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PRESIDENTE. Passiamo all'esame dell'articolo 34 e delle proposte emendative ad esso presentate (vedi l'allegato A - A.C. 4862 ed abbinate sezione 3).
Ha chiesto di parlare l'onorevole Vendola. Ne ha facoltà.
NICHI VENDOLA. Signor Presidente, oggi pomeriggio, nel risicato ma vivace dibattito sviluppatosi in quest'aula sulle nozioni di Stato e di Repubblica, abbiamo conquistato qualche grammo di dignità politica per un processo di riforma che vive, viceversa, di un'impressionante miseria culturale ed ideale. Si è trattato di una modica quantità di passione civile, sia pure con qualche semplificazione al limite del grottesco, lo dico al collega Boato. Visto che non si tratta di disquisizioni filologiche ma di come impedire il baratro della devoluzione, eviterei di evocare Hegel e visioni statocentriche sulle spalle di chi non intende offrire alcun appiglio ai nemici dell'unità del paese. Chiusa la parentesi dell'emendamento Tabacci, stiamo per tornare sui binari ordinari di una discussione rachitica, separata totalmente dalla vita del paese.
Con questo articolo, giungiamo al punto cruciale, al cuore vero della controriforma dei nostri assetti costituzionali, perché è qui che comincia, colleghe e colleghi, il suo devastante cammino la vostra devoluzione, nascosta talvolta dalle acrobazie semantiche della destra, ma esibita impudicamente dall'ideologia della separatezza padana. Si tratta di un progetto politico e culturale che non perfeziona l'ambizione federalista, bensì la piega e la deforma in un processo materiale di frammentazione dell'unità del paese, la rende caricaturale e venata di equivoci etnocentrismi, com'è tipico della predicazione leghista, la usa come propaganda per un'indecente proposta di ridefinizione dei poteri dello Stato e del loro equilibrio.
Vorrei fare la domanda chiave: che cosa devolve lo Stato con la devoluzione? Questa è la domanda che non ammette risposte ammorbate di tecnicalità. Lo Stato devolve un'idea fondativa della società e della democrazia, abdica al proprio ruolo di ammortizzatore degli squilibri sociali e territoriali, archivia nelle parate di piazza il tema non retorico dell'unificazione di una nazione, che coincide con la costituzione del suo spirito pubblico e della sua cultura condivisa, smarrisce i doveri costituzionali di garanzia della promozione sociale, smette di frequentare quella modernità che nella temperie del Novecento seppe immaginare l'universalità dei diritti fondamentali. Non poco, come si vede. Non è una mera esercitazione di ingegneria istituzionale e non è neppure una semplice regressione al tema delle piccole patrie, che pure di per sé è già così emblematico della qualità di una globalizzazione che integra i mercati e disintegra i territori.
Si tratta, colleghe e colleghi, di un disegno eversivo - questo è il giudizio di Rifondazione comunista - e quindi non suscettibile di correzioni emendative, proprio perché non si può correggere il rovesciamento di un assetto democratico edificato da grandi culture politiche e da grandi protagonisti collettivi e popolari. Noi siamo impegnati nel contrastare la filosofia generale e le conseguenze pratiche della vostra controriforma. Essa propone un drastico ridimensionamento degli spazi di democrazia nel nostro paese. Determina - questo dovrebbe far riflettere i colleghi e le colleghe di ogni schieramento politico - una ferita insanabile nel corpo delle funzioni parlamentari, stringendo in un angolo il senso medesimo della rappresentanza democratica, svuotando l'agenda del legislatore di compiti e di competenze, rendendo queste aule un guscio vuoto, un simulacro di confronto politico. Essa porta a compimento uno stravolgimento sostanziale dell'equilibrio di pesi e contrappesi, che hanno messo al riparo la trama democratica da qualsivoglia pulsione autoritaria. Invece, per citare l'esempio più clamoroso, il ruolo del Presidente della Repubblica, garante della Costituzione e dell'unità nazionale, viene ridimensionato nei termini di una mesta cornice ornamentale. Viceversa, si dilata a dismisura il potere di condizionamento, e persino di ricatto, del premier sull'intera Assemblea parlamentare. In definitiva, si moltiplicano i filtri e i muri, che separano i luoghi del Governo, sempre più concentrati ed impenetrabili, dalla vita e dalle domande dei cittadini. In questo quadro, signor Presidente, interviene con effetti a nostro avviso deflagranti
la devoluzione. Non parlo tanto del quadro assolutamente approssimativo e caotico che riguarderà i contenitori istituzionali ed il loro incerto equilibrio, quanto della rottura del principio di eguaglianza: un principio costituzionale messo in mora dalla delocalizzazione radicale dei poteri, in tema di formazione e di salute pubblica (e forse anche in tema di ordine pubblico). Ogni territorio avrà la scuola e l'organizzazione sanitaria che sarà in grado di finanziarsi e che corrisponderà alle propensioni politico culturali di chi quel territorio governerà. Cosa diventa l'unità nazionale se viene spogliata di quel suo fondamento sociale (e non retorico), che consiste nell'unitarietà della fruizione di diritti che noi consideriamo universali e che voi, viceversa, considerate mercificabili e negoziabili secondo parametri aziendali, ideologici e confessionali?
Il fatto che inseriate - lo dico al collega Carrara che, in merito a tale questione, costruisce discorsi molto enfatici - il termine «unità nazionale» in un testo che la spappola e la spolpa di significato fa sì che quella declamazione di unità sia soltanto il segno di una coda di paglia.
Tra voi, signori della maggioranza, vi è chi ha fatto carriera con gli esercizi di patriottismo retorico, sventolando tricolori ed esibendo gagliardetti. Sappiamo bene quale fosse il retroterra culturale, nazionalista e mitologico di quell'idea di patria innervata nei richiami del sangue della terra, ma l'odierno patriottismo della destra, già modernizzato dalle cure di quelli che hanno persino immaginato di fare del patrimonio dello Stato una società per azioni, copre la responsabilità politica e morale di condividere una scelta di rottura della morfologia territoriale, sociale e culturale della nazione.
