COMMISSIONE XII
AFFARI SOCIALI

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di mercoledì 20 settembre 2006


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE MIMMO LUCÀ

La seduta comincia alle 14,10.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione di rappresentanti dell'ISTAT e del CENSIS.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle condizioni sociali delle famiglie in Italia, l'audizione di rappresentanti dell'ISTAT e del CENSIS. Nel dare il benvenuto mio e di tutta la Commissione ai nostri ospiti, ricordo che sono presenti per l'ISTAT il presidente, professor Luigi Biggeri, la dottoressa Linda Laura Sabbadini, direttore centrale indagini su condizioni e qualità della vita, la dottoressa Patrizia Cacioli, direttore dell'ufficio comunicazione, il dottor Nereo Zamaro, dirigente della direzione centrale delle statistiche economiche strutturali, la dottoressa Roberta Crialesi, dirigente della direzione centrale per le statistiche e le indagini sulle istituzioni sociali, e la dottoressa Alessandra Righi, della segreteria tecnico-scientifica.
Per la Fondazione CENSIS partecipa il vicedirettore generale della Fondazione, dottoressa Carla Collicelli.
Do ora la parola, perché illustri la sua relazione, al professor Luigi Biggeri, che ringrazio nuovamente per aver raccolto con grande disponibilità ed interesse l'invito della Commissione.

LUIGI BIGGERI, Presidente dell'ISTAT. Grazie, presidente. Ringrazio la Commissione per avere invitato l'ISTAT a questa audizione su un tema davvero molto importante. Innanzitutto mi scuso, in quanto, sebbene avessimo preparato molto materiale, per ora abbiamo distribuito solo 5 o 6 cartelle. Il materiale restante, che abbiamo predisposto, arriverà tra poco. Mi dispiace soltanto che non possiate seguire la mia relazione con il testo sottomano. Spero, però, che quanto dirò risulti ugualmente efficace, in modo che possiate porre le domande che riterrete opportune.
Avevamo anche preparato una presentazione da visualizzare con power point, ma proprio all'ultimo momento il file ha dato dei problemi, come purtroppo accade spesso in questi casi. Se in futuro esprimerete il desiderio di vedere tale presentazione, saremo lieti di illustrarvela.
Dalla lettura del programma della vostra indagine conoscitiva, risultano chiari gli obiettivi e, sinteticamente, i campi d'azione. Devo dire che per l'ISTAT è difficile presentare una relazione su punti specifici, dato che i vostri obiettivi sono invece di carattere generale. Credo che sia opportuno attivare un'interazione tra Commissione e ISTAT, in modo che possiate porci - non solo oggi, ma in generale - questioni specifiche. Il presidente e la Commissione devono - in ogni momento - poter avanzare all'ISTAT domande puntuali, in risposta presenteremo una vera e propria relazione.
Oggi non vi presenterò una vera e propria relazione sulle condizioni di vita delle famiglie italiane: si tratterà più che altro di qualche flash. Questi cenni riguardano


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due aspetti fondamentali, il primo dei quali concerne le fonti statistiche disponibili. Disponiamo di un patrimonio informativo notevole che, seppur brevemente, ho descritto nella relazione che vi sarà distribuita e che una Commissione come la vostra - che si occupa di un tema così delicato - ha bisogno di conoscere. La conoscenza di tale quadro consentirà, successivamente, di individuare gli aspetti particolari da approfondire.
La seconda parte della mia presentazione riguarderà le principali evidenze di criticità sociale relative alle famiglie. Si tratta solo di alcune fra le criticità esistenti, determinate sulla base di analisi da noi già svolte in passato e ora aggiornate per voi.
Abbiamo suddiviso la presentazione - sia delle fonti, sia delle evidenze di criticità - secondo tre diversi aspetti, che ci sembrano i più rilevanti: trasformazione del ruolo e delle condizioni delle famiglie; disuguaglianze e vulnerabilità sociale; servizi socio-assistenziali e trasferimenti.
Il materiale è corposo, perché abbiamo aggiunto della documentazione riguardante gli ultimi rapporti annuali dell'ISTAT, enucleando i capitoli dedicati alle famiglie e ai servizi sociali. Non si tratta dell'intero rapporto, bensì di dati riferiti all'anno scorso e all'anno corrente. Sono dati analoghi a quelli che abbiamo già presentato nella sala della Lupa, qui, alla Camera dei Deputati, e può darsi che anche alcuni di voi fossero presenti a quella nostra relazione.
Il patrimonio conoscitivo è notevole e, con riferimento al ruolo ed alle condizioni delle famiglie, disponiamo di tantissime informazioni. Un primo tipo di informazioni è rappresentato dai risultati dei censimenti della popolazione. Proprio a questi ultimi è possibile fare riferimento allorché si richiedano dati molto disaggregati a livello territoriale, per singolo comune o per sezioni di comune. Potete accedere al sito dell'ISTAT e vedere, comune per comune, qual è la situazione della popolazione, per età, per sesso, per varie caratteristiche delle famiglie e così via.
Il secondo tipo di informazioni - anche queste molto dettagliate - è invece rappresentato dai risultati delle indagini amministrative sul movimento naturale e migratorio. Esse avvengono mensilmente e consentono di aggiornare, seppure con qualche problema, le anagrafi dei comuni.
Entrambe le indagini citate sono di carattere esaustivo e completo, ma non possono entrare nel dettaglio, come tali, dal punto di vista dell'informazione qualitativa. Soprattutto, almeno per ciò che riguarda i censimenti, esse vengono svolte una volta ogni 10 anni. Ecco allora che, da più di dieci anni, l'ISTAT - primo in Europa - ha impiantato un sistema di indagine campionaria sulle famiglie, che ha dato origine ad una serie di informazioni molto dettagliate. Solo per darvi un'idea, nella relazione sono riportati: il tipo di campione che è stato indagato, quante famiglie e quanti componenti di ciascuna famiglia sono intervistati, se la rilevazione è trimestrale, annuale o biennale, eccetera. Inoltre, sono riportate le informazioni più rilevanti.
Per mostrarvi l'ampiezza delle informazioni che possiamo fornirvi, segnalo le principali rilevazioni compiute. Per gli aspetti della vita quotidiana si rileva la struttura e la tipologia familiare su un campione di 24 mila famiglie: le nuove forme familiari, gli stili e la qualità di vita dei minori e degli anziani, le difficoltà nell'utilizzo dell'asilo nido e della scuola materna, e molto altro ancora. Nel nostro sito internet sono disponibili - per gli eventuali interessati - anche i questionari. Potete andare a vedere quali sono le domande che sono state fatte alle famiglie e agli individui.
Un secondo gruppo di rilevazioni riguarda le famiglie, i soggetti sociali e le condizioni dell'infanzia. Poiché le trasformazioni in questo ultimo caso non sono così frequenti, la rilevazione viene eseguita una volta ogni cinque anni, e da essa otteniamo informazioni sui processi di formazione e dissoluzione delle famiglie, sulla modalità di vita della coppia, sulla fecondità, eccetera. Anche l'uso del tempo è veramente rilevante, al fine di conoscere


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come i componenti della famiglia sono impegnati nel corso della giornata e quante difficoltà devono superare per portare avanti la loro vita. In tal modo si possono individuare elementi di criticità non banali.
Abbiamo poi altre due indagini di estremo interesse. La a prima riguarda le forze di lavoro. Si tratta di un'indagine trimestrale - i cui risultati mi sembra che siano stati illustrati oggi dalla stampa - da cui si ricavano informazioni legate alla dinamica del mercato del lavoro, alle tipologie contrattuali, alla conciliazione famiglia-lavoro eccetera. Qui possiamo rilevare se in una famiglia sono tutti occupati, se ci sono disoccupati o se addirittura nessuno in famiglia è occupato.
La seconda indagine riguarda dati a campione sulle nascite. Essa ha consentito di verificare - nel 2005 è stata svolta su un campione di 50 mila madri - il contesto in cui avviene la nascita, nonché i problemi su come si possa conciliare maternità e lavoro.
Nel campo della disuguaglianza e della vulnerabilità sociale, l'indagine principale riguarda i redditi, le condizioni di vita e le difficoltà economiche delle famiglie. Una seconda rilevazione riguarda i consumi delle famiglie. Abbiamo, dunque, il reddito da una parte e i consumi dall'altra. Rileviamo non soltanto quanto le famiglie spendono per le varie tipologie di beni di consumo, ma anche quali servizi le famiglie richiedono, in quanto ritenuti molto importanti nell'ambito familiare. Questa indagine viene svolta ogni anno su un campione di 28 mila famiglie e consente di rilevare tutti i beni e i servizi consumati, nonché tutti i comportamenti di spesa.
Un'altra indagine riguarda le famiglie, intese come soggetti sociali e le condizioni dell'infanzia.
Due ulteriori rilevazioni molto importanti riguardano rispettivamente la disabilità (alla quale abbiamo addirittura dedicato un sito basato su molteplici fonti di informazioni) e gli stranieri. Quest'ultima indagine permette - grazie a dati provenienti sia da fonti anagrafiche, sia da indagini campionarie sulle forze di lavoro - di conoscere il numero e la dinamica delle famiglie, i minori stranieri residenti, l'inserimento scolastico e lavorativo, nonché la criminalità che riguarda la popolazione immigrata.
Un altro tema riguarda i servizi socio-assistenziali e i trasferimenti, sui quali disponiamo di indagini che, in gran parte, sono censuarie e riguardano i servizi erogati dai comuni. Qui si parla dunque di servizi: quali sono, quanto spendono i comuni per questi servizi, quanti e quali sono i presidi residenziali socio-assistenziali esistenti sul territorio, quanti e quali interventi e servizi sociali sono svolti dalle amministrazioni provinciali, che - anche loro - tra i propri compiti istituzionali hanno quello di fornire servizi alle famiglie e alle persone.
Infine, altre indagini molto importanti riguardano alcuni aspetti collegati ai trattamenti pensionistici, ai bilanci consuntivi delle amministrazioni comunali (si tratta di una novità e vi anticiperò qualche risultato interessante finora emerso), ai servizi forniti dalle organizzazioni del volontariato (si fa qui riferimento alla rilevazione sulle cooperative sociali e sulle fondazioni, eseguita nel 2005).
Questo è il quadro, molto articolato, di cui vi parlavo. Quali sono le principali evidenze, sulle criticità sociali delle famiglie, che emergono da queste rilevazioni? Ho già premesso che non possiamo parlare di tutte le rilevazioni, perché si tratta di un quadro troppo complesso: come tale non posso certo illustrarlo in pochi minuti e neppure in una relazione di una decina di pagine o poco più.
In primo luogo vediamo, allora, i mutamenti demografici e sociali. Non c'è dubbio che questi abbiano cambiato profondamente le famiglie, perché le fasi del ciclo di vita si dilatano e si trasformano. Di conseguenza, abbiamo cambiamenti nelle strutture, nelle relazioni e nelle reti delle famiglie. Non soltanto è diminuita - dato abbastanza noto - la dimensione media delle famiglie, ma è aumentata anche la percentuale di persone che sono transitate alla vecchiaia. Il miglioramento delle condizioni di salute negli adulti,


