Doc. XXIII n. 15
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1.L'attività della Commissione
Nella riunione dell'ufficio di presidenza tenuta il 10 febbraio 2010 la Commissione ha stabilito di svolgere un approfondimento sul tema dei rifiuti radioattivi. L'opportunità di esaminare tale settore era certamente connessa anche al progettato ritorno dell'Italia all'energia nucleare, che avrebbe riaperto una produzione massiccia di rifiuti, rendendo ancor più impellente l'adozione dei provvedenti necessari per la loro gestione in un ciclo ordinato e sicuro; ma derivava soprattutto dalla oggettiva, generale rilevanza del tema stesso e dalle voci mai sopite di attività illecite legate ai rifiuti radioattivi o quanto meno di un loro più o meno ampio coinvolgimento in attività illecite centrate sui rifiuti speciali o pericolosi. Tali voci, che hanno avuto notevole eco nell'ampia attività giornalistica e editoriale in materia, se non erano suscettibili di essere definitivamente confermate o smentite da parte della Commissione, erano quanto meno meritevoli di una valutazione in merito alla loro attendibilità. Altri obiettivi dell'approfondimento erano la ricostruzione del quadro generale della situazione in essere, un esame della normativa vigente, della sua efficacia e dell'eventuale necessità di completamenti o di modifiche, una verifica delle attività operative svolte, dei programmi, delle spese sostenute e degli oneri previsti, l'individuazioni delle priorità in materia per la futura azione del Governo e del Parlamento. Il venir meno della prospettiva di realizzazione di nuove centrali nucleari sul nostro territorio, sancito dal referendum popolare del giugno 2011, non ha quindi alterato sensibilmente i motivi di interesse da parte della Commissione.
Per l'acquisizione dei necessari elementi conoscitivi, la Commissione ha effettuato tredici audizioni, alcune delle quali riprese una o più volte per aggiornamenti o integrazioni; ha compiuto sette missioni su altrettanti siti nucleari; ha ricevuto, a seguito di richiesta o talora su iniziativa dei mittenti, contributi scritti e documentazione da diversi soggetti, auditi o comunque interessati, a diverso titolo, alla gestione dei rifiuti radioattivi.
In particolare, nel corso delle audizioni sono stati ascoltati:
1) Giancarlo Aragona, presidente della Sogin Spa, nonché Fabio Chiaravalli, direttore ambiente, radioprotezione e qualità, e Ivo Tripputi, responsabile relazioni internazionali della stessa Sogin (seduta del 4 ottobre 2011);
2) Rocco Italiano, comandante del reparto operativo del comando carabinieri per la tutela dell'ambiente, nonché Stefano Pineta, ispettore del medesimo reparto (seduta del 5 ottobre 2011);
3) Giovanni Lelli, Commissario dell'ENEA (seduta del 29 novembre 2011);
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4) Salvatore Malfi, prefetto di Vercelli (seduta del 25 gennaio 2012);
5) Rocco Colicchio, componente dell'Autorità per l'energia elettrica e il gas, nonché Fedele Dell'Oste, direttore infrastrutture energia elettrica e gas della stessa Autorità (seduta del 31 gennaio 2012);
6) Emanuele Pianese, primo dirigente del Corpo nazionale vigili del fuoco (seduta del 31 gennaio 2012);
7) Stefano Laporta, direttore generale dell'ISPRA (seduta del 7 febbraio 2012);
8) Celestina Gravina, procuratore della Repubblica presso il tribunale di Matera (seduta del 28 febbraio 2012);
9) Corrado Passera, Ministro dello sviluppo economico (sedute del 7 marzo e 24 luglio 2012);
10) Corrado Clini, Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare (sedute del 15 marzo, 16 maggio e 3 luglio 2012);
11) Angelo Miccoli, sindaco di Statte, Taranto (seduta del 1o agosto 2012);
12) Carmela Pagano, prefetto di Caserta, per la qualità di commissario delegato per l'intervento sul deposito di rifiuti radioattivi di Castelmauro pro tempore (seduta del 27 novembre 2012);
13) Roberto Donati, responsabile MIT Nucleare (seduta del 17 aprile 2012).
Le missioni compiute dalla Commissione sono state le seguenti:
1) 10 novembre 2011: centrale elettronucleare di Caorso (PC);
2) 7 dicembre 2011: impianto Eurex, deposito Avogadro e deposito Sorin, nel sito di Saluggia (VC);
3) 19 gennaio 2012: impianto di riprocessamento della Nuclear Decommissioning Authority (NDA), a Sellafield (Inghilterra);
4) 13 marzo 2012: impianto ITREC di Rotondella (MT);
5) 17 maggio 2012: centrale elettronucleare di Latina;
6) 21 giugno 2012: centro della Casaccia (RM), in particolare il deposito Nucleco e l'impianto Plutonio;
7) 9 ottobre 2012: centrale elettronucleare del Garigliano (CE).
La Commissione ha ricevuto documentazione o contributi scritti, trasmessi o consegnati nel corso delle audizioni, da:
- Agenzia delle dogane;
- Agenzie regionali per la protezione dell'ambiente (ARPA) di Basilicata, Campania, Emilia Romagna, Lazio, Lombardia e Piemonte;
- ISPRA;
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- Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare;
- Ministero dell'interno;
- SOGIN;
- Luigi Brusa, ex direttore tecnico della SOGIN;
- comune di Statte.
Per una più precisa delimitazione dei temi dei quali la Commissione si è occupata va ricordato che, nella definizione data dalla legge vigente, per rifiuto radioattivo si intende «qualsiasi materia radioattiva, ancorché contenuta in apparecchiature o dispositivi in genere, di cui non è previsto il riciclo o la riutilizzazione».
Rientrano in questa definizione sia i rifiuti più comunemente intesi, sia gli scarichi liquidi o aeriformi, debolmente radioattivi, che dalle installazioni vengono rilasciati nell'ambiente, rispettivamente nei corpi idrici e nell'atmosfera. Ai due tipi di rifiuti si applicano principi di gestione diametralmente opposti: i primi debbono essere gestiti secondo il principio sintetizzato nell'espressione «concentra e confina», che richiede che il loro volume sia ridotto quanto più possibile già in fase di produzione e successivamente tramite operazioni di trattamento e che siano conservati evitando in ogni fase, in particolare a seguito del loro smaltimento, che la radioattività in essi contenuta possa raggiungere l'ambiente. Agli scarichi si applica, invece, il principio «diluisci e disperdi»: la concentrazione di radioattività, già bassa in origine perché lo scarico possa essere consentito, deve essere per quanto possibile ulteriormente ridotta e le modalità di allontanamento degli scarichi dalle installazioni debbono essere tali da favorire la massima dispersione (altezza dei camini, portata dei fiumi ecc.), tenendo anche conto dei possibili fattori di riconcentrazione.
L'approfondimento condotto dalla Commissione ha riguardato essenzialmente i rifiuti radioattivi intesi nell'accezione più comune e solo per aspetti normativi o per alcuni casi specifici gli scarichi nell'ambiente.
La Commissione ha dovuto inoltre tenere conto del fatto che, nella realtà italiana, in assenza di attività produttive negli impianti nucleari, spenti ormai da venticinque anni, i problemi della produzione e della gestione dei rifiuti radioattivi sono strettamente connessi ai programmi di decommissioning di detti impianti, in modo particolare al loro smantellamento, ed è stato pertanto necessario ricomprendere nei temi dell'approfondimento anche la conduzione di tali programmi.
2.Origine e classificazione dei rifiuti radioattivi
Ogni impiego di materie radioattive genera inevitabilmente rifiuti.
I maggiori quantitativi provengono dalla produzione di energia elettrica da fonte nucleare: centrali e impianti del connesso ciclo del combustibile, quegli impianti cioè dove, a partire dal minerale di uranio o da materiale recuperato, viene fabbricato il combustibile nucleare destinato alle centrali e quegli impianti dove il combustibile,
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una volta utilizzato nelle centrali, viene riprocessato per recuperare uranio e plutonio, riutilizzabili.
Va sottolineato che lo spegnimento delle centrali e l'arresto degli altri impianti nucleari non elimina la produzione di rifiuti radioattivi. Anche quando le installazioni nucleari sono spente, il loro mantenimento in sicurezza comporta, pur se in misura minore, la formazione di nuovi rifiuti, formazione che si azzera solo con il definitivo smantellamento. Questo, peraltro, trasforma a sua volta in rifiuti radioattivi le parti di impianto, strutture, apparecchiature e componenti, che durante l'esercizio si sono contaminate o attivate.
Altri rifiuti sono prodotti nelle attività sanitarie, industriali e di ricerca nelle quali vengono usate sostanze radioattive. È soprattutto la sanità, dove vi è un impiego esteso e crescente di radiofarmaci sia a fini diagnostici, sia a fini terapeutici, a dar luogo a una cospicua produzione di rifiuti radioattivi, produzione tra l'altro tipicamente assi più diffusa nel territorio di quanto non sia quella di origine energetica, concentrata in un numero necessariamente più limitato di impianti nucleari.
Alle diverse origini sono associati rifiuti radioattivi differenti per radionuclidi contenuti, per concentrazione e per pericolosità, e anche rifiuti prodotti in una medesima installazione possono differire sensibilmente tra di loro.
La variabilità delle caratteristiche dei rifiuti radioattivi rende necessario adottare un sistema di classificazione, soprattutto ai fini della definizione di criteri e requisiti per le varie fasi della loro gestione e, più in generale, per rendere immediata la comunicazione.
In funzione dello scopo specifico, i sistemi di classificazione possono fare riferimento a diverse caratteristiche dei rifiuti, ad esempio i radionuclidi in essi contenuti, la loro concentrazione, il loro tempo di decadimento, il tipo di radiazioni emesse, la produzione di calore.
Sistemi di classificazione sono stati proposti dall'AIEA e dalla Commissione europea, così come vari Paesi hanno adottato un sistema tenendo conto delle loro particolari situazioni o esigenze.
La classificazione impiegata in Italia è stata introdotta nel 1987 con una guida tecnica emessa dall'ente di controllo (guida tecnica n. 26). In essa i rifiuti radioattivi sono suddivisi in tre categorie. A ciascuna categoria la guida associa requisiti per la gestione e, in parte, per lo smaltimento.
Sono classificati in prima categoria i rifiuti radioattivi a vita più breve, quelli cioè che richiedono sino ad un massimo di qualche anno per decadere a concentrazioni di radioattività inferiori a quelle stabilite dalla normativa per l'esenzione dall'autorizzazione allo smaltimento nell'ambiente o a quelle per le quali tale autorizzazione è stata concessa. Quando la concentrazione è scesa al di sotto di tal livelli, i rifiuti possono essere gestiti e smaltiti come non più radioattivi, ma ovviamente nel rispetto delle norme che disciplinano i rifiuti convenzionali. La maggior parte dei rifiuti di prima categoria vengono prodotti nell'impiego medico delle sostanze radioattive.
Sono classificati in seconda categoria i rifiuti radioattivi che richiedono da qualche decina ad alcune centinaia di anni per decadere a concentrazioni di radioattività prossime al fondo ambientale o anche
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i rifiuti con radionuclidi a vita molto lunga già in origine in concentrazione dell'ordine del fondo ambientale (al riguardo la guida tecnica n. 26 indica una concentrazione dell'ordine di alcune centinaia di Becquerel/grammo, essendo il Becquerel l'unità di misura dell'attività - simbolo Bq - corrispondente a un decadimento al secondo). Rifiuti di seconda categoria sono prodotti nell'impiego di radioisotopi a fini sanitari, industriali o di ricerca, ma soprattutto negli impianti nucleari.
Sono, infine, classificati in terza categoria quei rifiuti il cui decadimento richiede migliaia di anni o più. Rifiuti di terza categoria sono prodotti negli impianti nucleari, in particolar modo negli impianti di riprocessamento del combustibile irraggiato (cioè il combustibile giunto al termine dell'utilizzo all'interno di un reattore nucleare). Può essere considerato rifiuto di terza categoria lo stesso combustibile irraggiato, quando non si intenda effettuare il suo riprocessamento, ma si intenda detenerlo come tale.
A differenza dei rifiuti di prima categoria, i rifiuti radioattivi di seconda e di terza categoria restano sempre soggetti, in tutte le fasi della loro vita - dalla produzione al trattamento, alla raccolta, al trasporto, al deposito e allo smaltimento - alla normativa che disciplina la radioprotezione, anche se le tecniche con le quali ciascuna fase viene condotta possono differire, talora sensibilmente.
3.La normativa
3.1La normativa generale di radioprotezione
Tutte le attività connesse alla produzione e alla gestione dei rifiuti radioattivi, al pari di ogni altra attività che comporti il rischio di esposizione alle radiazioni ionizzanti, sono soggette alle norme generali di radioprotezione che l'ordinamento pone a tutela dei lavoratori, della popolazione e dell'ambiente.
Tali norme derivano essenzialmente dall'attuazione di direttive comunitarie, essendo la materia dell'energia nucleare, ivi inclusa la radioprotezione, oggetto di uno dei due trattati di Roma - in particolare del Trattato Euratom - dai quali, nel marzo 1957, è iniziato il processo di integrazione europea. A loro volta, per quanto attiene agli aspetti di base della radioprotezione, le direttive Euratom si fondano sulle pubblicazioni e sulle raccomandazioni emanate dalla Commissione internazionale per la protezione radiologica - ICRP nell'acronimo inglese - organismo scientifico indipendente nato nel 1928, del quale sono chiamati a far parte, per cooptazione, alcuni tra i maggiori esperti della materia in ambito mondiale.
Oltre che dall'Unione europea, le raccomandazioni dell'ICRP sono tradotte in norme tecniche dall'AIEA, l'Agenzia internazionale per l'energia atomica delle Nazioni Unite. In tal modo, pur se gli standard dell'AIEA non hanno in nessun caso il valore cogente che le direttive Euratom hanno invece per i paesi dell'Unione europea, la radioprotezione di base può vantare a livello mondiale dei riferimenti normativi sostanzialmente omogenei.
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Nella tabella n. 1 è mostrata la successione temporale delle principali pubblicazioni dell'ICRP, delle direttive Euratom basate su di esse e degli atti legislativi italiani con i quali le direttive sono state recepite.
Oltre alle direttive recanti le norme di base della radioprotezione, fondate come detto sulle raccomandazioni o sulle pubblicazioni dell'ICRP, vi sono altre direttive Euratom, autonome o aventi comunque riferimenti scientifici diversi, che disciplinano aspetti più specifici anche di tipo organizzativo, amministrativo o procedurale. Si tratta in particolare, tra quelle riportate nella tabella, della direttiva 89/618 in materia di informazione della popolazione per i casi di emergenza radiologica; della direttiva 90/641 in materia di protezione operativa dei lavoratori dipendenti da terzi; della direttiva 92/3 in materia di controllo delle spedizioni transfrontaliere di rifiuti radioattivi, quest'ultima modificata dalla direttiva 2006/117; della direttiva 2003/122 sul controllo delle grandi sorgenti radioattive.
Vanno inoltre ricordate le due più recenti direttive, emanate dopo lunghi dibattiti sulla pertinenza delle rispettive materie rispetto a quelle coperte dal Trattato Euratom: la direttiva 2010/71, che ha istituito un quadro comunitario per la sicurezza degli impianti nucleari e che ha sancito, tra gli altri, il principio di indipendenza degli enti nazionali di controllo, e la direttiva 2011/70, che definisce un quadro comunitario per la gestione del combustibile nucleare irraggiato e dei rifiuti radioattivi.
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Ad eccezione della direttiva 2011/70, che dovrà essere recepita negli ordinamenti nazionali entro il 23 agosto 2013, l'Italia ha oggi dato attuazione a tutte le direttive comunitarie.
Tale attuazione è avvenuta con l'emanazione del decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 230, e con una serie di modifiche e di integrazioni apportate a tale decreto per recepire le direttive emanate dopo la sua entrata in vigore. L'elenco degli atti che hanno di volta in volta emendato il decreto legislativo originario è il seguente:
- decreto legislativo 26 maggio 2000, n. 187 - attuazione direttiva 97/43/Euratom;
- decreto legislativo 26 maggio 2000, n. 241 - attuazione direttiva 96/29/Euratom;
- decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 - testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità;
- decreto legislativo 9 maggio 2001, n. 257 - integrazione e correzione al decreto legislativo n. 241/2000;
- legge 1 marzo 2002, n. 39 - legge comunitaria 2001;
- decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 52 - attuazione direttiva 2003/122/Euratom;
- decreto legislativo 20 febbraio 2009, n. 23 - attuazione direttiva 2006/117/Euratom;
- decreto legislativo 19 ottobre 2011, n. 185 - attuazione direttiva 2009/71/Euratom.
Il decreto legislativo n. 230 del 1995, con le modifiche introdotte dagli atti legislativi sopra elencati, reca quindi la disciplina generale della sicurezza nucleare e della radioprotezione attualmente vigente in Italia. Nel seguito, ogni riferimento al decreto legislativo n. 230 del 1995 è da intendere a detto decreto così come modificato e integrato da tutti i provvedimenti sopra richiamati.
Ulteriori modifiche sono state introdotte dal decreto legislativo 15 febbraio 2010, n. 31, così come modificato dal decreto legislativo 23 marzo 2011, n. 41. Non si tratta tuttavia, in questo caso, di modifiche a norme sostanziali di radioprotezione, ma della soppressione di un consiglio interministeriale e di una commissione tecnica, quest'ultima, peraltro, di notevole rilievo nell'ambito dei procedimenti autorizzativi attinenti a impianti nucleari, ivi compresi il loro decommissioning e la gestione dei rifiuti radioattivi ad essi afferenti, e della definizione dei piani di emergenza.
Il sistema di radioprotezione stabilito dal decreto legislativo n. 230 del 1995 è basato su tre principi, internazionalmente riconosciuti, che lo stesso decreto legislativo enuncia, da attuare nello stesso ordine in cui sono enunciati.
Il primo principio, detto di «giustificazione», richiede che ogni nuova attività che comporti esposizioni alle radiazioni ionizzanti debba essere giustificata, prima della sua adozione, dai vantaggi
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economici, sociali o di altro tipo rispetto al detrimento sanitario che essa può comportare.
Il secondo principio, di «ottimizzazione», richiede che ogni attività venga svolta in modo da mantenere l'esposizione alle radiazioni al livello più basso ragionevolmente ottenibile, tenuto conto dei fattori economici e sociali. Questo principio, sancito quando - è bene ricordarlo - la protezione contro ogni altro fattore di nocività era basata unicamente sul rispetto di predeterminate soglie, si traduce per gli esercenti nell'obbligo, penalmente sanzionato, di adottare tutti quei provvedimenti indicati dalle norme di buona tecnica o altri ad essi equivalenti, capaci di ridurre ulteriormente le esposizioni, a prescindere dal livello già raggiunto e dal fatto che esso sia più basso dei limiti comunque prescritti.
Raggiunto un livello di esposizioni ottimizzato, si verifica il rispetto del terzo principio: anche per gli individui maggiormente esposti, la somma delle dosi derivanti da tutte le attività cui un individuo è esposto non deve superare i «limiti di dose» stabiliti per i lavoratori e gli individui della popolazione. Va ricordato al riguardo che la dose, o più precisamente la «dose efficace», è una grandezza nella quale si combinano l'energia assorbita dai diversi organi o tessuti colpiti dalle radiazioni ionizzanti e alcuni fattori che tengono conto della pericolosità dello specifico tipo di radiazione e della sensibilità di ciascuno degli organi o tessuti. La dose si misura in sievert (indicato con il simbolo Sv). Poiché i livelli di dose comunemente riscontrabili sono notevolmente inferiori al sievert, vengono molto più spesso impiegati i suoi sottomultipli, mSv (un millesimo di sievert) e ?Sv (un milionesimo di sievert).
Riguardo ai limiti di dose, va osservato che per la popolazione una corretta applicazione del principio di ottimizzazione porta normalmente le dosi a livelli molto inferiori ai limiti di legge. Inoltre, l'autorità di controllo, tenendo conto delle esperienze di ottimizzazione acquisite o della particolare situazione in cui una specifica attività viene a svolgersi (ad esempio la contemporanea presenza di molteplici attività su uno stesso sito), può prescrivere all'esercente il rispetto di un «vincolo», cioè di un determinato valore di dose o di altra grandezza radioprotezionistica, vincolo che costituirà quindi, per l'esercente, il risultato minimo da raggiungere attraverso il processo di ottimizzazione.
Va anche precisato che mentre i principi di giustificazione e di ottimizzazione si applicano senza eccezioni a tutte le attività, i limiti di dose non si applicano alle esposizioni di pazienti sottoposti a indagini o a trattamenti medici con radiazioni, a quelle di quanti assistono volontariamente i pazienti (non fa quindi eccezione l'esposizione professionale del personale medico o paramedico), all'esposizione di volontari sani che partecipano a programmi di ricerca medica (eccezione questa oggetto di lunga controversia), ad alcuni tipi di esposizione espressamente disciplinati.
Avvalendosi della facoltà che la normativa comunitaria prevede per gli Stati membri, nel dare attuazione alle direttive di radioprotezione nella legislazione italiana sono state introdotte alcune norme più stringenti di quelle contenute nelle direttive stesse e, corrispondentemente, di quelle stabilite in altri paesi dell'Unione europea. È il
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caso, ad esempio, dei limiti di dose per i lavoratori esposti. Per essi, la pertinente direttiva europea fissa un doppio limite: 100 mSv sull'arco di cinque anni e 50 mSv in un singolo anno. La legge italiana stabilisce un unico limite, pari a 20 mSv in un anno, corrispondente cioè al valore medio annuo che il limite della direttiva di 100 mSv sul quinquennio comporta, ma non lascia la possibilità di superare annualmente quel valore, possibilità che la direttiva concede invece ampiamente.
3.2La normativa di radioprotezione per i rifiuti radioattivi
Ai rifiuti radioattivi, al pari di ogni altra attività con sorgenti di radiazioni ionizzanti, si applicano integralmente le norme generali di radioprotezione. Nondimeno, il decreto legislativo n. 230 del 1995 dedica ai rifiuti, all'articolo 102, una norma che può essere considerata ancora a carattere generale: «Chiunque esercita un'attività soggetta al presente decreto deve adottare le misure necessarie affinché la gestione dei rifiuti radioattivi avvenga nel rispetto delle specifiche norme di buona tecnica e delle eventuali prescrizioni tecniche contenute nei provvedimenti autorizzativi, al fine di evitare rischi di esposizione alle persone del pubblico».
Il medesimo articolo prevede, inoltre, la facoltà del Ministero dell'ambiente e del Ministero della salute, nell'ambito delle rispettive competenze, nonché delle autorità che rilasciano le autorizzazioni in sede locale - laddove tali autorizzazioni sono previste - di prescrivere l'adozione di dispositivi, provvedimenti e mezzi di rilevamento, necessari ai fini della radioprotezione, specie dove coesistano più fonti di rifiuti radioattivi. Si tratta evidentemente di una norma riferita soprattutto ai casi di immissione nell'ambiente di scarichi radioattivi liquidi o aeriformi. Va peraltro detto che la stessa facoltà da parte delle autorità competenti, al di là degli specifici ministeri ai quali è in questo caso riconosciuta, esiste per tutti gli altri aspetti connessi alle attività con sorgenti di radiazioni ionizzanti.
Il caso dell'immissione di radioattività nell'ambiente è uno dei più rilevanti tra quelli in cui la legge italiana è più severa - e in questo caso in modo particolare - della corrispondente normativa europea e, a quanto risulta, della normativa di ogni altro Paese.
Un'immissione di radioattività nell'ambiente avviene ogni volta che materiale radioattivo, in qualsiasi forma - solida, liquida o aeriforme - viene allontanato da un impianto autorizzato o comunque soggetto alle norme di radioprotezione e viene destinato a un ambito non soggetto a quelle norme. È il caso, in concreto, di rifiuti contenenti tracce di radioattività che vengano avviati in discariche o a impianti di trattamento di rifiuti convenzionali; è il caso dei già citati scarichi liquidi o aeriformi, immessi rispettivamente in fiumi, laghi o altri corpi idrici o in aria; è il caso, ancora, dei materiali di risulta debolmente contaminati, prodotti dallo smantellamento di impianti nucleari e destinati a essere smaltiti, riciclati o direttamente riutilizzati (si pensi alla componentistica) in impianti non nucleari.
Quest'ultimo esempio è di particolare interesse nella situazione italiana, dove il decommissioning degli impianti esistenti, con la
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connessa gestione dei rifiuti, costituirà, almeno nel breve e nel medio termine, l'unica attività prevedibile in campo nucleare. Dallo smantellamento di una centrale nucleare, come ad esempio quella di Caorso, vengono prodotte circa 300 mila tonnellate di materiali cementizi e ventimila tonnellate di rottami metallici, oltre a quantitativi minori di materiali diversi. Considerando che solo una piccola parte, mediamente intorno a qualche punto percentuale, risulta contaminata in modo significativo e che una larga parte risulta invece del tutto esente da radioattività, trattare l'intero quantitativo alla stregua di rifiuti radioattivi renderebbe il decommissioning inutilmente più oneroso e rappresenterebbe - anche se questo può esser considerato un aspetto minore - la rinuncia alla possibilità, specie nel caso dei metalli, di riciclare in fonderia o di riutilizzare materiali spesso di qualità.
Per tutte queste pratiche di smaltimento, di riciclo o di riutilizzazione che comportano l'immissione di radioattività nell'ambiente, le norme europee (direttiva 96/29/Euratom, articolo 5) richiedono che siano sottoposte a un'autorizzazione preventiva. Tuttavia, le stesse norme comunitarie prevedono che tali pratiche possano essere esentate dalla richiesta autorizzazione quando risultino soddisfatti due criteri:
1) la dose derivante dalle immissioni di radioattività nell'ambiente per un individuo della popolazione non deve superare 10 |gmSv in un anno;
2) la dose collettiva annua per la popolazione, cioè la somma di tutte le dosi ricevute dagli individui del pubblico, non deve superare 1 Sv-persona, ovvero, in alternativa, venga data dimostrazione che il rilascio di radioattività nell'ambiente rappresenta la soluzione ottimizzata.
Va detto che il primo criterio risulta in pratica molto più stringente del secondo, sicché, una volta che esso sia soddisfatto, viene soddisfatto anche il secondo criterio in maniera pressoché automatica.
Nella legge italiana l'unica eccezione prevista alla necessità di autorizzazione per le immissioni di radioattività nell'ambiente è quando la radioattività sia costituita da soli radionuclidi a vita breve, con tempo di dimezzamento inferiore a 75 giorni, e in bassa concentrazione, non superiore a 1 Becquerel/grammo (artt. 154 e 30 del decreto legislativo n. 230 del 1995). Già di per sé si tratta di una condizione molto più restrittiva dei criteri di esenzione previsti dalla direttiva europea. Tale condizione trova applicazione soprattutto per alcuni rifiuti di origine sanitaria, che possono essere così smaltiti insieme agli altri rifiuti della stessa origine. L'articolo 154 richiede comunque la registrazione dei dati relativi ad ogni smaltimento che dimostrino il rispetto della condizione di esenzione.
Quando anche uno solo dei radionuclidi da rilasciare, quale che sia la sua concentrazione, ha un tempo di dimezzamento più lungo di 75 giorni o quando la concentrazione sia maggiore di 1 Becquerel/grammo, quale che sia il tempo di dimezzamento, qualsiasi rilascio nell'ambiente richiede di essere specificamente autorizzato. Al riguardo, nell'allegato I del decreto legislativo n. 230 del 1995 sono
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stabilite le condizioni necessarie affinché l'autorizzazione possa essere concessa: si tratta esattamente dei due criteri per i quali la direttiva europea prevede la possibilità di esentare dall'autorizzazione.
In sintesi, la normativa italiana prevede per l'esenzione dall'autorizzazione all'immissione di radioattività nell'ambiente condizioni più restrittive di quelle previste dalle direttive europee; richiede cioè che le immissioni siano sottoposte ad autorizzazione anche laddove le direttive ne consentirebbero invece l'esenzione. Inoltre, non consente che le autorizzazioni vengano rilasciate in casi in cui le direttive lo consentirebbero. Per una comprensione più immediata, nel grafico di figura 1 è presentato un raffronto qualitativo tra i due sistemi, in grandezze arbitrarie.
Più che per la gestione dei rifiuti radioattivi strettamente intesi o dei materiali di risulta prodotti dagli smantellamenti, la definizione di un criterio molto restrittivo per la concessione dell'autorizzazione al rilascio di radioattività nell'ambiente è di rilievo per lo scarico degli effluenti liquidi e aeriformi. Infatti, se nella gestione dei rifiuti o dei materiali di risulta l'impossibilità di rilasciare radioattività nell'ambiente si traduce in eventuali maggiori oneri (la gestione di rifiuti radioattivi è normalmente più costosa della gestione di rifiuti o di materiali di risulta convenzionali), il non poter scaricare effluenti nell'ambiente potrebbe, almeno in linea teorica, giungere a costituire un limite per il funzionamento di alcune installazioni, ad esempio in campo sanitario, soprattutto se di vecchio tipo. Tuttavia, non si ha notizia che nell'esperienza ultradecennale ormai maturata con la legislazione vigente casi simili si siano verificati in concreto.
Nel corso dei sopralluoghi compiuti dalla Commissione, alcuni interlocutori hanno tenuto ad evidenziare la particolare severità della normativa italiana per l'aspetto qui in discussione ed è d'altra parte noto che, nell'ambito del progettato ritorno all'energia nucleare, la
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revisione dei criteri di rilascio della radioattività nell'ambiente, nel senso del loro rilassamento, era stata inclusa tra i provvedimenti di carattere regolatorio da prevedere.
La Commissione valuta, tuttavia, che tali criteri sono da considerare oggi punti ormai acquisiti e consolidati della disciplina italiana della radioprotezione e costituiscono una garanzia verso l'impegno nell'adozione dei migliori standard e nel perseguimento di soluzioni concretamente ottimizzate. Essi pertanto, anche in occasione del recepimento di future direttive, dovrebbero essere conservati, al pari degli altri punti dove, in temi di radioprotezione sostanziale, la legislazione nazionale, utilizzando margini consentiti dalla normativa europea, risulta più avanzata di quest'ultima.
3.3Il regime autorizzativo e amministrativo
Il decreto legislativo n. 230 del 1995 pone in essere un sistema di provvedimenti autorizzativi e di obblighi di tenuta di registri e di trasmissione periodica di riepiloghi da parte dell'esercente, tendente a consentire alle amministrazioni competenti una conoscenza per quanto più possibile completa della vita delle sorgenti di radiazioni ionizzanti attraverso le sue fasi, dall'inizio, con la produzione o l'importazione delle sorgenti stesse, sino allo smaltimento finale dei rifiuti radioattivi.
L'insieme degli atti autorizzativi e dei diversi obblighi di natura amministrativa cui sono tenuti gli esercenti di attività con sorgenti radioattive è mostrato, nella sua successione logica, in figura 2.
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Per le finalità della Commissione, di particolare interesse sono le norme relative all'impiego delle sorgenti, in quanto si applicano oggi anche ai depositi temporanei di rifiuti radioattivi, e quelle concernenti la raccolta, il deposito e lo smaltimento dei rifiuti radioattivi stessi.
Con il termine «impiego» il decreto legislativo n. 230 del 1995 indica tutte le attività - come l'utilizzazione e la manipolazione di materie radioattive, con l'eventuale produzione, trattamento, deposito e smaltimento di rifiuti - che comportano la detenzione delle materie stesse. Il decreto legislativo include, inoltre, nell'impiego anche l'utilizzazione di apparecchi generatori di radiazioni ionizzanti, apparecchi cioè in grado di emettere radiazioni, quando funzionanti, senza contenere materie radioattive, ma questo aspetto non presenta in questa sede punti di particolare interesse in quanto di scarsa o, più spesso, di nessuna rilevanza ai fini della produzione di rifiuti radioattivi.
Sotto il profilo autorizzativo, in senso lato, l'impiego è sottoposto a un duplice regime, in funzione della quantità di radioattività detenuta. Già per quantità limitate, il decreto legislativo prevede una comunicazione preventiva della «pratica», termine con il quale nel decreto, così come nella direttiva 96/29/Euratom, vengono indicate tutte le attività in cui si utilizzano sorgenti di radiazioni ionizzanti. Al di sopra di determinate soglie, è previsto anche un nulla osta per le installazioni (impianti, laboratori, gabinetti medici ecc.) ove l'impiego ha luogo.
La comunicazione della pratica, disciplinata dall'articolo 22, deve essere effettuata almeno trenta giorni prima che la detenzione abbia inizio e va trasmessa al comando provinciale dei vigili del fuoco e agli organi del servizio sanitario nazionale competenti per territorio e, quando di loro competenza, all'ispettorato provinciale del lavoro, al comandante di porto e all'ufficio di sanità marittima, nonché all'agenzia regionale per la protezione dell'ambiente. Attraverso quest'ultima, l'ISPRA può avere accesso ai dati della comunicazione.
Per quanto attiene al nulla osta all'impiego, questo è a sua volta suddiviso in due categorie, A e B, in funzione dell'entità dell'impiego stesso in termini di quantità di radioattività detenuta. Per quantità minori (impiego di categoria B, articolo 29), il nulla osta è rilasciato dal prefetto ovvero, quando l'attività comporti esposizioni a scopo medico, da un'autorità individuata con legge regionale o della provincia autonoma. Per le quantità più elevate (impiego di categoria A, articolo 28) il nulla osta è rilasciato, senza distinzione di finalità, dal Ministero dello sviluppo economico, di concerto con i ministeri dell'ambiente, dell'interno, del lavoro e delle politiche sociali e della salute, sentita la regione territorialmente competente, sulla base del parere tecnico dell'ISPRA.
Va sottolineato che il nulla osta all'impiego include tutte le fasi della gestione dei rifiuti radioattivi prodotti nell'ambito dell'attività, purché tali fasi - trattamento, deposito - si svolgano nella stessa installazione cui il nulla osta è riferito. Inoltre, con prescrizioni allegate al nulla osta può essere autorizzato lo scarico in ambiente di effluenti liquidi e aeriformi o l'allontanamento dei rifiuti o di altri materiali debolmente contaminati verso impianti o altri ambiti non soggetti alla normativa di radioprotezione.
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Identiche considerazioni valgono per le autorizzazioni relative agli impianti nucleari - centrali elettronucleari e altri impianti del ciclo del combustibile - riportate nello schema di figura 3. Anche in questo caso gli atti autorizzativi comprendono le opere relative alla gestione dei rifiuti. In particolare, la licenza di esercizio e l'autorizzazione per la disattivazione includono generalmente le prescrizioni relative allo scarico di effluenti. Soprattutto nel caso della disattivazione sono poi di rilievo le prescrizioni che stabiliscono, per i diversi radionuclidi, le concentrazioni massime affinché i materiali di risulta possano essere riciclati, riutilizzati o smaltiti come materiali convenzionali e non gestiti quindi come rifiuti radioattivi. Con l'approvazione delle modifiche di impianto, prevista dall'articolo 6 della legge n. 1860 del 1962, può essere autorizzata la realizzazione di un nuovo deposito sul sito di un impianto nucleare esistente. Si tratta di un caso attualmente riscontrabile in diversi impianti italiani.
Venendo ora agli atti autorizzativi più specificamente concernenti i rifiuti, va in primo luogo ricordata l'autorizzazione alla raccolta di rifiuti radioattivi per conto di terzi, prevista dall'articolo 31 del decreto legislativo. Si tratta di un'autorizzazione a carattere essenzialmente amministrativo, non contemplata dalle direttive comunitarie, introdotta per favorire il controllo di un'attività, quella di raccolta, che può essere di mera intermediazione tra il produttore di rifiuti e l'esercente di un impianto di trattamento o di deposito (l'attività può essere svolta anche con mezzi altrui) e che, in altri ambiti, è stata talora ritenuta critica sotto il profilo della legalità. L'autorizzazione è rilasciata dal Ministero dello sviluppo economico, sentito l'ISPRA.
In attuazione della direttiva 2006/117/Euratom, emanata in sostituzione della precedente direttiva 92/3/Euratom, una specifica autorizzazione è richiesta per le spedizioni transfrontaliere da e verso altri paesi dell'Unione europea e per l'importazione o l'esportazione di rifiuti radioattivi e di combustibile nucleare irraggiato, nonché per il loro transito sul territorio italiano (articolo 32 del decreto legislativo n. 230 del 1995, come modificato dal decreto legislativo n. 23 del 2009). Al rilascio dell'autorizzazione è preposta la stessa autorità, centrale, periferica o locale, competente per l'autorizzazione dell'impianto da cui i rifiuti provengono o a cui sono destinati. Il solo transito sul territorio nazionale è autorizzato dal Ministero dello sviluppo economico, sentiti i ministeri del lavoro e delle politiche sociali e della salute e l'ISPRA. Sono sentite inoltre, in tutti i casi, le
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regioni e le province autonome interessate, ove non siano loro stesse le autorità competenti.
È previsto l'obbligo, per operatori italiani che abbiano effettuato operazioni di trattamento rifiuti o di riprocessamento di combustibile irraggiato, di restituire al Paese di origine i rifiuti radioattivi prodotti nel corso di tali operazioni. In modo corrispondente, l'autorizzazione non può essere rifiutata per il ritorno in Italia dei rifiuti prodotti in analoghe operazioni svolte all'estero, ed è questo il caso con i maggiori riscontri concreti, essendo previsto il rientro dal Regno Unito e dalla Francia dei rifiuti radioattivi prodotti dal riprocessamento, effettuato in impianti dei due suddetti Paesi, del combustibile a suo tempo utilizzato nelle centrali italiane.
