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PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali delle mozioni.
È iscritta a parlare l'onorevole Maura Cossutta, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00351. Ne ha facoltà.
MAURA COSSUTTA. Signor Presidente, abbiamo presentato questa mozione sull'Africa, sottoscritta da numerosi parlamentari dell'opposizione, perché riteniamo che l'Africa sia un tema strategico, che pone sfide ineludibili, decisive per il destino del mondo, e perché riteniamo che le risposte a queste sfide riguardino il progetto e la cultura politica che scegliamo. Sull'Africa, la comunità internazionale è chiamata alla responsabilità delle scelte e - lo dico chiaramente subito - alla responsabilità dell'inversione netta delle scelte. La storia dell'Africa, infatti, si inquadra all'interno delle colpe pesantissime del passato, delle politiche coloniali, così come all'interno delle colpe pesantissime del presente, delle politiche liberiste imposte dagli organismi internazionali (il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e il WTO).
Occorre innanzitutto partire dal risarcimento dovuto a questo continente, che è stato saccheggiato, insanguinato, devastato, escluso. È a partire da questa consapevolezza, da questo irrinunciabile riposizionamento, che devono essere affrontate le cause del crescente divario globale tra nord e sud del mondo ed è a partire da questo riposizionamento che devono essere trovate le risposte. I drammi dell'Africa hanno un nome e un cognome. Il destino dell'Africa non è immutabile. Molto dipende da noi: così è stato detto nell'ultima grande manifestazione tenutasi a Roma il 17 aprile scorso, che ha visto la presenza di tante associazioni del mondo del volontariato e dei partiti politici. È indispensabile che queste responsabilità vengano denunciate, combattute, vinte.
A tutt'oggi, i paesi industrializzati spendono 300 miliardi di dollari l'anno (la sola Europa 87) in sussidi ai loro agricoltori: 5 volte gli aiuti allo sviluppo destinati al continente africano. Ci sono 28 milioni di africani che muoiono di AIDS, di cui 7 milioni sono contadini, con una conseguente riduzione, gravissima, della produttività (del 50 per cento); sappiamo infatti che il 70 per cento della popolazione attiva è impegnato proprio nell'agricoltura. I brevetti e le proprietà intellettuali impediscono la creazione di imprese locali produttrici di farmaci retrovirali a basso costo.
L'Africa è totalmente ai margini del commercio internazionale e dei flussi di capitale, mentre il peso del debito si espande, anzi si nutre di una spirale perversa: più lo si paga, più lo si alimenta. Ma a Cancun qualcosa è successo, qualcosa è cambiato. Il vertice è fallito proprio sotto la spinta dei paesi del sud del mondo, grazie ad un'alleanza inedita di straordinario valore strategico tra Cina, India e Brasile e grazie al ruolo importantissimo dell'Unione africana. Cancun rappresenta, dal punto di vista politico, l'inizio del riposizionamento, a partire dal sud del mondo, dei rapporti internazionali.
L'Africa vuole cambiare; la società civile africana, protagonista di questo nuovo fermento, vuole contare, ma continua, purtroppo, a non essere rappresentata né
ascoltata dai Governi occidentali né dal mondo dell'informazione e dalle istituzioni internazionali. L'Europa, in particolare l'Italia, cosa intende fare al riguardo? Da che parte si colloca? Noi crediamo che occorrano scelte chiare che impongano alcuni cambiamenti.
L'Africa, il Mediterraneo, ma anche l'America latina e il sud del mondo sono, a nostro avviso, il futuro di un'Europa che sceglie di essere forte, politicamente autonoma, non succube dei diktat americani, nonché di difendere il suo modello sociale non con il protezionismo e lo sfruttamento del sud del mondo, ma muovendo da un'idea diversa dello sviluppo e della cooperazione, in un mondo multipolare che cambi le regole e le scelte di organismi internazionali e costruisca un nuovo ordine ed una nuova legalità internazionale.
Per tale motivo, chiediamo che il Governo si assuma impegni chiari: mi riferisco, in primo luogo, all'azzeramento del debito, con l'applicazione effettiva della legge n. 209 del 2000 (non con una sua applicazione al minimo, come ha fatto il Governo Berlusconi, accodandosi alle norme e ai procedimenti previsti dal Fondo monetario internazionale). Sono stati azzerati solo 1.744 milioni di euro su 6 milioni previsti.
Occorre avviare una procedura di arbitrato internazionale per il debito da affidare non più al Fondo monetario internazionale, ma ad un organismo indipendente, e portare le risorse per la cooperazione allo sviluppo, sempre più in calo, verso il famoso 0,7 per cento del PIL. Bisogna dire «no» con chiarezza al dumping commerciale americano, ma anche europeo, per il diritto dei paesi africani a proteggere i loro mercati ed i loro prodotti per favorire le loro produzioni locali; rispettare gli impegni del Millennium round, con la sottoscrizione delle quote di aiuto per l'Africa con risorse adeguate; battersi in organismi internazionali per privilegiare le misure di difesa della salute pubblica rispetto ai brevetti, permettendo la produzione locale di medicinali a basso costo; combattere per un trattato internazionale per la riduzione della vendita e dell'uso illegale di armi, che definisca standard minimi nel commercio degli armamenti ed il rafforzamento del controllo sull'esportazione delle armi e sull'attività dei produttori e degli intermediari (altro che cancellazione della legge n. 185!); ridefinire ruoli e politiche delle rappresentanze italiane all'interno della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale secondo criteri di trasparenza che consentano un vero controllo democratico sui processi decisionali; vietare l'uso e l'importazione delle cosiddette risorse insanguinate (diamanti, legnami, coltan) che provengono dall'Africa, anche attraverso l'adozione di strumenti di certificazione certi e sicuri.