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fenomeno anch'esso noto, ha conferito agli individui maggiori opportunità per ridefinire scelte, ruoli, rapporti e percorsi di vita.
Inoltre, la maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro ha portato a nuovi modelli di relazioni familiari, a rapporti meno gerarchici che in passato e a nuovi bisogni in gran parte ancora insoddisfatti. I cambiamenti vanno di pari passo con il generale processo di semplificazione delle strutture familiari, che vede ridursi il peso delle famiglie con cinque componenti e più: dieci anni fa erano l'8,4 per cento, oggi sono il 6,5 per cento. Sono aumentate sia le coppie con figli, sia le persone sole e senza figli.
Il dato interessante, che può rappresentare un elemento di criticità ma anche di benessere nella famiglia, è che, fra gli anziani tra i 74 e gli 85 anni sono numerosi quelli che vivono in coppia. Questa fascia, negli ultimi dieci anni, è passata dal 45 per cento al 50 per cento. Si tratta di un dato molto rilevante, considerato che queste coppie di anziani, probabilmente, qualche problema lo pongono. Tornerò tra poco su questo.
Il modello tradizionale di coppia coniugata con figli è sempre nettamente prevalente, però perde terreno e non rappresenta più la maggioranza delle famiglie. Crescono di importanza le nuove forme familiari che abbiamo ricordato in precedenza. Le trasformazioni delle strutture familiari s'intrecciano con quelle, altrettanto importanti, dei comportamenti e dei ruoli nelle diverse età della vita, sia all'interno della famiglia, sia nell'ambito delle reti di relazioni interfamiliari. Uno dei dati più rilevanti, anche questo abbastanza noto, è che i giovani celibi e nubili tra i 25 e i 34 anni, che vivono ancora nelle famiglie di origine, sono aumentati notevolmente, passando in dieci anni dal 35,5 per cento al 43,3 per cento.
Questa prolungata permanenza dei figli adulti dipende - come voi ben sapete, è inutile che mi dilunghi - da due fattori. In parte, essa dipende dalla dilatazione dei tempi necessari a conseguire una posizione lavorativa e dalla difficoltà di ingresso nel mondo del lavoro. L'Italia ha il record del più basso tasso di occupazione e del più alto tasso di disoccupazione dei giovani, cosa incredibile giacché, essendo pochi gli occupati, i giovani dovrebbero trovare facilmente lavoro. L'altro elemento che determina questa permanenza, oltre alla propensione personale, è dato dai problemi legati alla disponibilità di abitazioni. Le abitazioni sono difficilmente reperibili sul mercato e quindi le giovani coppie hanno difficoltà a trovare casa.
Oltre a ciò, è facile verificare che viene loro chiesta una cifra troppo elevata, sia per l'affitto, sia per sostenere un eventuale mutuo. È importante, come elemento di criticità, il dato secondo cui fra le giovani coppie, con un capofamiglia al di sotto dei 35 anni, sono piuttosto numerose quelle che abitano in case in affitto o che sostengono un mutuo per una casa di proprietà. Rispetto al loro budget, questa spesa rappresenta un valore piuttosto elevato.
Per quanto riguarda gli impegni familiari, la realtà è un po' cambiata, seppure non in modo notevole: le donne ancora oggi lavorano di più, sopportano il maggior carico familiare e dedicano al lavoro familiare molto tempo. È ovvio che le donne che svolgono anche un lavoro extradomestico si trovano impegnate per tutto l'arco della giornata. Nel materiale distribuito troverete i dati, indicati in maniera chiara, relativi agli impegni delle donne che lavorano. Si tratta di valori davvero molto elevati.
A tutto ciò si aggiunge un altro elemento di criticità: gli spostamenti, sia per gli uomini che per le donne, fanno perdere in media 50 minuti al giorno. Se questo è il dato medio, evidentemente qualcuno lavora sotto casa mentre in altre famiglie sia il marito che la moglie perdono ore per spostarsi. Questo è certamente un elemento di forte criticità, specialmente nelle grandi città o nei grandi agglomerati urbani, che rende la vita della coppia (e quindi la vita familiare) molto difficile.
Da ciò si capisce che sono cambiate anche le reti che sostengono le famiglie. Essendo cambiata la struttura della famiglia,


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anche le reti sociali che la sostengono sono cambiate, tanto che le famiglie certamente hanno difficoltà ad avere relazioni con altre figure di parenti e con i figli, perché questi ultimi magari lavorano in ambienti diversi, sono sempre meno numerosi e le generazioni sono più distanti. Le coppie, infatti, mettono al mondo figli più tardi e quindi, evidentemente, si allungano le distanze fra una generazione e la successiva.
Ecco allora che alcuni segmenti di popolazione diventano più vulnerabili, hanno cioè difficoltà a portare avanti la propria vita familiare. Tra questi segmenti certamente annoveriamo le madri sole, la cui rete familiare è circa la metà di quelle coniugate. Queste ultime hanno in genere una possibilità di relazione molto più elevata rispetto alle madri sole. Gli anziani, celibi o nubili, sia uomini che donne, hanno problemi di rete di relazioni; così pure si verifica per gli anziani divorziati o separati che vivono soli.
Sappiamo invece tutti che il modello italiano di welfare continua a basarsi sulla disponibilità della famiglia nei confronti dei segmenti più deboli della popolazione. Se il nostro sistema di welfare fosse basato non sulla disponibilità della famiglia, ma su altri sistemi più forti, certamente queste difficoltà familiari sarebbero superate.
Forti legami di solidarietà, comunque, continuano a concretizzarsi in aiuti per assistere gli anziani (nel 19 per cento dei casi) o i bambini (25 per cento), per attività di compagnia, accompagnamento e ospitalità (28 per cento), per fornire aiuti domestici, per dare un sostegno economico, per effettuare prestazioni sanitarie, per aiutare nello studio e nel lavoro.
Il numero di individui coinvolti attivamente nelle reti di aiuto informale è andato crescendo nel corso degli ultimi 20 anni. Questa è un'informazione positiva, nel senso che le persone che sono coinvolte nell'aiuto sono aumentate. Si rileva anche un marcato invecchiamento dell'età media di coloro che forniscono assistenza - si tratta soprattutto di donne. Le persone, uomini e donne, che forniscono aiuto, sono aumentate soprattutto nella fascia tra i 65 e i 74 anni nonché tra le persone - altro dato interessante - con un titolo di studio più elevato. Coloro che hanno avuto occupazioni professionali più alte sono in genere più portati, quando sono in pensione o sono vicini all'età pensionabile, ad entrare in reti di aiuto familiare. Le associazioni di volontariato sono l'altro elemento fondante, in Italia molto più che in altri paesi. L'8 per cento delle persone che forniscono questi aiuti, infatti, svolgono la loro attività all'interno delle associazioni di volontariato. Nel 1998, solo otto anni fa, la percentuale era pari a meno del 6 per cento. Questi soggetti si occupano di un segmento più piccolo di popolazione, soprattutto di coloro che sono in grave difficoltà e che spesso sono aiutati sia dalla rete familiare, sia dalle associazioni di volontariato e per questo rivestono una rilevanza sociale, come è stato detto in precedenti audizioni, molto importante.
È aumentato il numero delle persone disponibili a fornire aiuto, ma sono aumentati anche - e in misura molto maggiore, a causa dell'invecchiamento, del cambiamento di tipologia delle famiglie, dell'aumento degli individui soli - coloro che ne hanno bisogno. In definitiva, le famiglie aiutate in termini percentuali sono diminuite, passando dal 23 per cento nel 1983 al 17 per cento nel 2003. In particolare, proprio per i motivi anzidetti, sono diminuite considerevolmente le famiglie con anziani che ricevono un aiuto. Il vantaggio è che ora esiste una rete più articolata rispetto al passato, che vede la condivisione del carico degli aiuti tra più attori. Esiste anche una rete informale e si sono sviluppati, anche se non adeguatamente, i servizi e le reti di operatori pubblici e privati.
Le famiglie con bambini ricevono certamente aiuti da una pluralità di attori, in particolar modo pubblici, ma anche privati. Ancora più forte è la rete informale. Gli asili nido sono aumentati in misura notevole dal 1988 al 2005 (da 140 a 221 mila), ma la quota di bambini che vanno al nido è ancora al di sotto del 20 per cento. Di questi, oltre la metà frequenta


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un nido privato, perché non c'è posto nei nidi pubblici. Ripeto: su 100 bambini, solo 20 frequentano un nido e di questi il 50 per cento gli asili privati. Da ciò la difficoltà, per le famiglie, ad andare avanti.
Le persone affette da gravi problemi di disabilità certamente sono aiutate, sia dalle famiglie che da altre istituzioni. Si tenga però presente che le persone disabili non anziane sono 1 milione 641 mila, di cui il 41 per cento raggiunge un livello di gravità massima. Quasi la metà di questi dichiara risorse scarse, o insufficienti, e il 56 per cento ricade proprio tra le disabilità più gravi. La famiglia continua a svolgere un ruolo fondamentale di ammortizzatore sociale, ma le tendenze demografiche e le trasformazioni - questo lo sapete, ma è bene richiamarlo - fanno sì che sarà sempre più difficile per le donne, che finora sono state il pilastro fondamentale delle reti di aiuto informale, sostenere un ruolo di aiuto, essendo sempre più schiacciate tra gli impegni di lavoro, la cura dei figli e dei genitori. Esse devono svolgere contemporaneamente tre ruoli; occorrerebbe eliminare questa criticità di vita che si presenta nelle famiglie.
La disuguaglianza e la vulnerabilità sociale possono essere esaminate anche con riferimento ai dati sulle distribuzioni dei redditi familiari ed individuali. La disuguaglianza dei redditi in Italia è cosa nota, non si è modificata molto negli ultimi otto anni e continua ad essere una disuguaglianza molto forte. L'Italia si colloca nel gruppo di paesi con la più alta disuguaglianza dei redditi. A livello di ripartizione geografica, il Mezzogiorno mostra al suo interno la più alta sperequazione dei redditi. Vorrei che fosse chiaro che il problema non è tanto di differenza nei valori medi dei redditi delle famiglie del Mezzogiorno rispetto alle famiglie del nord. All'interno delle aree meridionali c'è maggiore sperequazione di quanta non ve ne sia nelle aree settentrionali. Le differenze nella distribuzione dei redditi nelle aree settentrionali, cioè, sono minori di quelle rilevate nelle aree meridionali. Questo ovviamente fa sì che tale disuguaglianza interna aumenti anche la sperequazione già esistente tra nord e sud. Ricapitolando: non solo esiste una sperequazione tra nord e sud, ma all'interno del sud questa sperequazione è ancora più forte.
Certamente ci sono moltissime famiglie che vivono in condizioni di agiatezza. In particolare, anche se non proprio agiate, stanno sufficientemente bene le famiglie in cui almeno due persone conseguono un reddito. Il fatto è che, però, ci sono addirittura famiglie con nessun occupato che si trovano in estrema difficoltà. Si tratta di lavoratori a basso reddito, ma anche di anziani, di giovani che hanno difficoltà di accesso a trovare un'occupazione stabile, di gruppi di lavoratori con bassi livelli di istruzione che non possono valorizzare, in una società della conoscenza sempre più complessa, il loro capitale umano.
Queste condizioni individuali in alcuni casi portano a situazioni di deprivazione materiale e di povertà. Come potete vedere dai dati qui presentati, nel nostro paese non sono poche le situazioni di questo tipo, in particolare ancora una volta nel Mezzogiorno, nelle famiglie dove c'è un solo percettore di reddito o in quelle dove nessuno dei componenti lavora. Circa 650 mila famiglie sono composte da persone che non lavorano, due terzi delle quali si concentrano nel Mezzogiorno.
Ovviamente, ci sono anche i lavoratori a basso reddito, però non dovremmo farci fuorviare troppo da questo aspetto. Si tratta di un fenomeno importante: sono circa 4 milioni le persone che guadagnano meno di 700 euro mensili, ma tra questi ci sono anche tutti coloro che fanno un lavoro part time, mentre studiano o svolgono altre attività. Questo è un dato interessante per capire come si comportano le persone giovani che cercano di guadagnare qualche cosa: ci sono quelli che lavorano per la raccolta delle olive, tanto per fare qualche esempio. Indipendentemente da ciò, tuttavia, abbiamo in Italia 1 milione e 500 mila famiglie in condizioni di disagio economico. A famiglie di questo tipo appartengono il 28 per cento delle donne e il 12 per cento degli uomini. Ad


