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PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Bellini. Ne ha facoltà.
GIOVANNI BELLINI. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, torniamo a discutere del disegno di legge di delega sulle pensioni - che era stato presentato ben tre anni fa come provvedimento collegato alla legge finanziaria per il 2002 - dopo un lungo e travagliato percorso parlamentare. Sono trascorsi tre anni, in cui si è discusso di un provvedimento ritenuto da molti contraddittorio, inizialmente pensato per soddisfare le richieste della Confindustria di D'Amato volte ad una riduzione del costo del lavoro, con il taglio dei contributi previdenziali, poi diventato un testo utile solo ad aggirare le riserve dell'Unione europea sulla manovra di bilancio del 2003, tutta incentrata sulle entrate una tantum e sui condoni improvvisati, come era solito fare il ministro Tremonti. Adesso, tale disegno di legge arriva nuovamente alla Camera, dopo un voto di fiducia al Senato - un voto di fiducia immotivato, perché in quella sede non vi è stato alcun ostruzionismo da parte dell'opposizione -, in una nuova versione.
Se c'è una responsabilità di tutto questo, essa è in primo luogo da attribuire all'ostruzionismo operato proprio dal Governo e dalla sua maggioranza, che hanno mutato più volte opinione, che hanno cambiato ben tre volte il testo, che hanno rallentato ripetutamente il lavoro del Parlamento a seconda delle proprie convenienze, imprimendo ad un certo punto un'improvvisa accelerazione attraverso la posizione della questione di fiducia, anche se nei mesi precedenti l'avevano ripetutamente esclusa.
Ma il Governo ci ha un po' abituato a vederlo dire una cosa e farne un'altra. D'altronde, tutto questo è avvenuto senza che la maggioranza e il Governo aprissero mai un vero e leale confronto con le organizzazioni sociali del nostro paese. Per la prima volta, la riforma di maggiore impatto sociale verrà da voi approvata senza un accordo con i sindacati, anzi con l'esplicito dissenso della stragrande maggioranza dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali, il cui consenso in questa materia è una delle condizioni essenziali per garantire un risultato positivo.
Qui stiamo discutendo e approvando - da parte vostra - la riforma sociale più importante della legislatura, che riguarda milioni di lavoratori, dipendenti e autonomi, e ancora una volta voi mancate questo importante appuntamento scegliendo la strada del non confronto parlamentare; forse, porrete la questione di fiducia anche qui alla Camera.
Comunque, il testo discusso in Commissione lavoro ha già avuto il contributo delle opposizioni, con la presentazione di un centinaio di emendamenti (alcune proposte emendative sono state presentate anche dalla maggioranza), pochi ma chiari e ben motivati, per modificare un testo altrimenti inaccettabile. Di fronte al vostro
rifiuto, però, di considerare il nostro impegno, il provvedimento arriva in Assemblea senza che in Commissione vi sia stata la possibilità di esaminare e votare i nostri emendamenti.
È opportuno ricordare che, quando si interviene sulle pensioni, si interviene sulle aspettative di vita di milioni di persone, che si sono date un progetto di vita, che guardano con fiducia al futuro per sé e per la propria famiglia, che si aspettano tranquillità e certezze, mentre da tre anni a questa parte ricevono solo penalizzazioni e paure.
Non è diffondendo tante paure che si costruisce una società più coesa e felice: a questo riguardo, voi portate tante responsabilità. Non dimostrate di avere le idee chiare, ma non per questo vi fermate a riflettere, a discutere, ad aprire un confronto con l'opposizione, attraverso le nostre proposte, e con le parti sociali. Pensate solo a far tornare i conti di una fallimentare politica economica e finanziaria, che sta producendo guasti economici ed impoverimento sociale.
Avete cambiato il ministro dell'economia e delle finanze, responsabile di tanta crisi, ma vi ostinate a non rivedere le scelte economiche e di bilancio. Anzi, dalle prime indiscrezioni sulla manovra economica di 30 miliardi di euro per il prossimo anno, apparse sul quotidiano Il Sole 24 Ore, «normalmente» informato, del 15 luglio scorso, nel capitolo delle uscite intitolato «Spesa previdenziale» si parlerebbe di blocco delle finestre, che voi vorreste considerare come un nuovo introito fino a tre miliardi di euro, con l'anticipazione dal 2008 al 2005 delle misure strutturali della riforma previdenziale.
Per il momento - dice ancora il giornale - si tratta solo di ipotesi allo studio, ma con il trascorrere delle ore un intervento sulla previdenza con decorrenza 2005 appare sempre più probabile. Allo stato attuale, l'ipotesi più gettonata - ci informano - è quella della chiusura, già dal prossimo anno, di una o due finestre di uscita dalle pensioni di anzianità (il semiblocco), accompagnata da una forte stretta sui trattamenti di invalidità. Inoltre, è possibile un anticipo degli effetti della riforma previdenziale, facendo scattare dal 2005 il meccanismo previsto per il 2008.
Insomma, ancora non si è concluso l'esame della nuova legge e già state pensando di manometterla! E, ancora una volta, le pensioni vengono considerate solo una spesa da comprimere, da ridurre, e basta! Non possono essere i pensionati o i giovani e le donne a pagare con le loro pensioni la politica finanziaria e fiscale dissestata e dissennata di questo Governo.
Voi non avete la consapevolezza che il sistema previdenziale pubblico a ripartizione si regge sul patto intergenerazionale, per cui i contributi dei lavoratori attivi oggi servono per pagare le pensioni: è su questo patto che si stabilisce un corretto rapporto fra le diverse generazioni. È un pilastro del patto costituzionale che è giusto aggiornare, modificare, ma è necessario farlo con il massimo consenso sociale, sapendo che si agisce su un pilastro fondamentale della convivenza civile.
Agire sul sistema pensionistico, come fate voi, quale copertura di una politica fiscale fallimentare, é una strada che non porta da nessuna parte. La proposta che noi abbiamo definito «controriforma» ha anticipato la verifica del 2005 prevista dalla cosiddetta riforma Dini e non scaturisce da un'esigenza di riequilibrio dei conti previdenziali - che non sono a rischio, come ha scritto recentemente la commissione presieduta dal sottosegretario Brambilla -, ma dall'esigenza di dimostrare all'Unione europea che vi è qualcosa nella manovra finanziaria del Governo che va oltre i troppi condoni e le misure una tantum: peccato che questi effetti saranno visibili fra alcuni anni!
La cosiddetta riforma Dini (la legge n. 335 del 1995), invece, aveva operato in maniera accorta. Essa prevedeva, a partire dal prossimo anno, una verifica dell'equilibrio finanziario del sistema previdenziale da effettuare sulla base dell'aspettativa di vita (indubbiamente aumentata e destinata ad aumentare ancora) e del tasso effettivo del prodotto interno lordo, allo scopo di
rideterminare, dal 2005, il coefficiente di trasformazione. Questo andava verificato e corretto!
Perché, invece, anticipare con forza una riforma in modo approssimativo, con un testo che, più che guardare organicamente all'intero sistema previdenziale ed agli effetti dello sviluppo demografico del nostro paese, si basa, com'è dimostrato da questi tre anni di continui litigi da parte vostra, soprattutto sulle tensioni e su equilibri politici che non riuscite più a far quadrare?
L'incongruenza è dimostrata dal fatto che nel 2004 si anticipano, senza effettuare la verifica, programmata dal 2005, misure importanti che entreranno in vigore nel 2008. Questa fretta conferma che si tratta di un intervento attuato non per tenere in equilibrio il sistema previdenziale, ma per recuperare finanziamenti da destinare ad altre utilizzazioni.
È stato calcolato che la spesa sociale verrà tagliata dello 0,7 per cento del prodotto interno lordo: circa 9 miliardi di euro l'anno! Ma questi risparmi e maggiori entrate non verranno utilizzati per nuovi interventi sociali. Infatti, non si prevedono interventi di aiuto alle famiglie, né per finanziare la riforma degli ammortizzatori sociali, né per sostenere le situazioni più gravi (come quella dei disabili gravi), né per agevolare l'accesso alla casa delle giovani coppie, e così via. Viene attuato un taglio netto di 9 miliardi della spesa sociale e basta!
Il disegno di legge in esame produce una cesura netta con il passato. Nel proporsi, sostanzialmente, come un modo per peggiorare la situazione, esso incide gravemente nell'impianto politico positivo che portò alla cosiddetta legge Dini: allora, i problemi principali erano l'equilibrio finanziario della previdenza pubblica e la sostenibilità della relativa spesa nel corso del tempo; oggi, il Governo Berlusconi ed il centrodestra intendono ridurre e tagliare la spesa pensionistica.