Il decreto legislativo n. 230 del 1995 prevede, all'articolo 33, uno specifico nulla osta per la realizzazione e l'esercizio di depositi e di impianti di smaltimento di rifiuti radioattivi, quando tali installazioni siano destinate a ospitare rifiuti provenienti da altri impianti, ancorché appartenenti al medesimo esercente (si ricorda al riguardo che un deposito facente parte dell'impianto in cui i rifiuti sono prodotti viene, invece, autorizzato con lo stesso atto autorizzativo dell'impianto medesimo. Nel caso il deposito sia realizzato in tempi successivi rispetto all'impianto, viene autorizzato come modifica di impianto). Il nulla osta è rilasciato a livello centrale, con la medesima forma prevista per il nulla osta all'impiego di categoria A: l'amministrazione competente è il Ministero dello sviluppo economico che emana il decreto di concerto con i ministeri dell'ambiente, dell'interno, del lavoro e delle politiche sociali e della salute, sentita la regione o la provincia autonoma interessata e l'ISPRA, che esprime il parere tecnico.
Per la definizione dei tipi e delle quantità di rifiuti radioattivi per i quali si applica il nulla osta e per l'indicazione delle procedure per il suo rilascio, in relazione alle diverse tipologie di installazione, il decreto legislativo, sempre all'articolo 33, rinvia ad un decreto ministeriale, per la cui emanazione sono competenti gli stessi ministeri che, direttamente o come concertanti, rilasciano il nulla osta. Tale decreto non è mai stato emanato e conseguentemente il nulla osta non ha mai trovato applicazione. Tuttavia, a quindici anni dall'entrata in vigore del decreto legislativo che lo prevedeva, l'emanazione del decreto attuativo è divenuta in pratica superflua.
Per quanto attiene ai depositi temporanei, infatti, il nulla osta in questione può essere sostituito (e in pratica in questi anni lo è stato) dal nulla osta all'impiego di categoria A, che come detto, è identico per forma e competenze. Per quanto attiene al deposito nazionale, il nulla osta ex articolo 33 - che a una simile opera sembra più specificamente rivolto - è stato sostituito dalle procedure e dagli atti autorizzativi previsti dal decreto legislativo n. 31 del 2010. Questo, profondamente modificato dal decreto legislativo n. 41 del 2011 e soprattutto dalla legge n. 75 del 2011, che ha abrogato l'intero titolo II ove era stabilita la procedura autorizzativa per nuovi impianti nucleari, dedica al deposito nazionale l'intero titolo III. Su questo tema si tornerà nel seguito della presente relazione.
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3.4Aspetti di attuazione della normativa di radioprotezione
Nel loro complesso, le norme che la legislazione italiana, nell'ambito della disciplina generale della radioprotezione, pone a tutela dei lavoratori, della popolazione e dell'ambiente contro i rischi connessi alla gestione dei rifiuti radioattivi sono da valutare complete e ben congegnate.
Riguardo alle norme di radioprotezione sostanziale, una piena garanzia discende dal sin qui completo recepimento delle direttive europee, a loro volta allineate alle indicazioni provenienti dalla più autorevole dottrina scientifica, ma anche dal rigore con cui il recepimento è stato effettuato e che ha portato, per taluni aspetti, alcuni dei quali sopra esaminati, all'emanazione di norme più restrittive delle corrispondenti norme delle direttive stesse.
È d'altra parte noto che l'efficacia della normativa dipende dai suoi elementi intrinseci, ma anche dall'assetto e dall'organizzazione delle amministrazioni chiamate a porla in atto e a verificarne il rispetto. Sotto questo profilo, in Italia vi è attualmente una condizione di incerta transizione, che non consente una valutazione conclusiva. A un esame di questo tema è dedicata una successiva parte della presente relazione.
Per quanto attiene al sistema autorizzativo e amministrativo, merita un rilievo la sua concreta efficacia rispetto al pieno raggiungimento di uno degli obiettivi che, come si è visto, la legge si è correttamente posta: l'organica, e quindi utile, acquisizione di tutti gli elementi conoscitivi in merito alla vita delle sorgenti radioattive e in particolare, per ciò che è di immediato interesse della Commissione, alla produzione e alla gestione dei rifiuti, a cominciare da tutti i luoghi dove essi vengono potenzialmente prodotti.
All'ISPRA giungono e vengono annualmente elaborate e raccolte in una apposita banca dati le informazioni riguardanti la produzione e la detenzione dei rifiuti radioattivi, con riferimento agli impianti nucleari e ai depositi temporanei esistenti sul territorio nazionale. L'inventario dei rifiuti radioattivi presenti in quelle installazioni (24 il loro numero complessivo), frutto di tale attività, aggiornato al 31 dicembre 2011, è stato trasmesso dall'ISPRA alla Commissione. Da tale documento sono tratti i dati sulle quantità di rifiuti complessive o relative alle singole installazioni contenuti nella presente relazione.
La situazione è più complessa per quanto attiene ai dati relativi alla produzione di rifiuti nell'ambito degli impieghi medici, industriali e di ricerca delle sostanze radioattive. Si tratta di quantitativi certamente assai limitati rispetto al complesso dell'inventario nazionale, ma su di essi gli elementi certi di conoscenza sono largamente incompleti e ciò non consente di escludere l'esistenza di margini di illegalità nella loro gestione.
Va considerato al riguardo che già il numero dei siti di produzione, che è ovvio presumere di gran lunga più elevato di quello degli impianti nucleari e dei depositi temporanei, non è determinato con precisione, in particolare per quanto concerne le installazioni destinate agli impieghi medici.
Il decreto legislativo n. 230 del 1995 stabilisce che i nulla osta di categoria B siano rilasciati dai prefetti per quanto attiene agli impieghi
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industriali e dalle autorità individuate dalle leggi regionali per gli impieghi medici. Lo stesso decreto legislativo prevede, inoltre, che copia dei nulla osta rilasciati venga trasmesso all'ISPRA, ma, da quanto comunicato dall'Istituto stesso, risulta che per i nulla osta relativi agli impieghi medici tale norma è sostanzialmente disattesa. Infatti, mentre dal 2000 a oggi gli sono pervenuti, per autorizzazioni, modifiche o revoche, circa 2800 atti da ottanta prefetture, nello stesso periodo gli atti trasmessi da autorità regionali sono stati complessivamente circa cinquanta, spediti da quindici amministrazioni, una disparità che rende chiaramente aleatoria qualsiasi valutazione.
Le installazioni dotate di nulla osta di categoria A sono 86 e comprendono impianti con ciclotroni per produzione di radiofarmaci con annessi laboratori di radiochimica, impianti di ricerca con acceleratori di elevata energia, impianti industriali che utilizzano sorgenti o acceleratori per sterilizzazione o per analisi del cemento.
L'ISPRA si sta dotando di un sistema informatizzato dei dati che a vario titolo vengono trasmessi all'Istituto. Tale sistema è volto a fornire un inventario delle sorgenti radioattive, fisse e mobili, presenti sul territorio nazionale, rilevanti sotto il profilo della radioprotezione. L'informatizzazione dei suddetti dati dovrebbe consentire l'interfacciamento con altre banche dati già esistenti, quali quella sui riepiloghi dei trasporti delle materie radioattive e quella relativa ai rifiuti radioattivi, della quale si è detto, favorendo l'ottenimento di un quadro indicativo della situazione complessiva delle materie radioattive.
I rifiuti radioattivi prodotti, nel momento in cui vengono trasportati e successivamente conferiti a un deposito provvisorio, risulteranno inseriti in queste banche dati, ma la mancanza delle informazioni riguardanti la produzione, lo stoccaggio sui siti di produzione stessi e l'eventuale conferimento di materiali debolmente contaminati come rifiuti convenzionali non consente il riempimento di tutti i vuoti che il quadro complessivo presenta.
Va infine osservato che l'unica banca dati concernente un elemento del rischio radiologico espressamente prevista dalla legge, il registro nazionale delle sorgenti radioattive e dei relativi detentori, istituito dall'articolo 9 del decreto legislativo n. 52 del 2007, non esiste ancora per la sin qui mancata emanazione del decreto con il quale il Ministro dello sviluppo economico e il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, di concerto con il Ministro dell'interno, con il Ministro della salute e con il Ministro dell'economia e delle finanze, avrebbero dovuto individuare, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo, il gestore del registro e disciplinare le modalità di formazione ed accesso ai dati.
3.5La direttiva sulla gestione dei rifiuti radioattivi
Come ricordato, l'unica norma europea concernente la materia nucleare e la radioprotezione non ancora recepita nell'ordinamento italiano è la direttiva 2011/70/Euratom, adottata dal Consiglio dell'Unione europea nel luglio 2011, che istituisce un quadro comune per la disciplina della gestione del combustibile nucleare irraggiato e dei
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rifiuti radioattivi. La direttiva rappresenta il completamento di quella emanata nel 2009 in materia di sicurezza degli impianti nucleari (direttiva 2009/71/Euratom), della quale riproduce sostanzialmente la struttura.
In sintesi, i principi e i requisiti posti dalla direttiva agli Stati membri sono i seguenti:
- la responsabilità ultima per la gestione del combustibile e dei rifiuti radioattivi è dello Stato che li ha prodotti. Resta in particolare in capo a ciascuno Stato la responsabilità per lo smaltimento dei materiali prodotti in altri Paesi dove combustibile o rifiuti siano stati spediti per operazioni di trattamento;
- ogni Stato membro deve stabilire e attuare una politica nazionale, basata su principi che la direttiva stessa indica, quali ad esempio la riduzione al minimo della produzione di rifiuti radioattivi e l'attribuzione dei costi della loro gestione ai soggetti che li producono;
- la spedizione di rifiuti radioattivi per lo smaltimento in altri Paesi è possibile, purché avvenga in base ad accordi preventivi e nel rispetto delle pertinenti norme europee. In caso di spedizioni verso Paesi terzi, la Commissione europea deve essere informata del contenuto dell'accordo e deve essere assicurato che il Paese di destinazione abbia programmi che garantiscano livelli di sicurezza equivalenti a quelli richiesti dalla direttiva;
- ogni Stato membro deve stabilire e mantenere aggiornato un quadro legislativo, regolatorio e organizzativo che preveda tra l'altro un sistema autorizzativo delle attività di gestione; un sistema di controlli e di vigilanza ispettiva, che si estenda al periodo successivo alla chiusura dei depositi; un sistema di enforcement, che includa la sospensione o la revoca delle autorizzazioni; le modalità di informazione e partecipazione del pubblico; gli schemi per finanziare adeguatamente i programmi nazionali, tenendo conto della responsabilità di chi ha prodotto i rifiuti;
- in ogni Stato membro deve esistere, o deve essere istituita, un'autorità regolatoria nazionale, competente nel campo della sicurezza dei rifiuti radioattivi. Ad essa deve essere garantita l'effettiva indipendenza da ogni influenza indebita. A tal fine deve essere separata da qualsiasi organizzazione che operi nel campo dell'energia nucleare, dell'impiego dei materiali radioattivi o della gestione dei rifiuti e deve essere dotata dei poteri legali e delle risorse umane e finanziarie adeguate alle sue funzioni;
- la responsabilità primaria per la sicurezza degli impianti e/o delle attività di gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi deve restare in capo ai rispettivi esercenti.
Molto importanti e per diversi aspetti innovativi sono i requisiti posti per i programmi nazionali, a cominciare dall'obbligo per ogni Stato membro di definirli, attuarli, rivederli periodicamente e sottoporli alla Commissione europea, fornendole i chiarimenti richiesti o presentandole le modifiche apportate.
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I programmi nazionali devono in particolare includere:
- l'inventario dei rifiuti radioattivi e del combustibile irraggiato, indicando ubicazione e quantità con le relative classificazioni;
- le soluzioni tecniche adottate, dalla produzione allo smaltimento finale;
- i piani per il periodo di post-chiusura, con l'indicazione dei tempi di controllo e delle misure adottate per conservare la memoria nel lungo termine;
- le attività di ricerca e sviluppo;
- le responsabilità e i tempi per l'attuazione dei programmi;
- gli indicatori di performance con i quali valutare i progressi nell'attuazione;
- i costi e gli schemi di finanziamento;
- le politiche per l'informazione e la partecipazione del pubblico;
- gli eventuali accordi presi con altri Paesi per la gestione dei rifiuti e del combustibile irraggiato, ivi compreso l'uso di impianti di smaltimento.
È previsto che entro il 23 agosto 2015 e successivamente ogni tre anni gli Stati membri sottopongano alla Commissione europea una relazione sull'attuazione della direttiva.
Inoltre è richiesto che ogni Stato membro, con periodicità almeno decennale, effettui un'autovalutazione del proprio quadro normativo e organizzativo, della propria autorità regolatoria, dei programmi nazionali e della loro attuazione, invitando inoltre un gruppo internazionale di riesame (peer review), le cui conclusioni sono trasmesse alla Commissione europea e agli altri Stati membri e possono essere rese pubbliche. Si tratta di un meccanismo già introdotto dalla direttiva 2009/71/Euratom sulla sicurezza degli impianti nucleari.
Il termine per l'attuazione della direttiva negli ordinamenti nazionali è fissato al 23 agosto 2013.
3.6I trattati internazionali: Convenzione congiunta, Convenzione di Londra
La materia nucleare è oggetto di numerosi trattati internazionali, quasi tutti sottoscritti e ratificati dall'Italia.
Per limitare la rassegna a quelli più immediatamente attinenti ai rifiuti radioattivi, vanno ricordate la Convenzione congiunta sulla sicurezza della gestione del combustibile irraggiato e dei rifiuti radioattivi e la Convenzione di Londra sull'affondamento di rifiuti in mare.
La Convenzione congiunta è entrata in vigore nel 2001 e a oggi ne fanno parte 64 Paesi, tra i quali tutti i maggiori. Gli obblighi stabiliti dalla Convenzione sono sostanzialmente analoghi a quelli
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previsti dalla direttiva 2011/70/Euratom, anche se talora più dettagliati. È invece assai diverso, e decisamente limitato, il suo potere coercitivo rispetto a quello che la direttiva ha per i Paesi dell'Unione europea: per gli inadempienti non è prevista nessuna vera e propria sanzione (tanto meno sono previste verifiche ispettive sull'ottemperanza agli impegni), ma unicamente un'azione di stimolo e di convincimento da parte degli altri Stati contraenti, azione che viene esercitata durante riunioni triennali di tutte le parti contraenti, che si tengono a Vienna, presso l'AIEA, alla quale sono affidate le funzioni di segretariato della Convenzione. Durante tali riunioni vengono discussi i rapporti che gli Stati contraenti sono tenuti a trasmettere preventivamente e a presentare in quella sede. In essi devono essere descritti i provvedimenti presi per corrispondere ai diversi obblighi che la Convenzione prevede.
Si osservi che la cadenza triennale fissata dalla direttiva 2011/70 per la presentazione alla Commissione europea delle relazioni sull'attuazione della direttiva stessa è espressamente mirata a far coincidere la scadenza con quella prevista dalla Convenzione congiunta, ad evitare una duplicazione delle attività richieste agli Stati membri, i quali, con la sola eccezione di Malta, sono tutti aderenti alla Convenzione.
Le responsabilità relative all'appartenenza dell'Italia alla Convenzione congiunta, e in particolare la trasmissione del rapporto nazionale e la partecipazione alla riunione triennale, fanno capo al Ministero degli affari esteri attraverso la Rappresentanza presso le organizzazioni internazionali di Vienna; la predisposizione del rapporto è curata dall'ISPRA, che assicura la sua presentazione e la partecipazione alla discussione.
L'ultima riunione triennale si è tenuta dal 14 al 23 maggio 2012.
Nel 1975 è entrata in vigore la Convenzione sulla prevenzione dell'inquinamento del mare dall'affondamento di rifiuti e altri materiali, comunemente nota come Convenzione di Londra, dal luogo dove tale trattato è stato adottato nel 1972. La Convenzione vieta oggi, dopo introduzione di alcuni emendamenti e l'adozione nel 1996 di un protocollo alla Convenzione, lo smaltimento volontario in mare, da parte di navi, aerei e piattaforme marine, di rifiuti e di materiali d'ogni genere, salvo poche individuate eccezioni. Il divieto include i rifiuti radioattivi e riguarda ovviamente anche l'affondamento volontario di navi contenenti materiali il cui smaltimento in mare è vietato.
Le funzioni di amministratore della Convenzione sono affidate all'IMO - International Maritime Organization, un'agenzia dell'ONU con responsabilità nel campo della sicurezza della navigazione e della prevenzione dell'inquinamento marino provocato dalle navi. Le parti che hanno aderito alla Convenzione sono ad oggi oltre ottanta.
Per i rifiuti radioattivi la Convenzione di Londra è di particolare rilievo, poiché lo smaltimento in mare era stato a lungo considerato una soluzione valida e, anteriormente all'entrata in vigore del trattato, l'affondamento in fosse oceaniche, sia nell'Atlantico, sia nel Pacifico, era stato ampiamente praticato, a partire dai rifiuti radioattivi prodotti per la fabbricazione degli ordigni bellici, ancor prima che iniziasse l'impiego pacifico dell'energia nucleare. Anche l'Italia, attraverso l'ENEA (allora CNEN), ha a suo tempo partecipato con propri
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rifiuti a campagne internazionali di affondamento, come ha ricordato il Commissario dell'ENEA stessa, Giovanni Lelli, nell'audizione del 29 novembre 2011, riferendo in particolare di affondamenti avvenuti al largo del Canale della Manica intorno alla fine degli anni Sessanta.
Va comunque detto che la Convenzione si è sempre ispirata al principio di precauzione. Per quanto in particolare riguarda i rifiuti radioattivi, non vi è una chiara evidenza che il loro affondamento nelle profondità marine possa dar luogo, anche in tempi lunghi, a effetti negativi rilevabili, ma, ciò che più conta, non vi è neppure nessuna evidenza del contrario.
Il riferimento al principio di precauzione caratterizza in modo ancor più netto il protocollo adottato nel 1996, di fatto un nuovo trattato. Infatti, mentre il testo del 1972 è basato sul divieto dell'affondamento di una determinata serie di materiali e sostanze, il protocollo inverte la logica e stabilisce il divieto generale di affondamento per rifiuti o materiali di qualsiasi tipo, ad eccezione di quelli indicati in una breve lista, per i quali è in ogni caso richiesto che le parti contraenti assoggettino l'affondamento a un preventivo permesso.
In origine, nel divieto di affondamento erano inclusi solamente i rifiuti radioattivi ad alta attività. Successivamente, un emendamento adottato nel 1993 ha escluso dallo smaltimento in mare i rifiuti radioattivi di ogni tipo, compresi quindi quelli a bassa e media attività.
L'Italia ha ratificato la Convenzione di Londra con la legge 2 maggio 1983, n. 305.
4.Il deposito nazionale
4.1L'inventario
A venticinque anni dal referendum che, nel novembre 1987, ha portato alla chiusura degli impianti nucleari italiani, la situazione generale dei rifiuti radioattivi presenti sul territorio nazionale può dirsi ancora precaria.
Il dato di fondo che determina tale precarietà è la perdurante mancanza di un sito nazionale ove i rifiuti possano essere depositati o smaltiti nelle condizioni di sicurezza che gli standard attuali possono garantire. Tale mancanza, infatti, fa sì che, nella stragrande maggioranza dei casi, i rifiuti radioattivi debbano ancora oggi essere conservati presso gli stessi singoli impianti - centrali, installazioni sperimentali, reattori di ricerca - sparsi sul territorio italiano, nei quali sono stati a suo tempo prodotti e nei quali, sia pure in quantità minore, continueranno a essere prodotti sino a quando le operazioni di decommissioning non saranno portate a termine, poiché anche le attività necessarie per il mantenimento in sicurezza degli impianti, ancorché spenti, generano rifiuti.
I rifiuti prodotti nell'impiego di sorgenti radioattive al di fuori degli impianti nucleari, e cioè nelle attività industriali, nella ricerca e, soprattutto, in medicina, sono invece raccolti in alcuni deposti temporanei di dimensioni relativamente ridotte, per poi in genere confluire, come meglio si dirà, in un unico deposito, prossimo a Roma,
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anch'esso temporaneo, ma che per quei rifiuti surroga, in una indefinita provvisorietà, il deposito nazionale.
Ad aumentare l'attuale stato di precarietà sta il fatto che, spesso, i rifiuti radioattivi si trovano ancora nello stato in cui sono stati prodotti, senza aver subito, cioè, operazioni di trattamento e di condizionamento. Con il condizionamento, in particolare, i rifiuti vengono inglobati - se solidi - o solidificati - se liquidi - in matrici solide inerti, tipicamente cemento, in casi particolari vetro, che costituiscono la prima barriera contro la dispersione della radioattività nell'ambiente. È evidente come il condizionamento, sempre molto importante, sia fondamentale nel caso dei rifiuti liquidi, in considerazione delle maggiori potenzialità di contaminazione che questi hanno a seguito di accidentali spargimenti.
Nella tabella 2 è presentato l'elenco e la relativa ubicazione degli impianti nucleari e dei depositi temporanei, nonché le quantità di rifiuti radioattivi detenuti, in volume e in attività. Si precisa che nella tabella sono indicate come depositi quelle installazioni dove non vengono prodotti rifiuti, ma che sono destinate a ospitare rifiuti prodotti da altre installazioni e a ciò autorizzate.
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Come si può constatare, l'esercente del maggior numero di impianti nucleari - e anche dei più rilevanti, a partire dalle quattro centrali elettronucleari realizzate in Italia - è la SOGIN (società gestione impianti nucleari), società per azioni a capitale interamente pubblico, costituita nel 1999 nell'ambito del processo di liberalizzazione del mercato elettrico, con il compito di gestire il decommissioning delle quattro centrali già dell'ENEL, tutte spente da anni, nonché il combustibile nucleare e i rifiuti radioattivi presenti nelle stesse centrali. Dal 2003 alla Sogin è stata attribuita anche la gestione degli impianti del ciclo del combustibile esistenti in Italia, quasi tutti appartenenti all'ENEA, anch'essi chiusi da anni.
Complessivamente, negli impianti e nei depositi sopra elencati sono contenuti oltre 28 mila metri cubi di rifiuti radioattivi, ripartiti nelle tre categorie e tra rifiuti condizionati e non condizionati, come mostra la tabella 3. Tenuto conto che i rifiuti di prima categoria non richiedono condizionamento, la frazione dei rifiuti condizionati è come detto ancora piuttosto bassa, intorno al 25 per cento del totale.
Nella tabella 4 è presentata, invece, la ripartizione dell'intero inventario nazionale tra le diverse regioni che ospitano impianti nucleari o depositi temporanei. In termini di volume il quantitativo maggiore è presente nel Lazio, dove confluisce, nel deposito NUCLECO, la gran parte dei rifiuti radioattivi di origine non nucleare prodotti in Italia. In termini di contenuto di radioattività, la maggiore concentrazione è, invece, in Piemonte, soprattutto per la presenza dell'impianto EUREX, a Saluggia, dove da decenni sono detenuti , ancora allo stato liquido in cui sono stati prodotti, rifiuti radioattivi che, da soli, rappresentano oltre i due terzi dell'inventario nazionale.
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I dati contenuti nelle tabelle sopra presentate sono tutti di fonte ISPRA, che annualmente aggiorna l'inventario nazionale dei rifiuti radioattivi con le informazioni raccolte sui singoli siti.
Ai quantitativi di rifiuti radioattivi sin qui presentati vanno aggiunti:
- quelli prodotti o che verranno prodotti all'estero (Regno Unito e Francia), presso gli impianti dove è stato spedito - le ultime spedizioni debbono anzi ancora avvenire - il combustibile nucleare a suo tempo utilizzato nelle quattro centrali italiane, per essere sottoposto a riprocessamento, operazione con la quale dal combustibile irraggiato si estraggono l'uranio ed il plutonio, riutilizzabili per la produzione di nuovo combustibile, separandoli dalle scorie, che costituiscono la parte più «calda» e più longeva dei rifiuti radioattivi (rifiuti di terza categoria). Tali rifiuti, come meglio si dirà nel seguito, dovranno rientrare in Italia per obbligo contrattuale. In particolare, nell'impianto inglese di Sellafield vi sono circa 6 mila metri cubi di rifiuti «italiani», anche se il quantitativo che concretamente rientrerà potrà essere drasticamente ridotto tramite uno scambio con un minor volume di rifiuti a più alta concentrazione, che la Sogin è stata già autorizzata ad effettuare;
- un quantitativo, stimato in circa 30 mila metri cubi, che verrà prodotto dallo smantellamento degli impianti nucleari esistenti. Si osservi che i volumi complessivi dei materiali di risulta provenienti dal decommissioning saranno circa dieci volte maggiori, ma si tratta in gran parte di materiali non contaminati o di materiali nei quali la concentrazione di radioattività è molto bassa, inferiore cioè a livelli
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che vengono fissati con apposite prescrizioni (livelli di allontanamento), al di sotto dei quali è autorizzato il riciclo o il riutilizzo fuori degli impianti nucleari o lo smaltimento come rifiuti convenzionali;
- un quantitativo oscillante, difficilmente valutabile, ma verosimilmente contenuto entro qualche centinaio di metri cubi, di rifiuti presenti nelle numerose installazioni, industrie, laboratori, reparti medici, ove vengono impiegate sorgenti radioattive. Si tratta in parte di rifiuti di prima categoria, in attesa di decadere al di sotto dei livelli di concentrazione per i quali è consentito, perché autorizzato o perché esente dall'autorizzazione, lo smaltimento nell'ambiente; in parte di rifiuti destinati a essere conferiti a uno dei depositi temporanei esistenti e a incrementare quindi l'inventario nazionale, che aumenta di alcune centinaia di metri cubi all'anno.
Dai dati dell'inventario e tenendo opportunamente conto dei quantitativi di rifiuti che continueranno ad essere prodotti si giunge al dimensionamento del deposito nazionale. Al riguardo, la valutazione espressa dal Ministro dello sviluppo economico è di 90 mila metri cubi complessivi, al 70 per cento provenienti dagli impianti nucleari e dal loro decommissioning, per il restante 30 per cento dagli impieghi non energetici delle sorgenti radioattive.
4.2Le esigenze e le scelte tecniche
Come già detto, la principale criticità nella situazione dei rifiuti radioattivi in Italia sta nella mancanza di un sito nazionale ove tali rifiuti possano essere definitivamente posti in sicurezza. È solo con la sua soluzione che anche le altre criticità potranno essere compiutamente risolte, al di là delle azioni e degli interventi più immediati che esse comunque richiedono.
Si tratta peraltro di un fatto ormai ampiamente noto, ma che è stato comunque ribadito alla Commissione nel corso delle audizioni ove la questione dei rifiuti radioattivi è stata discussa nei suoi termini più generali (le audizioni del presidente della Sogin, del commissario dell'ENEA, del direttore generale dell'ISPRA, del Ministro dello sviluppo economico). In esse sono stati evidenziati gli effetti della mancanza del deposito che già si registrano e le conseguenze alle quali porterebbe il suo perdurare. Alcuni di tali effetti sono stati inoltre constatati dalla Commissione durante i sopralluoghi compiuti sui più importanti siti nucleari.
In particolare, nell'audizione del 7 marzo 2012 il Ministro dello sviluppo economico Corrado Passera ha dichiarato: «La gestione dei rifiuti radioattivi in Italia è uno dei temi su cui il Governo ha iniziato a lavorare subito in quanto facente parte di quegli argomenti critici per i quali stiamo pagando il costo di inefficienze, lentezze e mancate decisioni per la realizzazione di infrastrutture necessarie e anche mancata valorizzazione di opportunità per il sistema industriale nazionale, ciò tacendo potenziali aspetti critici sotto il profilo strettamente ambientale e sanitario, su cui è attiva l'azione di controllo e di sorveglianza del Ministero dell'ambiente e del Ministero della salute.
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L'aspetto senza dubbio più rilevante riguarda il ritardo italiano nella realizzazione di un deposito nazionale in cui custodire in sicurezza in modo definitivo i rifiuti radioattivi - questo è il progetto dei progetti in questo campo - motivo per cui è dagli anni del post referendum nucleare, già il primo, che i rifiuti continuano a essere mantenuti in depositi temporanei, sostanzialmente nei luoghi in cui sono stati prodotti.
La necessità di una soluzione diventa incalzante per varie ragioni tra cui la necessità di realizzare le condizioni per il ritorno in Italia previsto tra il 2020 e il 2025 in virtù dell'accordo Italia-Francia delle barre di combustibile delle vecchie centrali, attualmente in gran parte inviate all'estero per il riprocessamento. Il tema ha, peraltro, una dimensione di carattere internazionale dal momento che l'Italia aderisce alla convenzione congiunta IAEA, l'Agenzia internazionale per l'energia atomica delle Nazioni Unite con sede a Vienna, sulla gestione sicura dei rifiuti radioattivi e del combustibile esaurito, e anche di carattere europeo dal momento che la recente direttiva del 2011/70/ Euratom del 19 luglio 2011, che dovrà essere recepita nella legislazione nazionale entro l'agosto 2013, ha introdotto nuove e importanti regole comuni per la gestione di questa categoria di rifiuti, prevedendo l'obbligo per ciascuno Stato membro di trasmettere alla Commissione europea, entro l'agosto 2015, il programma nazionale per la politica di gestione di tutti i rifiuti radioattivi e ribadendo il principio secondo cui i rifiuti radioattivi sono gestiti e smaltiti nel Paese che li ha generati, fatti salvi specifici accordi con altri Paesi membri o Paesi terzi.
Per vari motivi è, quindi, urgente una scelta definitiva in grado di tutelare al meglio la salute dei cittadini e l'ambiente, razionalizzare e rendere trasparente il ciclo dei rifiuti radioattivi, non solo quelli derivanti dalla produzione di energia, ma anche da altre attività, in particolare sanitari e di ricerca - se ne continuano a creare di rifiuti radioattivi - e fornire la migliore risposta anche a rischio di possibili gestioni e traffici illeciti».
In assenza del deposito nazionale:
a) non sarà possibile procedere alla definitiva messa in sicurezza degli oltre 28 mila metri cubi di rifiuti radioattivi già presenti nel nostro Paese, oggi detenuti in massima parte presso gli stessi impianti ove sono stati prodotti e destinati inoltre a una continua crescita. È certamente una responsabilità degli esercenti procedere al trattamento e al condizionamento dei rifiuti presenti sui rispettivi siti, operazioni già ampiamente ritardate, che già di per sé possono ridurre - in certi casi anche drasticamente - il rischio che essi rappresentano. È però vero che, oltre al grado di vetustà che caratterizza gli impianti italiani e che rappresenta un ovvio fattore di criticità, alcuni degli attuali siti nucleari sono comunque del tutto inidonei ad ospitare rifiuti radioattivi, che da essi dovrebbero pertanto essere allontanati il prima possibile. In termini generali, basti al riguardo la semplice considerazione esposta dal direttore generale dell'ISPRA, Stefano Laporta, nell'audizione del 7 febbraio 2012: mentre gli impianti nucleari necessitano per il loro funzionamento di acqua e sono pertanto localizzati in prossimità di corpi idrici, la buona conservazione dei rifiuti radioattivi trova proprio nella eventuale presenza di
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acqua la principale controindicazione. In termini più specifici, la scelta dei siti italiani risale, nella maggior parte dei casi, agli albori dell'era nucleare, quando non esisteva neppure una legislazione sulla materia, e sulla base di criteri oggi certamente superati. Per alcuni di loro, già critici per la localizzazione di un impianto, l'incompatibilità con lo stoccaggio di rifiuti radioattivi per tempi indeterminati è da considerare pressoché assoluta;
b) il decommissioning degli impianti nucleari non potrà giungere alla sua naturale conclusione, che è peraltro quella prevista dalla legge: la restituzione del sito, libero da vincoli di natura radiologica, il cosiddetto «prato verde». Anche in questo caso alcune attività si sarebbero potute e si potrebbero condurre con una celerità ben maggiore, a cominciare proprio dal condizionamento dei rifiuti radioattivi già presenti sugli impianti. Ma tenendo anche conto delle migliaia di metri cubi di ulteriori rifiuti radioattivi che lo smantellamento di ogni impianto produrrà, la mancanza del deposito nazionale renderebbe inevitabile la trasformazione di ogni impianto nel deposito di sé stesso. Vale al riguardo quanto detto sopra circa l'idoneità degli attuali siti a svolgere tale funzione;
c) si porrà il problema, espressamente ricordato dal Ministro dello sviluppo economico, di dove collocare i rifiuti - ora all'estero, ma destinati a rientrare in Italia - prodotti dalle operazioni di riprocessamento del combustibile irraggiato utilizzato nelle centrali italiane e spedito, per tali operazioni, in gran parte in un impianto inglese e, in parte minore, più recentemente, in un impianto francese. Secondo le informazioni fornite dalla SOGIN, il rientro dei rifiuti dall'Inghilterra è previsto dagli accordi commerciali per il 2019. Per quanto attiene alla Francia, l'accordo intergovernativo sottoscritto il 24 novembre 2006 che ha preceduto la stipula del contratto tra la SOGIN e l'AREVA, la società francese proprietaria dell'impianto di riprocessamento, impegna l'Italia a ricevere i rifiuti prodotti entro il 2025. L'accordo è stato oggetto, in Francia, di un decreto presidenziale (Décret no 2007-742 du 7 mai 2007 portant publication de l'accord entre le Gouvernement de la République fran aise et le Gouvernement de la République italienne portant sur le traitement de 235 tonnes de combustibles nucléaires usés italiens, signé à Lucques le 24 novembre 2006) e stabilisce anche che il calendario delle spedizioni dovrà essere fissato preliminarmente entro il 2015 e definitivamente entro il 2018. Ciò richiede quindi che per quella data sia stata determinata la destinazione finale dei rifiuti. La mancata determinazione renderebbe l'Italia inadempiente rispetto a un impegno assunto con uno Stato estero, inadempienza che sarebbe oggi ancor più significativa alla luce di quanto prevede la direttiva 71/2011/Euratom in merito all'obbligo di ogni Stato membro di predisporre e attuare un programma nazionale per la gestione dei rifiuti radioattivi. Sarebbe inoltre prevedibile l'insorgere di conflittualità con le comunità locali che si vedrebbero costrette ad accettare il ritorno dei rifiuti nei siti dai quali il combustibile era partito da almeno dieci anni e in alcuni casi da svariati decenni;
d) continuerà a mancare una soluzione adeguata rispetto alla inevitabile, continua produzione di rifiuti radioattivi nell'industria,
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nella ricerca e, soprattutto, nelle attività sanitarie. Allo stato, per un meccanismo sul quale si tornerà in dettaglio, tali rifiuti finiscono tutti o quasi, prima o poi, nel deposito NUCLECO, localizzato all'interno all'area comunale di Roma, di gran lunga, in termini di volumi ospitati, il più grande deposito italiano di rifiuti radioattivi. Le sue caratteristiche strutturali, tra l'altro, sono quelle di un deposito temporaneo, ben diverse da ciò che i migliori standard attuali prevedono per il deposito finale.
Si deve inoltre tenere conto del fatto che la necessità di far comunque procedere le attività di decommissioning sta portando alla realizzazione, su diversi siti, come quelli di Saluggia, Latina e Garigliano e nel Centro comune di ricerche di Ispra, di strutture di deposito in grado di ospitare i rifiuti già presenti in essi e quelli che verranno prodotti dallo smantellamento degli impianti, sino a quando non potranno essere trasferiti al deposito nazionale. In alcuni casi, come la Commissione ha potuto constatare nel corso dei sopralluoghi compiuti, la realizzazione di tali strutture è praticamente giunta al termine. Queste opere sono state e sono fortemente osteggiate dalle amministrazioni e dalle comunità locali (non a caso alcuni degli atti autorizzativi necessari sono stati emanati in regime commissariale), le quali vedono in esse la premessa di una sostanziale stabilizzazione dei rifiuti radioattivi nei rispettivi siti, se non la possibilità - per vero irrealistica - che finiscano per accogliere anche rifiuti di provenienza esterna. La corretta gestione delle operazioni di decommissioning e delle spedizioni dei rifiuti verso il deposito nazionale avrebbe comunque richiesto la realizzazione di depositi-polmone sui singoli siti anche se il deposito nazionale fosse stato già disponibile, ma si sarebbe verosimilmente trattato di opere diverse per dimensioni e per caratteristiche.
La mancata realizzazione del deposito nazionale, o anche il solo ritardo, ha infine degli effetti economici. Per i soli otto siti dei quali è responsabile, la SOGIN ha valutato i costi del mantenimento dei rifiuti radioattivi in depositi temporanei presso i singoli siti al termine delle operazioni di decommissioning:
- costi annuali per il personale (dieci persone per sito): un milione di euro circa per sito;
- costi annuali di manutenzione delle apparecchiature e di gestione: 1,5 milioni di euro circa per sito;
- costi annuali per il monitoraggio ambientale: circa 500 mila euro per sito.
Per gli otto siti la spesa annuale risulterebbe, quindi, pari a circa 25 milioni di euro. A questa cifra si verrebbe ad aggiungere un'ulteriore somma annua, stimata oggi in un milione di euro, derivante dall'accordo che il Governo italiano ha sottoscritto con la Commissione europea il 27 novembre 2009. L'accordo, relativo al Centro comune di ricerche situato nel comune di Ispra (VA), del quale è appunto responsabile la Commissione europea, prevede, oltre ad
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altri impegni sui quali si tornerà nel seguito, il conferimento dei rifiuti radioattivi del Centro al deposito nazionale entro l'anno 2028. A partire dal 1o gennaio 2029 la proprietà di tutti i rifiuti radioattivi presenti nel sito comunitario sarà trasferita al Governo italiano, il quale, ove il conferimento dei rifiuti al deposito nazionale non fosse ancora potuto avvenire, si farà carico dei costi del loro stoccaggio temporaneo presso il sito.