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esse, inoltre, appartengono maggiormente i giovani al di sotto dei 25 anni e le persone con un grado di istruzione inferiore alla terza media.
I dati sulle pensioni sono molto differenti per le diverse aree del paese. Sono differenziati tra nord e sud, perché le famiglie del nord hanno un livello reddituale superiore e si trovano a beneficiare, se c'è un pensionato nella famiglia, anche di una pensione superiore. D'altra parte il costo dell'abitazione, come dicevo prima, incide in misura forte su queste famiglie, soprattutto là dove vi sono dei giovani.
Se vogliamo vedere la vulnerabilità in termini di povertà, ci possiamo soffermare su quattro gruppi caratteristici di famiglie. Risultano poveri: circa il 33 per cento del totale delle coppie anziane; circa il 20 per cento delle donne anziane sole; circa l'8 per cento delle famiglie con persone in cerca di occupazione del Mezzogiorno; quasi il 40 per cento delle famiglie con lavoratori a basso profilo professionale. È evidente che il disagio economico poi si traduce in situazioni di privazione materiale e di insicurezza.
In realtà, questa difficoltà non può essere alleviata dalla mobilità sociale. In genere ci si aspetta che esista nel nostro paese una forte mobilità sociale. Essa, invece, in gran parte dipende dalla classe di origine. I movimenti tra classi sociali, nei fatti, non sono poi così forti. Noi diciamo che c'è un regime di mobilità abbastanza rigido e che, stando così le cose, a differenza di ciò che può avvenire in altre economie occidentali molto avanzate, gli spostamenti non possono neanche favorire il passaggio a livelli di reddito più elevati.
Un ultimo elemento riguarda i servizi socio-assistenziali e i trasferimenti. Essendosi modificata la struttura della famiglia ed essendo invecchiata la popolazione, è chiaro che la domanda di servizi sociali e di protezione sociale è cambiata. A mio avviso, è abbastanza improbabile riuscire - con gli strumenti utilizzati in passato - a soddisfare questa nuova domanda di protezione sociale. Pertanto il nostro sistema si deve adeguare, tenendo conto di questi nuovi gruppi che presentano nuovi bisogni.
Si prendano, ad esempio, gli stranieri. Nel 2005 gli stranieri ufficialmente residenti raggiungevano le 2 milioni e 400 mila unità, senza contare quelli che non possiamo con facilità individuare dal punto di vista statistico, cioè quelli non ufficialmente residenti. Questi rappresentano oggi il 4,1 per cento della popolazione. Dall'1,7 per cento di 10 anni fa, rispetto al totale delle nascite, i figli nati da genitori stranieri, sono passati quasi al 9 per cento. Il 9 per cento dei bambini nati nel nostro paese sono figli di popolazione immigrata.
La popolazione straniera ha chiaramente una struttura per età centrata sui giovani. La sua domanda di protezione sociale, quindi, è diversa da quella espressa dall'altra parte della popolazione. Tra l'altro, abbiamo rilevato che, tra i motivi dell'immigrazione, non c'è solo il lavoro. Oramai, essendo l'immigrazione nel nostro paese abbastanza datata, cominciano ad essere numerosi i ricongiungimenti. Questi, inizialmente, comportano solo un ricongiungimento familiare, ma poi comportano anche i problemi di una famiglia che si costituisce, le esigenze legate alle nascite di bambini, bambini e madri che - giustamente - richiedono l'assistenza per la scuola.
Se si va invece a vedere l'offerta dei servizi, voi sapete che si è verificato e continua a verificarsi un processo di decentramento, e che in realtà esistono fortissimi squilibri territoriali nel nostro paese dal punto di vista sia della spesa sociale, sia degli investimenti in infrastrutture. Tanto per dare solo qualche numero, che poi ritroverete con più dettaglio nelle pubblicazioni, i divari di spesa per interventi e servizi sociali a livello regionale sono piuttosto rilevanti. In media in Italia si spendono a livello regionale 3 mila euro per abitante all'anno per interventi e servizi sociali. Rispetto a tale media, mi basti dire che la differenza tra la regione che spende di più e la regione che spende di meno è di 2 mila euro. Badate, non è da


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3 mila a 3 mila 200: c'è una differenza grande quasi quanto il valore medio. Guarda caso, si spende di più nelle regioni più ricche e di meno in quelle più povere.
Quindi abbiamo un altro elemento di criticità: regioni più ricche che spendono di più, mentre la spesa sociale dovrebbe avere - come voi certamente m'insegnate - funzioni di riequilibrio dei divari tra le regioni. Tramite la spesa sociale, in definitiva, ci dovrebbe essere la possibilità di riequilibrare le situazioni, mentre con il sistema attuale la situazione certamente non migliora di molto.
In particolare, la distribuzione dovrebbe avvenire in base ai rischi specifici dei singoli comparti. Se in una regione è forte l'invecchiamento, la spesa maggiore dovrebbe essere per l'invecchiamento; se in una regione è forte il rischio dell'immigrazione, la spesa dovrebbe essere destinata ai problemi di immigrazione. Invece ciò normalmente non avviene, non si riscontra questo legame estremamente importante.
Nel complesso, la spesa per le funzioni sociali riguarda soprattutto la sanità, l'istruzione, l'assistenza e la previdenza ed è in linea con quella europea (circa il 30,2 per cento del PIL). Però, se poi si va a vedere la sua composizione interna, si scopre che in realtà le differenze sono abbastanza consistenti e che quasi la metà della spesa è destinata, in Italia, alla sanità, oltre un terzo della spesa è destinato all'istruzione e solo il 17 per cento è assorbito dall'assistenza sociale. Quindi, l'assistenza sociale è il settore più arretrato nel nostro paese - in termini sia di riqualificazione, sia di crescita dei servizi - ed è anche quello dove emergono i maggiori divari territoriali.
La spesa, pari solo allo 0,4 per cento del PIL nel 2003, è concentrata per circa il 60 per cento nelle regioni settentrionali e per oltre due terzi interessa quattro principali aree di utenza: le famiglie, i minori (in particolare gli asili nido), gli anziani e i disabili. Gli interventi assistenziali sono decisamente inferiori alla media nelle regioni meridionali e così, mentre l'offerta al centro-nord di asili-nido è nettamente superiore e frequentano l'asilo nido il 12 per cento dei bambini - abbiamo detto prima che globalmente il 20 per cento dei bambini frequenta i nidi e di questi meno del 50 per cento frequenta gli asili nido pubblici - al sud la percentuale arriva al 2 per cento.
Il sistema di welfare rimane quindi caratterizzato da una forte incidenza delle spese per prestazioni monetarie e tra queste, in particolare, quella per le pensioni. Probabilmente la spesa per le pensioni dovrebbe essere sostanzialmente modificata.
Credo di aver parlato anche troppo, ma vorrei solo aggiungere che il quadro derivante dalle fonti informative che vi ho presentato, nonché l'insieme dei risultati di alcune analisi che ho citato molto sommariamente, dovrebbe avervi chiarito quante analisi in più si potrebbero fare, ovviamente in relazione alle necessità della Commissione. L'ISTAT è certamente disponibile ad eseguire queste analisi dietro vostra richiesta, compatibilmente - come ho modo di ripetere sempre a tutte le Commissioni - con le risorse umane e finanziarie che abbiamo a disposizione.

PRESIDENTE. Esprimo un ringraziamento al dottor Biggeri, per la relazione molto ampia e articolata che riporta non solo dati numerici, ma anche indicazioni sui processi di trasformazione, sulle politiche realizzate, anche sul piano locale. Mi pare, allora, che la relazione colga molto seriamente le ragioni che hanno motivato la nostra indagine.
Penso che sia anche importante il rinvio all'ulteriore documentazione a disposizione. Sottolineo l'importanza dell'ultimo passaggio della relazione, ossia la disponibilità dell'ISTAT a svolgere eventualmente qualche approfondimento, su richiesta della Commissione.
Se siete d'accordo, potremmo dare ora la parola alla dottoressa Collicelli per la relazione del CENSIS, e poi magari lasciare un po' di tempo ai colleghi per le domande. Però, poiché il dottor Biggeri deve andare via, lasciamogli il tempo per rispondere a qualche domanda e per fornire


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qualche chiarimento. Do quindi la parola ai colleghi che intendano porre questioni o formulare osservazioni.

LALLA TRUPIA. La relazione è stata esaustiva, l'analisi dettagliata e molto interessante. Vorrei chiedere al professor Biggeri quanto segue: in un'indagine conoscitiva sulle condizioni della famiglia potrebbe probabilmente rientrare anche un capitolo piuttosto delicato sulle analisi familiari che riguardano le violenze in famiglia. Vorrei sapere se su questo esista già un indagine dell'ISTAT o se, eventualmente, sia possibile commissionarla.

LUIGI BIGGERI, Presidente dell'ISTAT. La dottoressa Sabbadini, con la quale eventualmente può prendere contatto, dirige il personale che esegue questo tipo di indagine. Ne è stata svolta una, della quale si sta completando la relazione finale che verrà pubblicata sicuramente entro l'anno.

FRANCESCO PAOLO LUCCHESE. Ringrazio il dottor Biggeri per la relazione molto dettagliata. Intendo porre solo qualche domanda. Ha detto, mi pare, che gli immigrati, negli ultimi cinque anni, sono aumentati dall'1,5 all'8 per cento. Quale tendenza prevede, per i prossimi anni? E comunque, qual è il fabbisogno di immigrati nel nostro paese, secondo lei, viste le percentuali di occupazione dei lavoratori italiani e degli immigrati?
Pongo un'ulteriore questione. Lei ha accennato, nei suoi schemi, ad una tendenza alla deospedalizzazione. Come viene spiegata questa tendenza? E infine le domando: qual è la differenza precisa tra le due definizioni di natalità e di fecondità?

LUIGI BIGGERI, Presidente dell'ISTAT. Per quanto riguarda gli immigrati, come lei ha già detto, l'ISTAT non fa previsioni....

PRESIDENTE. Le chiederei di far svolgere le varie domande e concentrare poi la risposta per la conclusione.

MASSIMO GARAVAGLIA. Grazie, presidente. Una piccola osservazione che può essere anche uno spunto per un'ulteriore analisi: rilevavo la differenza sociale tra le regioni, in particolare fra nord e sud, eccetera. Prendendo spunto da esperienze personali come amministratore, suggerivo magari di tenere conto anche dell'entità dell'impiego pubblico.
Faccio un esempio banale: nel nostro comune di 5 mila e 500 abitanti, dal 1999 ad oggi, i dipendenti sono passati da 37 a 27. La differenza di spesa, circa 350-400 mila euro, è andata quasi tutta per spesa sociale. In comuni di dimensioni analoghe del meridione, i dipendenti sono 127. Quei 100 dipendenti in più, di fatto, sono spesa sociale sotto altra voce. Sarebbe magari interessante abbinare i due aspetti, per avere un quadro di questa forma di assistenza sociale che passa attraverso l'impiego pubblico.

GIOVANNI MARIO SALVINO BURTONE. Anch'io ho apprezzato la relazione così articolata e approfondita che, purtroppo, conferma una delle nostre preoccupazioni, cioè che le famiglie in maggiori difficoltà - tali da toccare la povertà - sono soprattutto localizzate nel Mezzogiorno.
Vorrei porre due questioni. La prima: le difficoltà delle famiglie sono legate anche alla loro composizione, cioè al fatto che si tratti di famiglie numerose? La seconda: è stato fatto uno studio, o si intende farlo - in tal senso chiederei un approfondimento - sulle famiglie con capofamiglia cinquantenni che hanno perso il posto di lavoro? Sarebbe interessante conoscere le problematiche connesse e gli eventuali interventi già effettuati o da effettuarsi, da parte delle istituzioni.

LUISA CAPITANIO SANTOLINI. Ho molto apprezzato la relazione svolta. La mia domanda è stata già anticipata dal collega.
Lei, presidente, ha parlato di quattro gruppi caratteristici di famiglie povere. In proposito, mi risulta, anche da dati ISTAT recenti, che in Italia la povertà è quasi


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sempre correlata al numero dei figli. Insomma chi mette al mondo più figli diventa più povero, perché non c'è in realtà il riconoscimento delle spese necessarie e indispensabili per crescere i figli.
Siccome è un dato ricorrente, mi chiedo come mai questo tipo di famiglie povere non sia previsto nella classificazione.

