Resoconto stenografico dell'Assemblea
Seduta n. 493 del 19/7/2004
Back Index Forward

Pag. 33


...
Si riprende la discussione del disegno di legge n. 2145-B (ore 15,03).

(Ripresa della discussione sulle linee generali - A.C. 2145-B)

PRESIDENTE. Riprendiamo la discussione del disegno di legge n. 2145-B.
Ricordo che nella seduta antimeridiana sono iniziati gli interventi sulle linee generali.
Constato l'assenza dell'onorevole Lo Presti, iscritto parlare; si intende che vi abbia rinunziato.
È iscritto a parlare l'onorevole Alfonso Gianni. Ne ha facoltà.

ALFONSO GIANNI. Signor Presidente, è inutile ricordare che siamo di fronte ad un provvedimento di grande rilevanza, che vale una legislatura. D'altro canto, rilevo che alcuni, anche all'interno della maggioranza, hanno osservato - con più di una regione - che un provvedimento che riguarda il sistema previdenziale dovrebbe, non dico essere concordato, ma quanto tener conto di un parere che attraversa le generazioni, che percorre i partiti politici e che interessa i sindacati.
Non vi è dubbio che questo tema riguardi il futuro e la vita delle prossime generazioni. Come il relatore Maninetti ben sa, stiamo decidendo il futuro delle prossime generazioni. Si tratta di una responsabilità non certo piccola, che non può essere presa a cuor leggero. Ebbene, la stiamo affrontando nel modo più sbagliato possibile!
Signor Presidente, è raro che, in modo razionale, si arrivi al punto di prevedere in una iniziativa legislativa il peggioramento delle condizioni di vita delle prossime generazioni. Ovviamente, questo può verificarsi per errore, insipienza o disattenzione; certo, fenomeni tragici per una classe politica che dovrebbe prevedere il futuro (e quella dovrebbe essere la sua caratteristica dominante) delle prossime generazioni. Eppure, può accadere. Esiste un'eterogenesi dei fini in filosofia, figuriamoci se non esiste anche in politica!
Ma qui non siamo di fronte ad un qualcosa che diventa altro, pur restando diversa la volontà del proponente. No, in questo caso siamo di fronte alla volontà esplicita, determinata e decisa di far star peggio i nostri figli rispetto a noi, che siamo i loro padri. Capirete bene che così ci stiamo assumendo una responsabilità grave.
Mi rendo conto di parlare in un'aula completamente deserta: in questo momento, siamo presenti in otto, esclusi naturalmente i resocontisti, la cui presenza è preziosa in ogni caso (a prescindere dal numero dei partecipanti alla seduta).
È singolare, Presidente, che su un argomento che decide la vita, le condizioni delle prossime generazioni, dei figli delle prossime generazioni, dei nostri pronipoti, quando noi non ci saremo, né lei né io,...


Pag. 34

PRESIDENTE. Lei non ponga limiti alla provvidenza!

