Resoconto stenografico dell'Assemblea
Seduta n. 539 del 4/11/2004
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Discussione congiunta dei disegni di legge: Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2005) (5310-bis); Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2005 e bilancio per il triennio 2005-2007 (5311) (ore 15,10).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione congiunta dei disegni di legge: Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2005); Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2005 e bilancio per il triennio 2005-2007.
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi riservati alla discussione congiunta sulle linee generali è pubblicato


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in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).

(Discussione congiunta sulle linee generali - A.C. 5310-bis e 5311)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione congiunta sulle linee generali.
Avverto che il presidente del gruppo della Margherita, DL-L'Ulivo ne ha chiesto l'ampliamento, senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del regolamento.
Ha facoltà di parlare il relatore sul disegno di legge n. 5310-bis, onorevole Crosetto.

GUIDO CROSETTO, Relatore sul disegno di legge n. 5310-bis. Signor Presidente, onorevoli colleghi, come ogni anno, l'esame parlamentare del disegno di legge finanziaria costituisce l'occasione più importante a disposizione del legislatore per affrontare in una logica complessiva e in termini concreti le diverse problematiche che attengono alle scelte di politica economica e che investono, non soltanto la finanza pubblica, ma, più in generale, l'intera economia.
L'ampiezza e la varietà delle questioni che sono oggetto di discussione nel corso della sessione di bilancio ha peraltro determinato, anche nel recente passato, la conseguenza di un esame che spesso è risultato poco ordinato, in cui si affastellavano, talora confusamente, temi e problemi di dimensione ed urgenza assai diversi. Ne è scaturita l'idea largamente diffusa anche nell'opinione pubblica, al punto di diventare una sorta di luogo comune, della sessione di bilancio come una fase dell'attività parlamentare non sufficientemente presidiata, in cui risulterebbe più difficile governare e contemperare le diverse aspettative, con conseguente snaturamento della funzione che alla legge finanziaria è assegnata dalla vigente disciplina contabile.
In realtà, ad un più attento esame dell'esperienza degli scorsi anni, si può rilevare che la legge finanziaria non è mai uscita dall'esame parlamentare snaturata delle sue caratteristiche e delle sue linee generali.
In più di una occasione, il Parlamento è addirittura riuscito a migliorare i saldi, rispetto al testo presentato dal Governo. Ciò nonostante, è indubbio che sulla legge finanziaria si sia scaricato un carico eccessivo di decisioni e, conseguentemente, di tensioni per la ricerca di soluzioni accettabili e condivise. Si è quindi posto in termini più stringenti il problema di rivedere e aggiornare alcuni dei passaggi dell'esame parlamentare della legge finanziaria, in modo da assicurare un esame più ordinato e meno convulso.
Va al riguardo osservato che quanto avvenuto lo scorso anno, per cui il Governo accompagnò al disegno di legge finanziaria un provvedimento di urgenza le cui disposizioni corrispondevano in larga parte al contenuto tipico della legge finanziaria stessa, non si è dimostrato una risposta soddisfacente ai problemi emersi.
Infatti, per un verso, si è accentuato il livello di confusione per l'oggettiva sovrapposizione dell'esame dei due provvedimenti e, per altro verso, si è impedita un'adeguata discussione in sede parlamentare sul merito delle questioni trattate.
Per questo motivo, con la risoluzione di approvazione del DPEF, il Governo è stato richiamato alla necessità di affidare alla legge finanziaria le determinazioni volte a consentire il rispetto dei saldi di bilancio nonché la regolazione di carattere quantitativo in materia tributaria degli interventi necessari per definire il quadro dei rapporti finanziari tra lo Stato e le autonomie territoriali, ferma restando la possibilità di adottare, per la definizione della manovra, provvedimenti collegati che dovranno avere carattere omogeneo.
Il Governo ha correttamente recepito tale indicazione, pur preannunciando l'intenzione di successivi interventi, volti al sostegno dello sviluppo.
Alla scelta del Governo di concentrare nel disegno di legge finanziaria gli interventi correttivi diretti ad assicurare il conseguimento degli obiettivi della manovra per il prossimo anno si è accompagnata


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la consapevole e responsabile decisione, assunta nell'ambito della Commissione bilancio, di applicare compiutamente e coerentemente le regole esistenti, anche rivedendo alcune prassi consolidatesi negli scorsi anni. Ciò vale, in particolare, per quanto concerne l'obbligo di corredare tutti gli emendamenti onerosi di puntuale ed esplicita copertura.
A ciò si è aggiunta l'applicazione di più rigorosi criteri per la verifica del contenuto proprio della legge finanziaria e per la valutazione dell'ammissibilità delle proposte emendative, sempre con riferimento al loro contenuto.
È innegabile che il complesso delle novità intervenute in questa sessione, che in parte traggono origine dalla sperimentazione effettuata lo scorso anno, costituisce una chiara testimonianza dell'impegno del Parlamento a qualificare l'esame del disegno di legge finanziaria superando la tendenza alla polverizzazione delle decisioni che troppo spesso caratterizza l'attività legislativa nel nostro paese.
Non intendiamo, quindi, sottrarci alla necessità di individuare soluzioni che si collochino entro un quadro coerente, secondo criteri di priorità e nel rispetto di vincoli e compatibilità stringenti.
È tuttavia innegabile che i criteri che sono stati assunti hanno oggettivamente ridotto i margini di intervento dei parlamentari e della stessa Commissione bilancio, già fortemente ridimensionati a causa della richiesta del Governo di disporre di un tempo più ampio rispetto a quello entro il quale si è svolto l'esame in sede referente presso la Commissione bilancio, per verificare la sostenibilità finanziaria delle sollecitazioni che sono state prospettate.
È comunque evidente che l'esperienza di quest'anno segna un passaggio importante, anche se non indolore, per i parlamentari in direzione di una valorizzazione della legge finanziaria come momento cruciale per affrontare le questioni di maggiore importanza dal punto di vista economico e finanziario.
Nonostante l'approfondita istruttoria di carattere generale svolta nell'ambito della Commissione, anche attraverso le numerose audizioni, non è stato possibile pervenire a soddisfacenti conclusioni sui diversi temi che pure si intendevano affrontare; è in ogni caso evidente che nel corso dell'esame in Assemblea dovrà essere effettuato, nel pieno rispetto delle regole, un lavoro ulteriore per individuare risposte adeguate ai numerosi, forse troppi, e importanti problemi emersi, che non hanno potuto trovare soluzione in Commissione.
Fatta questa premessa di carattere generale, ricordo che nei mesi scorsi da più parti si è affermato che soltanto recentemente sarebbe finalmente stata effettuata un'operazione di chiarezza per quanto concerne l'effettivo andamento dei conti pubblici. Tale interpretazione presuppone che in precedenza vi sia stata una sorta di manipolazione dei dati, il che è del tutto privo di fondamento.
Su questo tema il Governo ha infatti sempre tenuto un comportamento corretto. Se mi permettete un inciso, sono contento di vedere che le affermazioni del ministro Tremonti, che un anno fa erano criticate dal centrosinistra, sono nelle ultime settimane (tutte le volte che Tremonti continua a dire le stesse cose che diceva un anno fa) sostenute anche da esponenti del centrosinistra. Nello scorso maggio, allorché venne riconosciuto in sede europea, con assoluta onestà intellettuale, il rischio di superare il limite del 3 per cento di indebitamento netto della pubblica amministrazione, il Governo si assunse anche la responsabilità di porre in essere una consistente manovra correttiva, realizzata con il decreto-legge n. 168.
Non vi è stato, quindi, un improvviso cambiamento di atteggiamento ma soltanto, come peraltro era già avvenuto in numerosissime occasioni in passato, la necessità di adottare alcuni interventi volti a riportare gli andamenti tendenziali in linea con quelli programmatici.
Proprio l'esperienza del passato dimostra che le manovre correttive possono esplicare compiutamente i loro effetti se intervengono al momento più opportuno, a tal fine dovendosi evitare un «effetto annuncio» che potrebbe, oltre che pregiudicare


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il buon esito degli interventi, innescare processi recessivi. Se, quindi, è del tutto lecito contestare gli interventi che sono stati adottati o che vengono prospettati nel disegno di legge finanziaria, occorrerebbe allo stesso tempo evitare di mettere in discussione, per ragioni di dialettica politica, l'affidabilità dei risultati che vengono verificati, in termini coerenti con le regole contabili stabilite a livello europeo, da istituzioni serie, indipendenti e di certa autorevolezza, tanto più che gli stessi risultati vengono attentamente vagliati dalle competenti autorità comunitarie. Non corrisponde alla realtà una rappresentazione delle posizioni, rispettivamente della maggioranza e dell'opposizione, nei termini di una contrapposizione tra una presunta propensione della prima ad eludere il rispetto dei vincoli di bilancio e un'impostazione maggiormente «rigorista», peraltro tutta da dimostrare, della seconda.
La prospettiva che ispira l'attuale Governo e la maggioranza che lo sostiene non è quella di alimentare nell'opinione pubblica un ottimismo irragionevole ed infondato ma, piuttosto, da un lato, quella di fare il possibile per assumere i vincoli derivanti dall'appartenenza all'UEM senza tuttavia innescare spinte recessive e, dall'altro lato, quella di evitare un catastrofismo che deprimerebbe qualunque aspettativa di ripresa. Infatti, gli interventi correttivi sono stati posti in essere nella misura e nel momento in cui ciò risultava necessario, ma sempre con la consapevolezza che non si dovesse deprimere l'andamento dell'economia, che si è trovata a lungo in una condizione di oggettiva e strutturale difficoltà.
È infatti innegabile che, dopo l'adozione dell'euro, i limiti ed i fattori di debolezza strutturale del nostro sistema economico si sono manifestati con un'evidenza che non si era mai registrata in precedenza. L'economia italiana si è trovata priva dello strumento, di cui in passato si era fatto largo uso, delle svalutazioni competitive, proprio mentre la sfida della concorrenza, spesso sleale, di taluni paesi emergenti si è fatta più pressante. A ciò si aggiunga l'aggravarsi delle difficoltà del gruppo tradizionalmente più rappresentativo del paese, la FIAT, e l'esplosione degli scandali bond, Parmalat, Cirio, Argentina. Non può certo addebitarsi a questo Governo e a questa maggioranza il fatto che, improvvisamente, la gracilità di una parte consistente dell'industria italiana, la persistente debolezza del sistema finanziario, nonostante i progressi compiuti per quanto concerne le dimensioni delle aziende bancarie, le carenze infrastrutturali, la scarsa efficienza di una parte considerevole delle amministrazioni pubbliche si sono manifestate, con l'adozione dell'euro, con maggiore evidenza rispetto al passato.
Ciò non vuol dire che si intenda contestare la decisione di partecipare all'UEM. L'Italia non disponeva, infatti, né della capacità di attrarre investimenti dall'estero né di una moneta e di un sistema finanziario comparabili a quelli che hanno sino ad ora consentito alla Gran Bretagna di restare fuori dall'euro. Piuttosto, si tratta di ammettere una comune sottovalutazione dell'impatto di un così forte progresso sul terreno dell'integrazione per la nostra economia.
Le responsabilità dell'attuale situazione risultano, quindi, diffuse, in quanto coinvolgono in parte l'imprenditoria, che non ha saputo attrezzarsi per tempo, ad esempio approfittando della fase di crescita impetuosa dei mercati borsistici registrata nello scorso decennio, per tentare di sfuggire ai limiti, spesso asfittici, della dimensione familiare, e la politica che, negli anni '90, per perseguire l'obiettivo del risanamento finanziario, ha sostanzialmente bloccato gli investimenti pubblici, in primo luogo a scapito di quel potenziamento delle infrastrutture che sarebbe stato, invece, indispensabile. Nello scorso decennio si è anche compiuto l'errore di illudersi che le privatizzazioni che venivano effettuate sarebbero stati sufficienti ad assicurare adeguate prospettive di crescita, soprattutto nei settori più avanzati tecnologicamente, senza che vi fosse bisogno di una politica industriale. L'Italia è perciò chiamata a compiere uno sforzo aggiuntivo


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rispetto ai maggiori partner europei, che pure non si trovano in buone condizioni.
Costituiscono, infatti, problemi comuni all'Italia come alla Francia o alla Germania la necessità di ripensare all'assetto del welfare State, per assicurarne una sostenibilità finanziaria anche negli anni avvenire, di rendere più efficiente e flessibile il mercato del lavoro e di investire nella formazione delle giovani generazioni, così come di mettere un freno ad una spesa pubblica che oscilla intorno al 45 per cento del PIL e che non è più sostenibile nel confronto del nostro sistema paese con gli altri paesi del mondo.
Sono invece, purtroppo, tutti italiani i limiti di un sistema produttivo che troppo spesso non è riuscito a consolidare, attraverso l'adozione di forme e assetti organizzativi più evoluti e strutturati, una diffusa propensione all'imprenditorialità, e che ha preferito avvalersi di forme di sostegno di corto respiro piuttosto che pretendere, dalle istituzioni, infrastrutture efficienti e servizi adeguati e, dall'apparato della pubblica amministrazione, il raggiungimento di obiettivi di produttività.
In questa faticosa fase di transizione non mancano, tuttavia, alcuni segnali incoraggianti, a cominciare dall'allargamento della base occupazionale e dalla ripresa, ancorché timida, delle esportazioni. Sulla base dei dati comunicati alla Commissione bilancio dal presidente dell'ISTAT, il tasso di crescita tendenziale registratosi dopo il secondo semestre dell'anno in corso costituisce il miglior risultato ottenuto dal 2001, e l'espansione congiunturale sarebbe stata alimentata, oltre che dal contributo positivo della domanda interna, anche da una leggera ma importante ripresa delle esportazioni. In questo quadro, che può indurre ad un moderato ottimismo, costituisce, ovviamente, un elemento preoccupante l'incertezza che caratterizza l'andamento dei prezzi delle materie prime, e in particolare del petrolio, che potrebbe innescare una nuova spirale inflazionistica.
Un ulteriore segnale incoraggiante è rappresentato dalla prosecuzione del processo di ridimensionamento del tasso di disoccupazione e dall'allargamento dell'area degli occupati, con specifico riferimento alla componente femminile. Si tratta di un indice importante, perché dimostra che siamo in presenza di un'evoluzione strutturale del mercato del lavoro: una più elevata occupazione femminile potrà infatti risultare decisiva per consentire all'Italia di attestarsi su livelli comparabili con quelli degli altri paesi europei. È evidente che le misure che sono state poste in essere con la riforma del mercato del lavoro per introdurre elementi di flessibilità e far emergere situazioni che in precedenza restavano sommerse possono aver concorso in misura decisiva alla crescita del tasso di occupazione. Alla luce di tali considerazioni, risulta rafforzata l'esigenza di potenziare le misure di contrasto al sommerso, interrogandosi, tuttavia, anche sulle sue motivazioni culturali.
Affinché i segnali di ripresa si rafforzino, è indispensabile proseguire lungo la direzione delineata nel cosiddetto programma di Lisbona, per buona parte tuttora inattuato. È chiaro che, per conseguire più marcati tassi di crescita dell'economia europea, sarebbe necessario arrivare ad un più stretto coordinamento delle scelte di politica economica, e non soltanto di quelle monetarie, a livello continentale, in modo da massimizzare i risultati conseguibili. Le difficoltà che si riscontrano al riguardo non devono tuttavia diventare un alibi per ciascuno degli Stati membri, e soprattutto per l'Italia, di fronte all'esigenza di indirizzare le decisioni da assumere secondo una strategia focalizzata sulla crescita che eviti la dispersione delle risorse, attraverso una chiara definizione delle priorità.
Nel caso specifico del nostro paese, è evidente che il differenziale della crescita, che in questi ultimi anni si è registrato rispetto ad alcuni dei nostri partner europei, discende da quei problemi strutturali della struttura produttiva nazionale, che deve essere pertanto rafforzata, intervenendo nel contempo sulla spesa pubblica. A tale riguardo, le novità intervenute


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negli ultimi anni ci costringono a rivedere e ad aggiornare le forme e gli strumenti di intervento della politica economica.
In tale ottica, la politica economica non può limitarsi ad una gestione della finanza pubblica secondo parametri meramente ragionieristici e non deve rinunciare all'ambizione di concorrere a determinare gli andamenti economici.
È peraltro evidente che, stante la oggettiva limitatezza delle risorse che possono essere utilizzate, rispetto alle grandezze dell'economia reale e di quella finanziaria, per un verso la politica non deve inseguire l'illusione di decidere tutto e, per altro verso, non deve rinunciare superficialmente a strumenti di manovra che adesso potrebbero risultare decisivi.
Valga per tutti, a questo ultimo proposito, il caso delle politiche di privatizzazione. Al riguardo, in questa fase deve essere privilegiato il collocamento di beni appartenenti al patrimonio immobiliare piuttosto che di partecipazioni azionarie, specie se queste riguardano imprese che operano in settori strategici, quali l'energia.
Per tale ragione, esprimo una valutazione positiva, fatta salva la possibilità di correzioni parziali, sulle disposizioni di cui all'articolo 35, che, da un lato, agevolano l'alienazione, da parte dell'Agenzia del demanio, di quote di beni e di diritti reali su immobili a prezzi di mercato, e, dall'altro, prevedono la prosecuzione del programma di dismissioni da realizzare mediante cartolarizzazioni, ricorso a fondi immobiliari, cessioni dirette e valorizzazione del patrimonio pubblico. Sembra opportuna, invece, una riformulazione del comma 19 dell'articolo 35, per quanto concerne la previsione della parziale cessione della rete viaria statale, in modo da superare le obiezioni e i dubbi interpretativi sorti sia in sede di Commissione, sia nel dibattito.
Più in generale, è evidente la necessità di non circoscrivere la politica economica al mantenimento di un quadro di finanza pubblica compatibile con i parametri del Patto di stabilità e crescita. Per questo motivo, la maggioranza ed il Governo accompagneranno alla manovra correttiva delineata nel disegno di legge finanziaria una serie di interventi volti a sostenere la competitività e lo sviluppo. La decisione del Governo di non limitare la propria azione all'ordinaria amministrazione è confermata anche dalla scelta di procedere nel percorso di attuazione della riforma fiscale.
Da più parti è stato segnalato il dato preoccupante costituito dal progressivo deterioramento dell'avanzo primario determinatosi negli anni più recenti. È evidente che si tratta di un dato che non deve essere sottovalutato. Il ministro dell'economia e delle finanze ha chiaramente affermato che è intenzione del Governo segnare, nei prossimi anni, un'inversione di tendenza, anche per determinare una più significativa contrazione del debito, che tuttora rimane assai ingente nel nostro paese.
Un miglioramento dell'avanzo primario si può conseguire, tuttavia, solo in due modi: o utilizzando più intensamente la leva fiscale, o privilegiando lo strumento costituito dal contenimento delle spese. Se si assume che sarebbe inaccettabile e controproducente un ulteriore aggravio della pressione fiscale, ne consegue che l'unico strumento a disposizione è costituito da un serio controllo della spesa, maggiormente incisivo che in passato.
Un rigoroso controllo della spesa risulta necessario non soltanto per ricondurre l'indebitamento dal livello tendenziale del 4,4 per cento a quello programmatico del 2,7 per cento, ma anche per porre le premesse di un'efficace politica di sostegno allo sviluppo, sulla base della considerazione che all'economia italiana devono essere assicurate le condizioni necessarie per «agganciare» la ripresa e per promuovere una più marcata crescita dei consumi per liberare risorse da destinare a nuovi investimenti. In questa prospettiva, l'obiettivo di una riduzione fiscale, lungi dal costituire una mera promessa elettorale, si rivela come uno degli assi portanti degli indirizzi di politica economica che l'attuale maggioranza di Governo intende


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perseguire, al fine di delineare nuove e più evolute modalità di raccordo tra economia pubblica ed economia privata.
A tale proposito, si può rilevare che la legislazione posta in essere in questa legislatura ha lo scopo di velocizzare la realizzazione di infrastrutture e costituisce un valido esempio. Questa legislazione si fonda sulla definizione di nuove forme di partenariato tra le amministrazioni pubbliche e le imprese, al fine di attivare crescenti occasioni di investimento e ripartire più equamente il rischio di impresa che, in precedenza, per la realizzazione di opere pubbliche, gravava interamente sulla finanza statale.
Per procedere ulteriormente nella realizzazione di una politica economica realmente efficace, è necessario incidere nel governo della finanza pubblica, riducendo progressivamente il peso della zavorra costituita dagli andamenti tendenziali. In tale quadro, deve essere fatto tutto il possibile per rispondere adeguatamente alle critiche e alle perplessità diffuse non soltanto tra le opposizioni in ordine all'intenzione del Governo di procedere sulla strada della progressiva attuazione della riforma fiscale, la quale si ispira all'obiettivo di una riduzione del carico tributario gravante sui cittadini e sulle imprese.
La risposta dovrà essere data sia sotto il profilo tecnico sia sotto il profilo politico.
Quanto al primo aspetto, è evidente che il Governo dovrà assicurare un'adeguata e congrua copertura alle misure di sostegno dello sviluppo, ivi compresa l'attuazione del secondo modulo della riforma fiscale. D'altra parte, l'esperienza degli ultimi anni ha ampiamente dimostrato che il Governo non intende venire meno all'impegno di rispettare i vincoli relativi ai saldi della finanza pubblica. Sono stati - piuttosto - altri paesi, tra cui la Germania, che in passato si era contraddistinta proprio per la rigidità con la quale aveva interpretato il rispetto dei vincoli di Maastricht, ad aver in qualche caso - anche significativamente - superato il tetto del 3 per cento dell'indebitamento.
In questa prospettiva, devono essere lette in primo luogo le misure contenute negli articoli 2 e 3. Tali disposizioni prevedono l'applicazione di una regola, pressoché generalizzata, fatte alcune eccezioni esplicitamente nominate, per cui le spese delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato e nel bilancio dello Stato possono crescere, nell'anno 2005, entro il limite del 2 per cento rispetto alle corrispondenti previsioni aggiornate dell'anno in corso.
La formulazione degli articoli 2 e 3 ha suscitato diffusi rilievi, non soltanto nell'ambito della Commissione e, più in generale, nel Parlamento, ma anche da parte di autorevoli osservatori esterni.
In effetti, i due articoli presentavano, nella formulazione originaria, difetti che attengono, in primo luogo, alla chiarezza per quanto concerne l'individuazione del relativo ambito di applicazione e, in secondo luogo, al rapporto con la vigente disciplina contabile. Per questo motivo, la Commissione ha richiesto al Governo l'elaborazione di un'apposita documentazione che rispondesse alle esigenze di chiarimento avanzate. In risposta a tale sollecitazione, il Governo ha provveduto a fornire una prima simulazione nella quale vengono indicate le unità previsionali di base e le autorizzazioni di spesa che, in via di fatto, risulterebbero interessate dalla regola del 2 per cento. Tale simulazione si fondava su un'ipotesi di applicazione lineare, per cui il limite verrebbe adottato in maniera indifferenziata. A questi primi dati ha fatto seguito una successiva e più puntuale documentazione del Governo, nella quale sono state riportate le misure dell'intervento correttivo concordate con tutte le amministrazioni interessate. Tale ulteriore documentazione ha trovato riscontro in un emendamento approvato dalla Commissione, che ha modificato parzialmente la formulazione dell'articolo 3.
È, peraltro, evidente che alle decisioni che sono state assunte al riguardo dovrà seguire la tempestiva trasmissione, da parte del Governo, della nota di variazione al disegno di legge di bilancio.


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Va, in ogni caso, osservato che con la collaborazione del Governo è stato recuperato il difetto di informazione che caratterizzava la formulazione degli articoli.
Sempre in una logica di contenimento della spesa si inseriscono alcune disposizioni approvate nel corso dell'esame in Commissione. Si tratta, per un verso, di riproporre anche per i prossimi esercizi le disposizioni, già inserite nel decreto-legge n. 168 del 2004, dirette a ridurre gli oneri derivanti dal conferimento di consulenze a soggetti estranei alle amministrazioni pubbliche. Tale previsione discende dalla constatazione per cui gli incarichi di questa natura costituiscono una fonte non irrilevante di spesa per le amministrazioni sia centrali che locali.
Per altro verso, si tratta di contenere le spese per l'acquisto, la manutenzione, il noleggio e l'esercizio degli autoveicoli in uso presso le pubbliche amministrazioni. Anche tale disposizione, che ha suscitato un ampio dibattito (a parere del relatore troppo ampio), intende affrontare il problema, che soltanto ad una superficiale valutazione può risultare irrilevante, dell'eccessivo ricorso alle cosiddette auto blu, da cui discendono situazioni di vero e proprio abuso, con conseguente notevole aggravio degli oneri per la finanza pubblica.
Invito i colleghi ad affrontare i profili sostanziali che tali disposizioni evidenziano, al di là degli aspetti formali su cui si è erroneamente concentrata l'attenzione in queste settimane. Vi sono pur stati alcuni rilievi condivisibili; tuttavia - consentitemi l'inciso - quando, ad esempio, abbiamo parlato di auto blu, intendevamo riferirci solo ad esse e l'interpretazione fornita da taluni e riportata dalle agenzie di stampa di oggi, secondo cui ci volevamo riferire ad altri mezzi, come i pulmini per i bambini o per gli handicappati, serve soltanto ad una demagogia che sicuramente non aiuta i conti pubblici dello Stato.
Occorre considerare che queste disposizioni richiamano alla nostra attenzione un problema cui il Parlamento non ha finora dedicato sufficiente attenzione, consistente nelle modalità attraverso le quali viene annualmente predisposto il bilancio a legislazione vigente. Nella redazione del bilancio sembra prevalere, piuttosto che un'attenta ponderazione delle effettive esigenze finanziarie e della reale capacità di spesa di diversi centri di responsabilità, una logica inerziale per cui, di anno in anno, si implementa lo stanziamento risultante dall'esercizio precedente con una maggiorazione compatibile con gli obiettivi attesi, senza un'accurata e puntuale analisi delle voci di spesa. Anche i meccanismi che sono stati posti in essere negli ultimi anni, a partire dal cosiddetto decreto «tagliaspese», continuano a difettare nella puntuale analisi delle voci di spesa. Pur tuttavia, molte delle misure di contenimento che sono state effettuate recentemente, con particolare riferimento alle disposizioni adottate con il citato decreto-legge n. 168, hanno consentito effettivamente di conseguire i risultati attesi senza mettere a repentaglio l'operatività delle amministrazioni interessate dai tagli operati.
Il bilancio dello Stato deve essere pertanto impostato in termini più rispondenti alle effettive esigenze di spesa e alle reali capacità di impegnare e pagare le risorse stanziate.
In tal senso, il dato dei residui assume particolare rilevanza. Infatti, a fronte di stanziamenti per spese finali, nell'esercizio 2005, pari a 433 miliardi di euro, di cui 44 miliardi in conto capitale e 315 miliardi al netto degli interessi, i residui stimati nel bilancio di previsione ammontano a 72 miliardi di euro, di cui 46 miliardi in conto capitale e 25 miliardi per spese correnti al netto degli interessi.
Quindi, nonostante le varie disposizioni introdotte negli ultimi anni per ridurre la permanenza nel bilancio dei residui, oltre il 15 per cento circa delle risorse complessivamente spendibili continua ad essere costituito da residui che si accumulano di anno in anno. Anche questo dato conferma la necessità di assumere una diversa impostazione della definizione del bilancio e, soprattutto, rende oggettivamente meno credibili i timori da più parti


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avanzati in ordine alle conseguenze negative che la limitazione degli stanziamenti di competenza e di cassa determinerebbe. Se, infatti, le amministrazioni continuano a non essere in grado di impegnare una massa così ingente di risorse stanziate, evidentemente, alcuni stanziamenti iscritti in bilancio sono notevolmente sovrabbondanti.
Si può inoltre ipotizzare, sempre nella logica di una più attiva gestione del bilancio, una puntuale verifica delle leggi permanenti di spesa attualmente vigenti per accertare se esse rispondano tuttora ad effettive esigenze, provvedendo, in caso di esito negativo, a determinarne l'esaurimento, prendendo a modello la procedura che nel mondo anglosassone è definita sunset legislation o sunset closed.
Con riferimento alle disposizioni di cui agli articoli 6 e 22, concernenti, rispettivamente, il patto di stabilità interno e la spesa sanitaria, merita rilevare che si tratta di una parte significativa della manovra correttiva, posto che circa il 60 per cento del contenimento programmato della spesa, pari a complessivi 9,5 miliardi di euro, è affidata agli enti territoriali. In particolare, 4,25 miliardi di euro di risparmi sono attesi dalle disposizioni relative alla spesa sanitaria.
Non va in proposito trascurato che l'errata definizione della capienza del fondo sanitario ha determinato, negli scorsi anni, inevitabili sfondamenti e che, per questo motivo, è necessario accompagnare efficaci strumenti di intervento e di monitoraggio alla previsione, concordata con le regioni, dell'ammontare complessivo della spesa.
In materia di patto di stabilità interno per gli enti locali, occorre segnalare la novità costituita dalla previsione del vincolo all'incremento delle spese correnti e di conto capitale, anziché all'incremento del disavanzo, come avveniva in precedenza.
In sostanza, si assume un nuovo parametro che appare oggettivamente più incisivo rispetto al precedente nelle scelte di allocazione delle risorse a disposizione degli enti territoriali. Vengono comunque escluse talune tipologie di spese, specificamente individuate.
Su queste disposizioni si è svolto un approfondito confronto in Commissione bilancio che ha preso le mosse dalla considerazione, ampiamente condivisa, della necessità di evitare, da un lato, un'eccessiva penalizzazione della possibilità degli enti locali di effettuare gli investimenti necessari e, dall'altro, l'opportunità di non costringere tali enti a ricorrere ad un massiccio utilizzo della leva fiscale che, oltretutto, risulterebbe in aperto contrasto con gli obiettivi generali che si prefiggono di realizzare il Governo e la maggioranza.
Sono state apportate, quindi, significative modificazioni al testo del Governo. In particolare, si è stabilito di escludere i comuni fino a tremila abitanti dall'applicazione delle regole del patto di stabilità interno, prevedendo altresì di assumere quale base su cui valutare l'incremento delle spese non soltanto l'anno 2003 ma il triennio 2001-2003. In questo modo si è ottenuto il vantaggio di individuare un valore medio, per cui si evita il rischio derivante dall'assunzione, quale parametro, di un unico esercizio, nel corso del quale potrebbero essersi verificati picchi, sia in positivo sia in negativo, del tutto eccezionali nella spesa.
È stato poi precisato che l'ammontare delle spese correnti da assumere a riferimento debba essere determinato in relazione alla cassa dimensionale dei comuni, stante il fatto che, evidentemente, le esigenze degli enti locali sono assai differenti proprio in ragione della relativa popolazione. Si è provveduto, inoltre, ad escludere dalle spese rilevanti quelle finanziate con i proventi derivanti da alienazioni di immobili ovvero da erogazioni a titolo gratuito e di liberalità.
All'introduzione di alcuni elementi di flessibilità si è accompagnata la decisione di rendere più stringenti i limiti entro i quali gli enti locali possono indebitarsi. In questo modo si è risposto ad un problema che è emerso negli scorsi anni, per cui il livello complessivo dell'indebitamento de


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gli enti territoriali risulta in crescita e, quindi, in controtendenza con l'obiettivo di un progressivo rientro del debito delle pubbliche amministrazioni. Si è prevista, comunque, una disciplina transitoria diretta a consentire agli enti che registrino i più alti livelli di indebitamento, di pervenire, entro un arco temporale ampio, a dimensioni del debito più ragionevoli.
Un ulteriore elemento da segnalare è costituito dalla decisione di ripristinare, anche per il prossimo triennio, il blocco delle addizionali all'imposta sul reddito delle persone fisiche e delle maggiorazioni dell'IRAP. Tale decisione, oggetto di un vivace confronto - immagino oggi l'assemblea dell'ANCI - è riconducibile all'obiettivo di evitare che le scelte che possono essere assunte dagli enti territoriali in materia contraddicano l'obbiettivo di una graduale riduzione del carico fiscale.
In altri termini, si intende escludere che eventuali misure di riduzione della pressione tributaria a favore delle persone fisiche e delle imprese disposte a livello statale siano vanificate da decisioni contraddittorie assunte dagli enti territoriali.
Con riferimento alle spese di personale, segnalo che il disegno di legge prevede un incremento ragionevole e contenuto, pari al 3,7 per cento, rispetto alle risorse stanziate per l'anno in corso, determinato sulla base del tasso programmato di inflazione con un leggero aumento a titolo di contrattazione integrativa. Per le ragioni già ampiamente esposte, non risulta opportuno ipotizzare un'attenuazione delle regole sul blocco delle assunzioni che, oltretutto, non hanno impedito che si realizzassero, negli scorsi anni, risultati non perfettamente coerenti con le attese.
Il disegno di legge finanziaria destina al fondo per le aree sottoutilizzate uno stanziamento aggiuntivo di 8 miliardi, in linea con quello 0,60 per cento del PIL stabilito con le parti economiche e sociali nel «patto per l'Italia» del 2002. Anche quest'anno, la maggior parte delle risorse viene allocata al terzo esercizio e cioè al 2007. Questo sistema, adottato per la prima volta dal precedente Governo nel 2001, e divenuto prassi, fa sì che per il primo anno la finanziaria goda, di fatto, della quantità di risorse allocate nei tre anni precedenti. Peraltro, nel 2005 risultano disponibilità finanziarie nuove per il solo Mezzogiorno per circa 22,7 miliardi di euro, anche considerando il tetto di spesa del fondo di 6,5 miliardi.
Nel corso dell'esame in Commissione sono stati approvati due emendamenti del Governo diretti ad introdurre alcuni elementi di flessibilità nella gestione delle risorse confluite nel fondo per le aree sottoutilizzate. In particolare si tratta, da un lato, di disposizioni volte a promuovere la costituzione di fondi comuni di investimento attraverso l'impiego di risorse pubbliche; dall'altro lato, si autorizza Sviluppo Italia Spa a concedere agevolazioni alle imprese operanti nelle aree sottoutilizzate nella forma di contributi in conto interessi ovvero in conto capitale.
Occorre tuttavia rilevare, anche alla luce del dibattito apertosi ormai da anni su questa materia, che non può ulteriormente differirsi una complessiva revisione degli strumenti di intervento, sulla base di una puntuale verifica degli esiti prodotti da ciascuna delle misure agevolative esistenti, basata su un raffronto tra l'entità delle risorse assegnate e i risultati prodotti, a seconda dei casi, in termini di ampliamento dell'occupazione, di nuovi investimenti ovvero di ampliamento della base produttiva.
In questa prospettiva, va valutata la possibilità di pensare ad un riordino generale della normativa vigente attraverso una sorta di «legge obiettivo» per le aree sottoutilizzate.
Con riferimento alle restanti disposizioni del provvedimento, ricordo che la Commissione ha modificato significativamente il contenuto dell'articolo 26 in materia di assicurazioni a seguito di calamità naturali.
Dopo un'ampia discussione la Commissione ha ritenuto che non fosse possibile prevedere una generalizzata e obbligatoria copertura assicurativa la quale avrebbe comportato oneri aggiuntivi a carico dei cittadini.