Si tratta di impegni precisi e chiari, attraverso i quali chiediamo un'inversione netta di tendenza, con l'adozione di scelte che rompano la linea di condotta finora portata avanti dal Fondo monetario, dalla Banca mondiale, dal WTO, a gestione totalmente americana. Sono impegni decisivi per il destino dell'Africa ma anche per noi, per un futuro di pace, e sappiamo che non vi sarà pace se non vi sarà giustizia nel mondo (Applausi dei deputati dei gruppi Misto-Comunisti italiani e dei Democratici di sinistra-L'Ulivo)!
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Crucianelli, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00372. Ne ha facoltà.
FAMIANO CRUCIANELLI. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, mi auguro di essere più fortunato (e mi rivolgo anche al Governo) rispetto alla discussione che ha avuto luogo solo una settimana fa sulle conseguenze del vertice di Cancun (tale discussione si è svolta sull'onda della grande manifestazione e delle iniziative che si sono tenute a Roma sull'Africa).
Infatti, nella discussione precedente, ci siamo trovati nella singolare situazione che, su punti fondamentali della mozione da me presentata insieme a moltissimi altri colleghi (credo centocinquanta parlamentari), vi è stato il parere favorevole del
Governo sulla parte dispositiva - dunque quella più significativa - e il voto contrario della maggioranza. Ho molto apprezzato il parere espresso dal Governo - sia il viceministro Urso sia il ministro Alemanno erano presenti a Cancun -, mentre sono rimasto deluso dall'atteggiamento miope e anche un po' ignorante della maggioranza. Sarebbe davvero singolare se dovessimo trovarci di fronte ad una ripetizione di tale situazione. So che il sottosegretario Boniver è da sempre molto attenta a questi problemi e ritengo sarebbe importante un'opera di sensibilizzazione anche nei confronti della maggioranza!
Vorrei iniziare questo breve intervento leggendo gli obiettivi del Millennium round - quelli indicati dalle Nazioni Unite -, verificando quale sia la realtà odierna.
Il primo di tali obiettivi è quello di sradicare l'estrema povertà entro il 2015. Sappiamo che oggi vi sono 1,2 miliardi di persone, un quinto della popolazione mondiale, che sopravvivono con meno di 1 euro al giorno e più del doppio, 2,8 miliardi di persone, con meno di 2 euro al giorno. Vi sono 779 milioni di persone, il 18 per cento della popolazione mondiale, che soffrono la fame. Nell'Africa subsahariana uno su tre, 183 milioni, si trova in questa drammatica condizione.
Il secondo obiettivo è quello di garantire a tutti i bambini e a tutte le bambine l'istruzione primaria entro il 2015. Dei 680 milioni di bambini in età scolare nei paesi in via di sviluppo, 115 milioni non vanno a scuola; nell'Africa subsahariana il tasso scolastico è del 57 per cento.
Il terzo è quello di promuovere l'uguaglianza di genere entro il 2015. A tale proposito, vorrei ricordare un dato veramente mortificante per la nostra civiltà: nel mondo le donne affette da HIV sono meno della metà degli uomini, in Africa sono più del 55 per cento.
Il quarto obiettivo è quello di ridurre di due terzi la mortalità infantile entro il 2015. Ogni anno oltre 10 milioni di bambini muoiono di malattie che si possono prevenire e curare (si tratta di 300 mila bambini al giorno). Solo per citare un dato, in Sierra Leone il 18 per cento dei bambini non raggiungerà il primo anno di vita.
Il quinto obiettivo è quello di ridurre di tre quarti la mortalità materna entro il 2015. Ogni anno, nei paesi in via di sviluppo, più di 500 mila donne muoiono a causa di complicazioni legate al parto; di queste 250 mila vivono nell'Africa subsahariana.
Il sesto è quello di combattere l'AIDS, la malaria ed altre malattie entro il 2015. Nel mondo circa 42 milioni di persone sono affette da HIV e 39 milioni vivono nei paesi poveri. Il virus ha già ucciso 22 milioni di persone e ha lasciato orfani 13 milioni di bambini. In Africa l'AIDS è particolarmente devastante.
Il settimo obiettivo è quello di assicurare la sostenibilità ambientale entro il 2015. Oltre 1,2 miliardi di persone non hanno accesso all'acqua potabile, 2,4 miliardi non dispongono di servizi fognari e sanitari adeguati. In Africa il 65 per cento della popolazione non dispone di allacciamenti ad acquedotti, il 28 per cento è senza acqua potabile e il 13 per cento senza servizi igienici.
L'ottavo obiettivo è quello di sviluppare una partnership globale a favore dello sviluppo. Trent'anni fa i paesi ricchi si sono impegnati per raggiungere il famoso 0,7 per cento del prodotto interno lordo; lo 0,5 del prodotto interno lordo dei 22 paesi più ricchi basterebbe a raggiungere gli obiettivi del Millennium round che ho appena richiamato, mentre ora è attestato sullo 0,2 per cento. In Italia l'aiuto è dello 0,13 per cento, una cifra che si commenta da sé.