ALFONSO GIANNI. Non li pongo, ma credo che la provvidenza non farà sconti, neanche nel suo caso, oltre che nel mio! Comunque, l'argomento è troppo serio per fare battute.
Ci troviamo di fronte alla questione di decidere il peggioramento delle condizioni di vita delle prossime generazioni. In via etica, mi domando (so che il relatore Maninetti non è privo di sensibilità morale) se sia opportuno assumere decisioni tanto pesanti. Qualcuno potrebbe dire che, in fondo, questo disegno di legge Maroni (se così lo vogliamo chiamare) non modifica molto, se non in senso peggiorativo (ma sulla stessa linea), le linee della «controriforma» delle pensioni attuata dal Governo Dini. Questo è vero, c'è un fondo di verità, anche se il peggioramento è molto sensibile, per cui non assolve i «peggioratori» dalla loro responsabilità morale; però - mi permetteranno di dirlo il relatore e gli amici della maggioranza - chi, come noi di Rifondazione comunista, è stato contrario alla «controriforma» Dini, a maggior ragione, con più forza, con più energia, è contrario a questo disegno di legge Maroni.
Che cosa non ci piace in questo impianto generale? Metto insieme sia la riforma Dini sia il disegno di legge Maroni, poi vedremo più nel dettaglio le differenze. Non ci piace l'idea - l'ho detto tante volte, e lo ripeto sinteticamente in questa discussione sulle linee generali - che l'aumento della speranza di vita e della vita effettiva delle persone si ripercuota sulle stesse - quasi fosse una loro colpa, anziché una conquista del benessere sociale, delle migliori condizioni igieniche, degli sviluppi della medicina - come una maledizione che le costringe a lavorare di più. Pertanto, anziché sfruttare questa maggiore possibilità di vita dedicandola a passioni, ad affettività, a quelli che gli americani, che sono un po' grossier, chiamerebbero hobby (noi parleremmo di «particolari inclinazioni»), essa deve essere dedicata ad un prolungamento dell'attività lavorativa.
A me sembra che tutto questo sia una mostruosità, di cui un giorno qualcuno si renderà conto. Mi sembra davvero un'assurdità: il progresso contro se stesso! Ciò che migliora le condizioni di sopravvivenza dell'umanità si ripercuote contro di essa, con una sorta di maledizione che la consegna ad un lavoro.
Naturalmente, i colleghi mi potrebbero dire (e lo dico anch'io) che non tutti i lavori sono uguali. Lo so bene! Infatti, il sottosegretario Brambilla, che pazientemente mi ascolta (o finge di farlo: ed è un'ottima finzione la sua!), il relatore Maninetti o l'amico Perrotta, oppure il presidente Benedetti Valentini vorrebbero - lo so bene - essere deputati finché avranno fiato in corpo, cioè vorrebbero continuare a lavorare per sempre. Per quale motivo? Perché questo è un lavoro che ci piace (e includo anche me). Ci piace parlare, ci piace discutere, ci piace essere, dal punto di vista dell'informazione, in un cono di luce anziché in un cono d'ombra, e ci piace ragionare. Insomma, è un bel lavoro, il nostro: vorremmo farlo a lungo, e sappiamo che, nel nostro caso, l'età porta consiglio e saggezza. Non dico che, per qualcuno, più è vecchio meglio è, ma spesso un'età avanzata permette di vedere meglio le distanze che ci separano sia dal passato, sia dal futuro.
Pertanto, vorremmo essere sempre in pista e non andare mai in pensione. Vorremmo lavorare sempre, perché possiamo decidere i tempi del nostro lavoro, nessuno ci sta sopra e nessun padrone ci rompe le scatole! Il nostro, insomma, è un bel lavoro: gratificante sotto il profilo intellettuale, gratificante sotto quello economico - questo va detto, perché non è una vergogna - e gratificante anche sotto il punto di vista morale, poiché qualcuno di noi può persino pensare, a torto o a ragione, che la propria vita sia dedicata al servizio della comunità.
In queste condizioni, allora, che importanza hanno, effettivamente, 75, 80 oppure 85 anni? Vale la pena andare avanti