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In relazione alle disposizioni di carattere fiscale contenute nel disegno di legge finanziaria e volte ad assicurare un maggior gettito, occorre preliminarmente osservare che la Commissione bilancio non è riuscita ad esaminare gli emendamenti che a tali disposizioni sono stati presentati. È comunque evidente che in occasione dell'esame in Assemblea questi temi dovranno essere attentamente approfonditi, posto che, alla manovra sulle entrate è affidato circa il 60 per cento dell'aggiustamento dei conti, per un importo quantificato in 7.274 milioni di euro a titolo di entrate tributarie, cui si devono aggiungere 7 miliardi di euro attesi dalla dismissione di attivi. Più della metà delle maggiori entrate tributarie dovrebbe essere assicurata dalla revisione degli studi di settore. Più in particolare, l'articolo 34 provvede, anzitutto, a disciplinare l'istituto della pianificazione concordata, attraverso la quale i titolari di reddito di impresa ed esercenti arti e professioni potranno definire, in via preventiva e per un periodo di tre anni, la base imponibile dei soggetti interessati. Per quanto concerne le restanti disposizioni in materia fiscale, ricordo quelle di cui all'articolo 36, che fanno venir meno alcune agevolazioni fruite dalle società cooperative e provvedono ad aumentare i proventi assicurati dal gioco del lotto e dell'enalotto.
In conclusione, se è innegabile che la discussione in Commissione bilancio non ha permesso di risolvere se non una parte assai limitata - troppo piccola per le aspettative del relatore e penso anche della maggioranza - delle questioni emerse in occasione dell'esame preliminare del provvedimento, è altrettanto evidente che gli elementi di conoscenza acquisiti nel corso delle audizioni e le aspettative che l'opinione pubblica ripone nella manovra per il 2005 ci debbono indurre a compiere uno sforzo aggiuntivo, in occasione dell'esame in Assemblea, per dare adeguata risposta ad alcuni dei tanti problemi segnalati.
Non possiamo perdere l'occasione che ci viene offerta dal miglioramento degli scenari internazionali. Per quanto mi riguarda, da parte mia farò tutto il possibile per evitare che la legge finanziaria si riveli inadeguata rispetto alle esigenze che si pongono davanti a noi. Auspico, quindi, che anche da parte del Governo e delle forze politiche vi sia un'ampia disponibilità ed un forte impegno a migliorare il testo elaborato dalla Commissione, che già reca alcuni, se pur limitati, progressi (Applausi dei deputati dei gruppi di Forza Italia, di Alleanza Nazionale, dell'Unione dei democratici cristiani e dei democratici di centro e della Lega Nord Federazione Padana - Congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il relatore sul disegno di legge n. 5311, onorevole Garnero Santanchè.

DANIELA GARNERO SANTANCHÈ, Relatore sul disegno di legge n. 5311. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il disegno di legge di approvazione del bilancio dello Stato, che il Governo presenta al Parlamento il 30 settembre viene predisposto sulla base della legislazione vigente. Il che significa che le previsioni di entrata e di spesa iscritte nel bilancio sono quantificate in base alle norme esistenti al momento in cui il disegno di legge di bilancio è definito. Nel bilancio che abbiamo di fronte non troviamo, pertanto, gli effetti delle disposizioni contenute nel disegno di legge finanziaria, vale a dire le misure della manovra correttiva posta in essere per assicurare il conseguimento dell'obiettivo dell'indebitamento netto della pubblica amministrazione, pari al 2,7 per cento. Tali effetti saranno scontati nelle previsioni di bilancio nel prosieguo dell'esame parlamentare, attraverso le note di variazioni.
La caratteristica, propria della legge di bilancio, di legge formale che, in sostanza, non consente di operare, tramite essa, modifiche alla legislazione sottostante, può erroneamente indurre a ritenere, come in passato quasi sempre è avvenuto, che il provvedimento non meriti particolare attenzione. In effetti, tradizionalmente il confronto politico si concentra sulla finanziaria, che contiene le disposizioni modificative


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della legislazione esistente. Vi sono tuttavia fondate ragioni per affermare che quest'anno il Parlamento non possa sfuggire al dovere di un più attento esame del disegno di legge di bilancio, evitando di considerarlo come una sorta di atto dovuto. Tali ragioni consistono essenzialmente nel rilievo che assumono, nell'ambito del disegno di legge finanziaria, le misure per il contenimento della spesa pubblica, destinate a produrre immediati riflessi sul bilancio. Se poi si considera che tali misure di contenimento della spesa ivi previste fanno seguito ad analoghe disposizioni intervenute negli scorsi anni - a partire dal cosiddetto decreto taglia-spese, per proseguire con il decreto-legge n. 168 del 2004 -, appare evidente che un esame più attento del bilancio sia ormai ineludibile.
Ricordo che, introducendo in Commissione l'esame sulle linee generali dei disegni di legge di bilancio e finanziaria, sia io sia il collega Crosetto, relatore sul disegno di legge finanziaria, abbiamo evidenziato la scarsa utilità di alcune polemiche pregiudizialmente ostili nei confronti della cosiddetta regola del 2 per cento, senza tuttavia mancare di esprimere dubbi e perplessità sulla formulazione delle disposizioni proposte dal Governo.

PRESIDENTE DEL VICEPRESIDENTE ALFREDO BIONDI (ore 15,50)

DANIELA GARNERO SANTANCHÈ, Relatore sul disegno di legge n. 5311. Quanto al primo punto, in estrema sintesi, debbo rilevare che il merito della soluzione adottata da questo Governo è in primo luogo quello di aver sollecitato il Parlamento e, più in generale, l'opinione pubblica, alla necessità di un più attento ed accurato esame del bilancio dello Stato. Un secondo merito da attribuire alla soluzione adottata dal Governo è appunto riconoscibile nella scelta coraggiosa di superare il luogo comune per cui, poiché il bilancio è una legge formale e non sostanziale, i dati che in esso sono riportati costituirebbero una mera trasposizione, in termini numerici, di decisioni che sono state assunte in altre sedi ed attribuibili o agli effetti della legislazione sottostante ovvero a condizioni fattuali non modificabili.
Insomma, si è finalmente rimosso il pregiudizio per cui il bilancio va assunto così come presentato, rinunciando a qualunque pretesa di individuare, nelle innumerevoli voci di spesa che lo compongono, gli spazi per intervenire significativamente sulla composizione della stessa spesa e sulla sua qualificazione.
A me sembra che questo luogo comune discenda da una diffusa ritrosia ad affrontare con coraggio il tema più ampio della qualità delle prestazioni rese dalle pubbliche amministrazioni e della necessità di una maggiore responsabilizzazione delle stesse amministrazioni.
Il Governo ci ha dimostrato che, in realtà, esistono margini certamente non irrilevanti di intervento sugli stanziamenti allocati nel bilancio, senza però dover mettere a repentaglio il livello e la qualità dei servizi resi ai cittadini.
Nel corso dei nostri lavori, abbiamo acquisito, dietro ripetute e condivise sollecitazioni, alcuni importanti elementi di informazione dal Governo che, da ultimo, si sono tradotti nell'approvazione di un elenco allegato al disegno di legge finanziaria, con il quale si sono specificati, per ciascun ministero, gli importi delle riduzioni operate con riferimento ai consumi intermedi ed agli investimenti fissi lordi.
Possiamo oggi affermare, quindi, di disporre di un quadro più puntuale sulla misura e sulle voci di spesa inserite nel bilancio dello Stato che sarebbero interessate dall'applicazione della regola del 2 per cento. Devo dire con altrettanta chiarezza che non abbiamo comunque risolto, in modo soddisfacente, due problemi che proprio le disposizioni inserite dal Governo all'articolo 3 del disegno di legge finanziaria hanno sollevato.
La prima questione concerne l'esigenza di capire compiutamente quanta parte degli stanziamenti iscritti possa essere considerata veramente intangibile sia dal punto di vista giuridico che dal punto di


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vista degli effetti che un'eventuale modificazione dei relativi importi comporterebbe per l'attività delle amministrazioni e, soprattutto, per i destinatari di queste attività. Personalmente, ritengo che un ulteriore approfondimento su questo tema da parte del Governo sia indispensabile.
In sostanza, si tratta di acquisire dati puntuali e non soltanto generiche e approssimative valutazioni sulla quota della spesa iscritta a bilancio effettivamente riconducibile ad esplicite previsioni di legge preesistenti; sulla misura entro la quale le cosiddette spese obbligatorie possono considerarsi vincolate e non riducibili; sui criteri che vengono assunti per la quantificazione delle spese discrezionali; sul livello di consapevolezza, da parte delle amministrazioni, ma anche da parte dei responsabili politici, a partire dal Ministero dell'economia e delle finanze, circa le dimensioni degli stanziamenti che vengono assegnati ad alcune voci di spesa e sui fattori che ne determinano l'andamento.
Su tutti questi aspetti non disponiamo ancora di un quadro soddisfacente di informazioni. Ricordo che, nel corso del lavori di approfondimento sull'andamento della spesa pubblica svolto dal Comitato permanente che ho l'onore di presiedere, tra le altre cose abbiamo convenuto con la Presidenza della Corte dei conti circa la necessità di potenziare lo strumento del controllo di gestione e di indirizzare tali controlli sulla base di priorità che debbono essere individuate in modo da offrire al legislatore il massimo aiuto di conoscenza e di informazione.
È evidente che, attualmente, scontiamo i limiti di una riforma della legislazione contabile realizzata a metà, per cui, in realtà, il livello di trasparenza sugli andamenti della spesa e di responsabilità delle strutture dirigenziali dell'amministrazione è ancora troppo basso. Né va trascurato il limite derivante dal fatto che, tuttora, la nostra legislazione non è strutturata per programmi verificabili in corso d'opera. Ciò nonostante, credo non possiamo rinunciare a saperne di più.
Vorrei, pertanto, segnalare ai colleghi che questa non è un'esigenza della sola maggioranza, connessa all'obiettivo di individuare mezzi finanziari utili per garantire un'adeguata copertura alla realizzazione del secondo modulo della riforma fiscale.
Si tratta, a mio giudizio, di un interesse comune del Parlamento e, più in generale, delle istituzioni politiche, che non possono limitarsi a prendere atto del fatto che oltre il 95 per cento delle risorse disponibili sia praticamente bloccato, sottratto a qualunque possibilità di una accurata verifica e di una eventuale redistribuzione.
Non è accettabile la visione pessimistica per cui si dà per inevitabile che gli andamenti tendenziali della spesa procedano in modo inerziale, anche in assenza di novità sul versante legislativo, per cui dobbiamo limitarci a prendere atto di quello che ci viene sottoposto.
Siamo davvero sicuri che i centri di responsabilità effettuino una accurata verifica sulle loro effettive necessità finanziarie e sulla loro reale capacità di spesa? Siamo davvero convinti che nelle pieghe del bilancio non si annidino privilegi e inefficienze che non trovano fondamento in alcuna disposizione di legge né in alcun diritto soggettivo? Siamo certi che non siano i comportamenti tenuti dalle amministrazioni, più che i fattori demografici o altre cause economiche o sociali, a determinare le tendenze di crescita di talune spese?
Alla luce delle considerazioni svolte, è evidente che anche il Parlamento deve cambiare approccio per cominciare finalmente ad effettuare un attento esame del bilancio, attraverso un confronto serrato con le diverse amministrazioni, per verificare l'effettiva capacità di spendere le risorse ad esse assegnate.
È innegabile, infatti, che nell'esperienza italiana prevalga la funzione «autorizzativa» del bilancio, per cui la legge di bilancio risponde soprattutto all'esigenza di dare certezza giuridica alle amministrazioni, le quali sono abilitate ad effettuare impegni e pagamenti fino all'importo stabilito, secondo una logica per cui il profilo giuridico-formale della legittimazione alla


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spesa risulta prevalente rispetto a quello sostanziale del conseguimento effettivo dei risultati attesi.
Né può ritenersi che le scarne informazioni contenute nella relazione introduttiva del disegno di legge di bilancio siano sufficienti a dare un quadro di come vengono spese le risorse disponibili a bilancio.
Il punto è che la nostra esperienza è legata indissolubilmente ad un modello di organizzazione amministrativa improntata a profili giuridico-formali.
Occorre, quindi, progredire nel senso di una responsabilizzazione delle amministrazioni che non si limiti, come in parte già avvenuto, alla capacità giuridica di impegnare le risorse assegnate, ma che dovrebbe comportare anche l'obbligo di rispondere sugli esiti dell'attività svolta.
È ugualmente necessario pervenire quanto prima a quella armonizzazione dei dati contabili, elaborati dalle diverse istituzioni, indispensabili per rimuovere l'attuale situazione di confusione e di incertezza per cui i diversi dati si prestano - come abbiamo visto in questi mesi - a polemiche inutili.
Nel corso dell'esame da parte della Commissione bilancio sono stati approvati due emendamenti, di carattere tecnico, che inseriscono nell'articolato del disegno di legge di bilancio disposizioni stralciate dal disegno di legge finanziaria, in quanto strettamente concernenti le modalità di registrazione contabile di alcune poste.
In particolare, con il primo emendamento, si è previsto che le risorse statali da destinare alle agenzie fiscali siano iscritte, nell'ambito delle pertinenti unità previsionali di base, in un unico capitolo. Con il secondo emendamento si è stabilito che le somme spettanti all'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e all'Autorità per l'energia elettrica e il gas, provenienti da contributi versati dai soggetti che esercitano i servizi sottoposti a regolazione, siano versati direttamente ai bilanci delle Autorità medesime.
Si tratta, in sostanza, di un'opportuna norma di semplificazione procedurale, dal momento che la normativa attualmente vigente, dettata dalla legge n. 481 del 1995, prevede che tali somme siano versate all'entrata del bilancio dello Stato, per essere riassegnate ad un apposito capitolo della spesa.
Su altre questioni che attengono invece alla diversa allocazione di stanziamenti, che per la loro natura possono essere variati in sede di bilancio, la Commissione ha preferito rinviare la decisione alla fase dell'esame in Assemblea, in modo da poter effettuare una più approfondita valutazione.
In generale, comunque, dall'esame del bilancio a legislazione vigente emerge con chiarezza la difficoltà di utilizzare questo strumento per controllare e, se necessario, anche correggere gli andamenti della spesa. Tale difficoltà dipende, in primo luogo, dall'elevato grado di rigidità che il bilancio dello Stato presenta. Tuttavia, essa deriva in misura pure significativa anche dai criteri iniziali, ai quali sono improntate le modalità con cui le amministrazioni quantificano le previsioni di spesa nel processo di formazione del bilancio.
Sia rispetto al primo profilo che al secondo, l'intervento operato mediante le disposizioni contenute nel disegno di legge finanziaria e, in particolare, nell'articolo 3, deve valutarsi senz'altro in modo favorevole. Esso, tra l'altro, costituisce uno stimolo importante ad una lettura più attenta del bilancio, che ci consenta di comprendere le effettive necessità di finanziamento, sulla base della reale di capacità di spesa, superando la logica incrementale che, sino ad ora, ha determinato l'allocazione delle risorse (Applausi dei deputati dei gruppi di Forza Italia, di Alleanza Nazionale, dell'Unione dei democratici cristiani e dei democratici di centro e della Lega Nord Federazione Padana - Congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo, senatore Vegas.

GIUSEPPE VEGAS, Sottosegretario di Stato per l'economia e le finanze. Signor


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Presidente, mi riservo di intervenire in sede di replica.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Zanella. Ne ha facoltà.

LUANA ZANELLA. Signor Presidente, la manovra in esame era stata annunciata dal neoministro dell'economia e delle finanze Siniscalco come semplice e solida. In realtà, l'inizio della sessione di bilancio si è contraddistinto per l'incertezza, per l'opacità dei dati e per la confusione, frutto peraltro dei conflitti presenti all'interno del Governo e della maggioranza. Allora, il confronto avviene su un documento monco, in quanto non è stato possibile analizzare la manovra assieme alle altre misure annunciate, soprattutto per via televisiva e mediatica, come le misure per il sostegno allo sviluppo e la vera e propria riforma fiscale.
Per quanto ci è stato possibile capire dagli elementi di cui disponiamo, si annuncia una legge finanziaria del tutto inadeguata ad affrontare la crisi della nostra finanza pubblica, figlia di una politica economica e finanziaria miope, che non sa rapportarsi alla crisi del presente e non è credibile per raggiungere davvero l'obiettivo di contrastare la deriva e il declino, cui sembra ormai votata la nostra economia. La legge finanziaria si prospetta ancora una volta fin troppo iniqua e penalizzante per gran parte dei cittadini e per le aree e i settori più deboli del paese.
Si tratta di una manovra economica che avete cercato in tutti i modi di far passare come neutra, di mero contenimento delle spese, spacciando demagogicamente tagli drastici per una crescita controllata delle uscite.
In questo senso, è davvero paradigmatica la propaganda messa in atto sul tetto del 2 per cento. Avete deciso di non fare più riferimento all'aumento tendenziale delle spese, come invece dovrebbe essere in base al bilancio a legislazione vigente, e operare conseguentemente i tagli per ridurre il deficit, partendo dal livello di spese del bilancio preconsuntivo del 2004, onde imporre un tetto a queste ultime pari al 2 per cento.
È un giochetto che consiste nel mostrare, al fine di rendere questo taglio drastico più digeribile, che le spese di ciascun ministero aumenteranno solo del 2 per cento, invece di dichiarare apertamente che le spese vengono tagliate del 2-3 per cento (vale a dire la differenza tra il dato tendenziale e quanto imposto dalla legge finanziaria). Tale giochetto nasconde pesantissimi e, soprattutto, indiscriminati tagli a 360 gradi. Si tratta di una scure che per moltissimi capitoli di bilancio si traduce in tagli assolutamente insostenibili, che rischiano di produrre la paralisi di interi settori importanti della nostra pubblica amministrazione.
Non siamo contrari alla razionalizzazione e alla riduzione degli sprechi, e sosteniamo anzi la necessità di contrastare questi ultimi. Tuttavia, il Parlamento deve essere posto nelle condizioni di comprendere come e dove tagliare, gli effetti prodotti dai tagli e il loro livello di efficacia. Si prospetta invece una richiesta di delega in bianco.
Mi limito ad alcuni esempi. Le risorse assegnate al bilancio del Ministero dell'ambiente per la protezione della natura sono ridotte di poco meno del 30 per cento. Gli stanziamenti non aventi natura obbligatoria a favore dei vigili del fuoco, del soccorso pubblico e della difesa civile subiscono un taglio netto pari a circa il 35 per cento. L'amministrazione penitenziaria vede una decurtazione delle risorse di oltre il 25 per cento.
Ancora una volta, come è accaduto in occasione dei precedenti disegni di legge finanziaria, discutiamo un testo che verrà sicuramente stravolto o integrato abbondantemente con nuovi «pezzi» di manovra finanziaria, su cui cercherete di ridurre al minimo il confronto parlamentare, secondo un'abitudine ormai consolidata e dopo aver cercato l'accordo al vostro interno.
Ciò accadrà con l'imminente presentazione della riforma fiscale. Si prospetta una riduzione delle tasse, che è diventata il leit motiv e la vera ossessione del Presidente del Consiglio, che, senza alcun senso dello Stato, si ostina a volerla varare,


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quando invece le condizioni nelle quali è ridotta la nostra finanza pubblica non lo permetterebbero. Dunque, si vuole introdurre tale riforma ora e subito, costi quel che costi. Da alcuni mesi assistiamo a un infinito balletto interno al Governo e alla maggioranza su un'imminente manovra di riduzione fiscale, su tre scaglioni, quattro scaglioni, tre scaglioni più il contributo di solidarietà: è veramente imbarazzante. Temiamo che si profili una riforma sbagliatissima, mentre il nostro paese avrebbe bisogno di una politica fiscale realmente redistributiva, incentrata sull'equità e su una convinta lotta all'evasione e all'elusione.
È inquietante sentir dire al Presidente del Consiglio, il 29 ottobre scorso, queste parole: ritengo che non sia un disonore guadagnare tanto; è normale che si cominci con la riduzione delle tasse da chi ha di più. In quale paese civile può essere considerato normale cominciare la riduzione delle tasse da chi ha di più? Si crede veramente che la riduzione dell'IRPEF sui redditi più elevati - quelli degli imprenditori, dei manager e dei grandi professionisti - serva per rilanciare l'economia italiana? Il numero dei contribuenti che hanno dichiarato un reddito di oltre un milione di euro è di poco superiore a mille, mentre quelli che hanno dichiarato redditi di oltre 300 mila euro sono soltanto 17 mila.
Riducendo l'aliquota IRPEF dal 43 al 39 per cento a questi scaglioni di reddito, essi ne ricaverebbero un beneficio complessivo di 500 milioni di euro. Dopo l'approvazione della legge delega di un anno e mezzo fa non esiste una proposta credibile con cui confrontarsi nè una proposta organica con cui veramente iniziare un confronto degno di questo nome.
Avete deciso, sembra, di intervenire sulla difesa del potere di acquisto. Ci sta bene. Ma il potere di acquisto va rafforzato prioritariamente, per una ragione di equità sociale, molto prima ancora del rilancio dei consumi. Si vuole rilanciare i consumi? Siamo d'accordo. Vogliamo difendere il potere di acquisto? Le scarse risorse a disposizione impongono delle priorità. E queste priorità dovrebbero riguardare innanzitutto la restituzione del fiscal drag. Non è un obolo; non è una concessione: è solo la restituzione di un diritto acquisito dei lavoratori. Oppure perché non intervenire con politiche fiscali mirate agli incapienti? Quasi 5 milioni di persone, di cui oltre la metà pensionate, che proprio per il loro basso reddito sono nell'impossibilità di godere delle previste deduzioni o detrazioni. Questi soggetti non vengono assolutamente presi in considerazione, sono rimossi e il Governo agisce come se non esistessero.
Siamo in presenza di un progressivo, preoccupante impoverimento delle famiglie, dovuto non soltanto alla politica dei tagli ma anche ad un aumento costante del costo della vita. Ma di questo non vi fate assolutamente carico. Secondo l'Istituto di statistica 2 milioni e 360 mila nuclei familiari vivono con meno di 870 euro ogni due persone; le famiglie italiane che vivono in condizioni di povertà sono il 10,6 per cento del totale. È un dato di cui davvero bisognerebbe preoccuparsi, sul quale occorrerebbe soffermarsi. Ma soprattutto bisognerebbe elaborare risposte adeguate. Una seria e responsabile riforma fiscale dovrebbe farsi carico di questa realtà; con una politica, cioè, che miri a rafforzare il potere di acquisto dei salari, delle pensioni, ossia di quei redditi che tra l'altro hanno la propensione al consumo più elevata e, quindi, potrebbero effettivamente sostenere la domanda interna.
Ci vorrebbe una politica in grado di affrontare il problema del reddito minimo sociale da garantire a tutti. Ma la difficoltà crescente non è solo di sempre più larghi settori della popolazione, ma coinvolge in buona parte il sistema produttivo di questo paese; intere filiere manifatturiere produttive rischiano - lo sappiamo - di uscire dal mercato a causa della perdita di competitività. E questo soprattutto nelle aree più deboli: nel sud. Le piccole imprese non ce la fanno più ad andare avanti. È disastrosa la situazione nell'ambito della fornitura e subfornitura.
A proposito di competitività, è proprio di queste settimane il rapporto per il 2004


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del World economic forum. Ebbene, l'Italia risulta al quarantasettesimo posto dopo Botswana, Lettonia e Ungheria. L'aspetto veramente preoccupante che voglio sottolineare è che nel 2001 lo stesso rapporto poneva il nostro paese al ventiseiesimo posto. In tre anni siamo riusciti a precipitare di ben 21 posizioni.
La situazione del paese, colleghi, è grave, gravissima, è peggiorata. Si è rotto un patto di cittadinanza. Affrontiamo questa manovra finanziaria, ma dovremmo anche considerare gli interventi politici di questa maggioranza, che precedono tale provvedimento: la controriforma nella scuola, nel mercato del lavoro, nella previdenza. Si è incrinata la laicità dello Stato, si sono aperti conflitti fra le istituzioni, si sono riaperte in maniera paurosa le disparità tra aree più ricche e aree più povere, tra nord e sud. La politica rispetto alla sostenibilità ambientale e rispetto ad un profilo di qualità della crescita è assolutamente disattesa.
Questa manovra economica rischia alla fine di mettere davvero in ginocchio il paese. Come Verdi non possiamo non essere preoccupati dei tagli drastici alle politiche ambientali, anche se non è - ahinoi! - una novità il fatto che l'attenzione del Governo sulle questioni ambientali, con buona pace del ministro Matteoli, sia assolutamente marginale.
La scure del 2 per cento sulle spese del Ministero dell'ambiente si conferma particolarmente pesante: un ministero che vede ridotta la dotazione a legislazione vigente di oltre il 36 per cento, per quanto concerne gli investimenti fissi lordi, e del 28 per cento, per i consumi intermedi; tagli che rischiano di far scendere davvero tale ministero sotto la soglia di sopravvivenza.
Le risorse di competenza subiscono una riduzione di 261 milioni di euro, rispetto alle previsioni assestate del 2004, pari ad un taglio di quasi il 18, 5 per cento. Il Fondo unico, relativo alla difesa del suolo e tutela ambientale, subisce un taglio di 220 milioni di euro e la stessa sorte tocca agli stanziamenti destinati alla protezione della natura, allo sviluppo e alla salvaguardia ambientale, che hanno visto un consistente taglio della propria disponibilità finanziaria.
Così come riteniamo gravissima la vostra decisione di affossare definitivamente la carbon tax, ossia la rideterminazione delle aliquote di accisa sui combustibili, con buona pace di tante belle parole che vengono spese ogni volta che si parla di mutamenti climatici e di Protocollo di Kyoto. Qui, invece, bisognerebbe aprire un confronto serio sul tema del caro-greggio, sul fatto che la nostra economia è fortemente dipendente dall'utilizzo di questa fonte energetica; pensiamo solo al tema, che è stato affrontato anche nel corso delle audizioni da Confindustria, di come l'autotrasporto di merci, a causa dell'incremento del prezzo del petrolio, si trovi a dover, dall'inizio dell'anno, fare i conti con un incremento del 25 per cento dei costi di esercizio, e quindi di come la dipendenza da un certo modo di trasferire le merci sul nostro territorio inibisca poi anche la possibilità di rendersi autonomi, rispetto al petrolio e agli aumenti di prezzo di questo combustibile.
Se confrontiamo gli stanziamenti ambientali, previsti per il triennio della legge finanziaria dello scorso anno e per quello di quella attuale, notiamo una riduzione drastica delle risorse complessive: dalla protezione civile e dalla difesa del suolo alla bonifica dei siti inquinati, ai programmi di tutela ambientale, di difesa del mare e dei parchi (questi ultimi già vittime, con le precedenti leggi finanziarie, di consistenti tagli di trasferimenti).
Ancora, quasi nulla è l'attenzione ad ogni forma di mobilità sostenibile. Per il triennio 2005-2007, non viene stanziato un solo euro per la riduzione delle emissioni inquinanti nei trasporti, per lo sviluppo del trasporto merci su ferrovia, per la diffusione di veicoli a minimo impatto ambientale, per la mobilità ciclistica, per la sicurezza stradale; così come non vi è un solo euro in più per il trasporto rapido di massa, nonostante ormai sia insostenibile la situazione in cui si trovano le nostre aree urbane.


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Così come effetti - temo - devastanti si avranno in relazione ai tagli agli enti locali, di cui tanto si è parlato e su cui peraltro qualcosa è stato fatto nel corso del lavoro in Commissione; dopo tre leggi finanziarie consecutive, questa quarta manovra rischia davvero di mettere definitivamente in ginocchio gli enti locali, regioni, province, comuni.
Secondo la Corte dei conti, dei 9,5 miliardi di risparmi derivanti dall'applicazione del tetto del 2 per cento alla crescita della spesa, circa 5 miliardi sono attribuibili alle autonomie locali. Se poi guardiamo al 2006 e al 2007 (utilizzando sempre la Corte dei conti come fonte), si è evidenziato come il taglio del 2 per cento alle spese e l'aggiornamento nel triennio 2005-2007, nei termini dell'accordo Stato-regioni dell'agosto 2001, che regola il patto di stabilità sanitaria, peseranno sugli stessi enti locali per il 73, 4 per cento nel 2006 e per il 76,4 per cento nel 2007. Insomma, si tratta di un taglio letteralmente insostenibile, che avrà effetti pesantissimi sul piano economico e, soprattutto, su quello sociale.
Occorre sottolineare anche in questa sede che il generale blocco delle spese per gli investimenti, di fatto imposto, metterà in ginocchio l'attività di ammodernamento di molte città. Gli enti locali saranno posti di fronte alla seguente alternativa: sfondare il tetto di spesa o bloccare gli investimenti, molti dei quali già in fase di attuazione. E poiché gli investimenti producono ricchezza ed occupazione, si finirà per mettere in ginocchio anche l'economia locale. Da questo punto di vista, è indubbio che delle conseguenze del blocco risentiranno maggiormente proprio i comuni e le regioni del sud.
A proposito del Mezzogiorno, se n'è parlato troppo poco finora, nonostante che gli impegni programmatici per lo sviluppo e la crescita delle aree depresse - tutti teorici - siano stati ogni anno indicati nel DPEF: di fatto, siamo alla quarta finanziaria che penalizza il sud e le aree più deboli del paese!
Certo, si fa salva la grande opera sullo Stretto di Messina, ma soltanto per nascondere la vergogna di interventi infrastrutturali che sarebbero urgenti, ma che assolutamente non si intende finanziare. Come non ricordare lo scandalo della Salerno-Reggio-Calabria: in sette anni, i lavori sono avanzati al ritmo di 7 chilometri e 105 metri l'anno e con una lievitazione dei costi davvero incomprensibile! Finora, sono stati realizzati soltanto 49 chilometri: con questo ritmo, l'opera sarà completata in 36 anni! Inoltre, v'è da considerare il problema della rete ferroviaria, che non riguarda soltanto il sud: abbiamo 15 mila 983 chilometri di binari, contro i 44 mila 730 della Germania ed i 31 mila 740 della Francia. Pensate che un treno merci procede alla velocità media oraria di 18 chilometri: assurdo!
A questo punto, non mi posso esimere dal riproporre le considerazioni, già svolte in altre occasioni, relative alla particolare situazione del Ministero della difesa. In questo caso, i tagli vengono assolutamente limitati! Nel corso della presentazione del nuovo caccia da addestramento dell'Aermacchi M-346, il Presidente Berlusconi si è detto disponibile - pensate un po'! - a fare il commesso viaggiatore per piazzare in giro per il mondo questo «gioiello». Infatti, l'unica «torta» che, in questi anni di vacche magre, continua a lievitare è quella della Difesa.
Nel presentare la manovra finanziaria per il 2005, molti giornali si sono soffermati sulla scure che si sarebbe abbattuta sul Ministero della difesa. In realtà, non è così. Premesso che nemmeno il decreto «taglia spese» di luglio è riuscito a bloccare le spese della Difesa, i 1358 milioni di euro in meno rappresentano un taglio del 2 per cento, che, però, riguarda un ministero dalle grandissime disponibilità. Nel contempo, non possiamo non lamentare che, per quanto riguarda il servizio civile, i fondi previsti sono assolutamente insoddisfacenti (essi consentiranno di far partire 30 mila volontari). Sostanzialmente, per i giovani impegnati nel settore ormai cruciale della difesa non in armi del paese i fondi a disposizione vengono dimezzati.
Va anche affrontato, sia pure succintamente, il tema della sanità pubblica. I


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trasferimenti alle regioni per il 2005 ammontano a 88 miliardi. Si tratta di risorse che abbiamo visto essere assolutamente insufficienti a garantire il livello minimo dei servizi sanitari. Regioni e province autonome quantificano in 91 miliardi di euro il fabbisogno finanziario necessario per assicurare i livelli essenziali di assistenza, ma a tale somma sono da aggiungere i costi dei contratti per i medici, per la dirigenza e per le convenzioni con i medici di famiglia e con i pediatri di libera scelta.
Se si considera la spesa tendenziale prevista per il prossimo anno, vale a dire 92,5 miliardi di euro (ricordo che occorre rinnovare i contratti e le convenzioni), la quota di trasferimento assegnata prefigura complessivamente una decurtazione di ben oltre quattro miliardi (a tale riguardo le regioni hanno protestato).
Infine, per quanto riguarda il triste capitolo sulla cooperazione allo sviluppo, ricordo che nel 2004 gli stanziamenti per la cooperazione internazionale e gli aiuti ai paesi poveri si sono ridotti ad un vergognoso 0,16 per cento del PIL. Certamente, la difficile congiuntura economica internazionale non può essere un alibi. Altri paesi dell'Unione europea, in questa stessa situazione, hanno incrementato in modo rilevante le risorse per la cooperazione internazionale: la Spagna li ha raddoppiati, la Francia è allo 0,34, la Gran Bretagna si è posta l'obiettivo dello 0,47 entro il 2007, i paesi del nord confermano quote superiori allo 0,7 per cento.