Per completare tale quadro mortificante basterebbe osservare ciò che accade nel mondo anche sul piano macroeconomico. Ci troviamo di fronte a una situazione economica di notevole difficoltà: è vero che l'economia americana si trova in una fase di ripresa, ma tale ripresa è legata in larga parte al privilegio dell'amministrazione e della società statunitense costituito dal fatto di poter usufruire di un deficit straordinario. Inoltre, vi sono due importanti paesi emergenti, quali la Cina e
l'India, il cui prodotto interno lordo è pari al 7-8 per cento annuo. Nello stesso contesto, l'Africa partecipa al commercio internazionale per il 2,1 per cento ed ha un prodotto interno lordo pari a un terzo di quello italiano, pur avendo 800 milioni di abitanti.
Occorre in primo luogo interrogarsi sul motivo per cui siamo giunti a questo stato di cose: noi europei, che abbiamo rapporti con l'Africa da circa cinque secoli, non possiamo eludere le nostre responsabilità. L'Africa è un continente complesso, ed è dunque inopportuno ricorrere a semplificazioni. Non vi è tuttavia dubbio che si possano individuare facilmente alcuni punti fermi. L'Africa è sempre stata considerata un grande bacino di materie prime e di ricchezze: ci troviamo nella singolare situazione per cui il prezzo di tali materie prime è fissato dal compratore, non dai produttori. Si tratta di una situazione drammatica, in quanto tali prezzi hanno perso, in particolare negli ultimi venti anni, notevole valore.
Va altresì aggiunto che l'Africa ha rappresentato per alcuni una straordinaria opportunità di arricchimento, e che quando non è stato possibile conseguire altrimenti tale arricchimento si sono utilizzate le guerre per interposta persona. Si è dunque fatto ricorso a tutti i mezzi per sfruttare questo continente: negli ultimi anni abbiamo assistito a una serie di guerre drammatiche e tragiche, che vanno sotto il nome di «guerre etniche» e dietro le quali vi sono mandatari nonché notevoli interessi legati ai diamanti, all'uranio, all'oro. Tali interessi internazionali non raramente hanno spinto le etnie a combattersi e a distruggersi, dando luogo alle tragedie che abbiamo conosciuto.
Da ultimo, non soddisfatti di questa opera di esproprio di tale immenso territorio condotta nel corso di decenni, se non di secoli, abbiamo utilizzato anche lo strumento del Fondo monetario internazionale, che in cambio del proprio sostegno ha preteso i famosi «aggiustamenti», vale a dire la privatizzazione e la liberalizzazione di settori strategici (l'acqua, l'energia, il sistema finanziario e via dicendo). L'Africa, dunque, da una parte è stata spogliata delle sue risorse fondamentali, e dall'altra è stata sottoposta a tali imposizioni.
Ritengo sia difficile, indipendentemente dalla parte politica, contestare l'esistenza di tale stato di cose. È vero che tutto ciò è stato possibile grazie alla presenza in loco di alcuni collaborazionisti attivi: non vi è ombra di dubbio al riguardo, vi sono stati regimi corrotti, spesso militari, vi è stato chi ha lucrato, pur essendo africano, su tale situazione. D'altronde, si tratta di una storia antica: all'epoca della schiavitù, la partenza degli schiavi dalle coste africane era possibile grazie ai «re della costa». Vi sono sempre stati gli intermediari che hanno aiutato altri a costruire immense fortune su questo continente.
Si pone ora il problema di cosa occorra fare. Esso va affrontato partendo anche dalla considerazione svolta precedentemente dall'onorevole Maura Cossutta: vi è un'Africa che ha resistito. Non condivido l'idea per cui l'Africa viene rappresentata esclusivamente come un continente devastato economicamente, socialmente e politicamente. Al contrario, vi sono stati importanti momenti della resistenza africana: basti pensare alle lotte contro il colonialismo, durante le quali si formò una vera classe dirigente.
Bisognerebbe chiedersi - ma non è questa la sede - per quale motivo quella classe dirigente poi è stata sistematicamente distrutta dagli eventi, eventi molto spesso relativi alle vicende africane, ma anche eventi appartenenti alla dinamica che fu propria della guerra fredda, che contribuì alla distruzione di quella stessa classe dirigente e che fece sì che quell'immenso continente non avesse una vera classe dirigente all'altezza della situazione. Però, c'è una realtà, una società civile, una cultura di questo continente che resiste ed è un interlocutore prezioso per noi tutti, se vogliamo guardare all'Africa non soltanto come continente della disperazione - che è del tutto evidente - ma anche delle speranze per il futuro.
Vorrei richiamare due episodi avvenuti a Cancun, che sono sintomatici del modo
in cui si tardi a comprendere i nostri doveri e i nostri impegni verso questo continente. Ci sono stati due momenti importanti - di cui uno veramente importante, mentre l'altro è più un fatto di cronaca - che si sono verificati e che sono significativi, perché lasciano intendere qual sia la logica perversa, a mio parere, che continua a guidare noi - noi europei, in primo luogo - nei confronti degli interessi di questo continente.