Forse per questo l'onorevole Gianfranco Fini, adunando i giovani del suo partito in un discorso di rara violenza e di irresponsabilità, reinventa una patria paramilitare ed ideologica, un surrogato che vi possa risarcire dalla soggezione al verbo leghista ed ai ricatti della tribù padana. Colleghi della maggioranza, voi volete, in un solo colpo, chiudere il confronto con la questione meridionale e con quella settentrionale, immaginando una società frammentata e rancorosa che trova, come unica unità possibile, il comando plebiscitario di un leader e l'indiscutibile primato del mercato.
Lo fate contro il sentimento profondo del popolo italiano, contro la sua storia e la sua civiltà. Lo fate con la rozzezza degli apprendisti stregoni, contando sul fatto che questo dibattito ha una circolazione ristretta ed un linguaggio cifrato. Lo fate con la supponenza che non ebbero i nostri padri costituenti, ma con la goliardia di chi elabora formule istituzionali, distillandole da un'ampolla magica.
Lo fate, credendo che tutto vi sia concesso e che, in questo azzardo crescente, possiate recuperare quel potere che sapete di poter perdere. Lo fate, non chiedendovi nulla sui problemi immaturi della nostra democrazia, nulla imparando dalle lezioni democratiche che straordinari movimenti di massa, in particolar modo al sud, vi hanno impartito.
Ignorate la storia ed il cuore della nostra gente; ignorate le domande che non riuscite più a manipolare con il monopolio radiotelevisivo. In fondo, ignorate persino la vostra debolezza di classe dirigente, una debolezza pericolosa per il paese che viene convocato a pagare il biglietto del vostro spettacolo.
Ma questa riforma, questo colpo al cuore dell'Italia solidale e democratica non vi riuscirà, non solo per la nostra opposizione, ma perché il popolo italiano sarà la vostra opposizione (Applausi dei deputati del gruppo di Rifondazione comunista)!
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Leoni. Ne ha facoltà.
CARLO LEONI. Signor Presidente, poco fa abbiamo condiviso una nuova formulazione dell'articolo 33 del provvedimento in esame, perché conteneva esattamente le richieste provenienti da molti parlamentari delle regioni a statuto speciale, dai gruppi di opposizione e dai presidenti stessi di quelle regioni.
Vorrei raffreddare certi entusiasmi e dire (so che se ne dispiaceranno l'onorevole Volontè ed altri colleghi) che le cose stanno esattamente nel senso affermato dal collega Olivieri; mi riferisco al fatto che quello sarà davvero l'unico articolo sul quale l'opposizione potrà convergere, non per un pregiudizio, ma per un giudizio di merito su una riforma che continuiamo a considerare sbagliata e pericolosa.
Non ignoriamo il fatto - ce ne siamo accorti, lo constatiamo nelle riunioni del Comitato dei nove - che, mentre a luglio la maggioranza e il Governo avevano rigettato, a volte con argomenti anche sprezzanti, i nostri emendamenti, a settembre, la maggioranza e il Governo hanno cambiato opinione e alcuni di quegli emendamenti non accolti a luglio sono stati fatti propri dalla Casa delle libertà. Tuttavia, anche gli emendamenti accolti non cambiano il segno di una riforma che continuiamo e continueremo a contrastare articolo per articolo.
Tra i passi più negativi, che contrasteremo con maggior dovizia di argomenti ma anche con maggiore energia, vi è proprio il presente articolo. Parlando del Titolo V, vorrei trattare una questione di metodo. La maggioranza decide del tutto autonomamente di fare il bello e il cattivo tempo: a luglio ha deciso di fare la faccia feroce, respingendo i nostri emendamenti e, a settembre, si presenta con una faccia - ma non con una sostanza - apparentemente più dialogante. In ogni caso, è la maggioranza che nei suoi vertici, parlamentari ed extraparlamentari, decide cosa fare della Costituzione italiana.
Di fronte ad un atteggiamento del genere, suona quantomeno grottesca la critica, che proprio da una maggioranza che si comporta così viene mossa nei nostri confronti, sul fatto che nella precedente legislatura la maggioranza di centrosinistra alla fine votò con i suoi soli voti la riforma del Titolo V. Si potrebbe dire: da che pulpito viene la critica, visto che nella scorsa legislatura le cose andarono in senso diametralmente opposto a quanto sta avvenendo ora!
Abbiamo talmente protestato contro una maggioranza che fugge da un confronto di merito che a luglio, per questa ragione, abbandonammo i lavori della Commissione. Nella precedente legislatura, la prima preoccupazione della maggioranza di centrosinistra fu proprio quella di non realizzare da sola le riforme costituzionali e di non realizzare da sola la riforma del Titolo V della Costituzione. Infatti, ci fu un intenso lavoro nella Commissione bicamerale e anche la parte del testo di riforma della Bicamerale riguardante il Titolo V fu votata da quasi tutta la maggioranza e da quasi tutta l'opposizione; inoltre, i presidenti delle regioni e degli enti locali di centrodestra e di centrosinistra venivano in queste aule a chiedere che quella riforma fosse approvata. Alla fine, il centrodestra si allontanò da questo percorso comune e il centrosinistra si trovò di fronte ad un bivio: accettare il veto del centrodestra, bloccando un processo riformatore fino a quel momento condiviso o assumersi una responsabilità, vale a dire quella di concludere quel percorso riformatore. E così andarono le cose anche e in particolare sulla riforma del Titolo V, che alla fine votammo a maggioranza perché non ci sembrò giusto accettare il veto di una opposizione che si ritraeva all'ultimo momento per ragioni esclusivamente politiche, mentre tutto il mondo delle regioni e delle autonomie ci chiedeva di andare avanti.
Questo per quanto riguarda il metodo seguito allora dal centrosinistra, del tutto opposto rispetto a quello che voi state seguendo in questa occasione. Infatti, anche le vostre parziali e apparenti lievi aperture, che non cambiano il segno di una riforma sbagliata, sono in ogni caso «cucinate» e costruite all'interno dei vertici della Casa delle libertà.
In quanto al merito, ne abbiamo parlato non molte ore fa nel corso di una discussione che ha visto anche collocazioni diverse all'interno dei gruppi di maggioranza ed opposizione. Ritengo che tra i punti fondamentali che rappresentano una svolta nella cultura istituzionale di questo paese, e certamente nell'ordinamento costituzionale,
rientri proprio il modo con cui si apre l'articolo 114 della Costituzione. Mi riferisco al principio che stabilisce come la Repubblica sia costituita da comuni, province, regioni, città metropolitane e Stato.