Pag. 35

finché c'è fiato in corpo, poiché l'intelligenza muove i nostri ragionamenti ed i nostri arti. In tal caso si può restare al lavoro, ma, onorevoli colleghi, per tutti coloro che stanno fuori da questa aula, per tutti coloro che stanno fuori dalle aule universitarie, per coloro che stanno fuori dalle cliniche e per tutti coloro che stanno fuori dai consigli di amministrazione non è così!
C'è chi fa l'operaio, chi fa l'infermiere, chi fa l'impiegato, svolgendo un lavoro ripetitivo, e chi fa il centralinista: orbene, tutte queste persone, che costituiscono l'hardware del sistema economico complessivo (mentre noi ne siamo il software), dopo 35 anni non ne possono più! Signor sottosegretario Brambilla, lei lo sa: dopo 35 anni, queste persone non ne possono più e non vedono l'ora di andare in pensione!
Una volta andate in pensione, possono svolgere anche funzioni di utilità sociale, intendiamoci bene! Possono essere volontari della Croce Rossa, se l'età glielo consente ancora; possono aiutare i bambini handicappati; possono aiutare gli extracomunitari; possono dare una mano in comunità di carattere religioso o di altra natura. In altri termini, possono svolgere una funzione sociale e tale funzione sociale può essere anche ripagata, poiché per pensare bisogna anche aver mangiato; tuttavia, in questo caso si tratta di un altro discorso.
Il lavoro socialmente necessario, vale a dire quello strettamente utile a garantire a sé e alla propria famiglia il mantenimento, se è attuato per via manuale e in via ripetitiva, non si vede l'ora che sia finito! E 35 anni sono tanti, 40 anni sono troppi, e 41 e qualcosa, con la discrasia delle «finestre» (sto entrando in dettagli tecnici) sono un'offesa!
È questo il problema che ci troviamo di fronte, di questo stiamo discutendo, al di là del dettaglio delle norme e - non dico si tratti di «quisquilie» - delle miserie della contabilità! Stiamo discutendo del benessere delle generazioni future! Ma è possibile che noi, che abbiamo 50 anni - ed al banco del Comitato dei nove non vedo persone molto più giovani di me! -, non avvertiamo la responsabilità di realizzare il meglio per coloro che verranno? A differenza dei nostri padri cinquantenni, che fecero la Resistenza contro il nazifascismo, che condussero le lotte sindacali e che non stavano bene, ma avevano la certezza che i loro figli avrebbero potuto stare molto meglio, oggi noi, cinquantenni, decretiamo scientemente per i nostri figli (nostri in senso nazionale, nel senso figli di chi è classe politico-dirigente) un futuro peggiore!
Questo è il problema. È il problema della discussione odierna, signor Presidente. Si può entrare nel merito e considerare le cifre - ve ne dirò qualcuna, se il tempo me lo concederà - ma, secondo me, la questione vera che si pone di fronte a questo provvedimento è storico-morale: riguarda la sensibilità di una generazione verso quelle future. Qualcuno dice: è il contrario, per curare le generazioni future, dobbiamo tagliare oggi. Non è vero! Le cifre e i dati parlano contro di voi. La sola ragione di questa controriforma pensionistica è fare spazio alla previdenza privata, allargare i campi d'iniziativa della finanziaria privata, sfondare ciò che prima era pubblico, rendendolo privato, permettere alle varie Mediolanum, alle varie agenzie di guadagnare sul desiderio di una tranquilla vecchiaia di tutti noi, di tutti voi. Ciò è drammatico e cinico.
Sostengo, sulla base delle cifre - ed aspetto che l'onorevole Brambilla, che so essere uomo esperto, a differenza di tutti gli altri che compongono il suo Governo, che non capiscono nulla di tale questione, mi possa eventualmente smentire -, che gli interventi strutturali - che non condividevo e non condivido - che vi sono stati, e sono stati tre nel corso degli anni Novanta, hanno già bloccato ed invertito la precedente tendenza a crescere della spesa pensionistica, che aveva raggiunto l'incidenza massima sul prodotto interno lordo, nel 1997, del 13,9 per cento, per poi attestarsi al ribasso, al 13,5 per cento, nel 2000 e nel 2001. Nel 2001, alcuni interventi già effettuati dal Governo di cui lei, onorevole Brambilla, fa parte e la bassa


