il Tempio d'Augusto.
In agosto iniziò un primo sfollamento della città verso località del Friuli.
Tra la fine del 1944 e l'inizio del 1945 proseguirono i bombardamenti della città.
Nel maggio del 1945 Pola fu occupata dai partigiani slavo-comunisti di Tito e per la città iniziò la tragedia che portò, con la firma dell'infausto trattato di pace, il 10 febbraio 1947, all'esodo pressochè totale dei 30.000 abitanti. Non si possono passare sotto silenzio altri episodi gravissimi. Il 20 maggio, per ordine del comandante slavo Vitomir Sirola, 350 detenuti italiani delle carceri di via dei Martiri (molti ex militari italiani, ma anche una trentina di donne), dopo essere stati legati con filo di ferro, furono fatti marciare notte tempo fino a Fasana. Là furono imbarcati sulla nave Campanella in direzione Buccali per la deportazione verso i gulag titini, ma, presso l'imboccatura del Canale d'Arsa, la nave saltò su una mina causando la morte di gran parte dei deportati.
Solo il 12 giugno, con l'arrivo a Pola dei primi contingenti militari alleati, la popolazione poté tornare a sperare.
Con la costituzione del Comitato di Liberazione di Pola e dell'Unione esuli istriani, fra l'agosto e l'ottobre del 1945, furono istituiti organismi con funzioni assistenziali nei confronti di tutti i fratelli istriani vittime del nuovo corso titino di cui si susseguivano le violenze e le vessazioni e per le quali ripetute furono le denunce che provenivano da più parti, compreso il vescovo Antonio Santin.
L'italianità di Pola fu ribadita il 19 marzo 1946 quando si ricostituì in città la Lega nazionale che, in sole ventiquattro ore, raggiunse 5.000 adesioni e nei successivi tre mesi superò le 16.000 adesioni. Ma i timori per le risoluzioni internazionali, che purtroppo si rivelarono veritieri, scatenarono nella popolazione l'intenzione di abbandonare la città, qualora ne fosse stata resa definitiva l'assegnazione alla Jugoslavia. Il 28 luglio 1946 la situazione precipitò e l'esodo registrò ogni giorno numeri più drammatici: 9.946 furono i capifamiglia che presentarono dichiarazione di esodo, per un totale di 38.058 polesani. Le cifre fanno riferimento a una popolazione complessiva di 31.700 persone, cui si erano aggiunti tutti quelli che si erano rifugiati a Pola dai paesi limitrofi, per sfuggire alle violenze titine.
Ma forse l'episodio più sconvolgente per la popolazione è quello avvenuto il 18 agosto 1946 quando, a causa di quello che poi si scoprirà essere un vile attentato, furono fatte saltare in aria 28 mine marine recuperate e poste nei pressi della pineta di Vergarolla a una decina di metri dalla spiaggia affollatissima di bagnanti.
Erano le ore 14.15, si stavano svolgendo anche delle gare natatorie e la folla era stipata. A decine si contarono i morti, che una prima stima fissò in 65: numerosissimi i bambini e le donne. Nella tragedia si registrarono grandi momenti di valore da parte di tutti: esemplare rimase la figura del medico, il dottor Geppino Micheletti, che, in servizio all'ospedale, si prodigò per ore senza sosta per portare soccorso ai feriti sino a quando riconobbe tra i corpi dilaniati anche quello di uno dei suoi giovanissimi figli. Egli fermò l'emozione e continuò la sua opera anche quando gli giunse la notizia che nell'esplosione erano morti, anche un altro suo figlio (Renzo e Carlo Micheletti avevano rispettivamente sei e nove anni) insieme al fratello Alberto e alla cognata Caterina Maresi, entrambi di trentasette anni. Per
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l'abnegazione e per l'alto senso del dovere, Geppino Micheletti, il 2 ottobre 1947, ricevette la medaglia d'argento al valor civile.
Il 27 gennaio 1947 ebbero inizio i trasporti via mare per le masserizie degli esuli. L'Italia mise a disposizione il piroscafo «Toscana», capace di trasportare 2.000 persone. Il piroscafo fece dodici viaggi tra Pola e Venezia e tra Pola e Ancona e ad esso si affiancarono le motonavi «Pola» e «Grado». Fu un esodo tristissimo sotto la neve.
Il 10 febbraio 1947 a Parigi, alle ore 11.00, fu firmato il trattato di pace che tolse all'Italia quasi tutta la Venezia Giulia. Contemporaneamente, a Pola, la giovane Maria Pasquinelli uccise a colpi di pistola il generale inglese De Winton, comandante della tredicesima brigata di fortezza britannica a Pola. Fu l'estremo gesto, tragico ma fortemente simbolico, dell'italianità di Pola calpestata dalle grandi potenze e in balia della sanguinosa violenza jugoslava.
Nel settembre 1947 Pola agonizzante, ormai vuota, visse le sue ultime giornate. I nostri esuli, sbarcati dal piroscafo «Toscana», fatti salire su treni destinati ai centri di raccolta dei profughi, subirono ulteriori angherie in quell'Italia per la quale avevano sacrificato tutto: nella stazione di Bologna furono accolti a sputi e al grido di «fascisti», povera gente senza colpa alcuna se non quella di voler essere italiani. I treni non furono fatti fermare, si impedì addirittura di dare il latte, che pure le crocerossine avevano preparato, ai bambini. Iniziò una nuova triste vita nei campi profughi. Una vita lunghissima e piena di umiliazioni in una disordinata promiscuità che vide le genti istriane costrette nelle baracche per decenni. Gli ultimi esuli istriani uscirono dai centri addirittura solo nel 1976.
Esuli in Patria, gli istriani donarono ancora all'Italia la loro fedeltà e il loro sacrificio. La comunità degli esuli di Pola, sparsa oggi in tutto il mondo, è rappresentata dall'Associazione «Libero Comune di Pola in esilio»), cui fanno capo circa 10.000 famiglie e non meno di 30.000 esuli.
La forza spirituale di questo comune, senza territorio - ma con il suo sindaco, la sua gente, i suoi consiglieri e la sua anagrafe -, che riviveva nel solco della storia della città, ha dato un senso alla loro condizione di esuli in Patria.
Onorevoli colleghi! Affido alla vostra sensibilità questa proposta di legge, che conferma alla nostra storia il sacrificio e la dedizione di una comunità che ha sempre onorato l'Italia.
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