Quanto al merito, noi non siamo d'accordo su diversi punti. Mi permetterò di toccarne alcuni.
A partire dal 1o gennaio 2008, l'età pensionabile viene elevata bruscamente di tre anni. Dopo il 2008, per il pensionamento di vecchiaia occorrerà un'età di 65 anni per gli uomini e di 60 per le donne, oppure quarant'anni di contributi a prescindere dall'età. Dal 1o gennaio 2008, si potrà andare in pensione di anzianità con 35 anni di contributi e sessant'anni di età. L'età anagrafica salirà, successivamente, sia per gli uomini sia per le donne. Proprio le donne saranno i soggetti più penalizzati: esse potranno continuare ad andare in pensione di anzianità, dopo il 2008, a 57 anni e con trentacinque anni di anzianità contributiva, ma accettando la grave penalizzazione consistente nel fatto che il calcolo della loro pensione sarà fatto interamente con il sistema contributivo (che offre prestazioni inferiori di circa il 40 per cento) e, quindi, con un assegno pensionistico assolutamente insufficiente ad assicurare loro una vita dignitosa.
In questo modo, spaccate una generazione di lavoratori, perché chi avrà 57 anni di età e 35 anni di contributi al 31 dicembre 2007 potrà andare in pensione, mentre chi maturerà i requisiti al 1o gennaio 2008 non potrà farlo, senza che sia prevista alcuna gradualità. Si tratta di una scelta drastica, che non ha precedenti in Europa! Si forma un illogico «scalone» (così è stato definito), che sta generando tanta incertezza tra i lavoratori interessati ed anche tra i partiti di maggioranza. Il gruppo dell'Unione dei democratici cristiani e dei democratici di centro (è suo il relatore al disegno di legge in esame) ha presentato precise proposte, tendenti a modificare la soluzione da voi escogitata. Anche nella maggioranza, quindi, taluno vorrebbe ritoccare il testo del provvedimento, a conferma del fatto che esso non va bene e che è necessario correggerlo.
È altresì da respingere, anche perché illogica, la proposta che coinvolge i lavoratori che vanno in pensione interamente con il sistema contributivo. Attualmente, la legge vigente consente di andare in pensione tra i 57 ed i 65 anni di età; e, più tardi si va in pensione, più cresce il trattamento pensionistico. Invece, la vostra
«controriforma» eleva l'età a 60 anni per le donne ed a 65 per gli uomini, confondendo le regole del metodo contributivo con l'attuale età della pensione di vecchiaia. Viene cancellata, in tal modo, quella flessibilità dell'età pensionabile che - considerata moderna ed avanzata in Europa - lasciava libera scelta ai lavoratori ed alle lavoratrici (con riferimento all'età della pensione) e realizzava la parificazione dei requisiti richiesti agli uomini ed alle donne!
Togliete così la libertà di scelta e ponete vincoli. Questo è oggi lo specchio della coalizione del centrodestra, lo specchio di un sistema e di un accordo politico in involuzione verso la «casa dei divieti».
È così eliminata l'età pensionabile flessibile consentita anche ai giovani lavoratori che hanno iniziato a lavorare dopo il 1o gennaio 1996 per un trattamento pensionistico certamente diverso rispetto a quello retributivo, legato ai contributi dell'intera vita lavorativa versati, ma anche alla possibilità di scegliere se andare in pensione prima - certamente con una pensione ridotta - oppure attendere altri anni per percepire un trattamento più alto.
Non sarà più così. Si potrà andare in pensione di vecchiaia nel sistema contributivo solo con i nuovi limiti a sessantacinque e a sessant'anni e, se ci sono, almeno cinque anni di contributi.
Insomma, si entra in un mondo del lavoro molto flessibile, così come voi avete decretato con la legge n. 30 del 2003, e se ne esce con una rigidità assoluta.
Riguardo alla pensione di anzianità, fino al 2008 c'è la promessa di un incentivo del 32 per cento della retribuzione a quei lavoratori privati che continueranno a lavorare (sono esclusi i dipendenti pubblici). Peraltro, questo incentivo è in forse; in realtà, non si sa quando partirà, ma è in ogni caso negativo e sbagliato, perché si rileverà una penalizzazione per i lavoratori che, dopo alcuni anni di maggiore retribuzione, riceveranno un assegno di pensione decurtato a vita, poiché sarà calcolato senza il bonus. Gli incentivi di carattere retributivo e fiscale dovrebbero incidere sull'assegno pensionistico a vita che, di fatto, è la materia che vorremmo approfondire con questa discussione. Voi, invece, con la scelta del bonus, legalizzate il lavoro nero e l'evasione fiscale. Su questa detassazione ci sono dubbi anche di legittimità costituzionale, come è stato fatto rilevare dalla stessa Commissione affari costituzionali della Camera.
Inoltre, in modo strisciante e subdolo, si intenderebbe mettere in discussione uno dei principi fondamentali del sistema previdenziale pubblico a ripartizione, secondo il quale a qualsiasi lavoro prestato a qualunque età lavorativa deve corrispondere la relativa contribuzione. Se viene meno questo principio, vi è il rischio di scardinare il sistema pubblico e di mettere in forse il diritto alla pensione per tutti, giovani ed anziani.
Ci lascia perplessi e contrari, nell'ambito delle deroghe della nuova normativa proposta, l'idea che solo 10 mila lavoratori, che sono o andranno in mobilità in base ad accordi stipulati prima del 1o marzo 2004, godranno del vecchio regime. Qui non si tiene conto della pesante situazione di crisi che coinvolge gran parte del tessuto produttivo del paese né si considera la fase di acuta riorganizzazione e ristrutturazione con situazioni pesanti. La deroga che riguarda solo 10 mila lavoratori creerà disparità di trattamento tra i lavoratori, perché in questo trattamento solo per un numero precostituito vi sono evidenti segni di illegittimità costituzionale; tali disparità non possono essere giustificate con ragioni di disponibilità finanziaria, tanto più che non tengono conto del fatto che le imprese spesso tendono ad allontanare dal lavoro i meno giovani, considerandoli anziani e poco adatti per le ristrutturate attività produttive.
Del tutto «cervellotica» appare la norma di cui al comma 54, che regola l'accesso alla pensione di vecchiaia per il personale artistico degli enti lirici e delle istituzioni concertistiche assimilate, perché introduce una disciplina differenziata per i lavoratori dello spettacolo a seconda della natura del datore di lavoro: ai dipendenti
degli enti lirici si applicano i nuovi requisiti di età, mentre ai dipendenti degli altri datori di lavoro si mantengono gli attuali requisiti. È una formulazione inaccettabile; è un modo grottesco di porre le questioni. I ballerini dovrebbero continuare a lavorare fino ad un'età impossibile: 60 e 65 anni. Le stesse categorie di lavoratori avrebbero trattamenti diversi a seconda del datore di lavoro. Insomma, aumenterebbero i costi delle stesse fondazioni culturali che voi state facendo il possibile per affossare, negandogli i finanziamenti e si creerebbe un problema nuovo per queste fondazioni nel mantenere e sviluppare i corpi di ballo.
Continua poi a rimanere irrisolto il cosiddetto problema della totalizzazione dei contributi, cioè il diritto al cumulo dei contributi versati nelle varie gestioni previdenziali, ai fini del diritto ad un unico trattamento di pensione. La nostra proposta è chiara. Noi proponiamo che ciascun lavoratore e ciascuna lavoratrice debba avere diritto ad un'unica prestazione assicurativa, per sommare tutti i contributi versati, senza limiti temporali o di settore. Mantenere la possibilità di cumulare i periodi di contribuzione versati nelle varie gestioni solo se la durata è pari ad almeno cinque anni di contributi è assai restrittivo e penalizzante per le lavoratrici e i lavoratori che, per la loro particolare attività lavorativa, hanno una età pensionabile più bassa (altrimenti fissata a 65 anni di età e 40 anni di contributi); il periodo di cinque anni di contribuzione, poi, è assolutamente incomprensibile, tanto più che oggi il lavoro per molti giovani è costituito purtroppo (e sarà così anche per il futuro) da una somma di lavori discontinui. Per questo, occorre adeguare il sistema di tutela in modo da contrastare la precarietà. Il sistema pensionistico ne deve tener conto, eliminando una grave iniquità generazionale.