Pag. 36

crescita del prodotto interno lordo hanno fatto risalire la spesa pensionistica al 13,8 per cento. Tali cifre, tuttavia, non sono sconvolgenti. La verifica governativa sugli effetti finanziari delle riforme operate nel corso degli anni Novanta ha stabilito che i risparmi di spesa ottenuti sono superiori a quelli previsti del 10 per cento, pari a 2.087 miliardi di euro, per il periodo 1996-2000 e del 17 per cento, pari a 7.092 miliardi di euro, per il periodo 2001-2005.
Il saldo tra le prestazioni pensionistiche e previdenziali ed i corrispondenti contributi sociali è negativo, per una somma pari allo 0,9 per cento del prodotto interno lordo. Tenendo, poi, conto delle trattenute IRPEF operate sulle pensioni, per il bilancio pubblico le uscite effettive sono inferiori alle entrate, per una somma pari a circa 1,1 punti di prodotto interno lordo. In base a tali cifre, il bilancio pubblico ricava benefici dall'onere del funzionamento del sistema pensionistico pubblico. Prima delle riforme degli anni Novanta, le previsioni per il prossimo mezzo secolo segnalavano che il rapporto tra spesa pensionistica e prodotto interno lordo sarebbe salito fino al 23 per cento.
Dopo di esse (si trattava di tre riforme), nella proiezione della Ragioneria generale dello Stato che segnala la cosiddetta «gobba», cioè il valore massimo previsto, il rapporto in questione è di circa il 16 per cento. Dallo studio comparativo effettuato dal comitato per la politica economica della Commissione europea risulta che l'aumento previsto per l'Italia è pari solo ai due terzi di quello previsto per la media dei paesi dell'Unione. Lo ripeto: i due terzi! Dunque, anche se adottassimo la proiezione di spesa che prevede la «gobba», la dinamica italiana in alcun modo sarebbe fuori dal controllo; anzi, essa risulta una delle più contenute in ambito europeo.
Tuttavia, è ragionevole ipotizzare anche andamenti finanziariamente meno pessimistici nel rapporto tra la spesa pensionistica e il prodotto interno lordo. Infatti, vanno considerati gli effetti delle decisioni già assunte per spingere in quella direzione. La riduzione del grado di copertura pensionistica derivante dal progressivo dispiegarsi degli effetti delle tre riforme degli anni Novanta e il contemporaneo stimolo esercitato dal sistema contributivo a ritardare il pagamento dell'indennità di pensionamento (siamo nella media europea, onorevole Maninetti: 59 anni, senza bisogno di interventi) tenderanno a modificare il profilo temporale della spesa pensionistica.
D'altra parte, con l'espansione delle nuove figure di lavoratori atipici, il valore medio delle pensioni sarà più basso. Tenendo conto di queste circostanze, l'ampiezza della «gobba» si dimezza. La considerazione aggiuntiva di un aumento della crescita media annua del prodotto interno lordo nel prossimo mezzo secolo che sia non dell'1,5 per cento, ma del 2 per cento, come ipotizzato a Lisbona, eliminerebbe del tutto la crescita prevista del rapporto tra spesa pensionistica e prodotto interno lordo: la sua dinamica sarebbe tendenzialmente negativa.
Un sistema pensionistico, oltre che per la sua sostenibilità finanziaria, deve essere valutato anche per la capacità di corrispondere alla sua ragione d'essere, ossia - questo è il punto che richiamavo in precedenza - di fornire un'adeguata copertura di reddito ai lavoratori nell'età della vecchiaia. Prima delle riforme degli anni Novanta, indipendentemente dall'età, un lavoratore dipendente con 35 anni di anzianità contributiva maturava una pensione pari al 67 per cento, onorevole Maninetti, o al 77 per cento dell'ultima retribuzione...

LUIGI MANINETTI, Relatore. Sì, lo so.

ALFONSO GIANNI. ...rispettivamente, se impiegato nel settore privato o in quello pubblico. La differenza era del 10 per cento. Nel sistema contributivo a regime, tenendo conto del previsto adeguamento del metodo di calcolo all'aumento atteso della vita media, un lavoratore dipendente, indifferentemente se impiegato nel settore pubblico o in quello privato, che andrà in pensione con 35 anni di contributi a sessant'anni di età, avrà una pensione pari