Gli africani a Cancun hanno posto una questione su tutte, non perché si tratti della questione che risolve i problemi degli africani, ma come fatto simbolico, importantissimo per poter indicare una prospettiva, una strategia, soprattutto per poter esprimere una volontà politica: la questione del cotone. Sappiamo che in tutta l'Africa subsahariana - mi riferisco al Ciad, al Mali, al Burkina Faso - 13 milioni di contadini poveri vivono fondamentalmente del cotone: per questi paesi il cotone è la vita; essi non esisterebbero se non vi fosse questa risorsa, se non vi fosse questa attività. Hanno chiesto che cessasse l'opera di dumping, questo protezionismo, questo corporativismo da parte dei paesi del nord nei confronti di quella che è la materia essenziale per questa piccola porzione di Africa. Sappiamo che, se gli Stati Uniti, che rappresentano il primo problema, dovessero eliminare il loro sostegno e i loro sussidi, si avrebbe un incremento del prezzo del cotone tra il 30 e il 40 per cento a livello internazionale. Gli africani hanno detto: almeno sul cotone...
PRESIDENTE. Onorevole Crucianelli, le volevo solo ricordare che, per accordi intercorsi tra i gruppi, il tempo a sua disposizione sta per terminare.
FAMIANO CRUCIANELLI. Effettivamente l'ho presa molto alla lontana...
PRESIDENTE. Onorevole Crucianelli, io le consento di proseguire.
FAMIANO CRUCIANELLI. Sì, Presidente, ma sarò rapido perché poi anche il collega Fioroni credo debba intervenire.
PRESIDENTE. Non vorrei che l'onorevole Fioroni rimanesse male!
FAMIANO CRUCIANELLI. MI avvio rapidamente alla conclusione.
Di fronte a questa richiesta degli africani, vi è stato un «no» secco, ma non si è mai detto che in realtà a Cancun il primo atto di rottura che ha rappresentato il fallimento di quel vertice è stato proprio il fatto che gli africani hanno gridato a gran voce che la situazione era inaccettabile.
Il secondo fatto di cronaca drammatica - non dico chi ne è l'autore - si è verificato in una discussione molto qualificata, in cui un esponente, anch'esso molto qualificato, ha detto: peccato che questi farmaci salvavita li abbiamo concessi agli africani ad agosto e non abbiamo atteso invece Cancun (che ha avuto luogo a settembre). I farmaci salvavita - che sono quelli che dovrebbero risolvere la drammatica situazione della malaria, della tubercolosi, ma in primo luogo dell'AIDS - furono decisi a Doha nel 2001. Sono passati due anni prima che quegli impegni fossero onorati e questo, lo sappiamo, è avvenuto perché le multinazionali farmaceutiche e le altre grandi potenze finanziarie li hanno ostacolati. E noi abbiamo avuto l'impudenza di una personalità politica che, di fronte a questa situazione che doveva essere risolta due anni fa, ha detto che, forse, se aspettavamo altri due mesi, a Cancun si sarebbe avuto un argomento in più per piegare gli africani ai nostri voleri e ai nostri imperativi. Questa è la situazione!
Noi con queste mozioni avanziamo una serie di richieste che sono relative alla cooperazione, ma soprattutto al riconoscimento politico di questo continente, che si è dato una struttura politica (l'Unione africana), una struttura economica (il Nepad); ma la prima urgenza che abbiamo di fronte è assumere il continente come interlocutore politico ed economico, per poter poi rendere fruttuose, viabili ed utili tutte le iniziative che sono state citate, dalla cooperazione alla cancellazione del debito, fino al WTO che deve cambiare le
sue regole e le sue leggi per permettere a questo continente di avere una legittimità nella storia futura del nostro mondo.
Mi auguro che il Governo - e concludo - abbia la sensibilità, pur nella diversità delle posizioni, di raccogliere la volontà costruttiva delle nostre proposte. Mi auguro però - e mi rivolgo al Governo ed al suo rappresentante, onorevole Boniver - che ciò venga comunicato alla maggioranza del Parlamento, perché sarebbe veramente sgradevole trovarci di fronte all'ennesima situazione in cui il Governo dimostri sensibilità e interesse e la maggioranza consideri invece questi temi in modo del tutto marginale o quale terreno di polemica.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Naro, che illustrerà anche la mozione Michelini ed altri n. 1-00373, di cui è cofirmatario. Ne ha facoltà.
GIUSEPPE NARO. Signor Presidente, mi piace iniziare con un contributo speciale di Joseph Stiglitz, premio Nobel per l'economia nel 2001, pubblicato sul Rapporto 2003 sullo sviluppo umano del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo. Egli osserva che diversi studi econometrici recenti hanno cercato di mostrare una relazione sistematica tra globalizzazione e crescita e tra crescita e riduzione della povertà. Avere dimostrato però che la globalizzazione è utile tanto alla crescita che alla riduzione della povertà, non può certo contrastare la critica rivolta al modo in cui essa sia stata praticata, al fatto cioè che a beneficiarne siano stati più i ricchi che i poveri.
Intanto, al momento della ratifica degli accordi dell'Uruguay round, uno studio della Banca mondiale dimostrava come l'Africa subsahariana fosse la regione nelle peggiori condizioni, mentre gli studi econometrici sostenevano che l'Africa avesse sofferto per non avere sperimentato la globalizzazione. Forse sarebbe più corretto dire che l'Africa ha sofferto per il modo in cui la globalizzazione è stata gestita.