Per il momento, però, il Governo non sembra intenzionato a compiere nessuna scelta (a quanto pare neanche in futuro) contro la precarietà; ha però aumentato l'aliquota contributiva dei lavoratori parasubordinati dal 14 a 19 per cento, senza un corrispondente allargamento dei diritti sociali (come, ad esempio, l'approvazione della legge sul reddito minimo di inserimento e la tutela attiva del lavoro e del reddito).
Una particolare attenzione merita poi la previdenza complementare, che per noi deve certamente essere rafforzata, come secondo pilastro previdenziale. La cancellazione dell'obbligo di versamento del TFR ai fondi pensione integrativi è positiva e accoglie la nostra proposta e, soprattutto, tiene conto della forte richiesta, nonché delle lotte unitarie che si sono sviluppate nel corso di questi ultimi anni nel paese.
Ciò nonostante non ci siamo. Noi ci opponiamo alla omologazione della previdenza complementare alle politiche individuali - si confonde altrimenti il secondo e il terzo pilastro -, mentre ribadiamo l'importanza dell'introduzione di un sistema misto a ripartizione (le pensioni pubbliche) e a capitalizzazione (quello privato dei fondi pensione contrattuali), in modo complementare, che è necessario per un riequilibrio del sistema pensionistico e per assicurare alle nuove generazioni in futuro una copertura adeguata della pensione. Il ragionamento non può che tornare sul fatto che in questi anni la previdenza complementare purtroppo è cresciuta poco e per di più ne sono rimasti esclusi coloro i quali ne avrebbero maggiore bisogno: solo 2 milioni e 600 mila lavoratori sono iscritti ai fondi pensione, considerando anche le polizze individuali (poco più del 10 per cento).
Allora, occorre uscire dall'incertezza normativa di questi anni, che ha pesato negativamente, per consentire ai lavoratori e alle stesse imprese che ritengano utile compiere una scelta di farlo in modo fondato.
Il TFR è salario differito, fornisce un rendimento minimo garantito per legge, pari al 75 per cento dell'indice ISTAT, più un punto e mezzo di percentuale fisso, da cui il lavoratore trae beneficio. Quello del TFR è un tema delicato, che va affrontato senza pressappochismo, poiché il trasferimento del TFR in un sistema a capitalizzazione comporta i rischi della gestione
finanziaria. Con la formula del silenzio-assenso la scelta diventa automatica, salvo diversa disposizione del lavoratore, ma solo verso i fondi pensione negoziali e i fondi pensione aperti ad adesione collettiva e anche - e qui si introduce un elemento di grave perturbativa - verso forme individuali attuate attraverso le polizze di tipo assicurativo.
È una scelta grave perché la completa equiparazione tra le diverse forme di previdenza complementare - fondi negoziali, fondi aperti, piani pensionistici individuali - mette sullo stesso piano soggetti e prodotti che non sono equiparabili. Anche il CNEL, in queste settimane, ci ha fatto avere il documento con cui critica apertamente l'insieme di questo provvedimento. In particolare, a proposito dei fondi negoziali, dice apertamente che si è attuato un principio estremamente sbrigativo, cioè quello di parificare tutt'e tre le ricordate fattispecie, su cui appunto si esprime negativamente (e anche noi continuiamo a farlo).
È stato infatti affermato in maniera molto puntuale, nel corso del dibattito svolto presso il Senato, che compiendo tale scelta di equiparazione non è possibile confondere la logica assicurativa con la gestione finanziaria dei fondi contrattuali, perché, altrimenti, o vengono imbrogliate le assicurazioni, abolendo la logica assicurativa (ma nel disegno di legge in esame non operate tale scelta), oppure imbrogliate i futuri pensionati, pensando che si possa comprare, allo stesso modo, un piano pensione individuale così come sia possibile acquistare l'adesione ad un fondo contrattuale aperto o ad uno chiuso. La parificazione tra la gestione finanziaria e quella assicurativa non è ottenibile più di tanto, pena la chiusura della logica assicurativa; la logica assicurativa, tuttavia, è ineludibile nei piani previdenziali individuali.
La commissione di vigilanza sui fondi pensione ha fornito un interessante quadro riepilogativo sui costi relativi all'anno 2003. I fondi chiusi contrattuali costano lo 0,47 per cento, i fondi aperti dall'1,1 all'1,8 per cento ed i piani individuali di pensione dall'1,9 all'8,4 per cento. Con un'inflazione solo del 2 per cento, costi superiori al 3 per cento erodono il potere d'acquisto dei risparmi: ecco perché si tratta, allora, di una questione estremamente delicata.
Il mercato assicurativo ha puntato sui prodotti più costosi, con incentivi ai promotori finanziari. Ad oggi, in Italia, vi sono oltre 400 mila polizze assicurative sulla vita, spesso sottoscritte da ignari cittadini e da lavoratori incalzati da promotori ed agenti assicurativi e finanziari. La parte del leone, in questo nuovo mercato, la fa l'assicurazione Mediolanum, che ha registrato un utile netto cresciuto a dismisura nel corso dell'ultimo semestre. Si tratta di un caso clamoroso e palese di conflitto di interessi, che anche la legge recentemente approvata dal Parlamento sanziona con un procedimento di verifica nei confronti del premier in carica.
Già nei mesi scorsi, infatti, si sussurrava su un certo interessamento proveniente da palazzo Chigi per l'introduzione di questa nuova norma, che regolarmente e all'improvviso è giunta con la questione di fiducia imposta al Senato. È questo il motivo per cui siamo preoccupati e chiediamo chiarezza!
La questione dei fondi integrativi, tuttavia, sottintende un ultimo, importante problema, vale al dire che l'operazione di trasferimento del TFR consenta alle imprese penalizzate non solo giuste compensazioni in termini di accesso al credito, soprattutto per quelle minori, ma anche una equivalente riduzione del costo del lavoro. Se ciò non è chiarito bene subito, come noi intendiamo sollecitare in questa sede, si rischia di far tornare l'originaria intenzione del Governo di introdurre la cosiddetta decontribuzione, riguardo alla quale tutti i lavoratori e tutte le organizzazioni sindacali sono contrari sin dal 2001. Sempre della serie «possono tornare», va chiarito che l'eventuale fondo integrativo costituito presso l'INPS non può rappresentare il canale per finanziare altri compiti dell'Istituto, o addirittura il bilancio dello Stato.
Con il disegno di legge delega in esame, pur di far cassa, varate un provvedimento
coercitivo per mettere forse in difficoltà le pensioni pubbliche e per mettere fine, intervenendo sulle pensioni di anzianità, ad un sistema flessibile ed universale. Voi vi ponete, in definitiva, l'obiettivo di far saltare il sistema pubblico previdenziale: con il disegno di legge in esame, infatti, viene stabilito che le future generazioni staranno peggio di noi, poiché è chiaro che, per mantenere la spesa previdenziale nell'ambito di un sistema di sostenibilità, occorre accrescere le risorse economiche, nonché la necessaria competitività del sistema paese, aumentando al contempo il tasso di attività (come, d'altronde, ha suggerito il Consiglio europeo di Lisbona per lanciare la nuova economia del nostro continente).
Per realizzare ciò, occorrono scelte chiare per una buona e piena occupazione, per un maggiore impegno delle politiche sociali e per una valorizzazione delle professionalità; occorrono una maggiore equità ed una ricerca continua dell'inclusione sociale. Si tratta di scelte che non rientrano nei vostri propositi: per questo motivo, preannunzio che voteremo contro il disegno di legge in esame (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-L'Ulivo e della Margherita, DL-L'Ulivo)!
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Perrotta. Ne ha facoltà.
ALDO PERROTTA. Signor Presidente, confesso che, quando si svolgono sedute di questo genere, talvolta ho l'impressione che si tratti di un iter inutile.
Credo che una delle proposte che presenterò nei prossimi giorni riguarderà l'abolizione di tale iter, anzitutto perché, come vede signor Presidente, siamo presenti solo in otto. Ciò succede sempre. Inoltre, ho l'impressione che quando analizziamo i problemi nelle Commissioni di merito, il Governo fornisce alcune risposte e in quella sede sembriamo tutti convinti; tuttavia, quando il provvedimento arriva all'esame dell'Assemblea, si ripetono le stesse argomentazioni già svolte in Commissione. Allora, delle due, l'una: o aboliamo le Commissioni o aboliamo l'iter che prevede la discussione sulle linee generali.