Pag. 37

al 48,5 per cento dell'ultima retribuzione: sotto il 50 per cento! Nell'ipotesi massima di 40 anni di anzianità contributiva e di 65 anni di età, il tasso di sostituzione, cioè il valore rispetto alla retribuzione, salirà al 64 per cento.
Per un lavoratore parasubordinato, ossia - i resocontisti mi perdonino il termine - per la gran massa di «sfigati» che vivono nel mondo del lavoro, nelle due combinazioni di pensionamento prima esemplificate, il tasso di sostituzione, cioè il valore della pensione rispetto al salario, sarà rispettivamente di quasi il 30 e il 39 per cento.
L'eliminazione dell'indicizzazione delle pensioni sulla base dell'andamento reale delle retribuzioni, meccanismo introdotto, ahimè, nel 1992 - in quel caso, sia chiaro, non chiamo in causa la responsabilità di Berlusconi: essendo contrario al culto della personalità, penso anche che non tutte le responsabilità in negativo siano di Berlusconi, ma che appartengano naturalmente anche ad altri ! -, fa sì che la distanza tra il reddito di un pensionato e quello medio dei lavoratori aumenti progressivamente nel periodo di pensionamento. Se immaginiamo un aumento medio annuo delle retribuzioni pari al 2 per cento, e mi sembra già tanto, il valore di una pensione che fosse pari al 60 per cento della retribuzione media dei dipendenti, dopo 20 anni, sarebbe pari al 41 per cento, ovvero il 19 per cento in meno!
Qualunque sia lo scenario previsto o adottato per le proiezioni del rapporto fra la spesa pensionistica ed il prodotto interno lordo, il valore relativo delle pensioni rispetto a tutti gli altri redditi diminuisce drasticamente in ogni caso. Per queste ragioni, sostengo che, al di là della congiuntura economica, stiamo decidendo qui dentro un «omicidio» nei confronti delle generazioni che verranno e dei vostri figli: infatti, onorevoli colleghi, anche se siete in otto qui dentro, molti di voi sanno che non è possibile che i vostri figli facciano in futuro i deputati o i dottori, gli ingegneri o i cantanti o i calciatori. Molti probabilmente faranno una vita normale, di sofferenza, come tante persone!
Ci dovete quindi ben pensare: nei progetti del Governo la riduzione della copertura pensionistica fornita dal sistema pubblico a ripartizione, sia quella già decisa con le riforme degli anni Novanta sia quella ulteriore, dovrebbe essere compensata dallo sviluppo ulteriore della previdenza privata a capitalizzazione. Se consideriamo tuttavia, da un lato, l'ulteriore riduzione del 17 per cento dei tassi di sostituzione, che deriverebbero dal trasferimento sulle prestazioni della contribuzione degli oneri pensionistici, e, dall'altro, il trasferimento dell'intero flusso del trattamento di fine rapporto (le liquidazioni) ai fondi pensione, nei programmi del Governo il ruolo della previdenza privata a capitalizzazione non è integrativo, ma sostitutivo del sistema pubblico a ripartizione.
Uno dei maggiori quotidiani della Repubblica, che purtroppo non sono riuscito a procurarmi in tempo per poterlo citare, fa una stima affermando che il lavoratore che «entra» in un rapporto di lavoro negli anni 2000 rispetto al suo papà prenderà non soltanto una pensione di minore entità, ma anche una più bassa liquidazione, che è quella somma che al suo papà aveva permesso di accendere un mutuo per comprargli una casa. Vi sembra poco, onorevoli colleghi? Equivale invece alla vita, per chi vuole farsi una famiglia o anche per chi vuole vivere indipendentemente dall'apporto che i suoi vecchi genitori vogliono dargli.
Insomma, mi sono stufato di citare cifre e quindi vorrei dire che condanniamo le generazioni future ad un periodo più triste del nostro! Questo è francamente il peggio che una classe dirigente possa fare!
Vedete, vi siete innamorati dei fondi pensione: al riguardo, vorrei dire soltanto una cosa, compatibilmente con il tempo a mia disposizione, al cui rispetto mi richiamerà, quando sarà il momento, il Presidente. Negli Stati Uniti d'America, nel «tempio» del capitalismo e (per carità, non disdegno quel Paese), nel periodo che va dal 1981 al 2000, il rendimento dei fondi pensione ha superato il tasso di crescita del prodotto interno lordo, ma,