KATIA ZANOTTI. Considero di grande interesse la presentazione del professor Luigi Buggeri, basata su un ragionamento più di prospettiva che sul presente, rispetto al lavoro dell'ISTAT.
Nella relazione si evidenzia, molto opportunamente, che sono in corso mutamenti molto importanti per quanto riguarda le relazioni e il sostegno delle reti parentali. Un indebolimento forte del sostegno delle reti parentali è un percorso avviato verso inevitabili solitudini, con tutto il tema legato alla rete dei servizi. Anche qui, giustamente, si evidenzia che, in realtà, ci troviamo in un'impostazione ancora monetizzante, piuttosto che tesa alla costruzione di una rete forte di servizi. In questo senso colloco la mia domanda, che riguarda il tema delle badanti. Un tema che rimane oscuro, una sorta di inquietante pianeta sommerso che garantisce il fatto positivo di una continuità assistenziale per queste famiglie e di una personalizzazione degli interventi nei confronti del bisogno, un mondo popolato, si dice, da 500 mila o da un milione di persone (dati INPS). Sono dati che fanno riflettere sul nostro sistema di welfare e sulle sue lacune.
Se ci fosse la possibilità, in collaborazione con l'ISTAT, di fare emergere il fenomeno delle badanti, saremmo anche in condizione di produrre una legislazione che comprenda questo riferimento di assistenza e di cura entro la rete dei servizi.
L'ISTAT, nel quadro del suo lavoro sulle famiglie, è nelle condizioni di dare rilievo numerico a questo che è un problema esplosivo per quanto riguarda il futuro del welfare del nostro paese?

ANGELA NAPOLI. Professore Biggeri, la ringrazio anche io per la relazione. Sono stata colpita in particolare dalla parte in cui viene evidenziata la diminuzione degli aiuti alle famiglie. Lei ha giustificato questa diminuzione in base all'incremento del numero delle famiglie stesse. Le chiedo: la diminuzione di aiuti è solo giustificabile con l'incremento delle famiglie, oppure si possono aggiungere altre motivazioni, la cui conoscenza potrebbe risultare utile alla nostra indagine?

DANIELA DIOGUARDI. Ringrazio anch'io per l'interessantissima relazione, che ritengo possa essere per noi molto utile rispetto a quello che vogliamo fare, purché si sappia e si voglia ascoltare, purché si cerchi davvero di aggredire i punti critici.
A me è sembrato interessante, in particolare, il fatto che l'Italia, se non ho capito male, è fra i paesi europei dove c'è una maggior disuguaglianza. Non conosco le percentuali rispetto all'Europa, ma credo di aver letto che la percentuale di disuguaglianza è uguale a quella degli Stati Uniti. Già questo ci induce ad una riflessione sulla politica di distribuzione della spesa sociale che, così com'è, non va bene. Questo fatto emerge dai dati in maniera eclatante e ci fa capire tante cose anche sul federalismo e le preoccupazioni in merito crescono.
L'altro aspetto che mi sembra molto importante e che dovrebbe essere oggetto di grande riflessione, è che - mi pare di capire - senza la donna si può dire che il sistema Italia crollerebbe. Anziani, bambini, lavoro in casa e fuori casa, tutto sembra gravare sulle donne.

LUIGI BIGGERI, Presidente dell'ISTAT. Sono uno dei pochi presidenti che lo sostengono.

DANIELA DIOGUARDI. Credo che ciò ci debba spingere verso una politica conseguente, che sia di sostegno alle donne e, quindi, alle famiglie.
Vorrei chiedere, sempre a proposito delle donne, qualcosa in merito alla povertà. Mi è sembrato di capire che la povertà è soprattutto donna: vorrei chiedere, per esempio, se l'incidenza del titolo


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di studio valga anche per le donne. Al riguardo ho avuto modo di leggere alcuni dati ISTAT secondo cui esistono in Italia 2,5 milioni di famiglie povere; nei suoi dati si parla di una cifra di 1,5 milioni, ma esistono poi le famiglie a rischio povertà, per cui arriviamo quasi al doppio.

DORINA BIANCHI. Sarò brevissima. Ringrazio innanzitutto il professor Biggeri. I miei colleghi hanno già svolto parecchie domande interessanti; per parte mia. vorrei porre solo un quesito: come lei ha già detto, ci sono sicuramente nuove forme familiari e, tra queste, le famiglie monogenitoriali, la maggior parte delle quali costituite da madri con figli a carico. Al riguardo, vorrei capire quali siano le condizioni in queste famiglie rispetto a quelle tradizionali. Le difficoltà economiche e di gestione dei figli, la povertà e i servizi sociali sono fattori considerati? E quanto possono incidere sulla povertà di queste famiglie?

GINO BUCCHINO. La ringrazio, professor Biggeri per la sua apprezzata relazione.
Le rivolgo una domanda velocissima: nella sua relazione, lei ha fatto riferimento anche allo studio dell'ISTAT sui fenomeni migratori, sullo spostamento. Volevo chiederle, in particolare, se l'ISTAT sia anche interessato, a studiare il fenomeno migratorio degli italiani che vanno all'estero. A distanza di decenni, non sappiamo ancora bene chi siano, dove siano, quanti siano, e cosa facciano. Io credo che sarebbe estremamente utile, non fosse altro che su base comparativa, sapere, per esempio, se le famiglie degli italiani all'estero stiano meglio o peggio, quale sia il tasso di natalità, il livello di scolarizzazione eccetera.
Inoltre, vorrei segnalarle un semplice dato. Noi siamo preoccupati per quanto riguarda un particolare: lei ha fatto riferimento alle anagrafi dei comuni. Noi sappiamo per certo che decine di migliaia di cittadini, se non centinaia di migliaia, che si spostano verso altri paesi, non vengono depennati dalle anagrafi per ovvi motivi di interesse del comune, per continuare a percepire fondi dallo Stato. Esistono comuni che ufficialmente hanno 8 mila abitanti, mentre in realtà ne contano solo 2 mila. Mi fermo qui e la ringrazio nuovamente.

MARIZA BAFILE. È realmente molto interessante la sua esposizione, professor Buggeri. Da parte mia vorrei solo chiederle se esista, o se eventualmente si possa realizzare, un'indagine sulle famiglie che hanno un congiunto in prigione, per capire in che modo questa condizione crei disagi e anche in che modo si possa intervenire su questo tipo di situazioni eccezionali.

LUIGI BIGGERI, Presidente dell'ISTAT. Tutto sommato è abbastanza facile rispondere.
Intanto, vi ringrazio per le domande e soprattutto per i suggerimenti, nel senso che se le informazioni e le analisi statistiche non sono disponibili, vedremo, in relazione alle nostre risorse umane e finanziarie, come riuscire a fornirle. In caso contrario, sarete voi che provvederete, in qualche modo, a farcele avere! Si tratta di una battuta di spirito, ma neanche tanto. Credo infatti che sappiate che tutte le volte che sono audito presso la Commissione bilancio per la legge finanziaria, ormai da vari anni, metto in evidenza il fatto che l'Italia è l'ultimo paese in graduatoria per la spesa in statistica. C'è solo la Turchia che ci supera, solo per dirvi quanto poco si spenda per le informazioni di cui voi avete bisogno.
In secondo luogo, la relazione presenta solo spunti: quando voi avrete un po' di tempo per rileggerla, cosa che certamente farete, vi renderete conto che si tratta di spunti che potranno esservi utili, anche per individuare eventuali approfondimenti.
Alcune di queste informazioni le potrete ritrovare nella documentazione che vi abbiamo fornito.
Ad alcune domande darò una risposta molto rapida e poi chiederò alla dottoressa Sabbadini se sia realmente possibile svolgere determinate indagini (per i presidenti, infatti, le indagini si possono sempre fare, poi, però, dobbiamo chiedere a lei se le strutture sono in grado di eseguirle).


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Sulle violenze familiari abbiamo già risposto. Sugli immigrati sono state fatte più domande. Noi non facciamo previsioni sul numero degli immigrati, anche se, a livello europeo Eurostat cerca di farle. Sono previsioni che tengono conto dell'andamento del passato, che però, come voi capite, ha poco significato. Il fenomeno dell'immigrazione dipende effettivamente dalla domanda di lavoro dalle professionalità carenti nel nostro paese e dalle possibilità che hanno invece gli immigrati di inserirsi in queste professioni.
Tanto per darvi un esempio banale: finora abbiamo fatto nel nostro paese una politica che ha semplicemente indicato il numero di immigrati, senza dire quale professione dovessero avere e quali capacità (conoscenza della lingua, eccetera).
Basti pensare che quasi tutti gli immigrati che vengono dai paesi dell'est hanno un titolo di studio molto elevato. Questo vi fa capire che essi vengono qui per un lavoro qualsiasi, ma se ci fosse una domanda più qualificata, sarebbero anche in grado di soppiantare i nostri ragazzi, che spesso hanno invece un livello di istruzione inferiore a quello anche delle stesse badanti. Se consultate gli elenchi delle badanti, vedrete che a volte si tratta di laureate, anche in discipline importanti.
Non facciamo questa analisi, per il momento, perché è un compito difficile. Certamente la previsione potrebbe essere fatta se esistessero delle politiche che indicano in maniera chiara come affrontare l'immigrazione.
A proposito dell'ospedalizzazione, la diminuzione in realtà è avvenuta soprattutto perché sono aumentati i day hospital: questo è un vantaggio, nel senso che nelle regioni dove è aumentato il day hospital, effettivamente è diminuita la quota di spesa per la ospedalità. Si spende meno tempo, si hanno meno persone, meno malati.
Quanto alle spese per i comuni, qualcuno ha detto che bisogna tenere conto di tutto. Esistono delle pubblicazioni - qui c'è il dottor Zamaro che esegue le analisi - dove si cerca di tenere conto, se non di tutto, comunque di molti fattori.
Qui sono riportati alcuni cenni; se non sono sufficienti, potrete certamente richiederci approfondimenti.
Quanto alle famiglie con persone che hanno perso il lavoro, chiederei alla dottoressa Sabbadini se abbiamo dati. Riguardo a quanti hanno perso il lavoro, avendo più di cinquant'anni, attualmente non c'è un'indicazione specifica. Tuttavia qualcosa si può individuare dai dati, considerato che chi lavora e chi non lavora è distinto per classi di età.
La povertà è certamente correlata al numero dei figli. Qualcuno prima ha anche detto che le famiglie povere sono più di quelle che noi abbiamo indicato. In realtà, le famiglie povere sono individuate con vari metodi. Noi abbiamo indicato la linea di povertà relativa. Si tratta di famiglie che stanno al di sotto di quel valore che è attualmente (almeno nel 2005, se non vado errato) intorno a 917-920 euro al mese per famiglie di due componenti. Si tratta ripeto, di povertà relativa: non è detto, cioè, che siano decisamente poveri, così come non è detto che quelli che vivono al di sopra dei 917 euro, e ne guadagnano 1000 o 1100, siano necessariamente fuori dalla povertà. Possono rientrarvi: basta che venga loro a mancare il 10 per cento dello stipendio, o una pensione che non hanno più, ad esempio per la morte di un anziano. Ci sono tanti fattori da considerare: ecco perché si parla di persone e di famiglie «a rischio» di povertà.
Le famiglie indicate non rappresentano il nucleo più povero, bensì quello che ha problemi di disagio economico: quindi sono in numero più limitato. Altre famiglie sono potenzialmente povere, ma il dato non emerge per diversi fattori. Chiaramente, con 917 euro, se hanno l'abitazione di proprietà in una regione del Mezzogiorno, vivono meglio rispetto a chi, nelle stesse condizioni economiche, vive in una regione del nord. È una questione relativa, che credo certamente voi comprenderete.
Il suggerimento relativo alle badanti mi sembra molto interessante. Chiedo alla dottoressa Sabbadini se sulle badanti possiamo