Come già ho avuto occasione di dire anche poco fa, mentre altrove si facevano propaganda e giochini, il centrosinistra inaugurava davvero la stagione del federalismo, all'interno di queste aule parlamentari. L'articolo 114 resta in questo senso una pietra miliare della svolta da noi impressa alla cultura istituzionale di questo paese e alla sua Carta costituzionale. Una svolta, peraltro, perfettamente coerente con la Costituzione del 1948, in particolare con il suo articolo 5, così moderno e lungimirante.
La scelta e l'orgoglio con cui rivendichiamo la riforma del Titolo V, come il vero primo passo verso il federalismo, non ci rende naturalmente ciechi né ci impedisce di vedere i limiti e gli aspetti da correggere, sulla base dell'esperienza fin qui svolta e della giurisprudenza della Corte costituzionale. Siamo attenti legislatori e sappiamo vedere gli aspetti effettivamente da correggere, anche dopo poco tempo. Ad esempio, con i nostri stessi emendamenti abbiamo proposto e continuiamo a proporre talune limitate correzioni alla ripartizione per materie, suggerendo che alcune di queste, sin qui collocate nella legislazione concorrente, diventino esclusive di quella statale. Ma ripeto che si tratta di alcune limitate e motivate correzioni.
Colleghi della maggioranza e del Governo - e su questo tema mi rivolgo in particolare ai colleghi della Lega -, voi fate invece un'operazione di pesante «ricentralizzazione»; il trasferimento dalle materie concorrenti a quelle di legislazione esclusiva dello Stato da voi proposto rappresenta un'operazione politica ed istituzionale di forte ed immotivata «ricentralizzazione». Se poi a questo si aggiunge il modo con cui disciplinate la tutela dell'interesse nazionale, barocco e pericoloso al contempo, tanto da colpire la stessa sovranità del Parlamento, nonché il modo con cui normate il tema dei poteri sostitutivi, è chiaro che si darà vita ad una legislazione costituzionale sui rapporti tra Stato e regioni mai così invasiva, così autoritaria e così centralistica. Non riesco a capire davvero come i colleghi della Lega e quelli provenienti dalle regioni a statuto speciale, appartenenti ad una cultura di decentramento istituzionale, possano motivare un'operazione così pesantemente centralistica. In proposito, i colleghi della Lega rispondono o fanno intendere che tutto questo non conta se viene fatta salva la cosiddetta devoluzione.
Quindi, si combineranno insieme - è questo il grave pasticcio costituzionale - misure di inedita e pesante «ricentralizzazione» dei poteri dello Stato e dell'autoritarismo centrale, con un'idea della devoluzione che, anche se ammorbidita con taluni emendamenti, che tuttavia continuiamo a considerare del tutto insufficienti, rimane pur sempre figlia di quella filosofia secondo la quale avranno più poteri le regioni che possono permetterselo. Una filosofia, quindi, che porta inevitabilmente alla divisione del paese e alla sua spaccatura, proprio rispetto alla tutela di diritti sociali fondamentali, che devono essere invece garantiti su tutto il territorio nazionale.
Questa è la gravità del disegno che intendiamo contrastare, con gli emendamenti alle vostre proposte di modifica del Titolo V: interesse nazionale e clausola di supremazia, così come da voi delineati, «ricentralizzazione», devolution, che costituisce il pericolo che abbiamo denunciato di fronte a tutti gli italiani.
Tutti i costituzionalisti hanno sottolineato, e lo abbiamo fatto anche noi, a partire da quando approvammo la riforma del Titolo V nella scorsa legislatura, che non si potrà parlare di vero federalismo e che la riforma non potrà funzionare fino a quando non si porrà fine al bicameralismo perfetto e paritario - l'Italia è l'unico paese al mondo a conservarlo - che ha avuto nel passato una funzione importante di garanzia, ma che oggi rappresenta una palla al piede rispetto all'esigenza dei cittadini italiani di avere
risposte legislative tempestive ai problemi relativi ai processi economici, sociali e civili che vive una nazione moderna.
Tale bicameralismo perfetto e paritario va superato con l'istituzione di un'unica Camera politica e di un Senato federale degno di questo nome. Al contrario, ci consegnate - e ciò rappresenta il vero colpo al federalismo e alla capacità legislativa dello Stato - una procedura legislativa assolutamente farraginosa e incoerente, che rischia di bloccare il processo legislativo, e un Senato federale che di federale ha ben poco, per composizione, per modalità di elezione e per intervento nella procedura legislativa.
Mi limito ad alcuni esempi. Siamo felici che vi siate finalmente accorti che la contestualità tra le elezioni del consiglio regionale e le elezioni del Senato non può essere affievolita: non si può parlare di Senato federale, se tale contestualità non è rigida e ferma. Tuttavia, finché non scriveremo nella Costituzione che le elezioni del Senato e dei consigli regionali devono avvenire in modo contestuale ma in una data diversa dalle elezioni della Camera dei deputati, si correrà sempre il rischio che le elezioni dei consigli regionali vengano trainate dal voto politico nazionale. Dunque, tutto avremo tranne che una piena consapevolezza, da parte delle comunità regionali, della volontà - questa sì, federale - di scegliere il Governo della propria regione e i propri rappresentanti nel Senato federale della Repubblica. Se non si introduce tale differenza tra la data delle elezioni della Camera dei deputati e quella delle elezioni del Senato e dei consigli regionali, la contestualità rimarrà sempre affievolita e il Senato non avrà mai la legittimazione di un vero Senato federale.
Concordiamo sul fatto - ed anzi, ciò ha ispirato la nostra proposta - che non si possano seguire modelli intrecciati, composizioni miste, compromessi che non rendono chiaro il profilo di ciò che si fa. Il Senato federale può realizzarsi in due direzioni possibili: una soluzione ispirata al Bundesrat, o che comunque preveda rappresentanti eletti dai consigli regionali; ovvero l'ipotesi, da noi proposta, di prevedere l'elezione dei membri del Senato da parte degli elettori della regione, in una misura che tenga certamente conto della differenza di popolazione ma con un range contenuto, in modo tale da impedire che nel Senato federale le regioni più estese e popolose la facciano da padrone a svantaggio di tutte le altre regioni. Quest'ultimo, infatti, è il rischio che si corre con la modalità di elezione del Senato federale da voi proposta.