Pag. 38

dopo il 1995 - ed il trend non deve essere posto in relazione con le vicende legate alla distruzione delle Torri gemelle -, l'esito del confronto si è invertito.
Negli ultimi anni, i rendimenti dei fondi sono diventati fortemente negativi; in Italia, nel 2001 e nel 2002 i fondi pensione di categoria, quelli già accesi, hanno subito perdite nell'ordine del 3,9 per cento mentre i fondi pensione aperti hanno subito perdite nell'ordine del 18 per cento.
Nello stesso periodo, invece, il trattamento di fine rapporto, cioè i fondi accantonati per la liquidazione, hanno reso il 6,8 per cento. Inoltre, poiché la borsa italiana non ha una capienza così grande come quelle di altri paesi, incanalando il trattamento di fine rapporto nei fondi finanziari, lo immettiamo nel mercato finanziario internazionale, cosicché non si sa più nulla della sorte dei soldi di questi lavoratori.
Sono rimasto impressionato - perché sono ancora ingenuo, ed è un modo per convincermi a considerarmi ancora giovane: so che non è la realtà, ma lei me lo concederà, sono piccole debolezze - quando nella Commissione bicamerale di indagine sulla vicenda Cirio-Parmalat ho scoperto, per esplicita affermazione di chi di dovere, che il fondo pensione dei lavoratori dipendenti della Banca d'Italia, che dovrebbe saperla lunga sull'andamento finanziario nel nostro paese, aveva comprato i bond della Parmalat, cioè «obbligazioni spazzatura», come vengono definite nel mondo americano ed anglosassone. A tale rischio sottoponiamo i lavoratori, a tale rischio sottoponiamo le giovani generazioni e non risolviamo l'unico problema degno di una riforma, di cui parlerò in sede di illustrazione degli emendamenti, se il Governo mi darà modo di arrivarci.

PRESIDENTE. Onorevole Gianni...

ALFONSO GIANNI. L'unica vera riforma è pensare a come dare una pensione a quei tre-quattro milioni di lavoratori precari, che hanno periodi di lavoro e di non lavoro. A costoro dobbiamo pensare: li condanniamo alla flessibilità, al basso salario? Non è bello, non è giusto. Una classe politica un po' meno irresponsabile dovrebbe pensare alla loro pensione. Si dovrebbe fare in modo, almeno, che la loro pensione sia al di sopra della linea di povertà. Questo significherebbe dire che la contribuzione, che loro non possono avere perché non lavorano, è a carico dei più ricchi, a carico dei datori di lavoro e di coloro che sfruttano la precarietà.
Questa sarebbe una riforma da fare. Ci pensi il relatore: è ancora in tempo.

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare...

DOMENICO BENEDETTI VALENTINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. A che titolo?

DOMENICO BENEDETTI VALENTINI. Chiedo di parlare al posto del collega Lo Presti, che era iscritto a parlare.

PRESIDENTE. Questo, come lei sa, non è possibile. Per parlare in una discussione bisogna iscriversi prima dell'inizio della seduta. Tuttavia, anche se non è nelle regole, le concedo la parola.

DOMENICO BENEDETTI VALENTINI. La ringrazio per la tolleranza, signor Presidente, e corrisponderò alla sua cortesia con la sintesi della notazione che vorrei lasciare a verbale. Infatti, cari colleghi, ce lo siamo detto molte volte: quando abbiamo destinato le nostre giornate di lunedì alla discussione sulle linee generali ci siamo condannati a parlare per i resoconti e per chi li vorrà utilizzare e non tanto per avere la gratificazione dell'ascolto di molti colleghi. Tuttavia, vorrei svolgere alcune considerazioni.
In primo luogo, non è vero che non vi è stato confronto su tale importante riforma.