Dunque, globalizzazione sì, ma nel rispetto delle regole, che esistono e possono comunque essere migliorate nei round economici, solo che bisogna farle applicare come previsto.
Per quanto riguarda l'Africa, penso che non sia azzardata l'ipotesi che con la cessazione della guerra fredda le politiche di cooperazione e di sviluppo in quel continente abbiano finito con l'essere condizionate dall'interesse strategico delle due superpotenze nei suoi riguardi.
Si sa che il realizzarsi e lo svolgersi della cooperazione sono fenomeni complessi e richiedono tempi obbligati per lo studio, la progettazione e l'attuazione dei programmi; e quel che più conta è il fatto che la cooperazione implica la partecipazione attiva e collaborativa dei soggetti cui è destinata, come fa osservare la mozione della maggioranza quando afferma che la responsabilità primaria per il futuro dell'Africa è nelle mani dell'Africa stessa.
Solo poco più di un decennio dopo la caduta del muro di Berlino i tempi dell'avvio ad una politica di cooperazione in Africa cominciavano a mostrare una loro maturità. In quegli anni, infatti, si era affermata la sua grande capacità propositiva decisa a superare l'ineluttabilità di essere il ricettacolo di tutte le disgrazie del mondo. Una decisione suggellata in quel progetto avanzato dai Presidenti di Senegal, Sudafrica, Nigeria e Algeria al G8 di Genova, che è stato il primo atto significativo dell'attuale Governo in politica estera. Quel progetto, meglio conosciuto come Nepad, rappresenta una richiesta unitaria di collaborazione con i paesi dell'Occidente; e l'iniziativa ha cominciato a dare dei frutti.
Per quanto concerne la lotta alle malattie, a Genova è stata erogata immediatamente la somma di un miliardo e 300 milioni di dollari statunitensi, unitamente all'impegno di versarne altri 2 entro l'anno e di perseverare nella politica di sostegno fino a raggiungere la cifra di 7 miliardi, quantificata come necessaria dal segretario dell'ONU, Kofi Annan, seduto egli stesso al tavolo del G8.
Il Fondo mondiale per la lotta all'AIDS, riunito a Ginevra nel marzo del 2002, ha definito quel piano un grande progresso
nella strategia di contrasto del male, come ha dichiarato l'allora ministro francese alla sanità Kouchner. A questo punto, mi piace ricordare che l'unica nota positiva riscontrabile nel fallito recente vertice di Cancun è il fatto che il Sudafrica abbia ottenuto nei contatti preliminari parte di quel che serviva per la lotta all'AIDS.
Tuttavia, come ci hanno ricordato anche gli onorevoli Cossutta e Crucianelli, i dati relativi all'Africa sono allarmanti: 28 milioni di africani malati di AIDS su 40 milioni di malati nel mondo.
E gli effetti si riflettono negativamente anche sull'economia: la produttività subisce una riduzione del 50 per cento per 7 milioni di colpiti tra i contadini e 16 milioni destinati ad esserlo, nel 2020, nei paesi dell'Africa subsahariana. Il dato diventa ancora più allarmante se si pensa che il 70 per cento delle persone attive in Africa è occupato nel settore agricolo.
Non riporto le tante altre cifre terrificanti che si riferiscono a questo disgraziato continente. Per la sua emancipazione, basterebbe riscoprire il valore della sua cultura originaria che, in qualche zona non contaminata, ancora resisteva qualche anno fa; basterebbero le peculiarità dei suoi caratteri geofisici e climatici, la biodiversità di flora e fauna e la ricchezza del sottosuolo; basterebbero, soprattutto, il bisogno e la determinazione della sua gente ad emanciparsi da una secolare condizione di sudditanza e ad attingere traguardi di democrazia, giustizia, pace e benessere.
Esistono i fondamentali per fare in modo che questo processo parta. Infatti, com'è rilevato nella mozione della maggioranza, il Piano di Azione per l'Africa, deciso nel G8 di Genova ed approvato nel vertice di Kananaskis, è la risposta delle maggiori democrazie industrializzate per sostenere l'impegno dei leader africani finalizzato al consolidamento della democrazia e della sana gestione economica, alla promozione della pace, della sicurezza e dello sviluppo incentrato sulla popolazione, nella convinzione che la pace e la sicurezza sono le precondizioni necessarie per lo sviluppo.
A ciò si aggiungano le iniziative autoctone, tra le quali assume rilevanza la creazione dell'Unione africana (sul modello dell'Unione europea), fondata a Durban nel luglio del 2002. I suoi obiettivi basilari sono la democratizzazione di tutti i paesi del continente, la pacificazione dei conflitti che colpiscono quasi la metà delle nazioni africane, la guerra alla corruzione, la lotta alle malattie e quant'altro. Per raggiungere tali obiettivi è stato persino contemplato di intervenire militarmente! L'Unione dispone di una Banca centrale (con l'ambizione di emettere, in un futuro per ora lontano, una moneta comune), di una Corte africana di giustizia, di un Parlamento panafricano (per il momento, soltanto con funzioni consultive) e di una Commissione, simile a quella europea, che dovrebbe dirigere l'Unione.
