PDL 4331
XVI LEGISLATURA
CAMERA DEI DEPUTATI
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N. 4331
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PROPOSTA DI LEGGE
d'iniziativa dei deputati
DE PASQUALE, FRANCESCHINI
Riconoscimento dell'inno di Mameli «Fratelli d'Italia» quale inno nazionale della Repubblica italiana
Presentata il 3 maggio 2011
Onorevoli Colleghi! — Nell'autunno del 1847, Goffredo Mameli scrisse il testo de «Il Canto degli italiani». Dopo aver scartato l'idea di adattarlo a musiche già esistenti, il 10 novembre lo inviò al maestro Michele Novaro, di cinque anni più grande di lui e che visse la sua vita di musicista componendo musiche ispirate al sentimento patriottico e creò una scuola popolare di canto a Genova, dove si spense all'età di 63 anni in povertà, quasi dimenticato dalla sua Italia.
Michele Novaro scrisse di getto la musica, cosicché l'inno poté debuttare il 10 dicembre, quando sul piazzale del santuario della Nostra signora di Loreto a Oregina fu presentato ai cittadini genovesi e a vari patrioti italiani, in occasione del centenario della cacciata degli austriaci, suonato dalla Filarmonica sestrese – Casimiro Corradi Ghio Secondo, allora banda municipale di Sestri Ponente «Casimiro Corradi».
Era un momento di grande eccitazione: mancavano pochi mesi al celebre 1848, che era già nell'aria: era stata abolita una legge che vietava assembramenti di più di dieci persone, così ben 30.000 persone ascoltarono l'inno e l'impararono; nel frattempo Nino Bixio sulle montagne organizzava i falò della notte dell'Appennino. Dopo pochi giorni, tutti conoscevano l'inno, che veniva cantato senza sosta in ogni manifestazione (più o meno pacifica). Durante le Cinque giornate di Milano, gli insorti lo intonavano a squarciagola: «il Canto degli italiani» era già diventato un simbolo del Risorgimento.
Una siffatta popolarità oggigiorno avrebbe fruttato rendite agli autori tali da
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permettere loro di vivere di rendita, ma né al Mameli né al Novaro fu concessa nessuna gratificazione economica; dovettero accontentarsi della pura gloria. Non di meno Mameli, nel suo entusiasmo giovanile (scrisse la sua composizione appena ventenne) si prodigò nella partecipazione ai fermenti libertari e, scoppiata la guerra contro l'Austria (1848), fu fra i primi a partire volontario. L'esito disastroso del conflitto non lo fece desistere dalle sue gloriose imprese e, nel 1849, si precipitò a Roma per difendere la battaglia della Repubblica. Il destino gli fu avverso; nella difesa di Villa del vascello fu ferito in maniera accidentale dalla baionetta di un suo commilitone. Soltanto dopo qualche mese, più precisamente il 6 luglio 1849, l'infezione conseguente lo portò alla morte. Se ne andava così quello che in molti già soprannominavano «il poeta con la sciabola».
Quando l'inno si diffuse, le autorità cercarono di vietarlo, considerandolo eversivo (per via dell'ispirazione repubblicana e anti-monarchica del suo autore); visto il totale fallimento, tentarono di censurare almeno l'ultima parte, estremamente dura con gli austriaci, al tempo ancora formalmente alleati, ma neppure in questo ebbero successo.
Dopo la dichiarazione di guerra all'Austria, perfino le bande militari lo suonarono senza posa, tanto che il Re fu costretto a ritirare ogni censura del testo, così come abrogò l'articolo dello Statuto albertino secondo cui l'unica bandiera del Regno doveva essere la coccarda azzurra, rinunciando agli inutili tentativi di reprimere l'uso del tricolore verde, bianco e rosso, anch'esso impostosi come simbolo patriottico dopo essere stato adottato clandestinamente nel 1831 come simbolo della Giovine Italia.
In seguito fu proprio intonando l'inno di Mameli che Garibaldi, con i Mille, intraprese la conquista dell'Italia meridionale e la riunificazione nazionale.
Mameli era già morto, ma le parole del suo inno, che invocava un'Italia unita, erano più vive che mai. Anche l'ultima tappa di questo processo, la presa di Roma del 1870, fu accompagnata da cori che lo cantavano accompagnati dagli ottoni dei bersaglieri.