Pag. 39


Ormai ce lo siamo detto molte volte, ma poiché sento reiterare questo tipo di censura, vorrei ribadire che per tre anni abbiamo approfondito il tema in esame, svolgendo anche un vastissimo ciclo di audizioni (peraltro, ne abbiamo effettuato un altro più ravvicinato e più sintetico, ma non meno significativo). Vi è stato un confronto, oltre che in entrambi i rami del Parlamento, nella società e sui mezzi di informazione, e tutti noi abbiamo avuto modo di dibattere sull'argomento, talvolta incontrandoci, talvolta scontrandoci. Possiamo quindi dire che, mai come in questo caso, è stata elaborata una riforma che è stata oggetto di ampio confronto ed approfondimento.
In tale quadro, la Commissione lavoro pubblico e privato ha avuto la capacità - e per questo ringrazio, oltre che l'onorevole relatore, tutti i colleghi, indistintamente, sia della maggioranza sia dell'opposizione - di ritagliarsi spazi quantitativamente e qualitativamente significativi, stimolando ed ottenendo la partecipazione del Governo, che in maniera qualificata e costante ha partecipato ai nostri dibattiti. Abbiamo, dunque, arricchito la discussione con dati e considerazioni, anche polemiche, in un confronto particolarmente vivace, ma pur sempre ricco negli argomenti sostanziali. Quindi, siamo di fronte ad una riforma tutt'altro che non meditata.
Aggiungo che, essendo ulteriore vanto della Commissione che presiedo quello di non abbondare in attività superflue, ivi compresa quella dei pur importanti viaggi all'estero per il confronto con gli altri ordinamenti giuridici e previdenziali, una delle pochissime trasferte che abbiamo compiuto, particolarmente fruttuose, è stata quella destinata al raffronto con gli altri paesi europei proprio su questo terreno. È troppo facile ricordare ai colleghi, in particolare a quelli dell'opposizione, che quanto abbiamo appreso dai colleghi degli altri paesi europei - mi basterebbe citare quelli della Repubblica di Germania - è particolarmente istruttivo, non perché noi dobbiamo copiare o paragonarci ad un altro specifico paese, ma perché il confronto con le grandi democrazie progredite e ben organizzate è sempre istruttivo. Ebbene, ritengo di poter dire che le misure progettate ed in via di attuazione in tale paese sono particolarmente cogenti e stringenti - hanno ottenuto anche il consenso della rappresentanza sindacale, peraltro unitaria in quel paese - e, rispetto ad esse, quelle contemplate nel provvedimento al nostro esame ben potrebbero essere definite molto caute, molto progressive, molto «dolci» ed assimilabili dal contesto sociale.
Inoltre, questa riforma ha largamente recepito i contributi, le osservazioni critiche e le proposte provenienti non solo dalle forze politiche presenti in Parlamento, ma anche dagli operatori, dall'opinione pubblica e dalle parti sociali, tant'è che alcuni dei punti più controversi sono stati superati o espunti dal testo, oppure sottoposti ad incisive modificazioni. Trovo anche particolarmente ingeneroso e propagandistico affermare, nelle varie sedi di dibattito, brutalmente e strumentalmente che si tratta di una riforma volta essenzialmente a fare cassa, perché è di tutta evidenza che così non è. Comunque si voglia, politicamente e tecnicamente, giudicare questa riforma, certamente così non è, se non nel ben diverso senso che tutto ciò che concorre al riequilibrio e alla sostenibilità dei mezzi che si possono mettere in campo (rispetto alle aspettative e alle prestazioni dei singoli e delle categorie) costituisce qualcosa di sano, che va perseguito. Al pari di quanto accade in altri paesi, deve essere perseguito da un paese in cui il Governo, in questa particolare materia, in parte innova, ma in parte - come è stato più volte detto - prosegue un'azione riformatrice che altre maggioranze parlamentari, altri Governi, costretti non tanto dalle scelte politiche, quanto dalle necessità tecnico-organizzative, statistiche e demografiche del paese (in sintonia con quanto accade in altre nazioni), si sono trovati a dover affrontare.
Certo, vi sono alcune zone d'ombra e lo posso affermare tranquillamente, anche a titolo personale: mi riferisco, ad esempio, al trattamento di fine rapporto da convogliare