La strada è dunque tracciata. E solo noi europei - che lo stiamo vivendo sulla nostra pelle - possiamo sapere quanto sia arduo il cammino dell'integrazione, il raggiungimento di un mercato comune, il passaggio da una comunità economica ad un'unità politica, la sola che possa dare radicale soluzione a tutti i problemi che, oggi, affliggono l'Africa!
Sotto la Presidenza italiana, l'Unione europea ha stanziato un fondo di 250 milioni di euro, denominato Peace facility, per il finanziamento delle operazioni di pace condotte dall'Unione africana. In ottemperanza al Piano di Azione del G8, l'Italia si è impegnata nella formazione di 70 ufficiali africani all'anno, per tre anni, nello staff college dell'ONU di Torino. Con il più volte citato Piano di Azione, allo scopo di migliorare le capacità di sostegno alla pace, il G8 si è impegnato a costituire, entro il 2008, una brigata africana, come stand by force per operazioni di peace keeping.
Queste scelte politiche - dell'Unione europea, dell'Italia e della comunità internazionale - sono alcune delle determinazioni assunte che vanno verso il sostegno degli obiettivi che l'Unione africana si prefigge. Certamente, la situazione africana è esplosiva ed i suoi effetti negativi potrebbero essere deflagranti per la comunità
internazionale, particolarmente per l'Italia, essendo quest'ultima ubicata a limitata distanza dalle coste africane settentrionali.
Per tutto ciò, ognuno di noi dovrebbe maturare e consolidare la consapevolezza che le risorse date all'Africa sono spese produttive, in quanto connesse alla crescita, allo sviluppo ed alla sicurezza, per cui eventuali sacrifici dovuti alla donazione dovrebbero essere responsabilmente accettati.
Riconosciamo che, per quanto riguarda la politica di aiuto ai paesi poveri ed a quelli in via di sviluppo, il nostro Governo ha sempre operato con puntualità, tempestività e coerenza. Ma questo non basta. Rifacendomi alle considerazioni già espresse, secondo le quali il male non sta nella globalizzazione quanto, invece, nella maniera con cui viene realizzata, con gli impegni in essa contenuti, la nostra mozione ha la duplice funzione di sollecitare affinché sia fatto di più ed affinché, nelle sedi e secondo i tempi opportuni, si solleciti a fare di più.
Intanto, l'Unione europea non può più permettere che, in tema di aiuti, si registrino venticinque differenti posizioni. Dovrebbe invece pensare ad una figura unica che si interessi esclusivamente del problema con funzioni di coordinamento, perché non si disperdano gli sforzi tra gli Stati membri e tra i cittadini e le istituzioni, perché si privilegino i tentativi delle ONG e dei volontari al fine di elaborare un programma organico che preveda grandi progetti per grandi aree di sviluppo che possano attrarre quegli investimenti stranieri di cui l'Africa ha urgente bisogno e soprattutto perché si realizzino le infrastrutture di base che possano guarire le piaghe che affliggono le popolazioni, accrescere la capacità produttiva e, finalmente, emancipare la gente e le istituzioni per quanto attiene ai diritti umani e civili e agli standard di democrazia. Si tratta comunque di progetti tutti finalizzati alla realizzazione dei programmi compatibili con le otto priorità del piano di azione del G8. Gli obiettivi sono i seguenti: promuovere la pace e la sicurezza; rafforzare le istituzioni e la e-governance; promuovere il commercio, gli investimenti, la crescita economica e lo sviluppo sostenibile; attuare l'alleggerimento del debito; allargare la conoscenza, migliorare e promuovere l'istruzione ed ampliare le opportunità digitali; migliorare la salute e combattere l'AIDS; aumentare la produttività agricola; migliorare la gestione delle risorse idriche.
Mi permetto di fare due osservazioni. Si insiste perché gli Stati si impegnino responsabilmente e perché gli impegni assunti vengano mantenuti in modo che lo 0,7 per cento del PIL, auspicato dal Governo italiano al G8 di Genova e ripreso dall'Europa a Monterrey, venga effettivamente erogato secondo tempi e modi convenuti.
Si ricorda che l'Italia a Barcellona, in sede di accordo europeo, aveva deciso di portare l'attuale quota dallo 0,19 allo 0,33 per cento. Dunque, impegniamo il Governo a farlo tempestivamente. Certamente, per gli obblighi assunti e non rispettati dagli Stati contributori servirebbe un sistema sanzionatorio e a tal fine sarebbe a mio avviso opportuno avviare la riforma delle agenzie internazionali, che attualmente non dispongono di potere coercitivo per garantire esecutività ai propri progetti.
Alla logica di sostegno alle otto priorità del piano rispondono dunque gli impegni che la mozione chiede al Governo di sottoscrivere. Questo è indice dell'interesse a che il piano di azione per l'Africa venga scrupolosamente e responsabilmente preso in considerazione dal Governo per quanto è nelle sue reali possibilità operative. Questa volta è fissata una prova ed una data per la verifica. Infatti, i grandi della terra al G8 britannico del 2005 dovranno presentare un rapporto sull'attuazione. Ma mi auguro che l'appuntamento non sia il deterrente per il bene operare, quanto invece il banco di prova che i governanti più potenti della terra hanno finalmente trovato la saggezza e l'intelligenza di indicare un percorso armonico di sviluppo da tanto tempo atteso.
Sarebbe veramente bello un mondo senza le conflittualità esasperatamente accentuate del tempo presente.