PRESIDENTE. Onorevole Zanella...

LUANA ZANELLA. Sto per concludere, Presidente.
La stessa Corte dei conti ha ricordato che, nel settore della cooperazione allo sviluppo, si è registrata una riduzione degli stanziamenti destinati al sostegno dei paesi più poveri. Tale riduzione ci pone in contrasto con l'impegno assunto dall'Italia in sede di Consiglio di Barcellona del 2002, ossia di raggiungere nel 2006, quale ammontare dell'aiuto pubblico allo sviluppo, lo 0,33 per cento del PIL, cui dobbiamo aggiungere il recente taglio di 250 milioni di euro ai fondi destinati alla cooperazione e, tra questi, il taglio al fondo globale per la lotta all'AIDS.
Vorrei ricordare all'Assemblea che noi, deputati Verdi, insieme all'opposizione, abbiamo presentato un corpo unico di proposte emendative specifiche che affrontano i nodi della politica economia finanziaria attuale, con l'obiettivo di ridurre il danno presente in questa manovra che abbiamo avuto modo di criticare in Commissione, seppure in maniera limitata; infatti, come ha ricordato lo stesso relatore, onorevole Crosetto, non è stata data la possibilità di esaminare tutti gli aspetti.

PRESIDENTE. Onorevole Zanella, la prego di concludere...

LUANA ZANELLA. Crediamo sia importante affrontare in quest'aula una battaglia forte, rigorosa e propositiva rispetto alla vostra manovra. Tuttavia, crediamo sia necessario agire anche all'interno del paese e molte proposte emendative, in particolare le nostre, sono il frutto di uno scambio con le forze sociali e sindacali del paese e con le associazioni (ricordo, in particolare, le proposte della campagna «Sbilanciamoci»). Crediamo sia una battaglia decisiva per il futuro del paese, dei diritti e di un'economia davvero ecocompatibile ed ecosostenibile (Applausi dei deputati dei gruppi Misto-Verdi-L'Ulivo, dei Democratici di sinistra-L'Ulivo e della Margherita, DL-L'Ulivo).

PRESIDENTE. La ringrazio, onorevole Zanella.
A futura memoria, sottolineo l'esigenza di attenersi ai tempi a disposizione di ciascun collega iscritto a parlare. Non vorrei essere costretto a richiamare gli oratori, anche per evitare il rischio che il dibattito si prolunghi fino ad un orario in cui l'argomentazione diventa, con il favore delle tenebre, meno chiara...
È iscritto a parlare l'onorevole Duilio. Ne ha facoltà.

LINO DUILIO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, ci troviamo di fronte ad


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una manovra che, anche dopo l'esame, tra l'altro piuttosto precario, in Commissione bilancio, risulta raffazzonata e confusa, nel senso di non perfettamente intellegibile nei suoi elementi portanti. Come proverò ad argomentare nel breve tempo che mi è concesso, oltre ai dubbi iniziali, altri se ne sono aggiunti per quel che riguarda la consistenza dei risparmi di spesa ed il versante delle entrate. Tali dubbi concernono sia la quantità sia la qualità dell'intera manovra.
Preliminarmente, ritengo di poter osservare che siamo costretti a fare una discussione sulla stabilità dei nostri conti pubblici sganciata da ogni discorso sulla crescita, ancora in attesa di questo ormai «mitico» collegato sullo sviluppo che dovrebbe illustrare le caratteristiche del rilancio della nostra economia.
In proposito, chiedo formalmente al sottosegretario Vegas e al relatore - essendo tra pochi intimi, siamo destinati ad ascoltarci - quando, come e dove saranno presentate le misure che dovrebbero innescare un virtuoso sentiero di crescita nel nostro paese, perché anche questo elemento ci risulta per ora oscuro. Sarebbe bene che almeno questo il Parlamento lo sapesse: se saranno presentate al Senato, ditecelo! Se saranno presentate in altro modo, per Natale, come dono natalizio, ditecelo! Mi sembra che oramai il tempo sia maturo per conoscere almeno questi elementi così banali ma che riteniamo importanti, visto che discutiamo di una manovra finanziaria che è così rilevante per il futuro del nostro paese. Non vorrei, in altre parole, che alla fine ci si costringa a dedicare solo qualche breve momento ad una questione così importante e decisiva per il nostro futuro.
Sulla performance del nostro sistema economico, ricordo incidentalmente, fuori di ogni polemica - vi chiedo di credermi (sempre che mi ascoltiate, visto che continuate a parlare di altro) -, che uno degli slogan della campagna elettorale del centrodestra era che, una volta vinte le elezioni, saremmo passati - era detto proprio così - «dal declino allo sviluppo!». Orbene, dopo tre anni e mezzo di Governo alternativo, partiti con la previsione di tassi di crescita annua stimata intorno al 3 per cento in termini reali, eccoci qui. La prima realtà che balza alla nostra evidenza, nonostante le rispettabili considerazioni (che mi sono peraltro suonate per alcuni versi come una sorta di excusatio non petita), svolte in Commissione bilancio dal relatore, onorevole Crosetto (e ripetute anche qui), è che in questo oramai lungo periodo di legislatura sono stati dilapidati tutti i risultati positivi conseguiti dal centrosinistra nei cinque anni precedenti. Sono gli indici economici più significativi a dimostrarlo, non sono le mie parole: da quelli relativi all'andamento dell'avanzo primario, a quelli sull'indebitamento, da quelli che riguardano il debito a quelli che documentano la performance del PIL. Su quest'ultima, peraltro, in un panorama internazionale, che sta scontando una dinamica di crescita sostenuta, stiamo arrancando nella stessa area dell'euro e ci avviamo tristemente a constatare che anche il 2004, anno da record nell'andamento dell'economia mondiale, ci sarà passato sulla testa senza nemmeno accorgercene.
L'analisi degli andamenti della nostra industria manifatturiera, del resto, ad un accurato esame condotto in termini comparati a livello internazionale, registra un crollo drammatico della produttività in questo settore, in particolare nel periodo 2000-2003 (ho proprio sotto gli occhi un documento dell'ufficio statistica del lavoro negli Stati Uniti d'America, che documenta questo andamento nel periodo dal 2000 al 2003). E conduce a rilevare la straordinaria necessità di operare con una coerente azione di politica economica per una radicale inversione della tendenza in atto. Infatti, sappiamo tutti che il calo della produttività - siamo con il segno meno in tutte e tre gli anni (dal 2000 al 2003) nell'industria manifatturiera - è un indice gravissimo per quella che è la possibilità di far crescere il PIL nel nostro paese.
La finanza pubblica, peraltro, rimane a rischio di tracollo e continua farci guardare come «osservato speciale» dalla Commissione europea, la quale stima che,


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se saranno poste in essere misure coerenti, ci dovremmo mantenere intorno al 3 per cento in termini di rapporto tra deficit e PIL quest'anno e l'anno prossimo, per poi rischiare, in assenza di correzioni, di sfondare al 3, 6 per cento nel 2006. A fronte di questa situazione, le decisioni che vengono adottate scontano un elevato tasso di indeterminatezza, a mio avviso, e, per alcuni aspetti, di aleatorietà. I rischi di creare dei veri e propri «buchi di bilancio» - diciamolo in anticipo questa volta e non ex post inventandoli - è molto alto, mentre andando avanti di questo passo non mancherà molto a dover sentire che si vendono - lo dico come immagine simbolica, ma anche concreta - magari le stesse sedi dei ministeri per procacciare le risorse necessarie al funzionamento dello Stato.
Esaminando le tabelle allegate alla legge finanziaria, inoltre, non si può non rimarcare la sostanziale assenza di voci di spesa per investimenti, come peraltro rilevato dallo stesso Governatore dalla Banca d'Italia in sede di audizione presso la Commissione bilancio della Camera. Sempre in finanziaria e sempre a leggere le tabelle, di fatto, aumentano le tasse per finanziare aumenti di spesa corrente.
Come mantenimento delle promesse fatte, se ci potessimo permettere il lusso di scherzare, potremmo concludere che, per così dire, non c'è male, dopo tre anni e mezzo... La situazione, però, non ci permette tale lusso; anzi, ci impone di arrovellarci - ognuno per la sua parte di responsabilità, ma mossi da un obiettivo comune - nell'individuazione delle soluzioni che consentano di uscire dalla condizione perversa nella quale il nostro paese rischia di sprofondare.
Alla luce di questa grave situazione, la nostra vuole essere la posizione di una forza politica e di una coalizione responsabili, che rifuggono dalla logica del «tanto peggio tanto meglio»; ciò, in virtù della consapevolezza che la crisi in atto, a questo punto, rischia di travolgere tutti. Non penso di essere un catastrofista; si tratta di una crisi che, se sicuramente, come osservato dal collega Crosetto, viene da lontano derivando dal mancato scioglimento di alcuni nodi strutturali di fondo, è sicuramente stata aggravata, però, in questi ultimi tre anni, da comportamenti irresponsabili, come noi, in più occasioni, abbiamo sostenuto, anche nella solennità di questa aula.
Prima di entrare nel merito di considerazioni più specifiche, in linea di principio e generale, riteniamo che, per fronteggiare la situazione in atto, occorra dimostrare di possedere il senso delle istituzioni, rifuggendo da pratiche propagandistiche che conducano a preoccuparsi della mera convenienza elettorale. Potrei riferirmi anche ad una previsione recata dal disegno di legge finanziaria che, sebbene abbia avuto eco sui giornali, porterà solo, forse, qualche lira - nemmeno euro! - nelle tasche dello Stato; ma in questo senso il riferimento va però fatto, più complessivamente, soprattutto alla materia fiscale, la cui trattazione ha condotto alla presentazione, in Commissione bilancio, di un emendamento teso a ridisegnare la curva delle aliquote. Una iniziativa sulla quale noi conserviamo, indipendentemente da altre valutazioni, tutte le nostre riserve e le nostre perplessità sul piano della ortodossia regolamentare, tanto per quanto attiene alla congruità della copertura dell'emendamento che risulta presentato, quanto per l'ammissibilità dello stesso in termini di pertinenza della materia.
Più che sul merito di tale vulnus alla correttezza procedurale, esprimerei le seguenti osservazioni circa la riforma fiscale prevista dal disegno di legge finanziaria. In astratto, essa induce - lo riconosco e, quindi, spero che sia manifesta la mia serenità di valutazione - a valutare non negativamente una semplificazione del quadro impositivo basato su tre sole aliquote; sempre in astratto, infatti, la semplificazione, anche in materia fiscale, è indice di maggiore trasparenza democratica. In realtà, tuttavia, tale misura rischia di produrre danni maggiori dei benefici che intende procurare. Ciò, sia per il fatto che non è dimostrato, né in via teorica né in via fattuale, che la riduzione delle tasse


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avvii un virtuoso sentiero di crescita; sia per la considerazione, più politica, che ci induce a sostenere come la revisione promessa finisca per avvantaggiare i ceti più benestanti della popolazione - compreso il Presidente del Consiglio (sono stati fatti anche i conti) - con scarsa ricaduta sulla performance dei consumi interni ascrivibili alla maggioranza delle persone da considerare «normali» in termini di qualificazione della domanda. La ricaduta sulla domanda interna di una manovra siffatta, infatti, se appena si tiene conto della struttura del nostro sistema impositivo, appare, poi, ancora meno plausibile per quanto attiene al comportamento atteso da parte delle famiglie; infatti, non siamo la Francia - tanto per citare un paese a tutti noto - dal punto di vista della struttura e dell'architettura del nostro sistema impositivo.
Il rimedio alla situazione di «calma piatta» che connota la nostra economia, scontando nel breve periodo la grave difficoltà di un sistema produttivo in debito di ossigeno sul fronte delle innovazioni di prodotto in grado di conquistare nuovi mercati, deve certamente passare attraverso il rilancio dei consumi interni - su ciò siamo d'accordo -, oltre che fare riferimento a misure più strutturali e di lungo respiro sul versante dell'offerta. In linea generale, dinanzi alla caduta del potere di acquisto dei redditi fissi, è necessario, a nostro avviso, agire per aumentare il reddito permanente - ribadisco: «reddito permanente» - a disposizione dei cittadini. A tale riguardo, bisognerebbe affrontare un discorso complessivo circa quanto accadrebbe sul versante sia del ridisegno delle aliquote fiscali sia della finanza locale sia della erogazione dei servizi; ciò, al fine di potere calcolare il reddito permanente sul quale farà affidamento una famiglia che evidentemente, sulla base del reddito disponibile, deciderà, quindi, di consumare e, dunque, di innestare una dinamica virtuosa in termini di crescita della domanda interna attribuibile ai consumi.
È necessario agire, dunque, per aumentare il reddito permanente dei cittadini e delle famiglie, operando su una «banda larga» di misure, tra le quali al primo posto dovrebbe figurare, a nostro avviso, la restituzione del fiscal drag e l'elevazione dei redditi più bassi, quest'ultima da realizzare anche attraverso la fiscalizzazione degli oneri sociali entro una certa fascia di retribuzione.
L'aumento della domanda interna per consumi e, soprattutto, per investimenti auspicabilmente così favorita costituisce, del resto, il solo antidoto potenzialmente efficace per far incrementare la produzione e, conseguentemente, la produttività, di cui abbiamo lamentato quella caduta verticale nel confronto internazionale con i quattordici paesi maggiormente industrializzati di cui si è precedentemente parlato. Vorrei ricordare, infatti, che, negli anni tra il 2000 e il 2003, in tale ambito registriamo un andamento negativo, mentre, tanto per dare un'idea, la Corea del Sud ha registrato un incremento del 9 per cento e gli Stati Uniti un aumento del 6,8 per cento.
Sulla manovra più complessiva avremo comunque modo di tornare in occasione della discussione sul disegno di legge collegato alla finanziaria sullo sviluppo - sempre che ci facciate sapere dove e quando lo presenterete, come dicevo prima! -, ed in quella sede esprimeremo la nostra opinione relativamente a misure come le modifiche in materia di IRAP, la politica degli incentivi e del credito di imposta per le imprese, la fiscalità di vantaggio ed altro ancora.
Sin da ora, tuttavia, ci preme osservare che, per uscire dalla situazione in cui ci troviamo, occorrerà agire sui fattori strutturali della nostra economia, mentre, sul versante finanziario, sarà necessario perseguire obiettivi di equità, ipotizzando misure diverse che non escludano, insieme alla messa a contribuzione, in modo selettivo - ripeto: in modo selettivo -, del patrimonio immobiliare pubblico, il coinvolgimento delle stesse rendite e delle stesse plusvalenze finanziarie.
Vorrei ricordare che, con le proposte emendative presentate al disegno di legge finanziaria in sede di Commissione, abbiamo


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già responsabilmente cercato di introdurre alcuni correttivi, seguendo le linee culturali e politiche cui ho testé accennato, anche se il risultato, tuttavia, non è stato molto positivo. Abbiamo ripresentato tali proposte emendative per l'esame in Assemblea, e confidiamo che una migliore discussione porti a confrontarci più nel merito delle proposte che abbiamo avanzato, senza permanere nell'ambito di uno schema pregiudiziale che induce ad escludere un confronto approfondito sulla complessa materia di cui stiamo trattando.
Signor Presidente, mi avvio a concludere, poiché mi mancano ancora pochi minuti, ed allora vorrei dire che, indipendentemente da quanto abbiamo sostenuto in ordine alla riforma fiscale, contenuta impropriamente nella manovra finanziaria, il nostro giudizio sul disegno di legge finanziaria in esame è negativo sul versante sia dei risparmi di spesa, sia dell'incremento delle entrate.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE MARIO CLEMENTE MASTELLA (ore 16,45)

LINO DUILIO. Preliminarmente, mi sento di condividere, in questa sede, un altro aspetto di quanto ha affermato il relatore sul disegno di legge finanziaria, onorevole Crosetto. Pertanto, sempre per portare acqua al mulino di un'analisi che vuole essere serena, mi sento di condividere l'esigenza, sottolineata dal relatore in sede di Commissione bilancio, di dover compiere una riflessione di fondo sull'attuale legge di bilancio, che opera a legislazione vigente, e dunque, come ha precedentemente sostenuto l'onorevole Crosetto, in una logica «inerziale» di produzione di effetti difficilmente governabile, in particolare sul versante delle spese, se non attraverso provvedimenti che stabiliscano «tetti» e «tagli».
Siamo pertanto disponibili, come peraltro avevamo già iniziato a fare in sede di Commissione bilancio (vorrei ricordare, al riguardo, il cosiddetto lodo «Giorgetti-Boccia», tanto per dare l'idea del tentativo intrapreso), a discutere, nella sede propria, quali modifiche andranno sottoposte al Parlamento affinché il governo della finanza pubblica possa disporre di una strumentazione legislativa più aggiornata ed efficace.
Venendo ai contenuti della manovra finanziaria, inizierei ad esaminare il versante delle entrate per confermare, come affermato in più occasioni, che quelle previste nella manovra stessa risultano assolutamente aleatorie, e ci fanno correre il rischio di trovarci presto di fronte ad un vero «buco», che potrebbe comportare, a nostro avviso, la necessità di varare un'ulteriore manovra correttiva. In più, tenendo conto delle correzioni che sono state apportate, in sede referente, dalla Commissione bilancio su questo fronte, nonché di quelle che, magari, saranno apportate nel corso dell'esame in Assemblea, sarebbe opportuno, a nostro avviso, che il Governo presentasse in aula una stima aggiornata ed analitica delle entrate previste (e non solo immaginate).
Un'analoga esigenza si presenta sul fronte dei risparmi di spesa sia per gli effetti derivanti dal giusto riconoscimento di alcune istanze manifestate dagli enti locali, sia per il blocco operato sul fronte dei consumi intermedi e degli investimenti nel settore pubblico allargato. Non intendo dilungarmi molto su tale questione, poiché ne hanno già parlato i colleghi dell'opposizione che mi hanno preceduto, tuttavia vorrei dire che, quanto alla verosimiglianza di tale voce, staremo comunque a vedere.
Ciò anche perché, se dobbiamo basarci sull'esperienza dell'ultimo decreto-legge cosiddetto taglia spese, vorrei rilevare che lo stesso si è sostanzialmente risolto in un rinvio al nuovo esercizio finanziario di alcune spese correnti; tale circostanza risulta evidente, del resto, da una semplice lettura della relativa tabella, allegata al disegno di legge finanziaria, la quale, sotto la voce «regolazioni debitorie», registra esattamente spese che, secondo questo


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modo di fare, si può dire siano state tagliate in maniera del tutto «virtuale» nell'anno di riferimento.
La dinamica della spesa corrente - lo ha rilevato l'ex ministro Visco, qui presente -, che ha registrato una crescita reale dell'1,5 per cento del PIL negli ultimi tre anni, piuttosto che indurre semplicisticamente a provvedimenti «di tetti e di tagli», avrebbe forse fatto meglio a suggerire un'analisi più puntuale ed approfondita delle ragioni di questa performance, allo scopo di poter intervenire sulle cause strutturali del fenomeno non in modo generico e indifferenziato. Del resto, anche la «mitica» regola di Gordon Brown è stata evocata in salsa italiana, perché essa non è esattamente così: lo sapete meglio di me che si basa su un arco di tempo più lungo rispetto all'attuale, e che essa incide con provvedimenti non certo indifferenziati e generici.
Sempre ragionando in materia di spesa corrente della pubblica amministrazione, sarebbe anche interessante che in Parlamento fosse specificato il tipo di politica che il Governo intende realizzare per il personale del pubblico impiego, se è vero, come è vero - l'ha detto il ministro in sede di audizione presso la Commissione bilancio -, che in questo comparto la regola del 2 per cento sembra soggetta ad eccezione - il ministro ha parlato di una cifra superiore, che si spalma su più anni -, e se è altrettanto vero, come ha detto lo stesso ministro, che il Governo sembra orientato ad attuare il blocco del turn over, politica che richiede una buona specificazione per i suoi effetti funzionali, conoscendo la distribuzione del personale del settore pubblico sul territorio nazionale, ed una precisa quantificazione degli effetti conseguenti a tale misura, anche e soprattutto sul piano finanziario (tenendo conto dei risparmi di spesa in conto retribuzioni e dell'aumento di spesa in termini di liquidazioni e di pensioni).
Non ci rimane molto da dire sul fronte degli investimenti, se non che, esaminando le tabelle, come ho detto, essi non risultano presenti (vedremo cosa accadrà nel «collegato», già richiamato più volte). Nelle tabelle, anzi, si registra una contrazione degli investimenti rispetto al passato e le stesse denunciano un atteggiamento contraddittorio rispetto a quanto ha più volte detto lo stesso Presidente del Consiglio. Come ho già rilevato, ciò l'ha affermato, in sede di audizione, lo stesso Governatore della Banca d'Italia.
Sempre in materia di investimenti, va inoltre osservato che la regola del 2 per cento, introdotta per gli investimenti della pubblica amministrazione, rischia di produrre effetti perversi in materia di opere infrastrutturali. Ad un approfondimento più specifico, poi, questo tetto del 2 per cento rischia di protrarsi ben oltre il 2005, arrivando fino al 2007 ed interrompendo il trend di crescita in atto in questo settore da alcuni anni. Noi pensiamo che ciò influirà negativamente sulla più complessiva crescita dell'economia.
Su tutto il capitolo degli investimenti e della crescita, in ogni caso, staremo a vedere cosa emergerà nel cosiddetto collegato.
Concludo il mio intervento con il riferimento agli emendamenti da noi presentati in Commissione, sia come partito sia come centrosinistra. Si tratta di emendamenti tutti improntati ad un grande senso di responsabilità. Riteniamo, senza presunzione, che ve ne fossero molti di grande qualità. Lamentiamo, peraltro, che ne sono stati preliminarmente eliminati alcuni che ritenevamo qualificanti, secondo criteri di rigorosità formale che ci sono apparsi platealmente contraddittori rispetto alla metodica che ha condotto ad ammettere l'emendamento di ridisegno delle aliquote fiscali, di cui ho già parlato. Speriamo di sbagliarci su questo fronte, ma ci spiacerebbe dover giungere alla constatazione che la logica politica, con questa maggioranza, sta inquinando le stesse regole di correttezza procedurale che valgono nella più alta sede istituzionale!
Come dicevo, i nostri emendamenti vertevano e vertono su alcuni dei capitoli più importanti della politica economica del nostro paese: dalla ricerca, alla lotta al carovita, al caro-casa, all'ambiente, alla


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cooperazione internazionale, alla lotta alla povertà ed alla precarietà, al Mezzogiorno ed al sistema delle autonomie. Se si esclude il capitolo degli enti locali, sui quali peraltro si poteva e si può fare ancora meglio (e qualcosa di meglio si è fatto anche grazie alle nostre proposte emendative, ma non solo, evidentemente), in Commissione abbiamo dovuto rilevare che gli emendamenti dell'opposizione sono stati pressoché tutti respinti...

GUIDO CROSETTO, Relatore sul disegno di legge n. 5310-bis. Anche quelli della maggioranza sono stati respinti!

LINO DUILIO. Anche quelli della maggioranza certo, ma questa non è una consolazione, evidentemente.
Ciò non ci sembra un buon segno, a maggior ragione in un momento in cui tutti, come maggioranza e come opposizione, dobbiamo confrontarci per capire come uscire dalla situazione nella quale il paese rischia di precipitare. Debbo riconoscere che qualcuno dei nostri emendamenti è stato approvato, ma vi torneremo sopra quando ne parleremo specificamente, anche e soprattutto con riferimento ai criteri con cui sono stati approvati quelli del Governo.
Comunque, confidiamo che in Assemblea si svolga un dibattito più serio nel merito delle proposte che abbiamo avanzato. Se non vi saranno cambiamenti sostanziali nel contenuto della manovra, infatti, il nostro atteggiamento non potrà che essere consequenziale ed il nostro voto non potrà che essere contrario.
Ci permettiamo solo di fare presente, onorevole sottosegretario, onorevole relatore, onorevoli colleghi, che le considerazioni che abbiamo svolto in questi tre anni si sono rivelate puntualmente pertinenti. Almeno sulla base di questa verifica empirica, sarebbe pertanto il caso che il nostro punto di vista venisse maggiormente preso in esame. In fondo, ne va del bene del nostro paese (Applausi dei deputati dei gruppi della Margherita, DL-L'Ulivo, dei Democratici di sinistra-L'Ulivo e di Rifondazione comunista - Congratulazioni)!

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Michele Ventura. Ne ha facoltà.

MICHELE VENTURA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, come ha ricordato poc'anzi il collega Duilio, in Commissione bilancio non è stato possibile un confronto approfondito sui contenuti più significativi del disegno di legge finanziaria.
Vi è una questione del tutto marginale, che intendo peraltro sollevare: non è neppure possibile che il disegno di legge finanziaria sia esaminato dalla Commissione bilancio nei ritagli di tempo, tra una seduta e l'altra dell'Assemblea.
Avere tempo a disposizione è utile, ma ancora più utile è la volontà al confronto. Questa volontà il Governo non ha voluto né potuto esercitarla. Infatti, sui nodi più importanti, il Governo non ha fornito alcun tipo di risposta. Siamo alla quarta manovra finanziaria di questo esecutivo (e non all'avvio di un percorso del Governo di centrodestra) e - lo dico senza spirito polemico - colpisce come lo stesso abbia sbagliato drammaticamente i tempi. Quando nei tre esercizi precedenti (2002-2004) l'economia ristagnava, il Governo di un paese come il nostro, con un debito elevatissimo, avrebbe dovuto preoccuparsi di una sola cosa: tenere i conti in ordine. Ciò ci avrebbe consentito di essere pronti ad agganciare la ripresa. La spesa pubblica in questi tre anni è, viceversa, andata fuori controllo e il saldo primario, al netto degli interessi, si sta riducendo dal 4,7 per cento del PIL, a cui l'aveva lasciato il centrosinistra, all'1,7-1,8 per cento.
Ora che la ripresa c'è, bisogna correre ai ripari e coprire il buco: manovra-bis per il 2004 (il famoso decreto-legge n. 168 del 2004) e manovra da 24 miliardi di euro, anziché mettere tutte le risorse a disposizione della ripresa.
Negli anni precedenti avevamo posto questo tema e, onorevole Crosetto, il punto non è se i conti fossero truccati o meno (la questione dei conti truccati è stata sollevata da un esponente autorevolissimo del Governo, il vicepresidente del Consiglio dei


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ministri, onorevole Fini): il punto attiene all'errore di fase. Diventa secondario discutere se i conti fossero truccati o meno. La cosa vera è che, nel corso di un anno e mezzo, si è costretti a varare una manovra correttiva di oltre 30 miliardi di euro. Questa è la verità incontestabile! Essa può essere mascherata; ma dopo che vi abbiamo, in qualche modo, obbligato a presentare la famosa tabella sui tagli, può essere presentato quel famoso metodo Brown, come un tetto.
Quindi, si tratterebbe comunque di un incremento, ma rispetto alla tendenza e all'andamento della spesa pubblica siamo chiaramente di fronte a tagli che non aiutano ad agganciare la ripresa. Questo è il dato che inizialmente vogliamo evidenziare.
In secondo luogo, per un fatto di serietà, mi rivolgo ai colleghi della maggioranza: voi siete convinti che questa manovra tenga? Siete convinti che quei 24 miliardi costituiscano una manovra effettiva e reale? Oppure ci potremmo trovare improvvisamente di fronte ad altre notizie allarmanti in un certo periodo dell'anno? Questo è essenzialmente un problema vostro, perché è del tutto evidente che chi governa ha la responsabilità primaria sui conti pubblici e che è un lavoro difficilissimo per l'opposizione. Quindi, su questo aspetto non possiamo darvi suggerimenti.
Guardando i dati, quando vediamo da cosa è composta complessivamente la manovra, ci sorgono dei dubbi. Lo diceva il collega Duilio: siete convinti che quello che era previsto, per esempio, per gli studi di settore sia reale e che quello che avete previsto per strade e autostrade sia confermato? Ne siete convinti? Non lo so. Il punto è che non credo sia possibile scherzare sui conti pubblici del nostro paese.
Vorrei rispondere all'onorevole Crosetto - che ascolto sempre con grande attenzione -, perché l'argomento secondo il quale l'Italia non ha mai superato il 3 per cento nel rapporto debito-PIL appare come un riferimento per tutti noi, mentre altri paesi hanno avuto problemi a rispettare quel limite. Ci dobbiamo sempre ricordare che nel nostro paese, a differenza, ad esempio, della Germania, che ha certamente superato quel 3 per cento, vi è un debito che non consente sforamenti. Il 106 per cento di debito rispetto al 60 per cento della Germania deve indurre a politiche rigorose nella tenuta dei conti pubblici e nel controllo degli andamenti della spesa pubblica. Non è un optional per noi, ma un obbligo, indipendentemente da chi governa. È un fatto di responsabilità nazionale e, quindi, si tratta di una questione che dobbiamo tenere sotto controllo.
Vorrei porre qualche altra questione nella seconda parte del mio intervento. L'intervento dell'onorevole Duilio mi facilita da questo punto di vista, perché egli ha spiegato la nostra posizione in generale in modo tale che non ho altro da aggiungere. Vorrei, tuttavia, porre una questione fondamentale, non senza aver svolto prima una considerazione, che è quasi una battuta, sui risultati dell'esame svoltosi in Commissione bilancio.
L'onorevole Crosetto ha riferito l'unica cosa significativa fatta in Commissione bilancio che, per parlare chiaro, è quel poco che si è riusciti a fare sugli enti locali: la soglia dei tremila abitanti per i comuni, lavoro peraltro rimasto a metà percorso.
Sono rimasto colpito dal fatto che, nell'illustrare la relazione di maggioranza, l'onorevole Crosetto abbia voluto enfatizzare due risultati conseguiti in sede di esame presso la Commissione bilancio: le consulenze e le auto blu. Prometto ai colleghi che non parlerò più di auto blu: è un argomento tanto caro alla collega Santanchè, ma per me le auto blu possono anche essere eliminate. Eravamo intervenuti su un altro punto, riguardante l'interpretazione di quel comma. Tuttavia, è significativo che il relatore abbia parlato di consulenze e di auto blu come risultati apprezzabili nell'esame della legge finanziaria. Scusate la banalità, ma è come dire: c'è un grande incendio, spegniamolo con un bicchiere d'acqua!
La questione che vorrei sollevare, colleghi della maggioranza, è il destino del nostro paese. Cosa vogliamo? Come immaginiamo la società? Siamo d'accordo


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sul fatto che la società si sta impoverendo, che vi sono problemi di tenuta? Come ha detto l'onorevole Duilio, vi è un problema ormai acutissimo nella produzione. Colleghi, abbiamo un duplice problema: rialimentare i consumi interni e rimettere in moto il nostro sistema produttivo industriale. Guardando alle quote di export che abbiamo perduto, si rimane impressionati. Come vogliamo affrontare tali questioni? Vogliamo continuare a negare che il problema esista, pensando che possa risolversi in modo miracolistico con l'annunciato provvedimento sulla modifica delle aliquote fiscali?
Voi siete cultori e studiosi, come ormai anche noi, di quanto accade negli Stati Uniti. Tale paese non produsse nell'epoca del reaganismo - e la ripresa vi fu successivamente - soltanto un intervento sulle tasse, ma vi fu anche una riflessione sull'apparato industriale. Anche un paese come gli Stati Uniti non poteva permettersi un indebolimento del proprio apparato produttivo, e pertanto furono rilanciate grandi politiche di sviluppo basate su tecnologie avanzate.
Siamo di fronte a problemi strutturali: il ministro Siniscalco non l'ha negato, dato che è difficile negarlo. Non diciamo ciò polemicamente, sarebbe ingeneroso e demagogico: la debolezza strutturale viene, ovviamente, da più lontano. Siamo disponibili a portare avanti una discussione in merito perché non possiamo uscire da tale situazione se non interveniamo in innovazione, tecnologia, ricerca, formazione. Siamo disposti a discutere di come recuperare alcuni punti di PIL per intervenire su tale situazione. Questo significa affrontare i nodi strutturali.
Si tratta di difendere le politiche di investimenti per ridare certezza e fiducia a chi vuole investire. Questo è il grande problema. Se si parla con esponenti del mondo bancario, si capisce che nel nostro paese non vi è una carenza assoluta di soldi, di liquidità. Il problema è che non vi è propensione agli investimenti, non vi è propensione a far diventare produttivi i capitali che entrano sui mercati. Vogliamo affrontare tale questione, al di là delle schermaglie sulla legge finanziaria?
Vogliamo ragionare su quello che vi è bisogno di fare? In quest'ottica, noi ovviamente attribuiamo una grande importanza alle politiche per il Mezzogiorno, così come alle politiche di sostegno dei consumi, perché ciò significa porre in essere politiche di appoggio e di sostegno per i redditi familiari. L'opposizione si lamenta dell'impossibilità di discutere, perché di fatto abbiamo affrontato un dibattito su una scheletrica manovra finanziaria. Fuori da qui - mi riferisco ai giornali - si discute su un qualcosa che cambia tutti i giorni. Come può avvenire allora un confronto? Questa, colleghi, non è una nostra lamentela, ma un problema per il paese!
Quello che sostengo è che, di fronte a tali questioni, non c'è un'opposizione che è felice se le cose non vanno (dal momento che ciò rappresenta un vostro fallimento). Dobbiamo infatti preoccuparci tutti delle sorti e dello sviluppo del nostro paese. Dovete sapere che voi non avete di fronte un'opposizione che si nega al confronto. Su questi temi, noi siamo pronti a confrontarci in tutte le sedi, ma il confronto può avvenire solo se tutte le carte vengono messe sul tavolo (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-L'Ulivo, della Margherita, DL-L'Ulivo, di Rifondazione comunista, Misto-Comunisti italiani e dei deputati Crosetto e Garnero Santanchè).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Cusumano. Ne ha facoltà.