È un rischio mortale, non solo per le regioni che apparirebbero più svantaggiate, ma proprio per quell'idea federale che in questo modo verrebbe fortemente compromessa.
Infine, il procedimento legislativo. Voi eccedete con i casi in cui è prevedibile una procedura legislativa tipicamente bicamerale. Anche noi ne prevediamo, ma in modo assolutamente limitato e soprattutto prevediamo che la parola conclusiva sul procedimento legislativo - tranne i casi che ho appena citato - debba essere comunque pronunciata dalla Camera politica, da quella cioè che investe il Governo con il voto di fiducia.
Non è vero che soluzioni più pasticciate farebbero del bene al Senato federale! Per qualcuno può apparire una rassicurazione, ma si tratterebbe di una rassicurazione momentanea, perché alla fine renderebbe quella istituzione non una istituzione federale degna di questo nome, ma il soggetto di un pasticcio legislativo che non farà del bene ai Governi, non farà del bene alle regioni e quindi non farà del bene neanche alla popolazione italiana.
Queste sono le ragioni per le quali noi contrastiamo fermamente il vostro progetto di riforma del Titolo V e per le quali noi denunciamo contestualmente sia l'operazione della devolution, con i pericoli che rappresenta, sia l'operazione di pesante «ricentralizzazione» che voi state operando. Queste ragioni sono alla base delle proposte emendative che da domani sottoporremo all'Assemblea, sulle quali chiederemo un pronunciamento chiaro e per le quali l'opposizione combatterà la sua battaglia (Applausi dei deputati dei gruppi
dei Democratici di sinistra-L'Ulivo, della Margherita, DL-L'Ulivo e Misto-Verdi-L'Ulivo - Congratulazioni).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Iannuzzi. Ne ha facoltà.
TINO IANNUZZI. Signor Presidente, con l'esame, la discussione e il voto sugli emendamenti all'articolo 34 - che è intitolato «Modifiche all'articolo 117 della Costituzione», dopo che nel testo varato al Senato si parlava di «Competenze legislative esclusive delle regioni» - entriamo nel cuore del progetto di riforma costituzionale che sta interessando il confronto in quest'aula e che trova - come è doveroso - crescente interesse ed anche crescenti ragioni di apprensione e di preoccupazione nella pubblica opinione.
In primo luogo, non posso non esprimere una sottolineatura di carattere generale e complessivo che investe l'intero processo di riforma e getta su di esso un'ombra inquietante, estremamente forte, difficilmente rimuovibile. Per poter portare avanti la discussione e l'approvazione di un progetto di riforma costituzionale di respiro così ampio e complessivo, che investe ed abbraccia la modifica e la rivisitazione di 43 articoli della Carta costituzionale, occorrerebbe dar vita ad una vera stagione costituente, occorrerebbe alimentare, far crescere e sviluppare un vero clima costituente, in cui si creino tutti i luoghi, le sedi e gli spazi idonei a realizzare un confronto estremamente serrato, articolato, approfondito, il più possibile sereno, sulle questioni e sui nodi da affrontare.
Una riforma costituzionale non può essere approvata - ma neanche concepita - per tenere assieme pezzi di maggioranza rissosa e conflittuale. Non si può concepire una riforma costituzionale per dire comunque un «sì» sofferto, travagliato, confuso, contraddittorio e pericoloso alla pressione, che costituisce ricatto, di una componente della maggioranza.
Una riforma costituzionale, proprio perché viene ad investire la fonte suprema dell'ordinamento giuridico del nostro paese, si può giustificare soltanto in presenza di una capacità di cogliere, identificare, individuare le questioni di fondo del funzionamento delle istituzioni democratiche, nel rapporto tra esercizio dei poteri pubblici e garanzia dei diritti di libertà del cittadino, nella capacità di identificare quei punti del nostro sistema istituzionale che mostrano una condizione di grave e marcata sofferenza e che, quindi, determinano anche una condizione in qualche misura negativa e critica nel rapporto tra esercizio del principio di autorità e tutela della sfera giuridica e dei diritti di libertà del cittadino.
La riforma costituzionale si giustifica soltanto quando ha come sfondo l'identificazione di grandi, vere e profonde questioni, che incidono in maniera determinante sul funzionamento delle istituzioni e sulla vita del paese; e una volta che si riesca a sviluppare e ad esplicare appieno questa capacità vi è l'esigenza di saper realizzare tutti i luoghi e le sedi per consentire un confronto delle opinioni e delle posizioni politiche, espressioni di culture costituzionali diverse, estremamente approfondito e serio, anche alimentando una capacità di ascolto e di dialogo con la comunità nazionale nella ricchezza delle sue espressioni e delle sue risorse, che non può essere tenuta fuori da un autentico processo di discussione e di ponderazione del nuovo quadro di disciplina costituzionale.
Tutto questo non è accaduto; tutto questo non accade; tutto questo purtroppo - non è difficile prevederlo, visto come stanno procedendo le cose - non accadrà. Siamo di fronte invece ad un processo di riforma costituzionale che è stato messo in piedi e continua ad essere portato avanti soltanto per cercare di tenere insieme componenti rissosi di una maggioranza di Governo, in cui la discussione sulle questioni costituzionali avviene alla stessa stregua di quella delle diverse previsioni da inserire in una manovra finanziaria o in provvedimento del Governo che debba incidere, e in qualche misura correggere, sui conti pubblici.
In queste occasioni vi è una trattativa, un confronto tra le diverse anime della maggioranza per identificare i tagli finanziari cui bisogna dare attuazione, le poste da salvaguardare, gli equilibri che vanno garantiti, gli interessi che non vanno intaccati e per i quali in qualche misura gli interventi debbono essere mitigati.
Qui abbiamo praticamente lo stesso metodo: una forza politica ha chiesto il federalismo, lo ha anche caricato di un significato simbolico e culturale inaccettabile, aggressivo ed invasivo, e ad essa si dà la cosiddetta devolution. Un'altra forza politica, Alleanza nazionale, ha sempre guardato al presidenzialismo: a mo' di compensazione, si cerca di costruire un confuso modello di premierato; l'UDC ha alzato la bandiera di grandi questioni, ma poi alla fine si accontenta di soluzioni estremamente ridotte, estremamente circoscritte, che non hanno alcun impatto vero di modifica, di miglioramento, di elevazione del progetto di riforma costituzionale in discussione.