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Pisa. Ne ha facoltà.
SILVANA PISA. Signor Presidente, la nostra mozione raccoglie l'appello fatto da diverse associazioni al Governo, ai cittadini e ai partiti per promuovere per l'Africa che sta cambiando una politica che sia in grado di eliminare gli ostacoli estranei al continente che rallentano ed impediscono i processi di emancipazione politica ed economica.
A ciò che hanno dichiarato i colleghi, vorrei aggiungere che l'Africa è un continente di paradossi e di squilibri. È un paese che, in alcune regioni, è ricchissimo di materie prime, ma poverissimo per i più. Risorse minerali pregiate e prodotti petroliferi, invece di produrre una ricchezza generalizzata per gli abitanti, sono tuttora un campo di battaglia della concorrenza commerciale tra potenze occidentali e multinazionali, che armano eserciti locali o milizie private a difesa dei propri interessi.
I dati sulla povertà sono inquietanti (li hanno ricordati i colleghi); ne vorrei citare alcuni. Su una popolazione che, nel 2001, era di 796 milioni di abitanti (il 12, 5 per cento della popolazione mondiale), più dei due terzi vive in condizioni intollerabili: denutrita, malnutrita, alti indici di mortalità infantile, rischi di epidemia, gravi malattie, nessuna scolarizzazione.
Durante la recente conferenza ONU sul razzismo, che si è tenuta a Durban nel settembre 2001, i rappresentanti dei paesi africani hanno riproposto il tema dei 500 anni di razzie e di schiavismo ed hanno posto il problema dell'ammissione da parte dell'Occidente delle responsabilità e del riconoscimento di un risarcimento per le rapine non solo coloniali. Questo rappresenta una presa di coscienza che non esime gli africani dal fare la propria parte per produrre i necessari mutamenti, a partire da una ridefinizione delle strategie per riappropriarsi in modo credibile dei propri mezzi, perché 52 paesi del continente, con tutte le loro risorse, rappresentano solo il 2 per cento degli scambi mondiali, mentre è importante trasformare i prodotti sul posto, produrre africano e consumare principalmente prodotti africani.
La Costituzione dell'Unione africana rappresenta un primo passo in questo senso. Da questo organismo è scaturita la proposta di costruire un network, un programma di sviluppo in grado di concentrare e coordinare le politiche economiche dei paesi africani, gestito dai paesi dell'Unione africana, che così potrà confrontarsi con il resto del mondo in modo paritario. È un processo ancora agli inizi, su cui l'Italia e l'Europa possono incidere positivamente. Possiamo fare molto nei confronti dei grandi problemi della povertà e dell'ingiustizia, non solo per le nostre responsabilità e per il risarcimento richiesto e dovuto ai paesi africani, ma anche per contenere a livelli di vita dignitosa il fenomeno dell'immigrazione, che - non c'è legge che tenga quando si muore di fame - può rischiare di esplodere in modo massiccio.
Nel dispositivo della mozione si chiedono al Governo italiano alcune prese di posizione e interventi tutti possibili, che vanno nel senso di rimuovere l'incidenza negativa sull'Africa prodotta da scelte occidentali dannose. Il primo punto è la questione del debito, già ricordata da altri colleghi. A tale riguardo, c'era una buona legge, ma la finanziaria dello scorso anno ne ha cancellato una grande parte (resta valida la cancellazione di 1700 milioni del debito); alla chiusura del programma, saremo quindi molto lontani dall'obiettivo previsto. Questa era una buona legge, che chiedeva al Governo di provocare una rottura, una controtendenza, inserita in un contesto economico internazionale e che presentava altre questioni, come quella del debito illecito e dell'arbitrato. C'era anche una richiesta al Governo italiano di farsi promotore di una formale richiesta di pronunciamento alla CIG, la Corte internazionale di giustizia, da parte dell'Assemblea generale dell'ONU sulla questione del
debito; ciò non sarebbe costato nulla e non avrebbe certo turbato i sonni del ministro Tremonti. Tuttavia, questo non si è fatto, si è svalutata e ridotto al minimo questa legge, che aveva posto l'Italia all'avanguardia, per non provocare la radicale inversione di rotta che era invece necessaria.