STEFANO CUSUMANO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, onorevole rappresentante del Governo, dobbiamo dire in tutta franchezza che il Governo e la maggioranza si sono chiusi nella difesa di una manovra finanziaria che in corso d'opera ha subito notevoli modificazioni, facendo letteralmente sbandare le forze politiche della stessa maggioranza, oltre che quelle dell'opposizione.
Sulle parti più decisive della manovra, sono stati respinti tutti i tentativi di confronto


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messi in atto dall'opposizione, riducendo il lavoro nelle Commissioni ad una notarile preso atto del provvedimento del Governo, posto in essere tra mille contraddizioni e mille letture (le più disparate) sul significato della manovra stessa.
Come diceva bene il collega Michele Ventura, per noi si tratta soltanto di una manovra correttiva per rimediare ad un buco enorme, che ci porta a definire un'operazione di circa 60 mila miliardi di vecchie lire. Questa è la prova dell'approssimativa politica economica messa in atto in questo triennio e che presenta oggi una condizione dei conti pubblici a dir poco preoccupante. Quello che preoccupa è lo stato complessivo dell'economia del nostro paese, con tutti i mondi vitali delusi e privi delle necessarie motivazioni, per concorrere a recuperare credibilità per il sistema paese, nel contesto europeo ed internazionale. Preoccupa la generalizzata insoddisfazione dei riferimenti più importanti del nostro sistema produttivo, che registra una stagnazione complessiva delle politiche di investimento e di sviluppo collegate ad una seria politica programmatica, costruita nel segno della concertazione e del coinvolgimento dei settori decisivi per lo sviluppo del paese.
Per questo, noi Popolari-UDEUR esprimiamo il nostro giudizio negativo nei confronti di una manovra finanziaria che, invece di promuovere lo sviluppo, induce inesorabilmente ad un progressivo arretramento del paese. Considerando alcuni dati di fatto, in questa manovra non ci sono finanziamenti, bensì c'è il blocco delle assunzioni e degli incentivi alle imprese; c'è la cancellazione della programmazione negoziata, ci sono continui attentati all'autonomia delle istituzioni culturali e di ricerca, scolastiche e universitarie, c'è una forte penalizzazione del Mezzogiorno. Anche questi soli elementi denunciano la mancanza di un'elaborazione culturale alta e di una programmazione coerente ed incisiva.
La filosofia sottesa alla manovra si riduce ad una mera logica di galleggiamento. L'assenza di respiro e l'incapacità di programmazione, di investimento e di sviluppo di questa manovra finanziaria provocherà danni incalcolabili al nostro sistema paese. Infatti, non ragionando in termini di sviluppo e di qualità dello sviluppo, non si è potuto programmare in relazione a tematiche fondamentali quali ricerca, innovazione, formazione e promozione culturale. Questi settori, fondativi di ogni possibilità di sviluppo economico e culturale, sono sicuramente i più penalizzati dalle vostre manovre, dalle due precedenti e da quest'ultima che aggrava ulteriormente, con progressione geometrica, la situazione interna del paese ed il suo confronto con il panorama europeo.
Negli ambiti della ricerca, innovazione, formazione e cultura, luoghi privilegiati di investimento strategico, con voi calano drasticamente i finanziamenti, perché quelli citati sono da voi considerati settori di risparmio rispetto a quelli nei confronti dei quali realizzare economie di cassa. In queste aree fondamentali, per voi vale l'assurdo blocco delle assunzioni; in particolare, avete drasticamente impoverito in questi ultimi tre anni la possibilità di ricambio, di ringiovanimento dei cervelli, delle culture, delle storie dei profili che, nel mondo della cultura, della formazione, dell'università e della ricerca sono essenziali, minando le radici stesse di qualunque possibilità di sviluppo.
Questa manovra, priva di qualunque prospettiva, riflette e riverbera pericolosamente sul paese la situazione di stallo di un Governo che si muove con grande difficoltà e senza una seria programmazione, che punti essenzialmente ad attivare un processo economico e finanziario innovativo ed adatto a far insorgere un circuito virtuoso di cultura della legalità, mentre continua a favorire le aree del privilegio.
I risultati sono sotto agli occhi di tutti. Non vi è forza sociale che non abbia mosso dure critiche a questa manovra finanziaria, e si sta ulteriormente aggravando la situazione dell'intero paese, in particolare quella del Mezzogiorno, con il rischio concreto di paralizzare qualsiasi attività di sviluppo.


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La manovra offende, infatti, in maniera evidente, lo sviluppo del Mezzogiorno, approfondendo ulteriormente il divario tra nord e sud. Continua ad essere il sud del paese a pagare le pesanti ricadute, frutto di assenza di interventi strutturali decisivi, senza i quali non si possono concretizzare piani di sviluppo per rilanciare l'economia dell'intera area meridionale.
Siamo di fatto alla quarta legge finanziaria che penalizza gravemente il Mezzogiorno e le aree più deboli del paese, sia attraverso il taglio delle risorse disponibili per lo sviluppo sia perché il taglio delle risorse sui bilanci di regioni, comuni e province produrrà effetti deleteri sulle finanze degli enti locali del sud.
Allo scopo di assicurare il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, viene fissato un tetto di spesa di 6,5 miliardi di euro con riferimento al finanziamento degli investimenti per lo sviluppo e al fondo per le aree sotto utilizzate, che determina una consistente riduzione delle risorse previste nella precedente legge finanziaria. Sindacati e Confindustria hanno più volte sottolineato il rischio di possibili effetti di blocco che il limite di spesa potrebbe generare sulla fruizione degli incentivi della legge n. 488 del 1992 da parte di progetti già approvati. La conseguenza è che, per gli aiuti alle imprese finanziate dal fondo per le aree sotto utilizzate, la cassa si fermerà a circa 1,7 miliardi di euro.
Tagli drammatici sono previsti per il Mezzogiorno e l'occupazione attraverso la riduzione di risorse per la concessione del credito di imposta e per le assunzioni effettuate nel sud del paese, nonché attraverso la riduzione di risorse per i contratti di programma e di area in termini di incentivi alle imprese previsti con la citata legge n. 488. Insomma, un taglio mortale all'economia e all'occupazione del sud, che rischia di bloccare molti progetti e azzera qualunque possibilità di agganciare qualsivoglia segnale di ripresa.
Il rischio è che il sud ora si fermi, colpito da questa vera e propria ipoteca sullo sviluppo messa dal Governo con i tagli alla legge n. 488 e alla programmazione negoziata. Il mio augurio è che l'aumento dei dati negativi che riguardano il sud, in mancanza di interventi risolutivi (meno occupazione, meno sviluppo, meno consumi, meno produzione e via dicendo), non trascini verso il basso l'intera economia italiana.
La soluzione proposta dal Governo renderà impossibile per molte imprese meridionali, già sotto capitalizzate, l'accesso a nuovi crediti per gli investimenti ed a progetti di ricerca, e più difficile la possibilità di indebitamento di molte imprese meridionali anche per i nuovi investimenti.
Se al taglio di questi aiuti si aggiunge che non esiste alcuna fiscalità di vantaggio rispetto alle regioni forti del paese, tema sul quale il nostro Governo non si è mai battuto in sede europea con una forte e reale convinzione, non si comprende quali possano essere i vantaggi reali di investire nel Mezzogiorno sia per i nuovi insediamenti sia per l'ampliamento di quelli esistenti, a parte l'abbondante disponibilità di manodopera, anche intellettuale.
Insomma, una manovra pesante che il Governo tende a minimizzare, oscurando gli effetti attesi, che si preannunciano deleteri per il Mezzogiorno.
Molte previsioni della finanziaria penalizzano infatti le imprese meridionali ed anzi, dato il ritardo infrastrutturale, il limite posto agli investimenti appare più penalizzante principalmente per il sud. In definitiva, la manovra fa un grave errore nel non assumere il Mezzogiorno come snodo dell'innovazione, come occasione fornita al paese per ritrovare un sentiero di sviluppo.
In un progetto che coinvolga l'intera Italia, il Mezzogiorno deve essere visto come un'area di opportunità che, disponendo di una forza lavoro giovane, può far compiere a tutto il sistema un salto nella competitività. Infatti, se non si affronta ora il problema del Mezzogiorno, con adeguate risorse e con convinzione, la questione meridionale peserà negativamente sull'intera capacità di competere sulla scena internazionale.
Per di più, questa manovra imbriglia anche le iniziative di sviluppo promesse


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dalle regioni e dagli enti locali, privati delle risorse indispensabili. L'arretramento che la finanziaria introduce è dunque, contemporaneamente, pervasivo e capillare; l'intera manovra è improntata a pressappochismo e disordine, che alimentano un preoccupante stato di insicurezza, anzi legittimamente di paura e di sfiducia rispetto ad un Governo incapace di affrontare seriamente i problemi generali e particolari.
Ormai il paese si trova di fronte ad una realtà ogni giorno più cruda: i cittadini hanno visto crollare il potere di acquisto, le famiglie denunciano difficoltà crescenti per arrivare a fine mese, le nostre imprese perdono in misura rilevante la loro capacità competitiva; in sintesi: un paese messo a dura prova a tutti i livelli e giorno dopo giorno.
In tale quadro doverosamente allarmante, questa manovra ne prefigura uno ancora peggiore, che vedrà accentuarsi diseguaglianze e disparità tra i cittadini e tra le diverse aree del paese. Né, a maggior ragione, saranno risparmiate le imprese e, tra queste, le più colpite saranno come sempre quelle meridionali, che ostentano una condizione già ardua nella tenuta concorrenziale.
Ribadisco con rammarico che a pagare le incapacità e gli errori di questo Governo sarà ancora una volta tutto il paese e, in particolare, il sud, alle prese con una crisi economica devastante e sempre più abbandonato a se stesso.
Il Governo continua ad ignorare nei fatti, a dispetto di talune enunciazioni, le grandi aspettative suscitate in tutti i settori strategici per lo sviluppo complessivo ed armonico del nostro paese. In materia di trasporti e infrastrutture, l'impostazione programmatica del Governo è ben nota: nessuna impostazione strategica coerente e nessuna attenzione alle politiche per il riequilibrio modale e la sostenibilità.
Sono passati tre anni dal varo del provvedimento «sblocca cantieri», ma le opere faticano a partire e questa finanziaria sarà un ulteriore freno alla prosecuzione degli interventi. Per il resto la finanziaria non presenta elementi significativi in tema di politica dei trasporti e delle infrastrutture. Nessuna novità per quanto riguarda le agevolazioni fiscali in favore degli autotrasportatori, che vengono confermate dal comma 40 dell'articolo 36; nessuna concreta politica per correggere l'enorme squilibrio modale del trasporto merci e per la riduzione del traffico veicolare privato nelle aree urbane. Anche il trasporto rapido di massa non ha ricevuto alcun rifinanziamento aggiuntivo, nonostante la drammatica situazione in cui versano le nostre aree urbane.
Per quanto riguarda il patto di stabilità interno, in questa finanziaria non solo non vi è nessun recupero dei forti tagli degli anni scorsi agli enti locali, anzi si continua su questa linea. Quella degli amministratori locali non è più la solita lamentazione, siamo invece ad una svolta involutiva e regressiva e a forme di un neocentralismo contraddittorio.
Emerge in tutta evidenza una intollerabile immagine costruita sul ruolo degli enti locali quali istituzioni che sprecano il pubblico denaro. Attenti a fare di tutta l'erba un unico fascio indistinto: dietro l'angolo ci può essere una maldestra azione corrosiva contro i più importanti presidi della nostra Repubblica democratica, quali sono i comuni, le province e le regioni! Dopo tre finanziarie consecutive, questa manovra rischia infatti di mettere definitivamente in ginocchio regioni, province e comuni.
Nei giorni scorsi, il presidente della Corte dei Conti, in occasione dell'audizione presso le Commissioni bilancio riunite di Camera e Senato su questa finanziaria, aveva sottolineato come gli enti locali siano quelli più colpiti dalla manovra per il 2005. Dei 9 miliardi di risparmi derivanti dall'applicazione del tetto del 2 per cento alla crescita della spesa, il 58,8 per cento è infatti attribuibile alle autonomie locali. Si tratta, in pratica, di una cifra intorno ai cinque miliardi di euro. Se poi guardiamo agli anni 2006 e 2007, la stessa Corte dei Conti ha evidenziato come il taglio del 2 per cento alle spese peserà sugli enti locali per il 73,4 per cento nel 2006 e per il 76,4 nel 2007. Le misure cui


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vanno attribuiti tali effetti sono l'estensione agli enti locali del tetto del 2 per cento, prevista nel 2004, e l'aggiornamento nel triennio 2005-2007 dei termini dell'accordo Stato-regioni dell'agosto 2001, che regolano il patto di stabilità. Insomma, si tratta di un taglio letteralmente insostenibile, con effetti pesantissimi sotto l'aspetto economico e, soprattutto, sotto l'aspetto sociale.
Per venire incontro al calo dei trasferimenti verso gli enti locali è, comunque, lasciata mano libera a questi ultimi di incrementare, se credono, le tasse locali. Le regioni, quindi, potranno aumentare l'addizionale IRPEF, il bollo auto e i ticket sanitari, mentre i comuni avranno la facoltà di aumentare l'ICI. Insomma, gli enti locali dovranno tagliare le spese oppure aumentare le entrate. In pratica, si rischia un taglio secco ai servizi e agli investimenti, con effetti pesanti sulle economie locali. Potranno sfondare il tetto solo per gli investimenti, nei limiti di quanto incasseranno di più, aumentando aliquote, tariffe, imposte e tasse locali. A questo aggiungiamo il blocco delle assunzioni, forse ancor più rigido che in passato.
Per quanto riguarda il pubblico impiego, anche quest'anno si proseguirà sulla linea di estremo rigore, con ricadute negative sull'occupazione e sulla stabilizzazione dei tanti lavoratori precari o a termine, che orbitano intorno alla pubblica amministrazione. In materia di assunzioni, infatti, vale la pena sottolineare che, alle forte restrizioni proposte con questa manovra, si sommano i tagli e i paletti alle assunzioni, già presenti nelle precedenti leggi finanziarie predisposte da questo Governo.
Anche lo stanziamento a favore della cooperazione con i paesi in via di sviluppo subisce la mannaia del famoso 2 per cento. A questo corrisponde, infatti, l'incremento di dotazione, rispetto alla finanziaria dello scorso anno. Anche in questo caso, quindi, si opera una decurtazione in termini reali.
Continua a mancare una politica coerente contro l'inflazione. Infatti, ci saremmo aspettati un intervento sulle accise della benzina, insieme ad un'intesa con i produttori, per il contenimento dei margini di ricarico dei prodotti petroliferi, al fine di stabilizzare i prezzi finali.
Con il documento di programmazione economica e finanziaria e, poi, con la manovra finanziaria stessa, il Governo ancora un volta non ha voluto fissare un tasso di infiltrazione programmata credibile.
Prima di concludere, vorrei tornare un attimo sui tagli alle regioni e agli enti locali. Anche per questa via, formalmente, si annunciano e programmano tagli fiscali, mentre in realtà si aumentano i costi per tutti i cittadini. A questo punto credo sia lecito domandarsi come gli amministratori locali possano preparare i loro bilanci. Il Governo deve spiegare come intende garantire il funzionamento pieno delle competenze, perché altrimenti andremo incontro ad un corto circuito e ad un collasso strutturale, insostenibile per i cittadini.
Per quanto riguarda la vicenda delle aliquote fiscali, abbiamo assistito ad un indecoroso balletto sulle tasse, che non rappresenta altro se non la conferma di una permanente e abusata tendenza all'improvvisazione, giocata sulla pelle degli italiani, con gli occhi rivolti ai nuovi assetti di Governo.
Signor Presidente, vorrei concludere ricordando che il Governo necessariamente dovrà compiere un ulteriore sforzo pubblico e mediatico per far credere ai cittadini che questa legge finanziaria sia positiva per il paese, per i conti dello Stato, per le tasche dei privati e per la vita delle imprese. Questo Governo non può fare affermazioni diverse, ma davanti alla durezza della quotidianità, della realtà concreta, sia pubblica che privata, queste affermazioni appaiono a tutti, anche a coloro che hanno votato l'attuale maggioranza, assolutamente prive di ogni credibilità (Applausi dei deputati del gruppo Misto-Popolari-UDEUR).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Peretti. Ne ha facoltà.

ETTORE PERETTI. Signor Presidente, vorrei intervenire soltanto con alcune battute,


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anche perché mi riconosco integralmente nelle relazioni presentate dai due relatori di maggioranza.
Ci troviamo di fronte ad una legge finanziaria molto difficile, in quanto difficile è il momento che stiamo attraversando, sia dal punto di vista politico che, soprattutto, dal punto di vista sociale ed economico.
Quindi, questa legge finanziaria ha innanzitutto e soprattutto l'obiettivo, fondamentale e obbligatorio, costituito dalla correzione dei conti per garantire il pareggio di bilancio. Al riguardo, vi sono soltanto due possibilità: l'aumento delle tasse - al contrario, la nostra intenzione è di andare verso una diminuzione - ovvero il controllo della crescita della spesa pubblica, ed è su quest'ultimo fronte che si è concentrato il disegno di legge finanziaria in esame.
Si deve ovviamente tenere conto di una considerazione, che è stata opportunamente formulata dai colleghi che mi hanno preceduto, e in particolare dai relatori: la quasi totalità della spesa pubblica è obbligata e rigida. Escludendo gli stipendi, le pensioni, gli interessi sul debito, la sanità, la scuola e le altre spese sociali, le possibilità di governo reale della spesa pubblica sono relative, in quanto intervenire su tali comparti di spesa è molto difficile e presenta costi sociali, prima ancora che politici, molto alti (e ciò vale per tutti gli schieramenti).
È deludente constatare come nella discussione, sia tra le forze politiche in Commissione e in Assemblea sia con le forze sociali, si tenda a ignorare completamente tali importanti vincoli della finanza pubblica. Abbiamo ricevuto numerosi consigli su come spendere, e dobbiamo constatare che il Governo nonché, se il Governo consente, la sua maggioranza, sono chiamati a correggere i conti pubblici e al pareggio di bilancio, e sono soli in questa responsabilità.
Si è detto e si è criticato molto. A dire il vero, non vi è nulla di nuovo rispetto alle critiche solitamente formulate in questi dibattiti. Si è detto che si tratta di una manovra recessiva; si è detto che il paese si sta impoverendo e che l'Italia sta subendo un declino irreversibile; si è detto che la maggioranza e il Governo non sono in grado di tenere sotto controllo la spesa pubblica e il debito pubblico; si è detto che il Governo, con questa manovra, taglia gli investimenti e sta abbandonando il Sud. L'opposizione usa toni apocalittici e fa il suo mestiere, ma esaminando le scelte di bilancio e le leggi finanziarie che si sono succedute dal 1992 ad oggi si constata che i comportamenti sono stati omogenei nel tempo, pur essendo cambiate le maggioranze: non vi è stata discontinuità, e ritengo pertanto che a comportamenti simili dovrebbero conseguire giudizi simili.
Si è detto, dunque, che si tratta di una manovra recessiva. Va osservato che tutte le operazioni di rientro del deficit sono, in qualche modo, recessive, in quanto devono ridurre la massa spendibile. Vi è un debito da pagare, e se si paga un debito si hanno meno soldi da spendere, e oggi siamo chiamati a restituire ciò che è stato speso di più nel passato. Come ho già osservato, si tratta di una manovra obbligatoria, in quanto siamo tenuti al pareggio di bilancio in virtù degli impegni di Maastricht. Occorre peraltro valutare se sia corretto essere obbligati al pareggio di bilancio in un periodo di mancata crescita economica. Ricordo al riguardo che Prodi ha affermato che tale obbligo è stupido, quando l'economia non cresce; tuttavia, nella sua responsabilità di presidente della Commissione europea, ci saremmo aspettati qualcosa di più, come l'esclusione dal calcolo delle spese di quelle per investimento.
Si è detto che ci stiamo impoverendo e che l'Italia, sostanzialmente, sta andando incontro ad un declino industriale. Se analizziamo i dati della contabilità nazionale notiamo, ad esempio, che il tasso di disoccupazione cresce, anche se di poco, si riduce, anche se di poco, il tasso di disoccupazione, aumenta il reddito disponibile per le famiglie e si riduce, anche se di poco, l'indice di povertà relativa. Certo, vi sono anche altri dati preoccupanti, come l'aumento del debito delle famiglie a breve, l'aumento del mercato del credito al consumo e l'aumento dell'indebitamento


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delle famiglie per l'acquisto dell'abitazione. Devo, però, aggiungere anche che tali fattori e indici presentano dei trend di crescita abbastanza omogenei. Sono fenomeni che preoccupano, che vanno tenuti in considerazione ma che non sono nati con questo Governo: non sono fenomeni di oggi, sono fenomeni che vengono da lontano, proprio perché il processo di rientro della finanza pubblica viene da lontano e non è nato oggi.
A tali fenomeni oggi se ne stanno aggiungendo altri due che, ovviamente, vanno presi in considerazione. Vi è una redistribuzione della ricchezza a causa dell'euro; beninteso, l'introduzione della moneta unica ha rappresentato un fattore positivo perché ha portato ad una riduzione dei tassi di interesse e ad una stabilità del cambio (fattori molto positivi per l'economia) ma inevitabilmente l'euro ha portato con sé un aumento dei prezzi, perché purtroppo non siamo riusciti in fretta a renderci conto del valore della nuova moneta (molto diverso rispetto al valore della divisa che avevamo prima). E qualcuno, ovviamente, ne ha approfittato. L'altro elemento da considerare è il cambiamento in atto, anche se lento, del paniere dei nostri consumi. Vi sono nuovi prodotti e servizi - come, ad esempio, le telecomunicazioni - che stanno facendo il loro ingresso con prepotenza, comprimendo altri prodotti più consolidati e non sempre comprimibili. Devo aggiungere che l'effetto di sostituzione di questi prodotti, spesso non è né psicologicamente né socialmente sostenibile. E ovviamente ciò obbliga le famiglie ad un aumento dell'indebitamento a breve. Tali fenomeni possono essere attenuati - se non completamente cancellati - non certo con un aumento della spesa pubblica ma solo con un aumento della crescita economica.
Si è detto che non sappiamo tenere sotto controllo la spesa corrente ed il debito. Ovviamente, non possiamo essere contemporaneamente accusati, da un lato, di ricorrere a manovre recessive e, dall'altro, di non essere in grado di controllare l'aumento della spesa corrente. Ma anche in questo caso, se verifichiamo i dati consuntivi nel corso degli anni, notiamo che l'andamento degli indicatori della finanza pubblica ha seguito un aumento omogeneo nel tempo. Ciò con riguardo alla spesa corrente, alla spesa per investimenti ed alla spesa per ricerca, della quale ci si riempie spesso la bocca. Lo stesso vale anche per l'andamento delle entrate. Dal 1996 ad oggi, il valore di questi aggregati di spesa non è cambiato in maniera significativa. Il loro andamento è costante, anche se nel frattempo sono cambiati quattro governi.
Naturalmente, nell'ambito di tutti questi processi, alcuni elementi di discontinuità si sono verificati. In particolare uno: dal 2001 l'economia europea è entrata in una fase di bassa crescita (quindi l'economia europea, non solo l'Italia). Vi è stata una caduta significativa dell'export che ha pesato sulla produzione della ricchezza; e ovviamente ciò ha reso molto più difficile e complicato il controllo sia della spesa pubblica sia delle entrate. Quindi, il rispetto dell'obbligo del pareggio di bilancio in queste condizioni credo sia stato un elemento ascrivibile alla grande capacità di controllo di questo Governo. Ovviamente dobbiamo ricordare che - anche se in maniera molto surrettizia e non molto conclamata - la difficoltà e la necessità di pareggio dei conti hanno avviato un processo di valutazione qualitativa della spesa pubblica.
Noi siamo ancora all'inizio di questo processo, che è ineludibile e potrà produrre effetti positivi nel corso degli anni. Un primo passo è stato fatto con il tentativo di trasformare i contributi a fondo perduto delle imprese ed i mutui. Ne seguiranno altre di queste iniziative, perché una cosa è chiara ormai a tutti coloro che si occupano di spesa pubblica, e cioè che il reperimento di nuove risorse, sia che si debbano ristorare nuovi bisogni sia che si voglia - come intendiamo noi - ridurre il livello della pressione fiscale, non può essere realizzato se non attraverso un processo di maggiore efficienza ed efficacia della spesa pubblica e, dobbiamo anche dirlo senza ombra di dubbio,


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attraverso un processo di aumento di produttività della pubblica amministrazione.
Questo, ovviamente, va fatto attraverso lo svolgimento di una valutazione puntuale e rigorosa di ogni singola voce di spesa: un cambiamento culturale e metodologico, di mentalità prima ancora che politico, che già viene sperimentato in alcuni comparti e in alcune piccole realtà e che ovviamente dovrà essere esteso a tutti i comparti della pubblica amministrazione.
Il livello di discussione della legge finanziaria in Commissione, come molti hanno sostenuto, non è stato sufficientemente adeguato alle aspettative di richiesta di cambiamento; devo però dire che, rispetto alla rigidità del testo, così come presentato all'inizio, il lavoro in Commissione, anche attraverso l'impegno del Governo, è stato positivo; penso, ad esempio, alle modifiche apportate al testo in materia di enti locali. Riteniamo però che questo lavoro non sia ancora concluso e ci aspettiamo, anche grazie alla disponibilità del Governo, che possano essere portate a compimento alcune richieste da noi ritenute importanti per poter dare un via libera soddisfacente a questa manovra.
Mancano in questa legge finanziaria due capisaldi molto importanti, molto discussi, dei quali si è parlato a lungo in questi ultimi tempi, che riguardano le misure per la competitività e la riforma fiscale. Credo che di queste cose si sia parlato a lungo con un grande assente, rappresentato dalle proposte concrete inserite in un disegno di legge governativo: poiché sono in cantiere, ne parleremo a tempo debito. Anche su questo, credo sia importante, almeno in maniera molto fugace, rappresentare la posizione dei singoli gruppi, e quindi, da parte mia, quella dell'UDC.
Per quanto riguarda la competitività, noi riteniamo che tre debbano essere i rigorosi criteri di valutazione, che le misure debbano essere selettive e non spalmate su una platea di beneficiari senza una grande valutazione di qualità dei progetti, la cui analisi rigorosa, quindi, diventa un elemento fondamentale di vaglio della validità e della bontà del disegno di legge della competitività, e prevedendo una trasformazione del sistema degli incentivi per una automaticità degli strumenti che renda le misure immediatamente applicabili.
Per quanto riguarda il fisco, l'attenzione del nostro gruppo si è ovviamente incentrata sulle questioni riguardanti la famiglia: la famiglia giovane, innanzitutto, con la possibilità di avere sconti fiscali per l'accesso alla prima casa; la famiglia numerosa con la possibilità di ristorare quelle a monoreddito con un numero di figli molto elevato e le famiglie che hanno a carico anziani, magari non autosufficienti o portatori di handicap.
È chiaro però come, riguardo alla riforma fiscale, per noi sia molto importante anche una valutazione contemporanea della sostenibilità dei tagli di spesa per la copertura delle spese derivanti dalla riforma stessa. Ovviamente, non può esservi chi, da una parte, riduce le tasse e chi, dall'altra, si occupa della sostenibilità finanziaria.
Credo che il «via libera» definitivo ad una misura di questo tipo possa essere dato soltanto all'interno di una valutazione contestuale e della natura dei tagli fiscali e della natura dei tagli di spesa necessari per coprire la riforma.
Ovviamente, un aspetto fondamentale sul quale abbiamo sempre insistito - e sul quale continueremo ad insistere - riguarda anche la necessità di rispettare il principio di progressività. Il predetto principio, costituzionalmente tutelato, è a maggior ragione fondamentale in un momento in cui la crisi economica crea difficoltà ai bilanci delle famiglie. Noi crediamo che il rispetto del principio di progressività, da garantire all'interno del gioco delle aliquote, degli scaglioni, delle misure e degli sgravi, debba costituire oggetto di attenta valutazione.
Inoltre, è necessario accompagnare la riforma fiscale con una vera lotta all'evasione fiscale, che deve andare di pari passo con la riduzione fiscale e con il rispetto del principio di progressività.


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Saremo molto rigorosi e valuteremo queste riforme attribuendo la massima importanza ai due elementi che ho indicato, i quali debbono costituire autentici capisaldi della manovra in un momento in cui la crisi economica costringe le famiglie a sopportare grossi sacrifici. Aspettiamo di poter discutere con il Governo e, ovviamente, con le altre forze della maggioranza le basi della nostra proposta di politica economica (Applausi dei deputati dei gruppi dell'Unione dei democratici cristiani e dei democratici di centro, di Forza Italia e di Alleanza Nazionale).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Alfonso Gianni. Ne ha facoltà.