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sapere qualcosa. Certamente è un pianeta oscuro, che andrebbe analizzato.
Quanto alla diminuzione degli aiuti ai poveri, noi abbiamo dato solo un cenno. Gli aiuti diminuiscono, e oltre ai motivi certi, che abbiamo indicato, ne esistono anche altri. Voi, che vi occupate del sociale, sapete che in realtà i fattori ed i fenomeni rilevanti sono talmente tanti e tra loro legati che è difficile distinguerli. Quando facciamo una presentazione rapida come quella testé fatta, ci si basa solo sulle tendenze o sulle evidenze più forti, ma queste spesso dipendono da altri fattori ancora, che poi determinano una sorta di interdipendenza. Non è detto che ci sia una relazione diretta tra un fattore che provoca un risultato e il risultato stesso. A volte questo ultimo può essere influenzato da altri elementi, dalle condizioni ambientali, dalle condizioni della regione, dalla mobilità, eccetera. Ci sono quindi molti altri aspetti, da dire e da conoscere.
La povertà riguarda certamente le donne che vivono sole, non c'è dubbio, e ancora di più quelle che hanno un titolo di studio basso. Anche gli uomini che hanno un titolo di studio basso sono in difficoltà, però in genere questi ultimi, anche se cominciano ad essere anziani, hanno lavorato e quindi hanno almeno una pensione. Le donne con titolo di studio basso spesso non hanno lavorato e non hanno nessuna pensione. Allo stesso modo non c'è dubbio che le famiglie monogenitoriali, come abbiamo già detto e scritto, sono quelle che si trovano maggiormente in difficoltà.
Quanto agli italiani che vanno all'estero, si tratta di un tema interessante. Abbiamo dato un piccolo contributo, nel fare intanto il censimento degli italiani all'estero. Fino a qualche anno fa non se ne conosceva neppure il numero, e abbiamo dovuto rilevarlo ai fini delle elezioni ultime che si sono tenute. Abbiamo dato una mano a coloro che eseguivano questa rilevazione, in particolare alle prefetture e alle questure, in modo da poter ottenere, dalle ambasciate italiane all'estero, i dati e verificarne la validità e la coerenza. Si tratta di dati plausibili, quindi, ma fermi al momento in cui è stata fatta la rivelazione e soprattutto non conosciamo il flusso, e non credo che sulla base delle nostre indagini tale flusso si possa individuare.
Le anagrafi non sono in buone condizioni, questo lo sappiamo, tanto che facciamo i censimenti per correggerle, nonostante le proteste dei sindaci, che ci accusano di diminuire il numero della popolazione.
Io spero che con la nuova rilevazione, ma soprattutto con il nuovo sistema INA-SAIA - l'anagrafe automatizzata - e con la carta di identità automatizzata per tutti (che non può essere utilizzata se non è iscritta nel registro) questa situazione da voi denunciata cambi. Noi siamo, insieme al Ministero dell'interno, responsabili dell'implementazione del nuovo INA-SAIA.
Infine, l'ultimo suggerimento interessante al quale mi richiamo, interpellando la dottoressa Sabbadini, è relativo ai congiunti in prigione: possiamo, dalle nostre indagini, ricavare qualcosa, oppure occorrono indagini apposite?
In trenta secondi, se il presidente consente, la dottoressa Sabbadini potrà rispondere alle domande sulle badanti e sui congiunti in prigione.

LINDA LAURA SABBADINI, Direttore centrale indagini su condizioni e qualità della vita dell'ISTAT. Sui congiunti in prigione occorrono indagini ad hoc, e c'è una certa difficoltà, perché le indagini sono campionarie. Considerando che il numero dei congiunti in prigione non è molto elevato - meno male - ciò porta inevitabilmente ad errori di stima.
Se per badanti intendiamo il personale di assistenza che dorme presso le famiglie, questa stima direttamente non c'è, ma abbiamo cominciato a fare un'analisi per arrivare ad avere dei dati. Siamo in fase di sperimentazione, perché il nostro tentativo sarebbe ovviamente quello di cogliere anche la parte sommersa e non soltanto, come giustamente veniva detto, la parte direttamente regolarizzata. Stiamo facendo


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dei tentativi e nelle indagini cercheremo di migliorare anche le formulazioni per arrivare ad una stima.

LUIGI BIGGERI, Presidente dell'ISTAT. Ringrazio nuovamente la Commissione e mi scuso per non potermi trattenere oltre, ma purtroppo ho un appuntamento, già fissato da tempo e non rinviabile, presso il Ministero dell'università.

PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Biggeri, i funzionari e gli operatori che lo hanno assistito e che sono intervenuti in Commissione.
Do la parola alla dottoressa Carla Collicelli, vicedirettore generale della Fondazione CENSIS.

CARLA COLLICELLI, Vicedirettore generale della Fondazione CENSIS. Grazie presidente. Dopo la grande ISTAT, interviene il piccolo CENSIS. Approfitto per dire, per chi non lo sapesse, che siamo una fondazione privata di venticinque ricercatori e questo giustifica anche il fatto che sia qui da sola. Anche se siamo impegnati su molti fronti, le nostre forze sono limitate.
Avrei voluto mirare meglio questo intervento e portare una documentazione maggiore, anche se, come vedete, ho preparato un documento di circa quaranta pagine raccogliendo i dati più interessanti della nostra documentazione; purtroppo si è verificato un disguido nell'invito, nel fax che indicava la data e abbiamo avuto non pochi problemi a rispettare i tempi.
Comunque, ripeto, abbiamo fatto una corsa contro il tempo e siamo riusciti a preparare la documentazione che abbiamo consegnato e che è in distribuzione.
Come comprenderete, la nostra impostazione è naturalmente diversa da quella dell'ISTAT, perché il CENSIS è un istituto di ricerca, quindi il nostro obiettivo è soprattutto quello di dare spunti interpretativi e di indicare le questioni più spinose che emergono dal nostro lavoro di ricerca, che consiste in 80 ricerche all'anno e nella redazione del rapporto annuale sulla situazione sociale del paese. Chi non lo avesse, naturalmente potrà riceverlo, sarà sufficiente lasciare il nominativo.
Il testo da noi predisposto ruota sostanzialmente attorno agli stessi temi toccati dal professor Biggeri, nel senso che anch'io, nel cercare di rispondere alla serie di indicazioni che emergono dal verbale della vostra riunione a noi recapitato, ho deciso di fornire spunti su tre principali argomenti.
Il primo riguarda le caratteristiche più sociologiche delle famiglie in Italia, ovvero un ragionamento complessivo su cosa sia la famiglia oggi in Italia e che problemi ponga.
Il secondo verte sugli aspetti di natura economica, perché mi sembra di capire che questo è un punto focale del quale dovete occuparvi, analizzando quali siano i problemi economici delle famiglie italiane oggi e i nodi cruciali più importanti.
Il terzo attiene alle politiche socio-assistenziali ed ad altre politiche cui accennerò brevemente, e quali problemi si presentino al riguardo nel nostro paese.
Molte cose sono state già dette dal professor Biggeri e questo mi evita di richiamare i dati. Cercherò quindi di puntare sui concetti interpretativi che ho inserito nel documento.
Per quanto riguarda le caratteristiche delle famiglie, vorrei sottolineare un paio di punti. È indubbio, dalle ricerche compiute, che da molti anni si assiste a un processo di indebolimento, di scomposizione della compagine familiare non solo in Italia. Questi, infatti, sono trend di larghissimo respiro, nel senso che abbiamo un rallentamento dei flussi di alimentazione della famiglia stessa: un ritardo nel matrimonio, una diminuzione del numero dei figli, una diminuzione del numero dei componenti, tutti fattori che dipendono da modificazioni di carattere sia demografico che culturale, relative ai ruoli e ai rapporti tra sessi, ed alimentano un dibattito abbastanza nutrito sulla cosiddetta crisi della famiglia.
Al tempo stesso, però, nonostante questa crisi della famiglia per molti aspetti sia sicuramente condivisibile, abbiamo rilevato


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più volte - e spesso sottolineiamo nelle nostre indagini - che con questi processi di scomposizione convivono anche tendenze di carattere ricompositivo.
C'è una solidità del nucleo familiare - in Italia in modo particolare ma non esclusivo - al di là ed indipendentemente dalle trasformazioni che la famiglia subisce.
Anzi, per molti aspetti si può affermare che proprio l'articolazione sempre più ampia delle tipologie familiari è uno dei fattori di forza che in molte situazioni permette alla famiglia di adattarsi alle sfide che le si presentano.
Sicuramente c'è un rischio di indebolimento della famiglia di fronte a molte sfide. Ad esempio, il rapporto tra generazioni è uno degli elementi problematici in una società che subisce processi di scomposizione, di frammentazione e di isolamento sempre più avanzati, che creano rilevanti problemi di dialogo tra le generazioni. Si assiste anche, tuttavia, a una mutazione antropologica della famiglia stessa nella direzione di un'assunzione sempre più forte ed esclusiva di ruoli sul piano della relazione sociale, della comunicazione, della tutela dei soggetti più deboli che ne fa un soggetto collettivo resistente.
Nel passato la famiglia aveva molte più funzioni delle quali era titolare in proprio: la salute dei propri membri era gestita dalle famiglie, così come l'istruzione e l'educazione dei figli, mentre oggi queste sono delegate all'esterno. La famiglia ha perso terreno su molti di questi fronti, ma le rimane sicuramente la dimensione della relazione sociale, della coesione, del supporto, dell'aiuto reciproco, che è assolutamente specifica del nucleo familiare e che è un punto di forza della convivenza civile in Italia.
Noi stessi abbiamo parlato di femminilizzazione perché si tratta di funzioni che nel passato erano appannaggio del ruolo femminile all'interno della famiglia. Molti padri, molti capi famiglia, molti uomini hanno oggi imparato ad assumere questo genere di funzione portandosi su questo terreno, tanto che possiamo parlare anche di un'ibridazione e contaminazione di ruoli. La distinzione netta che c'era nel passato tra ruolo maschile e femminile è andata sfumando, e questo supporta ancora di più la tendenza di forza delle relazioni intrafamiliari come sostegno a tutti i membri della famiglia, sopratutto ai più deboli. Per certi aspetti è un elemento problematico, perché, per esempio, ha messo in crisi il valore della normatività che era tipicamente maschile all'interno della famiglia: la definizione degli obiettivi, delle regole, dei percorsi di vita che in qualche modo è venuta a scemare con un altro elemento che mette in discussione i rapporti intergenerazionali.
I figli spesso sentono la mancanza di un'indicazione precisa da parte della famiglia, dei genitori, su quali possano e debbano essere le prospettive di vita, i valori di riferimento.
Questo è un primo punto che, ovviamente, come sempre, presenta luci ed ombre, ma vorrei sottolineare soprattutto le luci, anche per contrastare un dibattito che, a volte, è eccessivamente pessimistico nei confronti della scomposizione e della frammentazione delle famiglie. I dati non ci dicono esattamente questo, e, soprattutto, bisogna saperli leggere per capire quali potenzialità rimangono insite e forti all'interno della famiglia.
Veniamo al secondo punto, che credo vi interessi in modo particolare, riguardante gli aspetti economici della vita familiare e la questione del benessere socio-economico delle famiglie. Anche su questo, esistono convinzioni ed annotazioni che hanno circolato moltissimo, di carattere spesso molto pessimistico, sulla perdita di potere d'acquisto delle famiglie, sul loro impoverimento.
Se andiamo a guardare i dati - dati ufficiali, dati ISTAT -, possiamo affermare che non è esattamente così. Se analizziamo le grandi e le medie tendenze, il reddito a disposizione delle famiglie ha continuato a crescere. Quello che è fondamentale capire, però, è quali siano le differenze e le tendenze di divaricazione,