Questo è il quadro in cui matura il processo di discussione costituzionale: non c'è alcuna identificazione delle vere e grandi difficoltà del sistema, con lo sforzo di costruire, attraverso nuove norme costituzionali, equilibri e meccanismi in grado di consentire alle nostre istituzioni di diventare più moderne, più efficienti, più funzionali, e, soprattutto, di inserirsi in un rapporto più proficuo e democraticamente compiuto con la pubblica opinione e con l'esercizio dei diritti di cittadinanza.
Ma quali sono le grandi questioni che si indentificano nel nostro paese? Vi è certamente la necessità di pensare alla costruzione di regole che garantiscano un governo più avanzato delle nostre istituzioni, rendendole più efficienti e moderne, ma vi è anche l'esigenza di garantire adeguata tutela, adeguata rappresentanza ai nuovi diritti di cittadinanza, alle nuove e forti domande di partecipazione che avanzano dalla comunità e che chiedono una risposta istituzionale, che chiedono spazio, luogo, forme e sedi di rappresentanza.
Qual è, invece, il filo conduttore del disegno di legge in discussione? Da un lato, attraverso le norme che riguardano la forma di Governo, sostanzialmente si vuole introdurre un principio molto arido e brutale, quello del dominio del Primo ministro, che deve imbalsamare e paralizzare la sua maggioranza con un Governo, tutto schiacciato sull'esigenza di preservare la posizione del Primo ministro medesimo, con un Parlamento fortemente depotenziato e svilito, in linea con tante cose che sono state realizzate in questi tre anni da questo Governo e da questo Presidente del Consiglio dei ministri, e con tante cose che sono state affermate. Si depotenzia e si indebolisce il ruolo del Presidente della Repubblica. Si crea, inoltre, un meccanismo estremamente farraginoso e confuso, oltre che di difficilissima possibilità di funzionamento, nel percorso legislativo tra leggi a contenuto e procedimento riservato essenzialmente al Senato, leggi riservate essenzialmente alla Camera e leggi sostanzialmente bicamerali.
In tutto questo discorso si inserisce la modifica dell'articolo 117 della Costituzione, che è il vero punto di partenza di questa riforma costituzionale ed è il vero motore di questa operazione politica, perché nasce da una richiesta - che ha assunto toni minacciosi, in più di una occasione - della Lega nei confronti del Governo, dei partners della maggioranza e del Presidente del Consiglio dei ministri. Da ciò nasce la riscrittura dell'articolo 117 della Costituzione. Penso che debba essere affermato con grande chiarezza che la stessa riforma del Titolo V della Carta costituzionale, approvata alla fine della scorsa legislatura e convalidata dal voto popolare del referendum dell'ottobre 2001, necessita di una lettura più attenta di quella che è emersa in tante motivazioni, con le quali si cerca di costruire un clima favorevole intorno alla riforma costituzionale che stiamo discutendo, già approvata dal Senato in prima lettura ed oggi, all'esame dell'Assemblea di Montecitorio. Se leggiamo con attenzione questa riforma, se la esaminiamo nella globalità delle sue
norme, dell'intero articolo 117 e nella lettura che ne ha dato la Corte costituzionale, soprattutto con la sentenza n. 303 del 1o ottobre 2003, sicuramente possiamo indicare che alcuni aspetti sono stati assolutamente trascurati, sono assolutamente assenti nelle analisi e nelle valutazioni di chi, oggi, vuole portare avanti questo processo costituzionale così apparentemente ambizioso e così veramente dirompente e pericoloso per l'unità del paese e per l'integrità del nostro ordinamento giuridico.
La Corte costituzionale, con la citata sentenza n. 303 del 2003, si è pronunciata, essenzialmente, sulle norme della legge obiettivo, la legge n. 443 del 2001 sulle grandi infrastrutture. Tuttavia, ha enucleato anche alcune indicazioni e alcuni principi che, in qualche misura, consentono una lettura sistematica e complessiva più completa e rassicurante della riforma del Titolo V e, soprattutto, degli articoli 117 e 118 della Costituzione, riguardanti il riparto della competenza legislativa e della competenza amministrativa tra Stato, regioni ed enti locali. La Corte, in questa sentenza, avendo di fronte la valutazione e la disamina del nuovo articolo 117 e del nuovo articolo 118 della Costituzione, si sofferma sull'attività unificante che deve competere allo Stato e che non può essere esaurita nel novero delle materie rientranti, ai sensi dell'articolo 117 nella sua formulazione letterale, nella competenza legislativa esclusiva dello Stato o nella determinazione dei soli principi fondamentali che lo Stato può e deve delineare e dettare nelle materie rientranti nella legislazione corrente. Se così fosse - dice la Corte - ne deriverebbe uno svilimento di quelle istanze unitarie, che sono e debbono rimanere fondamentali e indistruttibili in qualsiasi ordinamento, anche nel nostro ordinamento costituzionale. La Corte osserva come, anche in quei sistemi costituzionali attraversati da un ricco e articolato pluralismo istituzionale, non vi sia mai una lettura rigida e meccanica del riparto delle competenze legislative, ma si giustificano sempre deroghe alla ripartizione, per così dire, normale delle competenze legislative, risultante soltanto dalla applicazione e da una interpretazione letterale delle norme.
La Corte al riguardo fa riferimento alla clausola di supremazia nel sistema federale statunitense o alla legislazione concorrente nell'ordinamento costituzionale tedesco. Ma la Corte afferma che anche nel nostro sistema costituzionale, alla luce della riforma del Titolo V, sono presenti meccanismi e congegni volti a rendere più flessibile e completo un sistema in cui, in determinati ambiti e materie, per il sovrapporsi e per il sovraccarico di competenze e di attribuzioni, in qualche misura, si verrebbero ad indebolire e ad invulnerare quelle istanze unitarie, che nel nostro sistema costituzionale trovano espressione giuridica in quel principio di unità ed indivisibilità della Repubblica sancito dall'articolo 5 della Carta costituzionale.