Queste valutazioni non sembrano peraltro tenere conto dei costi, che ovviamente non vi sarebbero, per il conferimento dei medesimi rifiuti al deposito nazionale, ovvero, nel caso dei rifiuti di proprietà della SOGIN, che il decreto legislativo 15 febbraio 2010, n. 31, indica come futuro gestore del deposito nazionale, della quota dei costi di gestione del deposito stesso relativa a quei rifiuti.
Sempre per quanto attiene agli aspetti economici, secondo la stima indicata dal Ministro dello sviluppo economico, gli investimenti per la localizzazione e la realizzazione del deposito nazionale e del parco tecnologico in cui si prevede di inserire il deposito stesso ammonteranno a 2,5 miliardi di euro. Ciò significa, ha affermato il Ministro Passera, che dove si andrà a localizzare il deposito vi saranno investimenti cospicui e molto qualificati e, grazie al parco tecnologico, si creeranno attività di ricerca e di formazione e, in generale, di sviluppo di grande importanza.
Sotto il profilo tecnico, è noto che lo smaltimento dei rifiuti radioattivi può avvenire in depositi di tipo superficiale o sub-superficiale e in depositi di tipo geologico. Nei primi, l'isolamento dei rifiuti per il tempo necessario al loro decadimento è garantito da barriere ingegneristiche, rappresentate, nelle migliori realizzazioni, da celle in cemento armato, di robustezza tale da poter far fronte ai diversi possibili eventi, sia quelli naturali, come i terremoti anche di forte intensità, sia quelli provocati dall'uomo, compresi gli atti terroristici. Nel caso dei depositi geologici, i rifiuti sono posti in profondità entro idonee formazioni naturali - argille, sale, graniti - che costituiscano esse stesse la barriera fondamentale contro la dispersione della radioattività.
Per i rifiuti a bassa e media attività (seconda categoria) entrambe le soluzioni possono essere adottate e di fatto nelle realizzazioni di altri Paesi si riscontrano depositi sia dell'uno, sia dell'altro tipo. A parte ogni considerazione di carattere economico, rispetto alla soluzione del deposito di superficie, il deposito geologico profondo ha l'evidente vantaggio di una maggiore inaccessibilità, ma, rovescio della medaglia, riduce l'ispezionabilità dei rifiuti depositati e ne rende l'eventuale recupero più difficile, nei casi limite impossibile. In tal senso il deposito risulterebbe simile a un abbandono irreversibile, come si è fatto per decenni con l'affondamento in mare, prima che questa pratica venisse vietata dalla Convenzione di Londra della quale si è detto. Inoltre, un deposito di tipo geologico pone per il sito requisiti assai più specifici e stringenti e debbono comunque essere previsti tempi lunghi per le necessarie verifiche delle «prestazioni» dei singoli siti candidati prima che il deposito possa essere realizzato. Quest'ultima circostanza appare di particolare rilievo laddove - ed è certamente il caso italiano - la tempestività della soluzione costituisce uno dei requisiti primari.
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Sta di fatto che, per quanto riguarda i rifiuti a bassa e media attività, i diversi pronunciamenti che vi sono stati in Italia sono stati tutti a favore della soluzione di superficie, simile a quelle realizzate in Francia o in Spagna. In tal senso, nel tempo si sono espressi infatti:
- l'apposito gruppo di lavoro nominato dalla commissione «grandi rischi» del dipartimento della Protezione civile presso la Presidenza del Consiglio dei ministri (1999);
- il documento del Ministero dell'industria, commercio e artigianato «Indirizzi strategici per la gestione degli esiti del nucleare», trasmesso al Parlamento nel dicembre 1999;
- il gruppo di lavoro costituito dalla conferenza Stato-regioni nel novembre 1999, i cui lavori sono stati approvati dalla conferenza stessa nel 2002;
- il gruppo di lavoro istituito dal Ministro dello sviluppo economico nel 2008.
Inoltre, una task force costituita dall'ENEA nel 1996 per studiare gli aspetti relativi alla localizzazione del deposito e quelli più strettamente tecnologici aveva prodotto un progetto preliminare di deposito definitivo di tipo superficiale.
Unica indicazione diversa è stata quella che - contraddicendo la linea sino ad allora chiaramente emersa e successivamente ripresa - fu data dal decreto legge n. 314 del 2003. Quest'ultimo prevedeva, infatti, la realizzazione di un deposito di tipo geologico profondo, localizzato nel territorio del comune di Scanzano Jonico (MT). Tale deposito sarebbe stato destinato non solo ai rifiuti a bassa e media attività, ma anche ai rifiuti di terza categoria e al combustibile irraggiato e ciò ne avrebbe fatto il primo caso a livello mondiale di deposito finale per i rifiuti radioattivi ad alta attività. La legge di conversione (legge n. 368 del 2003) ha eliminato dal testo ogni riferimento a un sito specifico e, almeno esplicitamente, al tipo di soluzione, separando il caso dei rifiuti ad alta attività e del combustibile irraggiato da quello dei rifiuti a bassa e media attività e attribuendo la responsabilità delle scelte e delle realizzazioni a un commissario straordinario, affiancato da una commissione tecnico-scientifica formata da diciannove esperti. Commissario e commissione avrebbero dovuto essere nominati con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri. La legge non ha mai avuto attuazione, se non per una norma che, introdotta ex novo rispetto al decreto-legge, prevede l'erogazione di misure compensative ai comuni e alle province che ospitano gli impianti nucleari e per quelli che ospiteranno il deposito nazionale.
Le soluzioni di deposito definitivo in superficie, valide per i rifiuti e bassa e media attività, non possono, invece, essere adottate per i rifiuti ad alta attività e lunga vita, con tempi di decadimento di migliaia e migliaia di anni. La durata della loro pericolosità è incompatibile con l'affidamento della funzione di isolamento a barriere artificiali e con l'assunzione della possibilità del mantenimento di una forma di sorveglianza, e comunque della memoria, da parte di un sistema sociale organizzato che la soluzione di superficie
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richiede. Per il loro smaltimento, così come per lo smaltimento del combustibile irraggiato non riprocessato, il deposito geologico profondo sarebbe oggi la soluzione obbligata. Si tratta peraltro di una soluzione che, anche se non incontrastata, è considerata valida e raccoglie ampi consensi nel mondo scientifico.
Lo smaltimento geologico presenta, tuttavia, allo stato attuale la caratteristica negativa già sopra ricordata, la difficile, se non impossibile, recuperabilità dei rifiuti e del combustibile una volta chiuso il deposito, e quindi la sostanziale irreversibilità della scelta, una caratteristica negativa che assume maggior rilievo per i rifiuti che mantengono a lungo la loro potenziale pericolosità e che impedirebbe, un domani, di utilizzare altre soluzioni che lo sviluppo tecnologico rendesse eventualmente disponibili. Vanno anche tenuti presenti i lunghi tempi e i costi rilevanti che un processo di qualificazione di un sito geologico comporta, senza garanzie di successo. Basti ricordare, al riguardo, quanto avvenuto negli Stati Uniti, dove nel 2010, peraltro non per evidenti motivi tecnici, è stato chiuso il progetto di realizzare il deposito per lo smaltimento del combustibile nucleare irraggiato e dei rifiuti ad alta attività nel sito geologico di Yukka Mountain, nel deserto del Nevada, dopo tre decenni di studi sull'idoneità del sito e spese per miliardi di dollari.
Di fronte a queste difficoltà e considerata l'assenza di un'effettiva urgenza di dare sistemazione definitiva ai rifiuti radioattivi ad alta attività - vista la loro quantità limitata - si ritiene generalmente preferibile non affrettare la decisione di dare concreta attuazione al loro smaltimento, ma adottare per essi soluzioni temporanee, ancorché di lungo termine.
Di fatto, pur se in diversi Paesi si stanno sviluppando progetti anche promettenti, in nessuno di essi, neppure in quelli maggiormente impegnati nella produzione di energia elettrica da fonte nucleare, è ancora stato costituito un deposito di tipo geologico per rifiuti ad alta attività o per il combustibile irraggiato non riprocessato. Questi, quando non sono conservati all'interno degli impianti ove sono stati prodotti (impianti che, a differenza di quelli italiani, sono in larga parte ancora in esercizio), vengono appunto mantenuti entro depositi temporanei di lungo termine, costituiti da strutture ingegneristiche progettate e realizzate all'uopo, capaci di offrire per periodi adeguati le dovute garanzie di sicurezza.
Su questa soluzione, che in Italia è stata originariamente indicata dall'ANPA sin dal 1995, vi è stata la convergenza - con la citata eccezione del decreto legge n. 314 del 2003 - di tutti i pronunciamenti e gli indirizzi espressi sopra ricordati che si sono succeduti.
Questa scelta è oggi sancita dal decreto legislativo n. 31 del 2010 che disciplina la localizzazione e la realizzazione del deposito nazionale, dove è previsto che il deposito sia destinato allo smaltimento dei rifiuti radioattivi a bassa e media attività e «al solo immagazzinamento, a titolo provvisorio di lunga durata, dei rifiuti ad alta attività e del combustibile irraggiato».
Va osservato che mentre il decreto legislativo è molto chiaro nella scelta della soluzione temporanea di lungo termine per i rifiuti di terza categoria e del combustibile nucleare irraggiato, in esso non vi è un'indicazione altrettanto esplicita per quanto attiene al tipo di
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deposito - di superficie o geologico - per i rifiuti di seconda categoria. Tuttavia, diversi elementi rinvenibili nel decreto - non ultima la scala temporale che per alcuni passaggi procedurali è definita e appare incompatibile con le valutazioni che un sito geologico richiede - portano a concludere che il legislatore delegato abbia fatto implicito riferimento a un deposito di superficie. È comunque in tal senso che è stato unanimemente letto il decreto. Lo stesso Ministro dello sviluppo economico nel corso dell'audizione del 7 marzo 2012 ha espressamente parlato di un deposito di superficie.
Per quanto riguarda il destino finale dei rifiuti ad alta attività, al termine della fase di immagazzinamento provvisorio di lunga durata, il Ministro Passera, nella stessa audizione del 7 marzo, ha espresso piena fiducia che, anche in considerazione dei limitati volumi di tali rifiuti, si possa giungere ad una soluzione regionale europea: «viste le esigue quantità detenute, si guarda con interesse alla realizzazione di un sito di stoccaggio europeo intensificando le forme di cooperazione tra i Paesi interessati alla gestione condivisa di questi rifiuti. A tal fine è stato costituito un working group multinazionale per valutare la fattibilità della costituzione di un'organizzazione europea senza fini di lucro per lo sviluppo del deposito. Questa organizzazione dovrebbe chiamarsi ERDO, European repository development organisation, e dovrebbe portare alla realizzazione di uno o più depositi geologici condivisi in Europa. (...) Sul deposito europeo, pensiamo che non ci siano più dubbi che ci sarà. Si è messo in moto il meccanismo, noi parteciperemo attivamente perché è fuori luogo che Paesi come il nostro, che hanno delle quantità minime e che dovrebbero attrezzarsi con impianti inutilmente costosi per gestire delle quantità minime, non mettano in comune risorse ed energie».
4.3La localizzazione e l'autorizzazione del deposito nazionale
Le valutazioni che la Commissione ha acquisito nel corso delle audizioni e dei colloqui sugli impianti o con i contributi ricevuti concordano sul fatto che la realizzazione del deposito nazionale, così come indicato dal decreto legislativo n. 31 del 2010 (un'installazione, cioè, destinata allo smaltimento dei rifiuti radioattivi a bassa e media attività e al solo immagazzinamento, a titolo provvisorio di lunga durata, dei rifiuti ad alta attività e del combustibile irraggiato) non presenta problemi tecnici di particolare difficoltà. Inoltre, l'opera, correttamente realizzata e gestita, non comporta per la popolazione e per l'ambiente rischi significativi; in particolare, non vi in essa è la possibilità, che nelle centrali nucleari è riducibile ma non eliminabile, di incidenti gravi, tanto meno di quelli catastrofici. Al contrario, essa costituirebbe sotto il profilo della sicurezza la soluzione definitiva dei problemi posti dalla presenza dei rifiuti radioattivi in vari punti del territorio.
È d'altra parte noto che la necessità del deposito nazionale è largamente, per non dire unanimemente, condivisa. Tuttavia, la sua localizzazione è destinata a incontrare un'opposizione anche forte da parte delle comunità locali potenzialmente interessate e pone quindi problemi di natura socio-politica assai complessi.
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Questa considerazione ha fatto sì che le diverse ipotesi o proposte di procedure di localizzazione del deposito nazionale avanzate nei documenti ricordati in precedenza, ai quali per questo aspetto va aggiunta la relazione prodotta dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul ciclo dei rifiuti istituita nella XIII legislatura (Doc. XXIII, n. 27), prevedano tutte, sia pure con modalità differenti e diversamente dettagliate, un'ampia partecipazione delle amministrazioni e delle comunità locali interessate, con garanzie di trasparenza e forme di continua informazione.
Si è posto su quella linea il decreto legislativo n. 31 del 2010.
Il decreto prevede, come già ricordato, che il deposito sia inserito in un più ampio «parco tecnologico» e in ciò è chiaro anche l'intento di accrescere l'interesse per l'opera complessiva, pur se in tal modo risulterà notevolmente ingrandita la superficie dell'area da ricercare, che abbia le necessarie caratteristiche. Nel parco si dovrebbero svolgere attività operative connesse alla gestione dei rifiuti radioattivi e del combustibile irraggiato, ma anche attività di ricerca e di sviluppo tecnologico, incluse quelle relative alla radioprotezione. L'idea di inserire il deposito nazionale in un centro ove si svolgano attività di servizio o di ricerca era già stata avanzata da tempo. In particolare, il gruppo di lavoro istituito dal Ministro dello sviluppo economico nel 2008, a seguito di una specifica intesa con le regioni, ha introdotto l'esatta espressione di «parco tecnologico» e ha indicato alcune attività che potrebbero essere svolte in esso. Sembra che si debba al riguardo tenere comunque presente che l'efficacia della proposta di creazione di un parco tecnologico ai fini di una migliore accettabilità dell'opera complessiva da parte delle comunità locali possa essere legata anche alle modalità di gestione del parco stesso, oltre che alla funzionalità dei programmi di attività rispetto alle esigenze ed alle aspettative di tali comunità.
La procedura stabilita dal decreto legislativo n. 31 del 2010, molto articolata, si basa su una possibile manifestazione di interesse da parte delle regioni e degli enti locali a ospitare il parco tecnologico, con l'annesso deposito, in una delle aree del proprio territorio preventivamente individuate dalla SOGIN quali aree idonee alla localizzazione, nel rispetto dei criteri indicati dall'ISPRA, quale ente di controllo. Sono previsti peraltro iter alternativi nel caso della mancanza dell'intesa da parte delle regioni. La procedura, che ha come soggetto promotore la SOGIN, a cui è attribuita la responsabilità della realizzazione e dell'esercizio del deposito nazionale e del parco tecnologico, appare logicamente suddivisibile in tre fasi, sinteticamente presentate in figura 4, che consente di meglio valutarne la complessità. La prima fase (figura 4a) riguarda la predisposizione e l'approvazione di una carta nazionale delle aree idonee a ospitare il deposito, con un'indicazione di priorità sulla base delle caratteristiche tecniche e socio-ambientali; nella seconda (figura 4b) si giunge a un'intesa - possibilmente con le regioni e gli enti locali interessati, a seguito di una trattativa diretta con tali soggetti - su alcune delle aree idonee incluse nella carta; nella terza (figura 4c) vi è la scelta del sito, in base alle indagini tecniche puntuali svolte dalla SOGIN, e l'autorizzazione alla costruzione e all'esercizio del deposito.
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Nelle previsioni del Ministro dello sviluppo economico (audizione del 7 marzo 2012) «il tempo stimato per arrivare all'autorizzazione è circa tre anni dalla definizione delle caratteristiche delle aree potenzialmente idonee al netto di possibili ricorsi e ritardi. Nell'ipotesi che l'organo di sicurezza definisca tali caratteristiche entro l'estate del 2012, la prima proposta SOGIN della Carta potrebbe arrivare entro i primi mesi del 2013. Ne deriva la necessità di avviare per tempo le attività».
Anche al netto di ricorsi e ritardi, alcuni peraltro già accumulati rispetto alle ipotesi del Ministro, alla luce della complessità della procedura, certamente almeno in parte riflesso della complessità della materia, le stime appaiono ottimistiche. Per alcuni passaggi procedurali lo stesso decreto legislativo dà indicazioni dei tempi, riportati sui margini della figura 4. La loro somma supera i tre anni. Se si tiene conto del carattere necessariamente ordinatorio dei tempi indicati e, soprattutto, del fatto che diversi passaggi, tra i quali alcuni prevedibilmente non brevi, sono privi di tale indicazione, si può concludere che nelle previsioni del decreto il deposito nazionale, anche in assenza di forti controversie, non potrà essere disponibile se non in tempi comunque lunghi.
Queste considerazioni avrebbero dovuto indurre a non porre indugi nell'avviare i lavori. A questo riguardo si ricorda che l'atto iniziale della procedura è rappresentato dalla definizione da parte dell'ISPRA dei criteri di idoneità delle aree a ospitare il deposito. Nella formulazione originaria del decreto legislativo n. 31 del 2010, detto compito era attribuito all'Agenzia per la sicurezza nucleare che la legge n. 99 del 2009 aveva istituito, ma che non era operativa per la mancata emanazione dei necessari provvedimenti attuativi. In quella situazione, i compiti generali destinati all'Agenzia avevano continuato ad essere svolti in via transitoria dall'ISPRA, come la legge n. 99 del 2009 medesima aveva previsto; ma secondo un'interpretazione che poi ha di fatto prevalso l'Istituto non avrebbe potuto procedere alla definizione dei criteri di idoneità, né effettuare gli altri interventi che la procedura ex decreto legislativo n. 31 del 2010 richiede all'Agenzia, in quanto compiti specifici attribuiti al nuovo ente in data successiva alla sua istituzione e quindi non rientranti tra quelli generali assegnati all'ISPRA nella fase transitoria di attesa dell'operatività dell'Agenzia. A questa interpretazione ha fatto in particolare riferimento il presidente della SOGIN nell'audizione del 4 ottobre 2011, affermando: «Il procedimento prenderà vita nel momento in cui ISPRA - al momento a termini di legge deve esser l'Agenzia: perché questo compito venga affidato a ISPRA bisogna cambiare la legge - intraprenderà il compito iniziale».
Senza qui entrare in questioni interpretative in merito a quanto l'ISPRA avrebbe potuto o meno fare in quella fase transitoria, si rileva che le legge è cambiata nel dicembre 2011, quando il decreto legge n. 201 del 2011 e la relativa legge di conversione n. 214 del 2011 hanno soppresso l'Agenzia per la sicurezza nucleare e - sia pure ancora in via transitoria - assegnato le sue funzioni, questa volta tutte, all'ISPRA. Nell'audizione del 7 febbraio 2012 il direttore generale dell'ISPRA ha osservato: «Con la soppressione dell'Agenzia per la sicurezza nucleare e il trasferimento all'ISPRA dei compiti a
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oggi in via temporanea, il nostro Istituto è diventato l'amministrazione responsabile della predisposizione di questi criteri e per lo svolgimento del successivo iter istruttorio. A questo riguardo, colgo l'occasione per ribadire in questa sede che siamo pronti ad avviare le relative attività e attendiamo, ovviamente, le indicazioni dal Governo e dal Parlamento in proposito, soprattutto con riferimento alle tempistiche». In tal senso si era poi espresso il Ministro dello sviluppo economico nell'audizione del marzo 2012: «L'individuazione delle aree e la redazione del progetto si atterranno ai criteri di sicurezza definiti, oltre che all'AIEA, anche dell'ex Agenzia italiana per la sicurezza nucleare, attualmente funzione affidata per legge a ISPRA».
Tuttavia, nella successiva audizione del 24 luglio 2012, il Ministro è sembrato considerare l'affidamento della funzione all'ISPRA non automatico, ma in qualche modo connesso al superamento della transitorietà che ancora caratterizza l'attribuzione all'Istituto delle funzioni generali di controllo: «Sul tema specifico del deposito, è ovvio che dobbiamo dare avvio alla procedura per la localizzazione del deposito nazionale per i rifiuti radioattivi, che va fatto all'interno di un parco tecnologico che abbia i presidi tecnico-scientifici di cui sappiamo e produca - questa sarà una delle leve per poter convincere il territorio - delle ricadute positive sul territorio interessato. Occorre giungere a questa decisione per superare la gestione dei rifiuti a cui lei accennava, che certamente non è ideale o quantomeno adeguata rispetto a quello che farebbe il deposito nazionale. In merito alla tabella di marcia per arrivarci, abbiamo un grande ritardo che si è accumulato negli anni. La ragione per cui adesso il progetto è bloccato è perché, per legge, i criteri sulla base dei quali vanno individuate le possibili localizzazioni devono essere fissati dall'Agenzia per la sicurezza nucleare. Quindi, torniamo a quanto dicevamo poc'anzi. Occorre superare il primo capitolo per poi arrivare a questo. Tuttavia, ci siamo detti di cominciare comunque a lavorare, anche se non c'è ancora tutto il processo. Quindi, mentre si continua a lavorare per definire la struttura di Ispra che svolgerà le funzioni già attribuite all'Agenzia per la sicurezza nucleare, si è valutata l'opportunità di avviare fin da subito le procedure per la localizzazione e la realizzazione del deposito nazionale, anche in attesa del nuovo assetto, altrimenti rischiamo di non poterlo fare neppure entro giugno prossimo. A questo proposito, si è ipotizzato di incaricare il soggetto che oggi svolge transitoriamente le funzioni di sicurezza nucleare, cioè ISPRA, di definire già entro la fine di quest'anno i criteri di idoneità delle aree, in modo che SOGIN possa, presumibilmente entro il giugno 2013, presentare la carta nazionale delle aree idonee, nonché un progetto preliminare per la realizzazione del deposito nazionale e del parco tecnologico. Sulla proposta che SOGIN farà, si svilupperà successivamente la consultazione pubblica prevista dal decreto legislativo 15 febbraio 2010, n. 31. Pertanto, con il Ministero dell'ambiente abbiamo predisposto una lettera di indirizzo a ISPRA per cominciare a lavorare, anche se l'altro processo non è ancora concluso, proprio per cercare di arrivare a completare il progetto entro il giugno prossimo, nei tempi più rapidi possibili».
L'ISPRA ha comunicato di aver avviato le attività di predisposizione dei criteri di idoneità, che prevede di concludere con la stesura
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di un primo elaborato entro la fine di dicembre 2012. Prevede, inoltre, prima dell'emissione definitiva e sentiti i ministeri interessati, di svolgere un confronto sia in ambito nazionale, con le amministrazioni interessate e con i portatori di interessi, sia sul piano internazionale, con l'AIEA e con le autorità di sicurezza nucleare di Paesi, come Francia e Spagna, che hanno già realizzato e gestiscono strutture simili.
Se la tempistica indicata dal Ministro dello sviluppo economico sarà rispettata, come a questo punto appare ragionevole che avvenga, il primo passo della procedura per la localizzazione e la realizzazione del deposito nazionale si sarà compiuto a circa tre anni dall'emanazione del decreto legislativo che l'ha definita. Per un'opera necessaria e, per i motivi esposti, anche urgente quale deve essere considerata quella qui in discussione, le previsioni del decreto legislativo avrebbero forse potuto avere - e avrebbero comunque meritato - un inizio di attuazione più pronto.
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5.Il combustibile irraggiato
5.1La scelta del riprocessamento
In alcuni degli impianti italiani è ancora presente del combustibile irraggiato, residuo di quello che era stato a suo tempo utilizzato al loro interno.
Nei venticinque anni durante i quali in Italia sono state in esercizio centrali elettronucleari, sono state impiegate in esse complessivamente circa 1830 tonnellate di combustibile. La maggior parte di questo - 1600 tonnellate circa - è stata progressivamente spedita in Inghilterra per essere riprocessata, in base ad appositi contratti stipulati con la BNFL, la società allora proprietaria degli impianti necessari per svolgere tale operazione.
Si è già ricordato che con il riprocessamento vengono estratti dal combustibile irraggiato l'uranio ed il plutonio, riutilizzabili per la produzione di nuovo combustibile nucleare, separandoli dalle scorie, che costituiscono la parte più «calda» e più longeva dei rifiuti radioattivi (rifiuti di terza categoria). Negli anni '60 e '70 questa operazione faceva normalmente parte del ciclo del combustibile in tutti i Paesi dove erano stati realizzati impianti nucleari ed è in tal senso che anche in Italia il combustibile irraggiato era stato destinato al riprocessamento, senza che ciò avesse rappresentato una vera e propria scelta rispetto ad opzioni allora non considerate tali.
Verso la fine degli anni '70, tuttavia, per diverse considerazioni di carattere economico e strategico (lo scarso utilizzo del plutonio a fini energetici rispetto alle scorte che si erano formate; i costi ancora non competitivi dell'uranio da riprocessamento rispetto a quello ricavato dal minerale; i rischi di diversione nell'impiego del plutonio e quindi di proliferazione, considerazione questa di particolare peso), si diffuse la tendenza a sospendere il riprocessamento, se non addirittura a rinunciare definitivamente ad esso. Negli Stati Uniti, in particolare, vi furono prima un'ordinanza di sospensione del riprocessamento da parte del presidente Ford, quindi il bando da parte del presidente Carter. Tale bando venne in seguito revocato, senza che, tuttavia, il riprocessamento venisse in concreto riavviato, anche se la discussione si è più recentemente riaperta.
L'ENEL continuò a sottoscrivere contratti per il riprocessamento anche in quegli anni (l'ultimo contratto sottoscritto con la BNFL è, infatti, del 1980). Tuttavia, la decisione di spedire verso l'Inghilterra l'ultima tranche (53 tonnellate) di combustibile relativa a quell'ultimo contratto stipulato venne presa solo alla fine degli anni '90 e sancita nel già menzionato documento di indirizzi del Ministero dell'Industria per la gestione dell'eredità delle attività nucleari svolte in Italia, trasmesso al Parlamento nel dicembre 1999. In concreto, le spedizioni dal deposto Avogadro, dove il combustibile interessato era conservato, cominciarono nel 2003 e si conclusero nel 2005.
Parallelamente, il documento del Ministero dell'industria sancì anche la scelta di non procedere al riprocessamento del quantitativo residuo ancora presente negli impianti italiani, circa 230 tonnellate, allora distribuite tra la centrale di Caorso (184,2 tonnellate), la centrale di Trino (14,5 tonnellate), il deposito Avogadro (27,9 tonnellate)
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e l'impianto Eurex (2,1 tonnellate che nel 2007 sarebbero state trasferite nel deposito Avogadro per consentire lo svuotamento e la bonifica della piscina che presentava perdite verso l'ambiente). Per questo combustibile residuo si scelse l'opzione dello stoccaggio «a secco», cioè non più mantenuto nelle piscine degli impianti nelle quali era stato sino ad allora, dove avrebbe costituito tra l'altro un ostacolo per il decommissioning degli impianti, ma conservato in contenitori dual purpose, contenitori adatti cioè sia al trasporto del combustibile, sia al suo mantenimento di lungo periodo.
Era previsto che, in attesa del trasferimento di tali contenitori al deposito nazionale che si sarebbe dovuto realizzare, lo stoccaggio a secco avvenisse, con opportune soluzioni, presso gli stessi siti degli impianti che ospitavano il combustibile. Questa prospettiva fu subito osteggiata dalle comunità e dalle amministrazioni locali interessate, nel timore che, una volta superata la condizione di evidente precarietà in atto - cioè lo stoccaggio in piscine di impianti spesso decisamente obsoleti - la situazione transitoria dello stoccaggio a secco presso gli stessi siti si sarebbe potuta trasformare, in vista di un non semplice processo di individuazione del sito per il deposito nazionale, in una soluzione di fatto definitiva. Di qui il mutamento di programma, prospettato già nel decreto del Ministro delle attività produttive del 2 dicembre 2004, e la decisione di riprocessare anche il combustibile irraggiato residuo, una decisione dettata quindi non da una valutazione dell'utilità del materiale recuperabile attraverso il riprocessamento, ma dalla necessità di allontanare comunque il combustibile irraggiato dall'interno degli impianti, consentendo così di procedere con il loro decommissioning, e pur nella consapevolezza che i rifiuti prodotti dal riprocessamento dovranno prima o poi rientrare.
Gli accordi sono stati presi questa volta con la società francese AREVA (contratto stipulato nel maggio 2007, dopo il necessario accordo intergovernativo del novembre 2006) e tra il dicembre 2007 e il giugno 2010 sono avvenute le spedizioni - sedici in tutto - dalla centrale di Caorso verso l'impianto di La Hague. Sono poi iniziate quelle dal deposito Avogadro, ma, come è stato riferito alla Commissione dal direttore generale dell'ISPRA, dopo le prime due, avvenute nei primi mesi del 2011, le spedizioni sono state sospese per il timore che l'attività acuisse le tensioni legate alla vicenda TAV già presenti nell'area interessata dai trasporti, per poi riprendere con una nuova e a tutt'oggi isolata spedizione nell'estate 2012.
Non potranno invece essere riprocessate le quasi due tonnellate di combustibile presenti dell'impianto ITREC di Rotondella (MT). Si tratta infatti di un combustibile particolare, del ciclo uranio-torio, che richiederebbe un impianto di riprocessamento specifico, quale avrebbe dovuto essere, in via sperimentale, proprio l'impianto ITREC. Per quel combustibile continua pertanto ad essere previsto lo stoccaggio a secco.
Nel novembre 2012 si è risolto un problema analogo, ma di dimensioni nettamente minori - complessivamente 90 grammi di materie nucleari - rappresentato da dieci lamine del combustibile a suo tempo utilizzato in un reattore di ricerca di Petten (Olanda), giunte in Italia per attività sperimentali. Le lamine, ospitate nel deposito Avogadro e anch'esse non suscettibili di riprocessamento,
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sono state spedite negli Stati Uniti dal porto di Trieste. Il trasferimento è avvenuto nell'ambito della Global Threat Reduction Initiative (GTRI), avviata dal governo americano per mettere in sicurezza materiale nucleare presente in diversi Paesi.
5.2Il rientro dei rifiuti
Si è già detto in altra parte della presente relazione che gli accordi con la Francia prevedono il rientro in Italia dei rifiuti prodotti dal riprocessamento entro il 2025 e che il calendario delle spedizioni dovrà essere fissato preliminarmente già entro il 2015 e definitivamente entro il 2018. Per contro, i primi contratti per il riprocessamento stipulati a suo tempo dall'ENEL con la società inglese BNFL non prevedevano alcuna clausola in tal senso. Successivamente, per evitare che l'Inghilterra divenisse il deposito dei rifiuti radioattivi prodotti dal riprocessamento del combustibile nucleare proveniente da altri Paesi, dal 1976 in tutti i contratti sottoscritti dalla BNFL è stata inserita una clausola che impegna i contraenti a far rientrare tali rifiuti nel Paese di origine.
Delle 1600 tonnellate di combustibile irraggiato italiano che, come detto, sono state riprocessate a Sellafield, 920 tonnellate sono relative a contratti anteriori al 1976, mentre 680 tonnellate circa sono relative ai due contratti sottoscritti dall'ENEL dopo quella data: un contratto del 1979, per combustibile Magnox della centrale di Latina (573 tonnellate), e un contratto del 1980, per combustibile delle centrali di Trino e del Garigliano (rispettivamente 52 e 54 tonnellate circa).
Il riprocessamento di detto combustibile ha prodotto circa 5500 m3 di rifiuti radioattivi e più precisamente 17,3 m3 di rifiuti ad alta attività, 847 m3 di rifiuti a media attività e 4626 m3 di rifiuti a bassa attività. Sono questi i volumi che dovrebbero rientrare in Italia.
Tuttavia, la parte inglese offre come opzione la possibilità di sostituire i rifiuti a bassa e media attività, che vengono condizionati in matrici cementizie, con quantità radiologicamente equivalenti di rifiuti ad alta attività, condizionati in vetro. Questa sostituzione, considerata neutra da un punto di vista ambientale, offre in generale il vantaggio di rendere più spediti i trasporti, dal momento che, a parità di contenuto in termini di attività, i volumi di rifiuti ad alta attività sono di gran lunga minori di quelli dei rifiuti ad attività bassa e media.
Nella situazione italiana, la sostituzione appare un'alternativa favorevole non solo in vista della semplificazione delle operazioni di trasporto, ma anche in considerazione dell'attuale mancanza di soluzioni di deposito e del minore impatto che, anche quando tali soluzioni saranno finalmente disponibili, le quantità di rifiuti rientranti avranno sui volumi totali di rifiuti italiani, essendo i primi, se non si procedesse con la sostituzione, non trascurabili rispetto ai secondi. Ciò è tanto più vero se si considera che, secondo le valutazioni fatte dalla Sogin, la sostituzione azzererebbe il volume di rifiuti a bassa e media attività da ricevere, elevando il volume di quelli ad alta attività solo da 17,3 m3 a 18,7 m3, e si tratterebbe di un incremento che non modificherebbe il numero dei contenitori che
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sarebbero comunque necessari (quattro, due per i rifiuti prodotti dal combustibile di Latina, uno per ciascuno per quello di Trino e del Garigliano). La maggiore quantità andrebbe infatti a colmare i vuoti all'interno dei contenitori stessi, lasciando quindi immutato il volume effettivo.
Queste risultanze sono state peraltro confermate direttamente alla Commissione nel corso della visita compiuta il 19 gennaio 2012 negli impianti di Sellafield, dove le è stato in particolare presentato il processo di vetrificazione con il quale vengono condizionati i rifiuti ad alta attività destinati a rientrare in Italia e le sono state illustrate le garanzie che i manufatti prodotti attraverso tale processo offrono nell'isolamento della radioattività in essi contenuta.
L'opzione di sostituzione offerta dalla Nuclear Decommissioning Authority (NDA, l'ente pubblico con funzioni analoghe a quelle dell'italiana SOGIN, succeduta alla BNFL) è ovviamente a titolo oneroso. In particolare, per i quantitativi di rifiuti destinati a rientrare in Italia, il costo della sostituzione sarebbe pari a circa 150 milioni di sterline.
A fronte di questa spesa vi sarebbe d'altra parte una serie di risparmi derivanti dal mancato rientro di notevoli volumi di rifiuti a bassa e media attività, mentre rimarrebbero immutati (12 milioni di sterline circa) i costi relativi al rientro dei rifiuti ad alta attività, il cui volume effettivo rimarrebbe come detto inalterato (quattro contenitori).
L'ammontare dei risparmi derivanti dalla sostituzione risulta particolarmente elevato - oltre che per la minore spesa connessa al trasporto e al deposito dei rifiuti in Italia - anche per il fatto che tutti gli altri Paesi che hanno fatto riprocessare combustibile irraggiato a Sellafield (Germania, Svizzera, Giappone, Olanda) hanno optato per la sostituzione. Pertanto, se si volessero far rientrare tutti i rifiuti senza sostituzione, l'Italia dovrebbe far fronte da sola a spese per la realizzazione, nel sito di partenza, di costose strutture necessarie per la spedizione dei rifiuti a media attività.
Una valutazione complessiva dei costi derivanti dalla spedizione di tutti i rifiuti, senza sostituzione, effettuata dalla Sogin, mostra una cifra pari a circa 270 milioni di sterline, alla quale andrebbe poi sommata quella necessaria per il deposito.
Va anche osservato che il costo della sostituzione, una volta definito, offre maggiori garanzie di stabilità di quanto possa essere per i costi delle spedizioni (che si protrarrebbero per anni) e del successivo deposito, oggi solo ipotizzabili.
Sulla base della valutazione comparativa dei costi da sostenere nel breve e nel lungo periodo qui sintetizzata, dalla quale è emersa la convenienza economica diretta dell'opzione di sostituzione, e tenuto conto degli aspetti di sicurezza, di radioprotezione e di protezione dell'ambiente, il Ministro dello sviluppo economico, accogliendo la proposta avanzata dalla SOGIN, ha emanato in data 10 agosto 2009 una direttiva con la quale impegna la SOGIN stessa a definire con la NDA un accordo di sostituzione.
All'ISPRA, quale autorità di sicurezza nucleare, viene richiesto di emettere apposite certificazioni a garanzia dei rapporti di equivalenza radiologica della sostituzione proposta.
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La direttiva prevede che con l'accordo vengano fissati tempi di rientro dei rifiuti ad alta attività coerenti con gli analoghi tempi indicati negli accordi presi con la Francia (termine del rientro 2025).
6.Il decommissioning degli impianti nucleari
6.1L'attività dell'ENEL
Si è già avuto modo di evidenziare il fatto che in Italia, dove ormai da venticinque anni non vi sono nel settore nucleare attività produttive in atto e dove gli impianti sono spenti e in attesa di smantellamento, il tema dei rifiuti radioattivi e quello del decommissioning degli impianti sono strettamente connessi, sia perché la gestione dei rifiuti esistenti avviene in massima parte all'interno di impianti in decommissioning, sia perché dalle operazioni di smantellamento deriveranno rifiuti radioattivi in quantità notevoli, equivalenti a quelli già oggi presenti. Ciò fa sì che i programmi di gestione dei rifiuti costituiscano una componente dei programmi di decommissioning e questa circostanza ha reso necessario ampliare l'ottica dell'approfondimento che la Commissione ha condotto.