Pag. 40

nei fondi. Ciascuno di noi vorrebbe che vi fossero meccanismi con cui garantire certe redditività, per cui chi vede la propria retribuzione differita convergere in questi fondi vorrebbe fruire di garanzie più tassative e totalmente affidabili rispetto alla redditività. Ad onor del vero, devo però rilevare che, nonostante i colleghi, le forze politiche e sindacali siano stati sollecitati a fornirci suggerimenti, anche tecnicamente affidabili, percorribili e attuabili, non sono pervenute proposte concrete, valide e credibili sotto il profilo organizzativo e dell'attuabilità.
Ho sentito evocare discorsi, da parte dei nostri concittadini, che attengono all'innalzamento dell'età pensionabile. La parte più avveduta della popolazione ritiene scontato che oggi si debba, con saggezza, progressività e misura, procedere all'innalzamento dell'età pensionabile ed operare a favore della sostenibilità del sistema, prendendo atto della dinamica demografica della nostra vita, singola ed associata, nonché di un sistema che noi chiamiamo contributivo.
Mi riferisco al seguente principio, che potrei così esemplificare: si riceverà quello che si è in condizione di versare, non ammettendosi la moltiplicazione dei pani e dei pesci, perché questo non è in grado di farlo né una destra seria né, permettetemi di dirlo, una sinistra seria. Mi si dovrebbe spiegare a quale latitudine e longitudine del mondo esiste una sinistra in grado di compiere questi miracoli o di trasformare, onorevole Alfonso Gianni (che in questo momento non mi ascolta), la prestazione di lavoro ripetitiva in qualche cosa di più gratificante che non sia sotto altri regimi o sotto altre latitudini!
Mi sembra, comunque, che siamo arrivati ad un nodo, di cui agli onorevoli colleghi non sfuggono i momenti politici, alla cosiddetta decisione che sempre si invoca. Chi vi parla è, per collocazione politica, formazione ed inclinazione, un fautore del dialogo e del pluralismo sociale, spinto, lo dico molte volte, fino alla venticinquesima ora, di talché sottolineo che, anche con riferimento ai provvedimenti attuativi, fino all'ultimo la Commissione che presiedo non mancherà di esercitare la sua funzione. Sarà espresso un parere penetrante anche per quanto riguarda i provvedimenti attuativi, nelle maglie larghe o abbastanza larghe della delega.
Sono fautore del metodo del dialogo perché le grandi riforme si fanno con il popolo, spiegando ad esso e ricevendo da esso le indicazioni, concretamente attuabili e non demagogiche, espressioni della sovranità popolare e degli interessi legittimi, che potranno essere formulate a tale riguardo.
Vi è poi il momento della decisione e mi permetto di dire, io che di solito non indulgo a notazioni polemiche, specialmente all'interno dello schieramento che mi onoro di rappresentare (la maggioranza parlamentare), che una riforma di questa delicatezza ed importanza non è lecito considerarla merce di scambio con altri momenti politici, altre investiture, altre riforme, altri provvedimenti e passaggi di altro genere. O questa riforma è valida e necessaria al paese, oppure non lo è!
Sulla base di ciò, noi, maggioranza - con la convinzione e la capacità di decidere - ed opposizione - con la capacità di non indulgere a demagogie che sarebbero, sotto questo profilo, assolutamente condannabili -, dobbiamo dare alla popolazione (mi rivolgo all'onorevole Gianni), soprattutto alle generazioni future, il segno di una classe politica che, pur in mezzo a tante difficoltà, sa decidere, prevedere e provvedere.
Pertanto, pur essendovi ancora spazi tecnici ed operativi per ogni tipo di decisione che le sedi politiche vorranno assumere, abbiamo il dovere, prima ancora che la possibilità, di decidere. Occorre farlo subito, approvando, nella forma migliore, questa riforma assolutamente indispensabile all'equilibrio tra le generazioni presenti e quelle future.
La ringrazio, signor Presidente, e ringrazio i colleghi che hanno dato un grande contributo sia in quest'aula sia in Commissione all'elaborazione del provvedimento in esame.


Pag. 41

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

Back Index Forward