E qual è un grande elemento di flessibilità cui fa riferimento la Corte? È il principio di sussidiarietà sancito dall'articolo 118 della Costituzione. La Corte osserva che, con riferimento all'articolo 118, primo comma, della Costituzione, secondo cui l'esercizio delle funzioni amministrative spetta in prima battuta ai comuni, tranne che quando emergano e siano predominanti esigenze ed istanze di esercizio unitario è necessario che tali funzioni siano conferite alle province, alle regioni e allo Stato ed esercitate dalle stesse sulla base dei principi di sussidiarietà, di differenziazione e di adeguatezza. È proprio questo il punto. Il principio di sussidiarietà, proprio nel momento in cui opera come un subsidium, lo fa non soltanto per il riparto delle competenze e delle funzioni amministrative, ma inevitabilmente si riverbera sul sistema delle competenze legislative. Sussidiarietà significa che si interviene quando un determinato livello di governo non è sufficiente per garantire un esercizio adeguato di quella funzione pubblica. Prevalgono esigenze ed istanze di ordine superiore e di carattere unitario che impongono un esercizio più omogeneo ad un livello di governo più alto e che portano, quindi, a delineare una sorta di curva ascensionale - come dice la Corte -
verso un livello di governo superiore. Questo vale per l'esercizio della funzione amministrativa, ma anche per l'esercizio della funzione legislativa. Allora, la sussidiarietà viene ad avere una vocazione non statica, ma dinamica, vera e profonda. Non opera più come il fondamento di un sistema di competenze rigide, statiche e predeterminate, ma come fattore di grande flessibilità nel riparto delle competenze e delle attribuzioni legislative ed amministrative, per assicurare la salvaguardia e la valorizzazione delle istanze di carattere unitario che sempre vanno garantite in un ordinamento costituzionale, anche in quelli a più marcata matrice e tendenza federalista o con il più marcato pronunciamento di funzioni decentrate verso il sistema dei poteri e delle autonomie regionali e locali.
Questo è il senso della lettura della riforma del Titolo V ed è indicativo che la Corte, quando si sofferma sulla materia dei lavori pubblici, rileva che non avere incluso i lavori pubblici in una formulazione letterale delle varie disposizioni dell'articolo 117, non significa che questa materia sia sottratta ad ogni intervento legislativo dello Stato o che rientri nella competenza legislativa esclusiva residuale delle regioni: significa che è una materia che integra ambiti differenziati, specifici che, in relazione all'oggetto di volta in volta interessato, ricadono nella competenza legislativa esclusiva dello Stato o nella competenza legislativa concorrente.
Questa riforma è completamente al di fuori di ogni seria, vera riflessione di stampo e di matrice federalista. Nella cultura federalista, sia quella italiana, da Cattaneo a Gioberti, sia quella di stampo statunitense, il federalismo è un processo che non separa, non divide, non frantuma, non rompe. È un processo che cementa, che unifica, che dà forza ad un sistema di comunità locali che sono e rimangono autonome, ma che in forza e per servire esigenze ed istanze di carattere unitario cedono liberamente quote della loro sovranità. Allora, lo Stato federale viene ad essere momento di costruzione e di cemento di un'unità ricca e complessiva, di un sistema articolato di pubblici poteri che non è in contrapposizione o in conflitto, ma che trova nella struttura federale il momento di massima unificazione.
Questo è il senso della lezione che ci deriva dal federalismo statunitense, dal dialogo tra il settecentesco Clinton, governatore dello Stato di New York, ed Hamilton, nelle pagine del suo Federalist. Il federalismo come sistema di poteri decentrati che non pone mai a rischio, ma rafforza l'unità di un paese, l'unità di un ordinamento; il federalismo come sistema di governo che è capace di far convivere l'autorevolezza e la forza dell'autorità pubblica con i diritti individuali dei cittadini, il benessere della comunità, la capacità di controllo dei cittadini; il federalismo come articolazione rispettosa delle autonomie locali e dei pubblici poteri, che, soprattutto, non intacca la rappresentanza complessiva di una comunità che è profondamente unita da forti valori comuni e da forti e reciproche solidarietà.
Ecco, se è così, non possiamo non considerare poi - e vengo alle considerazioni conclusive - l'attribuzione (la cosiddetta devolution) di materie che dovrebbero rientrare nella competenza legislativa esclusiva delle regioni. Come potranno coordinarsi, come potranno armonizzarsi con quella lettera m) dell'articolo 117, secondo comma, della Costituzione, che attribuisce alla legislazione esclusiva dello Stato la determinazione dei livelli essenziali di quelle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, che debbono essere garantiti su tutto il territorio nazionale? Infatti, senza quella omogeneità, quella unitarietà di livelli essenziali delle prestazioni, che interferiscono e investono i diritti civili e sociali essenziali della persona umana, non regge e non esiste un paese veramente unito, un ordinamento veramente coeso, un paese che riesce ad avere saldezza profonda di valori, di solidarietà, di motivazioni comuni, di prospettive, di passioni civili, di volontà di crescere e di diventare sempre più determinante anche nel consorzio della comunità internazionale.
Ecco, con tutto questo, come potrà mai conciliarsi la formulazione legislativa
verso cui vi avviate? Per il tentativo di dare, comunque, una apertura verso un malinteso federalismo, che non ha nulla a che vedere con la vera cultura di matrice federalista, di stampo federalista, di profonda vocazione federalista, voi pensate di riservare alle regioni la potestà legislativa esclusiva in alcune materie. Le indicate e ponete problemi di coordinamento enormi tra quella lettera m) del secondo comma dell'articolo 117 (la determinazione dei livelli essenziali) e, ad esempio, la sanità. Le regioni dovrebbero avere competenza esclusiva per l'assistenza e l'organizzazione sanitaria; poi dovremmo coordinare queste competenze con le norme generali sulla salute rientranti nella competenza legislativa esclusiva dello Stato e con la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni inderogabili. Ancora di più. Prefigurate una competenza esclusiva che incide da un lato sul diritto alla salute e dall'altro sul diritto alla scuola, laddove parlate di organizzazione scolastica, di gestione di istituti, e dovete trovare un punto di equilibrio con «pezzi» di materie che rientrano nella competenza legislativa esclusiva dello Stato (le norme generali sull'istruzione), o nella competenza legislativa concorrente.