Nel 1987, quando a seguito degli esiti del referendum fu sancito l'abbandono della produzione di energia da fonte nucleare, alcuni impianti del ciclo del combustibile erano già stati definitivamente spenti, così come era già stata posta fuori esercizio una delle quattro centrali elettronucleari esistenti in Italia, quella del Garigliano, chiusa con delibera del CIPE fin dal 1982, ma già non funzionante, per seri problemi tecnici, dal 1978. Con la decisione di uscire dal nucleare anche gli impianti rimanenti furono definitivamente spenti e avviati al decommissioning. Restarono in funzione solo l'impianto di Fabbricazioni Nucleari, a Bosco Marengo (AL), che fino al 1995 continuò a produrre combustibili nucleari per forniture all'estero, e quattro reattori di ricerca, il LENA dell'Università di Pavia, i reattori TRIGA e TAPIRO nel centro ENEA della Casaccia, il reattore AGN-1 Costanza dell'Università di Palermo, tutti ancora oggi in esercizio.
Al di là dei diversi percorsi che possono essere seguiti, il decommissioning (che nel linguaggio tecnico italiano è anche detto «disattivazione» e anzi è così indicato nel decreto legislativo n. 230 del 1995) inizia con il definitivo spegnimento dell'impianto e termina con il rilascio del sito esente da vincoli di natura radiologica. Questa condizione finale, come si è già detto, è denominata «prato verde», traduzione dell'espressione americana green field, anch'essa spesso usata. L'espressione non va peraltro intesa letteralmente, nel senso dello smantellamento e della rimozione dal sito di tutto il materiale fisicamente presente su di esso: ciò che va rimossa è la radioattività ed è quindi possibile che edifici e strutture già esenti da radioattività o del tutto decontaminati vengano lasciati sul sito per qualsiasi diversa destinazione.
Quando gli impianti italiani vennero avviati al decommissioning non vi erano molte esperienze precedenti. In Italia, in particolare, vi era stata solo la disattivazione di alcuni piccoli reattori di ricerca dell'ENEA nel centro della Casaccia e nel sito di Montecuccolino
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(Bologna), oltre alla trasformazione del reattore Avogadro in deposito di combustibile irraggiato. Si trattava di operazioni che non avevano richiesto tecnologie particolarmente sofisticate e non potevano rappresentare una guida significativa per impianti di ben altre dimensioni e assai più complessi. Le stesse guide dell'AIEA del tempo fornivano indicazioni piuttosto generiche: nel percorso della disattivazione di una centrale venivano individuate tre fasi. Nella prima si rimuove la radioattività che può essere asportata con i mezzi normalmente disponibili sull'impianto; nella seconda si giunge a un rilascio parziale del sito, dopo aver smantellato o decontaminato le parti meno contaminate; nella terza si giunge al rilascio totale del sito, con lo smantellamento del reattore vero e proprio. Si trattava però più di fasi logiche che di fasi temporali. Le guide stesse precisavano, infatti, che tali fasi potevano essere intervallate da lunghi tempi di attesa o succedersi con continuità, così come si potevano percorrere tutte o solo alcune (al riguardo, l'effettiva significatività della seconda fase è sempre risultata dubbia).
Mentre per i propri impianti l'ENEA non predispose piani di decommissioning, per le centrali elettronucleari l'ENEL, che ne aveva allora la proprietà, adottò una strategia in due fasi. Nella prima fase si sarebbe raggiunta una condizione detta di «custodia protettiva passiva» attraverso operazioni di decontaminazione e di sistemazione provvisoria necessarie per consentire la conservazione degli impianti per un periodo di alcuni decenni; dopo tale periodo vi sarebbe stata la seconda fase, con lo smantellamento finale e il rilascio del sito.
La scelta di quella strategia era basata su alcuni elementi:
- il rinvio degli interventi più massicci di smantellamento avrebbe consentito di ridurre l'esposizione dei lavoratori grazie al decadimento dei radioisotopi a vita più breve che si sarebbe verificato;
- non vi era disponibilità di un deposito nazionale per il conferimento dei rifiuti radioattivi che lo smantellamento avrebbe prodotto;
- mancava all'epoca una chiara normativa per la definizione dei livelli di allontanamento dei materiali di risulta, la definizione, cioè - si ricorda - di soglie di concentrazione dei diversi radionuclidi al di sotto delle quali i materiali prodotti dallo smantellamento possano essere considerati non radioattivi. Si è già osservato che si tratta di parametri rilevanti nell'economia generale della disattivazione. In figura 5 sono mostrate, per le quattro centrali italiane, le quantità dei materiali potenzialmente rilasciabili pur se lievemente contaminati e dei materiali da gestire invece come rifiuti radioattivi. Dal rapporto tra i due tipi si intuiscono i maggiori oneri che si avrebbero se tutto il materiale dovesse essere gestito quale rifiuto radioattivo. I dati in figura sono stati definiti in tempi più recenti rispetto al periodo di cui si sta parlando, ma il concetto era chiaro fin da allora;
- il rinvio delle operazioni più complesse avrebbe reso possibile beneficiare di eventuali miglioramenti tecnologici;
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- non vi era un'effettiva urgenza di rendere disponibili i siti (tipicamente legata non al loro rilascio, ma al loro eventuale riutilizzo come siti nucleari).
A queste considerazioni se ne sarebbero forse potute aggiungere altre, meno ufficiali: le operazioni per la messa in custodia protettiva passiva rinviavano, soprattutto nella fase iniziale, interventi irreversibili sugli impianti, lasciando così spazio per possibili ripensamenti; ciò, almeno per la centrale di Caorso, la più recente. È inoltre comprensibile che per l'ENEL, la cui attività fondamentale era la produzione di energia, il decommissioning delle centrali non fosse al centro dell'attenzione, rappresentando una mera passività. Sta di fatto che le operazioni sui siti, per tutto il decennio successivo alle delibere con le quali il CIPE aveva disposto l'avvio al decommissioning degli impianti, hanno proceduto lentamente anche rispetto ai limitati obiettivi di disattivazione stabiliti all'epoca. La stessa centrale del Garigliano, spenta come si è detto dal 1978 e ufficialmente fuori servizio dal 1982, nel 2000 era ancora lontana dalla condizione di custodia protettiva passiva. Tutto ciò ha portato, sin dall'inizio delle attività, al lento accumularsi di ritardi, che si è poi tra l'altro tradotto in un inevitabile incremento dei costi.
6.2L'attività della SOGIN
A metà degli anni '90 fu l'ANPA, allora da poco istituita e incaricata delle funzioni di ente di controllo, a indicare la necessità di una generale accelerazione delle attività di messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi e di decommissioning - problemi che in quel momento apparivano praticamente dimenticati - e a raccomandare per quest'ultimo un cambio di strategia: dalle due fasi intervallate da un'attesa pluridecennale ad un'unica fase, che puntasse direttamente al rilascio del sito.
A suggerire la diversa strategia vi era più di un elemento. Andava considerato innanzi tutto il rischio che nella situazione italiana, dove
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non vi era più una prevedibile prospettiva di una rilevante attività produttiva in campo nucleare, dopo decenni di attesa, non solo sarebbe andata perduta ogni memoria storica degli impianti sui quali si sarebbe dovuto intervenire, ma si sarebbe potuta avere la sostanziale perdita delle competenze necessarie per effettuare gli interventi. In quel quadro, la stessa attesa per periodi non ben precisati durante i quali gli impianti si sarebbero di fatto trasformati in depositi di lungo termine di sé stessi, in siti non certo selezionati per quella funzione e in alcuni casi già di per sé critici, non poteva certo essere considerata la scelta ottimale.
Per quanto riguarda la tutela sanitaria dei lavoratori, il tempo già trascorso dallo spegnimento delle centrali e quello che sarebbe comunque trascorso prima che venissero concretamente effettuati gli interventi di smantellamento più impegnativi erano già sufficienti per un decadimento della radioattività compatibile con le dovute condizioni di radioprotezione del personale addetto, condizioni che per contro non sarebbero migliorate significativamente prolungando ulteriormente i tempi di attesa. Inoltre, con l'emanazione del decreto legislativo n. 230 del 1995 si disponeva di un adeguato quadro normativo di riferimento.
Ovviamente, in parallelo con l'adozione della nuova strategia e, più in generale, per poter gestire compiutamente l'eredità nucleare, era necessaria la realizzazione del deposito nazionale.
Sin dal 1999, anno della sua costituzione, la SOGIN ricevette quale indirizzo per il decommissioning delle centrali ex ENEL - attività che rappresentava lo scopo della sua nascita - l'adozione della strategia di disattivazione accelerata, cioè in una sola fase. Questa indicazione era contenuta nel documento di indirizzi strategici che il Ministero dell'industria trasmise al Parlamento il 21 dicembre 1999 ed era poi confermata dal decreto ministeriale del 7 maggio 2001, che prevedeva il rilascio dei siti entro venti anni, a condizione della disponibilità del deposito nazionale. Lo stesso termine, salvo lo slittamento del riferimento iniziale, era indicato anche dal successivo decreto ministeriale del 2 dicembre 2004, con la medesima condizione riguardante il deposito.
In base a questo indirizzo, la SOGIN presentò innanzi tutto un'istanza volta ad ottenere una prima, parziale autorizzazione per determinate operazioni di decommissioning della centrale di Caorso, orientate alla disattivazione accelerata, autorizzazione che fu rilasciata nell'agosto 2000, e a seguire le istanze per l'autorizzazione alla disattivazione accelerata di tutte le centrali. Il presupposto dei nuovi programmi indicato dalla SOGIN era la disponibilità del sito nazionale per il conferimento dei rifiuti radioattivi entro la fine del decennio. Sulla base di quel presupposto, i programmi prevedevano in particolare il rilascio finale del sito, in condizioni di green field, tra il 2018 per la centrale di Trino, la prima, e il 2023 per quella di Latina, l'ultima.
Va detto però che l'accelerazione restava sostanzialmente limitata all'espressione con cui veniva indicata la nuova strategia a una sola fase, se è vero, ad esempio, che dopo sette anni dall'adozione di tale strategia, in un'audizione tenuta il 15 maggio 2007, l'amministratore delegato della SOGIN pro tempore dichiarava alla Commissione
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parlamentare di inchiesta sul ciclo dei rifiuti, istituita nella XV legislatura, che pur avendo la SOGIN speso sino ad allora più del 18 per cento delle risorse complessive messe a preventivo, le attività fisiche sui siti non erano andate oltre il 9 per cento di quanto programmato.
In quella occasione l'amministratore delegato indicò diversi fattori che, a suo giudizio, avevano concorso a determinare quel lento procedere delle attività, che peraltro tutt'oggi non ha visto sostanziali variazioni. Ma ad impedire l'avanzamento dei lavori secondo i programmi delineati vi sarebbe stata in ogni caso l'evidenza che il deposito nazionale per i rifiuti radioattivi non sarebbe stato disponibile né entro la fine del decennio, né negli anni immediatamente successivi. Pertanto, a partire dal 2008 le attività dovettero essere riprogrammate non solo e non tanto per tenere conto dei ritardi accumulati, quanto per adottare una nuova logica che non includesse lungo il percorso critico la disponibilità del deposito nazionale.
I nuovi programmi non vennero più basati sull'ipotesi di una data in cui il deposito divenisse disponibile, ma sostituirono l'obiettivo del green field con quello del brown field. Ciò significava, in pratica, puntare sullo smantellamento «immediato» degli impianti senza più attendere che venisse realizzato il deposito nazionale; allontanare dai siti i materiali rilasciabili; stoccare sui siti stessi i rifiuti radioattivi già presenti e quelli prodotti dallo smantellamento utilizzando le strutture di deposito esistenti o costruendone di nuove (è da questo stoccaggio che deriva la denominazione di brown field). In questa nuova logica, i rifiuti saranno trasferiti al deposito nazionale quando questo sarà disponibile e verranno allora smantellate anche le strutture di deposito sui siti e si potrà procedere al loro rilascio.
Una variante rispetto a questo iter venne prevista per la centrale di Latina, dove le caratteristiche particolari del reattore suggeriscono di non procedere al suo smantellamento prima che sia disponibile il sito nazionale. Anche per essa si possono comunque effettuare smantellamenti parziali, con una logica analoga a quella degli altri siti.
Con i programmi predisposti nel 2008, lo smantellamento - pur con il significato diverso che assumeva nell'ambito del decommissioning, del quale non costituiva più l'atto finale - risultava in molti casi anticipato rispetto ai programmi precedenti, in qualche caso anche in misura notevole. Le scadenze più ravvicinate, con un evidente eccesso di ottimismo, erano fissate per l'impianto di Bosco Marengo, con il termine dello smantellamento previsto nel 2009, e per la Centrale di Trino, con il termine nel 2013.
Una revisione dei programmi è stata effettuata nel 2010, mantenendo la stessa logica di assumere come obiettivo il raggiungimento delle condizioni di brown field, ma con un generale slittamento, da tre a sei anni, a seconda dei siti, del termine delle operazioni di smantellamento. I programmi 2010, inoltre, contengono anche una previsione della data per il rilascio incondizionato dei siti, cioè del raggiungimento del green field, con lo svuotamento dei depositi provvisori di rifiuti costituiti su ciascun sito e la loro demolizione finale. Tale previsione è basata sull'ipotesi di disponibilità del deposito nazionale a partire dal 2020 e sulla possibilità quindi di trasferire in
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esso, iniziando da quella data, i rifiuti radioattivi conservati sui ogni sito, pronti per i trasferimento.
I programmi temporali del piano 2010 sono stati interamente confermati nel 2011, con la sola eccezione dello slittamento di un anno (dal 2018 al 2019) per il raggiungimento delle condizioni di brown field sul sito di Trino, slittamento che la SOGIN imputa al ritardo di un anno con cui è stata rilasciata l'autorizzazione e alla sospensione, tuttora in atto, delle spedizioni del combustibile irraggiato verso la Francia.
Un confronto complessivo tra i programmi 2004, i programmi 2008 e i programmi 2010 è presentato in tabella 5.
Le attività sui siti continuano comunque ad apparire non ottimali. Secondo i dati forniti dal Ministro dello sviluppo economico nel corso dell'audizione del 2 marzo 2012 il lavoro sino ad allora svolto poteva essere quantificato intorno al 12 per cento del piano complessivo. In particolare, la centrale di Caorso era a uno stato di avanzamento del 16 per cento, quella di Trino del 14, quella di Garigliano dell'11, quella di Latina del 6. Eurex era all'8 per cento, Itrec al 13, Opec, in Casaccia, al 15 e infine Bosco Marengo al 57 per cento, ma si tratta in questo caso dell'impianto più semplice, scelto dalla SOGIN alla stregua di progetto pilota che avrebbe dovuto essere portato a termine prima nel 2009, poi nel 2012. Se si estrapolassero questi dati si giungerebbe a ritenere i programmi della Sogin largamente ottimistici.
Un problema particolare riguarda la movimentazione del combustibile, attività per la quale, fino al 2010, la SOGIN poteva vantare la conclusione di alcune attività in taluni casi di complessità tecnica anche notevole, come in particolare lo svuotamento e la bonifica della piscina dell'impianto Eurex, ma anche l'allontanamento delle 185 tonnellate di combustibile già presenti nella piscina della centrale di Caorso. Altrettanto non sembra potersi dire del periodo più recente, quando si è sostanzialmente arrestato, per la sovrapposizione con la vicenda TAV, il trasferimento in Francia del combustibile irraggiato ancora presente a Trino e nel deposito Avogadro. Il termine di fine
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2012 fissato con la controparte francese per la conclusione delle spedizioni è evidentemente superato e questo, al di là di ogni eventuale aggravio degli oneri contrattuali, avrà inevitabili riflessi sui programmi, in particolare su quelli di Trino, riflessi tanto maggiori quanto più lentamente procederà il trasferimento.
Nel corso dell'audizione del 4 ottobre 2011, il presidente della Sogin ha dichiarato che, per dare un «segnale» della propria attività, la SOGIN è giunta alla «scelta politica» di intensificare gli smantellamenti di parti convenzionali (cioè non «radioattive») degli impianti. Un esempio tra i maggiori è rappresentato dallo smantellamento del pontile della centrale di Latina, avvenuto nell'estate 2011, e che peraltro - come è stato fatto osservare al presidente della SOGIN in sede di audizione - non ha raccolto in ambito locale unanime apprezzamento. Spingere sullo smantellamento di edifici o strutture convenzionali costituisce una scelta che, benché possa apparire irrilevante sotto il profilo della riduzione del rischio radiologico, non si può dubitare rientri nel più generale ambito dei programmi di smantellamento e di bonifica ambientale dei siti nucleari.
Secondo il presidente della SOGIN il consiglio di amministrazione della società, nominato nell'ottobre 2010, si sta sforzando per rendere il più celere possibile il processo di smantellamento, «celerità che ovviamente dipende dal ritmo delle autorizzazioni che le agenzie deputate, quindi finora l'Ispra, devono concederci». Solo rispondendo alle domande postegli è entrato più esplicitamente sull'argomento, confermando in ogni caso quanto prima sinteticamente accennato: «Sul problema dei tempi voglio essere estremamente chiaro, perché questo problema si collega a quello evidenziato nella mia introduzione dei condizionamenti della nostra attività. Nelle parole che ho pronunciato e in quello che dirò vi pregherei davvero di non leggere alcun elemento critico nei confronti degli enti autorizzativi, allo stato attuale per noi Ispra. Quando l'Agenzia per la sicurezza nucleare prenderà vita, ci sarà un cambio dall'una all'altra. Il problema di procedure e di livelli autorizzativi indubbiamente esiste per ragioni comprensibili e per certi versi auspicabili, perché in un settore come questo un regime autorizzativo non garantista sarebbe motivo di allarme per tutti noi, perché voi siete membri del Parlamento noi siamo Sogin, ma siamo tutti cittadini italiani, quindi è interesse comune che tutto si svolga nella massima sicurezza e trasparenza. È bene quindi che ci sia un regime autorizzativo rigoroso e di altissimo livello. Certamente impone tempi molto lunghi per avere delle autorizzazioni, tempi che non dipendono da noi se non sotto un profilo - e su questo posso assicurare il massimo impegno della società - perché le autorizzazioni sono il frutto di un raccolta di dati, di un'istruttoria a cui Sogin contribuisce. Cerchiamo di fare al meglio la nostra parte, ovvero di fornire tutti i dati nella maniera che Ispra si attende per rendere più spedito il procedimento, ma i procedimenti sono estremamente lunghi».
Nella valutazione della SOGIN il lento procedere delle attività sui siti è quindi il riflesso del lento procedere delle attività autorizzative - una posizione che è stata talora ribadita alla Commissione anche nel corso dei sopralluoghi condotti su siti stessi - ed è comunque conseguenza del sistema di controllo in atto. In un documento
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trasmesso dalla stessa SOGIN (presentazione del programma a vita intera di smantellamento e chiusura del ciclo del combustibile e piano triennale 2012-2014) si legge al riguardo: «L'applicazione restrittiva delle normative di sicurezza nucleare applicate allo smantellamento e al mantenimento in sicurezza da parte dell'Autorità di controllo generano prescrizioni vincolanti che comportano spesso modifiche progettuali e maggiori oneri documentali, rendendo molto più complesso l'iter autorizzativo».
Alla Commissione sono state tuttavia presentate anche valutazioni più complesse, in particolare da parte dell'Autorità per l'energia elettrica e il gas, nell'audizione del 31 gennaio 2012. In quella occasione è stata certamente confermata la lentezza delle procedure autorizzative, una lentezza che però non sarebbe ascrivibile ad un ben determinato soggetto, ma alla filiera amministrativa, e, per questo aspetto, più difficile da correggere: «Deve intervenire una serie di soggetti per l'autorizzazione. Il problema è mettersi d'accordo con le regioni, i comuni, le autorità locali, territoriali, centrali. C'è una specie di rimbalzo, all'interno del circuito, che è difficile anche individuare». Questa lentezza fa da schermo ad altre cause, che esistono, anche se è difficile quantificarne i rispettivi effetti:
- quella del decommissioning è una tecnologia non consolidata, che richiede studi, lavori e valutazioni e che ha comportato difficoltà anche nell'organizzarsi;
- sono state prese o sono mancate decisioni strategiche, di carattere politico, a livello nazionale. Il ritardo del deposito nazionale non è ad esempio un fatto neutrale. La sua mancanza nei tempi prestabiliti ha comportato la necessità di cambiare la strategia, di pensare a depositi temporanei sui siti, di portare il combustibile all'estero. Sono state attività aggiuntive che hanno necessariamente sconvolto i tempi;
- le regole e le norme tecniche non sono fisse, ma subiscono evoluzioni anche in corso d'opera: l'incidente di Fukushima (avvenuto peraltro quando il ritardo oggi esistente si era costituito ormai per intero) ha comportato, ad esempio, modifiche nelle norme di sicurezza che hanno richiesto ulteriori studi e valutazioni;
- vi sono ritardi dovuti alla SOGIN e molto è dovuto al fatto che in questo periodo non vi è stata una governance stabile e che ogni volta che è cambiata governance sono cambiate anche la strategia e le idee di lavoro.
È possibile che con quelle indicate dall'Autorità non si esauriscano le cause che hanno contribuito a determinare i ritardi che si sono registrati. Su questi aspetti, la Commissione non ha potuto acquisire la posizione formale dell'ISPRA. In ogni caso l'Istituto, aggiornando le informazioni a suo tempo fornite e comunicando in particolare l'avvenuto rilascio delle autorizzazioni ex articolo 55 del decreto legislativo n. 230 del 1995 per il decommissioning delle centrali di Trino e del Garigliano, ha osservato che, se tali autorizzazioni permetteranno alla SOGIN di programmare al meglio le relative attività, queste «sino ad oggi hanno comunque potuto
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procedere grazie ad altri atti autorizzativi previsti dalla legge, emanati con tutta la tempestività consentita dalla loro rilevanza». Ha ricordato, inoltre, che già nel 2000 era stato rilasciato alla SOGIN un primo decreto di autorizzazione per la centrale di Caorso inerente ad alcune operazioni preliminari connesse alla disattivazione della centrale stessa e che alcune di tali operazioni, in particolare quelle relative al condizionamento dei rifiuti pregressi, sono tuttora da completare.
In effetti, nel corso dei sopralluoghi effettuati su diversi siti, la Commissione ha potuto rilevare più di un caso di operazioni autorizzate anche da tempo e non ancora attuate, anche per l'intrecciarsi di attività diverse, propedeutiche l'una all'altra.
In ogni caso, quali che ne siano le cause e al di là degli effetti concreti che ciò possa aver provocato sui siti nucleari, resta il fatto che tempi complessivi dell'ordine del decennio per il rilascio di un'autorizzazione, comprendente peraltro la procedura di valutazione di impatto ambientale, sono da considerare un'anomalia.
Una risposta a questo problema ha cercato di darla la legge 24 marzo 2012, n.27, di conversione del decreto legge 24 gennaio 2012, n.1, che, all'articolo 24, sotto la rubrica «Accelerazione delle attività di disattivazione e smantellamento dei siti nucleari», prevede quanto segue:
1) i pareri riguardanti i progetti di disattivazione di impianti nucleari, per i quali sia stata richiesta l'autorizzazione di cui all'articolo 55 del decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 230, da almeno dodici mesi, sono rilasciati dalle amministrazioni competenti entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto. A tal fine, le osservazioni delle amministrazioni previste dalle normative vigenti sono formulate all'ISPRA entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto. Su motivata richiesta dell'amministrazione interessata, il termine di cui al primo periodo può essere prorogato dall'amministrazione procedente di ulteriori sessanta giorni;
2) qualora le amministrazioni competenti non rilascino i pareri entro il termine previsto al comma 1, il Ministero dello sviluppo economico convoca una conferenza di servizi, che si svolge secondo le modalità di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, al fine di concludere la procedura di valutazione entro i successivi novanta giorni.
I termini previsti dalle nuove disposizioni, pur se diversamente articolati, non sono peraltro sostanzialmente diversi da quelli indicati dall'articolo 56 del decreto legislativo n. 230. Più significativi, ai fini dell'accelerazione delle procedure, appaiono due elementi. Il primo è la soppressione, già avvenuta ad opera dal decreto legislativo 15 febbraio 2010, n. 31, così come modificato dal decreto legislativo 23 marzo 2011, n. 41, della commissione tecnica per la sicurezza nucleare e la protezione sanitaria di cui all'articolo 9 del predetto decreto legislativo n. 230, la quale sarebbe dovuta intervenire nel corso della procedura, all'interno dell'elaborazione del parere dell'ISPRA, soppressione avvenuta nel contesto del progettato ritorno all'energia nucleare e la cui opportunità avrebbe forse meritato,
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peraltro, qualche più attenta riflessione. Il secondo elemento è l'esplicito riferimento allo strumento della conferenza dei servizi, uno strumento tuttavia non nuovo, essendo stato introdotto dalla legge sin dal 1990 e al quale si sarebbe potuto accedere indipendentemente dal richiamo ad esso, contenuto nelle nuove disposizioni. Tra l'altro, come l'ISPRA ha ricordato, già per l'autorizzazione di alcune specifiche operazioni di decommissioning della centrale di Caorso, rilasciata in breve tempo nell'agosto 2000, venne fatto ampio ricorso alla conferenza dei servizi.
In ogni caso, a seguito delle nuove norme, nell'agosto 2012 è stata rilasciata l'autorizzazione al decommissioning della centrale di Trino e in settembre quella della centrale del Garigliano ed è attesa a breve l'autorizzazione per la centrale di Caorso.
Va anche osservato che lo stesso articolo 24 della legge n. 27 del 2012 stabilisce anche che, per favorire lo svolgimento dei programmi di decommissioning, le relative autorizzazioni valgono anche quale dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza, costituiscono varianti agli strumenti urbanistici e sostituiscono ogni provvedimento amministrativo, autorizzazione, concessione, licenza, nulla osta, atto di assenso e atto amministrativo, comunque denominati, previsti dalle norme vigenti, costituendo titolo alla esecuzione delle opere. È auspicabile che questi atti segnino l'inizio di una fase di maggiore e più efficiente operatività sui siti.
6.3Prospettive di mercato
Nel corso dell'attività svolta sul tema, la Commissione ha potuto constatare che sul decommissioning degli impianti nucleari si è aperto, a livello internazionale, un mercato di notevole interesse, con ampie prospettive di sviluppo. Su questo argomento la Commissione ha ricevuto informazioni, in particolare, negli incontri avuti con importanti aziende che operano in quel campo in occasione del sopralluogo effettuato sull'impianto di riprocessamento di Sellafield. A quanto si è appreso, a fronte di quelle prospettive, si stanno stringendo accordi industriali e si stanno costituendo joint venture, dove però l'Italia non sembra rappresentata, o quanto meno, non è presente quanto le attività in ambito nazionale potrebbero consentire, in termini di acquisizione di know how. D'altra parte, le cifre che la banca dati PRIS - Power Reactor Information System - dell'AIEA presenta sono sufficienti a quantificare il potenziale di sviluppo del settore: nella sola Unione europea, oltre alle quattro centrali italiane, vi sono attualmente ottantaquattro centrali spente, in fase di decommissioning. È inoltre prevedibile che almeno altre trenta saranno definitivamente chiuse nel prossimo decennio per raggiunti limiti di età. Ad esse vanno aggiunti i reattori di ricerca e gli altri impianti del ciclo del combustibile, anch'essi già chiusi o prossimi alla chiusura. Si tratta quindi di un mercato, per parlare solo di quello europeo, valutabile complessivamente in decine di miliardi di euro (si può pensare a una stima del costo medio dello smantellamento di un impianto di 500 milioni di euro) che potrebbe tra l'altro offrire una prospettiva di maggior respiro a una società
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come la SOGIN, la quale, se i suoi attuali programmi venissero confermati, già a partire dal 2016 e sino al 2026 dovrebbe ridurre il personale nella misura media di ottanta unità all'anno, dal numero massimo raggiunto di novecento unità, per arrivare a un organico di cento unità, che si ridurrebbe poi ulteriormente, fino a dimezzarsi, nel corso del decennio successivo (figura 6).
Ciò promuoverebbe anche il ruolo della controllata NUCLECO, alla quale sono attribuite le attività commerciali nazionali e internazionali.
Nell'audizione del 7 marzo 2012, alla richiesta di un giudizio sulle possibilità di impegno sul mercato estero, il Ministro dello sviluppo economico ha risposto - certo giustamente, ma forse troppo sbrigativamente - che al momento esse non rappresentano la priorità. È in ogni caso ovvio che, affinché quelle possibilità possano concretizzarsi, sarà comunque necessario che le competenze vengano messe alla prova sulle operazioni di decommissioning tecnologicamente più qualificanti, al di fuori delle quali il decommissioning non si discosta significativamente dagli smantellamenti industriali o addirittura dalle demolizioni civili.
D'altra parte, la prospettiva di una positiva ricaduta delle attività di decommissioning da condurre in Italia, in termini di qualificazione di un settore industriale, era stata espressamente menzionata già nel documento di indirizzi del dicembre 1999 del Ministero dell'industria come una delle motivazioni della scelta della strategia del decommissioning accelerato, la sola capace di far accrescere in tempi utili le competenze su tecnologie realmente qualificanti: «tale strategia, se accoppiata ad una strategia industriale, può cogliere le opportunità offerte dal mercato internazionale relativamente allo smantellamento degli impianti nucleari, tenendo conto che nel prossimo ventennio
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circa la metà dell'attuale parco mondiale di centrali nucleari raggiungerà il termine della vita utile di progetto».
6.4I costi
Una prima stima dei costi connessi alla chiusura dell'eredità lasciata dalle attività nucleari svolte in Italia venne fatta, nel 1999, nel più volte citato documento di indirizzi strategici del Ministero dell'industria. In tale stima, il costo complessivo delle operazioni di decommissioning di tutti gli impianti italiani - centrali e impianti del ciclo del combustibile - veniva valutato in 5 mila miliardi di lire dell'epoca. Lo stesso documento metteva tuttavia in guardia rispetto alle difficoltà che allora la stima presentava, sia perché riferita a operazioni destinate a essere svolte in un periodo medio-lungo, presumibilmente in situazioni normative di tutela ambientale differenti e in un quadro tecnologico in evoluzione, sia per la totale indisponibilità di un precedente attendibile o rappresentativo di un complesso di installazioni nucleari che avesse completato lo smantellamento con la chiusura del ciclo del combustibile.
Il documento conteneva anche una stima dei costi della realizzazione del deposito nazionale. L'investimento previsto per l'impianto di smaltimento dei rifiuti a bassa attività e per il deposito temporaneo del combustibile irraggiato e dei rifiuti ad alta attività condizionati era pari a circa 600 miliardi di lire in moneta 1999. Tale importo non teneva conto dei costi aggiuntivi per il territorio correlati alla presenza del deposito e di quelli connessi agli interventi orientati allo sviluppo del territorio. Infine, per quanto riguarda la sistemazione del combustibile irraggiato, per il quale era allora previsto lo stoccaggio a secco in contenitori dual purpose, la stima era di 400 miliardi di lire, sempre in moneta 1999.
Era in sintesi prevista una spesa complessiva di circa 6 mila miliardi di lire, alla quale si sarebbero dovuti aggiungere circa 50 miliardi di lire di spesa annua per i costi di gestione.
Rispetto a quelle stime iniziali, quelle attuali sono quasi triplicate.
Per quanto riguarda il deposito nazionale, si è già detto che, nella stima indicata dal Ministro dello sviluppo economico, gli investimenti complessivi ammonteranno a 2,5 miliardi di euro, cifra comunque non confrontabile con altre poiché comprende, oltre alle spese per la localizzazione e la realizzazione del deposito nazionale, quelle relative alla realizzazione del parco tecnologico al cui interno è previsto l'inserimento del deposito stesso.
In precedenza si è anche accennato che i costi previsti dall'attuale piano a vita intera elaborato dalla SOGIN ammontano a 6,7 miliardi di euro. In figura 7, estratta dal piano stesso, è presentata la ripartizione dell'ammontare complessivo tra i costi per il decommissioning (che comprendono i costi di smantellamento, i costi di conferimento dei rifiuti al deposito nazionale e i costi di project management), i costi per la gestione del combustibile, i costi di mantenimento in sicurezza, di gestione siti e manutenzioni; di sede e di personale, raggruppati sotto la voce «altri costi», nonché i costi per lo smantellamento del deposito Avogadro (che non è proprietà SOGIN) per la quota ascrivibile agli oneri nucleari. Ciascuna voce, così come
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i costi totali, è suddivisa tra quanto speso al 31 dicembre 2010 e la cifra stimata per giungere al termine delle operazioni.
Nella figura 8, anch'essa estratta dal piano a vita intera, è mostrata la scomposizione della voce «altri costi» tra gli elementi che la compongono, nonché, anche in questo caso, la ripartizione tra quanto speso a tutto il 2010 e quanto è previsto per il futuro.
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Le stime di costo sin qui presentate, elaborate dalla SOGIN nel 2011, mostrano un incremento complessivo del 2,7 per cento rispetto all'analogo piano 2010, nel quale l'ammontare totale dei costi stimati era pari a 6.523 milioni di euro. Da parte SOGIN si evidenzia come tale incremento sia pari al tasso di inflazione registrato nell'anno e che, se si escludono gli aumenti relativi al combustibile nucleare dovuti a circostanze specifiche - la rivalutazione del contratto per il riprocessamento del combustibile di Latina e la sospensione delle spedizioni verso la Francia - l'incremento scende al 2,2 per cento, inferiore quindi al tasso di inflazione.
Vanno però anche evidenziati gli incrementi, notevolmente più sensibili, che vi sono stati rispetto alle stime che la stessa SOGIN aveva prodotto negli anni precedenti. In particolare, secondo i dati forniti dall'Autorità per l'energia elettrica e il gas, il piano a vita intera del 2008 prevedeva una spesa complessiva - riportata alla moneta 2010 - pari a 5.442 milioni di euro: rispetto a essa le previsioni più recenti mostrano, dunque, un aumento del 23 per cento. A loro volta le previsioni del piano 2008 presentavano un incremento del 15 per cento rispetto a quelle del piano 2006, che, sempre rivalutate alla moneta 2010, erano pari a 4.727 milioni di euro. Complessivamente, l'aumento delle stime dei costi dal 2006, a moneta costante, è stato del 42 per cento.
Le analoghe previsioni dei programmi SOGIN 2001 e 2004, anche queste riportate alla moneta 2010, erano rispettivamente pari a 3.796 milioni di euro e 4.483 milioni di euro, dati comunque non direttamente raffrontabili con quelli dei programmi successivi, essendo nel frattempo mutata la strategia per la gestione del combustibile irraggiato.
I costi connessi allo smantellamento delle centrali elettronucleari, alla chiusura del ciclo del combustibile nucleare e alle attività connesse e conseguenti sono inclusi tra gli oneri generali del sistema elettrico. Tali oneri sono posti a carico dei clienti finali del sistema tramite una specifica componente tariffaria l'A2, che alimenta un apposito conto istituito presso la Cassa conguaglio per il settore elettrico. L'entità di tale componente è determinata e periodicamente modificata dall'Autorità per l'energia elettrica e il gas e varia in funzione del tipo di utenza e dei relativi consumi: per utenze di tipo domestico oscilla tra 0,1 e 0,2 centesimi di euro per chilowattora circa, mentre per utenze di altro tipo la variabilità è tra 0,1 e 0,04 centesimi di euro per chilowattora circa. La tabella 6, elaborata dall'Autorità, mostra l'andamento negli anni del valore medio della componente.
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Essendo i consumi finali di energia elettrica mediamente dell'ordine di 300 miliardi di chilowattora, attraverso questo meccanismo di finanziamento si ottiene una raccolta annua media oscillante intorno ai 300 milioni di euro. Di questi, come riferito dai rappresentanti dell'Autorità per l'energia elettrica e il gas e come d'altra parte può desumersi dai dati presentati in figura 8, circa 90 milioni sono mediamente spesi ogni anno dalla SOGIN per costi di gestione e per il mantenimento in sicurezza degli impianti, indipendentemente cioè dal procedere delle attività di messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi e delle operazioni di decommissioning.
Per regolare la definizione dell'entità dei finanziamenti e l'effettivo accesso ad essi da parte della Sogin, il decreto 26 gennaio 2000, emanato dal Ministro dell'industria, di concerto con il Ministro del tesoro, ha stabilito una specifica procedura, in base alla quale la Sogin trasmette annualmente all'Autorità per l'energia elettrica e il gas il proprio programma pluriennale aggiornato; l'Autorità, tenendo conto di criteri di efficienza economica nello svolgimento delle attività di competenza della Sogin, ridetermina ogni tre anni gli oneri complessivi e approva gli oneri annuali. Le deliberazioni dell'Autorità sono trasmesse al Ministro dell'economia e al Ministro dello sviluppo economico e, in assenza di indicazioni da parte dei ministri stessi, divengono operative dopo sessanta giorni, con l'erogazione dei finanziamenti da parte della Cassa conguaglio per il settore elettrico alla quale le deliberazioni sono pure trasmesse.