ALFONSO GIANNI. Grazie, signor Presidente.
Signor sottosegretario Vegas, mi rivolgo a lei - che so essere persona capace di ascoltare con molta pazienza e persino di rispondere e di polemizzare a tono, come non capita molto frequentemente con altri suoi colleghi di Governo - per affermare che siamo di fronte ad un disegno di legge finanziaria che, malgrado la perizia dimostrata dall'onorevole Crosetto nell'esporne i contenuti, si presenta monco.
Naturalmente, poiché non faccio parte della Commissione bilancio, certamente mi sfuggirà qualcosa: i segreti delle silenti stanze, gli interna corporis e le sottigliezze contabili. Tuttavia, penso che, mai come in questa occasione, stiamo discutendo un po' a vuoto. In buona sostanza, non conosciamo la misura di politica fiscale che il Governo intende intraprendere - mentre sappiamo che, su questo tema, vi è un acceso e contrastatissimo dibattito interno alla stessa maggioranza -, non sappiamo che fine farà la questione degli estimi catastali, non sappiamo in che senso si muoverà, per usare quell'espressione non molto elegante che i suoi colleghi di Governo hanno usato, la «manutenzione» dei cosiddetti studi di settore, che dovrebbero far pagare delle tasse ad alcune categorie produttive. Praticamente, siamo di fronte a troppe variabili che impediscono di condurre un ragionamento serio: un matematico non comincerebbe neanche la discussione!
La questione preliminare, sottosegretario Vegas, riguarda l'entità della manovra. Avete parlato - i conti sono questi - di 24 miliardi di euro. Tuttavia, se sarà presentato un maxiemendamento (o qualche altra diavoleria partorita dalla vostra maggioranza) che porterà alla riduzione delle aliquote a tre, entro valori inferiori al 40 per cento, a questi ventiquattro miliardi se ne dovranno sommare, come minimo, altri sette, otto o nove, per arrivare ad un valore complessivo di trentuno o trentadue miliardi che posizionerebbe questa manovra finanziaria, apparentemente presentata in modo soft e tecnicistico dal neoministro Siniscalco, tra quelle più gravose degli ultimi dieci anni, seconda soltanto a quella di Amato del 1992 e più o meno alla pari con quella di Prodi del 1997 (cui - non ne sono pentito - anche noi contribuimmo), la quale almeno partorì un avvenimento storico: l'ingresso della lira nell'euro.
Invece, questo disegno di legge finanziaria non partorisce assolutamente alcunché. Ad esso, per onestà, dovremmo aggiungere l'aggiustamento di manovra del luglio scorso; il quadro che ne deriva è estremamente desolante. Naturalmente, la mia critica riguarda non solo l'aspetto quantitativo, che pure - mi rivolgo a persone che si occupano di economia - è questione non da poco, perché in economia la quantità determina, nel bene o nel male, una qualità. Il problema è la nostra grande preoccupazione per i progetti di riforma fiscale di cui si sente parlare. Altri colleghi hanno accennato a questo problema. Io non tirerò fuori le cifre. Lo farò, ne sia certo, sottosegretario Vegas, con molta minuzia quando, alla fine della fiera, chiarirete qual è il vostro progetto. In ogni caso, una cosa è chiara, ossia che la riforma fiscale serve ad abbassare le tasse ai ricchi. Questo è stato ripetuto in tutte le maniere. La differenza tra voi consiste nel modo in cui ciò avviene, ma non nel fatto che ciò debba avvenire.
Uno studio degli artigiani di Mestre (in CGIL, come controparte sindacale, mi occupavo


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di contratti dell'artigianato, che, quindi, conosco bene) dimostra come l'ipotesi di Alleanza nazionale sia, per alcuni scaglioni reddituali, addirittura peggiorativa, nel senso che fa sconti all'ipotesi del Governo. Insomma, al peggio non c'è mai fine. Non so, ora - l'onorevole Giorgetti è sempre molto criptico; è un uomo che parla poco -, cosa la Lega abbia tratto dai propri cervelli contabili come forma di mediazione...

GIANCARLO GIORGETTI. Cervelloni, non cervelli!

ALFONSO GIANNI. ... Se ne parla sui giornali, staremo a vedere. In ogni caso, sempre di questo stiamo parlando: come ridurre le tasse ai ricchi, a coloro che già non le pagano, perché sono responsabili di un'elusione fiscale che, nel quadro europeo, presenta l'Italia ai primi posti (primato negativo), oltre 10 punti sopra la percentuale fisiologica di Francia e di Germania. È, quindi, un premio dato alle ricchezze.
D'altro canto, tale aspetto, con molta sfrontatezza - è una caratteristica della persona -, è stata difeso dal Presidente del Consiglio. Quando, con poca eleganza, dal portavoce di Alleanza Nazionale gli è stato fatto notare che il guadagno per lui era enorme (anche io non sto a discutere sulle cifre, ma lei le conosce e conosce anche l'enormità di questo risparmio), il Presidente del Consiglio ha risposto che non considerava scandaloso guadagnare tanto. Questa dichiarazione, da sola, meriterebbe l'impeachment, perché un Presidente del Consiglio guadagna l'indennità da Presidente del Consiglio. Se, evidentemente, ha altre attività, certamente non guadagna, ma ha una rendita, sempre che, anziché fare il Presidente del Consiglio, non si dedichi esclusivamente ai propri interessi privati.
Vi è, quindi, un conflitto di interessi e di funzioni e, in effetti, guardando i risultati dei guadagni in Borsa dello scorso anno, risulta che la famiglia Berlusconi, tramite le sue varie, articolate, diramate proprietà, è al primo posto per ciò che riguarda i guadagni di Borsa. Quindi, pro domo sua, parla il Presidente del Consiglio. Quando si parla di taglio di tasse, significa, in primo luogo, taglio di tasse a lui, alla sua famiglia e al suo entourage e, secondariamente, all'élite che si stringe attorno a lui. Ma non si parla di un miglioramento della condizione di pressione fiscale per i ceti più deboli.
Il portavoce di Forza Italia ha affermato che le tasse per i più poveri sono state già diminuite. Mai bugia è stata più pretesca di questa! Ed il riferimento non è ovviamente fatto a caso. Basta guardare i dati sulla povertà. Naturalmente lei, sottosegretario Vegas, che è un uomo di studi e conosce la statistica, sa che quando si esaminano i dati della povertà non bisogna valutare solamente la povertà relativa, che riguarda la relazione tra i consumi dei ceti più bassi e la media dei consumi generali. Se, come è accaduto nel mese di agosto - e persino l'ISTAT l'ha verificato -, siamo di fronte ad una diminuzione del 2 per cento nei consumi medi degli italiani, il livello che indica la povertà relativa si è ulteriormente abbassato e, quindi, alcuni provvisoriamente fuoriescono da questa povertà relativa; ma se lei considera invece la povertà assoluta, cioè la capacità di acquisto, di spesa, in rapporto ad un determinato paniere, lei vede che non è affatto diminuita. E basta uscire da questo palazzo e guardare - mi scusi questa annotazione empirica, ma l'empirismo preso in piccole sagge dosi aiuta una conoscenza scientifica - quanta gente stende la mano, quanta gente ha bisogno di un aiuto per una sussistenza quotidiana e minimale.
Quindi, siamo di fronte a quello che le vere statistiche ci hanno indicato: un impoverimento complessivo della popolazione, con una crescita delle famiglie, dei singoli, che entrano nelle classifiche della povertà e, soprattutto, con una crescita di coloro che, pur avendo un lavoro, possono essere ricompresi - ai termini delle statistiche, che sono statistiche internazionali sui livelli di povertà - all'interno della classifica dei poveri. Abbiamo cioè quella che noi abbiamo chiamato una grande


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questione salariale e retributiva nel nostro paese, che è evidentemente la causa di una incapacità di rilanciare la domanda interna per mancanza di capacità di consumi...
Poiché ci sono delle notizie di agenzia, sottosegretario Vegas, di fonte israeliana, che parlano della morte del presidente Yasser Arafat, stiamo cercando di controllare se queste notizie rispondano a verità o meno. Esse sono smentite da quelle di fonte palestinese. Aspettiamo la fonte francese.

PRESIDENTE. Onorevole Alfonso Gianni, le notizie sono varie: qualcuno dice che è clinicamente morto, altri dicono che questo non è vero. Quindi, è inutile dare notizie, visto che non sappiamo se rispondano al vero o meno. Che le condizioni di Arafat fossero gravi era accertato. Speriamo che non sia nulla.

ALFONSO GIANNI. Spiegavo solo al rappresentante del Governo il motivo della mia interruzione, visto che sentivo due telefoni che contemporaneamente squillavano. Mi sembrava una circostanza che meritava l'apertura di una parentesi. Speriamo che la notizia non corrisponda al vero.
Dicevo che noi siamo di fronte ad un peggioramento generale della capacità di acquisto, che è la causa di una diminuzione dei consumi e quindi di una mancanza del rilancio della domanda interna. D'altro canto, non è vero, contrariamente a quanto si dice, che la situazione italiana preveda un elevato incremento del costo del lavoro tale da poter generare una impossibilità di investimenti o di iniziative produttive. Un recente studio di una multinazionale nel settore meccanico, che agisce in 23 paesi, una multinazionale non di matrice italiana, ha messo a confronto il costo orario per i vari stabilimenti distribuiti in questi tre paesi; ebbene, l'Italia risulta dopo la Svezia, dopo la Germania, dopo il Giappone, dopo gli Stati Uniti, dopo la Francia, dopo il Belgio. Per quanto riguarda l'Unione europea, intesa a 15, essa costa, diciamo così, solo un po' di più della Spagna e considerevolmente di più del Portogallo e della Grecia.
Ma non è affatto vero che, pur considerata la notevole entità del cuneo fiscale - che rende estremamente sensibile e consistente la differenza tra quanto il datore di lavoro onesto (che non evade le spese contributive) paga e quanto, invece, entra nelle tasche del lavoratore -, anzi, corrisponde totalmente al falso (benché in quest'aula senta ribadire tale osservazione da quanti evidentemente non leggono mai nulla tranne quanto riportano i loro giornali di partito) che il costo del lavoro italiano sia eccessivamente alto, che si debba ridurlo e che per tale ragione la nostra competitività sia penalizzata. No, sottosegretario Vegas, questa costruzione corrisponde ad una falsa immagine della nostra realtà.
La questione risiede altrove; sta, evidentemente, in una mancanza di competitività che deriva da una debolezza di infrastrutture - quelle vere, non il ponte sullo stretto di Messina -; da una assenza di una politica formativa; dal fatto che la ricerca scientifica - ne parleranno altre colleghe discutendo del tema della scuola - sia, per così dire, peggio di una Cenerentola tra le voci di spesa del bilancio italiano; dal fatto che non si riesca a dare una prospettiva di lavoro che non sia la moltiplicazione (anche per gli ultracinquantenni) del precariato. Penso, al riguardo, ai cosiddetti cervelli che abbiamo contribuito a formare e che, appena un paese straniero dà loro una possibilità di lavoro, emigrano. Questa è l'arretratezza del sistema economico italiano: non solamente un problema finanziario o di rapporto debito-PIL al 106 per cento; non soltanto l'obbligo di rispettare - personalmente, come lei sa, non lo rispetterei affatto - il vincolo del 3 per cento previsto dal Patto di stabilità e crescita stabilito successivamente al Trattato di Maastricht. Queste sono espressioni finanziarie di una debolezza cronica del sistema paese italiano e una legge finanziaria non può prescindere da questo tema, sottosegretario Vegas.


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Continuiamo, per così dire, a prenderci in giro sulle cifre, sui numeri, sui conteggi, sulle proporzioni e non guardiamo ad una semplice realtà che tutti, anche gli inesperti di economia e di contabilità, possono scorgere. Si tratta di un paese non ha più né siderurgia, né informatica, né avionica; abbiamo visto 494 operai di Arese messi in mobilità dalla FIAT, un centro di propulsione e di innovazione dal punto di vista dei motori e del mercato automobilistico. Quando un paese abbandona tutti questi settori e abbandona un progetto spaziale come Galileo scambiandolo, per fare contenti quelli della Lega...

PRESIDENTE. Onorevole...

ALFONSO GIANNI. ...con la riduzione sulle quote latte, ebbene, quando ciò accade, è l'economia materiale che viene a mancare. E non è che la «economia di carta» possa fare molti miracoli; si può intervenire così con una finanziaria o due - concludo subito, signor Presidente; consideri anche le interruzioni di prima - ma non si va lontano.
Dunque, per concludere in simpatia, le vorrei leggere una «chicca», caro sottosegretario Vegas; non so se voi nel Governo sapete quanto fanno gli altri ovvero se la destra sappia quanto fa la sinistra. Non è un'espressione politica, è antropomorfica; mi riferisco alla mano destra ed alla mano sinistra.
Vorrei comunque fare questa citazione dal Sole 24 ore - pagina autorevole: Norme e tributi - di sabato 23 ottobre: «Il lavoro a chiamata conquista spazio». Lei sa che considero il job on call una «porcheria»; tuttavia, è uno degli istituti propagandati dal Governo come una grande conquista delle legge n. 30 del 2003. Ebbene, il Governo, al convegno di Modena, ad un anno dalla legge n. 30, si è presentato con decreto che individua 46 nuove professioni in cui si possono utilizzare lavoratori a chiamata. Tali professioni sono individuate in base al decreto del 1923 cosicché, tra le nuove occasioni di lavoro che noi offriamo ai giovani o ai disoccupati ultraquarantacinquenni, vi sarebbero le «guardie daziarie» (forse, perché pensate, in accordo con la Lega, di reintrodurre i dazi) oppure, e concludo Presidente, i «cavallanti» e gli stallieri (forse, pensate alla stalla di Arcore), oppure il personale dei manicomi (che non esistono più, grazie a Basaglia), oppure i barbieri ed i parrucchieri, da uomo e da donna, nelle città con meno di centomila abitanti, salvo che il prefetto non abbia ordinato a costoro un lavoro continuo.
E potrei continuare...

PRESIDENTE. No!

ALFONSO GIANNI. Voi avete approvato...

PRESIDENTE. No!

ALFONSO GIANNI. ... la legge n. 30 del 2003, ma la applicate in base alle categorie professionali del 1923!

PRESIDENTE. Concluda, onorevole Alfonso Gianni!

ALFONSO GIANNI. Questo è il Governo che abbiamo! Mi pare di aver detto tutto: grazie, signor Presidente (Applausi dei deputati dei gruppi di Rifondazione comunista, dei Democratici di sinistra-L'Ulivo e della Margherita, DL-L'Ulivo)!

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Pistone. Ne ha facoltà.

GABRIELLA PISTONE. Signor Presidente, credo che ci troviamo di fronte ad un disegno di legge finanziaria, dal punto di vista dell'entità, di portata enorme. Si tratta di un provvedimento che ritengo anche inquietante, poiché non si sa ancora - o meglio, si sa benissimo - dove vada a parare, ma è sicuramente una finanziaria ancora «falsa» o «zoppa», a causa della mancanza di un quadro complessivo, poiché non sono stati presentati sia l'annunciato collegato al disegno di legge in questione sia il provvedimento in materia fiscale.


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Ritengo, comunque, che vi sia sicuramente la drammatica realtà dei tagli (che però adesso si chiamano, in maniera molto garbata ed anche più poetica, «tetti»). Il grave problema che affligge il nostro paese è rappresentato da questo enorme «buco» - che questa volta c'è davvero, come peraltro è stato ammesso dallo stesso Governo -, il quale costituisce un peso gigantesco per le finanze dello Stato.
Vorrei ricordare che sono state svolte severissime analisi dalle massime istituzioni, quali la Corte dei conti e la Banca d'Italia. Quest'ultima ha denunciato la gravità degli squilibri finanziari, evidenziando che la situazione della finanza pubblica, che ha già un deficit pari al 5 per cento del PIL, è ben più grave di quella ammessa dal Governo, poiché mancano all'appello quasi 3 miliardi di euro di mancati introiti del condono edilizio e quasi 7 miliardi di euro di mancate cartolarizzazioni.
Le analisi severissime proseguono, poiché vi sono state la rivolta delle regioni e degli enti locali, le profonde insoddisfazioni delle categorie produttive e le proteste delle organizzazioni sindacali, le quali contestano unitariamente il complesso della politica economica e sociale. Forse, questo disegno di legge finanziaria un merito lo ha avuto: quello di riunificare definitivamente le confederazioni sindacali sulle scelte di politica economica. Si aggrava, inoltre, il degrado di competitività, mentre nel provvedimento in esame mancano totalmente misure a favore del Mezzogiorno, della ricerca e dello sviluppo, della scuola e dell'università e delle politiche sociali.
Il «metodo Gordon Brown», per come è stato «italianizzato», è stato definito dall'ex ministro Vincenzo Visco «una bufala». Personalmente, ritengo che chiamare «tetti» ciò che sono, in realtà, tagli di spesa sia un imbroglio. Infatti, applicare un tetto del 2 per cento ad una spesa che cresce tendenzialmente, ovvero, per effetto di leggi già in vigore, del 5 per cento significa decurtarla del 3 per cento: in altri termini, ciò vuol dire tagliare la spesa (ad esempio, nel settore della sanità), Il vero «metodo Gordon Brown», invece, si caratterizza in un altro modo, trattandosi di un processo politico di selezione delle priorità e di orientamento delle azioni governative, dal momento che viene definito ogni due anni ed ha una valenza triennale, allo scopo di canalizzare le entrate verso le spese ritenute prioritarie. Ciò può essere condivisibile o meno, ma si tratta comunque di un metodo, mentre il nostro non lo è, perché è una «italianizzazione» di una «inglesizzazione»!
Dato che la manovra si compone di 24 miliardi di euro - è la manovra più pesante dal 1992 ad oggi -, il tetto del 2 per cento dà solo due dei 9,5 miliardi di euro di tagli alla spesa di cui è composta la finanziaria; 7,5 miliardi si abbattono, in particolare, sulla sanità: andranno a gravare sulle regioni e sugli enti locali, che saranno costretti a decurtare i servizi.
Non possiamo più parlare di addizionali, perché è stato deciso il blocco delle stesse per tutti gli enti locali; per controllare la spesa, si sceglie di ridurre i servizi. Non vi è, infatti, alcun dubbio che di ciò si tratta, perché gli sprechi - lo sappiamo tutti molto bene - nei comuni - o quelli delle auto blu, come diceva qualcuno - sono veramente ben poca cosa e, comunque, sono ormai ridotti al minimo. Se vi sono sprechi, è giusto tagliarli, ma la filosofia è un'altra: si arriverà all'esternalizzazione dei servizi o al taglio dei servizi stessi.
Ritengo che altri 7 miliardi di euro si ricaveranno da ulteriori cartolarizzazioni e dismissioni, ovvero da una prosecuzione della politica avventuristica degli ultimi anni. Si continua, cioè, nella vendita dei «gioielli di famiglia», che non risolve nessuno dei problemi di fondo. Si ricavano, poi, 7,5 miliardi di euro da maggiori entrate tributarie legate, in particolare, al potenziamento degli studi di settore per i lavoratori autonomi.
Se tale è il disegno di questa legge finanziaria, vi è una totale assenza di politica economica. Ciò emerge in tutta la sua chiarezza e gravità, poiché non vi è una parola sullo sviluppo, né su come rimettere in moto un'economia che cresce


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pochissimo, anche in anni di boom dell'economia mondiale. Non è, infatti, vero che l'economia mondiale non cresce. Siamo noi ad essere isolati in Europa: anche la Francia cresce. Noi aumentiamo le tasse di 7,5 miliardi di euro: di ciò si parla in questa finanziaria, promettendo, tuttavia, di ridurre le tasse di 6 miliardi di euro, con un successivo provvedimento. Si afferma, inoltre, che tale riduzione di 6 miliardi di euro andrà finanziata, ma non si capisce come, poiché non è specificato: si presume con un'equivalente aumento di altre tasse o con tagli di altri servizi.
Questi ragionamenti si avvicinano, dunque, alla farsa, se non addirittura alla tragedia. Si parla, infatti, di tagliare servizi sociali, quali sanità, scuola ed aiuti alle classi sociali più deboli. Non vi è dubbio che di ciò si tratta e non vi è altresì dubbio che con una diminuzione delle tasse non si centrano gli obiettivi di aiuti allo sviluppo o ai consumi, poiché i lavoratori - dipendenti e autonomi - non hanno avuto in questi anni - e non l'hanno nemmeno tuttora, neanche come previsione - una politica salariale in grado di sostenere i propri redditi mensili, sempre più bassi. Vi è stata una caduta della domanda, perché gli italiani sono sempre più poveri. Vi sono stati un aumento dei prezzi e una riduzione dei consumi, a causa di un'insicurezza economica veramente stringente, peraltro aumentata da un senso di precarietà - divenuto strutturale con la legge n. 30 del 2003 - che certamente non aiuta la crescita, ma fa divenire le famiglie italiane sempre più povere.
Penso che dovremmo avere un'altra impostazione di politica economica e sociale. Si dovrebbe guardare alla distribuzione del reddito ed alle politiche di sviluppo, anche attraverso gli aiuti alle medie e piccole imprese, in maniera totalmente diversa.
Allora, in attesa del provvedimento collegato, abbiamo proposto, sia come gruppo Misto-Comunisti italiani sia come centrosinistra, un'altra filosofia, basata sulla fissazione di alcune priorità per quanto riguarda le politiche sociali. Mi riferisco ad una ristrutturazione e ad uno sviluppo della spesa sociale che veda la costruzione di un sistema universale di ammortizzatori sociali, capaci di sostenere l'insieme dei lavoratori nelle fasi di difficoltà. Occorre ripristinare e rivitalizzare i settori della ricerca, dell'informazione, dell'innovazione, della promozione della cultura, settori che sono alla base di una politica di sviluppo economico. Soprattutto in un paese come il nostro, la cultura e i beni culturali, da soli, potrebbero rappresentare la più grande industria di rilancio della nostra economia. Ma, evidentemente, ciò non è assolutamente compreso né condiviso da questo Governo.
Occorrono una politica di restituzione e di aiuti per quanto riguarda i redditi, una distribuzione del reddito, una restituzione del fiscal drag: da 4 leggi finanziarie si dice che dobbiamo restituire il fiscal drag, ma ciò non è ancora avvenuto. Occorrono una clausola di salvaguardia sul trattamento fiscale del trattamento di fine rapporto, una rivalutazione delle pensioni e un paniere più sensibile per i pensionati, al fine di ripristinare un sistema di rivalutazione delle pensioni. Oggi i pensionati al minimo non sono neanche in grado di arrivare alla fine del mese. Altro che un milione al mese per i pensionati! Non ce lo hanno nemmeno tutti e coloro che percepiscono tale reddito - poveracci! - non possono neanche arrivare alla fine del mese in maniera decorosa. Basterebbe chiedere alle mense della Caritas quanto sono affollate, dal 20 di ogni mese in avanti, dai poveri pensionati.
Allora, un piano infrastrutturale con priorità per il Mezzogiorno, ma che certamente - come dicevano altri colleghi - non può partire dal ponte sullo stretto di Messina, politiche ambientali che siano davvero la grande sfida dei nostri anni: di questo si deve parlare oggi in Italia, se non altro per rispettare gli impegni sottoscritti con il Protocollo di Kyoto.
Abbiamo chiesto maggiori garanzie previdenziali per i lavoratori ed il ripristino dell'imposta di successione per i grandi patrimoni: al riguardo, non si faccia demagogia affermando che vogliamo aumentare le tasse! Certamente, vogliamo


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ridistribuire le tasse e gli sforzi fiscali e vogliamo finanziare un selettivo intervento di sostegno alle famiglie più povere con figli minori ed anziani non autosufficienti.
Vogliamo risolvere il problema degli incapienti. Tanti fattori avrebbero potuto essere di grande aiuto per rilanciare lo sviluppo ed il welfare del nostro paese. Invece, con questa legge finanziaria il Governo di centrodestra compie altre scelte, certo non favorevoli alle autonomie locali.
Credo che il sindaco di Roma si trovi costretto a scrivere una lettera aperta al Presidente del Consiglio ed ai Presidenti delle Camere per chiedere una mano. Si tratterebbe di un riconoscimento di tutte le attività cui è chiamata la capitale del nostro Stato. Ogni anno Roma ospita duemila manifestazioni, ma non ha alcun riconoscimento economico o finanziario. Una settimana fa in Campidoglio vi erano i governanti dell'Europa ed anche il Presidente del Consiglio poteva sfoggiare bellezza ed efficienza della città. Tuttavia, lo Stato ha riservato a Roma 304 euro di trasferimenti pro capite, quando la media nazionale per i comuni capoluogo è di 324,47 euro pro capite.
Si tratta di errori, di scelte di fondo veramente devastanti per il nostro paese che avranno ripercussioni serie. Ho parlato di Roma, ma il problema dei tagli si pone per tutti gli enti locali, anche se la capitale è quella più colpita. Ciò è assolutamente inspiegabile.
Vi sono tagli anche nella cooperazione allo sviluppo, verso le società cooperative, verso il settore della casa. Si tratta di un settore già gravemente ammalato perché vive di forti disparità tra le grandi esigenze da un lato e le grandi ricchezze dall'altro. Oggi abbiamo approvato in questa sede un provvedimento riguardante gli sfratti, che è una piccola cosa rispetto al gravissimo problema della politica dell'abitare che non esiste in questo paese. Non mi riferisco soltanto alla legge finanziaria in esame, ma a tutte le leggi di questo Governo.
In conclusione, vedremo cosa presenterete ai cittadini italiani con le vostre future manovre. Di queste ultime non si sa molto: non si sa neanche se le presenterete in questa sede o al Senato, dato che le divisioni tra di voi sono ancora notevoli. In ogni caso, non penso che le scelte che opererete saranno vantaggiose per le classi sociali che intendiamo difendere e per i lavoratori italiani.
Sicuramente la modifica delle aliquote fiscali non risolve un bel niente. Piuttosto aumenta le ingiustizie e le disparità a danno dei più deboli e non riesce sicuramente a rimettere in moto un'economia virtuosa e di sviluppo, della quale avrebbe bisogno il nostro paese.

PRESIDENTE. Constato l'assenza dell'onorevole Sergio Rossi, iscritto a parlare; si intende che vi abbia rinunciato.
È iscritto a parlare l'onorevole Stradiotto. Ne ha facoltà.

MARCO STRADIOTTO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor rappresentante del Governo, il disegno di legge finanziaria che il Governo propone per il 2005 sembra non tenere conto della reale situazione economica del nostro paese. La manovra finanziaria, infatti, non contiene quei provvedimenti tesi a dare risposta alla necessità di rilanciare i consumi interni, le esportazioni e gli investimenti infrastrutturali. Per quanto riguarda i consumi, stiamo assistendo ad una forte flessione degli stessi, determinata dal fatto che sempre più persone non riescono ad arrivare alla fine del mese, tanto che nell'ultima settimana di ogni mese si assiste ad un vero e proprio crollo dei consumi, proprio perché i portafogli sono vuoti. L'inflazione in questi anni ha colpito soprattutto le classi più deboli e i percettori di redditi fissi.
Se si vogliono rilanciare i consumi, bisogna quindi partire proprio dalle classi più deboli, prevedendo specifiche misure che aumentino il potere di acquisto delle stesse. Oltre al rallentamento dei consumi, stiamo assistendo al sensibile calo delle nostre esportazioni, a causa della perdita di competitività dei nostri prodotti nei mercati internazionali. Se al calo dei consumi


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e delle esportazioni aggiungiamo che nel tetto del 2 per cento sulla spesa, previsto da questa finanziaria, vengono inserite anche le spese in conto capitale, si comprende che a subire una grande contrazione sono proprio gli investimenti per le infrastrutture.
Lo sviluppo economico di una nazione si basa normalmente su tre pilastri: i consumi interni, le esportazioni e gli investimenti infrastrutturali. Questa finanziaria non incide su nessuno di questi tre pilastri fondamentali; anzi, alcuni provvedimenti tendono piuttosto ad indebolirli. Spesso vengono portati ad esempio altri Stati europei, come la Germania e la Francia. Ebbene, la Francia ha qualche problema di rapporto tra deficit e PIL, come l'Italia, ma consumi, esportazioni e investimenti infrastrutturali hanno indici positivi. La stessa Germania ha problemi sui consumi, ma esportazioni e investimenti infrastrutturali tengono bene.
Per correggere l'andamento dei consumi servirebbe una finanziaria che si ponesse come obiettivo quello di aumentare le disponibilità economiche delle classi più deboli, dei percettori dei redditi fissi e delle famiglie, prevedendo gli strumenti della restituzione del fiscal drag e consistenti detrazioni per le famiglie con figli a carico, attraverso la fiscalizzazione degli oneri sociali; il tutto, in modo da ottenere un innalzamento del reddito disponibile. Ciò deve essere accompagnato da una politica seria di contenimento dell'inflazione, a partire dal costo dei servizi pubblici, per arrivare al costo dei singoli prodotti, che spesso subiscono delle vere e proprie speculazioni nel tragitto che va dal produttore al consumatore. A tale proposito, basti ricordare che i nostri agricoltori, ad esempio, realizzano per i loro prodotti gli stessi prezzi che realizzavano cinque anni fa, mentre gli stessi prodotti i consumatori li trovano con aumenti anche del 300 per cento.
Il mix determinato dall'aumento del reddito disponibile e dalla diminuzione dell'inflazione reale determinerebbe un immediato rilancio dei consumi, con effetti benefici per l'economia e con benefici diretti anche per i percettori dei redditi più alti, che con il rilancio dei consumi vedrebbero ripartire le proprie produzioni. Per quanto riguarda il problema del recupero di competitività dei nostri prodotti bisogna promuovere e proteggere il made in Italy, così come bisogna incentivare gli investimenti privati per la ricerca e l'innovazione; il tutto, accompagnato da forti investimenti pubblici, nel settore della ricerca e dell'università.
Nell'economia globale, la nostra forza deve essere quella di vincere la sfida sul campo della qualità e dell'innovazione. Per quanto riguarda gli investimenti, vanno tolti i limiti di spesa sulle spese in conto capitale. Dalla maggioranza, dal relatore e dal Governo ci aspettiamo una vera finanziaria per lo sviluppo. Una finanziaria, che partendo dal rilancio dei consumi, delle esportazioni e degli investimenti strutturali, affronti i veri nodi che affliggono la nostra economia.
Leggiamo dai giornali che la vostra proposta strategica di sviluppo prevede lo sconto sulle tasse per i ricchi, a scapito delle persone e delle categorie più deboli. Speriamo non sia la realtà, perché così facendo non darete alcuno stimolo alla ripresa della nostra economia.
Il disegno di legge finanziaria, così come approvato ieri dalla Commissione bilancio, non contiene né le nostre proposte per lo sviluppo né le vostre; prevede una manovra di 24 miliardi di euro, quasi 48 mila miliardi di vecchie lire, fra maggiori entrate e minori spese.
Non voglio soffermarmi sulle maggiori entrate, anche se è facile comprendere che, sul piano fiscale, vi sarà un inasprimento per le piccole imprese e, in questo caso, forse non vi state rendendo conto che le piccole aziende commerciali ed artigianali stanno affrontando un periodo di grande difficoltà e non tutte saranno in grado di affrontare un inasprimento fiscale.
Vorrei soffermarmi sul meccanismo della riduzione delle spese: viene previsto un taglio alle spese pari a 9,5 miliardi di