È evidente che, attraverso tutto questo percorso, voi non affrontate quello che invece poteva e doveva essere affrontato (come ha dimostrato tutta l'attività svolta con grande intensità dal centrosinistra, in particolare dal gruppo della Margherita, con il collega Bressa, in Commissione, in tutti questi mesi); bisognava intervenire per integrare, per modificare, per migliorare il testo vigente dell'articolo 117, tenendo conto, da un lato, dell'esperienza maturata in questi anni e, dall'altro, delle indicazioni emerse attraverso la giurisprudenza della Corte costituzionale.
Noi siamo pronti a confrontarci su questi aspetti, che però non hanno nulla a che vedere con questa pretesa di costruzione di un modello di organizzazione dei pubblici poteri profondamente diverso, in cui introducete norme assolutamente ingovernabili, destinate a creare conflitti enormi di competenza e di rapporto tra i diversi livelli di governo nel nostro paese e che ancor di più sono caricate di un significato culturale simbolico ed ideologico assolutamente inaccettabile, perché carico di un atteggiamento aggressivo, invasivo, in qualche misura demonizzatore di una parte del paese nei confronti dell'altra.
Ebbene, tutto ciò viene compiuto, mettendo in piedi un processo costituzionale di queste dimensioni, unicamente per cercare di dare un «contentino», giudicato indispensabile, per la sopravvivenza di una maggioranza. Si allarga il novero delle materie da disciplinare, e dunque delle parti della Costituzione da ribaltare e da riscrivere in profondità, soltanto per trovare, alla fine, un equilibrio complessivo di maggioranza.
Tutto ciò viene compiuto anche attraverso una tecnica di scrittura delle nuove norme costituzionali che non ha nulla a che vedere non solo con un vero clima costituente e con una vera e seria stagione costituente, ma anche con la qualità, con la ricchezza di elaborazione culturale, con la passione civile e perfino con la finezza giuridica e la capacità di saper tradurre i valori e le scelte politiche contenute nelle norme alla base di quella Costituzione che oggi, in larga misura, vi apprestate a smantellare.
Sono tutte queste le ragioni per condurre un'opposizione forte, motivata e determinata, che stiamo sviluppando con grande intensità. Lo faremo sempre di più in questa Assemblea sulla riforma dell'articolo 117 della Costituzione e su tutte le disposizioni successive del provvedimento in esame; lo faremo, se sarà necessario, anche chiedendo alla pubblica opinione e al popolo di riappropriarsi della necessità di salvaguardare le norme più sacre che esistono in ogni paese: le norme della propria Carta costituzionale.
Non è possibile, infatti, operare un processo di riforma costituzionale di tali dimensioni per un'angusta, gretta e - mi sia consentito - meschina necessità di risolvere e di sistemare gli equilibri di una maggioranza di Governo. Sono altri i percorsi da seguire: si tratta dei percorsi della
politica, della dialettica e del rapporto tra le forze che compongono una maggioranza. Sono scelte che investono altri campi della politica nazionale, dalla politica economica a quella sociale, ma non il campo della scrittura delle regole fondamentali del nostro Stato democratico e della nostra Carta costituzionale. Per questo motivo, ci opporremo con tutte le nostre energie e con profonda convinzione, motivando puntualmente e puntigliosamente ogni passo del nostro percorso, sia in quest'aula, sia nel paese (Applausi dei deputati del gruppo della Margherita, DL-L'Ulivo - Congratulazioni).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Perrotta. Ne ha facoltà.
ALDO PERROTTA. Signor Presidente, vorrei far presente come in questi dibattiti rimanga sempre perplesso, perché si parla del «sesso degli angeli» e di cose «campate in aria», ma non si affronta mai il tema specifico. Per quanto concerne le critiche alla riforma che proponiamo, soprattutto alla revisione dell'articolo 117 della Costituzione, allora, vorrei far comprendere ai colleghi presenti, ma soprattutto a chi ci ascolta, cosa avremmo fatto.
Abbiamo sostenuto, che spetta alle regioni la potestà legislativa esclusiva in alcune materie, che andrò ad illustrare. Per quanto concerne, in primo luogo, l'assistenza e l'organizzazione sanitaria, vi sembra possibile organizzare da Roma l'assistenza sanitaria ed ospedaliera a Canicattì, a Milano o a Napoli? È logico che spetti alle regioni farlo, e non mi sembra che sia stato proposto qualcosa di strano, anzi!
Per quanto concerne l'organizzazione scolastica e la gestione degli istituti scolastici e di formazione, vi sembra possibile organizzare da Roma, ad esempio, l'istituto tecnico industriale «Enrico Fermi» di Milano o di Napoli, oppure un'altra scuola media romana o siciliana? Mi sembra logico che tale organizzazione spetti alle regioni! Tra l'altro, vorrei ricordare che abbiamo proposto che alle regioni spetti la definizione dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della regione stessa. Ma vi sembra possibile stabilire a livello nazionale se si debba studiare a Napoli la storia piemontese o in Piemonte la storia del Regno delle Due Sicilie?
Credo che le regioni, nei programmi scolastici, possano stabilire se sia necessario, ad esempio, studiare in Piemonte più la storia del Regno austro-ungarico e in Campania più quella del Regno delle Due Sicilie. E vi sembra che stiamo facendo cose straordinarie? Che stiamo cambiando l'Italia? Se la stiamo cambiando, la stiamo cambiando in bene.
Chi ci ascolta, deve sapere che esistono due legislazioni: una di esclusiva competenza dello Stato; l'altra nella quale rientrano anche le regioni. Per quanto riguarda la legislazione di esclusiva competenza statale, ho visto, tra i vari emendamenti, uno della maggioranza, cui devo plaudire, scaturito dal confronto con i presidenti delle regioni e delle province, con i sindaci, e con le organizzazioni private - quali la Confindustria, la Confartigianato, eccetera - e dello Stato e del parastato. È stato compiuto un lavoro immane.
Alla fine, la maggioranza ha inserito nel provvedimento anche altre problematiche, prevedendo, ad esempio, che, nelle materie di competenza esclusiva dello Stato, alla tutela del risparmio si affianchi anche quella del credito. Mi sembra, infatti, naturale che lo Stato debba anche tutelare il credito. Questa maggioranza ha altresì stabilito che lo Stato conservi anche le norme generali sulla tutela della salute e sulla sicurezza e qualità alimentari. Mi sembra naturale che di ciò se ne occupi lo Stato. Non è materia la cui regolamentazione si può lasciare alle singole regioni. Certo, anche le singole regioni si potranno inserire in tale ambito, ma vi sembra che noi, che abbiamo stabilito che lo Stato deve tutelare la salute e la sicurezza e qualità alimentari, stiamo sbagliando? A me non sembra. Non credo che stiamo sbagliando e non credo che su questa riforma, quando se ne parlerà, nei vari dibattiti radiotelevisivi, avremo torto.