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di allontanamento tra gruppi e ceti sociali, rilevabili all'interno dei dati sulle entrate economiche delle famiglie.
Negli ultimi tempi si rileva un aumento dei redditi da lavoro dipendente, però l'aumento dei redditi da lavoro autonomo è stato estremamente più elevato, e questo ci offre un elemento importante di riflessione, così come un dato di crescita dei redditi delle famiglie è costituito dai redditi da fabbricati. Ecco che si presentano delle tendenze di grande importanza, che, da un lato, si rivelano in controtendenza rispetto al clima pessimista che tende a sottolineare continuamente la perdita del potere di acquisto e l'impoverimento delle famiglie, dall'altro però ci aiutano a capire quali soggetti sociali e quali famiglie si siano impoverite. Sostanzialmente ciò che è successo è che si è andata allargando la forbice delle disponibilità economiche tra le famiglie che vivono con un reddito da lavoro dipendente e le famiglie che vivono con un reddito da lavoro autonomo. La forbice è molto ampia soprattutto tra le famiglie che potremmo definire patrimonializzate e quelle non patrimonializzate, ove nelle prime individuiamo soprattutto quelle che hanno una o più case di proprietà e, comunque, una disponibilità di altre ricchezze reali.
Questo andamento ha creato quella situazione di maggiore differenziazione nei livelli di vita e nei livelli economici delle famiglie italiane, che già il professor Biggeri citava precedentemente, con la conseguente collocazione dell'Italia su posizioni veramente molto elevate di iniquità e di differenziazione del benessere.
Si potrebbero fare altre annotazioni, che troverete nel documento, su come questo si articoli all'interno dei diversi settori, dalle quali emerge che il settore industriale ed il settore agricolo hanno avuto un aumento più consistente di altri settori, che la pubblica amministrazione ha subito un decremento del livello occupazionale del 4 per cento negli anni considerati (2000-2004), ma un aumento del reddito disponibile per dipendente che è aumentato del 6,3 per cento. Va considerato, inoltre, che aumentano anche in questi ultimi anni in Italia, secondo le stime, il sommerso e l'evasione fiscale. Quindi, se mettiamo insieme tutti questi elementi, possiamo affermare che forme di reale povertà da reddito si verificano quando al basso livello reddituale si accompagnano numerosità del nucleo familiare - per quanto già detto e per la rigidità del nostro sistema fiscale, che non tiene conto della numerosità del nucleo familiare -, l'assenza di un secondo reddito, l'assenza di fattori protettivi e di un patrimonio consolidato all'interno della famiglia. Questo ha portato il CENSIS a svolgere negli ultimi anni tutta una serie di analisi e di riflessioni sul concetto della patrimonializzazione come elemento fondamentale nella creazione del benessere in Italia, in quanto inteso come disponibilità di beni e di ricchezza reale, e poi su questa già citata polarizzazione, per cui, ad esempio, la quota di patrimonio totale detenuta dal 5 per cento delle famiglie più ricche in Italia è passata dal 27 per cento al 32 per cento.
Un altro dato che è contenuto nel documento riguarda l'indebitamento delle famiglie soprattutto di ceto medio a causa dei mutui immobiliari, che crea ulteriore divaricazione tra chi è in grado di far fronte anche alle rate sostenute di questi mutui e chi ha difficoltà. Sostanzialmente, potremmo dire che le famiglie in reale difficoltà sono quelle che abbiamo chiamato famiglie spatrimonializzate, ovvero quelle che sono costrette a vivere con redditi da lavoro dipendente e che non possiedono patrimoni.
Ci sono alcuni accenni alle differenze legate al punto di vista abitativo tra chi possiede l'alloggio in cui abita e chi è costretto a pagare un affitto, con chiare evidenze statistiche sul fatto che chi è in affitto di solito ha un reddito inferiore, ha più difficoltà e ricade molto più frequentemente nella categoria del disagio e della povertà.
Il ruolo della famiglia nel sostegno economico dei propri membri, cui ho ora accennato, ha caratterizzato sempre la situazione italiana. La famiglia italiana è sempre stata il caposaldo, la base fondamentale


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del benessere dei propri membri, molto di più delle politiche pubbliche o di altri elementi che pure esistono.
In varie occasioni abbiamo tentato anche delle indicazioni di periodizzazione. Per esempio, negli anni '70 si poteva parlare di una famiglia combinatoria, che, soprattutto, puntava a moltiplicare le attività lavorative e ad incrementare la propensione al risparmio. Con gli anni '80 comincia a farsi avanti una famiglia che gestisce il proprio risparmio ed anche il patrimonio in termini più moderni, quindi anche con accesso a strumenti finanziari di carattere nuovo, fino a diventare addirittura una famiglia competitiva, che punta molto fortemente alla valorizzazione del proprio patrimonio economico e sociale. Ultimamente abbiamo parlato di una famiglia tutor.
La particolare condizione delle nostre politiche sociali, in particolare le difficoltà dei giovani e questa situazione di peso della patrimonializzazione, ci inducono a rilevare che la famiglia italiana è una famiglia che svolge una funzione di tutoraggio molto importante per tutti i soggetti deboli, anche dal punto di vista economico, non solo culturale e sociale, prevalentemente nei confronti dei giovani. Questo a fronte di dati che continuamente ci troviamo a rilevare sulla considerazione delle famiglie italiane (e degli italiani più in generale) della debolezza del grado di tutela garantito dal welfare pubblico. Per esempio, il 44% dei genitori italiani ritengono che l'ampiezza della copertura pubblica nel campo della sanità, della previdenza, della formazione e dell'istruzione sarà ulteriormente diminuito nel futuro, essendo già debole fin da oggi. Quindi, si evince una situazione di grande coinvolgimento della famiglia sul fronte del tutoraggio anche per la netta percezione e l'effettiva constatazione della debolezza delle politiche pubbliche.
Per chiudere questa parte di natura più economica, vorrei accennare ad un aspetto di carattere sociologico che abbiamo sottolineato in varie occasioni, il fenomeno del low cost, per cui si sta sviluppando, soprattutto a livello di beni di largo consumo, nel campo dei viaggi, dell'arredamento, della grossa distribuzione, un'offerta di beni e servizi a basso costo, che, come rivelano le nostre ricerche sulle famiglie italiane, a volte incide più di tante altre politiche e di altri investimenti sulla possibilità per i ceti sociali deboli di accedere a determinati consumi. Sostanzialmente si sta sviluppando - questo è un tema di confine, che avremo modo di affrontare in futuro, in quanto nuovo, non consolidato - una spinta inclusiva tramite il consumo di low cost che, a volte, specialmente per le famiglie molto giovani, rappresenta una delle poche risorse che si hanno, come ad esempio viaggiare con la Virgin Airways o acquistare da Ikea per arredare la casa.
Un terzo aspetto su cui mi soffermo - anche il documento contiene diversi elementi attinenti - riguarda il tipo di disagio e di povertà delle famiglie italiane. Anche su questo abbiamo sentito citare molti elementi da parte dell'ISTAT. Innanzitutto, quello di cui si è parlato più spesso negli ultimi anni, cioè la povertà dei ceti medi, è uno degli aspetti del disagio delle famiglie italiane. Si tratta di una povertà relativa, che deriva cioè dallo scarto tra il proprio reddito, la propria disponibilità economica, e quella media del paese. È comunque un fenomeno proprio di una società ricca, non povera, il fatto che alcune famiglie si trovino in difficoltà in quanto al di sotto dei redditi medi.
Questo riguarda soprattutto famiglie monoreddito, lavoratori precari, famiglie spatrimonializzate. Non possiamo e non dobbiamo dimenticare, però, che la gamma dei disagi e delle povertà delle famiglie in Italia è decisamente più ampia. Anche qui vorrei fare cenno ad alcuni elementi di natura culturale: almeno dagli anni '80 esiste il famoso stallo della mobilità di cui parlava anche il professor Biggeri. La nostra è una società in qualche modo ingessata, che non permette processi di mobilità né in alto né in basso, soprattutto non in alto. Abbiamo dedicato un'iniziativa del CENSIS, che si chiama «Il mese del sociale», proprio all'analisi di queste fenomenologie, che sono decisamente pesanti


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e determinano situazioni di disagio molto forte, anche di carattere psicologico.
Esiste, poi, una fragilità sociale che non è dovuta solo allo stallo della mobilità, ma è dovuta all'incertezza culturale e politica del contesto. Nel passato le persone erano forti e superavano le loro situazioni di disagio e povertà, perché riuscivano ad intravedere degli obiettivi e delle prospettive di sviluppo per sé, per il gruppo sociale, per il proprio paese, per la propria regione. Oggi sappiamo che da molti anni l'Italia è un paese a pile scariche. Gli individui soprattutto, ma spesso anche le stesse famiglie sono fragili perché vengono meno in loro le energie positive di voglia di crescere e di fiducia, quindi avviene una sorta di ripiegamento su se stessi, che incide molto negativamente sulla percezione e sulla condizione stessa.
Naturalmente, non dobbiamo dimenticare le povertà vere, quelle «hard», quelle degli outsider, delle persone che sono ai margini della società. Desidero citare «Vite di scarto» di Sigmund Baumann, libro di grande interesse proprio perché mette in evidenza come tutte le società avanzate producano persone che si ritrovano ai margini. Anche questo è un fenomeno da società avanzata, ricca, e quindi più evidente nelle aree ricche del nostro paese. Forse la povertà di maggiore criticità, laddove si intenda con povertà l'insieme di diverse forme di disagio, comprese quelle immateriali, che oggi abbiamo di fronte, su cui andrebbe concentrata la maggior parte degli sforzi, è quella della malattia e della solitudine che riguarda molti anziani, ma non solo.
Quando abbiamo un mix di fattori, tra i quali uno stato di malattia cronica e una condizione di solitudine e di mancanza di famiglia, di sostegno esterno, ci troviamo di fronte a situazioni di assoluta drammaticità, che dovrebbero rappresentare la priorità assoluta per il nostro paese. Questo, ovviamente, con la debita attenzione alle condizioni di contesto, non in maniera generalizzata: non tutti i malati sono poveri, non tutte le persone sole sono povere, ma la situazione si aggrava quando abbiamo un mix di fattori, e quando vengono a mancare o si indeboliscono gli elementi di protezione sociale a monte, la patrimonializzazione, la famiglia con un reddito dignitoso, la casa di proprietà, la famiglia allargata di sostegno, le reti sociali.
Sul tema riguardante la malattia e la solitudine troverete una serie di dati, anche una tavola che aggiorniamo periodicamente, sui numeri delle diverse categorie di povertà, nell'ampia accezione che ho dato al termine di povertà sociali e relazionali, economiche e sanitarie, nonché anche le stime sulla consistenza quantitativa di questa povertà. Devo evidenziare che la forma di disagio di povertà che più preoccupa gli italiani è la tossicodipendenza. Potrà sorprendere, perché si tratta di un tema che è stato derubricato da molte discussioni, ma da un'indagine recente risulta che la tossicodipendenza è quella che fa più paura. Troverete un dato che considero molto interessante, che concerne i costi sociali delle malattie, soprattutto di quelle croniche, perché spesso ci si dimentica - dato che riguarda le condizioni socio-economiche delle famiglie - che tutto questo ha un costo: per la società in termini di giornate di lavoro perso, per la famiglia e per gli individui, nel momento in cui debbono lasciare il lavoro, occupandosi in maniera consistente dei propri congiunti malati. Vi sono quindi anche i dati su quante donne dichiarano di aver dovuto ridurre il proprio orario di lavoro per fare assistenza; dunque costi diretti e costi indiretti, altra grossa priorità su cui bisognerebbe concentrare gli sforzi.
Il quarto e ultimo punto riguarda le politiche sociali, ossia gli obiettivi raggiunti e quelli ancora da raggiungere. Ritengo prioritario sottolineare che ancora oggi la famiglia è estremamente sottovalutata nell'ambito delle politiche sociali del nostro paese, e questo in un quadro nel quale abbiamo alcune distorsioni molto gravi, e una concezione ancora prevalentemente riparativa e non promozionale dell'intervento del pubblico nel campo del sociale. Abbiamo una logica assistenzialistica, che non coinvolge e non attiva le risorse positive della società e anche una logica