Sono state fatte alcune affermazioni in modo artatamente errato (non dico falso), come quella secondo cui questo provvedimento giunge improvviso. Non è vero: ne stiamo parlando da tre anni; ne stiamo parlando tra noi, sui giornali, in televisione, in Parlamento, nelle Commissioni. Che altro dobbiamo fare per analizzare un provvedimento?
Vi è un equivoco generale: si afferma che non sono state sentite le parti sociali. Ma i sindacati sostengono il falso: che la verifica si doveva effettuare nel 2005. Non è vero. Non era prevista una verifica nel 2005, ma soltanto la revisione dei coefficienti decennali. Si trattava di una commissione che il Governo precedente doveva istituire nel 2000, prevista dalla riforma Dini. Nel 2000, il Governo precedente non ha insediato alcuna commissione. L'abbiamo insediata noi, nel 2001. Essa ci ha fornito un dato che nella riforma Dini, condivisa in molte parti, non si prevedeva: la curva nel 2003 era troppo alta e l'innalzamento dell'età media di attesa di vita dei pensionati era talmente alto che bisognava intervenire subito. Ciò era talmente evidente che, su tali parametri, è stato chiesto un intervento da parte dell'Unione europea, non solo all'Italia, ma anche ad altri paesi che si trovavano nelle stesse condizioni. La legge n. 335 del 1995, la cosiddetta riforma Dini, aveva, dunque, necessità di essere modificata.
A proposito, poi, del fatto che noi improvvisamente spacchiamo la nazione, con una parte di lavoratori che vanno in pensione con alcuni requisiti ed un'altra parte con altri requisiti (attraverso le note «finestre»), bisogna ricordarsi che chi ha veramente spaccato la nazione sono state le riforme Amato, nel 1992, e la riforma Dini, nel 1995. Infatti, la riforma Amato ha stabilito che chi aveva maturato 15 anni di contributi - requisito, poi, corretto dalla riforma Dini a 18 anni di contributi - potesse andare in pensione con il sistema retributivo, mentre chi non li aveva dovesse andare in pensione con il sistema contributivo. La riforma Dini fu approvata
in agosto ed entrò in vigore il 1o gennaio 1996. Essa rappresentò la vera spaccatura della nazione. Era, tuttavia, una riforma necessaria, che i sindacati accettarono. Anche i lavoratori non dissero nulla.
Circa l'ultimo sciopero dei pensionati, tutti i media hanno sottolineato che chiunque non avesse maturato 18 anni di contributi sarebbe stato costretto ad andare in pensione con il sistema contributivo. Si è volutamente dimenticato di dire al cittadino che la riforma Dini non è la nostra: la nostra riforma è, da tale punto di vista, nettamente migliorativa, infatti, essa offre più possibilità, amplia e dà maggiori garanzie.
Non dimentichiamoci, poi, i vari errori sul fronte delle pensioni. Non ce l'ho con Visco (in precedenza, l'ho attaccato riguardo alle sue responsabilità nella riforma Draghi e non ho mai condiviso né la sua politica economica né altro), ma voi, attraverso il ministro Visco, nella riforma Dini e nella finanziaria successiva, avete dato la possibilità anche alle assicurazioni di entrare nel settore.
E lo avete fatto in modo talmente errato, senza garantire i parametri e senza parametrare le spese rispetto agli altri enti, per cui oggi vi sono 570 mila cittadini i cui costi di gestione si sono «mangiati» il capitale. A ciò abbiamo tentato di porre rimedio. Quella riforma ha letteralmente rovinato questi cittadini perché, a tutt'oggi, ci hanno perso. Questo provvedimento di delega pone rimedio a tale questione, almeno in questo momento. E anche in futuro le assicurazioni non potranno più gestire i costi a modo loro, ma dovranno parametrarsi, altrimenti non potranno stipulare contratti di assicurazione. A suo tempo, avete fatto un regalo straordinario ai poteri forti delle assicurazioni, senza ottenere nulla in cambio per i lavoratori.
Inoltre, vorrei rispondere a qualche altra accusa che ci è stata rivolta. Ho sentito criticare le norme sulla totalizzazione, ma ciò è assurdo e blasfemo. Voi avete effettuato la totalizzazione dei contributi per modo di dire! Infatti, nella cosiddetta riforma Dini si totalizzava nel seguente modo: se, in una cassa, si raggiungevano almeno cinque anni di contributi, tutti gli altri periodi non venivano conteggiati. Pertanto, si trattava di una riforma finta: voi avete totalizzato rispetto al 3-4 per cento della gente. Noi abbiamo stabilito che si totalizza tutto il periodo, a patto che si siano maturati i cinque anni. Voi accettavate ciò solo rispetto ad una cassa: se vi erano due o tre casse, gli altri versamenti sarebbero stati persi. È blasfemo da parte vostra accusarci in questo modo, perché ciò significa mentire.
Vorrei poi rivolgermi al collega Lusetti, che stimo per vecchie amicizie di partito. Egli ha svolto osservazioni che già in Commissione il Governo ha definito errate, spiegandone ampiamente i motivi. Credo che, quando in Commissione certe osservazioni si rivelano così evidentemente sbagliate, in questa sede non si possano ripetere sempre le stesse argomentazioni. Peraltro, egli non è persona disattenta, bensì un bravissimo parlamentare che studia le carte.
Consentitemi di svolgere un'ultima notazione. La delega non è ampia, come ha affermato l'onorevole Lusetti. La delega è modestissima rispetto alle altre che generalmente si conferiscono ai Governi. Inoltre, essa non riguarda il sommerso: non è vero che in questo provvedimento si conferisce al ministro la delega sul sommerso. Si tratta di tutto un altro concetto e lo abbiamo già chiarito in Commissione. Spero che stavolta lo abbia capito, anche perché so che interverrà in seguito e non vorrei ribadirlo.
Finalmente, si inizia a comprendere un aspetto: sono anni che si parla di separare la previdenza dall'assistenza. Ho letto i verbali delle Commissioni e tutti i Governi e le maggioranze, dal 1970 (sono risalito fin qui), parlano di separare la previdenza dall'assistenza, perché la realtà italiana è questa. Se non conosciamo realmente le dimensioni della previdenza e dell'assistenza con la difficoltà di separare le due sfere, probabilmente non potremo mai effettivamente mettere la parola fine alla previdenza (in senso positivo, logicamente). Ebbene, stavolta il Governo ha inserito nel provvedimento la disposizione per cui
gli enti previdenziali dovranno separare in bilancio la previdenza dall'assistenza. Questo è un grande vantaggio. Certo, tutto si può migliorare e, infatti, ci prefiggiamo, anche attraverso alcuni ordini del giorno, di dare un contributo al miglioramento del provvedimento, per il Governo e, soprattutto, per i cittadini. Ad esempio, un ordine del giorno riguarderà la garanzia dei rendimenti comparabili al tasso di rivalutazione del trattamento di fine rapporto.
Come potranno fare, per far fronte a questo, gli organi dei fondi di pensione e chi coprirà un'eventuale differenza di rendimento?
Per questa ragione, noi pensiamo di predisporre un ordine del giorno nel quale diamo mandato - in questo caso si tratterebbe di una sorta di supervisione - alla Covip.
Ancora: occorre verificare la possibilità di ridurre il periodo di cinque anni, per la totalizzazione della previdenza, a quattro anni: credo sia difficile, ma noi presenteremo in tal senso un ordine del giorno.
Avendo sentito diverse posizioni, potrei continuare ad esprimere una serie di riflessioni; tuttavia, vorrei soprattutto dire: sappiamo di cosa parliamo? È stato letto il disegno di legge in esame? Ed infine: quando si interviene, sappiamo di cosa parliamo?
Nel riservarmi di intervenire successivamente - più precisamente nel corso della fase dell'esame degli emendamenti - vorrei, da un lato, ricordare che noi siamo sempre per evitare bagarre e per «portare comunque a casa» il provvedimento, e, dall'altro, congratularmi con il relatore, il quale ha avuto la pazienza di Giobbe, ascoltando tutti, chiarendo ogni aspetto, e con il rappresentante del Governo, perché il lavoro fatto non è stato agevole, «trovare la quadra» non è stato semplice ed occorreva sicuramente una grande esperienza. Come Parlamento, abbiamo avuto quindi la fortuna di avere un grande relatore ed un grande sottosegretario!
Apprezzando sin da ora il lavoro che anche successivamente svolgeranno in qualità di rappresentante del gruppo di Forza Italia, rivolgo inoltre agli uffici un sentito ringraziamento (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Guerzoni. Ne ha facoltà.