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euro, di cui 1,9 miliardi per i ministeri e la restante parte per gli altri settori della pubblica amministrazione.
Riteniamo che una sana gestione del bilancio debba partire proprio dalla riduzione delle spese, eliminando gli sprechi e le spese inutili, ma ciò non si ottiene proponendo tagli indifferenziati.
Con il tetto di aumento della spesa del 2 per cento sull'intera spesa della pubblica amministrazione, avremo in alcuni settori tagli anche del 70 per cento ed in altri gli sprechi resteranno. Il famoso tetto del 2 per cento sulla spesa presentato dal ministro, con il segno della generosità di un Governo che non taglia la spesa, alla prova dei fatti mostra ciò che l'opposizione ha detto fin dall'inizio. Non intervenendo sulle leggi che alimentano la spesa obbligatoria, che cresce più del 2 per cento, occorre intervenire con tagli radicali sulla spesa facoltativa. Basta fare qualche esempio di ciò che significa l'applicazione della regola.
Parliamo di lotta all'evasione fiscale. La Guardia di finanza vede ridotto del 10 per cento lo stanziamento per i mezzi operativi e strumentali. Vogliamo aiutare le nostre aziende a vincere la sfida sui mercati esteri? I fondi per l'internazionalizzazione ed il made in Italy sono ridotti del 20 per cento.
Esiste un problema di sicurezza? I carabinieri vedono ridotti del 20 per cento i mezzi per il funzionamento dei sistemi informatici.
Senza banche dati efficienti, come si combatte il crimine? Per la pubblica sicurezza i tagli arrivano addirittura al 70 per cento per i fondi sui mezzi operativi. Se questa è la misura per lo Stato centrale, la ricetta non cambia per il sistema delle autonomie. Quattro miliardi di euro devono essere risparmiati dalle regioni per la sanità; per gli enti locali vengono previsti 1,2 miliardi di risparmio con il patto di stabilità e 550 milioni di minori trasferimenti.
È facile capire che questi tagli e vincoli produrranno aumento dei ticket, delle liste di attesa, dell'ICI, della tassa asporto rifiuti, dei buoni pasto, delle rette degli asili nido e delle case di riposo. Produrranno una vera e propria macelleria sociale nei confronti delle classi deboli e delle famiglie con figli a carico.
In particolare, vorrei soffermarmi sugli enti locali. Le norme previste da questa finanziaria ledono l'autonomia degli enti locali. Molte norme sono di dubbia costituzionalità. La norma sul patto di stabilità, che blocca la possibilità di aumentare le spese correnti e in conto capitale dei comuni, è sicuramente anticostituzionale. Prevedere, infatti, una norma che blocca la spesa senza tener conto delle entrate, impedisce agli enti locali di dare nuovi servizi anche se completamente a carico dei cittadini.
Il patto di stabilità, previsto dal trattato di Maastricht, prevede tre parametri: il rapporto deficit-PIL, che non può superare il 3 per cento, il rapporto debito-PIL, che non può superare il 60 per cento, ed il fatto che l'inflazione non debba superare determinati limiti.
Pongo al relatore ed al rappresentante del Governo la seguente domanda: perché vi ostinate a porre l'attenzione sulla spese, invece di basarvi sui saldi, visto che sapete benissimo che i comuni non possono produrre deficit? Possono produrre, invece, debito e, infatti, in questo senso, ho colto positivamente l'emendamento del relatore che blocca la possibilità di ricorrere ai mutui per gli enti che superano determinati limiti di indebitamento.
Tuttavia, relativamente al deficit, la questione è diversa e cerco di spiegarlo. Se, da una parte, risulta che, nel suo complesso, la pubblica amministrazione sta sfondando il tetto del 3 per cento rispetto al PIL e, dall'altro, sappiamo che gli enti locali non possono produrre deficit, è chiaro che, se come stimato dal Servizio studi della Camera, il tetto sulla spesa produce 1.200 milioni di euro di minori spese, di risparmi, ciò significa che altre amministrazioni, che non sono nel rispetto dei parametri di Maastricht, approfittano dei risparmi prodotti dagli enti locali.
Se non volete modificare il metodo di calcolo del patto di stabilità, prevedendolo


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sui saldi tra entrate e spese, almeno riducete il danno recependo quegli emendamenti che innalzano il limite oltre il quale si applica, cioè ai comuni oltre i 5 mila abitanti e togliete dal calcolo le spese in conto capitale e le entrate straordinarie!
L'altra questione relativa agli enti locali è quella dei trasferimenti. Dopo i tagli del 2003 e del 2004, vi sono ulteriori tagli anche nel 2005. Invito i colleghi, i relatori e il Governo a leggere l'ottimo dossier prodotto dal Servizio studi della Camera, il n. 104, dal quale si può rilevare che, rispetto al 2004, nelle unità previsionali di base mancano, per il 2005, 542 milioni di euro. Se confrontiamo poi i dati contenuti nella tabella che fa il riassunto storico dei trasferimenti, ci accorgiamo che, confrontando i trasferimenti del 2002 con le previsioni del 2005, mancano 1.185 milioni di euro. Se teniamo conto che in questi quattro anni l'aumento dell'inflazione ha inciso per circa il 9,5 per cento, è facile comprendere che tra minori trasferimenti e perdita di capacità di acquisto, le amministrazioni locali, nel 2005, per acquistare gli stessi beni ed erogare gli stessi servizi del 2002, devono trovare maggiori risorse pari a 2.485 milioni di euro. Ciò significa o riduzione dei servizi o aumento del prezzo degli stessi, aumentando le tariffe, l'ICI, la tassa asporto rifiuti, il buono pasto e così via.
Come vedete, non ci siamo limitati a criticare, ma vi stiamo proponendo, sugli enti locali e in generale, una serie di iniziative concrete che spero vogliate recepire. Con riferimento al patto di stabilità degli enti locali sarebbe opportuno: prevedere il calcolo sui saldi e non solo sulla spesa; escludere dal vincolo i comuni fino a 5 mila abitanti; escludere dal calcolo le spese in conto capitale e le spese coperte da entrate straordinarie; aumentare i trasferimenti ai comuni, garantendo almeno gli stessi trasferimenti del 2003; prevedere la possibilità di applicare le addizionali IRPEF ai comuni con trasferimenti scarsi, i cosiddetti comuni sottodotati economicamente; togliere dal calcolo le spese in conto capitale già impegnate alla data di oggi.
Per rilanciare lo sviluppo proponiamo: più investimenti per la ricerca e il capitale umano; la lotta al carovita; il rilancio dei consumi aiutando le categorie più deboli; investimenti pubblici fuori dal limite del 2 per cento; più aiuti alle famiglie con figli a carico; lotta all'evasione fiscale e al sommerso.
Lo so, la vostra proposta è quella di fare lo sconto sulle tasse dei ricchi; a noi pare che la nostra proposta sia di maggiore buonsenso, valutatela (Applausi dei deputati dei gruppi della Margherita, DL-L'Ulivo e dei Democratici di sinistra-L'Ulivo)!

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Maurandi. Ne ha facoltà.

PIETRO MAURANDI. Siamo alla quarta legge finanziaria del Governo Berlusconi e devo dire che la stessa rivela una maggiore consapevolezza, rispetto alle altre, della crisi dell'economia italiana e dei rischi della finanza pubblica.
C'è stato un lento e tormentato passaggio dall'idea del nuovo miracolo economico della prima finanziaria al riconoscimento della crisi e della necessità di misure appropriate per affrontarla. E non si può affermare che si è trattato solo di errori di previsione, che tutti si sono sbagliati!
Quando noi denunciammo come un errore grave l'idea del nuovo miracolo economico, da voi venivamo chiamati catastrofisti. È accaduto ben di peggio di un errore di previsione, è accaduto che è in corso una ripresa economica nel mondo e in minor misura in Europa, ma l'Italia non riesce ad agganciarla.
Naturalmente, questa situazione si riflette in qualche misura sulle difficoltà della finanza pubblica, ma in quelle difficoltà ci avete messo del vostro. Nello stato attuale della finanza pubblica c'è la vostra impronta inconfondibile: siete riusciti a ridurre l'avanzo primario che vi è stato consegnato nel 2001, siete riusciti a


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ridurlo in tre anni di tre punti percentuali, siete riusciti perfino a peggiorare i saldi anche in presenza di una diminuzione della spesa per interessi. Quindi, non vi sono semplici difficoltà della finanza pubblica, ma un vero e proprio fallimento della vostra politica.
Il nuovo ministro dell'economia sembra rendersi conto di ciò, cioè del fatto che la finanza pubblica è fuori controllo e che è a rischio il patto di stabilità. Dunque, appena nominato corre a Bruxelles, vara una manovra di 7,5 miliardi di euro e ora una manovra di 24 miliardi.
Non critichiamo la necessità della manovra: è chiaro che quando la casa brucia, bisogna pur spegnere l'incendio. Deve però essere chiaro che il fuoco lo avete appiccato voi!
Il relatore stasera si è sforzato di argomentare che nella legge finanziaria non esiste un'operazione di chiarezza, perché la chiarezza sull'andamento della finanza pubblica è sempre stata presente. Ma davvero? Allora perché siamo arrivati a questo, ovvero alla necessità di una manovra, corrispondente a 24 miliardi, sommati ai 7,5 miliardi della manovra di luglio? Le misure tampone, la sopravvalutazione delle entrate, la sottovalutazione delle uscite, le previsioni ottimistiche, l'attesa della ripresa che verrà, i regali agli evasori, i condoni di ogni tipo, le misure una tantum così criticate lo scorso anno anche in sede di Unione europea, lo sfondamento delle previsioni di spesa nella legislazione ordinaria hanno fatto sorgere il rischio di sfondare i parametri del patto di stabilità. Da tutto ciò nascono la manovra di luglio e quella operata con la legge finanziaria all'esame. È questa la chiarezza che non c'era, e ancora non c'è, se non in una generica e maggiore consapevolezza dello stato della finanza pubblica, alla quale non seguono decisioni coerenti ed efficaci.
Quindi, non critichiamo la necessità della manovra, bensì il modo con cui è organizzata, perché ai nostri occhi appare come la manovra più sgangherata di tutte. Infatti, i 24 miliardi vengono reperiti attraverso dismissioni, previsioni di aumenti di entrate con quella che pudicamente definite «la manutenzione del gettito», ma che in sostanza non è che un aumento della pressione fiscale. Inoltre, operate tagli di spesa per 9,5 miliardi che gravano in buona misura sui trasferimenti alle regioni e agli enti locali. Esistono fondate ragioni per dubitare che le vostre misure tengano, siano sostenibili e raggiungano effettivamente gli obiettivi che vi proponete.
C'è poi il patetico tentativo di spacciare per aumenti di spesa quelli che in effetti sono tagli. Non possono essere che tagli, se i ragionamenti hanno un senso. Il ministro, il relatore e il sottosegretario sanno bene che in sede di legge finanziaria si lavora sulle previsioni e sui dati tendenziali. La manovra si rende necessaria proprio perché gli andamenti tendenziali mettono a rischio di sfondamento il tetto del rapporto deficit-PIL al 3 per cento. Voi, invece, in modo disinvolto avete scritto negli articoli 2 e 3 del disegno di legge «aumento della spesa, entro il tetto del 2 per cento». Naturalmente - è questa la furbizia - fate riferimento al dato preconsuntivo dell'anno precedente, non alla spesa prevista. Si tratta di un modo un po' cialtrone per dissimulare la realtà e confondere le carte, imbrogliare l'opinione pubblica e dare al Presidente del Consiglio un giocattolo con cui girare l'Italia - come è avvenuto - a dire che la spesa pubblica, nientemeno, aumenterà.
Si tratta di un messaggio falso e sbagliato. Dopo le nostre insistenti richieste di chiarezza e trasparenza, avanzate in sede di Commissione bilancio, avete parzialmente corretto il tiro. Infatti, l'articolo 3, modificato da un emendamento del Governo presentato dietro le nostre insistenze, reca scritto quello che effettivamente è: «le dotazioni di competenza e di cassa sono ridotte - e sottolineo ridotte - secondo la tabella allegata». Si tratta di un'operazione di chiarezza ancora parziale, dovuta alle nostre insistenze in Commissione, che peraltro riprenderemo in aula.
In questa finanziaria è poi presente la vostra consueta ricetta: tagli alle regioni,


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agli enti locali e al Mezzogiorno. Il Mezzogiorno doveva essere il motore del nuovo miracolo economico. In verità, per alcuni anni la crescita del PIL al Sud è stata superiore alla media nazionale. Questo era il risultato di politiche di sviluppo predisposte dal governi di centrosinistra. Al contrario, ora la crescita sta scendendo di nuovo al di sotto della media nazionale. Anche questo è un risultato, quello della liquidazione delle politiche di sviluppo da voi perseguito.
Così è per il tasso di occupazione, cresciuto, ma ancora largamente al di sotto del tasso medio nazionale in ragione di 11 punti percentuali.
Così è per il tasso di disoccupazione, che rimane largamente al di sopra del dato medio nazionale (è di fatto il doppio). Avevate scritto in un DPEF che il Mezzogiorno doveva crescere al di sopra della media nazionale per colmare il divario con la parte più sviluppata del paese. Si trattava di una banalità aritmetica, facile a dirsi. Tuttavia, ciò non accade. Accade invece che avete congelato o cancellato le politiche di sviluppo (si pensi, ad esempio, al credito di imposta). Accade che i fondi stanziati dalla legge finanziaria vengano nuovamente scaglionati, come lo scorso anno, alla fine del periodo, in gran parte nel 2007, per una somma pari a 7.800 milioni di euro. Ciò vuol dire spostare in avanti l'utilizzazione delle risorse, e dunque, nella migliore delle ipotesi, spostare in avanti il raggiungimento degli obiettivi, mentre sarebbe necessaria un'accelerazione.
Il Governo afferma che non servono nuovi fondi, perché le regioni meridionali non riescono a spendere quelli esistenti. Non intendo entrare nel merito di tale affermazione, sulla quale ritorneremo nel corso del dibattito. Tuttavia un intervento è necessario, se il divario non accenna a diminuire. Servono nuovi strumenti e nuove politiche, ma nel disegno di legge finanziaria non vi è alcuna strategia per il Mezzogiorno: né nuovi fondi, né nuovi strumenti di intervento. Le nostre proposte al riguardo sono state respinte, e si è fatto ricorso a un palliativo: non si può spacciare la proposta di flessibilità del Fondo per le aree sottoutilizzate come un nuovo strumento. Si tratta in realtà di due emendamenti presentati in modo affrettato dal Governo, pasticciati, incomprensibili e, soprattutto, non operativi.
Il relatore sostiene che non è più differibile la revisione degli strumenti sperimentati per lo sviluppo del Mezzogiorno e che è necessario ripensarli: onorevole relatore, è da tre anni che lo sentiamo dire, la sua affermazione non è originale! In tre anni abbiamo visto lo smantellamento di strumenti esistenti, sostituiti dal nulla.
La realtà è che questa legge finanziaria si tiene ben lontana dai problemi veri dell'economia italiana, mentre aleggia sulla nostra discussione la promessa, anch'essa formulata da alcuni anni, della riduzione delle imposte dirette. Ne discuteremo quando riuscirete a presentare al Parlamento una proposta chiara e univoca, facendola uscire dalle fumosità dei conciliaboli nella maggioranza. Ciò che proponete, in qualunque versione sia proposto, non affronta né il problema della competitività né quello dell'iniquità distributiva, che costituiscono le questioni cruciali dell'economia e della società italiana. Non si affronta il problema della competitività, perché non è vero che minori imposte inducano di per sé maggiori investimenti, e meno che mai nei settori cruciali dell'economia: tale problema si affronta con il finanziamento della ricerca (ci occuperemo successivamente del modo in cui questa legge finanziaria, ancora una volta, tratta l'università e gli istituti di ricerca) e sostenendo l'innovazione e gli investimenti, con lo sviluppo del tessuto produttivo del Mezzogiorno.
Quanto all'iniquità distributiva, essa si contrasta con la lotta all'inflazione, con il controllo delle tariffe, con un sistema di welfare equo e solidale (non come quello che state mettendo in piedi), con il sostegno a tutte le pensioni basse (e non soltanto ad una parte di esse), con politiche per la casa, con la lotta all'evasione fiscale, con l'espansione dell'occupazione non precaria e con la restituzione del fiscal drag, che avete scippato ai contribuenti.


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Con la vostra proposta di riduzione delle imposte l'iniquità distributiva aumenterà, e se ne sono accorti finalmente alcuni partiti e alcuni esponenti della maggioranza. D'altra parte, l'iniquità viene apertamente teorizzata, quando il Presidente del Consiglio afferma che bisogna ridurre le imposte ai ricchi.
La vostra opera di smantellamento della coesione della società italiana è più che mai in cammino, il vostro controllo della finanza pubblica è più che mai improbabile e questa legge finanziaria ne è la chiara e puntuale conferma: da ciò discende la nostra chiara e puntuale opposizione (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-L'Ulivo e Margherita, DL-L'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Titti De Simone. Ne ha facoltà.

TITTI DE SIMONE. Le conseguenze che questa manovra finanziaria avrà sull'insieme del sistema della formazione e della cultura sono gravi, in continuità con le manovre finanziarie precedenti di questo Governo, e si inseriscono nel quadro generale di una politica di controriforma che sta ristrutturando il sistema dell'istruzione pubblica.
Dalla legge n. 53 del 2003, la cosiddetta riforma Moratti (e la sua complementarità alla legge n. 30 del 2003), alla devolution e alle proposte di legge attualmente in esame, ad esempio quella sullo stato giuridico della docenza, questi provvedimenti arrecano un vulnus ai principi e ai diritti universali sanciti dalla nostra Costituzione.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE ALFREDO BIONDI (ore 18,47)

TITTI DE SIMONE. Non vi è, ovviamente, quell'inversione di tendenza che sarebbe necessaria per restituire centralità all'investimento pubblico sulla scuola, l'università e la ricerca come settori strategici per il nostro paese. Anzi, si persegue la logica dei risparmi e della precarizzazione, incidendo in termini di dequalificazione dell'intero sistema. Un'inversione di tendenza, invece (quella che noi proponiamo ad esempio con i nostri emendamenti), appare quanto mai necessaria alla luce di ciò che i tagli prodotti dalle vostre politiche e dalla riforma Moratti hanno determinato sulla scuola pubblica. Vi sono 250 mila insegnanti precari, ma non vi è uno straccio di immissione in ruolo neanche in questa legge finanziaria. Vi sono drammatici tagli agli organici, tanto che scuole nuove di zecca non possono aprire: un elemento paradossale e gravissimo. I posti per docenti nella scuola diminuiscono di 35 mila unità ed il personale tecnico-amministrativo di 9.600, a cui si aggiungono le migliaia di posti persi negli ultimi tre anni per gli amministrativi e i tecnici.
Quali sono le conseguenze di ciò sul sistema della scuola pubblica è facile comprenderlo e lo vediamo tutti i giorni: classi sovraffollate, taglio del tempo pieno e prolungato, liste di attesa interminabili per la scuola dell'infanzia. Ed è legge, paradossalmente, proprio quel provvedimento sulla generalizzazione della scuola dell'infanzia cui però, in questa legge finanziaria, non si destina alcuna risorsa certa.
Vi sono dunque meno risorse e meno qualità del sistema pubblico, con una conseguente precarizzazione della figura dei docenti. È un disastro che ricade innanzitutto sui ragazzi e sulle ragazze; la loro formazione, una formazione pubblica e di qualità per tutti e per tutte, è determinante per lo sviluppo sociale, culturale ed economico del paese. Perché la scuola è innanzitutto pratica di libertà, a partire dall'importanza di disporre sia di una cultura critica per affrontare le complessità e i problemi di questo mondo, sia di una coscienza civile e democratica, di cui proprio la scuola è fondamentale luogo di formazione.
Abbiamo bisogno di una grande scuola pubblica: voi ce ne offrite una sempre più povera. La vostra è la scuola che divide, che ripropone un'idea classista: ai ricchi scuole per ricchi, agli altri una scuola pubblica povera, nozionistica e antistorica,


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frammentata e chiusa nella logica delle piccole patrie. La vostra è una scuola che comprime il tempo dello studio, dello sviluppo personale - diritto fondamentale - e spinge verso una canalizzazione precoce, verso nuove versioni di apprendistato, del tutto subalterne al mercato del lavoro. Avevate promesso e sbandierato soldi e risorse, ma non avete mantenuto tali promesse.
La scuola è nel caos e lo conferma l'avvio di un anno scolastico che vede ancora tantissime regioni e grandi aree metropolitane senza designazioni regolari degli organici. La furia dei tagli delle precedenti leggi finanziarie e della riforma Moratti ha lasciato quest'anno moltissime scuole senza tempo pieno e migliaia di famiglie senza scuola dell'infanzia; tanto che, proprio in questi giorni, a Soliera, in Emilia Romagna, 21 famiglie hanno deciso di autotassarsi, ognuna per diverse centinaia di euro, per poter pagare i docenti e i bidelli di una scuola materna alla quale il ministero non ha concesso personale.
Credo che siamo di fronte ad una situazione del tutto paradossale, che non si è mai verificata nel nostro paese; e di esperienze e situazioni di questo tipo, purtroppo, se ne stanno moltiplicando un po' dappertutto.
La vostra è una finanziaria di guerra, e pertanto a pagarne le spese è, innanzitutto, lo Stato sociale, a cui voi sottraete risorse ed investimenti, mentre il potere di acquisto di salari e pensioni si riduce drammaticamente.
Voi date alla guerra e togliete alla scuola, alla sanità, alla ricerca e, se a ciò aggiungiamo i tagli agli enti locali, pesantissimi, previsti in questa legge finanziaria, il quadro diventa davvero insostenibile per le famiglie, per gli studenti, sotto il profilo sociale; i tagli ai servizi naturalmente saranno le conseguenze più drammatiche e, fra questi, a quelli scolastici di competenza degli enti locali, che sono tanti, e alle risorse disponibili per il diritto allo studio.
Il Governo ha gridato ai quattro venti che la legge finanziaria non avrebbe apportato tagli alla scuola, ma non è così! Sugli organici pesano gli effetti della legge Moratti, cui si aggiunge una ulteriore riduzione di 6.500 posti nella scuola elementare per gli effetti delle norme restrittive sull'insegnamento della lingua straniera, che voi introducete con questa legge finanziaria: corsi di formazione obbligatori per docenti già in servizio ma che non hanno i requisiti per insegnarla. Qual è la conseguenza di questo? Risparmiare a sfavore della qualità, ridurre il numero di posti del personale dotato dei titoli per insegnare la lingua straniera: altro che scuola delle tre «i»!
Inoltre, non vi è traccia del piano pluriennale per le quindicimila assunzioni promesse, fra l'altro briciole a fronte degli oltre centomila posti vacanti nella scuola di cui ci sarebbe bisogno, visto che il numero di studenti è nettamente aumentato negli ultimi anni. Di questo piano pluriennale, che fra l'altro è stato anche adottato con una legge approvata da questo Parlamento che ha impegnato il Governo a predisporlo, nella legge finanziaria non vi è traccia, come non vi è traccia di una sola risorsa in questa direzione; anzi, al contrario, si persegue la strada della precarizzazione, che è un elemento strutturale della scuola morattiana: meno scuola, meno insegnanti, meno tempo per studiare, meno risorse, meno diritti, meno futuro per il paese diciamo noi!
È anche la conferma dello stanziamento di 375 milioni di euro: l'unico stanziamento per i servizi scolastici, previsto in questa legge finanziaria, è finalizzato all'espansione del sistema degli appalti di pulizia, dando così continuità alle norme previste nelle precedenti leggi finanziarie, in base alle quali è possibile l'istituzione di nuovi appalti (esternalizzando, ovviamente), in cambio di un'ulteriore riduzione degli organici dei collaboratori scolastici; una scelta, anche questa, che aumenta la fascia del precariato.
Fra l'altro, le risorse sarebbero sufficienti, ed è questo l'elemento davvero inconcepibile, per stabilizzare tutti i precari tecnico-amministrativi della scuola ed i lavoratori ex LSU, che navigano ancora nella totale insicurezza. È quello che fra l'altro noi proponiamo (la stabilizzazione


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di questi lavoratori) con gli emendamenti che saranno in discussione a partire da lunedì prossimo.
Proponiamo, al contempo, anche un piano di immissione in ruolo per i docenti a fronte di tutti i posti vacanti. Del più volte annunciato piano pluriennale del Governo per finanziare la legge n. 53 del 2003, la cosiddetta legge Moratti, si vedono solo le briciole; potremmo dire per fortuna, visto che parliamo di una riforma che sta letteralmente sfasciando la scuola pubblica e che la sta destrutturando pezzo per pezzo. Il problema è che le «briciole», quando sono contenute in una legge finanziaria, diventano macigni che ricadono pesantemente sulla qualità della scuola pubblica!
Ad esempio, le risorse per il finanziamento della legge n. 440 del 1997, quelle che l'autonomia destina alle scuole, sono ridotte del 2 per cento; e, se consideriamo anche i tagli previsti per il bilancio del ministero, abbiamo un'idea più precisa delle pesanti conseguenze che ciò produrrà sull'offerta formativa, sull'acquisto di beni e servizi, sulle direzioni regionali, e così via.

PRESIDENTE. Onorevole Titti De Simone, dovrebbe concludere.

TITTI DE SIMONE. In estrema sintesi: l'edilizia scolastica conta su pochissime risorse; la musica non cambia per l'università e la ricerca; l'incremento del fondo di finanziamento ordinario è solo del 2 per cento; con lo sbarramento del 2 per cento sarà impossibile prevedere assunzioni, mentre la nostra università necessita di nuovi ricercatori e della stabilizzazione dei troppi precari. Scandalosamente, mentre si penalizzano le università e gli enti pubblici di ricerca, si aumentano i finanziamenti per le università private del 9 per cento!
La nostra idea della scuola, dell'università e della ricerca si fonda sul rilancio dell'investimento pubblico, sul diritto allo studio, su un piano di assunzione di ricercatori e di insegnanti, sull'innalzamento dei limiti di reddito per l'esonero dal pagamento delle tasse scolastiche, sulla generalizzazione della scuola dell'infanzia. La proporremo in sintonia con la grande mobilitazione in atto nel mondo della scuola, nell'ambito della quale è previsto uno sciopero generale per il 15 novembre. (Applausi dei deputati dei gruppi di Rifondazione comunista e della Margherita, DL-L'Ulivo).

PRESIDENTE. La ringrazio, onorevole Titti De Simone.
È iscritto a parlare l'onorevole Gerardo Bianco. Ne ha facoltà.

GERARDO BIANCO. Signor Presidente, signor sottosegretario, colleghi, le prime dichiarazioni del nuovo ministro dell'economia e delle finanze ci avevano fatto ben sperare. Finalmente, sembrava che all'illusionismo subentrassero la chiarezza dei dati e la capacità di dire tutto fino in fondo, anche le cose spiacevoli.
Niente più oroscopi e fantasiose proiezioni di sviluppo economico (così com'era avvenuto in occasione dell'esame della prima legge finanziaria di questo Governo) non più «creatività condonatrice» ma conti ben fatti, dati certi, valutazioni realistiche: ecco cosa ci aspettavamo per offrire anche il nostro contributo costruttivo.
Ma l'operazione verità sullo stato della finanza pubblica si è presto interrotta! Il dibattito politico ha preso un'altra piega, distorta e priva di un disegno strategico, che non poteva non avere il suo punto di forza in un obiettivo: rilanciare l'economia del paese ed arrestarne, così, il declino. Occorreva, quindi, individuare i centri nevralgici sui quali agire, stimolandone la vitalità.
Invece, l'attenzione si è spostata quasi esclusivamente - ne è nata una vera e propria querelle - sulla riduzione delle tasse: un obiettivo da raggiungere, non un punto di partenza. Quando Berlusconi ha ribadito la volontà di ridurre le tasse richiamandosi a Bush, nei miei ricordi è emersa una celebre canzone di Renato Carosone che anche lei, signor Presidente, ricorderà: Tu vuo' fa' l'americano! L'equazione


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tra riduzione delle tasse e vittoria elettorale, senza equità e senza giustizia sociale, è solo un rozzo disegno politico.
Vorrei rivolgerle una domanda, paziente sottosegretario Vegas che ha seguito i nostri lavori in occasione dell'esame di tutti i disegni di legge finanziaria di questo Governo: davvero ritiene che questo sia il modo migliore per rilanciare l'economia del paese?
Peraltro, dalle prime ammissioni del ministro, sembrava che ristrettissimi fossero gli spazi per simili manovre, che rischiano di compromettere i conti pubblici senza produrre gli effetti sperati di rilancio dei consumi e di ripresa generale dell'economia. Prevalgono, invece, altre logiche, di tipo propagandistico, che poco hanno a che fare con una buona conduzione del nostro sistema sociale ed economico.
C'è da chiedersi dove trovare, in questo disegno di legge finanziaria, un principio di giustizia nel favorire, per esempio, i redditi più alti, com'è stato ribadito dai colleghi dell'opposizione, e, quindi, anche nel continuare a favorire le regioni più ricche, dove questi redditi saranno concentrati. C'è da domandarsi verso quali consumi ed investimenti si indirizzeranno le maggiori disponibilità, se non verso acquisizioni effimere, semmai beni di lusso, vacanze, che certo non contribuiranno ad allargare la base produttiva del paese.
Che l'ingiustizia di una tale linea ostinatamente perseguita sia palese, lo dimostrano le reazioni di una parte della stessa maggioranza, con proposte correttive, in verità, piuttosto di facciata, ispirate da inclinazioni, diciamo così, compassionevoli, ma che certo non sono orientate da una robusta e consapevole concezione di politica economica e sociale. Significa qualcosa, peraltro, la freddezza con la quale lo stesso mondo imprenditoriale, ossia una parte che dovrebbe essere beneficiaria di questi provvedimenti, ha accolto la proposta della detassazione, ben sapendo che altri sono i tasti sui quali operare per un effettivo e duraturo rilancio del nostro apparato produttivo.
Non mi soffermo sulle nefaste conseguenze anche sociali e depressive e sui trasferimenti dei carichi fiscali che si verificheranno, per esempio, con la riduzione delle risorse alle autonomie locali. Ne hanno parlato molto bene, poco fa, e lo hanno dimostrato i colleghi Duilio, Stradiotto, Michele Ventura e Maurandi. Che questa legge finanziaria sia piuttosto debole lo hanno dimostrato anche i relatori. Nelle loro relazioni vi sono tante riserve ed è evidente l'imbarazzo con il quale hanno presentato la proposta.
Piuttosto, signor Presidente, desidero soffermarmi su una sola questione che caparbiamente continuo a ritenere decisiva per l'intero paese anche ai fini dello sviluppo e della competitività del sistema. Intendo soffermarmi sul Mezzogiorno, il grande dimenticato dal Governo Berlusconi. Mi pare che si mostrino sempre più consapevoli dell'importanza del sud sia i sindacati sia il mondo confindustriale. Che la concertazione riparta dal sud è un segnale altamente significativo, che dimostra come questo tema stia riemergendo nell'agenda politica e si ripresenti in tutta la sua rilevanza per un nuova stagione espansiva e di modernizzazione dell'intero sistema. Lo hanno capito gli imprenditori e i sindacati, ma non il Governo.
Restano ancora sordi gli esponenti del Governo ed è piuttosto stupefacente che un suo collega, piuttosto noto per il suo trasformismo politico, abbia ironizzato su questa concertazione, quando il campo da arare è davanti ai vostri occhi. Avrebbe dovuto significare qualcosa anche in un andamento economico piuttosto piatto il fatto che sia risultato più dinamico il sud rispetto al nord e ciò, come ha osservato un sottile studioso della realtà meridionale, che lei sicuramente conosce, signor sottosegretario, il professor Vieste, a circa dieci anni di distanza dalla grande svolta che abolì l'intervento straordinario nel sud.
Quei segni di vitalità che, dalla metà degli anni Novanta fino al 2001, si erano manifestati andavano energicamente sostenuti con scelte politiche coerenti ed appropriate. Si è, invece, preferito smantellare


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provvedimenti di sostegno esistenti e varare velleitarie manovre finanziarie che, di fatto, hanno abolito il Mezzogiorno. Non un'astiosa polemica dell'opposizione, ma le precise, prudenti e serie analisi della Svimez, che dovrebbero essere lette dagli uomini del Governo, dimostrano l'assenza di ogni concreta politica per il sud che non sia quella degli annunci senza effetti. O, meglio, gli effetti ci sono e sono avvertiti, come è scritto nell'ultimo rapporto Svimez del 14 luglio 2004, e si registrano in quell'arresto del processo di accumulazione che aveva permesso al sud di avere tassi di crescita superiori al resto del paese. Ma c'è un prezzo ancora più alto che è pagato dal sud a causa di politiche oscillanti e contraddittorie che ne hanno interrotto lo slancio alla metà del cammino, come negli anni Sessanta, ed oggi, con la manovra finanziaria di questo Governo, che segue quelle in verità abbastanza tirchie anche dei governi di centrosinistra.
Quei Governi comunque avevano un merito, che era quello di tener presente il problema e di non cancellare provvedimenti come la legge n. 488 del 1992, che è risultata particolarmente utile per il Mezzogiorno d'Italia. Il prezzo che il sud paga per l'incoerenza e la discontinuità delle politiche di sostegno al suo sviluppo è salato, soprattutto in termini di visione generale dei problemi italiani, poiché si consolida la convinzione bugiarda del fallimento di qualsiasi azione di intervento pubblico nel Mezzogiorno. Dietro lo slancio del periodo 1996-2000, vi sono appunto le «seminagioni» operate negli anni Cinquanta. Ma i luoghi comuni sono duri a morire e così quello dello sperpero delle risorse del Mezzogiorno, della inefficacia dell'azione dello Stato e delle polemiche sulle risorse che sarebbero sottratte, quasi rubate al nord d'Italia.
Tutto questo fa parte di un armamentario polemico particolarmente diffuso, ma senza fondamento culturale, anzi in contrasto con i dati storici e con una valutazione obiettiva di ciò che è realmente accaduto nella vicenda post-unitaria del nostro paese. Sarebbe un salutare contributo alla chiarezza politica e, quindi, alla impostazione delle politiche economiche se si potesse finalmente fare il punto su quale sia stata la qualità e la quantità degli interventi statali verso il sud e a quali improvvise strozzature il Mezzogiorno sia stato soggetto nel lungo periodo della storia del nostro paese. La conclusione sarebbe opposta rispetto alla sciatta topica, che anche alcuni esponenti di questo Parlamento spesso ripetono, dell'assistenzialismo, che anche c'è stato, ma che non ha certo mai entusiasmato le classi dirigenti meridionali.
Questa operazione di verità storica, che non è certo richiesta per una sorta di querelle di reciproche contestazioni (che sarebbe oltremodo sterile), è utile per sfatare miti e luoghi comuni, che imprigionano le menti, e per fissare invece alcuni punti fermi della rilevanza di una buona politica meridionalista per la crescita di tutto il paese.
Forse non sarebbe vano se alcuni ostinati ripetitori di slogan antimeridiaonalisti, convinti per miopia o ignoranza di un sud assistito e sanguisuga, leggessero attentamente la serie delle statistiche dell'ISTAT sugli interventi statali in agricoltura e soprattutto nell'industria, se analizzassero i dati della Svimez sul costo e la distribuzione delle pensioni, se studiassero in quale direzione vanno i vantaggi del debito pubblico con il ricavo degli interessi per i detentori dei titoli stessi. Si potrebbe ancora proseguire. Per un aggiornamento, consiglierei a tutti i colleghi la lettura di un libro di un acuto storico dell'economia, da poco scomparso, Luigi De Rosa, dal titolo eloquente: La provincia subordinata. Vi sono dati ed elementi che in Padania sarebbe bene fossero conosciuti. Già alcuni decenni addietro, un grande costruttore di politica economica del nord, Pasquale Saraceno, osservava come per il sud si fosse spesso poco più dello 0, 50 per cento del prodotto interno lordo; eppure i benefici di quell'intervento di breve periodo, poco più di un decennio, sono stati enormi per il sud e per il nord, come oggi confermano tutti gli studi economici e storici.