7.Le misure compensative
7.1I contributi per gli impianti esistenti
Si è già ricordato in precedenza che la legge n. 368 del 2003, nel convertire il decreto legge n. 314 del 2003 con il quale si era tentato di individuare nel territorio del comune di Scanzano Jonico il sito per
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lo smaltimento dei rifiuti radioattivi, ha introdotto, all'articolo 4, misure compensative per i comuni e le province nel cui territorio sono localizzate le vecchie centrali nucleari e i vecchi impianti del ciclo del combustibile nucleare, da corrispondere sino al loro definitivo smantellamento. Detta legge stabilisce che l'ammontare complessivo annuo di tali misure è definito mediante la determinazione di un'aliquota della componente della tariffa elettrica pari a 0,015 centesimi di euro per ogni chilowattora consumato, con aggiornamento annuale sulla base degli indici ISTAT dei prezzi al consumo. Il contributo è assegnato annualmente con deliberazione del CIPE, sulla base delle stime di inventario radiometrico dei siti determinato annualmente con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, su proposta dell'APAT (oggi ISPRA), valutata la pericolosità dei rifiuti, ed è ripartito per ciascun territorio in pari misura tra il comune e la provincia.
La legge n. 368 del 2003 prevede, inoltre, che alla data della messa in esercizio del deposito nazionale le misure siano trasferite al territorio che ospita il deposito, proporzionalmente alla allocazione dei rifiuti radioattivi.
Salvo quest'ultima norma - che ovviamente non ha avuto ancora applicazione ma che, come si dirà, è stata modificata dalle disposizioni più recenti recate dalla legge n. 75 del 2011 - la disciplina delle misure compensative è a tutt'oggi immutata, ad eccezione di due punti:
- dopo il primo anno di applicazione, il 2004, l'ammontare complessivo dei contributi da corrispondere è stato ridotto dalle leggi finanziarie;
- la legge n. 13 del 2009, di conversione del decreto legge n. 208 del 2008, ha ridotto dal 50 per cento al 25 per cento del contributo relativo a ciascun sito la quota spettante alla provincia, attribuendo il restante 25 per cento ai comuni confinanti con quello nel cui territorio è ubicato il sito e ripartendo tra essi la cifra risultante in proporzione alla superficie e alla popolazione residente nel raggio di dieci chilometri dall'impianto.
In fase di prima applicazione, per la definizione della quota spettante a ciascun sito l'ISPRA (allora APAT) propose una serie di criteri che consentivano di tradurre i due parametri indicati alla legge - cioè, per ogni sito, l'inventario radiometrico e la pericolosità - in percentuali dell'ammontare complessivo delle misure compensative da ripartire.
In particolare, per quanto riguarda l'inventario radiologico di ogni sito, l'ISPRA ha tenuto conto, separatamente, delle tre componenti che lo formano: la radioattività presente sulle strutture dell'impianto, la quantità di radioattività nei rifiuti detenuti in esso, la quantità di combustibile nucleare eventualmente presente. Per quanto attiene alla pericolosità, ai rifiuti è stato attribuito un peso doppio rispetto alle altre due componenti e ciò in quanto dalle analisi di sicurezza condotte ai fini della predisposizione dei piani di emergenza risulta che, nella attuale situazione dei siti, dove vi sono impianti spenti ormai da molti anni, gli incidenti potenzialmente più gravosi sono
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quelli che coinvolgono i rifiuti, come ad esempio un incendio in un deposito. Per lo stesso motivo, un peso doppio è stato inoltre attribuito ai rifiuti non condizionati rispetto a quelli condizionati. L'ISPRA ha inoltre valutato che, in considerazione delle predisposizioni di sicurezza adottate sui siti, la pericolosità dei rifiuti non cresce linearmente con la loro quantità, ma in misura meno che lineare, e di ciò ha tenuto conto traducendo la quantità totale di rifiuti presenti in ciascun sito con una particolare funzione matematica. Per il sito del Centro comune di ricerche di ISPRA, il cui esercente è la Commissione europea, ma dove sono state svolte anche attività a favore di esercenti italiani, la percentuale spettante è stata assunta pari al 50 per cento di quella risultante dai calcoli svolti come sopra descritto.
In tabella 7 sono riportati i valori percentuali relativi agli anni 2004-2010 ai quali l'applicazione dei criteri ha dato luogo.
Le variazioni delle percentuali che si possono riscontrare tra i diversi anni sono dovute prima, sino al 2008, a limitate oscillazioni nell'inventario dei rifiuti dei vari impianti, poi, negli anni 2009 e 2010, alle spedizioni verso la Francia del combustibile nucleare dalla centrale di Caorso, che da un lato hanno determinato l'abbassamento della quota relativa a detta centrale e, correlativamente, hanno portato all'innalzamento di quelle spettanti agli impianti dove il combustibile irraggiato continua ad essere presente, deposito Avogadro, centrale di Trino e, in misura minore, impianto ITREC.
A questo riguardo vi è da osservare che applicazione «tal quale» dei criteri sopra sintetizzati, in un contesto che, per quanto attiene al combustibile irraggiato, è diverso da quello in base al quale è stata formulata la norma di legge, potrebbe introdurre in un prossimo futuro, e in parte sta già introducendo, notevoli distorsioni nel meccanismo. La legge n. 368 del 2003 prevede, infatti, come accennato,
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che dalla data della messa in esercizio del deposito nazionale i contributi siano trasferiti al territorio che ospita il deposito stesso, proporzionalmente alla allocazione dei rifiuti radioattivi. La legge è quindi basata sull'ipotesi che i rifiuti siano mantenuti sui rispettivi siti fino a quando non saranno trasferiti al deposito nazionale. Ai tempi della promulgazione della legge anche il combustibile irraggiato avrebbe dovuto seguire lo stesso percorso. Successivamente, però, per il combustibile è stata scelta la via del riprocessamento all'estero, e man mano che avvengono le spedizioni, i siti che continuano a ospitare il combustibile residuo si trovano assegnate quote sempre maggiori dell'ammontare complessivamente destinato al combustibile, senza che la loro situazione oggettiva sia mutata o, addirittura, pur se il quantitativo di combustibile presente in essi possa essere diminuito. D'altra parte, sembra difficile che l'ISPRA possa di propria iniziativa proporre in corso d'opera la modifica, di così evidente valore politico, di un criterio pur originato da una sua proposta tecnicamente corretta.
In tabella 8 sono riportati i contributi che, in applicazione delle quote calcolate dall'ISPRA e sancite con decreto del Ministero dell'ambiente, sono stati stabiliti dal CIPE per gli anni 2004-2006 (delibera n. 101 del 2007).
Quota parte delle somme relative agli anni 2005 e 2006 venne erogata a titolo di acconto. Pertanto con la ripartizione dei contributi per il 2007, il CIPE, con la delibera n. 111 del 2008, effettuò il conguaglio, erogando a comuni e province gli importi riportati in tabella 9.
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Come si è già detto, la legge n. 13 del 2009 ha stabilito che metà delle quote destinate alle province venga ripartita tra i comuni confinanti con quelli in cui gli impianti sono localizzati, in maniera proporzionale alla superficie e alla popolazione residente entro un raggio di dieci chilometri dall'impianto. La norma ha inteso in tal modo assicurare una più equa distribuzione delle misure compensative tra le comunità concretamente interessate dalla presenza degli impianti. Questo era peraltro verosimilmente lo scopo dell'assegnazione di una quota originariamente pari al 50 per cento del totale alle province, le quali, però, non sempre sono state in grado di svolgere l'opera di bilanciamento, che comunque avrebbe potuto riguardare solo i comuni appartenenti alla stessa provincia, mentre non pochi sono i casi in cui comuni confinanti appartengano a province o addirittura a regioni differenti. A partire, quindi, dalla ripartizione dei contributi per l'anno 2008, i comuni beneficiati dalle misure compensative sono notevolmente più numerosi, come mostra la tabella 10, riferita al 2010, tratta dalla delibera CIPE 14/2012.
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7.2I contributi per il deposito nazionale
Per quanto riguarda il deposito nazionale, le misure compensative da assegnare agli enti locali nel cui territorio verrà localizzato erano già state indicate dalla legge n. 368 del 2003: si sarebbe trattato, a regime, dell'intero ammontare oggi ripartito tra i vari siti che ospitano gli impianti, con una fase transitoria in cui i contributi a quegli enti locali sarebbero cresciuti proporzionalmente alle quantità di rifiuti via via immessi nel deposito. In modo correlato, si sarebbero progressivamente ridotti, sino ad annullarsi, i contributi destinati agli enti locali interessati dai siti di origine dei rifiuti.
Questo meccanismo era stato confermato, per tutti gli impianti già esistenti e i relativi rifiuti, dal decreto legislativo n. 31 del 2010 (articolo 30), che prevedeva invece contributi da definire con decreto successivo per i rifiuti derivanti dalle centrali nucleari di nuova realizzazione allora programmate. Il decreto legislativo n. 41 del 2011 che aveva apportato modifiche allo stesso decreto legislativo n. 31 del 2010, aveva lasciato sostanzialmente immutato quell'articolo, che è stato invece profondamente modificato dalla legge n. 75 del 2011, con la riscrittura del comma 1 e l'abrogazione dei commi 2 e 3. Ora il testo vigente è il seguente:
«1. Al fine di massimizzare le ricadute socioeconomiche, occupazionali e culturali conseguenti alla realizzazione del parco tecnologico, e' riconosciuto al territorio circostante il relativo sito un contributo di natura economica. Il contributo di cui al presente comma e' destinato per il 10 per cento alla provincia o alle province nel cui territorio e' ubicato il sito, per il 55 per cento al comune o ai comuni nel cui territorio e' ubicato il sito e per il 35 per cento ai comuni limitrofi, intesi come quelli il cui territorio ricada in tutto o in parte all'interno di un'area compresa nei 25 chilometri dal centro dell'edificio deposito.
2. (abrogato)
3. (abrogato)
4. Le modalità di trasferimento dei contributi agli enti locali interessati sono regolate da una specifica convenzione da stipulare con la SOGIN Spa.
5. Gli enti locali beneficiari dei contributi di cui ai precedenti commi sono tenuti a riversare una quota percentuale degli stessi, secondo criteri e modalità trasparenti e predeterminati, alle persone residenti e alle imprese operanti nel territorio circostante il sito localizzate all'interno di un'area compresa entro i 20 chilometri dal centro dell'edificio deposito, attraverso una corrispondente riduzione del tributo comunale sui rifiuti o attraverso misure analoghe.»
La norma non appare sufficiente a disciplinare la materia in modo chiaro e compiuto.
Al di là della mancanza della definizione dell'entità del contributo da corrispondere o delle modalità della sua definizione e della mancanza di indicazioni sui criteri di ripartizione della quota del 35 per cento tra i comuni limitrofi, l'espressa abrogazione del comma 3, che stabiliva il mantenimento del meccanismo della legge n. 368 del
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2003 per i rifiuti esistenti, fa chiaramente intendere che non è da prevedere il trasferimento agli enti locali interessati dal deposto nazionale dei contributi oggi spettanti agli enti locali interessati dagli impianti esistenti. Sarà quindi necessario prevedere, in sede legislativa, le modalità di estinzione dell'erogazione di quei contributi.
A meno di non ipotizzare un errore materiale, non è poi immediatamente evidente la ratio dell'estensione dei benefici per gli enti locali sino a una distanza di venticinque chilometri dal centro dell'edificio deposito (riferimento che peraltro eccede in precisione, considerando che il deposito dovrà essere realizzato su più edifici) e della limitazione a venti chilometri per le ricadute dirette dei benefici sulla popolazione residente. La norma potrebbe tra l'altro comportare una ingiustificata disparità di obblighi tra gli enti locali il cui territorio è in tutto o in parte compreso nella fascia dei venti chilometri e quelli il cui territorio fosse invece esterno a quella fascia.
8.I rifiuti industriali e ospedalieri
8.1La gestione e il servizio integrato
Ogni anno in Italia vengono prodotti rifiuti radioattivi, in quantità stimabile in alcune centinaia di metri cubi, in impianti industriali, laboratori di ricerca e, soprattutto, gabinetti medici e strutture sanitarie in genere, ove si impiegano, per scopi differenti, materie radioattive.
I rifiuti contenenti solo radionuclidi a vita breve possono essere trattenuti negli stessi luoghi di produzione in attesa del loro decadimento per poi essere smaltiti come rifiuti «non radioattivi». La legge consente, infatti, di considerare «non radioattivi», e smaltire quindi nel rispetto della normativa generale sui rifiuti, quei residui che contengano solo radionuclidi con tempo di dimezzamento inferiore a 75 giorni e in bassissima concentrazione, minore di una determinata soglia (1 Bq/g).
Quando, invece, i rifiuti contengono radionuclidi a vita più lunga (cioè con tempo di dimezzamento maggiore di 75 giorni) o quando la concentrazione iniziale è tanto elevata da rendere comunque lunghi i tempi di attesa per il decadimento e quindi poco pratica la loro gestione all'interno delle installazioni ove sono stati prodotti, i rifiuti radioattivi vengono conferiti a un'impresa autorizzata alla loro raccolta. In Italia ve ne sono circa una decina. Si tratta delle società proprietarie di un deposito di rifiuti radioattivi autorizzato, ovvero di imprese che effettuano solo la raccolta dei rifiuti, per poi conferirli ai medesimi depositi autorizzati, con i cui gestori debbono aver stabilito in precedenza accordi in tal senso.
A loro volta, le società proprietarie dei depositi aderiscono al «servizio integrato» offerto dall'ENEA. Si tratta di un'iniziativa che l'ENEA, come ha riferito il commissario dell'ENEA stessa nel corso della propria audizione, ha avviato sin dal 1985 in base a disposizioni del CIPE e che è stata poi più formalmente sancita dal decreto legislativo n. 52 del 2007. Tale decreto stabilisce che il servizio integrato dell'ENEA «garantisce tutte le fasi di gestione delle sorgenti
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(radioattive ndr) non più utilizzate, quali la predisposizione al trasporto, il trasporto, la caratterizzazione, l'eventuale trattamento condizionamento e il deposito provvisorio. Al servizio possono aderire tutti gli impianti riconosciuti che svolgono attività di raccolta ed eventuale deposito provvisorio di sorgenti radioattive destinate a non essere più utilizzate».
Nell'ambito del servizio integrato, la fase di «deposito provvisorio» (dove la provvisorietà si riferisce al periodo durante il quale continuerà a mancare un sito nazionale per la sistemazione definitiva in sicurezza dei rifiuti radioattivi) avviene negli impianti di trattamento e deposito del centro della Casaccia, di proprietà ENEA.
Tale deposito venne originariamente realizzato per ospitare i rifiuti radioattivi prodotti negli impianti dello stesso centro della Casaccia. Nel 1980 fu costituita la NUCLECO, società a capitale misto ENI (60 per cento attraverso la società Ambiente) e ENEA (40 per cento), e ad essa fu affidata la gestione del deposito, che per questo è detto deposito NUCLECO, e dei relativi impianti per il trattamento dei rifiuti. Dal 1985 la NUCLECO, come esecutore delle prestazioni operative afferenti al servizio integrato, svolge l'attività di raccolta, trattamento e deposito dei rifiuti radioattivi prodotti dall'industria, dalla ricerca e dalla sanità, utilizzando a tal fine le strutture dell'ENEA, con la quale ha stipulato un'apposita convenzione. Sono custodite nel deposito anche sorgenti radioattive dismesse. Il deposito è inoltre destinazione di riferimento per le «sorgenti orfane», quelle sorgenti radioattive, cioè, che siano rinvenute al di fuori di impianti attrezzati per la loro manipolazione e delle quali non si conosca la provenienza.
Lo schema dei flussi dei rifiuti radioattivi nell'ambito del servizio integrato è descritto in figura 9. Le quantità di rifiuti sono espresse in metri cubi e fanno riferimento all'anno 2010, ma possono essere considerate rappresentative di un andamento medio, essendo l'attività del settore abbastanza stabilizzata.
Attraverso questi meccanismi, un deposito localizzato all'interno del comune di Roma, in una zona ormai raggiunta dall'espansione urbana e con strutture del tutto diverse da quelle di un vero e proprio deposito finale, ha finito col diventare di fatto, nell'ambito del servizio integrato e in assenza della soluzione appositamente studiata e decisa, il deposito nazionale dei rifiuti radioattivi e delle sorgenti di origine sanitaria e industriale e comunque di gran lunga il centro di raccolta più importante in Italia.
All'anomalia della situazione va aggiunto un altro aspetto di criticità che la soluzione di «deposito provvisorio» offerta dal servizio integrato presenta, messo in evidenza - questo - dal commissario dell'ENEA, il fatto cioè che, in assenza del deposito nazionale dove trasferire i rifiuti raccolti dalla NUCLECO, gli spazi disponibili per il loro stoccaggio nel centro della Casaccia sono destinati a giungere a saturazione in tempi non lunghi.
In esso sono oggi stoccati circa 6600 metri cubi di rifiuti radioattivi. Di questi, poco più di 2 mila metri cubi sono di proprietà SOGIN e pertanto di origine nucleare, mentre il resto è per la maggior parte afferente al servizio integrato. Negli impianti vi sono, inoltre, tra i 500 e i 600 metri cubi in fase di trattamento. Si tratta complessivamente,
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in termini di volume, del quantitativo nettamente più elevato presente in un singolo impianto e che da solo rappresenta un quarto del volume totale di tutti i rifiuti radioattivi presenti attualmente in Italia.
L'attività del deposito è d'altra parte al momento indispensabile, poiché, sino a quando non vi sarà il deposito nazionale dei rifiuti radioattivi o non verrà comunque adottata una diversa, adeguata soluzione, esso rappresenta il migliore punto di raccolta disponibile per i rifiuti prodotti dagli svariati impieghi di materie radioattive, in particolare per l'uso dei radiofarmaci, un uso chiaramente non suscettibile di interruzioni. Sotto questo profilo sono pienamente giustificati i termini positivi con i quali il commissario dell'ENEA ha descritto il servizio integrato di cui l'ente è titolare.
Nel 2004 la SOGIN ha acquistato, per circa 2 milioni di euro, la quota NUCLECO già di proprietà ENI, diventando così l'azionista di maggioranza. Nel corso del sopralluogo compiuto si è appreso che la stessa SOGIN è oggi interessata all'acquisto, dall'ENEA, della restante parte del pacchetto azionario, nonché delle strutture del deposito e degli afferenti sistemi di trattamento rifiuti.
8.2Depositi temporanei: i casi CANRC e CEMERAD
La necessità di punti di raccolta e di depositi temporanei nella gestione dei rifiuti radioattivi prodotti nelle attività non energetiche -
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sanità, industria, ricerca - ha favorito il sorgere di iniziative di assai dubbia opportunità o che in relazione alla vetustà delle strutture e all'assenza di un soggetto responsabile e qualificato deputato alla loro gestione in sicurezza, hanno dato luogo a situazioni di particolare criticità. Al riguardo, la Commissione ha raccolto informazioni in merito alle vicende legate a due depositi, il deposito CANRC di Castelmauro e il deposito CEMERAD di Statte, la prima apparentemente conclusa, ma che potrebbe dar luogo ancora a qualche strascico, la seconda tuttora completamente in atto.
8.2.1.Il caso CANRC
Castelmauro è un piccolo comune di circa 1700 abitanti, posto sull'Appennino molisano, a 700 metri di altezza. Nel 1979 una influente persona del posto, Quintino De Notariis, chiese e ottenne l'autorizzazione per costituire un deposito di rifiuti radioattivi all'interno di un locale - sostanzialmente una cantina - proprietà della famiglia, a sua volta piuttosto in vista (il fratello del De Notariis, avvocato, aveva tra l'altro ricoperto la carica di sindaco).
Il locale si trovava nel centro storico del paese (in figura 10 la via di accesso e l'ingresso del locale). Appare di immediata evidenza che sia la sua ubicazione, sia le sue caratteristiche strutturali lo avrebbero dovuto far ritenere totalmente inidoneo allo scopo per il quale veniva proposto. Basti al riguardo pensare solo a quali difficoltà vi sarebbero state a effettuare un intervento di emergenza in caso, ad esempio, di incendio.
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Tuttavia, il medico provinciale, cui competeva nella legislazione allora vigente (decreto del Presidente della Repubblica 13 febbraio 1964, n. 185) il potere autorizzativo per depositi del tipo e dimensioni di quello in questione, rilasciò l'autorizzazione, dopo aver acquisito il parere favorevole di una apposita commissione provinciale, anch'essa prevista dalla legge del tempo e della quale sembra peraltro che il richiedente, persona laureata in fisica, facesse parte.
Il deposito fu oggetto di diverse ispezioni da parte dell'ente di controllo, alle quali fece seguito, a quanto risulta, più d'un rapporto degli ispettori - ufficiali di polizia giudiziaria - alla magistratura competente, senza tuttavia effetti sostanziali. Altrettanto privi di effetto furono, evidentemente, atti amministrativi come il decreto del presidente della giunta della regione Molise del 18 ottobre 2002, che faceva obbligo al De Notariis di rimuovere i rifiuti entro 60 giorni.
Nel tempo il deposito è giunto a contenere circa 2 mila fusti di rifiuti radioattivi, essenzialmente di origine ospedaliera, per un volume complessivo di oltre cento metri cubi, ampliandosi in altri due locali di caratteristiche del tutto simili, anche se di superficie minore, posti nelle immediate adiacenze del primo (figura 11).
La situazione è ulteriormente peggiorata nel 2007, con la morte del De Notariis, avvenuta durante un viaggio in Sudamerica, un evento la cui autenticità sembra abbia sollevato dubbi nella comunità locale, ma che ha lasciato comunque il deposito sostanzialmente incustodito. Risulta, infatti, che gli eredi naturali abbiano rinunciato a ogni
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eredità, essendo peraltro già proprietari dei locali, e abbiano anzi promosso azioni legali affinché tali locali venissero liberati a spese della pubblica amministrazione, un risultato che - indipendentemente da quelle azioni che li avrebbero visti soccombenti - è stato comunque ottenuto.
In considerazione della situazione di rischio incombente che si era determinata, l'ISPRA, nella sua qualità di ente di controllo, ha richiesto l'intervento delle autorità di protezione civile, in attuazione dell'articolo 126-bis del decreto legislativo n. 230 del 1995. La norma richiamata stabilisce che, nelle situazioni che comportino un'esposizione prolungata dovuta, tra le altre cause, a un impiego di sorgenti radioattive non più in atto (nella definizione data dal decreto legislativo costituisce impiego anche la sola detenzione), le autorità competenti per gli interventi ai sensi della legge n. 225 del 1992 (interventi di protezione civile) adottano i provvedimenti opportuni.
Il Presidente del Consiglio dei ministri, con propria ordinanza di protezione civile del 3 ottobre 2008, n. 3707, ha stanziato 1,5 milioni di euro per la bonifica del deposito, finanziati in parti uguali dal dipartimento della protezione civile e dalla regione Molise, e ha nominato commissario delegato per l'intervento il prefetto di Campobasso pro tempore, richiedendo inoltre all'ISPRA ogni utile collaborazione e l'immediato rilascio di pareri, autorizzazioni e provvedimenti di competenza. Il commissario delegato, nell'audizione tenuta il 27 novembre 2012, ha presentato alla Commissione un'ampia e dettagliata ricostruzione del caso.
Le operazioni di bonifica sono state condotte tra il 2009 e il 2010, al termine di una complessa procedura di gara e di altre attività preparatorie, tra le quali la predisposizione di un piano di emergenza per eventuali incidenti nel corso della movimentazione dei fusti. Nella figura 12 l'interno del locale principale, prima e dopo l'intervento di bonifica.
L'intervento è stato effettuato da un'associazione temporanea di imprese costituita dalla società NUCLECO, che ha effettuato la rimozione dei rifiuti e la decontaminazione dei locali, dalla società Protex, che ha effettuato presso i propri impianti di Forlì la
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caratterizzazione dei rifiuti, e dalla società Campoverde, nei cui depositi sono destinati i rifiuti dopo le operazioni di trattamento svolte in un impianto tedesco.
Solo a seguito della conclusione dell'intervento, è stato individuato, ancora nei pressi dei locali bonificati, un quarto locale, di piccole dimensioni, al cui interno sono visibili fusti simili a quelli rimossi dal deposito. Ad oggi non è stato possibile accertare se si tratti di contenitori vuoti né la natura del loro eventuale contenuto, tanto meno rimuoverli.
Il commissario delegato pro tempore ha, infine, informato la Commissione dell'esistenza, nell'ambito locale, di voci secondo le quali, oltre a quelli immessi nei locali adibiti a deposito, altri rifiuti radioattivi sarebbero stati sepolti nelle campagne intorno al paese. La Commissione non ha avuto modo di approfondire l'attendibilità di tali voci, che peraltro non sono le uniche a suscitare o ad alimentare sospetti intorno a una installazione nucleare o a un deposito di rifiuti radioattivi. Se le voci risultassero confermate non sarebbero immediatamente evidenti i motivi che avrebbero spinto l'esercente di un deposito formalmente autorizzato, seppure di fatto inidoneo, a effettuare uno smaltimento illecito anziché utilizzare il proprio deposito, compiendo un reato più grave di quelli contravvenzionali previsti dalla legislazione di settore.
8.2.2Il caso CEMERAD
Il deposito CEMERAD è ubicato nel comune di Statte, nelle immediate vicinanze di Taranto, fuori dell'area urbana, pur se non a grande distanza da alcuni edifici residenziali.
Il deposito, che è costituito da un unico capannone (figura 13), ospita rifiuti radioattivi di origine ospedaliera e industriale e iniziò la sua attività nel 1984, quando fu concessa l'apposita autorizzazione da parte del medico provinciale. Il responsabile del deposito, Giovanni Pluchino, lo aveva realizzato su un terreno a tal fine preso in affitto da proprietari che risultano ancor oggi essere gli stessi.
A seguito di vicende giudiziarie (il Pluchino sarebbe stato condannato in sede penale dal Tribunale di Taranto per aver realizzato una discarica di rifiuti pericolosi senza la prescritta autorizzazione e per aver gestito un impianto di raccolta di rifiuti radioattivi, questo autorizzato, senza tuttavia rispettare le specifiche norme di buona tecnica al fine evitare rischi di esposizione alle persone del pubblico), dall'anno 2000 il deposito è posto in custodia giudiziaria, affidata al comune di Statte. In particolare, custode risulta attualmente essere l'assessore all'ecologia della giunta comunale in carica.
Risale al 2000 l'ultimo inventario dei rifiuti radioattivi e delle sorgenti dismesse, dal quale risultano presenti nel deposito 1.026 metri cubi di rifiuti di prima categoria, il cui contenuto di radioattività si sarà nel frattempo certamente ridotto, 94 metri cubi di seconda categoria e 20 metri cubi di terza, tutti in attesa, per quanto necessario, di trattamento e condizionamento.
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I rifiuti sono detenuti entro fusti metallici il cui numero - a causa della loro fitta collocazione, che non lascia spazi per ispezioni visive (figura 14) - non può essere facilmente determinato con esattezza, ma è stimato tra 12 mila e 14 mila.
Secondo quanto comunicato dall'ISPRA, il deposito si trova oggi in uno stato di sostanziale abbandono ed esposto a ogni possibile evento. Sia il capannone, sia i fusti presentano segni di notevole degrado. La situazione sarebbe tale da suggerire l'applicazione anche a questo caso delle disposizioni contenute nel già ricordato articolo 126-bis del decreto legislativo n. 230 del 1995, in forza delle quali è stato bonificato il deposito CANRC di Castelmauro. Il ricorso a tali disposizioni è stato in particolare suggerito dall'ISPRA in una nota che l'Istituto, sempre come comunicato alla Commissione, ha trasmesso in data 2 maggio 2012 al dipartimento della protezione civile, alla regione Puglia, al prefetto di Taranto e al sindaco di Statte, a seguito di un sopralluogo effettuato sul sito nell'aprile 2012.
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Rispetto a quello CEMERAD, il deposito di Castelmauro era nettamente più piccolo, ma le attività di bonifica erano rese particolarmente complesse dalla necessità di operare negli stretti vicoli di un centro abitato. Ciò significa che il costo di un eventuale intervento completo per la bonifica del sito CEMERAD sarebbe certamente più elevato di quello sostenuto nel caso del deposito molisano - 1,5 milioni di euro - ma il maggior costo non dovrebbe essere proporzionale alle dimensioni. Bisogna inoltre tener conto di costi fissi, praticamente indipendenti dall'entità dell'intervento, come quelli per l'installazione del cantiere.
Al riguardo, per la bonifica del sito CEMERAD erano già stati stanziati 3,7 milioni di euro nell'ambito delle risorse assegnate alla regione Puglia, per circa 393 milioni di euro complessivi, dalla delibera CIPE n. 35/05 «Ripartizione delle risorse per interventi nelle aree sottoutilizzate - Rifinanziamento legge 208/1998 periodo 2005-2008 (legge finanziaria 2005)». Tuttavia, con la delibera n. 2326 del 28 novembre 2008, la giunta regionale decideva la «sostituzione dell'intervento denominato »Completamento delle attività di risanamento
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dell'area ex CEMERAD in agro di Statte« (cod. ACTA 02) dell'importo di 3, 7 milioni di euro. Tale sostituzione è necessaria poiché per il suddetto intervento non sarà possibile assumere impegni giuridicamente vincolanti entro il 31 dicembre 2008 in quanto, nel corso delle attività di approvazione del progetto operativo di bonifica, sono emerse problematiche legate alla particolare natura del rifiuto, identificato come radioattivo e, pertanto, disciplinato dal decreto legislativo n. 230 del 1995».
Nel giugno 2012 il comune di Statte, utilizzando un finanziamento provinciale che ammonta complessivamente a 1,5 milioni di euro e sulla base di un progetto elaborato da uno studio professionale di Bari (Romanazzi - Boscia e associati Srl, contratto del 16/05/2011), ha bandito una gara per «l'affidamento, con contratto di appalto, dei lavori di caratterizzazione chimica e fisica dei rifiuti presenti all'interno del capannone ex Cemerad».
L'importo a base di gara, al netto di i.v.a., è di 1.088.532,23 euro. Il bando è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 25 giugno 2012, con termine per la presentazione delle offerte al 23 luglio e apertura delle buste fissata per il 25 luglio.
La caratterizzazione è un'operazione volta a definire il contenuto effettivo di un rifiuto ed è certamente necessaria nell'ambito di un processo di bonifica e propedeutica ad altre attività, ma evidentemente da sola non serve ad attenuare in alcun modo una eventuale situazione di criticità. Sembrerebbe inoltre ragionevole che, inquadrata in un più ampio processo di bonifica - come è avvenuto nel caso ricordato del deposito di Castelmauro - il suo costo verrebbe sensibilmente ridotto.
Ma c'è anche da osservare che dall'esame dei documenti di gara è emerso che oggetto dell'appalto non è la caratterizzazione di tutti i rifiuti presenti all'interno del capannone, ma solo una parte di essi. Si tratta di quei fusti che, stando alla documentazione disponibile all'interno del deposito o all'etichetta posta su di essi, contengono rifiuti non radioattivi, ovvero rifiuti radioattivi il cui tempo di dimezzamento è inferiore a 75 giorni e che pertanto, in base alla legge, possono essere gestiti come rifiuti speciali, non radioattivi. L'appalto è quindi finalizzato non alla caratterizzazione radiologica dei rifiuti presenti nel deposito, ma solo all'attribuzione di un codice CER a quella parte di rifiuti che possono esse considerati non più radioattivi. Sono esclusi in questa fase anche dalla caratterizzazione chimico fisica i rifiuti sicuramente radioattivi e quelli privi di etichetta e quindi di ogni indicazione in merito al contenuto.
Nel «diagramma di flusso» estratto dalla documentazione di gara (figura 15), le attività oggetto dell'appalto sono chiaramente delimitate dalla linea tratteggiata.
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Ogni altra operazione, dalla caratterizzazione dei rifiuti radioattivi al loro allontanamento dal sito di Statte, allo smaltimento dei rifiuti «non radioattivi» ora oggetto dell'attribuzione del codice CER, è rinviata ad altra fase, e cioè alle fasi B e C, come mostra la figura.
Sempre dai documenti di gara si evince che:
- l'attribuzione del codice CER viene fatta sulla base di analisi su campioni estratti dal 10 per cento dei fusti da caratterizzare;
- la verifica dell'attendibilità della documentazione o dell'etichetta che indica come «non radioattivo» il contenuto di un fusto viene effettuata con misure radiometriche a campione su un fusto per ogni lotto di 200 fusti, un campionamento sulla cui rappresentatività si potrebbe avanzare qualche dubbio.
È apparsa peraltro piuttosto approssimativa la conoscenza da parte del sindaco di Statte dei termini della gara bandita dal suo
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comune: nel corso dell'audizione del 1o agosto 2012, il sindaco ha sostenuto e confermato, contro l'evidenza degli atti, da lui stesso in parte consegnati alla Commissione, che la gara si riferisce alla caratterizzazione completa i tutti i fusti contenuti nel deposito, con misure fusto per fusto. Queste affermazioni non sono state esplicitamente corrette neppure nella nota successivamente trasmessa alla Commissione, che, dopo ulteriori verifiche, aveva chiesto chiarimenti al riguardo.
La nota informa comunque che il comune non ha proceduto all'aggiudicazione e della successiva stipula del contratto di appalto per la mancanza dell'adozione formale da parte della provincia di Taranto dell'impegno relativo a una quota residua, pari a poco meno di un terzo dell'intero finanziamento di 1,5 milioni di euro.
In ogni caso, le perplessità della Commissione non sono tanto legate agli aspetti specifici della gara - la sua limitata estensione dell'appalto e il campionamento dei fusti - quanto al percorso complessivamente scelto dal comune di Statte, non economico e di nessun beneficio immediato, che impegna una cifra non trascurabile per una sola, parziale caratterizzazione, rinviando a un futuro indeterminato ogni operazione concretamente efficace per la riduzione del rischio.
Dalla stampa locale e dai siti delle associazioni ambientaliste attive nella zona traspaiono chiaramente le condizioni di pressione in cui si trova l'amministrazione comunale, alla quale vengono richiesti passi concreti per la bonifica del deposito CEMERAD, e la caratterizzazione dei rifiuti, di cui si parla da diverso tempo, è attesa come un passo concreto e decisivo. Sembra inoltre che i fondi finanziati dalla provincia debbano essere impiegati entro l'anno corrente. Sta di fatto, tuttavia, che il percorso scelto dal comune di Statte non appare caratterizzato da un'efficacia e da un'economicità particolarmente elevate.
9. Le funzioni di controllo
9.1L'ISPRA
L'approfondimento sul tema dei rifiuti radioattivi che la Commissione ha condotto si è svolto durante una fase di incertezza e di precarietà nell'attribuzione delle funzioni di controllo, una fase lunga e tuttora irrisolta.
Al momento, il soggetto al quale la normativa di legge attribuisce le funzioni di autorità nazionale di controllo per la sicurezza nucleare e la radioprotezione è l'ISPRA, Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, nato dalla fusione dell'APAT, dell'ICRAM e dell'INFS prevista dalla legge n. 133 del 2008, di conversione del decreto legge n. 112 del 2008. Durante tutta questa incerta fase e pur tra gli eventi dei quali si dirà, l'ISPRA ha continuato a svolgere le funzioni di controllo, sue sin dalla nascita.
Tali funzioni erano infatti proprie dell'APAT - Agenzia per la protezione dell'ambiente e per i servizi tecnici - uno dei tre soggetti
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confluiti nell'ISPRA. L'APAT, a sua volta, le aveva ereditate dall'ANPA - Agenzia nazionale per la protezione dell'ambiente - alla quale erano state attribuite dalla legge n. 61 del 1994. Detta legge, nell'istituire l'Agenzia, le aveva trasferito il personale, le risorse finanziarie, i mezzi tecnici e le funzioni della DISP, la direzione dell'ENEA che sino ad allora aveva esercitato i controlli sulla sicurezza e sulla protezione dalle radiazioni ionizzanti.
Con quel trasferimento la legge aveva dato risposta a due problemi: da un lato, aveva assicurato alla nuova agenzia il personale e i mezzi per avviare concretamente le attività; dall'altro aveva finalmente risolto una situazione di incompatibilità esistente sin dalle origini all'interno dell'ENEA, che oltre ad esercitare i controlli tramite una delle sue direzioni, era allora, insieme all'ENEL, il maggiore esercente nazionale e quindi, come d'altra parte è ancora oggi, un soggetto controllato.
Inoltre, il trasferimento delle funzioni di controllo all'ANPA aveva - se non formalmente risolto - reso comunque in pratica non significativa un'altra anomalia del sistema italiano, costituita dal fatto che l'amministrazione procedente per il rilascio delle autorizzazioni in materia nucleare e di impiego delle sorgenti di radiazioni fosse il Ministero dell'industria (oggi è il Ministero dello sviluppo economico), la stessa amministrazione, cioè, che esercita le funzioni di indirizzo nei confronti degli esercenti nucleari pubblici e che ha tra i suoi settori di intervento istituzionale la produzione industriale. L'ANPA, come oggi l'ISPRA, era posta invece nell'ambito del Ministero dell'ambiente. Il suo parere, obbligatorio e di fatto vincolante, necessario per il rilascio delle autorizzazioni, ha reso quindi ininfluenti la natura dell'amministrazione che emana gli atti autorizzativi e i suoi rapporti con i soggetti autorizzati.
Sotto questo profilo, il sistema italiano risponde oggi pienamente ai requisiti internazionali e - con maggior cogenza - comunitari che prevedono l'effettiva indipendenza dell'ente di controllo da quanti svolgono funzioni di promozione o comunque eserciscono impianti nucleari. Tale principio costituisce uno dei punti cardine della Convenzione sulla sicurezza nucleare, della Convenzione congiunta sulla sicurezza della gestione del combustibile irraggiato e dei rifiuti radioattivi, entrambe sottoscritte e ratificate dall'Italia; della direttiva 2009/71/Euratom, sulla sicurezza degli impianti nucleari, e della direttiva 2011/70/Euratom, sulla gestione del combustibile nucleare esaurito e dei rifiuti radioattivi.