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centralistica, con molti problemi di rapporto fra diverse istituzioni, che inducono allo sviluppo di un mercato sociale autogestito, perché le persone e le famiglie devono comunque risolvere le problematiche con cui si confrontano.
Da un'indagine dell'Unione europea di qualche anno fa risultava che l'Italia, al pari della Gran Bretagna, aveva il minor grado in Europa di soggettività della famiglia nel welfare. Questo si evinceva da una serie di calcoli piuttosto complicati effettuati dai ricercatori in quella occasione, che comunque ci collocavano di nuovo in fondo rispetto ad importanti elementi di attenzione nei confronti della famiglia.
Tale disattenzione e tali sfasature sono riscontrabili forse in maniera più eclatante nel fisco e nella previdenza. Il problema delle pensioni oggi è di nuovo all'ordine del giorno; ci sono tante questioni che si potrebbero sollevare in proposito, ma mi limito a sottolineare solo le iniquità fra generazioni, che il nostro sistema pensionistico ancora provoca, fattore tra i più gravi e dannosi proprio per le condizioni economiche della famiglia.
Nel testo vengono riportati a titolo di esempio alcuni dati che mettono in evidenza come la riforma Amato abbia impoverito soprattutto le classi di età tra i 25 e i 39 anni, la riforma Dini quelle fra i 20 e i 39 anni e la prima proposta Berlusconi, discussa all'epoca della ricerca, sostanzialmente finiva per impoverire le classi di età tra i 35 e i 59 anni, con notevoli danni dal punto di vista dell'equità intergenerazionale. Le varie riforme succedutesi non sono riuscite a far decollare la previdenza complementare, consolidando invece un welfare garantista e sostanzialmente gerontocratico.
La ripartizione della spesa sociale italiana per categorie, come potete vedere dai dati che riportiamo, dati ISTAT internazionali, è assolutamente squilibrata a favore degli anziani, mentre si riscontrano percentuali molto basse rispetto ai nostri partner europei per quanto riguarda l'infanzia, la famiglia e la disoccupazione. Un dato interessante da evidenziare è tratto da alcune analisi del CER (Centro Europa Ricerche) sul tema della redistribuzione. Il CER ha analizzato diverse tipologie di famiglie, in particolare famiglie giovani, mature e anziane, ha effettuato calcoli econometrici molto accurati sull'impatto delle politiche fiscali, redistributive e dei trasferimenti economici, giungendo alla conclusione, suffragata da dati, di quanto il nostro sistema complessivamente abbia forti svantaggi soprattutto per le famiglie giovani, e grandi vantaggi, invece, per le famiglie anziane, che si ritrovano un reddito disponibile ben più alto di quello delle famiglie giovani.
Questo è ormai un dato acquisito, sul quale evidentemente non riusciamo ancora ad intervenire. Le politiche socio-assistenziali in modo specifico, come tutti sappiamo, hanno avuto un momento di grande innovazione con la legge n. 328 del 2000. Sicuramente, molti aspetti positivi si sono originati da queste modificazioni normative, ma ci sono stati anche molti problemi, tra i quali vorrei sottolineare la conflittualità fra Stato e regioni, a seguito della legge e di altri atti normativi, e i numerosi contenziosi che continuano ancora oggi a porsi sulle competenze pubbliche statali e locali, che spesso ingessano e rendono difficile l'attuazione delle politiche.
Certo, sembra ci si avvii verso una sempre maggiore autonomia degli enti locali e delle regioni nelle politiche socio-assistenziali, e questo, come sappiamo, accentua i problemi di disuguaglianza tra le regioni, sebbene tutti confidino nell'individuazione di livelli essenziali di assistenza, che però sono ancora lungi dal realizzarsi. Dati ISTAT ci segnalano comunque che solo il 4,4 per cento delle famiglie che hanno ricevuto una qualche forma di aiuto sociale e sanitario si sono rivolte al settore pubblico, laddove il 7,8 per cento si è rivolto a servizi privati a pagamento, e il 16,8 per cento ha utilizzato reti informali. Questo è un segnale evidente di come, nonostante le innovazioni e i tentativi, la dimensione dell'assistenza


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sociale pubblica sia ancora minoritaria nelle possibilità delle nostre famiglie.
Vi sono poi altri dati che riguardano i nonni e i bambini, quindi la funzione di tutoring e di supplenza che la famiglia svolge nei confronti di tutti i soggetti deboli. Cito solo un dato: dalle indagini che abbiamo svolto emerge che almeno il 75 per cento degli anziani non autosufficienti è accudito dalla famiglia e solo la rimanente percentuale riesce ad usufruire di un altro aiuto, a pagamento, o gratuito.
Un'altra questione è costituita dal reddito minimo di inserimento. Una delle possibilità, che tutti i paesi europei e non europei si sono dati per cercare di fare fronte alla situazione descritta, è l'introduzione di un intervento economico di sostegno alle famiglie in difficoltà denominato reddito minimo di inserimento o reddito di ultima istanza.
Su questo l'Italia è ancora assolutamente inadempiente. Abbiamo avuto modo di partecipare ad una indagine di valutazione degli esiti della sperimentazione condotta qualche anno fa sul reddito minimo di inserimento. Bisogna sottolineare che anche su questo esistevano luci ed ombre. Sicuramente è stato difficile quantificare i risultati della misura, anche perché andrebbero stimati a lungo termine e invece l'analisi è stata condotta in tempi molto rapidi, soprattutto per quanto riguarda l'impatto di questo intervento economico sulla possibilità dell'individuo povero di reinserirsi nel mondo del lavoro, di trovare una propria collocazione. L'indagine ha tuttavia evidenziato una serie di esiti, di aspetti positivi, che riguardavano, per esempio, un nuovo modo di gestire i problemi sociali ed economici del territorio, una nuova organizzazione del lavoro degli uffici preposti alla gestione di queste problematiche, una particolare capacità e un'attenzione di analisi nei confronti dei problemi del territorio.
A questo proposito, vorrei citare anche un'indagine svolta nel Lazio, nella quale abbiamo cercato di mettere in evidenza come le forme di disagio dipendano anche dalle politiche economiche, dalla configurazione sociale ed economica del territorio. Ecco, quindi, che lavorare su un'ipotesi di reddito minimo significa anche porsi questi problemi, fare dei piani di zona degni di questo nome. Sicuramente, anche questo punto andrà affrontato con una certa urgenza, se il nostro paese vuole finalmente mettersi in linea con gli altri, rispetto a forme di contrasto alla povertà, che sono estremamente più ricche, articolate ed efficienti in altri paesi.
Vorrei concludere con qualche breve notazione sulle linee di politica futura. Affermiamo sempre, rispetto a questa problematica, che il welfare monolitico italiano deve cominciare a capire la necessità di uscire da questo blocco unitario, deve diventare un welfare a tre o a quattro pilastri, ovvero che, accanto al sistema pubblico, deve esistere sicuramente un secondo pilastro mutualistico, categoriale, un terzo pilastro assicurativo, individuale, ma regolato, non affidato semplicemente all'improvvisazione di chi può permetterselo, e un quarto, che è quello del contributo delle famiglie, dei cittadini e delle reti informali.
Si deve raggiungere sicuramente il riequilibrio dei paesi interni al sistema di welfare, in termini soprattutto di finanziamenti, ma non solo, e soprattutto bisogna puntare sulla dimensione del welfare locale.
In questo senso, ritengo che la conflittualità fra centro e periferia andrebbe sfumata a favore di una definizione, in base a principi comuni, di politiche che abbiano una caratterizzazione e un radicamento territoriale, in grado di essere molto vicine anche alla dimensione familiare.
Accanto a questo, la sicurezza dei lavoratori flessibili o atipici è un altro punto sul quale l'Italia dovrebbe muoversi in maniera più adeguata.
Da quanto detto emerge anche, con sufficiente evidenza, quali siano gli aspetti sui quali bisognerebbe individuare la possibilità di rilancio e di svolta della nostra politica. Abbiamo parlato di un mix di cause rispetto alle condizioni di maggior disagio. Questo significa che il rapporto


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fra individui in difficoltà, famiglie in difficoltà e servizi non può essere lasciato al caso o al libero arbitrio della famiglia, né all'intuizione dell'assistente sociale, ma bisogna individuare una strumentazione che permetta di entrare nel vissuto delle famiglie e capire ove davvero si verifichino le situazioni di maggiore difficoltà.
Prima si parlava delle famiglie monogenitoriali. Naturalmente, non sono tutte povere, sebbene abbiano molti fattori di rischio, quali il fatto che il capofamiglia sia donna, che ci sia un solo reddito, che ci siano figli. Se non riusciamo, attraverso i servizi pubblici, a capire il vissuto di quella famiglia, difficilmente potremo svolgere al meglio i nostri investimenti. Come dicevo, inoltre, la povertà da malattia e da solitudine dovrebbe costituire una priorità, e tutti ci auguriamo che la questione dei fondi per la non autosufficienza e per tutto quello che ruota intorno a questa tematica possa subire una svolta positiva.
Come già il professor Biggeri, anche noi siamo a disposizione non solo per domande, ma anche per approfondimenti. Ho cercato di interpretare i vostri interessi e le vostre esigenze, ma molte altre cose si potevano dire, citando altri dati e ricerche svolte al CENSIS, sebbene in dimensioni molto più ridotte rispetto a quelle dell'ISTAT.
Mi auguro che si possa continuare a dare un nostro contributo, a collaborare con voi. Chiunque avesse esigenza di materiali specifici, documenti e quant'altro, può chiederlo a me o chiamare il CENSIS. Grazie.

PRESIDENTE. Do ora la parola ai colleghi che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.

GIOVANNI MARIO SALVINO BURTONE. Anche io considero preziosa la relazione della dottoressa, che ci dà purtroppo conferma di una forte preoccupazione che è alla base della nostra scelta di condurre questa indagine, ossia della condizione di impoverimento delle famiglie.
La dottoressa ha giustamente rilevato che il reddito delle famiglie nel complesso è cresciuto, ma è cresciuta la forbice tra le famiglie che hanno di più e quelle che hanno di meno.
C'è stata una politica fiscale che ha avvantaggiato alcune famiglie, mentre si è trascurata una politica sociale nei confronti di coloro i quali subiscono una maggiore iniquità. Ringrazio la dottoressa perché, nella sua relazione molto precisa, sono contenute anche alcune proposte sulle quali lavorare: la necessità di riprendere tutta la questione legata alla legge n. 328, la conflittualità apertasi tra Stato e regioni, l'opportunità di mettere mano ad un aumento delle risorse, che nel passato si sono assottigliate, la necessità di realizzare un sistema fiscale che non abbia a cuore i ceti che hanno di più, bensì le famiglie numerose.
Nell'ultima parte della relazione, la dottoressa sottolinea l'importanza di uno strumento che, pur non suscitando la nostra esaltazione, in alcune aree del paese ha sicuramente avuto un preciso significato di lotta alla povertà, ovvero il reddito minimo di inserimento, che è necessario legare alle famiglie.
Sono alla conclusione, perché è giusto che intervengano anche gli altri. Aggiungo solo una domanda. La dottoressa ha citato il problema dell'indebitamento delle famiglie legato alla questione dei mutui casa, e il fatto che oggi le famiglie hanno a disposizione alcuni beni e servizi a basso costo. Chiederei un approfondimento, se possibile, a proposito dell'indebitamento complessivo delle famiglie rispetto ad alcuni beni di consumo che sono considerati voluttuari, visto che molte famiglie a fine mese hanno la scadenza per il pagamento del telefonino, della macchina e di tutto il resto.

FRANCESCO PAOLO LUCCHESE. Vorrei solo alcune precisazioni riguardo all'aumento del reddito attraverso i fabbricati, cui ha accennato la dottoressa. È stato rilevato che la patrimonializzazione dipende dal possesso o meno di fabbricati, però contemporaneamente vi è il problema, sottolineato dal collega Burtone, del mutuo. Mi chiedo se sia più povera la


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famiglia che ha un fabbricato e deve pagare un mutuo, o quella che non ha un fabbricato e paga l'affitto.
Inoltre, si è detto che in prevalenza è aumentato il lavoro nel settore industriale e agricolo, ma questi sono due settori in crisi, soprattutto il secondo, quindi mi chiedo come possa verificarsi tale aumento.
Per quanto riguarda il disagio connesso alle tossicodipendenze, al di là delle diatribe ideologiche, penso che dovremmo essere compatti nel combattere il fenomeno con determinazione, poiché rappresenta uno dei maggiori problemi di disagio.
Per quanto riguarda le malattie croniche, c'è la legge n. 104 del 1992 che offre la possibilità ai lavoratori che hanno familiari ammalati di essere trasferiti, ma è una legge imperfetta. Vorrei dunque sapere se lei ritenga che dovrebbe essere modificata, in modo da venire incontro ad esigenze dalle quali dipende l'allontanamento dal lavoro di molte persone.
Infine, per quanto concerne il reddito minimo di inserimento, è stato attuato nella XIII legislatura, ma si è trattato di una sperimentazione, come lei ha detto, limitata a grossi centri, alle città. Non è stata attuata nei comuni piccoli e, una volta finita, non è stata più ripresa. Lei ha rilevato la necessità di istituzionalizzarlo, in quanto fattore importante, mentre ne è stata condotta solo una sperimentazione, e limitatamente ad alcuni grossi centri.