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Parlano, i dati e i fatti, e le statistiche ci dicono come i tassi di sviluppo, per esempio nell'agricoltura, furono superiori in quegli anni a quelli del nord e come complessivamente il paese avesse ritmi superiori perfino a quelli dell'Europa.
Sviluppo del sud, dunque - dovrebbe essere una equazione - , significa sviluppo dell'Italia. Questo ci dice l'analisi storica ed economica. Le cifre inoltre smentiscono che la spesa statale sia stata superiore al sud rispetto al nord. Uno studioso di grande accuratezza, che lei sicuramente conosce, Frei, non certo autore sospetto di filo meridionalismo, ha calcolato come negli anni 2000 il trasferimento pro capite nel Mezzogiorno, al netto della somma del terremoto, sia stato inferiore a quello pro capite nel nord. Alla stessa conclusione si giunge nell'analisi delle leggi di sviluppo, per esempio della legge n. 1329 del 1965, della n. 675 del 12 agosto 1975, della n. 346 del 1932, della n. 237 del 19 luglio 1993, della n. 317 del 1991.
Si potrebbe continuare con le opere pubbliche, con gli interventi per le infrastrutture, che vedono oggi un divario di oltre venti punti, in percentuale, tra il nord ed il sud, persino per quanto riguarda la viabilità e le ferrovie. La dissipazione della favola di un sud superassistito e di un nord iperpenalizzato ci può aiutare meglio a capire gli indirizzi che dovrebbero essere seguiti nelle scelte di fondo di politica economica, finalmente consapevoli della complementarietà delle due realtà e della necessità strutturale di agire, come si usava dire una volta, sulla «gamba» debole per rafforzare complessivamente la struttura della nostra economia.
Eppure, vi è una speranza di passare dal gramo 1,2 per cento di sviluppo previsto all'ambizioso tasso dei primi auspici di questo Governo - come è noto, si indicava il 3 per cento -; ma occorre il rilancio del Mezzogiorno. Non vi sono alternative; nessuno si illuda che lo sviluppo del paese possa avvenire in modo disarmonico.
Sono ancora valide e sagge le parole di un grande meridionalista e patriota, Giustino Fortunato, che così ammoniva: «Ma pochi ancora intuiscono che non essendo concepibile uno Stato, e grande e prospero, in una nazione per metà misera e rozza, quello del Mezzogiorno è il problema fondamentale di tutto il nostro avvenire perché solo dalle varie soluzioni che si propongono di dargli sarà possibile avere norme e garanzie di tutto il paese, un diverso abbigliamento del Governo della cosa pubblica».
I termini dell'antica questione meridionale sono certo radicalmente cambiati, come è mutata profondamente la realtà storica e sociale del sud; è mutato il contesto che, da nazionale, è diventato soprattutto europeo. Ma resta invariato, anzi aggravato negli ultimi anni, un divario che va colmato se si vuole dare forza e vigore all'intera Italia.
Il problema di una competitività da recuperare e di un declino da arrestare nel sistema Italia può essere affrontato se cresce e continua a trasformarsi il Mezzogiorno, che non è un qualsiasi «pezzo» del mondo. È appunto il Mezzogiorno, con la sua storia, la sua cultura, la sua mentalità; va studiato per ciò che è e per i problemi che esso pone. Non mance assistenziali occorrono, ma formazione, scuola, infrastrutture, cura delle città e dei beni culturali, sicurezza. Sicurezza, soprattutto, che è compito dello Stato; non si può lasciare Napoli in una sorta di far west! Il meridionalismo non è stato una invenzione né una distorcente ideologia ma una cultura politica che ha ispirato gli uomini più illuminati sia del nord sia del sud; occorre ripensarlo, alla luce dell'allargamento dell'Unione europea, in rapporto alle modifiche del Titolo V della Costituzione.
Non è compito di parte; sarebbe compito di tutta una classe dirigente che dovrebbe prendere coscienza anche dei rischi - già denunciati dalla Svimez e da studiosi come Adriano Giannola ed altri - che possono derivare per la coesione sociale da una egoistica gestione delle risorse e dalla pretesa di alcune regioni, come la Lombardia, di realizzare un federalismo orizzontale direttamente negoziato con


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uno Stato spettatore, impotente o neutro nella distribuzione equa delle risorse nazionali.
Il Mezzogiorno è la sponda dell'Europa nell'area del Mediterraneo, dove ribollono le grandi contese del tempo e le più spinose questioni della nostra epoca; ignorarlo significa prepararsi a grandi e collettive sconfitte nazionali ed europee. Ecco perché è davvero miope una strategia finanziaria come quella perseguita dal provvedimento in esame; il sud è cancellato, non si prevede alcuna risorsa e sono stati respinti - rinviando la questione ad un fantomatico provvedimento ulteriore di cui nulla si sa - tutti gli emendamenti dell'opposizione che affrontavano il problema. Davvero strano modo di ragionare di politica economica, di discuterne abolendone la sostanza e lasciando incerte le prospettive e, quindi, i punti sui quali si può fondare una concreta e, appunto, lungimirante linea di sviluppo.
Con il creativo - e talvolta pieno di excursus filosofici - Tremonti, ci si poteva anche, in qualche momento, divertire; ora, invece, mi sento frastornato e confuso perché non trovo alcun filo conduttore che non sia un numero astratto e deprimente, come quel 2 per cento che richiama alla memoria pessimi voti di scuola...
Avevamo sperato di meglio, signori del Governo; avevamo sperato, cioè, che dopo il valtellinese Tremonti riemergesse la lezione dei valtellinesi Ezio Vanoni e Pasquale Saraceno.
Ci eravamo illusi in una rinnovata solidarietà tra nord e sud, che desse fibra e vigore a questo disegno di legge finanziaria con quella stessa lungimiranza che ispirò Alcide De Gasperi negli anni Cinquanta, che così ribadiva, con lo spirito illuminato da grande statista, il suo pensiero il 2 luglio 1948 in Parlamento: «Spero» - egli diceva - «che la comprensione delle esigenze del Mezzogiorno diventi e sia una comprensione nazionale, perché noi vogliamo favorire il Mezzogiorno, anche perché» - vorrei sottolinearlo - «il Nord ha bisogno del Mezzogiorno».
L'invito che rivolgo a tutti, signor Presidente, anche in quest'aula vuota, alla maggioranza, al Governo e all'opposizione, è che tale monito non vada disperso (Applausi dei deputati dei gruppi della Margherita, DL-L'Ulivo e dei Democratici di sinistra-L'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Rossiello. Ne ha facoltà.

GIUSEPPE ROSSIELLO. Signor Presidente, duole dolersi, nel senso che, e lo dico sinceramente, avrei voluto segnalare, alla luce della riforma della politica agricola comunitaria, almeno una delle questioni di fondo che riguardano il comparto agricolo e della pesca.
Tralascerò alcune inutili riflessioni generali sull'addio alle grandi opere, sull'inganno fiscale, sui trucchi contabili, sulle ingannevoli, se non false (perché destituite di fondamento), promesse tributarie e sull'insieme della manovra di bilancio che si può ambivalentemente definire «recessiva» o «stangata», poiché si tratta di temi sui quali colleghi hanno già avuto ed avranno ancora modo di soffermarsi, e mi limiterò, pertanto, ad affrontare in media re quelli che ritengo i principali nodi critici per quanto riguarda sia l'emergenza, sia lo sviluppo dell'agricoltura italiana.
Lo scenario economico in cui si muove il settore agricolo è caratterizzato, da circa un quadriennio, da un quadro congiunturale di segno certamente negativo. Nonostante gli sforzi profusi dalle imprese in termini di razionalizzazione delle strutture produttive e di recupero della produttività e del reddito, contenendo sensibilmente i costi di produzione, è infatti innegabile l'aggravarsi della vulnerabilità del settore in termini sia reddituali, sia occupazionali.
Le negative vicende climatiche per le coltivazioni e le emergenze sanitarie per l'allevamento non bastano a darci, da sole, le giuste spiegazioni della flessione produttiva (-4,4 per cento), della contrazione dei consumi (-1,9 per cento), della caduta del valore aggiunto ai prezzi base (-5,7 per cento). Inoltre, se si leggono con attenzione i dati distratti, la flessione ha raggiunto livelli record per quanto concerne


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le coltivazioni industriali (-22,3 per cento), per quelle foraggere (-16,5 per cento), per quelle cerealicole (-14,3 per cento) e per quelle frutticole (-15,2 per cento); per quanto riguarda la zootecnia, si registra una flessione del 6,8 per cento per il pollame, una caduta del 3,9 per il latte di pecora e di capra e via dicendo.
Delle grandi aree del paese (Nord, Centro e Sud), non ce ne è alcuna con segno positivo. Inoltre, alcuni studi compiuti sull'andamento dei prezzi alla produzione indicano un aumento del 5,7 per cento che forse può essere vero per ortaggi e legumi freschi, ma è sicuramente falsato per tutti gli altri prodotti dalla filiera lunga e dalla catena distributiva. Di fatto, al campo il prezzo del prodotto copre a malapena il suo costo, mentre sulla bancarella, o sullo scaffale, tale prezzo lievita al punto che le famiglie sono costrette alla contrazione della spesa non solo nella quarta settimana del mese (come in genere si dice), ma, ormai, in tutti i giorni dell'anno.
In questo quadro, risulta scontato anche il peggioramento della bilancia commerciale, il cui saldo - tra import ed export - è passato da 5.643 a 6.563 milioni di euro. Siamo, dunque, passati da un dato negativo di meno 13,1 per cento a meno 15 per cento, con una perdita secca di mercati nei paesi dell'euro forte (ossia Germania e Francia) e del dollaro.
Il quadro che abbiamo dinanzi è oggettivamente allarmante. Il Governo, a tale stato di cose, risponde chiudendo gli occhi e, per dirla con due versetti dell'Apocalisse di San Giovanni, «preferisce le tenebre alla luce».
Questa finanziaria, in sintonia perversa con le tre precedenti, ignora la ricerca, la modernizzazione, l'internazionalizzazione delle imprese, i piani di rilancio per le imprese in crisi, le opere infrastrutturali, i distretti, il sostegno alla concentrazione dell'offerta ed i piani nazionali - non più rinviabili - per la serricoltura, l'ortofrutta e l'olivicoltura.
È la mancanza di una visione strategica dello sviluppo che impedisce scelte politiche serie e fa calare il colpo secco della scure su alcuni capitoli già deficitari, tra i più importanti della politica agricola. Non è un caso che sono ridotti bruscamente i fondi in conto capitale, i fondi per la politica dei distretti, i fondi per le opere infrastrutturali nelle aree depresse, i fondi per le opere irrigue, i fondi per la ricerca ed i fondi per la pesca e l'aquacoltura. Altro che sostegno agli investimenti e al rafforzamento delle filiere agroalimentari!
Pongo alcune domande, senza polemica: perché non si potenziano i fondi per il credito d'imposta? Forse perché essi sono assegnati in pochissimi giorni e non prevedono «rapporti di natura clientelare»? È nuova devolution l'affidamento al ministero della valutazione di compatibilità con altri regimi di aiuti? Inoltre, è vero che i controlli di filiera, per il loro carattere multiregionale, hanno riscosso notevole interesse presso gli operatori? Se è vero, cosa impedisce di spendere 500 milioni di euro già stanziati e di proseguire con il potenziamento della proposta? Che dire, inoltre, della concentrazione dei fondi della programmazione negoziata, con quelli congelati presso il ministero, in attesa di sottoporre contratti di programma al CIPE o di vederli, per così dire, «nebulizzati», come spesso è accaduto anche per la denunciata - e denunciata da parlamentari della maggioranza - incomunicabilità tra il Ministero delle politiche agricole e forestali ed il Ministero dell'economia? È questa la causa per cui l'intervento di Sviluppo Italia Spa nell'agroalimentare è stato condizionato dalla «dispersione» - una parola nobile - dell'azione di tale società verso molteplici altri settori dell'economia, con conseguente danno degli interessi dello sviluppo agricolo?
Nutro un legittimo sospetto: la «Babele» di sovrapposizioni e contrapposizioni è voluta per nascondere il neocentralismo delle politiche ministeriali, così come emerge dalla lettura della finanziaria agricola: metà delle risorse gestibili sono a diretta disponibilità del ministero, si tratta di 347 milioni di euro circa; vi è la concentrazione su Ismea di una notevolissima mole di risorse, da gestire per assicurazioni od operazioni finanziarie; vi


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è la concentrazione su Agea di tutte le operazioni relative agli aiuti di mercato, con buona pace delle competenze regionali. Altro che federalismo! Altro che interventi di carattere strutturale! Siamo alle solite proroghe fiscali che sostituiscono la messa a regime di trattamenti da tutti ormai condivisi, con l'unico sgangherato obbiettivo di mantenere sotto scacco il mondo agricolo, anziché dargli certezze. Eppure, con notevole senso del ridicolo, definite questo disegno di legge finanziaria di sviluppo e di modernizzazione. Per noi della Commissione agricoltura queste due parole, per concretizzarsi sul versante dell'impresa agricola con iniziative coerenti con la PAC, implicano il potenziamento dei servizi di consulenza aziendale, la promozione di sistemi volontari di tracciabilità e della qualità, l'incentivazione dell'agricoltura non alimentare.
Si vuole strutturalmente accompagnare il prodotto al mercato? Allora, bisogna aiutare l'impresa agricola ad abbattere i costi. Mi riferisco, innanzitutto, a quelli energetici, con l'abbattimento ulteriore delle accise non solo per la serricoltura, ma per l'intero comparto agricolo, anche e soprattutto a fronte dell'impennata dei prezzi del greggio. Mi riferisco, inoltre, ai costi bancari, soprattutto per le aziende in sofferenza a seguito di pluriennali calamità, anche in mancanza di riscossione del ristoro dovuto a norma della superata legge n. 185. Ma le risorse per il fondo di solidarietà nazionale restano altamente insufficienti a coprire i danni che, quando vengono coperti, dopo anni, lo sono al massimo al 4 per cento.

PRESIDENTE. Onorevole Rossiello...

GIUSEPPE ROSSIELLO. Mi avvio alla conclusione, signor Presidente, e - come lei sa - terminerò il mio intervento con una citazione. Occorre soprattutto abbattere i costi contributivi. Fatemelo dire con chiarezza: il prodotto mediterraneo soffre la concorrenza dei bassissimi costi contributivi del Portogallo, della Grecia, della Spagna. I nostri prodotti concorrono con quei prodotti. Basta con l'asse carolingio: proviamo a pensare all'asse meridionale della concorrenza tra i prodotti meridionali.
Signor Presidente, mi conceda ancora pochi secondi. Nell'Italia meridionale è in atto una rivolta che si va allargando a macchia d'olio: la Ionica è già bloccata e viene definita la Scanzano 2. Vi sono calamità naturali e pluriennali e le cosiddette ganasce fiscali, la difficoltà di piazzare il prodotto sul mercato e - come ho già detto - sui mercati esteri: tutto ciò ha messo in ginocchio tutte le aziende del comparto dell'ortofrutta. È una rivolta che si sta allargando a macchia d'olio, dalla Puglia alla Sicilia, dalla Sicilia alla Campania. Occorre intervenire con l'immediata sospensione del pagamento delle cartelle esattoriali che arrivano come mazzate, effettuare interventi presso le banche per sospendere i pignoramenti e realizzare interventi strutturali.
Al riguardo, onorevole relatore, mi consenta di ricordare che l'Assemblea, nel corso dell'esame del disegno di legge finanziaria dello scorso anno, approvò a maggioranza un ordine del giorno (fu uno dei pochissimi approvati) che impegnava il Governo a valutare il costo dei contributi medi europei e ad abbatterlo del 50 per cento nelle regioni che rientravano nell'obiettivo 1. Ciò non si è voluto fare, perché si ha dell'agricoltura - e concludo veramente - un'idea estremamente strana: risorse risibili, tagli (come è accaduto con la manovra di luglio, per cui si sono persi 200 milioni) e tante idee, che, pascolianamente, perirono e sparirono nella notte oscura (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-L'Ulivo e della Margherita, DL-L'Ulivo).

PRESIDENTE. La ringrazio, onorevole Rossiello, anche per la citazione...
È iscritto a parlare l'onorevole Lettieri. Ne ha facoltà.

MARIO LETTIERI. Signor Presidente, il disegno di legge finanziaria in discussione in questi giorni, che ci ha visti impegnati per molto tempo e che avrà un prosieguo mi auguro proficuo in Assemblea nei prossimi


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giorni, rivela anzitutto una modificazione degli obiettivi di politica finanziaria, di quella politica pomposamente enunciata dal Governo di centrodestra all'atto del suo insediamento.
Nel corso di questi tre anni sono svanite le illusioni miracolistiche trasmesse ai cittadini italiani. Lo stato dei conti pubblici e dell'economia italiana è tale da non consentire ulteriori inganni, pena l'irresponsabilità pesante verso l'intero paese.
L'allarme rosso - come sa benissimo il sottosegretario Vegas - da ultimo è stato dato dall'Istat con la pubblicazione dei dati sul rapporto deficit-PIL e sull'avanzo primario relativi al primo semestre 2004: si tratta degli indici più evidenti della dinamica negativa dei conti e dell'economia del nostro paese.
Signor sottosegretario, onorevoli colleghi, vorrei citare semplicemente qualche dato. Al 30 settembre, nel nostro paese risultavano iscritte 1.982.000 imprese. Se andiamo a disaggregare tale dato, vediamo che le attività manifatturiere rappresentano appena il 10 per cento. Per fortuna, vi è ancora il settore dell'agricoltura, cui faceva riferimento poc'anzi l'onorevole Rossiello, che rappresenta il 22 per cento. Per il resto, si tratta di commercio e servizi. Mi domando: un paese che non è in grado di produrre in maniera sufficiente, dove può andare?
Anche dai documenti della manovra di bilancio 2005 emerge, purtroppo, un certo illusionismo contabile ed un evidente inganno fiscale, nonostante il nuovo ministro dell'economia. Vi è, infatti, una spalmatura diffusa di aumento di imposte e balzelli, oltre alla vendita di beni demaniali e di immobili pubblici. Lei, Presidente Biondi, è avvocato autorevole: anche per poter accedere alla giustizia vi è stato un aumento dei balzelli. Dal ricorso al giudice di pace ai gradini più alti si paga sempre di più.

PRESIDENTE. Forse, per evitare l'affollamento, che è già notevole...

MARIO LETTIERI. Se si conseguisse tale obiettivo, probabilmente darei anche il mio assenso, ma purtroppo così non è perché il Governo e la maggioranza non sono in grado di approvare una seria riforma giudiziaria che porti all'abbattimento dei tempi della giustizia.
Con la legge finanziaria che non prevede alcun intervento per lo sviluppo si fa una manovra correttiva dei conti pubblici per un importo di circa 23 miliardi di euro, cioè per circa 46 mila miliardi di vecchie lire. Infatti, il deficit tendenziale, pari al 4,4 per cento del PIL, per essere ridotto al 2,7 per cento, come propone il Governo, impone una pesante correzione che, in verità, sembra non del tutto realizzabile con le misure previste.
Il tetto del 2 per cento rispetto all'anno precedente dovrebbe comportare un risparmio di circa 9 miliardi delle spese correnti. Tuttavia, se si escludono le spese per le pensioni, per il personale e per le prestazioni sociali esso sarà poca cosa. Pertanto, tale tetto ricadrà sugli enti territoriali che subiranno una decurtazione notevole.
Anche le cartolarizzazioni degli immobili pubblici e la vendita diretta ed il riaffitto degli immobili strumentali delle pubbliche amministrazioni, cosiddetto lease-back, probabilmente non daranno la somma sperata di 6,3 miliardi di euro. A tale proposito, sottosegretario Vegas, vorrei dire che l'operazione di lease-back rappresenta una forma mascherata di indebitamento sul lungo termine. Comunque, a mio avviso, è un sicuro impoverimento del patrimonio statale. La casa - dicono i contadini - si vende una sola volta e, purtroppo, è difficile poi riacquistarla.
Il gettito di 9 miliardi atteso da una miriade di misure, che interessano i lavoratori autonomi ed i proprietari di immobili, comporta un evidente aumento dell'imposizione. Il Presidente del Consiglio dei ministri continua a fare propaganda sulla volontà di ridurre l'IRAP e l'IRPEF o, meglio, l'IRE come si dice adesso. Finora, però, si tratta di una pura promessa. A tale proposito vorrei dire a chiare lettere che il gruppo della Margherita, non solo Mario Lettieri, è per ridurre le tasse ai ceti


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poveri, cioè a coloro che hanno un reddito da lavoro e non una rendita. Non vogliamo abbattere le tasse per i grandi percettori di patrimoni e di redditi elevati, e ne discuteremo quando arriverà la proposta definitiva.
È infatti davvero assurdo pensare che si possano ridurre le tasse non a coloro che percepiscono salari - giacché questi riguardano gli operai, i quali soffrono davvero -, ma a coloro che hanno redditi altissimi, compresi noi parlamentari. Infatti, anche se non navighiamo nell'oro, tuttavia non possiamo essere oggetto di una riduzione delle tasse. Ad ogni modo, sarebbe più serio, a mio avviso, partire almeno dalla restituzione del fiscal drag, come previsto dall'ultima finanziaria del Governo di centrosinistra, ma bloccata in questi anni dall'attuale Governo, perché anche tale mancata restituzione rappresenta una vera e propria tassa occulta.
Si diminuisce finanche lo stanziamento per la restituzione dei crediti d'imposta alle imprese e ai contribuenti, che da anni ne chiedono il rimborso e il cui ammontare complessivo è di ben 15 miliardi di euro. Si tratta di un diritto di quei cittadini che hanno pagato in più, ma purtroppo tali soldi non vengono restituiti. È facilmente intuibile come questa mancata restituzione di fatto crei un diffuso drenaggio a carico dei cittadini e delle imprese, che invece avrebbero bisogno di venire in possesso dei crediti da essi vantati.
Si aggraverà la situazione economica delle famiglie, che, anche a causa del mancato rinnovo dei contratti, vedranno ulteriormente decurtate le proprie entrate ed il proprio potere di acquisto, con riverberi assai negativi sull'intera economia, per l'obbligato contenimento dei consumi. Si parla di incentivare i consumi. Ma come li si possono incentivare se il pensionato, il lavoratore a reddito fisso, vede quotidianamente falcidiato il proprio reddito? Dobbiamo svolgere una riflessione molto seria, al di là degli schieramenti di maggioranza e opposizione. In questo paese, vi è il problema della redistribuzione del reddito e della ricchezza complessiva del paese, che deve andare alle fasce meno forti di questo paese. Bisogna quindi avere un grande coraggio in tal senso. Se dobbiamo fare una riduzione delle tasse, la dobbiamo fare nei confronti di coloro che vivono di salario o di stipendio, e che non navigano nell'oro. Queste misure contenute nella finanziaria accentuano l'impoverimento complessivo delle famiglie a reddito basso o medio o, peggio, di quelle senza alcun reddito (perché ce ne sono tante di famiglie che non hanno alcun reddito!).
Finora vi sono semplici dichiarazioni di alcuni ministri, circa la volontà di prevedere, con il collegato alla finanziaria, interventi per lo sviluppo. Vedremo quando il provvedimento sarà presentato; per il momento si parla di rivisitazione della legge n. 488 del 1992, così come si parla di rivedere il credito di imposta, che peraltro è stato già peggiorato. Non si parla invece in modo chiaro di finanziamento per l'imprenditoria giovanile e femminile, né di contratti di area. Vi è però un dato, sul quale vorrei far riflettere, perché è in corso una polemica tra noi dell'opposizione e i colleghi della maggioranza. I cittadini italiani devono infatti sapere, e qui in Parlamento si deve dire, che per le cosiddette aree sottoutilizzate, cioè per il Mezzogiorno, i fondi previsti per il 2005 vengono ridotti e sono esattamente 6 miliardi 700 milioni di euro. Ebbene, gli amici della maggioranza e del Governo ci dicono invece che tali fondi sono aumentati; essi ci dicono che tali fondi ammontano a 23 miliardi di euro. Questo è vero, colleghi, ma voi li spalmate negli anni successivi, cioè significa «campa cavallo, che l'erba cresce»! L'anno prossimo infatti presenterete un'ulteriore rimodulazione e così, di fatto, vengono ridotti i fondi al Mezzogiorno!
Questa è una situazione che va contro il buonsenso e contro la necessità di rilanciare gli investimenti e l'economia nelle regioni meridionali. In questo modo, sarà l'intero paese a soffrirne. L'intervento dell'onorevole Gerardo Bianco, come quello dell'onorevole Rossiello, mi esimono dal fare riferimenti puntuali, se non ad


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alcune situazioni, come quella che si vive in questi giorni nell'arco jonico, che non riguarda soltanto una regione, ma più regioni, dalla grande Puglia alla piccola Basilicata, alla Calabria.
C'è un mondo agricolo in fermento ed esploderà, perché la politica che riguarda le colture mediterranee è sbagliata. I prodotti dei nostri agricoltori non trovano sul mercato adeguati prezzi, perché vengono importati dalla Spagna. In maniera, forse, molto disorganica, è stato richiamato il grande meridionalista, Giustino Fortunato, di cui mi onoro di essere conterraneo. Egli faceva riferimento all'interesse del nord ad avere un Mezzogiorno sviluppato. Di questa consapevolezza mi pare che nel Governo e nella maggioranza non vi sia traccia.
È stato cacciato, qualche mese fa, il ministro Tremonti. Avrei voluto che lo stesso fosse stato allontanato dal Governo per la non-politica verso il Mezzogiorno e non per gli intrighi dei cosiddetti poteri forti, perché di questo si tratta e bisogna prenderne atto.
Ancora una volta, questo Governo e questa maggioranza sono, invece, a favore dei poteri forti che sono sempre più forti, mentre i ceti deboli e le aree deboli come il Mezzogiorno, purtroppo, da questa finanziaria ne escono ancora ulteriormente bastonati (Applausi dei deputati del gruppo della Margherita, DL-L'Ulivo)!

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Magnolfi. Ne ha facoltà.