Anche più tardi, per tutta la fine dell'ottocento e oltre, «Fratelli d'Italia» rimase molto polare, come in occasione della guerra libica del 1911-1912, che lo vide ancora una volta il più importante rappresentante di una nutrita serie di canti patriottici vecchi e nuovi. Lo stesso accadde durante la prima guerra mondiale: l'irredentismo che la caratterizzava e l'obiettivo di completare la riunificazione, trovarono facilmente ancora una volta un simbolo ne «Il Canto degli italiani».
L'aspetto storico più sorprendente de «Il Canto degli italiani», come l'autore chiamò originariamente la sua creazione, è probabilmente la rapidità con cui le strofe si diffusero e diventarono una canzone di battaglia. Il manoscritto originale è conservato presso l'istituto mazziniano del comune di Genova, lo stesso che in data 10 novembre 1847 Goffredo Mameli inviò al maestro Michele Novaro perché provvedesse a musicarlo.
Il problema di dare un inno nazionale al nascente Stato italiano avrebbe potuto essere risolto scegliendo fin dal primo momento l'inno di Mameli. Non fu possibile perché c'era il problema istituzionale dello Stato monarchico e comprensibilmente il sovrano, Vittorio Emanuele II, esigeva che l'inno portasse il sigillo della sua casa dinastica. Al contrario, «Il Canto degli italiani», cresciuto sulle barricate dell'insurrezione, trasudava repubblicanesimo. Per questo ci si limitò a confermare come inno nazionale la «Marcia reale» d'ordinanza, inno dell'ormai trapassato Regno di Sardegna, composto nel 1831 da Giuseppe Gabetti. Se per alcuni aveva il merito dell'orecchiabilità certo non si poteva che giudicarla come una composizione eccessivamente da caserma.
Ma tutto ciò non bastò a soffocare la bellezza, la spontaneità e la sofferenza che l'opera di Mameli esprimeva. Ne fu conferma l'autorevole riconoscimento che gli venne dato da Giuseppe Verdi quando fu chiamato a comporre «L'Inno delle nazioni»
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per l'Esposizione universale di Londra del 1862. In tale opera Verdi inserì richiami alla «Marsigliese», a «
God Save the Queen» e a «Fratelli d'Italia», ignorando totalmente la «Marcia Reale», l'inno ufficiale.
Superato il trauma della guerra, sull'Italia si addensarono le nubi del fascismo che fu lesto a mettere in sordina, e a volte a ghettizzare, ogni tipo di canto risorgimentale. In questi anni l'inno di Mameli andò a cercare rifugio presso i gruppi di fuorusciti all'estero, dove il Canto diventò il simbolo dell'opposizione alla tirannia fascista. Ma ben presto arrivò l'8 settembre 1943.
Il nuovo Governo Badoglio analizzò attentamente il problema dell'inno nazionale. Per rilanciare al meglio l'iniziativa militare del Regno del sud, il Presidente del Consiglio dei ministri pensò bene di far assurgere a questo compito «La Leggenda del Piave», che evocava le atmosfere vittoriose della guerra del 1915-1918. Una scelta d'altronde incontrovertibile se si tiene conto dello
status militare del nuovo esecutivo.
La questione di un nuovo inno nazionale si pose non appena furono resi noti i risultati del
referendum del 2 giugno 1946. All'indomani del voto si aprirono i primi dibattiti pubblici, con proposte più o meno stravaganti pubblicate sui giornali o mandate al Governo.