Questa rispondenza è stata sottolineata, nel corso della propria audizione del 7 febbraio 2012, dal direttore generale dell'ISPRA stesso, che ha ricordato come l'assetto istituzionale e regolatorio italiano sia stato più volte oggetto di esame nell'ambito delle conferenze di revisione che si svolgono periodicamente presso l'Agenzia internazionale per l'energia atomica in attuazione delle convenzioni sopra menzionate e sia sempre stato riconosciuto in linea con gli standard internazionali.
Meno evidente, ed anzi ormai critica, è invece la rispondenza ai requisiti - posti dagli stessi trattati e dalle stesse direttive - che attengono alle risorse di cui l'ente di controllo deve disporre e al mantenimento e all'accrescimento delle sue competenze.
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Il sottodimensionamento a cui è giunto il personale che nell'ISPRA è dedicato ai controlli di sicurezza nucleare e di radioprotezione - oggi ridotto a poche decine di unità - è ormai tanto noto che alla Commissione è stato fatto rimarcare anche dal rappresentante dell'Autorità per l'energia elettrica e il gas, un soggetto che tra quelli auditi è certamente tra i meno direttamente coinvolti dalle vicende dell'ente di controllo. La necessità di «prevedere meccanismi di integrazione delle risorse umane» non è stata certamente sottaciuta dal direttore generale dell'Istituto, che ha tra l'altro sottolineato le indubbie difficoltà che ciò comporta, per il fatto che il compito richiede non solo una qualificata formazione professionale di base, ma anche un'esperienza che non può che essere acquisita sul campo, anche attraverso partecipazioni ad attività a livello internazionale. Ha inoltre ricordato che per lo svolgimento delle funzioni di autorità e di regolamentazione e controllo vi è un approccio mentale e una cultura specifica, che vanno al di là delle sole conoscenze sulla tecnologia nucleare.
Queste considerazioni appaiono pienamente condivisibili. Meno evidenti sono i motivi per i quali il direttore generale dell'ISPRA ritiene, come ha dichiarato, che l'integrazione delle risorse umane debba essere fatta a valle della definizione del quadro istituzionale e organizzativo, cioè solo dopo che sarà chiusa la fase transitoria, che, in diverse forme, si protrae ormai da alcuni anni. In realtà, proprio il lungo tempo necessario per la formazione di un tecnico dei controlli e per la piena acquisizione del ruolo proprio dell'autorità di sicurezza nucleare dovrebbe indurre ad affrettare quanto più possibile l'indispensabile rafforzamento dell'organico, ad evitare che la criticità già ampiamente in atto e, come visto, da alcuni ritenuta, a torto o a ragione, una delle principali cause del lento procedere delle attività sui siti, finisca col diventare per queste un vero e proprio impedimento, o peggio, col rendere inefficace l'azione di controllo.
La criticità risulta in tutta la sua evidenza se si considerano puntualmente l'ampiezza e la complessità dei compiti da svolgere:
- istruttorie tecniche, con la formulazione del relativo parere e la definizione delle prescrizioni, ai fini del rilascio di tutti gli atti autorizzativi per i quali siano competenti le amministrazioni dello Stato (decommissioning e modifiche degli impianti nucleari; maggiori installazioni per l'impiego di sorgenti di radiazioni ionizzanti e per il deposito di rifiuti radioattivi; attività di trasporto di materie radioattive; attività di raccolta di rifiuti);
- approvazione di progetti di dettaglio nell'ambito delle autorizzazioni di cui al punto precedente; rilascio degli attestati di sicurezza e dei benestare per i singoli trasporti di maggiore rilievo; certificazione degli imballaggi da trasporto;
- vigilanza ispettiva sugli impianti nucleari e sulle installazioni con radioisotopi e macchine radiogene, sul trasporto di materie radioattive e nucleari, sulla protezione fisica passiva di impianti e materie nucleari; vigilanza sul rispetto del regime delle salvaguardie (non proliferazione), assicurando altresì, al riguardo, lo svolgimento degli adempimenti derivanti dagli obblighi internazionali dell'Italia;
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- supporto alle autorità competenti per la predisposizione e l'aggiornamento dei piani di emergenza per incidenti nucleari e radiologici, in particolare in fase di definizione dei presupposti tecnici e con pareri sulla elaborazione dei piani (i piani riguardano i singoli impianti, i trasporti, i porti interessati da movimento di naviglio a propulsione nucleare); supporto alle autorità competenti per la gestione di eventuali emergenze, compresi i casi di ritrovamento di sorgenti radioattive nei rottami metallici o di importazione di materiali radiocontaminati;
- in campo regolatorio, supporto alle amministrazioni competenti ai fini dell'elaborazione dei decreti ministeriali previsti dalla legge; elaborazione di guide aventi valore di norme di buona tecnica;
- rappresentanza dell'Italia, o supporto tecnico al Ministero degli esteri, in tutte le sedi comunitarie e internazionali ove vengono elaborate normative o vengono comunque trattati temi di sicurezza nucleare e di radioprotezione.
A questi compiti generali sono oggi da aggiungere quelli specifici connessi alla realizzazione del deposito nazionale per i rifiuti radioattivi: definizione dei requisiti per il sito, pareri sulle localizzazioni proposte e sui progetti.
È inoltre affidato all'ISPRA il coordinamento delle reti nazionali di monitoraggio della radioattività ambientale, compito che può essere considerato accessorio rispetto a quelli più strettamente propri dell'autorità di controllo. Vi è anche la gestione del laboratorio di misure radiometriche, di cui un ente di controllo deve essere dotato.
9.2Il nuovo assetto
Nell'ambito del progettato ritorno alla produzione di energia nucleare, la legge 23 luglio 2009, n. 99, ha istituito un nuovo ente al quale affidare le funzioni di controllo, l'Agenzia per la sicurezza nucleare.
L'Agenzia non è di fatto mai nata per la mancata emanazione di alcuni provvedimenti di attuazione previsti dalla legge e a ciò è dovuto il fatto che l'ISPRA abbia continuato a svolgere le funzioni di controllo, come era d'altra parte previsto dalla stessa legge n. 99 del 2009. In base a tale normativa, infatti, fino a quando l'Agenzia non fosse diventata operativa, le sue funzioni avrebbero continuato ad essere affidate all'ISPRA medesimo.
Nel differente contesto che si è determinato dopo l'incidente del marzo 2011 nella centrale nucleare giapponese di Fukushima, quando la legge 26 maggio 2011 , n. 75, e, soprattutto, gli esiti del referendum popolare del giugno successivo hanno chiuso la prospettiva del ritorno al nucleare, il decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, ha soppresso l'Agenzia.
Quella decisione ha reso superfluo ogni eventuale approfondimento da parte della Commissione delle caratteristiche di quella che sarebbe stata la nuova agenzia e delle logiche sulle quali la sua istituzione si fondava, evidentemente non limitate alla necessità di
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rafforzare le funzioni di controllo, dal momento che questa sola finalità si sarebbe potuta perseguire semplicemente agendo in modo diretto sull'ente cui tali funzioni erano già affidate.
L'istituzione della nuova agenzia ha invece finito col determinare l'ulteriore indebolimento dell'ISPRA nelle sue funzioni di autorità di controllo. Infatti, solo con la consapevolezza che per quelle funzioni l'Istituto era ormai chiamato a svolgere compiti di mera reggenza - la stampa già riportava la discussione in atto negli ambienti governativi su quale città avrebbe dovuto ospitare i nuovi uffici - si può spiegare come nell'ISPRA, un ente il cui organico supera ampiamente le mille unità, non si sia provveduto neppure a rimpiazzare numericamente, nell'ambito della distribuzione delle risorse umane, le competenze in uscita dal servizio, per una sua funzione di evidente, assoluto rilievo.
Nel sopprimere l'Agenzia per la sicurezza nucleare, il decreto legge n. 201 del 2011, all'articolo 21, comma 13 e allegato A, ha previsto che le funzioni già ad essa destinate vengano incorporate dal Ministero dello sviluppo economico, di concerto con il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. Per dare attuazione a questa disposizione il decreto legge ha previsto l'emanazione di un decreto non regolamentare da parte del Ministro dello sviluppo economico, quale Ministro interessato, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze e con il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione (articolo 21, comma 15 e allegato A).
Di fronte agli evidenti problemi che l'affidamento delle funzioni di autorità nazionale di controllo al Ministero dello sviluppo economico comporta, in fase di conversione del decreto legge, all'articolo 21 è stato aggiunto un comma, il 20 bis, che, oltre a includere l'intesa con il Ministro dell'ambiente nell'emanazione del previsto decreto non regolamentare, richiede che l'assetto organizzativo che con tale decreto dovrà essere definito sia «rispettoso delle garanzie di indipendenza previste dall'Unione Europea».
Nel comma aggiunto viene inoltre confermata, in via transitoria, sino all'emanazione del decreto ministeriale, l'attribuzione delle funzioni di controllo all'ISPRA.
La perdurante transitorietà delle attribuzioni all'ISPRA prolunga inevitabilmente lo stato di incertezza che, come detto, ha già prodotto in questi anni effetti consistenti, in termini di perdita quantitativa e qualitativa delle competenze specifiche esistenti in materia di controlli di sicurezza nucleare e di radioprotezione.
Ma è soprattutto importante, a questo punto, comprendere come la fase transitoria si concluderà. Se si chiudesse, come la lettera della legge indica, con l'attuazione dell'incorporazione delle funzioni di controllo nel Ministero dello sviluppo economico, di concerto con il Ministero dell'ambiente, si porrebbero due questioni. La prima, di carattere operativo, consisterebbe nell'individuare le modalità da adottare affinché le attività connesse a tali funzioni, che includono tra l'altro compiti ispettivi, possano essere svolte in modo efficiente da un ministero, di concerto con un secondo ministero. La seconda, ancor più rilevante, sarebbe la compatibilità dell'attribuzione delle funzioni di controllo al Ministero dello sviluppo economico rispetto al principio
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di indipendenza di tali funzioni sancito, come già ricordato, a livello comunitario e internazionale.
Tra i Paesi con cui l'Italia si può confrontare, solo uno ha avuto nei tempi recenti un assetto dei controlli nucleari simile a quello che si avrebbe con il loro trasferimento al Ministero dello sviluppo economico: il Giappone, dove l'agenzia per la sicurezza nucleare è stata a lungo una direzione del Ministero dell'industria. Tale assetto è stato modificato a seguito di una riconsiderazione dopo l'incidente di Fukushima: nel settembre 2012 è stata costituita una nuova agenzia posta nell'ambito del Ministero dell'ambiente, una soluzione simile a quella da anni, e ancora oggi, in atto in Italia.
In ogni caso, dalle dichiarazioni rese alla Commissione, gli atti in corso di elaborazione presso i ministeri competenti non sembrano diretti all'attuazione delle indicazioni letterali della legge.
Durante l'audizione del 7 marzo 2012, il Ministro dello sviluppo economico ha riferito: «Stiamo lavorando, quindi, insieme al Ministero dell'ambiente per l'emanazione del decreto che individua in via definitiva la struttura che svolgerà le funzioni dell'ex Agenzia, partendo dalla piena valorizzazione delle strutture operative già esistenti, come il dipartimento nucleare di ISPRA vigilato dal Ministro dell'ambiente, cui peraltro sono transitoriamente affidate le funzioni, e dal rafforzamento con altri soggetti qualificati nel settore nucleare, come ENEA, in modo da poter avere in pochi mesi un organismo qualificato perfettamente operativo».
Nel corso della stessa audizione, il Ministro ha poi precisato: «L'entità che svolgerà il ruolo che prima era dell'Agenzia e che adesso, invece, è gestito dai due ministeri sarebbe, nelle nostre intenzioni, da collocarsi nel dipartimento nucleare di ISPRA, un'entità sorvegliata e sotto il controllo del Ministero dell'ambiente e, da questo punto di vista, ulteriormente anche distaccato dall'altro Ministero. Tuttavia, questa è la soluzione sulla quale stiamo lavorando e che, una volta messa a punto, sicuramente sarà illustrata nei dettagli».
Nella successiva audizione del 24 luglio 2012, il Ministro informava che uno schema di decreto era stato predisposto presso il Ministero dello sviluppo economico, informalmente concordato con il Ministero dell'ambiente. Tale schema prevede che le funzioni «saranno esercitate da una struttura ad hoc costituita presso l'ISPRA, dunque nell'ambito delle risorse umane e strumentali già presenti nell'ente. Questa struttura avrà piena autonomia tecnica e professionale rispetto al resto dell'Istituto, in linea con la normativa Euratom e IAEA; avrà un proprio responsabile scelto con criteri di massima professionalità nel campo specifico e sarà supportata da un organo di alta consulenza scientifica, la »consulta«, e da soggetti tecnico-scientifici, come l'ENEA, con adeguate competenze tecniche e caratteristiche d'indipendenza rispetto gli operatori del settore. La struttura sarebbe soggetta, poi, a una covigilanza del Ministero dello sviluppo e di quello dell'ambiente».
Queste indicazioni davano conferma di quanto aveva affermato sullo stesso tema il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare nell'audizione del 3 luglio 2012: «Stiamo cercando di individuare una soluzione, d'accordo anche con il Ministero dello sviluppo economico, che tenga conto delle competenze esistenti presso
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ISPRA, da un lato, e di quelle esistenti presso ENEA». Il Ministro Clini aveva però poi aggiunto: «non credo che ISPRA ed ENEA debbano lavorare insieme, ma che dobbiamo mettere insieme le risorse che ci sono in ISPRA ed ENEA per quest'attività che deve essere indipendente da ENEA, che ha anche un'attività di esercizio, ma anche da ISPRA e su questo stiamo cercando di lavorare».
I contorni della soluzione prospettata alla Commissione sono quindi piuttosto sfumati. In ogni caso, già durante le audizioni sono stati evidenziati due suoi possibili punti nevralgici in relazione al principio di indipendenza delle autorità di controllo sancito dalle direttive comunitarie: il ruolo che in essa potrà avere l'ENEA, che è ancora proprietaria ed esercente di impianti nucleari e di depositi di rifiuti radioattivi, e la funzione di «covigilante» prevista per il Ministero dello sviluppo economico. Si tratta di due aspetti che potrebbero in qualche misura far riemergere problemi del passato, quando i controlli erano esercitati da una direzione dell'ENEA stessa e l'allora Ministero dell'industria, commercio e artigianato svolgeva le funzioni di vigilanza sull'intero ente.
Sono comprensibili e del tutto condivisibili i motivi, connessi al principio di indipendenza delle funzioni di controllo, che inducono a ricercare soluzioni diverse da quella letteralmente indicata dal decreto legge n. 201 del 2011 e confermata dalla legge di conversione n. 214 del 2011, che pure ha ribadito la necessità di rispettare quel principio. Si deve d'altra parte osservare che una soluzione che in qualche modo costituisse un nuovo soggetto o una nuova articolazione potrebbe finire col contraddire il contenuto sostanziale delle disposizioni recate dai citati atti legislativi, che è la soppressione dell'Agenzia per la sicurezza nucleare e non una sua eventuale riedizione. Né si potrebbe sottacere l'inopportunità di disciplinare una materia tanto importante e delicata, quale è l'assetto dei controlli sulla sicurezza nucleare e sulla protezione dalle radiazioni ionizzanti, con un semplice decreto ministeriale non regolamentare, sottraendola quindi a ogni forma di intervento da parte del Parlamento.
9.3Il ruolo dell'ENEA
Al di là dei dubbi che può suscitare il percorso che si sta delineando per la definitiva attribuzione delle funzioni di controllo, una questione specifica riguarda, come accennato, il ruolo che, rispetto a tale funzione, potrà essere riservato all'ENEA. Nelle loro audizioni, sia il Ministro dello sviluppo economico, sia il Ministro dell'ambiente hanno prospettato un suo coinvolgimento nel nuovo assetto dei controlli. Quanto riferito alla Commissione lascia tuttavia ampi margini per la definizione della forma che detto coinvolgimento potrà assumere e in particolare se si potrà trattare di un'attribuzione all'ente, in quanto tale, di specifici compiti afferenti ai controlli di sicurezza, come potrebbero indurre a ritenere alcuni riferimenti del Ministro dello sviluppo economico, ovvero, se l'ENEA potrà essere chiamata a contribuire semplicemente attraverso una cessione di risorse, come potrebbe invece dedursi dalle parole del Ministro dell'ambiente, il quale sembra peraltro prospettare il medesimo ruolo per l'ISPRA, riproducendo quindi, nella sostanza, lo schema previsto
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dalla legge n. 99 del 2009 per la formazione della poi soppressa Agenzia per la sicurezza nucleare.
La prima delle due ipotesi era già stata presentata alla Commissione nell'audizione del 29 novembre 2011 dal commissario della stessa ENEA, il quale, indipendentemente dal fatto che era ancora in vigore la legge che prevedeva il trasferimento di cinquanta unità di personale dell'ente all'Agenzia per la sicurezza nucleare, sottolineava che «l'ENEA rappresenta il più qualificato soggetto tecnico-scientifico in grado di supportare le istituzioni, in particolare ISPRA e l'Agenzia per la sicurezza nucleare, con le tipiche funzioni delle cosiddette TSO (Technical Support Organisation), presenti in tutti i Paesi tecnologicamente avanzati. Insomma, una funzione istituzionale affidata all'Agenzia per la sicurezza nucleare (non ancora soppressa) o all'ISPRA si appoggia per le valutazioni tecniche a una TSO».
Non vi è dubbio che nella situazione del settore nucleare in Italia, dove da un lato vi sono importantissime attività ancora da compiere e dove, dall'altro, le competenze sotto il profilo quantitativo si sono andate inevitabilmente riducendo, quelle certamente assai elevate ancora esistenti nell'ENEA debbano essere valorizzate al massimo. Ciò va riferito in particolare, per quanto più strettamente di competenza della Commissione, alla gestione dei rifiuti radioattivi e, ancor più specificamente, alle attività, tutte da svolgere, necessarie per la realizzazione dell'opera a tali fini fondamentale, il deposito nazionale.
Tuttavia, in merito alla prospettiva di una partecipazione diretta dell'ENEA alle funzioni di controllo, anche come supporto al soggetto cui tali funzioni verranno affidate, non può non essere espressa una netta riserva, per l'incompatibilità di tale eventuale partecipazione con l'essere, la stessa ENEA, esercente di due reattori di ricerca, titolare del servizio integrato, che la rende tra l'altro proprietaria finale dei rifiuti radioattivi che attraverso il servizio integrato vengono raccolti, oltre che proprietaria degli impianti del ciclo del combustibile nucleare, i quali, ancorché non gestiti dalla stessa ENEA, rappresentano una parte cospicua degli oggetti sottoposti al controllo.
Diversa sarebbe la prospettiva di travaso di singole unità di personale dall'ENEA all'ente di controllo, travaso che, ove l'ente di controllo continuasse ad essere l'ISPRA, sarebbe reso tra l'altro più semplice dall'appartenenza dei due enti allo stesso comparto di contrattazione collettiva. In questo caso si dovrebbe comunque porre attenzione alle dimensioni complessive del trasferimento, che non dovrebbero essere tali da alterare sensibilmente l'organico dell'ENEA, per non rischiare di sguarnire le funzioni, a cominciare da quelle di esercente, che l'ente dovrebbe in ogni caso continuare a svolgere, e da produrre un'eccessiva diluizione della cultura specifica del controllo e della regolamentazione, che il direttore generale dell'ISPRA ha giustamente rivendicato come patrimonio dell'Istituto.
10.Le sorgenti orfane - Il controllo sull'importazione di rottami e semilavorati metallici
In diverse audizioni, alla Commissione è stato evidenziato, come una delle più rilevanti cause di rischio radiologico, il problema delle sorgenti orfane.
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Si è già visto che con l'espressione «sorgenti orfane» si indicano sorgenti radioattive che si trovano al di fuori di impianti attrezzati e autorizzati per la loro manipolazione e delle quali non si conosce la provenienza. Si trovano spesso confuse tra i rottami metallici, essendo molte volte originate da smantellamenti di strutture sanitarie o industriali nelle quali erano state impiegate.
L'Italia, forte importatore di rottami destinati alla produzione metallurgica, è particolarmente soggetta al rischio rappresentato dalla circolazione di tali sorgenti, rischio che è di natura sanitaria, ed è anzi da considerare, come detto, uno dei rischi più elevati di esposizione alle radiazioni ionizzanti, ma è anche di natura economica, dal momento che, se la loro presenza non è rilevata tempestivamente, le sorgenti orfane possono essere immesse nei forni degli impianti metallurgici, causando la contaminazione non solo del metallo prodotto, ma anche di gran parte degli impianti stessi, che debbono essere bonificati, con lunghe sospensioni della loro attività produttiva.
Nell'audizione del 31 gennaio 2012, il rappresentante del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, Emanuele Pianese, ha elencato diversi episodi che, solo nell'ultimo decennio, sono avvenuti in acciaierie o in altri impianti metallurgici italiani: la fusione di una sorgente di Cesio 137, avvenuta nel gennaio 2004 in un'acciaieria di Vicenza; un incidente analogo occorso nel novembre 2005 in un'acciaieria di Brescia; un altro ancora a San Didero, in provincia di Torino; un'altra fusione in un impianto di affinazione metallica nel bresciano nel 2007.
Il direttore generale dell'ISPRA, da parte sua, ha riferito di un caso significativo - riportato anche nella nota trasmessa alla Commissione dal direttore dell'Agenzia per le dogane - di rinvenimento di una sorgente di cobalto-60, avvenuto nel luglio del 2010 presso il porto di Genova, all'interno di un container di rottami di rame proveniente dall'Arabia Saudita, e ha messo in evidenza anche un aspetto particolare, il recupero delle spese che si sostengono per l'intervento di messa in sicurezza e smaltimento delle sorgenti. Il decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 52, prevede che, in caso di ritrovamento, le sorgenti siano rispedite al mittente del carico, a spese dello stesso. Vi sono però dei casi, come quello riferito, in cui la procedura non può essere attuata e ciò comporta la necessità di intervenire direttamente, con costi non trascurabili.
Per dare una dimensione del problema, a quanto riferito dal rappresentante dei vigili del fuoco, si stima che nella sola Europa vi possano essere alcune decine di migliaia di sorgenti orfane.
Nella legge italiana sono state da tempo inserite norme specifiche per far fronte a questo tipo di rischio. Il decreto legislativo n. 230 del 1995, sin dalla sua prima stesura, all'articolo 157 ha stabilito, per quanti effettuano operazioni di fusione di rottami o di materiali metallici di risulta e per quanti esercitano attività di raccolta e di deposito di tali materiali, l'obbligo di mantenere su di essi una sorveglianza radiometrica, al fine di rilevare l'eventuale presenza di sorgenti radioattive dismesse.
Va però detto che la norma non ha avuto l'effetto positivo atteso, ma ha anzi rischiato di tradursi in una riduzione complessiva della sorveglianza. Infatti il decreto legislativo, nello stesso articolo 157, aveva previsto l'emanazione di un decreto attuativo da parte del
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Ministro della sanità, di concerto con i ministri dell'industria, del lavoro e dell'ambiente, per stabilire le condizioni per l'applicazione. Il decreto, ancorché uno schema ne fosse stato predisposto, non è stato mai emanato, e ciò ha fatto sì che la norma non entrasse allora in vigore e che pertanto nessun obbligo fosse concretamente posto in capo agli esercenti delle attività a rischio.
Tuttavia, nonostante l'inefficacia almeno temporanea della norma, il 20 gennaio 1996 il dipartimento delle dogane del Ministero delle finanze, direzione servizi doganali, con la circolare n. 13, comunicava alle autorità pubbliche che sino ad allora avevano effettuato i controlli alle frontiere dei carichi di rottami metallici in ingresso, che, in relazione a quanto disposto dall'articolo 157 del decreto legislativo n. 230 del 1995 «l'esecuzione dei rilievi radiometrici non può più considerarsi compito della pubblica amministrazione, per cui i soggetti predetti (esercenti di fonderie e di depositi di rottami) devono produrre per i materiali in importazione, a proprie cura e spese, documentazione dell'avvenuta sorveglianza. Detta documentazione deve essere redatta nel luogo di origine del carico o comunque prima dell'ingresso nel territorio nazionale, specificando in particolare gli elementi identificativi del carico, l'indicazione del mittente e del destinatario, gli eventuali documenti doganali di scorta». In sostanza, una norma con la quale si era inteso rafforzare la protezione in qualche misura già offerta dai controlli radiometrici alle frontiere con una sorveglianza diffusa sul territorio, esercitata nei nodi della rete di circolazione dei rottami metallici, fonderie e depositi, si era risolta nella sostituzione dei controlli radiometrici con una sorta di strumento burocratico.
Va peraltro detto che gli esercenti, almeno i più accorti, avevano comunque cominciato a installare sistemi di rivelazione delle sorgenti radioattive per proteggere la loro attività da un rischio che era divenuto ormai evidente.
Che l'intento del legislatore delegato non fosse di far cessare il controllo alle frontiere da parte della pubblica amministrazione richiedendo agli esercenti un'azione analoga, ma fosse quello di integrare tale controllo con un'ulteriore sorveglianza presso le installazioni, una sorveglianza tra l'altro efficace anche a fronte del rischio - non certo da escludere - di sorgenti orfane «italiane», è reso evidente da una legge di poco successiva al decreto legislativo n. 230 del 1995, nella quale l'azione della pubblica amministrazione viene pienamente confermata e anzi, almeno negli intenti, essa stessa rafforzata. La legge 8 agosto 1996, n. 421, di conversione del decreto legge 17 giugno 1996, n. 321, sotto la rubrica «Acquisto e installazione di sistemi di controllo della radioattività», all'articolo 10, comma 2, prevede, infatti, che «Il Ministero dell'industria, del commercio e dell'artigianato, sentiti i ministeri della sanità e delle finanze, provvede ai fini dell'acquisto e della installazione di sistemi di scintillazione disposti a portale per la rilevazione automatica della radioattività dei metalli presso i valichi di frontiera, alla cui utilizzazione e controllo è addetto il personale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, nell'ambito della gestione della rete di rilevamento di cui al comma 1». La rete di rilevamento richiamata è stata descritta dal rappresentante del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, Emanuele Pianese,
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nell'audizione del 31 gennaio 2012. Si tratta di una rete costituita da circa 1.240 stazioni fisse di misura che effettuano un monitoraggio puntuale locale e che servirebbe prevalentemente a descrivere un evento di contaminazione diffusa a seguito della ricaduta radioattiva causata da un grave incidente nucleare come quello di Chernobyl o, se malauguratamente avvenisse in un Paese più prossimo all'Italia, quello di Fukushima.
Per l'acquisto e l'installazione dei sistemi di rilevazione automatica della radioattività dei rottami metallici presso i valichi di frontiera, la citata legge n. 421 del 1996 ha autorizzato la spesa di 5 miliardi di lire, indicandone la relativa copertura.
Per verificare se la previsione di legge si fosse tradotta in un effettivo strumento di protezione contro i rischi rappresentati da rifiuti radioattivi che viaggino clandestinamente con i rottami, la Commissione ha richiesto informazioni circa lo stato e il funzionamento del sistema di rilevazione automatica allo stesso Corpo nazionale dei vigili del fuoco, che avrebbe dovuto prendere in carico il sistema una volta installato. La risposta, giunta dal Ministero dell'interno - dipartimento dei vigili del fuoco, del soccorso pubblico e della difesa civile, non è confortante. I portali sono stati a suo tempo acquistati ed installati, ma, per una serie di problematiche, non sono mai entrati in esercizio. Tra le problematiche, più o meno comprensibili, che avrebbero impedito al sistema di funzionare vi sono:
- la necessità di definire un soggetto «gestore» del traffico da sottoporre a controllo e responsabile della scelta dei carichi da controllare;
- le modalità operative per il respingimento del carico;
- la definizione della soglia di allarme per il fermo e l'eventuale rifiuto dei carichi;
- le modalità per effettuare riparazioni e manutenzione dei portali;
- la necessità di aree di rispetto dove collocare in sicurezza i carichi risultati positivi al controllo;
- l'assunzione di personale dei vigili del fuoco per lo specifico compito.
Per nessuna di esse, in ogni caso, dal 1996, anno di promulgazione della legge, al 22 luglio 2009, data dell'ultima riunione tra le amministrazioni interessate, si è riusciti a trovare una soluzione; «non si ha contezza dello stato di manutenzione ed efficienza dei sistemi in parola ancora di proprietà del Ministero dello sviluppo economico.... I recenti sviluppi legislativi hanno peraltro mutato la significatività dell'impiego dei portali de quo». Non appare immediatamente evidente come gli sviluppi menzionati dal Ministero dell'interno (la progressiva entrata in vigore dei trattati di Schenghen, il decreto legislativo n. 52 del 2007 sul controllo delle sorgenti sigillate di alta attività e sulle sorgenti orfane e lo stesso articolo 157 del decreto legislativo n. 230 del 1995, che è stato recentemente modificato, come si dirà qui appresso, per sottoporre alla sorveglianza anche i prodotti
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semilavorati) possano aver mutato la significatività dell'impiego di un sistema di controllo radiometrico.
Alcuni più recenti episodi hanno dimostrato che ormai l'esito di incidenti con sorgenti radioattive nelle fonderie, non rilevati o comunque non dichiarati, è riscontrabile nella presenza di radioattività, in concentrazioni non trascurabili, in prodotti semilavorati metallici importati. Uno di questi episodi, avvenuto nel 2008 e che ha riguardato una partita di bobine di lamiere d'acciaio importate dalla Repubblica popolare cinese, è stato riferito in dettaglio alla Commissione durante l'audizione del comando dei carabinieri per la tutela ambientale del 5 ottobre 2011. In quel caso fu necessaria un'azione particolarmente impegnativa per ricercare tutto il materiale che era stato tagliato e venduto a diversi destinatari.
In relazione a questo ulteriore problema, in occasione dell'attuazione della direttiva 2006/117/Euratom, in materia di trasporto transfrontaliero di rifiuti radioattivi, con il decreto legislativo 20 febbraio 2009, n. 23, è stata introdotta una modifica all'articolo 157 del decreto legislativo n. 230 del 1995, estendendo l'obbligo della sorveglianza radiometrica, prima previsto solo per rottami e materiali metallici di risulta, a quanti esercitano attività di importazione di prodotti semilavorati, poi peraltro puntualmente definiti da un decreto ministeriale. Inoltre, nella nuova formulazione dell'articolo è stata espunta la previsione di un decreto di attuazione e ciò ha consentito, dopo un periodo di vacatio legis opportunamente fissato in dodici mesi, l'entrata in vigore dell'intera norma, anche se è stata confermata con una nuova circolare emanata dall'Agenzia delle dogane in data 6 aprile 2010 l'interpretazione a suo tempo data dal Ministero delle finanze con la circolare n. 13 del 20 gennaio 1996 anche per tali prodotti.
Per quanto attiene al rischio rappresentato da possibili sorgenti orfane di origine interna, il decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 52, prevede l'organizzazione di una campagna per il loro recupero. In particolare, l'articolo 16 stabilisce quanto segue:
«1. Al fine di individuare eventuali sorgenti orfane che sono state tramandate da attività del passato, entro i dodici mesi successivi alla scadenza del termine di cui al comma 1 dell'articolo 13, l'ENEA e le Agenzie regionali per la protezione dell'ambiente portano a termine una campagna di identificazione delle industrie nazionali, che per la tipologia dei processi produttivi possono utilizzare, aver utilizzato o essere in possesso di sorgenti radioattive, anche chiedendo dati, notizie e informazioni alle autorità competenti nonché ai detentori. In caso di rinvenimento di sorgente orfana si applicano gli articoli 13 e 14.
2. L'ENEA avvalendosi del sistema delle Agenzie regionali in collaborazione con il Ministero dell'interno, dipartimento dei vigili del fuoco, del soccorso pubblico e della difesa civile, redige il piano programmatico triennale di recupero delle sorgenti orfane. Il piano triennale programmatico con apposita stima per i ritrovamenti occasionali di sorgenti orfane, e' redatto sulla base di previsioni statistiche sui ritrovamenti già effettuati negli anni precedenti e trasmesso alle amministrazioni di cui al comma 3.
3. Con decreto del Ministero dello sviluppo economico di concerto con i ministeri dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare,
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dell'interno, dell'economia e delle finanze e sentiti il dipartimento della protezione civile e le regioni, e' approvato il piano triennale di cui al comma 2.»
La Commissione non ha ricevuto indicazioni, pure richieste, in merito a quanto delle previsioni di legge riportate sia stato attuato.
Al quadro sin qui delineato si deve aggiungere l'iniziativa Megaports, della quale ha riferito in una nota alla Commissione il direttore dell'Agenzia delle dogane. Tale iniziativa è sostenuta dagli Stati Uniti ed è intesa a combattere possibili usi terroristici dei materiali nucleari o comunque delle materie radioattive, attrezzando a livello mondiale una rete di porti con sistemi di rivelazione in grado di individuare il passaggio di sorgenti di radiazioni nascoste.
Gli Stati Uniti d'America stanno stipulando accordi con diversi Paesi per la fornitura gratuita di apparecchiature di rivelazione delle radiazioni e di sistemi di comunicazione di allarme, prevedendo inoltre la formazione del personale destinato all'uso delle apparecchiature e la copertura delle spese di manutenzione.
Nel marzo 2010 è stato sottoscritto un memorandum d'intesa tra l'Agenzia delle dogane e il Dipartimento dell'energia degli Stati Uniti, per l'attuazione di Megaports in Italia. Restano a carico della parte italiana i dazi e l'IVA sulle apparecchiature e i costi per l'installazione e per alcuni lavori di realizzazione di raccordi stradali e corsie dedicate all'interno nel porto (l'Autorità portuale di Genova li ha inseriti nel proprio piano operativo triennale per il 2012-2014.)
Inizialmente, su richiesta del partner statunitense, per l'avvio del progetto erano stati individuati i porti di Genova e Gioia Tauro, che registravano i più alti valori di scambio con gli Stati Uniti. Successivamente, a causa della diminuzione di flussi di traffico sul porto di Gioia Tauro e le conseguenti maggiori difficoltà del gestore del terminal container di sostenere la quota parte di oneri connessi con attuazione del progetto, è stato deciso, di comune accordo, di limitare al momento l'attuazione al solo porto di Genova.
Le soluzioni tecniche e le procedure operative da adottare per attivare Megaports nel porto di Genova sono state condivise da tutti i soggetti coinvolti, tra i quali l'Agenzia delle dogane, l'Autorità portuale, i Vigili del fuoco, i gestori dei terminal container.
Va però detto che durante un incontro tenutosi nel febbraio 2012, i rappresentanti dell'amministrazione USA hanno fatto presente che, a seguito di una riduzione dei finanziamenti, il progetto, così come concordato, non poteva essere realizzato e hanno proposto due opzioni alternative:
- sospendere il progetto nella speranza che il bilancio 2013 assegni nuovi fondi all'iniziativa e quindi ne consenta il riavvio nel 2014;
- rimodulare il progetto eliminando la fornitura dei costosi portali per il controllo di tutti i container in ingresso/uscita dal porto, mantenendo, invece, quella dei dispositivi portatili.
La parte italiana sarebbe orientata verso la seconda opzione che consentirebbe comunque di attivare i controlli di radioattività su tutti i container.
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11.I siti
11.1Il sito di Saluggia
11.1.1.Aspetti generali
Il sito di Saluggia, in Piemonte, nella provincia di Vercelli, è posto sulla riva della Dora Baltea, in un'ansa golenale del fiume, ed è uno dei siti italiani di più antica «nuclearizzazione», essendovi iniziata sin dalla fine degli anni '50. Sul sito sono ospitati tre impianti, a una distanza massima di qualche centinaio di metri l'uno dall'altro: l'impianto EUREX, il deposito di combustibile irraggiato Avogadro e il deposito SORIN. La Commissione ha effettuato un sopralluogo su di essi il 7 dicembre 2011.
Il sito presenta due aspetti che lo rendono particolarmente critico. Il primo è rappresentato da una forte vulnerabilità idrogeologica. La particolare posizione espone il sito al rischio di inondazioni, che si sono verificate in occasione delle piene più rilevanti della Dora. Eventi di preoccupante entità sono avvenuti nel 1994 e, soprattutto, nel 2000, quando aree degli impianti sono state allagate dalle acque del fiume. Da allora sono stati compiuti interventi che hanno ridotto i rischi, ma che non possono ancora essere considerati risolutivi.
Il secondo è costituito dal fatto che, come può vedersi nella figura 16, nel sito vi è, in termini di radioattività, la più elevata concentrazione di rifiuti in Italia, con il contributo assolutamente dominante dato dall'impianto EUREX, che da solo ospita oltre il 70 per cento del contenuto di radioattività di tutti i rifiuti presenti oggi sul territorio italiano.
A causa della vetustà degli impianti, si sono verificate diverse perdite di radioattività. Questa, in alcuni casi, ha raggiunto l'ambiente esterno, con contaminazioni della falda acquifera superficiale rilevate in un'area piuttosto estesa intorno al sito. Va detto che, allo stato, si
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tratta di contaminazioni lievi, che comporterebbero esposizioni della popolazione di entità praticamente trascurabile anche se l'acqua fosse destinata all'uso potabile, uso peraltro impedito da altri fattori. Tuttavia, tali contaminazioni hanno costituito il segnale di guasti da ricercare e di bonifiche da effettuare. Interventi in questo senso sono stati richiesti agli esercenti, ma in parte non risultano ancora conclusi.