BEATRICE MARIA MAGNOLFI. Signor Presidente, colleghi, in questi ultimi giorni rimbalzano, da un convegno all'altro, persino nelle sedi internazionali dove si trova in visita, le parole del Presidente del Consiglio, quando ricorda perentoriamente agli alleati ed elettori che le promesse vanno mantenute.
Per una volta, siamo d'accordo con lui: le promesse vanno mantenute. A tale proposito, che fine ha fatto il Governo delle tre «i»? Era uno slogan pubblicitario, lo sappiamo, ma conteneva una promessa condivisibile, una promessa di modernizzazione, di attenzione ai processi innovativi, di investimento sugli obiettivi di Lisbona, di fiducia sullo sviluppo della società della conoscenza. Siamo qui per il quarto anno consecutivo a constatare il fallimento di quella promessa. È un fallimento tanto più desolante quanto più lo si misura in relazione alla spinta che si è verificata in altri paesi.
Lo sviluppo delle tecnologie informatiche e telematiche nel sistema delle imprese e dei servizi ai cittadini ha visto in questi anni un enorme impulso non solo nei paesi emergenti (Cina, India, Brasile), ma anche in alcuni paesi del nord Europa e dell'Europa dell'est. Il risultato è che l'Italia, che si situa fra il settimo e l'ottavo posto nel mondo per il reddito pro capite, nella classifica della diffusione locale delle tecnologie ICT, pubblicata dal World economic forum nel 2004, si trova al ventottesimo posto, scivolando di ulteriori tre posizioni rispetto a due anni fa.
Ci hanno sopravanzato l'Estonia, la Malesia e Malta, mentre ci tallonano la Slovenia ed il Cile. Anche fra i partner dell'Europa a 15 (è il rapporto dell'Osservatorio europeo sull'innovazione tecnologica del 2003) risulta che l'Italia è l'ultima nella spesa rispetto al prodotto interno lordo, con una percentuale di oltre un punto in meno rispetto alla media degli altri paesi. Insomma, in questa materia chi rimane fermo va indietro e chi retrocede va indietro due volte.
Esaurite ormai le risorse, 800 miliardi di vecchie lire, lasciate in eredità dai Governi dell'Ulivo, questa legge finanziaria rende evidente la retromarcia, qualificandosi come una manovra duramente recessiva rispetto all'innovazione tecnologica.
Gli articoli su cui vale la pena soffermarsi sono il 24 ed il 27, ma vi è un altro dato che non emerge dall'articolato e che è desumibile dalle tabelle dei tagli ai singoli ministeri fornite dalla Ragioneria generale dello Stato alla Commissione bilancio.
È il dato dei tagli operati, rispetto al bilancio preventivo, alla cosiddetta informatica di servizio ovvero al fabbisogno di


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investimenti per l'innovazione già preventivati dallo stesso Governo per i singoli ministeri.
Questi tagli, per alcuni ministeri, incidono ben oltre il tetto del 2 per cento. Qualche esempio: il Ministero dell'economia si vede ridurre oltre 33 milioni di euro per competenza e quasi 24 milioni di euro per cassa. Il Ministero delle infrastrutture quasi 31 milioni di euro di riduzione per cassa, quello della giustizia oltre 11 milioni di euro di riduzione per competenza. In totale: 57 milioni di euro per competenza e 74 per cassa.
Che fine faranno i progetti avviati? Non lo sappiamo, ma è lecito domandarlo. Quali uffici centrali o decentrati rimarranno senza computer? Quali procedure si rinuncerà a rendere più veloci, più trasparenti, più semplici? Quali servizi ai cittadini saranno più efficienti e quali costi avrà tutto ciò per il sistema paese, che paga un prezzo enorme alla burocrazia?
Ma l'articolo 24 contiene la parola magica «razionalizzazione». Siamo sempre favorevoli a propositi virtuosi di razionalizzazione. Tuttavia, dalla lettura attenta di tale articolo, dove si parla anche di eliminazione, di duplicazione e di sovrapposizioni, si affaccia il dubbio che si rischi di buttare a mare, oltre ai doppioni e alle duplicazioni, anche gli investimenti già realizzati e di disfarsi del patrimonio software già acquisito e sul quale gli addetti si sono già formati.
Che fine faranno i progetti e-government? Non c'è un euro con riferimento ad una implementazione e ad un rilancio del piano e-government. Allora, non è meglio, come propongono i nostri emendamenti, valorizzare il patrimonio informativo pubblico, cercando di condividerlo, di favorirne il riuso prima di eliminarlo, di facilitare il dialogo tra i sistemi, anziché eliminare le molteplicità, che costituiscono un valore nell'ambito delle nuove tecnologie? Oggi, non a caso, si parla di ecologia digitale.
Il CNIPA detterà gli standard e definirà i contratti quadro per gli acquisti degli applicativi informatici. In tal modo, il CNIPA diventa un centro di acquisti, secondo la logica tutta centralizzata di CONSIP, con la conseguente riduzione di spazi di mercato per le piccole e medie imprese informatiche, che già vivono grandi difficoltà. In Italia, sono circa 80 mila le piccole imprese di informatica, con oltre 600 mila addetti, e credo che il loro destino debba starci a cuore.
Per gli acquisti, la legge finanziaria indica un unico criterio: l'economicità. Noi, con i nostri emendamenti, ne indichiamo altri: la sicurezza dei dati, la trasparenza, l'adattabilità alle singole procedure. Inoltre, proponiamo che si consideri anche il ricorso a tecnologie open source.
Non facciamo un discorso ideologico. I programmi software a sorgente aperta fanno risparmiare risorse sull'acquisto delle licenze d'uso e sono spesso preferibili anche sul piano dell'efficacia, della sicurezza e della qualità. Lo hanno capito i Governi della Spagna e della Germania, dove la pubblica amministrazione si sta progressivamente convertendo all'open source, e lo hanno capito anche i nostri enti locali, con i quali sarebbe auspicabile che i ministeri continuassero a dialogare.
L'articolo 27 è l'unico che prevede misure positive, tuttavia senza una logica di sistema e con l'unico criterio del sostegno al consumo individuale. Un po' di computer ai sedicenni, qualche portatile agli insegnanti, qualche abbonamento gratis alle famiglie che stipulano contratti per l'ADSL. Ma la rete ADSL raggiunge poco più del 70 per cento del territorio nazionale, dunque rischiano di rimanere esclusi tutti gli abitanti delle zone disagiate e dei piccoli comuni. Prima di offrire un regalo a coloro che, indipendentemente dal reddito, si allacciano ad Internet con la banda larga, bisogna pensare ad investire sulle infrastrutture per tutti, a colmare il divario digitale, assicurando a tutti il diritto di accesso che, nella società della conoscenza, è un nuovo grande diritto universale.
La misura di gran lunga più onerosa, pari a 110 milioni di euro, è quella riguardante il decoder, che ormai è divenuto un totem su cui si appoggia la famigerata legge Gasparri per trovarvi il suo alibi


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tecnologico. Per il terzo anno consecutivo, si rinnova l'omaggio di 120 euro a famiglia, senza limiti di reddito, per l'acquisto del decoder. Siamo favorevoli allo sviluppo del digitale terrestre, ma questo obiettivo per noi è legato allo sviluppo della T-democracy, ovvero della cittadinanza digitale.
Crediamo che la priorità non sia quella di interagire con L'isola dei famosi, stando seduti sulla poltrona di casa, ma quella di usufruire della straordinaria possibilità di accedere ai servizi attraverso un'unica piattaforma. Ma voi, da un lato, regalate decoder e, dall'altro, date bastonate in testa alla pubblica amministrazione.
Come faranno comuni, province e regioni a produrre servizi su piattaforma digitale se sono impoveriti al punto tale da non poter garantire neanche la mensa scolastica? Così si producono consumatori digitali, non cittadini digitali, e c'è una differenza profonda!
Infine, faccio riferimento alle imprese. Esiste una grave emergenza nel nostro paese, chiamata analfabetismo digitale delle piccole e medie imprese. Attraverso la diffusione dell'innovazione tecnologica nelle piccole imprese manifatturiere passa il destino stesso del nostro paese: o il definitivo declino o la possibilità di competere sul mercato globale.
Il trasferimento di tecnologie IT è veicolo di innovazione di prodotto, ma più ancora di innovazione processo, davvero importantissima. Può produrre enormi vantaggi nel miglioramento del flusso informativo, nella cooperazione tra imprese, dentro e fuori i distretti industriali, nel miglioramento della qualità e dei tempi delle filiere produttive e distributive, nello sviluppo dell'interscambio B-to-B e e-commerce.
Un recentissimo rapporto Assinform fotografa la situazione in maniera impietosa: meno del 20 per cento della spesa totale per IT è concentrata presso le piccole imprese. Tale quota si è progressivamente ridotta, nel periodo 2001-2003, dal 19,6 per cento al 18,7 per cento. Sapete quale è l'importo medio della spesa IT per ogni piccola impresa italiana? È pari a 1.500 euro all'anno, cifra con cui non si acquista neppure un computer. Di fronte a questa emergenza nazionale, cosa prevede la legge finanziaria? Viene ormai archiviata la «Tecnotremonti», all'articolo 4 si prevedono tagli consistenti agli incentivi per le imprese erogati dal fondo per l'innovazione tecnologica. Inoltre, all'articolo 27 ci si limita ad incrementare il fondo di garanzia per i prestiti alle imprese che investono in IT.
Bene sul piano teorico, ma tutti sappiamo che tante piccole imprese sono già fortemente indebitate e talvolta continuano a produrre soltanto ricorrendo al credito, in attesa del miglioramento delle condizioni economiche generali del paese. Allora, come possiamo pensare che vogliano indebitarsi ulteriormente per l'innovazione? È fin troppo facile fare una previsione: questi soldi resteranno inutilizzati. Nel frattempo, il divario competitivo si sarà ulteriormente approfondito, perché è di ben altra spinta che hanno bisogno le piccole imprese per incorporare innovazione: incentivi fiscali, sostegno ai trasferimenti verso il mondo della ricerca, spinta all'aggregazione per accedere ai servizi innovativi e alle infrastrutture tecnologiche, supporto alle start-up innovative. I nostri emendamenti vanno in questa direzione e ci piacerebbe discuterne davvero insieme a voi in un dibattito serio, perché la ristrettezza delle risorse è un problema reale. Quindi, è tanto più necessario ascoltarsi anziché fare muro contro muro.
Onorevoli colleghi, non siamo animati da pregiudizi e non lo siamo mai stati. Abbiamo salutato con interesse la nomina di un ministro per l'innovazione tecnologica e letto con grande favore l'emanazione, nel 2002, delle linee guida per la società dell'informazione. Quattro leggi finanziarie consecutive, tutte dello stesso segno, non sono però un'opinione, bensì un fatto. Potete anche alzare una cortina di fumo tra chi vuole ridurre le tasse in un modo e chi vuole ridurle in un altro. Purtroppo, quattro leggi finanziarie consecutive si incaricano di dimostrare agli italiani che la vera tassa sullo sviluppo è


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già stata pagata. L'innovazione non è una priorità, la società della conoscenza è solo una giaculatoria per convegni, ma così si rischia di compromettere in maniera seria il futuro di questo paese (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-L'Ulivo e della Margherita, DL-L'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Colasio. Ne ha facoltà.

ANDREA COLASIO. Signor Presidente, siamo tutti consapevoli che il futuro grado di competitività del nostro paese, sia all'interno dello spazio europeo, sia sullo scenario internazionale, è strettamente correlato alla sua capacità di connotarsi sempre di più come complessa società della conoscenza.
Formazione, innovazione e ricerca, in definitiva l'accumulo di capitale culturale, sono dunque altrettanti fattori strategici su cui giocare il nostro ruolo. Allora, va colmato rispetto ai grandi partner europei il deficit in termini di tasso di scolarizzazione. Quanto meno, va conseguito l'obiettivo della media europea sul PIL per ricerca e innovazione. Restare ancorati all'attuale uno per cento, contro la media europea corrispondente all'1,9 per cento, significherebbe delineare irresponsabilmente scenari regressivi.
Restano pur sempre sullo sfondo i grandi obiettivi stabiliti a Barcellona e Lisbona: la trasformazione dello spazio europeo in grandi aree dell'innovazione e della ricerca e l'obiettivo, delineato dalla commissione Busquin, del 3 per cento sul PIL per innovazione e ricerca. Si tratta di traguardi che le politiche pubbliche del nostro paese devono progressivamente conseguire, se si vuole evitare la marginalizzazione del paese e la sua fuoriuscita dallo spazio europeo della società della conoscenza.
In questo contesto, all'interno del quale i processi formativi vengono ad assumere un ruolo crescente quali fattori di competitività, l'acquisizione di competenze linguistiche e una buona padronanza della lingua inglese rivestono certamente un significato di tutto rilievo. L'enfasi sulle tre «i», e in particolare sulla «i» di «inglese», è stato del resto uno dei punti caratterizzanti il vostro programma di governo, ed è per questo che prendiamo atto, con sconcerto e grande preoccupazione, dell'incongruenza tra gli impegni evocati e la reale declinazione delle vostre politiche.
La generalizzazione dell'insegnamento della lingua inglese, accanto all'obbligatorietà di una seconda lingua comunitaria, sono stati assunti dal ministro Moratti quali elementi connotanti la sua azione, e dunque è quantomeno controverso il fatto che l'insegnamento della seconda lingua comunitaria si sia attuato, ma con il correlato decremento del monte ore di insegnamento dell'inglese. Va altresì ricordato come sin dal 1998 l'89 per cento delle classi terze, quarte e quinte della scuola primaria praticasse già l'insegnamento di una lingua straniera. È con il progetto «Lingua 2000», nel quadro dell'autonomia scolastica e delle risorse della legge n. 440 del 1997 per l'arricchimento dell'offerta formativa - progetti e norme, lo ricordo in via del tutto incidentale, promossi dai governi dell'Ulivo -, che si arrivò a coprire quasi il cento per cento delle classi seconde, terze, quarte e quinte e che in gran parte del territorio nazionale anche l'insegnamento della lingua fu esteso alle classi prime e ad alcune singole sezioni delle scuola dell'infanzia.
La crescita della qualità dell'offerta formativa, con il consolidamento e la qualificazione dell'insegnamento delle lingue straniere, è stato il risultato di una strategia di lungo periodo, che permise, in un quinquennio, di disporre di circa 20 mila docenti formati per l'insegnamento delle lingue comunitarie. Lo dico senza spirito polemico, ma voglio solo ricordare come questa strategia formativa, innovativa e flessibile si sia bloccata a partire dal 2001 - dunque, da quando voi governate -, con la cessazione dei finanziamenti per l'aggiornamento nelle lingue straniere dei docenti della scuola primaria. Oggi, dopo quattro anni di stasi e di silenzio, con il comma 3 dell'articolo 16 del disegno di legge finanziaria, si vuole stabilire che


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l'insegnamento della lingua straniera nella scuola primaria sia impartito dagli stessi docenti di classe in possesso di specifica formazione, riducendo di conseguenza la richiesta di docenti specialisti che nella scuola primaria insegnano esclusivamente la lingua straniera, in aggiunta ai docenti di classe. Si tratta di un'operazione a dir poco titanica, discutibile sia per gli aspetti organizzativi della formazione - non negoziata, ma forzata -, anche con riferimento ai tempi e ai costi, sia per l'improbabile - sottolineo improbabile - trasformazione dei docenti generici in buoni - sottolineo buoni - insegnanti di lingua straniera.
Il limite di questa norma è che non ha alcun senso né alcun respiro strategico, ed è finalizzata, come affermato esplicitamente, ad evitare l'assunzione di docenti ad hoc. Si tratta di una norma di cui si sottolineano gli effetti in termini di risparmio - 90 milioni di euro per il 2005 - e il recupero di 7.100 insegnanti oggi impegnati esclusivamente per l'insegnamento della lingua straniera. Con la riforma Moratti la generalizzazione dell'insegnamento della lingua inglese è stata, purtroppo, solo evocata. La legge n. 146 del 1990 aveva attivato e finanziato - sottolineo finanziato - corposi corsi di formazione di 500 ore; la legge n. 440 del 1997 aveva finanziato il progetto «Lingua 2000»; voi, al contrario, con la norma del disegno di legge finanziaria in esame, prevedete corsi di formazione, ma nell'ambito delle annuali iniziative di formazione, e dunque senza la previsione di alcun finanziamento aggiuntivo. Ciò significa che i corsi di formazione non si faranno mai o saranno di breve durata, vale a dire di 30 ore, con le prevedibili conseguenze in termini di qualificazione del corpo docenti.
L'incapacità di qualificare l'offerta formativa del nostro sistema scolastico per quanto attiene all'insegnamento delle lingue comunitarie consegue, del resto, all'evanescenza operativa dell'intera riforma Moratti. Abbiamo spesso ribadito che una vera riforma impone un reale processo allocativo di risorse. Si tratta delle risorse evocate e mai reperite, a partire dal Consiglio dei ministri del 12 settembre 2002, a seguito del quale si è correlata l'implementazione della riforma a stanziamenti a dir poco imponenti: 8.360 milioni di euro, di cui 4.000 già inclusi a legislazione vigente e gli altri da reperire con manovre finanziarie successive all'approvazione della riforma.
Vorrei ricordare che con la legge finanziaria precedente si sono stanziati 90 - ripeto - 90 milioni di euro, mentre con l'attuale se ne stanziano solo 110. Per questo biennio il ministro aveva chiesto 1.100 milioni di euro, ma ne ha ottenuti 200, pari, grosso modo, al 18 per cento.
Insomma, la riforma Moratti non c'è: non si investono risorse sul sistema scolastico, e non meno grave è il blocco degli organici, a dispetto degli impegni programmatici assunti in quest'aula con il piano pluriennale di assunzioni previste dalla legge n.143 del 2004. Come gruppo della Margherita, DL-l'Ulivo, abbiamo chiesto l'adeguamento di diritto dell'organico alla situazione di fatto: un modo serio per dare stabilità al sistema scolastico. Uscire dalla precarietà non è solo un'esigenza legittima di migliaia di docenti, ma è anche un prerequisito funzionale per la qualità stessa dei processi e dei percorsi formativi all'interno del nostro sistema scolastico.
Si tratta di un sistema scolastico che, lo ricordo in via incidentale, ha la necessità di accresciute risorse per la messa a norma degli edifici e per l'adeguamento strutturale e funzionale alle nuove esigenze formative. Sblocco delle assunzioni, risorse per l'edilizia scolastica, risorse per la qualificazione del corpo docenti, sono prerequisiti minimi per garantire una qualificazione dell'offerta formativa. Ma di tutto ciò, dobbiamo constatare con preoccupazione, non vi è traccia alcuna in questa legge finanziaria. Vi è invece traccia corposa di una norma che prevede di non rifinanziare la legge sulla dotazione gratuita dei libri di testo: fondi pari a 103 milioni di euro con cui le regioni avevano provveduto a sostenere l'acquisto dei testi scolastici a favore delle famiglie con reddito


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basso. Nulla da dire: un buon impulso, un segnale significativo al processo di scolarizzazione e alle pari opportunità nel processo formativo...!
Un ultimo doveroso cenno va rivolto alla situazione del nostro sistema universitario. Permane il blocco delle assunzioni, che preclude di fatto di prendere servizio a cinquemila vincitori di concorso, persino in quei casi dove le università hanno già i fondi per il cofinanziamento. Per quanto attiene al fondo di finanziamento ordinario, poi, non sono stati reperiti quei 600 milioni di euro che il ministro, di fronte alla CRUI (Conferenza dei rettori delle università italiane), si era formalmente impegnato a reperire. Per cui, come ribadito dalla stessa CRUI in Commissione bilancio, l'adeguamento del fondo di finanziamento ordinario non copre neppure gli incrementi stipendiali. A tutto ciò si aggiunga il disagio e la vera e propria turbolenza apportata al sistema dal disegno di legge sullo stato giuridico, la cui inadeguatezza rispetto ai problemi e alle aspettative del sistema e degli operatori è evidente.
In definitiva, nel momento in cui sarebbe più che mai opportuno e necessario investire nel capitale culturale, nella ricerca e nell'innovazione, le scelte del Governo - e prova ne è anche il contenuto di questa legge finanziaria - non sanno cogliere questa dimensione strategica e correlare compiutamente, come sarebbe invece doveroso e necessario, investimento nel capitale umano e crescita di competitività del paese.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Pinotti. Ne ha facoltà.

ROBERTA PINOTTI. Intervengo in merito alla legge finanziaria con particolare riferimento al settore della difesa.
Vorrei riallacciarmi alle parole che il Presidente della Repubblica Ciampi ha pronunciato alcuni giorni fa, in occasione della consegna di alcune onorificenze militari. Egli ci ha ricordato che è giusto cercare di contenere gli sprechi, ma la Difesa deve poter disporre dei fondi necessari. Queste parole del Presidente Ciampi mi hanno ricordato alcune affermazioni ascoltate in Commissione difesa in occasione della piacevole visita del ministro della difesa del Cile, Michelle Bachelet. Dopo il suo intervento in Commissione, il ministro cileno ha gentilmente risposto alle nostre domande. Le è stato chiesto, fra l'altro, se, come donna ed esponente della sinistra (del partito socialista cileno), viveva in qualche modo delle contraddizioni nel chiedere più risorse per la difesa. In effetti, un ministro della difesa di solito avanza questa richiesta quando si formano i bilanci. La risposta di questa donna mi ha colpito molto. Ella ha ricordato di aver ricoperto la carica di ministro degli affari sociali prima ancora di divenire ministro della difesa; ebbene, quale responsabile del dicastero degli affari sociali, ovviamente chiedeva risorse: la salute dei cittadini è importante.
Ma ora, come ministro della difesa, le chiede con maggiore convinzione. Perché per lo Stato la difesa è un compito che viene prima della salute del cittadino? Io penso che sia una bella domanda anche per chi, da sinistra, ha ricordato al Presidente che l'Italia ripudia la guerra. Io credo che il presidente Ciampi lo ricordi bene: essere contro la guerra non presuppone lo smantellamento della difesa dello Stato. L'Italia ripudia la guerra, recita l'articolo 11 della nostra Costituzione, e noi Democratici di sinistra ne siamo così convinti che abbiamo proposto di inserire questo testo nella Costituzione europea.
L'uso della forza in politica è una eventualità estrema, a cui la politica può essere costretta per contrastare violazioni di diritti fondamentali, genocidi, persecuzioni e repressioni delle minoranze, minacce dirette all'indipendenza e alla sovranità della nazione o alla vita dei suoi cittadini. Proprio il carattere estremo e dirompente dell'uso della forza impone che ad essa si ricorra solo dopo che ogni possibile azione politica sia stata veramente praticata; in ogni caso, su decisione dei soggetti internazionalmente riconosciuti sulla base di princìpi di legittimità, di procedure trasparenti, di corrispondenza


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tra mezzi e fini e dopo aver valutato ogni possibile ricaduta e conseguenza.
Anche se il Presidente Bush ha vinto le elezioni (e certo questo è anche dovuto al fatto che dopo l'11 settembre il tema della sicurezza è percepito come vitale dall'opinione pubblica americana), l'unilateralismo e la guerra preventiva hanno dimostrato che non sono in grado di rendere più sicuro il mondo, ma non dobbiamo incorrere nell'errore di sottovalutare il tema della sicurezza e la lotta al terrorismo internazionale; se vogliamo sconfiggere l'unilateralismo ed il solipsismo statunitense dobbiamo contribuire con idee, visioni del mondo, politiche, ma anche costruendo un polo europeo della difesa, altrimenti non siamo credibili.
Il ministro Martino, intervenendo sul tema della legge finanziaria in Commissione difesa, ha ricordato che proprio nel corso della Presidenza italiana si è definita la strategia europea in materia di sicurezza. Su tale base, l'Unione europea deve adeguare il proprio strumento perseguendo nel periodo 2004-2010 un adattamento delle capacità in funzione degli obiettivi strategici.
Ma quanto spendono nella difesa gli altri grandi paesi europei? Ho qui una tabella elaborata dal nostro Servizio studi; l'Italia, nel 2002, l'1,086 del PIL; nel 2003, l'1,061; nel 2004, l'1,052: stiamo decrescendo; la Francia l'1,689 nel 2002, l'1,707 nel 2003, l'1,727 nel 2004; la Germania, che è quella un po' vicina a noi ma comunque ben superiore, l'1,182 nel 2002, l'1,182 nel 2003, l'1,165 nel 2004; la Gran Bretagna è assolutamente fuori quota con il 2,537 e il 2,563.
Richiamo questi dati perché, facendo una media e guardando quello che serve, si è definito, e questa è una cosa condivisa da maggioranza ed opposizione, che le spese per la difesa dovrebbero raggiungere l'1,5 per cento del PIL.
Quando ci siederemo al tavolo con gli altri paesi europei per costruire la difesa europea avremo l'autorevolezza, che vuol dire capacità di mettere a disposizione mezzi, anche interoperativi, per farlo come gli altri paesi? È un progetto importante in cui crediamo?
Passando alla legge finanziaria, ha ragione o no il Presidente della Repubblica a rivolgere il sollecito che ha fatto e ad essere preoccupato? Ha ragione il Presidente ad esprimere preoccupazione! E cerco di dimostrarlo con alcuni dati alla mano.
Nel triennio 2002-2004 le risorse assegnate al Ministero della difesa in termini reali, cioè tenendo conto dell'inflazione, hanno avuto un andamento decrescente, come emergeva anche dalla tabella; l'esercizio è diminuito al punto che nella stessa nota aggiuntiva redatta dal Ministero della difesa, in occasione della presentazione del bilancio di previsione 2004, si diceva: una decisa battuta di arresto - cito testualmente - nell'andamento delle risorse da destinare ai sistemi vitali e qualificanti della difesa, rendendo ulteriormente problematico, se non mettendo a rischio, l'intero processo di riforme. Mi pare un segnale di allarme forte.
Tagliare sull'esercizio significa spendere di meno per le attività addestrative, la formazione, la modernizzazione e quindi per l'efficienza dello strumento militare. Nel 2004 l'esercizio è stato ridotto nel bilancio di previsione rispetto al bilancio del 2001 (l'ultimo del Governo di centrosinistra) di circa il 12 per cento; le spese del personale sono le uniche cresciute; però attenzione: tale crescita non è dovuta tanto ad un miglioramento dei livelli stipendiali del personale, che sono cresciuti meno dell'inflazione, come è accaduto per gli altri contratti del settore pubblico, quanto per effetto della sostituzione, a seguito della riforma, del personale di leva, che è remunerato ancora con il soldo giornaliero, con i volontari. Sempre nel 2004, a luglio, è intervenuto sul bilancio di previsione il decreto «taglia spese», che ha sottratto alla Difesa 977 milioni di euro, così ripartiti: 437 sull'esercizio e 540 sugli investimenti. A questo punto, interviene la manovra di quest'anno.


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Il bilancio previsionale del 2004 assegnava alla Difesa 19.811 milioni di euro, che sono diventati 18.834 per effetto del decreto «taglia spese».
A maggio del 2004 il Ministero dell'economia e delle finanze ha chiesto di formulare una previsione per il 2005 quantificata in 20.793 milioni di euro, giustificati dalla Difesa per recuperare il trend negativo e, soprattutto, con i crescenti impegni ad essa chiesti in termini di incremento di attività operative.
Alla fine del mese di agosto di quest'anno viene approvata dal Parlamento la sospensione anticipata del servizio militare di leva, che assegna alla Difesa ulteriori 393 milioni di euro, portando lo stanziamento previsionale a 20.793 milioni di euro, cifra che il Governo iscrive nel bilancio dello Stato come previsione (A.C. 5311).
Contemporaneamente, il Governo approva, in Consiglio dei ministri, il disegno di legge finanziaria, che introduce il meccanismo dei risparmi di spesa, il cosiddetto tetto del 2 per cento, vale a dire tagli sui bilanci di previsione. Alla Difesa vengono tolti 1.357, 86 milioni di euro: 576 sugli investimenti fissi e 781 sui consumi intermedi. Poiché il tetto del 2 per cento non viene posto sulle spese fisse aventi natura obbligatoria, ciò sta a significare che le due voci indicate subiscono riduzioni nelle previsioni di bilancio a legislazione vigente molto più alte: per il 2005, pari al 19,08 per cento per gli investimenti ed al 20,04 per i consumi intermedi. Saltano, quindi, tutte le previsione e le programmazioni relative ai programmi di ammodernamento e riorganizzazione.
A questo punto, il Governo prevede una compensazione a favore del Difesa introducendo nel disegno di legge finanziaria la previsione della cessione di un consistente pacchetto di immobili della Difesa medesima all'Agenzia del demanio. In cambio di questi beni, la Cassa depositi e prestiti concederà alla Difesa un'anticipazione finanziaria fino al 100 per cento del valore degli immobili.
A questo punto, possiamo fare due conti. Le esigenze della Difesa sono state tagliate di 1.367,86 milioni di euro. Ci sarà un rientro: inizialmente, era stato previsto per non oltre 954 milioni di euro; successivamente, la cifra è stata modificata in Commissione difesa.
Qui sta il punto (e vorrei che fosse prestata un po' di attenzione): l'anticipazione finanziaria che opererà la Cassa depositi e prestiti a favore delle Difesa, e che il Tesoro ripianerà direttamente alla Cassa utilizzando i proventi delle cartolarizzazioni, sarà versata all'entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnata al dicastero della Difesa su appositi fondi relativi ai consumi intermedi ed agli investimenti fissi lordi. In altre parole, il rientro non viene iscritto nel bilancio ordinario della Difesa per il 2005, il che implica che queste risorse non ci saranno il prossimo anno o, comunque, che dovranno essere ceduti altri beni. Quindi, si tratta di un taglio strutturale, non una tantum.
Ciò sta a dimostrare che siamo di fronte ad una situazione veramente difficile. Si potrebbe anche capire il taglio consistente delle spese della Difesa se si fosse trattato di investire nella scuola - ma abbiamo appena ascoltato il collega Colasio: non è così - nel sociale o nella sanità. Niente di tutto questo! Si parla di finanziaria di sviluppo: in realtà, si tratta di finanziaria di «galleggiamento», decisa con l'occhio rivolto alle tre aliquote, al taglio delle tasse che interessa pochi e, soprattutto, gli abbienti.
Quindi, non possiamo non sottolineare criticamente che l'obiettivo che il Governo si era dato ...

PRESIDENTE. Onorevole Pinotti...

ROBERTA PINOTTI. ...quello di intraprendere un percorso positivo per avvicinare il rapporto tra stanziamento per la funzione Difesa e PIL alla soglia dell'1,5 (considerando questo un valore medio importante) si sta sempre più allontanando.
Credo che questo elemento non debba e non possa preoccupare soltanto l'opposizione. Grazie (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-L'Ulivo).


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PRESIDENTE. La ringrazio, onorevole Pinotti.
È iscritto a parlare l'onorevole Raffaldini. Ne ha facoltà.

FRANCO RAFFALDINI. Signor Presidente, i trasporti e la mobilità nelle città costituiscono il sistema nervoso del nostro paese: un paese che si muove sempre, in molti modi, ma ormai a fatica; un paese europeo e mediterraneo.
Guardare seriamente al sistema dei trasporti e della mobilità vuol dire vedere il tramite di relazioni umane, culturali, economiche, la trama su cui vogliamo corrano relazioni di pace; vuol dire conoscere l'economia, di cui il trasporto è componente essenziale ed in cui la logistica è l'allungamento della catena del valore aggiunto; vuol dire incrociare le città, luoghi in cui si concentrano spostamenti e relazioni, ma anche congestioni ed inquinamento.
Insomma, guardare al sistema dei trasporti e della mobilità significa introdursi nel grande tema delle libertà. Queste sono le coordinate di un'azione di Governo - o dovrebbero esserlo per un ministro dei trasporti -, quelli che dovrebbero essere i tratti riconoscibili a vista di un Governo che, invece, non ha una politica dei trasporti e neanche un ministro dei trasporti.
Dopo aver letto il disegno di legge finanziaria per il 2005 - ormai il quarto in questa legislatura -, mi sono convinto che il Governo non considera più, tra le sue priorità, gli investimenti in infrastrutture e trasporti. È ormai con l'acqua alla gola e forse si concentrerà sulla riduzione delle tasse, facendo i salti mortali. Tuttavia, la lavagna su cui Berlusconi ha tracciato da Vespa le opere che avrebbe realizzato rimane bianca, viene arrotolata e messa da parte. In questi anni, non c'è categoria economica e sociale, centro studi, ente locale che non manifesti l'allarme per una situazione ormai bloccata ed insostenibile, ma il Governo non ha orecchie per sentire né occhi per vedere.
Da tempo, abbiamo denunciato, dati alla mano, il fallimento della politica del ministro Lunardi; oggi, però, siamo di fronte ad un fatto nuovo: il Governo, nel suo insieme, ha buttato il ferro a fondo e volge lo sguardo da un'altra parte, quasi non volesse più sentirne parlare. Le tabelle della finanziaria che si aggiungono alla «manovrina» di luglio dicono proprio questo: le risorse diminuiscono del 25,7 per cento, non viene stanziato un euro per la legge obiettivo, per il sud, per il trasporto regionale, per il materiale rotabile, per gli investimenti dei nodi urbani, per l'ANAS. Dopo aver utilizzato tutti i residui, non ci sono più risorse. Non solo le grandi direttrici, ma gli stessi investimenti sulla viabilità ordinaria sono messi in discussione. Il piano nazionale della sicurezza stradale è al verde. Per i porti e gli interporti, chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato. Il trasporto pubblico locale e le città congestionate dal traffico attendono da oltre tre anni un segnale dal Governo, che, invece, li lascia senza risorse, con regole confuse. Il trasporto aereo è nella situazione che tutti conosciamo. L'autotrasporto rischia di trovarsi da solo nella morsa della competizione europea, da una parte, e della polverizzazione e fragilità del settore, dall'altra.
Mentre nel passato potevano esserci settori in difficoltà insieme ad altri che reggevano, oggi, ovunque guardiamo, vediamo difficoltà generali negli investimenti infrastrutturali, che mancano, nell'economia dei trasporti (penso all'economia marittima, alla cantieristica, al cabotaggio e al lavoro portuale) e nella stessa visione industriale del comparto (penso alla logistica, alle aziende di trasporto pubblico locale, al trasporto merci su strada e ferrovia, all'intermodalità).
Di fronte a tutto ciò, c'è il vuoto di un Governo che ha cestinato il piano generale dei trasporti e della logistica per sostituirlo con una chilometrica delibera CIPE senza priorità e senza finanziamenti. Oggi, la situazione è seria. Siamo prossimi al blocco di un ciclo virtuoso di investimenti e di riforme avviato nella metà degli anni Novanta dai Governi di centrosinistra. Questo ciclo teneva insieme visione di sistema, priorità, risorse adeguate, concertazione e riforme, e aveva come punti


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cardinali l'Europa, il Mediterraneo, le città, la sostenibilità ambientale. Aveva, come priorità, il riequilibrio modale - mare, ferrovia, strada - e territoriale - sud e nord - e l'intermodalità.
I finanziamenti pubblici, tra il 1996 e il 2001, sono cresciuti mediamente del 12,6 per cento l'anno, così da avviare investimenti e cantieri nelle ferrovie, nelle metropolitane, nei porti, negli interporti, negli aeroporti, nell'economia marittima e cantieristica, sul piano nazionale della sicurezza stradale. Vennero avviate le riforme del trasporto pubblico locale, dell'autotrasporto, del trasporto aereo, delle ferrovie, del codice della strada. Questo è il tesoro, non il vuoto, che ha trovato Lunardi e questo ciclo sta chiudendosi senza che, in oltre tre anni, il Governo lo abbia rifinanziato o ne abbia avviato uno nuovo.
Con questa legge finanziaria si profila uno scenario nuovo. Il Governo, visto il suo fallimento, non decide un cambio di marcia, un'azione d'urto e di recupero entro la fine della legislatura. Sceglie, invece, di abbandonare questa priorità, tentando il recupero su altri temi. Ma il sistema dei trasporti e delle infrastrutture è un fattore essenziale della competitività, della crescita e della coesione sociale.
La stessa crescita prorompente e duratura delle economie del «far est», a partire dalla Cina e dal continente asiatico, unitamente all'allargamento dell'Europa a 25, affida al Mediterraneo una centralità insostituibile e all'Italia, che è cuore del Mediterraneo e cuore dell'Europa, una prospettiva straordinaria. Una politica dei trasporti, della portualità, delle infrastrutture e della logistica potrebbe intercettare, come avvenne dal 1997 al 2001, enormi volumi di traffico, che altrimenti potrebbero prendere la via dei Balcani o quella dei porti del nord Europa, bypassando l'Italia.
La scelta del Governo di abbandonare questo settore non solo smentisce il contratto con gli italiani, ma lascia il paese allo sbando, e le straordinarie capacità dei nostri operatori, non più sostenuti e valorizzati, saranno mortificate e disperse.
Non dico questo, signor Presidente, con la soddisfazione di chi è all'opposizione, ma con la grande preoccupazione di chi vuol bene al proprio paese e vuole offrire agli italiani una prospettiva nuova (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-L'Ulivo).

PRESIDENTE. Constato l'assenza degli onorevoli Tidei, Siniscalchi e Capitelli, iscritti a parlare: si intende che vi abbiano rinunciato.
Sono così esauriti gli interventi previsti per la seduta odierna.
Il seguito della discussione congiunta è rinviato alla seduta di domani.

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