ROBERTO GUERZONI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il contesto e le modalità con le quali discutiamo del disegno di legge delega sulle pensioni è davvero sconcertante.
Non è più in carica il ministro dell'economia, onorevole Tremonti, che di questo disegno di legge è stato l'autentico ispiratore; non si ha notizia, e siamo al 19 luglio, del documento di programmazione economico-finanziaria, che dovrebbe definire il quadro delle politiche macroeconomiche e di sviluppo, nel quale si inserisce anche il provvedimento al nostro esame.
È stato invece approvato dal Governo, ed è all'ordine del giorno della Camera per la sua conversione, un decreto-legge che contiene una manovra correttiva di finanza pubblica pari a 7, 5 miliardi di euro, a dimostrazione evidente che i conti, nei tre anni che abbiamo alle spalle, erano «truccati» dalla finanza creativa dell'ex ministro Tremonti, con un evidente interrogativo che si trascina anche sulle motivazioni che hanno sostenuto, da parte del Governo, la necessità del provvedimento al nostro esame.
L'incertezza politica, le divisioni e la crisi permanente della maggioranza stanno inoltre portando ad un metodo di discussione e di esame del disegno di legge delega inaccettabile, non solo per le forze di opposizione ma per l'intero Parlamento.
Siamo giunti all'esame del provvedimento in Assemblea, senza aver avuto la possibilità di esaminare e di approvare gli emendamenti in Commissione; emendamenti presentati in numero limitato e selezionato da parte dell'opposizione, senza alcun intento ostruzionistico. Questo, dopo che il Senato non aveva potuto esaminare ed approvare alcunché, in quanto, come è noto, il Governo, presso quel ramo del Parlamento, aveva posto la
questione di fiducia sull'approvazione di quel provvedimento e la ragione di tale scelta è ed era una sola: la maggioranza è talmente divisa che, nonostante sulla carta possa contare su un margine amplissimo di voti, non può rischiare concretamente di andare al voto!
Infatti, con la questione di fiducia posta al Senato e con il «non voto» in Commissione alla Camera, si sono evitate pronunce anche su emendamenti proposti dai colleghi della maggioranza che, pur non cambiando il segno complessivo del provvedimento, cercavano perlomeno di migliorarlo o di eliminare alcune evidenti iniquità nelle scelte in esso contenute.
Non a caso, su diversi emendamenti di analogo contenuto, presentati sia dall'opposizione sia dalla maggioranza, il relatore ha espresso in Commissione un parere favorevole, in contrasto con il parere contrario del Governo che ha invitato semplicemente a presentare ordini del giorno, e tutti noi sappiamo quale efficacia possano avere tali strumenti di indirizzo al Governo rispetto ai contenuti di una legge.
A tale situazione si sono aggiunte nelle ultime ore diverse dichiarazioni secondo cui la Lega Nord - partito del ministro del lavoro, che ha la titolarità del provvedimento - potrebbe anche non votarlo per il trascinarsi di una crisi nella maggioranza che quel partito non considera conclusa. Ora siamo al momento della verità: vedremo se esiste ancora uno spazio per cui il Parlamento possa essere libero di discutere e di esercitare la funzione che la Costituzione gli assegna, oppure, come è stato già annunciato da alcuni membri del Governo - e oggi ribadito sui giornali dal sottosegretario Sacconi - se si chiuderà ogni discussione ponendo la questione di fiducia.
Deve essere comunque chiaro a tutti, come abbiamo già detto, che i tempi per andare ad un confronto serrato, apportare modifiche e consentire al Senato una lettura finale ci sono: questo è, peraltro, quanto hanno chiesto nelle audizioni e negli incontri le forze sociali. Tutte le organizzazioni sindacali - CGIL, CISL e UIL ma anche altre organizzazioni - hanno indicato le possibili modifiche da apportare in terza lettura al provvedimento per renderlo, se non condivisibile, perlomeno privo di quegli elementi che contrastano anche con gli impegni presi dal Governo stesso nel confronto con le parti sociali. Mi riferisco, in materia di previdenza complementare, all'equiparazione tra fondi contrattuali e polizze assicurative individuali e private.
Vi è uno spazio per tale confronto o la nostra è una discussione finta, che non avrà nemmeno inizio? Se così sarà, sul provvedimento peserà oltre al merito negativo e non condivisibile, anche una scelta politica gravissima di cui porterete, come maggioranza, tutta la responsabilità di fronte al paese. In tal modo, infatti, aggiungerete un errore di metodo ad un errore di merito.
Vengo al merito. Questa delega è un provvedimento sbagliato e fortemente carico di iniquità, completamente in contrasto con le riforme avviate negli anni Novanta. Si può dire che si tratta di una vera e propria controriforma del sistema pensionistico. Tutto il processo di riforma avviato dagli inizi degli anni Novanta - che ha il suo architrave fondamentale nella legge n. 335 del 1995 e nei successivi adeguamenti compiuti tra il 1997 ed il 1998 - è avvenuto sulla base di una decisione del Parlamento sovrano che aveva, però, alle spalle un confronto ed un'intesa con le parti sociali. Per la prima volta si interviene sul sistema pensionistico e lo si cambia radicalmente in aperto contrasto con le organizzazioni sindacali. Per tale ragione queste ultime hanno proclamato due scioperi generali nei mesi scorsi ed anche in queste ore stanno manifestando la loro contrarietà nei luoghi di lavoro e nel paese.
Tale provvedimento non ha alcun impianto riformatore ed il suo stesso iter sta a testimoniarlo. La delega nasce come collegato alla legge finanziaria nel dicembre 2001, in seguito ad un esame compiuto nei mesi precedenti da una commissione istituita per esaminare lo stato del sistema pensionistico italiano dopo la riforma del 1995 e compiere una verifica sui suoi
effetti. La conclusione di quel lavoro non portava minimamente a prevedere uno smantellamento dell'assetto della legge n. 335. Anzi, ne confermava la validità delle norme flessibili, e venivano considerati gli ampi risparmi realizzati mettendo in luce il vero punto critico rappresentato dal mancato decollo del secondo pilastro del sistema: la previdenza integrativa.
Per questo, presentando la delega, si disse che quel disegno di legge non avrebbe modificato la legge n. 335 del 1995 e sarebbe intervenuto solo con forme incentivanti di permanenza al lavoro e sullo sblocco del trattamento di fine rapporto, per incrementare e fare decollare i fondi integrativi. In realtà, poi, da subito, questi propositi vennero contraddetti dalla scelta di intervenire pesantemente sul sistema, introducendo la decontribuzione per i nuovi assunti (sino a sei punti percentuali). Era evidente, in tale scelta, l'accettazione di una sorta di diktat della Confindustria, del presidente D'Amato, per ottenere uno sgravio sul costo del lavoro, con la conseguenza di un accollo di nuovi oneri per lo Stato e la finanza pubblica (se questo fosse avvenuto ad invarianza di rendimenti) o, molto più probabilmente, di un'ulteriore decurtazione, pari al 18 per cento, delle pensioni delle giovani generazioni, che vanno già a sistema contributivo (cioè pensioni vicine ad un tasso di sostituzione del 50 per cento). A questo, si accompagnava il dato inaccettabile dell'obbligatorietà della destinazione del TFR.
Vorrei essere chiaro: in quella commissione non sedevano agenti della sinistra, ma tecnici, che non potevano non constatare la realtà, che è appunto la seguente. In primo luogo, il sistema pensionistico italiano, sulla base delle riforme degli anni novanta, essendo incentrato sul sistema contributivo, sull'equiparazione fra lavoro pubblico e lavoro privato, sulla flessibilità delle uscite, sui rendimenti collegati a parametri oggettivi (fra cui le aspettative di vita e la composizione demografica), su principi di equità generazionale e sulla compresenza, accanto ad un sistema pubblico a ripartizione, di un secondo pilastro complementare, è un sistema avanzato, probabilmente il più avanzato in Europa ed è sicuramente uno di quei sistemi, insieme a quello della Svezia, preso come riferimento dai paesi europei che stanno affrontando (o che hanno già affrontato) i temi della riforma dei sistemi pensionistici.