Il fenomeno ha inevitabilmente generato preoccupazione in ambito locale, soprattutto nel timore che la contaminazione potesse raggiungere la falda profonda che alimenta un importante acquedotto, un'eventualità che però oggi fortunatamente non sussiste. Per seguire il fenomeno e studiare le eventuali ulteriori necessità di monitoraggio, la regione Piemonte ha a suo tempo istituito un tavolo tecnico a cui hanno partecipato tutti i soggetti interessati, pubblici e privati.
Oltre alle reti di monitoraggio che gli esercenti sono tenuti a gestire, l'ARPA Piemonte, a partire dalla fine degli anni '80 (allora come ASL di Vercelli), svolge una propria azione di monitoraggio radiologico intorno al sito, che, per quanto riguarda la falda superficiale, dal 2004 è stata intensificata, adeguandola sia alle attività svolte dagli impianti, sia ai mutati scenari ambientali.
11.1.2.EUREX
L'impianto EUREX è di proprietà dell'ENEA, ma dal 2003 è gestito dalla SOGIN. Si tratta di un impianto di riprocessamento di combustibile nucleare irraggiato, realizzato a fine anni '60 e destinato in una prima fase al riprocessamento di elementi di combustibile proveniente da reattori di ricerca e successivamente al riprocessamento di elementi dei reattori canadesi tipo CANDU. Le attività si sono svolte sino al 1984. Sono da allora rimasti sull'impianto, oltre a elementi di combustibile non riprocessati, le materie fissili e i rifiuti prodotti nel corso delle attività.
A seguito della cessazione dell'esercizio, le materie fissili estratte dal combustibile riprocessato sono state solidificate. Diversa è la situazione per quanto riguarda i rifiuti.
Con una prescrizione impartita nel 1977 era stato richiesto all'esercente di dotarsi, entro cinque anni, di un sistema di condizionamento. Era ovvio che un impianto destinato a riprocessare il combustibile nucleare, producendo quindi rifiuti liquidi ad alta attività, dovesse essere attrezzato anche per solidificare tali rifiuti, riducendo così in modo netto la loro pericolosità. Dopo una serie di proroghe e di riformulazioni della prescrizione e dopo lunghe discussioni in merito alla tecnologia di condizionamento da adottare e, conseguentemente, sul progetto da realizzare (cementazione o vetrificazione, soluzioni in realtà entrambe valide per il caso in questione), gli oltre 240 metri cubi di rifiuti prodotti (113 metri cubi ad attività più elevata, 130 metri cubi ad attività minore) sono ancora oggi allo stato liquido, come quando furono prodotti.
È in fase di autorizzazione il progetto di un sistema di cementazione, denominato CEMEX. In particolare, è stata rilasciata alla fine del 2010 un'autorizzazione generale in base al progetto di massima ed è all'esame dell'ISPRA il progetto particolareggiato per l'approvazione
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di competenza. La prescrizione attualmente in vigore richiede che il sistema venga realizzato entro quattro anni dall'approvazione del progetto particolareggiato. Per vedere i rifiuti definitivamente condizionati ci sarà poi da attendere il tempo necessario per lo svolgimento delle operazioni e quindi, prevedibilmente, gli ultimi anni del decennio in corso, salvo imprevisti.
Con il sistema di condizionamento dovrebbe essere realizzato anche un deposito temporaneo per i rifiuti ad alta attività che verranno prodotti (denominato D3), mentre è attualmente in fase realizzazione un deposito temporaneo (D2) per i rifiuti già esistenti e per quelli ad attività minore che verranno prodotti dal CEMEX.
Quest'ultimo deposito, come risulta dalla documentazione depositata dall'on. Bratti presso l'archivio della Commissione, è stato ed è tuttora al centro di forti polemiche. La sua realizzazione, quale opera connessa all'impianto di cementazione CEMEX, era stata a suo tempo oggetto di un'ordinanza del commissario delegato, generale Carlo Jean, nell'ambito dei poteri conferitigli in connessione con lo stato di emergenza nucleare dichiarato con il decreto del Presidente del Consiglio 14 febbraio 2003. L'ordinanza teneva luogo di una serie di atti, tra quali il permesso di costruire, di competenza comunale. Lo stato di emergenza si era concluso il 31 dicembre 2006 e ciò, secondo il gruppo di opposizione in consiglio comunale, avrebbe dovuto far rientrare l'opera sotto il regime ordinario, analogamente a quanto aveva indicato per le autorizzazioni ministeriali, l'ufficio competente del Ministero delle attività produttive. Viceversa, allo scadere del terzo anno dalla dichiarazione di inizio lavori, nel luglio 2009 il responsabile del servizio tecnico urbanistico ha concesso, su istanza della SOGIN, una proroga di tre anni del termine di ultimazione dei lavori. L'atto, di ovvia rilevanza nell'ambito comunale, è stato contestato dall'opposizione - che ha sostenuto un ricorso straordinario al Capo dello Stato - sia per essere stato assunto in assenza di indicazioni da parte del sindaco e della giunta, sia perché i lavori non sarebbero stati di fatto neppure iniziati, sia per la situazione di potenziale conflitto in cui lo stesso responsabile del Servizio si sarebbe venuto a trovare, avendo in precedenza svolto attività di consulenza a favore della SOGIN, tra le quali una, nell'anno 2009, in materia di realizzazione di depositi per scorie radioattive e strutture collaterali nel sito di Saluggia.
Nella tabella 11 è riportato l'inventario di rifiuti radioattivi dell'impianto EUREX al 31 dicembre 2011.
In termini di volume risulta condizionato circa il 10 per cento dei rifiuti da sottoporre a tale operazione. Al 31 dicembre 2007 l'analoga percentuale era pari all'11,2. Ciò significa che nel quadriennio - probabilmente a causa dei rifiuti derivanti dai lavori di bonifica della
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piscina dei quali si fa cenno nel seguito - la produzione di rifiuti radioattivi è stata superiore rispetto ai quantitativi che nello stesso arco di tempo sono stati condizionati.
A seguito dell'evento alluvionale dell'ottobre 2000 intorno all'impianto è stata realizzata una difesa idraulica, in pratica una sorta di diga, per far fronte a nuove possibili esondazioni della Dora. Più recentemente, dal 2008, i rifiuti liquidi sono stati trasferiti in serbatoi di nuova realizzazione, essendo quelli originali giunti oltre la loro vita di progetto e risultando quindi inaffidabili.
A partire dal 2004, all'interno dell'impianto si sono rivelate tracce di radioattività provenienti dalla piscina che ospitava circa due tonnellate di combustibile irraggiato non riprocessato e che evidentemente presentava problemi di tenuta. Nell'estate del 2006 tracce della stessa radioattività sono state rivelate nell'acqua di un pozzetto esterno all'impianto, ma ancora interno al sito, nelle immediate adiacenze dell'impianto stesso. L'ente di controllo, allora APAT, chiese che venissero individuate e attuate le misure necessarie per far cessare il fenomeno, in pratica lo svuotamento e la bonifica della piscina. Il combustibile è stato trasferito nel vicino deposito Avogadro e l'acqua, 675 metri cubi, è stata scaricata dopo una complessa e laboriosa operazione di purificazione.
L'insieme delle attività svolte possono certamente far attendere con minore preoccupazione il termine, non prossimo, del condizionamento dei rifiuti, il loro allontanamento e la successiva definitiva bonifica del sito, ma solo questi atti, per la vetustà delle strutture e per le caratteristiche del sito stesso, potranno dirsi risolutivi.
Nella tabella 12, fornita dall'Autorità per l'energia elettrica e il gas, sono indicate le date previste dai programmi SOGIN succedutisi per l'attività complessiva di decommissioning di EUREX e per le singole operazioni principali. In particolare, il programma 2010 prevede il raggiungimento del brown field nel 2025 e del green field nel 2029. I programmi precedenti (2008) indicavano il brown field entro il 2019. Correlativamente, le stime dei costi connessi alle attività di smantellamento e di conferimento dei rifiuti al deposito nazionale (esclusi quindi i costi per il personale, per il mantenimento in
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sicurezza dell'impianto e la parte pro quota dei costi di sede) sono passate da 299,5 milioni di euro a 572,1 milioni di euro, con un incremento del 90 per cento.
11.1.3.Deposito Avogadro
Il deposito Avogadro, di proprietà della FIAT, è un impianto per lo stoccaggio di combustibile nucleare irraggiato ed è stato realizzato alla fine degli anni '70, riadattando un reattore di ricerca, del tipo a piscina, non più in esercizio, costruito alla fine degli anni '50. Secondo i programmi nucleari dell'epoca, il deposito doveva servire, per una decina di anni, come deposito temporaneo per il combustibile estratto dalle centrali dell'ENEL, da inviare all'estero per il riprocessamento, in attesa che entrasse in servizio un sistema di piscine nazionali. Dal 1981 il deposito ha ospitato circa 80 tonnellate di combustibile irraggiato.
Le caratteristiche di sicurezza del deposito sono condizionate dall'originario progetto del reattore, da rapportare agli standard delle prime realizzazioni nucleari. La piscina, per esempio, è priva del rivestimento metallico presente invece nelle realizzazioni più recenti ed ha dato luogo a perdite di acqua, che restano comunque confinate all'interno dell'impianto, dove sono monitorate con continuità.
In ogni caso, per l'obsolescenza delle strutture e in considerazione degli effetti che sul deposito aveva avuto l'evento alluvionale del 1994, l'ente di controllo, allora ANPA, nel 1995, in occasione del rinnovo della licenza di esercizio del deposito stesso, espresse il parere che il quinquennio 1995-2000 dovesse essere l'ultimo periodo di esercizio e formulò quindi la prescrizione che entro il termine di detto periodo venissero presentati dall'esercente i piani per l'allontanamento del combustibile dal deposito.
I piani furono presentati entro i termini prescritti, ma i tempi per la loro attuazione, per una serie di motivi, non sono stati così serrati quanto sarebbe stato auspicabile, tanto che una parte (circa 28 tonnellate) del combustibile inizialmente in deposito è ancora oggi presente nella piscina.
Come già detto, tra il 2003 e il 2005, con una serie di trasporti verso l'impianto di riprocessamento di Sellafield (GB), sono state allontanate dal deposito le prime 53 tonnellate di combustibile irraggiato, ad esaurimento dei quantitativi previsti dai contratti a suo tempo stipulati dall'ENEL con la società inglese proprietaria di detto impianto, la BNFL. Per il quantitativo residuo, circa 28 tonnellate, i piani prevedevano, secondo le indicazioni dell'epoca, non più il riprocessamento, ma lo stoccaggio «a secco» in contenitori dual purpose, adatti cioè sia al trasporto, sia al deposito del combustibile irraggiato. Tenuto conto che la presenza del combustibile irraggiato nelle piscine costituiva un impedimento per il decommissioning, le resistenze che tale soluzione ha incontrato in ambito locale, non solo a Saluggia, ma presso tutti i comuni che ospitano impianti ove lo stoccaggio a secco si sarebbe dovuto realizzare, ha indotto a un mutamento complessivo della strategia, con un ritorno al riprocessamento, questa volta in un impianto francese, al quale venne
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destinato tutto il combustibile irraggiato residuo. Dopo i necessari accordi, sono così riprese le spedizioni verso l'estero. Vi sono state prima quelle dalla centrale di Caorso, dove lo svuotamento della piscina si è concluso nel 2010, e sono poi iniziate quelle dal deposto Avogadro, che nel frattempo, nel 2007, per le ragioni sopra ricordate, ha ricevuto le circa due tonnellate di combustibile precedentemente stoccate nella piscina di EUREX.
Ad oggi, da Avogadro sono state effettuate verso la Francia tre spedizioni, due nei primi mesi del 2011, una nell'estate 2012, con una lunga sospensione delle attività dovuta al timore che le polemiche e le proteste che in alcune occasioni i trasporti hanno suscitato potessero alimentare le tensioni già presenti nell'area della linea ferroviaria sin qui utilizzata, legate alla vicenda TAV.
Il programma concordato con la parte francese prevedeva che le spedizioni dal deposito Avogadro e poi dalla centrale di Trino terminassero entro la fine del 2012, una data che non potrà evidentemente essere rispettata. È prevedibile che il ritardo nell'attuazione del programma, dovuto alla parte italiana, comporterà un aumento del costo del riprocessamento.
Per quanto attiene ai rifiuti radioattivi, nel deposito Avogadro al 31 dicembre 2011 erano presenti 71,69 metri cubi di rifiuti di seconda categoria, per 517 GBq, tutti non condizionati.
11.1.4.SORIN
Il deposito SORIN è ciò che resta dei laboratori dove sono stati a lungo prodotti radiofarmaci e materiale per radiodiagnostica. Nel deposito venivano raccolti i residui della produzione e i rifiuti radioattivi resi dalle strutture sanitarie clienti della SORIN stessa. La produzione con sostanze radioattive è cessata nel 1999. Oggi negli impianti vengono prodotti presidi medicochirurgici, quali valvole cardiache, e materiali per chimica farmaceutica.
Nel 1986 avvenne un incidente con una sorgente radioattiva (cobalto 60) all'interno della cella schermata per la manipolazione e la sostituzione delle sorgenti sigillate per gammagrafia industriale. L'evento - che portò all'applicazione delle sanzioni previste dalla normativa allora vigente - non ha avuto conseguenze sanitarie significative, ma causò una notevole contaminazione all'interno dell'impianto, contaminazione che con l'alluvione del 1994 si spanse anche all'esterno.
Nel corso dell'alluvione del 2000, alcuni locali dell'impianto vennero allagati e a seguito dell'evento, nelle vasche di raccolta dei reflui fu riscontrata una significativa contaminazione da cobalto 60. Questo fatto evidenziò la necessità di una definitiva azione di bonifica, che fu infatti prescritta all'esercente.
Più recente è il rilevamento, di cui si è detto sopra, di tracce di radioattività, con radionuclidi differenti, in vari pozzetti di monitoraggio della falda acquifera superficiale dislocati nell'area del sito. Le indagini compiute, anche infittendo la rete dei pozzetti, ha portato a individuare in alcune parti dell'impianto SORIN, incluse delle condotte di scarico dismesse, l'origine del fenomeno. Qui le bonifiche risultano ancora in corso.
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Per quanto attiene al deposito di rifiuti radioattivi, questo era stato realizzato secondo standard oggi inaccettabili. Per i fusti contenenti i rifiuti, impilati all'aperto, non era prevista alcuna protezione dagli eventi meteorici, e quindi da agenti corrosivi, e vi era quindi la possibilità del dilavaggio da parte dell'acqua piovana di eventuali perdite. Nel 2000 fu pertanto prescritta la presentazione di un progetto per l'adeguamento del deposito. La realizzazione del progetto ha richiesto tempi non brevi, anche a causa di vincoli esistenti nell'area che hanno reso particolarmente complessa la procedura autorizzativa. In ogni caso, la costruzione di nuove strutture di deposito è terminata da tempo, ma il trasferimento dei rifiuti non risulta ancora completato.
Nel deposito SORIN al 31 dicembre 2011 erano presenti 4 metri cubi di rifiuti di prima categoria e 285,45 metri cubi di rifiuti di seconda categoria, per 305 GBq, tutti non condizionati.
11.2La centrale di Caorso
La centrale di Caorso venne realizzata dall'ENEL nel corso degli anni '70, in un sito posto sulla riva emiliana del Po, nel territorio del comune da cui prende il nome, nella provincia di Piacenza. La centrale era dotata di un reattore di seconda generazione, di tipo ad acqua bollente (BWR) appartenente alla filiera sviluppata negli Stati Uniti dalla General Electric, ed era la più moderna e la più grande delle centrali nucleari costruite in Italia: la sua potenza elettrica di 840 megawatt era mediamente quattro volte maggiore di quella delle tre centrali che l'avevano preceduta (Latina, Trino e Garigliano).
È stata l'unica centrale italiana ad essere realizzata seguendo interamente un regolare percorso autorizzativo, quello previsto dal decreto del Presidente della Repubblica n. 185 del 1964. Quando tale decreto entrò in vigore, infatti, le tre centrali precedenti, così come altri impianti e reattori di ricerca, erano già in funzionamento e vennero autorizzati, secondo quanto previsto da una norma transitoria dello stesso decreto, in base a una valutazione di conformità svolta a posteriori.
Il 31 dicembre 1977 il reattore raggiunse la prima criticità. Al termine della fase di collaudi, l'esercizio commerciale iniziò nel dicembre 1981.
Nell'ottobre 1986 la centrale fu fermata per effettuare operazioni di ricarica del combustibile e da allora non fu più riaccesa. Nell'aprile 1986 vi era stato l'incidente di Chernobyl e nel novembre 1987 vi sarebbe stato il referendum sul nucleare. Nel luglio 1990 una delibera del CIPE ne sancì la definitiva chiusura. La centrale era rimasta in esercizio effettivo per poco meno di cinque anni e aveva prodotto durante quel periodo 25 miliardi di kWh, con un fattore di utilizzo pari a circa il 66 per cento.
Nel 1997 l'ENEL presentò un'istanza per l'autorizzazione al decommissioning della centrale basato sulla strategia in due fasi. Nella prima fase si sarebbe raggiunto uno stato di custodia protettiva passiva che si sarebbe mantenuto per diversi decenni. In ogni caso, nel decennio successivo alla delibera del CIPE che ne aveva sancito
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la chiusura, le attività sulla centrale furono praticamente limitate alla sola manutenzione ordinaria. Solo nel 1998 inizia il trasferimento del combustibile dal reattore alla piscina (la permanenza per oltre un decennio di combustibile nucleare all'interno di un reattore spento era un fatto certamente inconsueto).
Nel 1999 la proprietà della centrale passa alla SOGIN che, in attuazione degli indirizzi ricevuti, adotta la nuova strategia del decommissioning «accelerato», in una sola fase.
Nell'agosto 2000 la SOGIN venne autorizzata ad eseguire alcune attività compatibili con la nuova strategia:
1) sistemazione a secco del combustibile irraggiato, in contenitori dual purpose, idonei cioè allo stoccaggio e al trasporto;
2) trattamento e condizionamento dei rifiuti radioattivi pregressi e derivanti dalle attività autorizzate;
3) interventi nell'edificio turbina e sistema off-gas;
4) smantellamento dell'edificio torri del sistema di rimozione del calore di decadimento (RHR);
5) decontaminazione del circuito primario.
La sistemazione a secco del combustibile irraggiato non ha mai avuto luogo, poiché, come in altri siti dove pure si sarebbe dovuta effettuare, ha incontrato l'opposizione dell'amministrazione locale e ciò, per non determinare il blocco delle attività di decommissioning, ha indotto a un mutamento di strategia, con la ripresa del riprocessamento Le sedici spedizioni necessarie per trasferire all'impianto francese di La Hague i 1032 elementi (quasi 190 tonnellate) di combustibile presenti nella piscina della centrale sono iniziate nel dicembre 2007 e si sono concluse nel giugno 2010.
La decontaminazione del circuito primario si è conclusa nel 2004. Le attività concernenti l'edificio turbina e l'edificio torri RHR sono oggi anch'esse concluse o comunque in fase conclusiva. Decisamente in fase meno avanzata sono le operazioni di trattamento e condizionamento dei rifiuti radioattivi.
La tabella 13 mostra, al riguardo, le quantità dei rifiuti radioattivi presenti nella centrale al 31 dicembre 2011, in volume e in attività, ripartite tra prima e seconda categoria (non vi sono a Caorso rifiuti della terza categoria) e tra rifiuti condizionati e non condizionati. Quelli condizionati sono, in termini di volume, circa il 21 per cento del totale. Per un raffronto si può osservare che al 31 dicembre 2007 la quota dei rifiuti condizionati era del 18 per cento (428 metri cubi su un totale di circa 2400 metri cubi).
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Alcuni tipi di rifiuti sono stati spediti all'impianto di trattamento e condizionamento della società svedese Studsvik, con la quale la SOGIN ha sottoscritto un contratto concernente complessivamente 230 tonnellate di materiali.
Un elemento di criticità tra i rifiuti della centrale di Caorso è costituito da alcune migliaia di fusti che a suo tempo furono condizionati usando un particolare agente, l'urea formaldeide. Il processo si è rivelato difettoso, poiché all'interno dei fusti si sono librate sostanze corrosive che tendono a danneggiare i fusti stessi. Durante il sopralluogo svolto dalla Commissione si è appreso che il problema è allo studio, ma che non vi sono ancora indicazioni in merito alla soluzione da adottare. Più recentemente si è avuta notizia del rinvenimento, da parte di ispettori dell'ISPRA, di alcuni fusti seriamente danneggiati, sino a risultare, in qualche caso, perforati dalla corrosione, con perdita della funzione di contenimento della radioattività. A seguito del rapporto degli ispettori, della vicenda si sta occupando la procura di Piacenza.
Infine, per quanto attiene ai programmi di decommissioning, la tabella 14, fornita dall'Autorità per l'energia elettrica e il gas, mostra le date previste dai programmi SOGIN succedutisi, per l'attività complessiva e per le singole operazioni principali. La previsione del rilascio finale del sito nel 2026 è basata sull'ipotesi di disponibilità del deposito nazionale entro il 2020.
La spesa attualmente prevista per lo smantellamento della centrale e per il conferimento dei rifiuti al deposito nazionale è di 340 milioni di euro.
11.3La centrale di Latina
La centrale di Latina, prima centrale nucleare a entrare in funzione nell'Europa continentale, venne realizzata dalla Simea, una società appartenente all'Agip Nucleare (75 per cento) e all'IRI (25 per cento), a partire dal 1958. La centrale era dotata di un reattore di tipo «Magnox», una filiera sviluppata in Inghilterra, dove dal 1956 era in funzione il primo reattore appartenente ad essa (Calder Hall, sul sito di Sellafield). Rispetto a quella inglese, la centrale di Latina con i suoi
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210 megawatt di potenza elettrica (poi ridotta a 160 megawatt) era tuttavia notevolmente più potente.
A differenza delle filiere sviluppate negli stessi anni negli Stati Uniti, che utilizzavano acqua sia per il raffreddamento, sia come moderatore e che sarebbero divenute, con le generazioni successive e sino ad oggi, largamente le più diffuse, i reattori di tipo Magnox erano caratterizzati dall'uso di gas (CO2) per il raffreddamento e di grafite come moderatore, una presenza, quella della grafite, che condiziona oggi notevolmente il processo di decommissioning.
Nel dicembre 1962 il reattore di Latina raggiunse la prima criticità (cioè l'innesco della reazione a catena) e fu allacciato alla rete elettrica nel maggio dell'anno successivo.
Nel 1964 la centrale, come tutti gli altri impianti di produzione di energia elettrica italiani, divenne proprietà dell'ENEL.
Dopo l'incidente di Chernobyl, dal novembre 1986 il reattore è rimasto spento e, a seguito del referendum del novembre 1987, definitivamente chiuso (delibera CIPE del 23 dicembre 1987). Nei circa ventitre anni di funzionamento la centrale aveva prodotto 26 miliardi di kWh, con un fattore di utilizzo del 76 per cento circa.
Nel 1991 la centrale di Latina ricevette una nuova licenza di esercizio con la quale venivano autorizzate attività di «messa in custodia protettiva passiva», prima fase del suo decommissioning. Sempre all'inizio degli anni '90 la centrale venne completamente svuotata del combustibile nucleare in essa presente, spedito all'impianto inglese di Sellafield per le operazioni di riprocessamento. Per tali operazioni, indispensabili per il combustibile «Magnox», l'ENEL aveva stipulato appositi contrati con la società BNFL, allora proprietaria dell'impianto; l'ultimo dei contratti relativi al combustibile di Latina, del 1979, prevede come è noto il rientro in Italia dei rifiuti radioattivi prodotti.
Nel 1999 la proprietà della centrale passa alla SOGIN e, come per le altre centrali, viene adottata la strategia della disattivazione accelerata e gli indirizzi governativi richiedono che i rifiuti radioattivi prodotti durante l'esercizio siano condizionati nell'arco di dieci anni.
La tabella 15 mostra, al riguardo, le quantità dei rifiuti radioattivi presenti nella centrale di Latina al 31 dicembre 2011, ripartite tra seconda e terza categoria (non vi sono a Latina rifiuti della prima categoria) e tra rifiuti condizionati e non condizionati. Quelli condizionati sono, in termini di volume, circa il 19 per cento del totale. Per un raffronto si può osservare che al 31 dicembre 2007 la quota dei rifiuti condizionati era del 24 per cento: da allora il volume dei rifiuti condizionati è rimasto identico, mentre il volume totale è aumentato da circa 1300 metri cubi agli attuali 1600.
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Nel corso del sopralluogo svolto il 17 maggio 2012, la Commissione ha preso atto del completamento ormai prossimo della costruzione di un deposito temporaneo, destinato anche ai rifiuti radioattivi che verranno prodotti dalle operazioni di smantellamento dell'impianto, prima del loro trasferimento al deposito nazionale, un quantitativo complessivo per Latina oggi stimato in circa 8.800 metri cubi di rifiuti di seconda categoria e 4.200 metri cubi di terza.
Risulta terminata la realizzazione di un sistema, detto LECO, per il trattamento e condizionamento dei «fanghi» radioattivi prodotti durante il funzionamento della centrale, sistema che potrà essere posto in esercizio una volta effettuato il collaudo. Questo sistema, così come il deposito temporaneo dei rifiuti radioattivi, è stato costruito sulla base di un'ordinanza del 2006 dell'allora commissario delegato, con la quale sono stati sostituiti i permessi di competenza comunale.
Sono pure terminate le operazioni di smontaggio di parti delle condotte del circuito primario dell'impianto, tra le prime ad essere iniziate sul sito, come lo smantellamento delle macchine di carico e scarico del combustibile e la decontaminazione della piscina.
È stata realizzata una «stazione gestione materiali», dove verranno controllati i materiali, separando i rifiuti radioattivi da quei materiali di risulta esenti da radioattività o comunque a bassissimo livello di contaminazione, che si erano accumulati sul sito o che verranno prodotti nel corso degli smantellamenti. Per tali materiali sono stati indicati, con l'apposita prescrizione prevista dalla legge, i livelli di contaminazione al disotto dei quali essi possono essere allontanati dal sito per essere riutilizzati, riciclati o smaltiti quali rifiuti convenzionali
Nel 2011 è stato effettuato un discusso smantellamento del pontile che si protendeva in mare per 750 metri. Non è stata invece ancora rimossa, in quanto necessaria durante la fase di decommissioning, la condotta interrata che durante il funzionamento della centrale portava l'acqua di raffreddamento. È peraltro possibile che una tubazione della condotta venga comunque mantenuta quale linea di scarico di un depuratore in costruzione in un area già di pertinenza del sito, esterna alla recinzione della centrale, che la SOGIN ha ceduto.
Per quanto attiene ai programmi, va osservato che, a differenza di tutte le altre centrali e degli altri impianti gestiti dalla Sogin - per i quali in attesa della disponibilità del deposito nazionale è previsto il raggiungimento di una condizione di brown field, rappresentata dallo smantellamento «completo» dell'impianto, sia pure con il mantenimento dei rifiuti sul sito - per la centrale di Latina i piani prevedono che vengano smantellati subito gli edifici ausiliari della centrale, ma che lo smantellamento del vero e proprio reattore avvenga solo quando il deposito nazionale sarà effettivamente disponibile. Ciò in quanto le circa 2 mila tonnellate di grafite presenti all'interno del reattore, del quale costituivano il moderatore, sarebbero difficilmente gestibili sul sito una volta smantellato il reattore stesso.
Nella tabella 16 sono indicate le date previste dai programmi SOGIN succedutisi, per l'attività complessiva e per le singole operazioni
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principali. La previsione del rilascio finale del sito, oggi indicato nel 2035, è subordinata alla disponibilità del deposito nazionale, che i programmi attuali ipotizzano entro il 2020.
Per la particolare strategia di smantellamento, il sito di Latina, che è previsto già come ultimo a poter essere rilasciato risulterebbe particolarmente penalizzato da eventuali ritardi nella realizzazione del deposito nazionale, in quanto il reattore continuerebbe a permanere tal quale sul sito sino all'effettiva disponibilità del deposito.
La spesa prevista per il solo smantellamento della centrale e per il conferimento dei relativi rifiuti al deposito nazionale è di 700 milioni di euro (l'analoga stima nel 2008 era di 650 milioni). Questa cifra corrisponde a quasi un quarto dei costo totale previsto per lo smantellamento e il conferimento dei rifiuti di tutti gli impianti nucleari gestiti dalla SOGIN (2.900 milioni di euro).
11.4La centrale del Garigliano
La centrale del Garigliano venne realizzata dalla SENN, società del gruppo IRI-Finelettrica, tra il 1959 e il 1963, in un sito posto sulla riva campana del fiume da cui prende il nome, nel territorio del comune di Sessa Aurunca, nella provincia di Caserta, sulla linea di confine con il Lazio. La centrale era dotata di un reattore di tipo ad acqua bollente (BWR), del primo modello della filiera sviluppata negli Stati Uniti dalla General Electric, ed aveva una potenza elettrica di 150 megawatt.
Come le centrali di Trino e di Latina e come diversi reattori di ricerca e impianti sperimentali, la centrale del Garigliano venne realizzata prima che, con l'entrata in vigore del decreto del Presidente della Repubblica n. 185 del 1964, fosse introdotto in Italia uno specifico iter autorizzativo per gli impianti nucleari. Pertanto, secondo quanto previsto da una norma transitoria dello stesso decreto, alla
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centrale venne rilasciata la licenza di esercizio in base a una valutazione di conformità svolta a posteriori.
La centrale iniziò l'attività commerciale nel giugno del 1964 e nello stesso anno, come tutti gli altri impianti di produzione di energia elettrica italiani, divenne proprietà dell'ENEL.
La sua vita fu particolarmente breve. A differenza delle altre tre centrali elettronucleari italiane, che furono spente dopo l'incidente di Chernobyl dell'aprile 1986 e a seguito degli esiti del referendum del novembre 1987, la centrale del Garigliano fu fermata già nell'agosto 1978, per la rottura di un grosso componente, un generatore di vapore, i cui costi di sostituzione, uniti a quelli di altri rilevanti interventi di adeguamento che si sarebbero resi necessari, anche a seguito del terremoto dell'Irpinia del 1980, indussero l'ENEL a rinunciare definitivamente alla sua ripartenza. La decisione fu sancita dal CIPE, che con la delibera 4 marzo 1982 dispose la chiusura definitiva della centrale e l'avviamento delle operazioni per porla in «custodia protettiva passiva». In quattordici anni di funzionamento la centrale aveva prodotto circa 12 miliardi di kilowattora, meno della metà di quanto avrebbero prodotto, a fine vita, le centrali di Trino e di Latina, praticamente coeve.
Rispetto alle altre centrali e, più in generale, agli altri siti nucleari, la centrale del Garigliano è stata maggiormente oggetto di polemiche e contestazioni in merito al possibile impatto sanitario nelle aree circostanti. Peraltro i dati in possesso della Commissione riguardanti gli scarichi di radioattività nell'ambiente effettuati negli anni dalla centrale non presentano anomalie che possano indurre a ipotizzare impatti significativi e comunque rilevabili, dal momento che le dosi di radiazioni calcolate per gli individui più esposti della popolazione risultano largamente al di sotto dei livelli internazionalmente considerati di non rilevanza radiologica.
Pur se avviate, per i motivi sopra ricordati, con diversi anni di anticipo rispetto alle altre tre centrali elettronucleari e agli altri impianti, le attività di decommissioning del Garigliano non sono oggi giunte a una fase sostanzialmente diversa. Al contrario, i dati che al riguardo il Ministro dello sviluppo economico ha fornito alla Commissione nel corso dell'audizione del 7 marzo 2012, pur tenendo conto delle approssimazioni che simili stime necessariamente contengono, pongono la centrale del Garigliano all'11 per cento del percorso, al di sotto quindi della media complessiva, che è invece del 12 per cento.
Le attività più significative svolte nei trenta anni trascorsi da quando la delibera del CIPE ne sancì la definitiva chiusura e l'inizio delle operazioni di messa in custodia protettiva passiva, primo passo del decommissioning, sono state l'allontanamento del combustibile irraggiato (in gran parte spedito nell'impianto inglese di Sellafield per il riprocessamento, in piccola parte ancora stoccato nel deposito Avogadro di Saluggia da dove dovrà essere trasferito in Francia), la caratterizzazione radiologica preliminare, la decontaminazione della piscina del combustibile, la decontaminazione e la chiusura del vessel, del circuito primario e degli altri dei circuiti idraulici.
Più avanzata rispetto alla media degli altri impianti è invece l'attività di trattamento e condizionamento dei rifiuti radioattivi, come può vedersi anche dalla tabella 17, dove compare l'inventario dei
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rifiuti presenti nella centrale, tutti della sola seconda categoria, al 31 dicembre 2011. Risulta condizionato oltre il 50 per cento dei rifiuti, ben al disopra della percentuale media generale, che è intorno al 25.
Si stima che, con quelli che verranno prodotti con lo smantellamento, il volume di rifiuti che dalla centrale dovrà essere trasferito al deposito nazionale, quando questo sarà disponibile, sarà complessivamente di 4.900 metri cubi circa.
Peraltro, in materia di gestione dei rifiuti radioattivi vi è un punto particolarmente critico, rappresentato dai rifiuti a suo tempo collocati in «trincee» scavate nel terreno, secondo una prassi ritenuta accettabile negli anni '60-'70. La richiesta da parte dell'ente di controllo di recuperare i rifiuti interrati prima del possibile verificarsi di dispersioni di radioattività risale al 2002, ma i relativi programmi di attività sono stati a lungo condizionati dalla necessità di predisporre sul sito soluzioni di deposito temporaneo dove collocare - oltre a quelli prodotti dagli smantellamenti - i rifiuti una volta recuperati dalle trincee. È stato così realizzato ex novo il deposito «D1» ed è stato trasformato in deposito l'edificio prima destinato ad ospitare i gruppi moto-generatori. La Commissione, nel corso del sopralluogo compiuto il 9 ottobre 2012, ha potuto constatare che entrambi i depositi sono pronti per diventare operativi e ciò dovrebbe consentire alle operazioni di recupero finalmente di iniziare.
I mezzi di informazione hanno recentemente dato notizia che sulla vicenda delle trincee è intervenuta la procura di Santa Maria Capua Vetere, ponendo sotto sequestro la relativa area della centrale.
Altra vicenda di lunga data è quella concernente il camino della centrale, struttura vecchia già da tempo oggetto di piani di smantellamento, per la possibilità che un eventuale sisma possa causarne il crollo. Risultano autorizzate ormai da qualche anno le operazioni di «scarifica» (l'asportazione delle parti interne del camino contaminate dalla radioattività), propedeutiche all'abbattimento, operazioni che tuttavia non sono ancora iniziate, dovendosi tra l'altro, a quanto si è appreso, procedere all'abbattimento preliminare di un edificio posto all'interno dell'area di cantiere dove dovrà essere collocata la gru necessaria per le attività sul camino.
Per motivi analoghi è programmato il rifacimento del sistema di approvvigionamento idrico, con l'abbattimento della torre piezometrica oggi esistente.
Il 28 settembre 2012 il Ministero dello sviluppo economico ha emanato il decreto che autorizza definitivamente il decommissioning della centrale.
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Nella tabella 18 sono indicate le date previste dai programmi SOGIN per l'attività complessiva e per le singole principali operazioni. La previsione del rilascio finale del sito, oggi indicato nel 2025, è basata sull'ipotesi di disponibilità del deposito nazionale entro il 2020.
La spesa prevista per il solo smantellamento della centrale e per il conferimento dei rifiuti al deposito nazionale è di circa 350 milioni di euro.
11.5L'impianto ITREC
L'impianto ITREC è stato oggetto di un sopralluogo che la Commissione ha effettuato il 13 marzo 2012.
L'impianto è situato nel centro ricerche ENEA della Trisaia, nel comune di Rotondella (MT), sulla costa ionica della Basilicata. L'impianto venne costruito alla fine degli anni '60 nell'ambito di un accordo di cooperazione tra il CNEN (che nel 1982 assumerà la denominazione di ENEA) e l'americana Atomic Energy Commission, l'ente che, analogamente al CNEN in Italia, svolgeva allora negli Stati Uniti le funzioni di ricerca, promozione e controllo dell'energia nucleare. L'accordo aveva per oggetto gli studi sul ciclo uranio-torio, alternativo al ciclo uranio-plutonio che è quello utilizzato in tutte le centrali nucleari esistenti. Negli Stati Uniti era allora in esercizio il reattore di Elk River, l'unico che abbia mai utilizzato combustibile del ciclo uranio-torio, e l'impianto ITREC era stato studiato e realizzato per riprocessare quel tipo di combustibile e per rifabbricare con le materie estratte nuovo combustibile fresco. Da queste funzioni deriva la denominazione dell'impianto, acronimo di «impianto per il trattamento e la rifabbricazione di elementi di combustibile».
Tra il 1968 e il 1970 l'impianto ricevette dagli Stati Uniti, in tre spedizioni, 84 elementi di combustibile Elk River. Di questi, 20 vennero impiegati per effettuare, in due fasi, tra il 1975 e il 1978, le
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prove nucleari di alcune parti dell'impianto, producendo quasi 3 metri cubi di soluzione uranio-torio, detta prodotto finito, un volume analogo di rifiuti liquidi ad alta attività, altri rifiuti liquidi, circa 60 metri cubi, a attività minore e rifiuti solidi costituiti dalle parti metalliche del combustibile riprocessato. Questi ultimi furono inglobati in quattro monoliti di cemento di 5 m di lunghezza e 1 metro quadro circa di sezione, che vennero interrati, secondo una pratica allora considerata corretta. Le prove nucleari dettero esito negativo, evidenziando la necessità di interventi di modifica, che furono progettati, approvati e realizzati, ma, a seguito dei mutamenti dei programmi conseguenti all'incidente di Chernobyl, nel 1987 l'impianto fu chiuso. Peraltro, in America, la centrale di Elk River era già stata definitivamente spenta sin dal 1968.