Finalmente il 12 ottobre 1946 il Consiglio dei ministri affrontò, seppur fugacemente, il problema e ne diede notizia in termini alquanto lapidari, tanto che il giorno successivo i quotidiani riportarono poche righe del comunicato stampa ufficiale e non altro: «Su proposta del Ministro della guerra si è stabilito che il giuramento delle Forze armate alla Repubblica e al suo Capo si effettui il 4 novembre prossimo venturo e che, provvisoriamente, si adotti come inno nazionale l'inno di Mameli». La decisione non incontrò peraltro l'entusiasmo di Nerini, che aveva dovuto lasciare il Consiglio dei ministri prima della fine: «In mia assenza – annota nel suo diario – l'inno di Mameli è stato scelto come inno provvisorio della Repubblica. Tutto provvisorio dal 2 giugno in poi (...)». Insomma, l'affare fu sbrigato in pochi minuti e senza troppe riflessioni. Ciò che lascia davvero sconcertati è il seguito di questa vicenda. In primo luogo, va detto che nessun Ministro si preoccupò di emanare una circolare che formalizzasse meglio la decisione presa, così che nelle settimane successive lo stesso Ministero degli affari esteri dovette chiedere lumi alla Presidenza del Consiglio dei ministri sulla base delle notizie apparse sui giornali, mentre ai vari organi dello Stato continuavano ad arrivare proposte di spartiti musicali e di testi; anche dagli uffici del Capo provvisorio dello Stato pervennero al Governo segnalazioni, nonché la proposta di nominare una commissione
ad hoc. In secondo luogo va detto che il Ministro Facchinetti e i suoi successori non diedero alcun seguito formale alla decisione del 12 ottobre 1946. Così l'incertezza e la confusione si perpetuarono. Il 1
o luglio 1947 il Capo di gabinetto della difesa scrisse alla Presidenza del Consiglio dei ministri per ricordarle che «attualmente nelle cerimonie ufficiali in sostituzione del passato inno nazionale vengono eseguiti uno o più d'uno dei seguenti inni: inno del Piave, inno di Mameli, inno di Garibaldi» e per sapere «per quale dei tre inni, rappresentando l'inno nazionale ufficiale, i reparti sotto le armi debbono presentare le armi». Sconcertante fu la risposta del Capo di gabinetto della Presidenza del Consiglio dei ministri: «In attesa della scelta e del riconoscimento formale del nuovo inno nazionale, potrà essere adottato come tale l'inno di Mameli». Ancora nell'aprile 1948 il Presidente del Comitato olimpionico nazionale italiano (CONI), Giulio Onesti, intervenne per sapere «quale musica deve essere adottata come inno ufficiale italiano» in occasione della XIV Olimpiade a Londra. Gradualmente ci si adeguò dunque alla scelta di fatto in favore dell'opera di Mameli e di Novaro, anche se di tanto in tanto arrivavano al Governo solleciti e richieste; non mancheranno poi clamorosi incidenti, come quello avvenuto il 6 maggio 1959, allorché in occasione dell'incontro
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di calcio Italia-Inghilterra che si svolgeva allo stadio di Wembley fu suonata la «Marcia reale» invece che l'inno di Mameli, suscitando polemiche e interrogazioni parlamentari.
Secondo il cerimoniale ufficiale, le «regole scritte e non scritte» prevedono che normalmente dell'inno di Mameli sia eseguita solo la prima strofa senza l'introduzione strumentale, sostituita con massimi onori militari tributabili (ripetizione della frase musicale degli onori per tre volte) a simboleggiare l'inno come uno dei più sacri simboli della Repubblica italiana; durante l'esecuzione i soldati devono rimanere fermi presentando le armi, gli ufficiali stare sull'attenti e i civili, se vogliono, assumere una posizione di attenti. Dal 1970, inoltre, ogni esecuzione dell'inno nazionale dovrebbe essere accompagnata da quella dell'inno europeo, l’«Inno alla gioia» della Nona sinfonia di Beethoven.
Dunque una storia curiosa, quella di «Fratelli d'Italia» che, come già spiegato, non vide concretizzarsi, dopo il citato Consiglio dei ministri del 12 ottobre 1946, il decreto previsto e, in prosieguo, altri provvedimenti al riguardo saranno mai emanati. Appare davvero singolare che un Paese che annovera nel suo repertorio normativo più di centomila leggi non abbia trovato spazio per una semplice e breve disposizione legislativa capace di attribuire dignità formale all'inno nazionale.
Ora si vuole mettere riparo a una situazione che doveva essere transitoria ed è durata oltre mezzo secolo.