La verità sul motivo per cui siete contrari a questa riforma, la dirò alla fine del mio intervento. Vi sembra inoltre che, quando abbiamo stabilito che le norme di sicurezza per le grandi reti strategiche e di trasporto e di navigazione di interesse nazionale nello stabilire devono restare nella competenza esclusiva dello Stato, abbiamo sbagliato? Vi sembra che le grandi reti di trasporto aeree, di navigazione e ferroviarie, possano essere localizzate, parcellizzate, regionalizzate? Certo, ci saranno anche i trasporti regionali, lo diremo in seguito. Vi saranno anche le reti regionali - lo diremo sempre in seguito - ma la strategia unitaria deve essere quella dello Stato.
Vi sembra che abbiamo sbagliato nell'affermare che l'ordinamento delle professioni intellettuali e l'ordinamento sportivo devono restare in mano allo Stato? Faccio un esempio pratico, nel ramo sportivo: come potremmo ottenere tutte le medaglie che abbiamo ottenuto nelle varie manifestazioni sportive e che ci portano grande prestigio internazionale, se lasciassimo la formazione atletica alle regioni, alle province ed ai comuni? Lo stesso vale anche per la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell'energia.
Può sembrare, a voi parlamentari o ai cittadini che ci ascoltano, che noi si possa lasciare in mano ad altre autorità, che non siano quelle statali la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell'energia? A chi le vogliamo affidare? Ai comuni? Alle regioni? Le dobbiamo per forza lasciare tra le materie di competenza esclusiva dello Stato. Le regioni - lo dirò in seguito - hanno altri compiti. Mentre noi dobbiamo varare norme generali sulla tutela della salute e della sicurezza e qualità dei prodotti alimentari, le regioni possono pensare ad altri problemi.
Abbiamo fatto un altro grave danno stabilendo che le regioni sono preposte all'attività sportiva e ricreativa ed alla realizzazione degli impianti sportivi e delle attrezzature relative? Certo non lo potremmo fare noi, da Roma. Ripeto: ciò sembra un altro grave danno che abbiamo fatto? Credo che abbiamo introdotto un altro principio positivo. Mi sembra che, oggi, tra le competenze che abbiamo trasferito alle regioni vi sono la comunicazione d'interesse regionale, le televisioni regionali, le radio regionali, la promozione in ambito regionale dello sviluppo e delle comunicazioni elettroniche.
Abbiamo stabilito che la distribuzione e il trasporto dell'energia possono essere di competenza regionale. Peraltro, sono rimasto perplesso per il fatto che oggi invertite il ruolo. Diciamo la verità: sappiamo tutti il motivo per cui è cambiata la strategia anche in quest'aula. Chi ci ascolta lo deve sapere, anche se magari non legge i giornali: eravamo tutti d'accordo ad approvare queste modifiche alla Costituzione e, fino all'altro ieri, non vi era nulla di strano. Poi, improvvisamente, emerge un'altra linea, quella di Prodi, secondo cui bisogna fare opposizione su tutto, «tanto peggio, tanto meglio». Tuttavia, la verità è che il «tanto peggio, tanto meglio» non va a vantaggio dell'opposizione: noi smaschereremo questo cambio di strategia e, soprattutto, questo tentativo di mescolare, come sempre, le carte e di dire bugie. Le cose che ho detto ve le ripeteremo piazza per piazza e televisione per televisione; non attraverso i giornali perché, per il 95 per cento sono tutti di sinistra e, quindi, riportano ciò che vogliono.
Ma andiamoli a fare i dibattiti! Andiamo a dire il motivo per cui, fino a ieri, eravate grosso modo d'accordo, perché vi abbiamo stretto, perché il presidente e il ministro hanno accolto gran parte dei vostri emendamenti. E vi voglio vedere quando poi dovrete votare contro! Infatti, ve li faremo votare uno per uno: voglio vedere come farete! Mi alzerò e lo dirò; ci alzeremo e lo diremo! Voi non sapete più come uscirne, non avete una strategia, non avete nulla! Diciamolo chiaro e tondo: la volta scorsa, sulla devolution, su questo benedetto articolo, avete fatto un casino! Scusate la volgarità, ma tale espressione esprime bene il concetto.
PRESIDENTE. È una felice sintesi!
ALDO PERROTTA. Oggi ci accusate di procedere a maggioranza, ma voi la volta scorsa, nel tentativo di imbrogliare la gente, avete fatto una rivisitazione del Titolo V della Costituzione e l'avete fatta passare con quattro voti di maggioranza. Oggi noi, che ci apprestiamo a migliorare, a codificare e a rendere visibile e reale la devolution - e la approveremo, statene certi, con 70, 80, 90 voti di maggioranza - saremmo arroganti! Se una riforma viene approvata con quattro voti di maggioranza e la fate voi, è democratica; se la dovessimo fare noi che abbiamo chiesto il vostro contributo (che ci avete accordato fino a ieri e, poi, improvvisamente avete cambiato idea) con 70 o 80 voti di scarto, saremmo arroganti. Questa è la continua e sistematica mistificazione che fate volta per volta. Ma stavolta non vi riesce! Non vi riesce perché il ministro Calderoli è bravo; non vi riesce perché il nostro presidente è bravo; non vi riesce perché il sottosegretario Brancher è bravo e non vi riesce perché noi siamo bravi! Non vi riesce perché siamo bravi, perché vi stringeremo e vi costringeremo! Lo ripeto: fatelo il referendum, sarà la vostra ennesima sconfitta! Non ne vincerete più uno! Non riuscite a portare la gente a votare, non sapete più cosa fare. Inventatevi ciò che volete: questa è una cosa che faremo, che porteremo fino in fondo e sulla quale giochiamo la nostra grande credibilità (Applausi dei deputati dei gruppi di Forza Italia e di Alleanza Nazionale - Congratulazioni).
PRESIDENTE. Sono così esauriti gli interventi sul complesso degli emendamenti.
Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.
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