Oltre alla produzione dei rifiuti di cui si è detto, le prove nucleari svolte avevano ovviamente determinato la contaminazione delle parti interessate, pertanto l'impianto deve oggi essere sottoposto ad operazioni di decommissioning come se fosse stato normalmente in esercizio.
Sino al 2003 ITREC, come gli altri impianti di proprietà ENEA, è stato gestito dall'ENEA stesso. L'ente, dopo la chiusura, non aveva prodotto un preciso programma per il suo decommissioning e l'attività svolta è consistita essenzialmente nel condizionamento dei rifiuti radioattivi liquidi tramite cementazione, prima, tra il 1995 e il 1997, di quelli a bassa attività, successivamente, nel periodo 1999-2000, di quelli ad alta attività.
Queste operazioni hanno portato alla produzione di 433 fusti di rifiuti per il condizionamento dei liquidi a bassa attività, e 307 fusti per il condizionamento di quelli ad alta attività, oltre a 30 fusti di rifiuti dal condizionamento dei liquidi di lavaggio.
Negli stessi anni vennero effettuate operazioni di «supercompattazione» (riduzione di volume tramite pressatura) di rifiuti solidi a bassa attività, che hanno portato alla produzione di 841 manufatti (detti over-pack).
È stato inoltre necessario effettuare operazioni di bonifica a seguito di perdite di liquidi debolmente radioattivi che si erano verificate nel 1993 all'esterno dell'impianto, a causa di rotture di tubazioni della condotta di scarico a mare, nonché gestire un versamento di rifiuti liquidi all'interno dell'impianto, causato dalla rottura di uno dei serbatoi ove i rifiuti erano stoccati. Questi eventi sono stati oggetto di un procedimento penale.
Dall'agosto 2003 la gestione dell'impianto è passata alla SOGIN. Da allora le attività prevalenti hanno riguardato la sistemazione generale del sito e la prosecuzione della gestione dei rifiuti radioattivi, in particolare per quanto attiene a quelli solidi conservati, insieme a materiali contaminati di vario tipo, in alcuni container collocati in un'area del sito stesso. Da citare anche la completa sostituzione della condotta degli scarichi liquidi in mare.
Infine, a seguito di una contaminazione rilevata in alcuni pozzetti di monitoraggio intorno all'area, detta fossa irreversibile, ove sono interrati i monoliti di cemento di cui si è sopra detto, nel 2007 è stata realizzata una barriera di contenimento idraulico dell'area stessa, in attesa della sua bonifica.
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Nella tabella 19 è sintetizzata la situazione complessiva attuale dei rifiuti radioattivi presenti nell'impianto al 31 dicembre 2011.
Nel 2011 la SOGIN ha presentato l'istanza per il decommissioning dell'impianto, in ottemperanza a una prescrizione impartita in tal senso nel 2006.
Sono propedeutiche alle operazioni di smantellamento la sistemazione del combustibile nucleare, oggi ospitato nella piscina dell'impianto, e la solidificazione dei 2,7 metri cubi di soluzione uranio-torio, il «prodotto finito» frutto del riprocessamento dei venti elementi di combustibile effettuato durante la fase di prove nucleari.
Per quanto attiene al combustibile, si tratta dei 64 elementi Elk River rimasti degli 84 originariamente ricevuti dagli Stati Uniti, per un quantitativo di 1,7 tonnellate circa. Tale combustibile, per la sua natura di combustibile del ciclo uranio-torio, non può essere riprocessato in un normale impianto di riprocessamento, come quello francese o quelli inglesi, destinati a trattare combustibile del ciclo uranio-plutonio, dove è stato spedito il combustibile nucleare utilizzato nelle centrali italiane, ma avrebbe potuto essere riprocessato unicamente nello stesso impianto ITREC, realizzato proprio per trattare quel tipo di combustibile. I 64 elementi sono quindi destinati ad essere conservati a secco in due contenitori, che si prevede vengano acquistati dalla Francia, ma che comunque non sono ancora in fase di realizzazione. I contenitori dovranno permanere sul sito del centro della Trisaia fino a quando non sarà disponibile il deposito nazionale ove trasferirli.
Per quanto riguarda il prodotto finito, per esso è prevista la cementazione con un apposito sistema, per la cui realizzazione sono stata già rilasciate, nel 2010, le necessarie autorizzazioni di sicurezza. Del sistema è stato realizzato sul sito un modello in scala 1:1, ma la sua reale costruzione non è ancora stata avviata, in quanto esso dovrà sorgere - così come il deposito temporaneo dei manufatti che produrrà - nell'area oggi occupata dalla cosiddetta fossa irreversibile. Occorre quindi procedere preliminarmente al recupero dei quattro monoliti interrati nella fossa e alla bonifica dell'area. Per condurre questa operazione, che ovviamente andrebbe in ogni caso effettuata nell'ambito del decommissioning dell'impianto, è necessaria una fase di indagini sui monoliti per poter poi progettare l'intervento di rimozione. Tali indagini sono state autorizzate da ormai due anni, ma ad oggi non risultano ancora iniziate.
La tabella 20, fornita dall'Autorità per l'energia elettrica e il gas, mostra le date previste dai programmi SOGIN per l'attività complessiva
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e per le singole principali operazioni. La previsione contenuta nel programma 2010 del rilascio finale del sito nel 2026 è basata sull'ipotesi di disponibilità del deposito nazionale entro il 2020.
Per ITREC, la spesa prevista (stima 2010) per il solo smantellamento dell'impianto e per il conferimento dei relativi rifiuti al deposito nazionale è di circa 315 milioni di euro (l'analoga stima nel 2008 era di 203 milioni). Questa cifra corrisponde all'11 per cento circa dei costo totale previsto per lo smantellamento e il conferimento dei rifiuti di tutti gli impianti nucleari gestiti dalla Sogin.
Il centro della Trisaia e l'impianto ITREC sono stati a lungo, e continuano ad essere, oggetto di voci, ma anche di dichiarazioni di collaboratori di giustizia, che li hanno posti in relazione a traffici internazionali di materie fissili e a smaltimenti illeciti di rifiuti radioattivi. Ad alimentare le voci ha probabilmente contribuito il fatto che, nell'ambito di un accordo bilaterale di collaborazione stabilito nel 1978 tra l'ENEA (allora CNEN) e l'omologo ente dell'Iraq, in quel periodo il centro era stato frequentato da tecnici iracheni. Nello stesso periodo erano stati peraltro stipulati contratti da parte di industrie italiane per la fornitura all'Iraq di apparecchiature del ciclo del combustibile nucleare.
Le ipotesi sono state oggetto di indagini da parte della magistratura e in particolare della direzione distrettuale antimafia di Potenza.
Alcune informazioni al riguardo sono state date alla Commissione dal procuratore della Repubblica presso il tribunale di Matera, Celestina Gravina, nel corso dell'audizione del 28 febbraio 2012. In merito all'ipotesi di smaltimento illecito di scorie radioattive, la dott.ssa Gravina, ha comunicato che, in base alle notizie di cui dispone, l'indagine si era esaurita pochi mesi prima con un'archiviazione. Ha poi aggiunto che, qualche giorno prima, per fornire elementi di risposta a un'interrogazione parlamentare su una vicenda di antiche torri greche che avrebbero potuto essere utilizzate per contenere rifiuti, aveva «trovato che in un processo negli anni '90 era stato rinvenuto un disegno - non il documento, ma l'appunto di un
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sostituto procuratore - rappresentante quella specie di deposito greco, con dentro l'immagine di un contenitore che avrebbe potuto contenere le famose barre» di combustibile nucleare. Per il resto non è stato trovato nulla.
In merito alle ipotesi di traffici internazionali di materie fissili, il procuratore ha affermato: «Quanto a tutte le vicende di traffici internazionali, gli ingegneri iracheni che avevano contatto con l'ITREC, i famosi fusti per metà in Somalia e per metà sotterrati nelle nostre terre, il collegamento a Ilaria Alpi, da tutto ciò credo che non sia sortito nulla di preciso e che tutto sia contenuto nel fascicolo archiviato da Potenza recentemente».
Molto netto il giudizio complessivo del procuratore sulle voci sul centro ENEA: «sono chiacchiere da comari. Le ho sentite direttamente (...). Solo chiacchiere da comari».
La Commissione ha inoltre acquisito la relazione predisposta dai consulenti tecnici incaricati nel 2001 dalla direzione distrettuale antimafia di Potenza di verificare, tra gli altri punti, l'eventuale trattamento nell'impianto ITREC di materiale diverso da quello autorizzato e se si fosse in particolare ricavato plutonio. Tale sostanza dovrebbe risultare assente dall'impianto, poiché in esso, come già ricordato, dovrebbe essere stato trattato solo combustibile del ciclo uranio-torio, dove il plutonio non è presente, né viene prodotto durante la fase di irraggiamento all'interno del reattore.
Nelle loro conclusioni i consulenti affermano che, pur se i rilievi radiometrici effettuati evidenziano in alcune aree di impianto una presenza di tracce di plutonio che dimostrano violazioni delle prescrizioni nella conduzione delle attività di collaudo autorizzate, di per sé un reato contravvenzionale, l'esiguità di tali tracce fa ragionevolmente escludere che nelle aree in questione sia stato trattato materiale con quantità di plutonio significative, tali cioè da alimentare un traffico illecito.
Un'ipotesi in merito all'origine delle voci su una presunta presenza di plutonio nell'impianto ITREC è stata avanzata, durante l'audizione del 17 aprile 2012, dal responsabile della società MIT Nucleare, l'unica ditta italiana che si occupa del trasporto di combustibile e di materie nucleari. Questi ha informato la Commissione che, nel 1994, la MIT Nucleare effettuò il trasporto dall'impianto EUREX di Saluggia all'impianto ITREC, di una scatola a guanti. All'interno di quella apparecchiatura, nell'impianto EUREX era stata fatta una lavorazione con plutonio e pertanto in essa vi era una contaminazione di tale sostanza. Si trattava solo di tracce, ma, non potendo determinare l'esatta quantità poiché la misura avrebbe richiesto l'apertura della scatola a guanti, nei documenti di trasporto fu prudenzialmente dichiarata la quantità massima compatibile con il regime autorizzativo nel quale il trasporto stesso veniva effettuato. Secondo il responsabile della MIT, a distanza di una settimana la stampa riportava le dichiarazioni di un incaricato della portineria dell'impianto, il quale, avendo fotocopiato i documenti, sosteneva che nell'impianto fosse entrato plutonio, mentre si trattava solo di una scatola a guanti con tracce di contaminazione.
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11.6Gli altri impianti
Per completezza di informazione, si riportano nel seguito i dati acquisiti dalla Commissione in relazione agli impianti nucleari che non sono stati oggetto di sopralluoghi: la centrale di Trino, in provincia di Vercelli, l'impianto di Bosco Marengo, in provincia di Alessandria,e gli impianti Plutonio e OPEC 1 nel centro della Casaccia.
11.6.1.Centrale di Trino
I più recenti programmi SOGIN pongono la conclusione degli smantellamenti della centrale nel 2018 e, nell'ipotesi di disponibilità del deposito nazionale, il rilascio del sito nel 2024. I costi complessivi previsti dal piano 2010 per il decommissioning e il conferimento dei rifiuti radioattivi sono pari a circa 230 milioni di euro. Nel piano 2008 la spesa prevista ammontava a 166 milioni.
11.6.2.Impianto Bosco Marengo
Il termine delle operazioni di decommissioning è previsto entro la fine del 2012 e il rilascio del sito nel 2022. I costi complessivi previsti dal piano 2010 per il decommissioning e il conferimento dei rifiuti radioattivi sono pari a 22,5 milioni di euro, con un aumento del 10 per cento rispetto a quelli preventivati nel 2008.
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11.6.3.Impianti Plutonio e OPEC 1
La tempistica relativa agli impianti presenti nel centro della Casaccia prevede il rilascio del sito nel 2025, con la conclusione delle operazioni di smantellamento nel 2021. I costi associati alle operazioni e al conferimento dei rifiuti sono pari a 285 milioni di euro, con una riduzione rispetto alle analoghe stime del 2008, che erano di 312 milioni.
11.7Il Centro comune di ricerche di Ispra
Nel computo dell'inventario dei rifiuti radioattivi destinati al deposito nazionale va tenuto conto di quelli prodotti nel Centro comune di ricerche Euratom di Ispra, in provincia di Varese. Come è noto, il Centro di Ispra non è da considerare italiano, in quanto è gestito dalla Commissione europea, alla quale è stato ceduto dallo Stato, fin dal 1959, con un canone simbolico annuo di un'unità di conto. I rapporti tra lo Stato e la Commissione europea riguardanti il Centro sono regolati da uno specifico accordo generale, ratificato con la legge 1o agosto 1960, n. 906. Nell'ambito dell'accordo è stabilito che le attività del Centro sono sottoposte alla legislazione italiana e in particolare a quella vigente in materia di sicurezza
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nucleare e di radioprotezione, fermi restando i privilegi e le immunità previsti.
Nella tabella 25 sono indicati i quantitativi di rifiuti presenti nel Centro.
All'atto del trasferimento alla Commissione europea, nel Centro era già in esercizio, dall'aprile del 1959, il primo reattore italiano, il reattore di ricerca Ispra 1. Nel corso degli anni, nel Centro sono stati realizzati altri impianti, laboratori e strutture di trattamento e di deposito dei rifiuti radioattivi. Più recentemente, mentre cessava l'esercizio degli impianti nucleari (nessuno di essi è oggi in funzione, pur se restano attività con sorgenti di radiazioni, in particolare un acceleratore per la produzione, tra l'altro, di radiofarmaci), sono state avviate attività in altri campi, quali le energie rinnovabili e l'ambiente. Per gli impianti nucleari, la Commissione europea ha definito un programma di decommissioning, che prevede il completamento degli smantellamenti e il conferimento dei rifiuti radioattivi al deposito nazionale italiano nel 2028.
In questo ambito, la Commissione ha posto alcune questioni allo Stato italiano, in particolare:
1) la garanzia che i manufatti che verranno prodotti con il condizionamento dei rifiuti radioattivi saranno considerati idonei per lo stoccaggio nel deposito nazionale;
2) la richiesta di contribuire alla sistemazione dei rifiuti radioattivi e al decommissioning degli impianti, richiesta fondata sul fatto che, nel passato, alcune attività degli impianti nucleari del Centro sono state svolte per soddisfare commesse di parte italiana.
Per quanto attiene al primo punto, la questione è stata risolta con una lettera del 19 settembre 2008 inviata al Commissario europeo competente dal Ministro dello sviluppo economico pro tempore, il quale ha confermato che i rifiuti provvisoriamente stoccati nel sito di Ispra verranno presi in consegna dalle competenti autorità italiane non appena saranno disponibili le previste strutture nazionali di stoccaggio e ha assicurato che, nell'ipotesi di una modifica dei criteri per il condizionamento dei rifiuti radioattivi da avviare allo smaltimento nel deposito nazionale, le autorità italiane provvederanno all'effettuazione del loro ricondizionamento, ferma restando l'esigenza di definire un cofinanziamento comunitario per i costi di tale operazione.
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Sul secondo punto, lunghe interlocuzioni hanno portato alla definizione e alla sottoscrizione, il 27 novembre 2009, di un accordo che prevede che, a titolo di contributo all'attività di decommissioning degli impianti del Centro, da parte italiana si provvederà alla disattivazione del reattore Ispra 1.
L'accordo stabilisce inoltre che, entro un anno dalla sua sottoscrizione, la titolarità degli atti autorizzativi del reattore Ispra 1 è trasferita a un soggetto italiano che il Governo deve definire. Il Centro comune di ricerche procederà nelle attività programmate fino a tale data.
Da parte italiana l'accordo non è stato ancora ratificato, né attuato in alcuna parte. La Commissione europea lo considera, invece, in vigore e, con note periodiche, chiede il rimborso, non simbolico, dei costi sostenuti, a partire dal dicembre 2010, per la conservazione in sicurezza del reattore.
12.Possibili attività illecite legate ai rifiuti radioattivi
Il motivo principale per il quale, coerentemente con il proprio mandato, la Commissione ha condotto l'approfondimento sul tema dei rifiuti radioattivi è stata la verifica di un'eventuale presenza della criminalità nella loro gestione o comunque dell'esistenza in essa, anche potenziale, di margini più o meno consistenti di illegalità.
Sia nelle audizioni che si sono avute, sia nel corso dei sopralluoghi che la Commissione ha compiuto su diversi siti italiani, sono stati richiesti riscontri alle dichiarazioni di collaboratori di giustizia, o comunque alle voci e alle ipotesi giornalistiche in merito a smaltimenti illeciti o a traffici internazionali che avrebbero coinvolto rifiuti radioattivi o materie nucleari.
Va subito detto, al riguardo, che nelle attività di indagine svolte riscontri non sono stati in nessun caso trovati, né si sono avute conferme, sia pure parziali o indirette. Si è avuta per contro notizia, come già ricordato, che la direzione distrettuale antimafia di Potenza, dopo anni di indagini, ha archiviato il procedimento aperto in relazione al sito nucleare - quello di Rotondella - che più di ogni altro è stato al centro di quelle dichiarazioni e di quelle voci.
Neppure dalle audizioni di quanti, per la loro specifica attività, sarebbero potuti venire a conoscenza di elementi atti a supportare le ipotesi di infiltrazioni delle organizzazioni criminali nella gestione dei rifiuti radioattivi, come il comando dei carabinieri per la tutela dell'ambiente, sono giunte notizie - pur sollecitate dai membri della Commissione - di situazioni sospette o critiche. Lo stesso comando ha anche informato dell'assenza di segnalazioni riguardanti traffici internazionali, per le quali è punto di contatto italiano rispetto agli altri Paesi del G8.
Peraltro, almeno nella situazione italiana, un non eccessivo interesse da parte della criminalità organizzata per il settore dei rifiuti
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radioattivi potrebbe spiegarsi con due caratteristiche di quel settore: le ridotte dimensioni e i controlli al quale è soggetto.
Delle dimensioni si è detto. Nei siti italiani sono oggi presenti circa 28 mila metri cubi di rifiuti radioattivi, ai quali si aggiunge una produzione annua che non supera alcune centinaia di metri cubi. Se si considerano i rifiuti che deriveranno dagli smantellamenti degli impianti nucleari, circa 30 mila metri cubi, si arriva a un volume complessivo di 90 mila metri cubi - è questo il riferimento per il deposito nazionale da realizzare - che rappresentano l'esito di cinquanta anni di impianti nucleari e di decenni di impiego delle sorgenti radioattive nella medicina, nell'industria e nella ricerca. Per avere un termine di confronto, si può considerare che in Italia, secondo i dati dell'ISPRA, si produce in un solo anno una quantità di rifiuti speciali pericolosi - la categoria più assimilabile ai rifiuti radioattivi - oscillante tra i 10 e gli 11 milioni di tonnellate, mentre la produzione di rifiuti speciali di ogni tipo, esclusi gli inerti, è di circa 70 milioni di tonnellate all'anno.
Per quanto riguarda i controlli, quello nucleare è certamente tra i settori maggiormente sottoposti ad essi. Oltre a quelli esercitati dagli organismi a competenza generale, vi è un ente di vigilanza specifico, costituito in pratica contestualmente alla nascita del settore, che ha tra i suoi compiti la verifica della correttezza della gestione dei rifiuti radioattivi e della contabilità delle materie nucleari. Su queste ultime, inoltre, il controllo è svolto anche dall'Agenzia internazionale per l'energia atomica e dall'Euratom, in attuazione dei trattati internazionali vigenti.
Queste considerazioni, tuttavia, se possono contribuire a una risposta di carattere generale riguardo a un eventuale limitato interesse della criminalità organizzata nei confronti dei flussi principali dei rifiuti radioattivi, non possono escludere l'occorrenza di singoli episodi, in particolare originati in Paesi nei quali meno consolidato sia il sistema dei controlli, e soprattutto non si applicano a possibili fenomeni di microcriminalità e di abbandono, in aree marginali della produzione dei rifiuti.
Si è visto che per taluni settori dell'impiego delle sorgenti radioattive, e in particolare, data la sua presumibile ampiezza, per quello degli usi medici, non è determinato con sufficiente approssimazione neppure il numero degli esercenti, tanto meno si può affermare che la loro produzione di rifiuti coincida con quanto viene raccolto e correttamente gestito dagli operatori autorizzati. Indubbiamente l'ammontare complessivo di quella produzione è tale da lasciare alla possibile illegalità spazi piuttosto ridotti, ma questi potrebbero però essere utilmente occupati da chi esercita un'attività criminosa in più ampi settori contigui.
D'altra parte, la marginalità quantitativa di un simile eventuale fenomeno non si tradurrebbe necessariamente in una scarsa rilevanza dei rischi che esso potrebbe comportare. Basti pensare, al riguardo, allo smaltimento di sorgenti sigillate tra i rottami metallici, eventi che a quanto risulta sono stati sino ad oggi sempre legati all'importazione (ed in quell'ottica è stata tra l'altro attuata sino ad oggi la protezione), ma che potrebbero far registrare anche casi di origine interna.
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Un approfondimento di questi aspetti presenterebbe certamente difficoltà notevoli, ma la rilevanza del tema meriterebbe che uno sforzo venisse compiuto.
Di sicuro interesse anche per la criminalità organizzata sono gli appalti relativi alle operazioni afferenti al decommissioning da eseguire sugli otto siti nucleari e alla stessa realizzazione del deposito nazionale. Le somme che dovranno essere investite nei prossimi anni ammontano ad alcuni miliardi di euro e solo una parte dei lavori richiede una qualificazione tale da escludere automaticamente imprese che possano essere in connessioni mafiose.
Per prevenire le infiltrazioni della criminalità negli appalti, nel marzo 2011 la SOGIN ha sottoscritto con tutti i prefetti delle province interessate dalla presenza degli impianti nucleari un protocollo di legalità.
Si tratta di un documento articolato, con il quale la SOGIN assume una serie di obblighi nella gestione delle gare e dei contratti, obblighi da trasmettere contrattualmente agli stessi aggiudicatari nei confronti delle imprese subappaltatrici, inclusa, ad esempio, la rescissione automatica dei contratti stessi quando si verifichino, non denunciati, tentativi di estorsione o quando sussistano ipotesi di collegamenti o di accordi con altre imprese partecipanti alle procedure concorsuali. Sono pure previsti i flussi di informazione che la SOGIN si impegna a garantire nei confronti degli organi preposti ai controlli antimafia, in relazione alla filiera delle imprese che partecipano all'esecuzione di lavori o alla prestazione di servizi.
In occasione dei sopralluoghi compiuti sui siti che per ubicazione geografica potrebbero essere più esposti ai tentativi di infiltrazioni mafiose, la Commissione ha potuto rilevare l'importanza che i dirigenti della SOGIN attribuiscono al protocollo. Si tratta, infatti, di una dimostrazione della consapevolezza del problema e dell'impegno con cui si intende affrontarlo. Sarà ora necessario che quell'impegno venga esercitato nell'attuazione scrupolosa del protocollo e nell'azione di sorveglianza.
La rilevanza dell'argomento merita inoltre una riflessione sull'ausilio che potrebbe essere dato da eventuali norme specifiche per prevenire ogni possibile rischio.
13.Conclusioni
La legislazione di sicurezza nucleare e di radioprotezione vigente in Italia, al cui interno è disciplinato il settore dei rifiuti radioattivi, attua in modo rigoroso, e per taluni aspetti ancor più stringente, le direttive emanate in materia dall'Unione europea, le quali, a loro volta, fanno riferimento alle più autorevoli fonti dottrinali in ambito internazionale.
La Commissione valuta positivamente l'approccio prudenziale con il quale si è sin qui operato nel recepimento delle direttive comunitarie e auspica che tale approccio venga mantenuto nelle attività normative che dovranno essere svolte, salvaguardando punti qualificanti della regolamentazione nazionale.
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L'Italia ha ratificato i trattati internazionali esistenti nella stessa materia e in particolare la Convenzione congiunta sulla sicurezza della gestione del combustibile irraggiato e dei rifiuti radioattivi e la Convenzione di Londra sull'affondamento di rifiuti in mare.
Resta ora da attuare la più recente delle direttive comunitarie, la direttiva 2011/70/Euratom, concernente proprio la gestione dei rifiuti radioattivi, che non richiederà solo un mero atto di formale recepimento, ma anche, tra le risposte ai diversi requisiti, la predisposizione e l'attuazione di un organico programma nazionale per la gestione del combustibile nucleare irraggiato e dei rifiuti radioattivi, attività che in Italia ha spesso sofferto di una qualche estemporaneità.
Sulle centrali nucleari e sugli impianti del ciclo del combustibile, l'esistenza di un sistema regolatorio e di controllo, specifico e dedicato, posto in atto sin dall'inizio dello sviluppo della tecnologia e l'attenzione che gli impianti nucleari, punti singolari sul territorio, inevitabilmente attirano su di sé hanno impedito illegalità diffuse e possono aver svolto un'azione di dissuasione nei confronti della criminalità, prevenendo possibili tentativi di infiltrazione nella gestione dei rifiuti radioattivi o di traffici illeciti di materie nucleari, queste ultime soggette anche a un regime di controlli internazionali. Sta di fatto che la Commissione, che non ha omesso di approfondire neppure le voci e le ipotesi giornalistiche, non ha trovato conferme o elementi che possano supportare, anche parzialmente o indirettamente, le dichiarazioni o le semplici voci di smaltimenti illeciti o di traffici internazionali. Ciò non esclude che episodi isolati si possano essere verificati, né che la criminalità organizzata possa aver contribuito ad attività illecite originate in Paesi dove il sistema regolatorio e di controllo sia meno consolidato.
Certamente meno definita è la situazione per quanto attiene all'impiego delle sostanze radioattive nell'industria, nella ricerca e nella sanità. Si tratta di attività ampie e, soprattutto l'ultima, capillarmente diffuse sul territorio, per le quali manca allo stato attuale, anche a causa di una carenza nell'applicazione delle norme da parte di alcune amministrazioni, un centro nazionale di raccolta delle informazioni. I rifiuti radioattivi prodotti in questi impieghi emergono solo nel momento in cui vengono conferiti a un deposito temporaneo autorizzato a riceverli, dove vengono inventariati e dichiarati e quindi inclusi nell'inventario nazionale che l'ISPRA ha costituito e del quale cura l'aggiornamento.
In questo modo si crea un potenziale spazio, se non per un'attività criminale organizzata, data l'esiguità dei quantitativi massimi a disposizione per essa (da alcune decine a qualche centinaio di metri cubi all'anno di rifiuti su tutto il territorio nazionale), certamente per smaltimenti illeciti da parte di singoli, uno spazio che merita comunque di essere ulteriormente investigato.
Si tratta, infatti, di eventualità da non sottovalutare sotto il profilo del rischio radiologico, se si pensa che lo smaltimento potrebbe tra l'altro riguardare sorgenti sigillate, potenzialmente anche molto pericolose per le persone che dovessero essere esposte a esse.
Casi di questo genere in Italia non si sono verificati. Si sono però verificati diverse volte casi di importazione di rottami metallici
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all'interno dei quali erano nascoste sorgenti radioattive. Talvolta queste sono state intercettate tempestivamente, spesso ci si è accorti di loro solo dopo che erano state fuse all'interno dei forni, insieme ai rottami, provocando contaminazioni anche gravi negli impianti metallurgici.
La legge ha preso in considerazione questo problema dettando diverse disposizioni, che sono però restate in parte inattuate e in parte sono state oggetto di interpretazioni, date dalle amministrazioni competenti, che ne hanno limitato l'efficacia.
Per quanto attiene alla gestione dei rifiuti radioattivi presenti sul territorio nazionale, la situazione complessiva non può dirsi al momento ottimale.
Il dato negativo di fondo è la perdurante mancanza di un sito nazionale ove i rifiuti possano essere depositati o smaltiti in condizioni di sicurezza.
La realizzazione del deposito nazionale, che, per favorirne l'accettazione da parte delle comunità locali interessate, il decreto legislativo n. 31 del 2010 vuole integrato in un più ampio parco tecnologico, è affidata alla SOGIN ed è oggi previsto che si concluda nel 2020, un obiettivo temporale che potrà essere raggiunto solo con uno sforzo straordinario di tutte le parti interessate.
La mancanza del deposito nazionale fa sì che la stragrande maggioranza dei rifiuti radioattivi prodotti negli impianti nucleari - centrali, installazioni sperimentali, reattori di ricerca - sia ancora conservata presso gli stessi singoli impianti, sparsi sul territorio italiano, nei quali sono stati a suo tempo generati, una situazione che ha già influenzato il processo di decommissioning e che, protraendosi, impedirebbe la liberazione dei siti, trasformando ciascuno di essi nel deposito finale dell'impianto che ha ospitato, inclusi i rifiuti prodotti dal riprocessamento del combustibile nucleare, effettuato in Inghilterra e in Francia, che dovranno rientrare in Italia.
In alcuni deposti temporanei sono invece raccolti e provvisoriamente stoccati i rifiuti prodotti, e che continuano inevitabilmente a prodursi, nell'impiego di sorgenti radioattive al di fuori degli impianti nucleari: attività industriali, ricerca, impieghi medici.
Ad aumentare l'attuale stato di precarietà vi è il fatto che la maggior parte dei rifiuti radioattivi si trova ancora allo stato in cui sono stati prodotti, senza aver subito, cioè, le operazioni di condizionamento con le quali i rifiuti vengono inglobati - se solidi - o solidificati - se liquidi - in matrici solide inerti, che costituiscono la prima, fondamentale barriera contro la dispersione della radioattività nell'ambiente.
Deputata a queste operazioni, come pure al decommissioning delle centrali nucleari e degli impianti del ciclo del combustibile, è la SOGIN, società a capitale interamente pubblico, nata nel 1999 nell'ambito del processo di liberalizzazione del mercato elettrico. La SOGIN avrebbe dovuto procedere al condizionamento dei rifiuti pregressi - circa ventimila metri cubi - presenti negli impianti nucleari dei quali è responsabile nell'arco di un decennio. Oggi il lavoro è giunto a poco più di un quarto di strada e anche i casi più urgenti, come i rifiuti liquidi ad alta attività che nell'impianto EUREX
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di Saluggia attendono da decenni di essere solidificati, dovranno attendere ancora diversi anni.
Criticità in attesa di soluzioni da individuare o da attuare sono presenti anche in altri siti, ad esempio nella centrale del Garigliano, dove vi sono rifiuti a suo tempo sepolti in trincee che debbono ora essere recuperati e messi in sicurezza, o nella centrale di Caorso, dove vi è qualche migliaio di fusti di rifiuti già condizionati con un metodo che si è poi rivelato inidoneo, in quanto causa di corrosione dei fusti stessi.
Strettamente connesso con la gestione e la messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi è il decommissioning degli impianti, che, con gli smantellamenti, produrrà a sua volta alcune decine di migliaia di metri cubi di rifiuti. Qui sino a oggi le cose non sono andate meglio. Dalla definitiva chiusura delle centrali nucleari, l'ENEL, che ne era allora proprietario, si era praticamente limitato al loro mantenimento in sicurezza, anche nell'attesa, allora peraltro oggettivamente irrealistica, della possibile riapertura di almeno alcune di esse, nell'ambito di un ripensamento più generale sulle politiche energetiche. La stessa cosa aveva fatto l'ENEA per gli impianti del ciclo del combustibile di cui era esercente, per i quali, a quanto risulta, non era stato neppure predisposto un piano di disattivazione. La SOGIN, subentrata all'ENEL nella proprietà delle centrali nucleari e, dal 2003, all'ENEA nella gestione degli impianti del ciclo del combustibile, ha sin qui svolto, secondo quanto ha comunicato alla Commissione il Ministro dello sviluppo economico, solo il 12 per cento del lavoro che i programmi del decommissioning prevedono.
È evidente l'assoluta necessità di un radicale cambiamento dei ritmi con i quali le attività sono state sin qui condotte. Ciò richiederà lo sforzo di tutti i soggetti che, con differenti ruoli, partecipano o intervengono: amministrazioni centrali e locali, ente di controllo, esercente. Non possono infatti essere ascritte unicamente alla SOGIN le inefficienze che hanno condotto agli scarsi risultati che le cifre mostrano, così come non possono neppure essere attribuite tutte a cause esterne, come la stessa SOGIN sembrerebbe invece voler fare.
Va in ogni caso evidenziato l'impulso che le procedure autorizzative hanno ricevuto con l'entrata in vigore di alcuni recenti provvedimenti legislativi, dove è stato in particolare promosso lo strumento della conferenza dei servizi ai fini dell'accelerazione delle procedure stesse.
Nella situazione di inefficienze e di ritardi emersa non vi è stata una vera valorizzazione delle competenze specifiche che operano e che potrebbero invece costituire una risorsa strategica in vista della prossima, forte crescita che l'attività di disattivazione degli impianti nucleari avrà in tutto il continente europeo, dove vi sono quasi cento centrali in attesa di smantellamento, con un mercato valutabile in decine di miliardi di euro.
Per quanto riguarda i rifiuti prodotti nei diversi impieghi delle sorgenti radioattive, va dato atto all'ENEA dell'importanza del ruolo svolto dal servizio integrato - da lei organizzato e posto in atto dalla NUCLECO, sua società partecipata - per una gestione per quanto più possibile ordinata e controllata di tali rifiuti. Il servizio consente agli esercenti dei depositi temporanei operanti in alcuni punti del territorio
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nazionale, che raccolgono i rifiuti prodotti negli ospedali, nei laboratori di ricerca o in installazioni industriali, di conferire quei rifiuti a un unico punto di raccolta che, per organizzazione e per la sua collocazione - all'interno di un centro di ricerche come quello ENEA della Casaccia - offre le garanzie migliori che allo stato attuale si possono ottenere. Senza quel servizio, i margini per possibili illeciti nella gestione di quei rifiuti sarebbero probabilmente maggiori.
Va tuttavia rilevato che, nella perdurante assenza del deposito nazionale, il servizio integrato ha finito col trasformare di fatto nel deposito nazionale dei rifiuti radioattivi di origine sanitaria e industriale un deposito costituito da alcuni capannoni posti all'interno del comune di Roma, in una zona ormai raggiunta dall'espansione urbana e dotato di strutture del tutto diverse da quelle che un vero e proprio deposito finale dovrebbe avere.
È questo un ulteriore motivo che rende quanto mai urgente la realizzazione del deposito nazionale.
Un ultimo, rilevante problema che la Commissione ha preso in esame è quello concernente le funzioni di controllo. Queste sono svolte dall'ISPRA o dalle agenzie di protezione ambientale che, con denominazioni diverse, hanno preceduto l'Istituto, sin da quando la prima di tali agenzie, l'ANPA, è stata istituita, nel 1994.
Da qualche anno, tuttavia, l'attribuzione è divenuta precaria. Prima, nel 2009, nel quadro dell'allora programmato ritorno all'energia nucleare, era stata istituita l'Agenzia per la sicurezza nucleare, e l'ISPRA aveva continuato a svolgere le funzioni di controllo in attesa che il nuovo soggetto diventasse operativo, cosa mai avvenuta; poi, quando nella mutata situazione determinatasi con la nuova chiusura delle prospettive di ritorno al nucleare l'Agenzia è stata soppressa, la legge ha previsto che tali funzioni vengano incorporate nel Ministero dello sviluppo economico, di concerto con il Ministero dell'ambiente, e le ha nuovamente affidate all'ISPRA solo in via transitoria, in attesa che un decreto ministeriale non regolamentare dia attuazione all'incorporazione.
Tale attuazione dovrebbe avvenire nel rispetto di una condizione, che la legge stessa ricorda, che è però inconciliabile con qualsiasi attribuzione di competenze al Ministero dello sviluppo economico: l'indipendenza delle funzioni di controllo sancito dalle direttive comunitarie.
Alla Commissione sono state accennate dal Ministro dello sviluppo economico e dal Ministro dell'ambiente soluzioni, peraltro non del tutto coincidenti, che tendono comunque alla valorizzazione delle competenze esistenti nell'ISPRA e nell'ENEA, ma non sarà semplice soddisfare ad un tempo le indicazioni della legge - che ha soppresso un soggetto interamente dedicato ai controlli e ha previsto l'incorporazione delle funzioni nel Ministero - e il principio di indipendenza di tali funzioni. Né apparirebbe peraltro percorribile una via che, con un decreto ministeriale e al di fuori di ogni intervento del Parlamento, istituisse di fatto una nuova autorità di controllo.
In tutto questo, le risorse dedicate nell'ISPRA alle funzioni di controllo, già notevolmente ridimensionate nel corso degli anni precedenti, sono giunte ai livelli di guardia e sono oggi necessari provvedimenti urgenti, anche interni all'Istituto, affinché questo non
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divenga un vero e proprio impedimento per le attività di sistemazione dei rifiuti radioattivi e di decommissioning che debbono essere svolte, o non venga addirittura resa inefficace l'indispensabile azione di controllo.
È auspicabile che su tutti i problemi emersi e le criticità qui sinteticamente ripresentate continui ad essere esercitata un'attenta azione di monitoraggio da parte del Parlamento.