In secondo luogo, la fase di transizione, compresi i suoi effetti finanziari sul bilancio dello Stato, era, ed è, sotto controllo, come testimoniano anche i bilanci degli enti pubblici. Pertanto, nulla impone di anticipare la verifica prevista dalle norme stesse della riforma su base decennale e quindi nel 2005. In terzo luogo, non c'è alcuno scarto fra i sistemi europei e la situazione italiana: l'Italia, con 59,4 anni di età (di pensionamento), rispetto ad una media europea di 59,9 anni di età, è in linea con l'Europa. Quindi, le riforme attuate in questi anni da diversi paesi europei sono già operanti nel sistema italiano introdotto negli anni Novanta. In quarto luogo, i veri punti di adeguamento della riforma del 1995 riguardavano il decollo del secondo pilastro della previdenza complementare, una copertura più adeguata delle forme di lavoro precarie e flessibili (peraltro aumentate a dismisura in questi anni, anche per le scelte compiute dal Governo di centrodestra) ed eventualmente la generalizzazione, sulla base di un principio di equità, del sistema contributivo pro rata.
È evidente che la decontribuzione avrebbe avuto un effetto dirompente su quei principi riformatori del sistema ed è un bene che dopo due anni, grazie soprattutto alle lotte delle organizzazioni sindacali e alla battaglia dell'opposizione, essa sia stata cancellata dalla delega. Allo stesso modo, è positivo che sia stata introdotta la volontarietà della decisione del lavoratore nella destinazione del TFR alla previdenza complementare. Tuttavia, scomparsa la decontribuzione, cosa è diventata la delega? Con la nuova stesura imposta al Senato con il voto di fiducia, essa è diventato il veicolo - diciamo le cose come stanno! - per dare una sponda alla politica finanziaria fallimentare del Governo e in particolare dell'ex ministro
Tremonti. La delega, anziché uno strumento per verificare il sistema pensionistico delle riforme del 1995 e degli anni Novanta (eventualmente potenziandolo, aggiornandolo ed adeguandolo), è diventata un modo per fare cassa e per coprirsi le spalle in sede di Unione europea, di fronte alla non credibilità di manovre finanziarie, fatte di condoni, una tantum e di assurde, quanto mai disastrose, promesse di riduzioni generalizzate delle tasse.
Alla decontribuzione, infatti, si è sostituito, a partire dal 2008, un provvedimento di drastico innalzamento dei requisiti di età e di contributi necessari per la pensione. Si tratta di un provvedimento fortemente iniquo, come è stato detto, drasticamente vessatorio per centinaia di migliaia di lavoratori e di lavoratrici, dipendenti ed autonomi. Per questi, infatti, la pensione si allontana di cinque o sei anni, se si somma ai nuovi requisiti (60 anni dal 2008, 61 dal 2010 e 62 dal 2014), la riduzione delle finestre da 4 a 2.
Questa iniquità, lo «scalone» ed il taglio drastico risultano ulteriormente aggravati sia per le donne (per le quali, con l'elevazione, a partire dal 2008, a 60 anni di età, scompare del tutto la pensione di anzianità), sia per i lavoratori precari ed usuranti, che si vedono cancellati i differenziali legati alla loro specifica condizione.
Vorrei far presente ai colleghi ed al Governo che, per una persona, cominciare a lavorare a 14 anni, anziché a 25, è una condizione molto diversa; è una condizione altrettanto diversa lavorare per 35 anni in un cantiere, anziché in un ufficio. Pensate sia comprensibile per migliaia di persone, che stanno lavorando da 35 anni, dover continuare a lavorare, dal 1o gennaio 2008, tre, quattro, cinque o sei anni in più, in seguito alle misure da voi messe in atto per coprire i buchi di bilancio non previsti e non prodotti dalla spesa pensionistica, ma dalla scarsa capacità di gestione della politica finanziaria di questi anni, con l'obiettivo di recuperare lo 0,7 per cento del PIL?
Non vi ha detto nulla il voto del 13 giugno su ciò che pensa il paese reale? Credo siano scelte come queste, inique ed incomprensibili, a misurare la vostra distanza con il cuore e la mente dal paese. Né potete pensare di giustificare questo taglio iniquo con il tema del rapporto fra spesa pensionistica e prodotto interno lordo. Voi sapete bene che, se vi fosse un problema di crescita di questo rapporto, previsto dai vari studi, nella fase di transizione della riforma, ciò richiederebbe l'apertura di un confronto generale sulla spesa sociale, in quanto l'Italia presenta una delle percentuali più basse di spesa sociale sul prodotto interno lordo (anche per gli anni futuri e per quelli della cosiddetta gobba), al fine di decidere come orientarla e distribuirla.
Nella delega, tuttavia, i risparmi finanziari non sono finalizzati in alcun modo alla spesa sociale ed a un suo eventuale riequilibrio. Fate solo cassa per coprire i buchi di bilancio, sperando così di essere più credibili in sede europea.
La scelta più grave - vorrei insistere su tale aspetto - non sta soltanto in questa iniqua misura, ma nel fatto che, accanto al colpo sulle pensioni di anzianità, che riguardano coloro nei confronti dei quali si applica il calcolo retributivo misto, vi è anche un intervento al cuore del sistema, introdotto con la riforma del 1995, laddove con questa legge delega si decide di procedere verso un sistema a regime, senza la flessibilità di decidere, sulla base di una valutazione del lavoratore, se andare in pensione a 57 o a 62 anni di età, con 35 o 40 anni di contributi, evidentemente con un diverso trattamento pensionistico, calcolato in misura proporzionale all'età e al numero di anni di contribuzione.
Si impone per tutti la soglia dei quarant'anni di contributi o dei sessant'anni per le donne e dei sessantacinque anni per gli uomini. È una scelta insensata nel regime contributivo, perché voi pensate che la società e le generazioni future, quelle che hanno cominciato a lavorare nel 1996, quindi, pienamente nel sistema contributivo, possano supportare le precarietà
e la flessibilità estrema del lavoro e poi la rigidità penalizzante nei sistemi di protezione sociale? Avete motivato ciò, dicendo che bisognava mettere mano alle pensioni in nome delle generazioni future e dei giovani, ma pensate che vi sia qualcuno che possa credere a questa propaganda, priva di ogni riferimento alla realtà?
Con la delega non proponete nulla per i giovani che non hanno un lavoro stabile e per coloro che andranno in pensione con il metodo contributivo - perché entrati, appunto, dopo il 1995 - decidete che non potranno scegliere e li obbligate fino a 60, 65 anni o 40 anni di contributi.
È necessario, quindi, dire la verità: in questa delega non vi è alcuna iniziativa che si proponga di intervenire per fornire nuove tutele alla flessibilità del mercato del lavoro. Non c'è nulla per la contribuzione figurativa, non c'è nulla per i lavori discontinui, non c'è nulla di serio per la totalizzazione dei vari periodi contributivi; non c'è nemmeno - di fronte ai già avvenuti aumenti delle aliquote dei cosiddetti lavoratori atipici (i co.co.co), portate al 19 per cento con la scorsa legge finanziaria - il riconoscimento postumo di quei diritti minimi (malattia, ferie, indennità di disoccupazione) che dovrebbero valere per la generalità dei lavori.
Le giovani generazioni sono poi direttamente colpite dalla seconda grave scelta contenuta nel testo al nostro esame e che attiene alla previdenza complementare.
Noi, non solo siamo favorevoli al decollo del secondo pilastro della previdenza complementare e anche all'utilizzo volontario del TFR per incentivare i fondi pensione integrativi, ma critichiamo che su tale punto vi sia stato un ritardo. Sono trascorsi tre anni senza che sia stato fatto nulla! Avevamo suggerito - e continuiamo a farlo - che, se si voleva procedere speditamente, si poteva, fin dall'inizio, stralciare anche questa parte, sulla quale vi è una ampia condivisione in ordine all'esigenza di irrobustire il sistema di previdenza integrativa avviato negli anni '90, ma poi non pienamente decollato anche in assenza della possibilità di utilizzare il trattamento di fine rapporto. Quindi, l'oggetto della nostra critica non è questo.
Il nostro giudizio fortemente negativo riguarda la decisione, assunta con il testo approvato al Senato, di introdurre - mentre si passava dalla obbligatorietà alla volontarietà - la piena equiparazione tra fondi contrattuali, fondi aperti e fondi pensionistici individuali nell'utilizzazione del TFR.
Il relatore e il Governo sanno benissimo che esistono proposte avanzate dall'associazione che gestisce i fondi pensione di emanazione delle fonti contrattuali più importanti - imprese e lavoratori - che ha chiesto al Parlamento una modifica del testo al nostro esame. Dunque, perché è così grave e sbagliata questa scelta? In primo luogo, perché non si può intervenire per legge rendendo obbligatori comportamenti e regole che riguardano istituti che hanno natura negoziale e appartengono al rapporto tra le parti sociali - tanto è vero che vi sono esplicite quote contrattuali che già vengono destinate, per libero accordo tra le parti, ai fondi scelti da queste ultime - e, in secondo luogo, in quanto l'equiparazione dei fondi pensione alle polizze vita di natura privatistica, rispetto all'utilizzo del TFR, dà un colpo a quel secondo pilastro, sì complementare, ma di un sistema di protezione sociale, come quello che la Costituzione stabilisce per la previdenza.