L'articolo 12 della Costituzione stabilisce che la bandiera della Repubblica è il tricolore italiano e ne descrive con accuratezza le caratteristiche. Lo stemma della Repubblica fu scelto tra altri simboli partecipanti a un concorso pubblico indetto dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, al quale seguì una disposizione legislativa, il decreto legislativo 5 maggio 1948, n. 535: «Foggia ed uso dell'emblema dello Stato». La scelta cadde sulla proposta del pittore piemontese Paolo Paschetto. L'emblema dello Stato, confermato con una specifica deliberazione dell'Assemblea costituente, «è composto di una stella a cinque raggi di bianco, bordata di rosso, accollata agli assi di una ruota di acciaio dentata, tra due rami di olivo e di quercia, legati da un nastro di rosso, con la scritta di bianco in carattere capitale “Repubblica Italiana”».
Niente invece è stato scritto per l'inno nazionale che rimane ancora ignorato dalle nostre leggi. Eppure «Fratelli d'Italia» è un inno distintivo, sa ancora toccare il cuore dei cittadini e l'immaginario collettivo della nazione, sintetizza un patrimonio di valori nazionali ed emoziona quanto, se non più della muta bandiera e quest'anno, ricorrenza dei 150 anni dell'Unità d'Italia, come non mai ne abbiamo avuto infiniti riscontri.
I motivi di questa «dimenticanza» non sono chiari. Forse si è dato per scontato quello che ormai era considerato nei fatti l'inno nazionale, cioè l'inno di Mameli dettato da sentimenti mazziniani che più si addicevano ad una giovane Repubblica democratica quale sarà l'Italia dopo il
referendum del 1946.
La storia risorgimentale, l'unica comune a tutta la nazione, durata un secolo (dal Congresso di Vienna del 1815 fino alla fine della prima guerra mondiale che possiamo considerare l'ultima guerra di indipendenza), è costellata da canzoni patriottiche, espressione popolare del sentimento nazionale. Esse hanno scandito momenti importanti della lotta di liberazione e anche attraverso esse si è creata la coscienza della nazione e del suo popolo.
Ma la lirica riconosciuta dalla grande maggioranza degli italiani come identificativa dello spirito patrio è stata, ancor prima di essere eseguita come inno nazionale, l'inno di Mameli, «Il Canto degli italiani».
Il nostro inno è certamente tra i migliori delle varie nazioni, è un inno che va «alla carica» come i loro giovani autori andavano alla conquista della libertà e dell'indipendenza, con entusiasmo, semplicità e spontaneità. In un mondo i cui simboli sono spesso solo cose che compriamo o usiamo, crediamo sia importante ed educativo per le giovani generazioni
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trovare simboli che diano il senso di appartenenza a una comunità, che abbiano il valore evocativo della propria storia, del proprio passato, consapevoli che un Paese che non ha memoria patria è come una persona senza passato. Non avere cognizione del proprio passato rende più difficile proiettarsi nel futuro.
In quest'Italia che cambia, in un contesto internazionale che si modifica non senza gravi traumi, forse è giusto rivalutare i simboli, salvaguardare le matrici di un popolo, i riferimenti culturali e tra questi anche l'inno nazionale, che dal passato ci porta al futuro, senza retorica o malinteso nazionalismo.
Tutte le altre nazioni repubblicane hanno riconosciuto un posto speciale ai propri inni, è il caso della Germania, degli Stati Uniti d'America, del Portogallo che lo richiama nella Costituzione come d'altra parte fa anche la Francia, che aggiunge tutti i suoi simboli identificativi: il motto della Repubblica: «libertà, uguaglianza, fratellanza», il suo principio «governo del popolo, attraverso il popolo e per il popolo», il suo emblema nazionale e la sua lingua nazionale. Anche un'istituzione sovranazionale come l'Unione europea ha sentito la necessità di un simbolo musicale scegliendo formalmente come suo inno la musica della «
Ode an die Freude» («inno alla gioia») tratta dalla Nona sinfonia di Ludwig van Beethoven, nell'adattamento del maestro Herbert von Karajan.
L'Italia è rimasta indietro ed è doveroso per noi colmare questo vuoto giuridico, doveroso nei confronti del nostro passato, del nostro presente e del nostro futuro.
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PROPOSTA DI LEGGE
Art. 1.
1. L'inno di Mameli, nella denominazione «Fratelli d'Italia», è riconosciuto quale inno nazionale della Repubblica italiana.