DANIELA DIOGUARDI. Vorrei chiedere se, riguardo all'indagine sul reddito minimo di inserimento, troviamo di più nel suo testo, perché non mi è chiaro come sia stata condotta l'indagine e vorrei capire meglio la questione.

MASSIMO GARAVAGLIA. Sarò telegrafico, anche perché l'onorevole Burtone ha già affrontato, in parte, l'argomento. Vorrei sapere se ci siano dei dati maggiori sulla qualità dei consumi delle famiglie, soprattutto di basso reddito. È sicuramente vero, infatti, che le caratteristiche della famiglia tutor riprendano in generale quella che è la tipologia di consumo delle famiglie di reddito medio e alto, ma si ha la sensazione che per le famiglie di reddito più basso esista una rigidità su spese voluttuarie, vacanze, tecnologie, acquisti a rate anche di autovetture, trascurando invece le spese primarie, come l'istruzione, il nido, per poi chiedere agli enti locali un sostegno su questo tipo di spese.

ELISABETTA RAMPI. Anch'io, oltre ad esprimere un sincero ringraziamento per il contributo, così prezioso per il nostro lavoro, desidero sottolineare come vi sia proprio la necessità di una coesione e solidarietà intergenerazionale, così come posto in evidenza anche nella relazione. Inoltre, le sempre maggiori aspettative di vita che vi sono nella nostra società occidentale, pongono la necessità di mantenere la cittadinanza attiva il più a lungo possibile. Al contrario, si nota un rischio molto forte di indebolimento delle famiglie e di frantumazione, frammentazione e allontanamento fra le generazioni. Proprio per sfuggire questo rischio di allontanamento, desidererei sapere quanto incidano o abbiano inciso le politiche di distribuzione del reddito e la sempre crescente precarizzazione del mondo del lavoro.

LUISA CAPITANIO SANTOLINI. Anch'io sarò telegrafica. Vorrei sapere dalla dottoressa Collicelli, che ringrazio, ma lo chiederei anche alla dottoressa Sabbadini, se esistano dati sull'indebitamento delle famiglie e sul ricorso all'usura. Credo infatti che questo rappresenti un fenomeno in crescita. Forse è difficile avere una rilevazione del genere, però, giacché il problema esiste, vorrei sapere se sia possibile ricevere qualche informazione al riguardo.
Inoltre, non vorrei che venisse frainteso quanto ha detto la dottoressa Collicelli. Non credo vi siano state politiche fiscali che hanno avvantaggiato alcune famiglie, così diventate più ricche, e invece, politiche di welfare che abbiano indebolito le più povere. Ritengo che in cinquanta anni le politiche fiscali per la famiglia non siano state fatte da né dai Governi di


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destra, né da quelli di sinistra. Quindi, il mio atto di accusa è nei confronti di tutti i Governi, senza differenze, perché credo che la mancanza di politiche fiscali per le famiglie abbia rappresentato una costante.

FIORELLA CECCACCI RUBINO. Brevemente, vorrei sapere perché per quanto riguarda le malattie e la solitudine non sia stato inserito nelle tipologie di disagio anche il fenomeno della depressione, che, come malattia, mi sembra un fatto importante nella nostra società. Ritengo che si potrebbe condurre un'indagine conoscitiva più approfondita su questo problema, che comporta anche una notevole spesa sociale.

SALVATORE MAZZARACCHIO. Nessuna delle due encomiabili relazioni oggi svolte mette in evidenza una grande contraddizione esistente in questo paese. Da una parte, abbiamo tutti questi dati di povertà, di disagio, di complessità di situazioni negative nella famiglia, dall'altra, siamo importatori di manodopera. Allora, non si capisce bene se certi lavori non si vogliano fare, se questo paese non sia più abituato a farli. Mi chiedo, dunque, se questa povertà sia in un certo senso provocata, o se il paese si trovi veramente in una fase disperata.
Vorrei - ripeto - che una delle due relazioni, dell'ISTAT e del CENSIS, ponesse in evidenza finalmente questa contraddizione: da una parte, la miseria e la povertà, aspetti dei quali sono piene anche le cronache quotidiane, dall'altra, la nostra realtà di paese che importa manodopera, senza la quale non verrebbero raccolti i pomodori della Capitanata, i peperoni del Vallo di Diano, le mele della Val di Non, senza la quale le concerie sarebbero ferme. Allora, non si capisce dove si origini tutta questa povertà, e ci si chiede se si cerchi un lavoro, o piuttosto il posto di lavoro. Ritengo perciò necessario un approfondimento al riguardo.

LUIGI CANCRINI. Desidero porre solo una domanda per quanto riguarda la tabella n. 6 della sua relazione, dove si citano alcune tipologie di disagio. Avrei la curiosità di sapere da dove provengano i dati, come siano stati stimati, ad esempio, un milione e seicentomila alcolisti. Inoltre, ho anche difficoltà a capire per la marginalità minorile quali criteri siano stati utilizzati, che tipo di rilevazione venga fatta per fornire un dato di questo genere.
Per quanto concerne il disagio abitativo, francamente mi sembra poco realistico che esistano solo ventimila disagi abitativi. Non so quali siano i criteri adoperati, per cui resto perplesso. Sarebbe interessante spiegare la fonte e i criteri utilizzati per dati di questo genere.
In rapporto a questo, secondo me, quando si fornisce il dato di un milione e seicentomila alcolisti, c'è il problema di sapere se sono assistiti. Insomma, occorre capire di che cosa stiamo parlando, perché poi c'è un problema - come diceva Basaglia - di epidemiologia dei servizi, al di là delle esigenze. Altrimenti, è difficile, poi, immaginare politiche efficaci..

FRANCESCO PAOLO LUCCHESE. A proposito di politiche fiscali, vorrei conoscere la sua opinione a proposito del quoziente familiare.

PRESIDENTE. Do la parola al vicedirettore generale della Fondazione CENSIS, Carla Collicelli.

CARLA COLLICELLI, Vicedirettore generale della Fondazione CENSIS. Solo poche parole; sarò costretta a molti rinvii, perché da un lato manca il tempo e dall'altro non ho qui gli elementi per rispondere a tutti i quesiti posti.
Per quanto concerne i dati citati dal professor Cancrini, in fondo alla tabella sono indicate alcune delle principali fonti che vengono utilizzate per formulare questo genere di stime. Evidentemente, si tratta di stime su ognuna di queste categorie, e si potrebbe discutere a lungo sui criteri secondo i quali è stata definita la tabella. Certo, sarebbe estremamente utile, come lei consiglia, avere anche il dato relativo a quanti di questi alcolisti vengano assistiti, ma direi che sarebbe estremamente


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complesso. Comunque, può essere uno spunto per fare meglio in una prossima occasione.
In genere, utilizziamo sia dati di fonte ufficiale (ISTAT, Ministero della giustizia, Ministro della salute), sia dati che derivano dal terzo settore, dal mondo del volontariato ed anche da indagini di campione. Un esempio su tutti è il dato sull'alcolismo: vi è una buona accumulazione di rilevazioni effettuate dalla Doxa con una certa periodicità che permettono di effettuare alcune stime. Naturalmente parliamo di stime, non sono assolutamente dati puntuali nel dettaglio.
Vorrei ora affrontare due questioni un po' più generali, la prima delle quali è quella delle politiche fiscali. Non intendevo, certo, affermare che ci siano stati interventi di natura fiscale che abbiano favorito o sfavorito le famiglie. Da sempre, in maniera abbastanza costante, l'impatto della regolamentazione fiscale di questo paese ha dato e dà i risultati citati, rendendo appunto più agevole la situazione economica di determinate famiglie, quali quelle anziane o senza figli o bi-reddito, e, invece, particolarmente difficile e depressa la situazione di altre.
Sulla questione degli immigrati, già prima, quando se ne parlava con il professor Biggeri, mi veniva da sottolineare il fatto che abbiamo informazioni abbastanza chiare in ordine alla richiesta di manodopera dei nostri imprenditori e capi aziende. Essa è infatti estremamente bassa, e questo spiega perché anche persone con un livello di scolarizzazione molto alto svolgano quei tipi di lavoro e perché non si trovino italiani che vadano a ricoprire quelle posizioni. Sicuramente, esiste un problema rilevante di questo tipo, una scarsa attenzione nel nostro paese per il lavoro tecnico, per il lavoro manuale, che, se opportunamente sostenuto, potrebbe essere svolto anche da italiani.
Vorrei comunque ribadire una cosa, che troverete nel testo, ma non ho avuto modo di trattare a voce per motivi di tempo: tutte le tematiche qui dibattute, in fondo, sono legate al livello di sviluppo del nostro paese, alla qualità della nostra ricerca, dei nostri investimenti e della nostra economia, perché purtroppo, poi, tutto dipende da lì. Se avessimo un grado di sviluppo ed anche attività produttive ed economiche di livello più elevato, molti dei problemi di cui abbiamo trattato (anche quello degli immigrati) sarebbero interpretabili diversamente.
Permettetemi qualche flash su altre questioni, sulle quali non abbiamo il tempo di soffermarci. Sulla questione dell'indebitamento e del mutuo, abbiamo un monitoraggio annuale sul problema della casa, che si chiama «Casamonitor», su cui possiamo fornire materiale a chi fosse interessato. Abbiamo anche una ricerca periodica, annuale, sui consumi degli italiani e sui diversi aspetti dei consumi, dalla quale emergono anche elementi rispetto al ricorso a finanziamenti e a prestiti, e dalla quale si possono trarre molte indicazioni interessanti sui temi sollevati quali i consumi voluttuari.
Per quanto concerne l'usura, non abbiamo mai potuto far nulla. Credo esistano solo dati di stima molto poco sistematici da parte delle associazioni che si occupano di assistenza alle vittime dell'usura.
Per quanto riguarda le numerose altre questioni sollevate, quali la tossicodipendenza, il reddito minimo di inserimento, la legge n. 104 del 1992, ci sarebbe bisogno di un maggior approfondimento. Comunque, ripeto, sul reddito minimo di inserimento abbiamo partecipato alle indagini di valutazione andando direttamente sul campo, cioè abbiamo potuto andare a verificare proprio sul terreno l'impatto della sperimentazione sulle condizioni di vita delle famiglie. È un dato, questo, che non abbiamo potuto pubblicare, perché inserito in una valutazione rimasta ancora riservata, però per voi possiamo anche entrare nel merito e mandarvi alcuni elementi.
Altro tema importante sollevato è quello delle generazioni e dell'impatto della precarizzazione sul rapporto tra generazioni. Paradossalmente, la precarizzazione del lavoro ha influito da elemento


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di rafforzamento della tutela familiare. La famiglia tutor, che abbiamo studiato e che vediamo crescere, con i ragazzi che rimangono sempre più a lungo in famiglia, ha molto a che vedere anche con la questione della crescita del lavoro precario, e questo rafforza quanto detto, ovvero la necessità di dare priorità assoluta a diversi e più solidi sistemi di sicurezza e di sostegno dei lavoratori costretti ad accettare questo genere di lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la documentazione prodotta dai rappresentanti dell'ISTAT e del CENSIS sarà posta a disposizione dei colleghi; in particolare quella consegnata dall"ISTAT è molto più ricca di quella già distribuita; nei prossimi giorni tutto il materiale sarà disponibile per i membri della Commissione. Nell'invitare la dottoressa Collicelli ad inviarci ulteriore materiale in ordine agli aspetti segnalati nei vari interventi, avverto che anche questo sarà poi posto a disposizione di tutti i colleghi
Per quanto riguarda altro materiale che possa rispondere a qualche esigenza di approfondimento, che è stata sollevata da alcuni colleghi, potremmo invitarla ad inviarci copia, tenendo conto degli aspetti segnalati alla nostra attenzione. Avremo cura di riprodurla, in maniera che tutti i colleghi possano riceverla.
Ringrazio tutti gli intervenuti e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 16,10.