Cosa avverrà del TFR se, anziché essere inserito in un sistema di fondi che, per loro natura, regole e rendimenti, danno garanzie proprie di un sistema previdenziale, sarà invece disperso nelle polizze vita assicurative, che sono altra cosa per rendimenti, costi, natura e sono prodotti, appunto, di mercato? Cosa deve avvenire di più dopo le vicende della Enron e dei fondi integrativi inglesi per far capire alla maggioranza e al Governo che è necessario salvaguardare il TFR, prevedendo una normativa differenziata che scelga i fondi contrattuali e collettivi per le finalità previdenziali?
È sufficiente leggere la relazione della Covip per capire come nei fondi assicurativi,
quando si è di fronte a costi che possono raggiungere l'8 per cento in una fase di inflazione intorno al 2 per cento, vi sia il rischio evidente che il lavoratore non solo alla fine non godrà di alcuna pensione integrativa, ma si consumerà anche tutto il capitale; e stiamo parlando del trattamento di fine rapporto!
I prodotti assicurativi privati stanno alla logica del mercato, i fondi contrattuali e collettivi stanno nella previdenza integrativa a capitalizzazione: si tratta di un semplice principio, di cui però il dirigismo liberistico dell'ex ministro Tremonti, che voi continuate a perseguire, sembra non accorgersi.
Mi sono concentrato su questi due punti fondamentali, ma ve ne sono molti altri già sollevati e su cui sarebbe necessario intervenire per correggere ed integrare la delega. Mi riferisco all'inefficacia del meccanismo incentivante, che dovrebbe prevedere davvero la possibilità di benefici sull'importo pensionistico, oltre a quote più elevate di salario, per poter costituire un incentivo a ritardare l'uscita dal lavoro. Mi riferisco alla totale assenza di interventi per il settore del lavoro pubblico, che viene rimandato a future e generiche trattative e per il quale non si prevede nulla, per quanto riguarda la previdenza complementare. Mi riferisco ancora alle «deleghe nella delega», per mettere mano ad un nuovo testo unico senza indicare precisi criteri direttivi (tra l'altro, tutti questi punti sono oggetto della nostra pregiudiziale di costituzionalità). Mi riferisco, infine, alla previsione di escludere dalle norme sull'età i lavoratori in mobilità da prima del marzo 2004, e in ogni caso, in numero non superiore a diecimila. Mi chiedo: ma chi è stato coinvolto nei processi di ristrutturazione e crisi nei mesi successivi o nei prossimi anni, cosa farà? Sarà un lavoratore di serie B, discriminato in base a quali criteri? E perché prevederne diecimila? Perché ricorrere ad un numero preciso, in base a norme che, al contrario, dovrebbero stabilire regole valide per ogni situazione, in quanto generali?
Infine, non si prevede nulla di concreto per le piccole e medie imprese, che saranno coinvolte dalle diverse destinazioni del TFR. Possono essere individuati ancora altri aspetti, ma i due da me sottolineati costituiscono, a mio avviso, il banco di prova per capire se la maggioranza e il Governo intendono imboccare una strada diversa.
È un'idea sbagliata della riforma, diversa da quella che abbiamo in mente. Possiamo riassumerla in questa maniera: con questa impostazione, per ragioni di bilancio, scegliete di far saltare il sistema pensionistico pubblico, scaturito dalle riforme degli anni Novanta, in modo iniquo e senza affrontare i problemi veri e nuovi che si pongono. Noi, al contrario, proponiamo misure di adeguamento e di piena attuazione della riforma, nel segno dell'equità e guardando ai nuovi problemi del mercato del lavoro e dei giovani.
Non credo che vi potrà essere un cambiamento di orientamento da parte della maggioranza in questa sede; me lo auguro comunque, ma in ogni caso la nostra opinione resta netta e contraria e, se voi non la cambierete, starà al paese giudicare la differenza. Quello che altresì mi auguro è che non vi mostriate chiusi nemmeno, come dicevo all'inizio, ad un corretto confronto parlamentare per introdurre i cambiamenti indispensabili a correggere gli elementi considerati da più parti iniqui e sbagliati. Non vi daremo alcun alibi per non farlo e, se porrete la questione di fiducia, significherà che non avete neanche la forza, a causa delle vostre divisioni, di confrontarvi con l'opposizione in una dialettica parlamentare.
Vorrà dire, quindi, che è ormai giunto il momento, per il bene dell'Italia, che si pensi e si vada ad un nuovo Governo, all'altezza dei veri problemi del paese e della nostra società.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Frigato. Ne ha facoltà.
GABRIELE FRIGATO. Signor Presidente, signor sottosegretario, onorevoli colleghi, prima di esprimere qualche valutazione
rispetto al provvedimento in oggetto, vorrei raccogliere qualche riflessione - che considero anche provocazione - sollevata, in particolare, dal collega della Lega Nord Federazione Padana. Mi è parso che tale gruppo voglia minimizzare la riforma in esame; «in fin dei conti anche il centrosinistra fatto cose peggiori» mi sembra abbia detto il suo esponente. Inoltre, secondo il collega Dario Galli, «la sinistra deve fare..., la sinistra deve imparare..., la sinistra deve fare ammenda...». Io, che di sinistra non sono, se non nel senso di perseguire una politica aperta, sociale e che guarda avanti, vorrei ricordare al collega Dario Galli e a tutto il gruppo della Lega nord che siete al Governo da tre anni, non da tre giorni. In questi anni avete approvato con obbedienza provvedimenti quali la legge Cirami, la legge Gasparri, le leggi sul conflitto di interessi, sul rientro dei capitali dall'estero, sull'abolizione delle tasse sulle grandi eredità, i condoni, i tagli agli enti locali: altro che buongoverno! Altro che bene comune! Mi fermo qui, perché mi hanno insegnato che non è mai bene sparare sulla Croce rossa.
Anche il collega di Forza Italia ha iniziato il suo intervento affermando di essere stanco di questo iter e di queste liturgie, perché in Assemblea si dicono le stesse cose che si dicono in Commissione. Sarebbe sufficiente che alcune proposte provenienti dai banchi dell'opposizione trovassero accoglimento. Mi pare che sul provvedimento in esame ciò non sia accaduto. Esso infatti, come è già stato ricordato da alcuni colleghi, dopo tre anni presenta contenuti essenzialmente diversi rispetto a quelli originari. Tuttavia, questo continuo cambiamento non è il frutto di una riflessione né dell'accoglimento di proposte dell'opposizione, ma si inserisce in una forma e in una modalità che vede il Governo cambiare gioco e cambiare le carte in tavola, a seconda dei soggetti ai quali intende riferirsi (l'Europa, l'Ecofin, la Confindustria; se occorre fare cassa, se siamo prossimi ad una legge finanziaria, se l'abbiamo alle spalle).
La delega in esame oggi presenta certamente contenuti diversi rispetto alla proposta originaria del Governo (che era agganciata alla legge finanziaria per il 2002, e dunque risaliva al dicembre 2001). Non si può quindi dire che se ne parla da tre anni, perché se ne parla da tre anni ma regolarmente, ad intervalli di pochi mesi, il gioco cambia e le carte vengono cambiate.
Riteniamo dunque non sia inutile il lavoro che può essere svolto in Parlamento, sia in sede di Commissione sia in sede di Assemblea. Continuiamo infatti a credere che una buona maggioranza si qualifichi anche nella capacità di cogliere i suggerimenti che emergono dal dibattito, soprattutto quando essi vengono proposti in modo sereno e pacato e siano per alcuni aspetti condivisi anche da gruppi che sostengono il Governo e che fanno parte della maggioranza.
Quanto alla delega «larga» o «stretta», non intendo difendere il collega Lusetti, in quanto è sicuramente capace di farlo da solo. Tuttavia, abbiamo avuto già modo di verificare che il Governo ha chiesto e ottenuto deleghe «larghe», accogliendo anche alcuni ordini del giorno, e che successivamente i decreti legislativi e le circolari applicative si sono collocati sul filo del rasoio rispetto alla delega approvata dal Parlamento. Dunque, anche in una materia così importante, che riguarda milioni di cittadini, di lavoratori e di anziani, sarebbe stato utile e opportuno stabilire limiti chiari e precisi.
Riteniamo che questa sia una delega ampia, che il Governo porta a casa assumendone tutte le responsabilità.
Per entrare nel merito del provvedimento, il contesto del quale parliamo, per quanto riguarda gli anziani - o la terza età -, presenta elementi che non sono propriamente entusiasmanti e che, anzi, considero davvero preoccupanti. Parlando della stagione estiva e quindi delle categorie più a rischio - proprio gli anziani -, il ministro Sirchia ha avuto modo di dire che, se vi saranno giornate particolarmente calde, gli anziani potranno andare nei supermercati, dove c'è l'aria condizionata.
L'ultima manovra di 7,5 miliardi di euro (15 mila miliardi di lire) si basa su un ulteriore taglio agli enti locali e sappiamo che, alla fine, questi si vedranno costretti a ridurre i servizi alle persone, alle categorie deboli, in questo caso i servizi agli anziani.
Da diverso tempo stiamo ragionando su questa riforma delle pensioni che, ahimè, noi preferiremmo fosse una riforma complessiva del welfare, perché c'è bisogno di rivedere gli equilibri all'interno delle età, all'interno dei servizi, all'interno delle diverse situazioni. Invece, parliamo solo di riforma delle pensioni, contribuendo a fornire, anche in questo caso, un elemento di preoccupazione e non certo di serenità.
Colleghi, noi abbiamo motivi di merito e motivi di metodo, ma nel merito sono tre essenzialmente gli elementi che vogliamo segnalare all'attenzione dell'Assemblea.
In primo luogo, vogliamo sottolineare che il Governo si contraddice quando predica l'urgenza e poi rinvia al 2008 gli effetti degli interventi previsti sull'età pensionabile. È stato segnalato da moltissime forze politiche, forze sociali, opinionisti: non c'è urgenza, perché l'andamento dei conti non è immediatamente critico, come indicano le stesse analisi della commissione istituita dal sottosegretario Brambilla. Quindi, c'è tutto il tempo per una verifica del 2005 e per discutere le modalità e gli esiti di questa verifica con le forze sociali e il sindacato.
È vero, come qualcuno ha ricordato, che con la riforma Dini è stata posta la questione di fiducia per ben tre volte, ma sappiamo che il contesto politico era profondamente diverso e sappiamo tutti quale fu l'equilibrio che il Governo in quel momento, nel Parlamento e nel paese, seppe trovare. Sappiamo tutti che non è facile approcciare queste riforme, ma sappiamo anche che una riforma è credibile nella misura in cui esprime un equilibrio anche dal punto di vista della tenuta sociale. Non ci pare, insomma, che saltare la verifica prevista dalla riforma Dini sia un buon segnale, sia dal punto di vista della credibilità del Governo nei confronti degli impegni assunti con le forze sociali e con il sindacato, sia perché ci sembra che si vogliano sostanzialmente eludere i numeri, che invece mi sembra dimostrino che qualche attesa possiamo ancora permettercela.
In secondo luogo, l'annuncio di un intervento differito sull'età pensionabile è controproducente, a nostro avviso, anche dal punto di vista finanziario, perché indurrà migliaia di persone alla fuga dal lavoro, anche quelle che altrimenti sarebbero rimaste a lavorare, il che comporterà un aggravio aggiuntivo del bilancio pubblico, perché il costo delle pensioni da pagare si deve sommare a quello degli incentivi, che comportano tra l'altro mancati contributi per l'INPS.
Il terzo elemento di merito che vogliamo sottolineare è che la proposta del Governo a noi sembra davvero iniqua, perché provoca effetti diseguali su vari gruppi di persone.
Un primo gruppo di persone, a cui mancano tra i quattro e i cinque anni alla pensione, secondo le regole attuali non riceve alcun danno dal minacciato intervento; anzi, possiamo dire che avranno qualche beneficio con il possibile prolungamento del lavoro e quindi degli incentivi a proprio vantaggio.
Un secondo gruppo di persone, di età intermedia, subisce in pieno l'effetto di un innalzamento brusco e squilibrato dei requisiti pensionistici: quarant'anni di contributi o sessantacinque di età. Un salto di tale portata è contrario ad ogni logica di riforma, che deve essere invece progressiva, e non si riscontra in nessun altro paese europeo.
Colleghi di maggioranza e anche lei, sottosegretario, voi ci avete detto più volte che questa riforma si sta facendo anche in Germania e in Francia; ma in Germania sappiamo che è ben altra la gradualità introdotta nel provvedimento e che queste grandi riforme, che spesso pesano nella vita economica e sociale, riescono a diventare reali, a realizzare cioè l'obiettivo, nella misura in cui vengano comunque adottate un gradino alla volta, senza troppi scatti e senza troppi balzi in avanti.
Un terzo gruppo di persone, i più giovani, vede aumentare le proprie difficoltà di arrivare ad una pensione minima adeguata; il requisito dei quarant'anni di contribuzione è praticamente inarrivabile per quei giovani, se non correggiamo, se non correggete, signori del Governo, le situazioni di precarietà e di indeterminatezza in cui molti di essi lavorano; e oltretutto queste sono aggravate anche dalla recente legge n. 30 del 2003 in materia di occupazione e mercato del lavoro. Il Governo dice di voler favorire i giovani, e invece, purtroppo, li penalizza.
Per evitare questo rischio pensionistico, noi abbiamo proposto nella carta dei diritti, predisposta dall'Ulivo, di sostenere la continuità del percorso pensionistico dei giovani precari, sia con contributi figurativi sia favorendo la ricongiunzione ai fini pensionistici dei diversi periodi lavorativi.
Non voglio entrare nel merito di altre questioni, già segnalate dal collega Lusetti e dai colleghi del gruppo dei Democratici di sinistra. Voglio augurarmi anch'io che l'iter, almeno conclusivo, di questo disegno di legge delega sul riordino del sistema pensionistico possa essere rispettoso del Parlamento e del dibattito parlamentare e che possa anche portare ad una possibile presa d'atto delle preoccupazioni evidenziate dall'opposizione, e non solo.
In definitiva, colleghi - e concludo -, ritengo che, nel corso della recente campagna elettorale per le elezioni del Parlamento europeo, tutti - di destra o di sinistra che fossimo - abbiamo difeso, e ci siamo impegnati a farlo, uno dei patrimoni fondamentali del nostro paese e del nostro continente: il modello sociale europeo, che è fatto di una scuola e di una formazione per tutti, di una sanità da offrire a tutti, fatto insomma di pari opportunità; un modello sociale europeo nel quale la previdenza svolge ed ha un ruolo e uno spazio fondamentali; un grande sistema di solidarietà sociale, frutto della storia del nostro sindacato e della cooperazione, delle lotte della sinistra e di quelle del cattolicesimo sociale.
Io credo che occorra, e concludo Presidente, che noi rintracciamo insieme una nuova compatibilità di sistema, una nuova sostenibilità. Su questo abbiamo richiamato l'attenzione e offerto la disponibilità in Commissione.
Certo è che un atteggiamento di chiusura, che dovesse portare ad una nuova fiducia su questo provvedimento, sarebbe sicuramente il contrario di ciò che noi chiediamo, sia nel merito sia nel metodo. Sarebbe il contrario - mi sia permesso ricordarlo - di ciò che hanno chiesto, in questi tre anni, milioni di cittadini, i quali sicuramente sono stati sensibilizzati, per così dire, non soltanto da CGIL, CISL e UIL, vale a dire da sindacati che, a parere di taluno, potrebbero essere considerati vicini al centrosinistra, ma da tutti i sindacati, compresi quelli che - come dire? - frequentano più volentieri gli ambienti del centrodestra.
In conclusione, spero che in questi giorni possa continuare il dialogo in Parlamento. Spero, altresì, che l'ipotesi di porre la questione di fiducia sia stata soltanto ventilata dal Governo e che il corso dei lavori si sviluppi attraverso un dibattito sereno, che possa contribuire a migliorare il testo al nostro esame.
PRESIDENTE. La ringrazio, onorevole Frigato.
Onorevoli colleghi, a questo punto, riterrei di rinviare il seguito della discussione del disegno di legge in esame alle 15. Ricordo che, dopo gli interventi degli onorevoli Lo Presti ed Alfonso Gianni, vi saranno le repliche del relatore e del Governo.
Sospendo pertanto la seduta, che riprenderà alle 15.
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