Un altro punto della nostra mozione è riassunto dal paradosso della famosa mucca europea. Ogni mucca europea riceve più di 2 dollari al giorno di sussidi e 2 dollari è il reddito con cui sopravvive più di metà della popolazione mondiale. Non voglio farla tanto lunga su questo punto, perché ne ha parlato recentemente il collega Crucianelli a proposito della mozione su Cancun, e ne hanno parlato anche oggi i colleghi. Si tratta del tema delle sovvenzioni governative dei ricchi paesi occidentali ai propri prodotti, che così impediscono l'accesso al mercato dei prodotti dei paesi più poveri. Questo riguarda il cotone, ma anche il caffè e il cacao. Sul cotone, durante il vertice di Cancun, il Burkina Faso, il Mali e il Ciad hanno chiesto che fosse definito un meccanismo per ridurre i sussidi ai produttori occidentali di cotone, con l'obiettivo di arrivare nel tempo ad una loro totale eliminazione, approvando, nel frattempo, misure transitorie nei confronti dei paesi meno sviluppati fino alla totale estensione dei sussidi (una regola di pari opportunità, diremmo); aiuti concreti a favore dei produttori di cotone dei paesi africani per compensare le perdite dovute alla politica occidentale dei sussidi. Una norma riparatrice per permettere un'effettiva libera concorrenza secondo i dettami del liberismo, come dice la parola stessa. Liberismo peraltro santificato fino a quando non entra in rotta di collisione con gli interessi delle corporation americane. Purtroppo, l'egoista sordità dell'occidente ha prevalso a Cancun e, anche se in febbraio l'Unione europea ha presentato una iniziativa di partnership con l'Africa proprio su questo tema, l'Italia si deve impegnare a promuovere una posizione dell'Unione europea di maggiore apertura sull'accesso al mercato dei prodotti africani, impegnandosi a porre regole più giuste e trasparenti e per l'abolizione dei sussidi all'esportazione dei paesi occidentali per tutti i prodotti agricoli entro una data precisa, come richiesto dalla dichiarazione di Doha. Ho letto un'agenzia questa mattina, secondo la quale l'Unione europea si è dichiarata disponibile a rinunciare ai sussidi - una bella novità - alle esportazioni agricole, proprio al fine di rilanciare gli accordi di Doha e nei prossimi giorni una lettera in tal senso verrà inviata ai ministri competenti dei 148 membri dell'Organizzazione mondiale per il commercio. Ripeto: si tratta di un buon segnale.
Un altro punto della nostra mozione riguarda l'ennesimo paradosso - il più tragico, considerate le conseguenze - , il quale dimostra come ricchezze naturali (quali diamanti, legname, coltan, petrolio e gas naturale), anziché costituire un'occasione di sviluppo ed un fattore di benessere generalizzato per gli africani, siano invece causa di instabilità, violenza e guerre; purtroppo, anche in questo caso, con pesanti responsabilità dell'Occidente e, nella fattispecie, delle multinazionali.
Tipico è il caso dei diamanti, venduti in cambio di armi per finanziare regimi dispotici e bande ribelli, oppure gruppi paramilitari che tutelano interessi privati. Si tratta di un circolo vizioso insanguinato che va spezzato. Infatti, Angola, Sierra Leone, Liberia e Congo hanno vissuto lunghi conflitti civili, nei quali il commercio di diamanti è stato usato, da diverse fazioni, come strumento di finanziamento per acquistare armi e assoldare truppe mercenarie.
Diverse risoluzioni dell'ONU si sono occupate del nesso tra lo sfruttamento selvaggio delle risorse naturali, il commercio illegale di armi e l'insorgenza di conflitti, ed il Consiglio di sicurezza è giunto, nel caso della Liberia, anche a sottoporre tale paese all'embargo di legname. Occorre, dunque, che anche l'Italia e l'Unione europea mettano in campo strumenti per interrompere, o almeno controllare strettamente, tali commerci, impegnando le multinazionali coinvolte che hanno sede in Europa al rispetto dei diritti umani e
dell'ambiente e a sottoporre le loro transazioni a strumenti di certificazione trasparenti e certi.
L'altro punto previsto dal dispositivo della nostra mozione è legato al precedente, e riguarda la vendita, il contrabbando e l'uso illegale delle armi. Si tratta, infatti, di una realtà che ha contribuito al propagarsi dei conflitti, delle stragi e delle sopraffazioni etniche. In Africa, infatti, oggi circolano 30 milioni di armi leggere e di piccolo calibro. Secondo l'ONU, nell'ultimo decennio l'uso di armi leggere ha provocato 20 milioni di morti, di cui l'80 per cento donne e bambini: sappiamo già che le vittime dei conflitti sono per l'85 per cento civili e spesso sono proprio donne e bambini.
Tale circolazione incontrollata di armi, assieme alla costituzione di milizie private, sta alla base anche del fenomeno dei cosiddetti bambini-soldato, di cui ci siamo già occupati, in questa Assemblea, nel giugno 2003, a proposito di una risoluzione presentata dalla Commissione parlamentare per l'infanzia per far applicare la Convenzione dei diritti del fanciullo di New York. Non intendo parlarne adesso, perché ne abbiamo già discusso abbastanza, ma ci sarebbe ancora molto da dire al riguardo.
Il controllo sul commercio delle armi costituisce uno dei punti chiave per interrompere la spirale della violenza in Africa. L'Italia, uno dei maggiori produttori ed esportatori di armi del mondo, può giocare un ruolo di primo piano riducendone l'afflusso, anche se, dalla relazione del 2003 dell'ufficio del consigliere militare della Presidenza del Consiglio sull'import-export in materia di armamento, risulta che l'Africa è interessata solo marginalmente dall'export italiano. Tra i pochi Stati africani legati al nostro paese vi è la Nigeria, con una commessa nell'anno scorso di 11 milioni di euro, pari all'1 per cento del totale delle nostre esportazioni. L'esperienza, tuttavia, insegna - vorrei ricordare, al riguardo, la famosa connection BNL di Atlanta-Stati Uniti-Iraq - che sono non tanto le esportazioni legali, quanto le possibili triangolazioni a condizionare il contesto, e ritengo grave che il Parlamento abbia modificato legge n. 185 del 1990, la quale consentiva una maggiore trasparenza in tale materia. Per questo motivo, è importante impedire la vendita di armi ai paesi instabili o a rischio, rafforzando in ogni caso il controllo sull'export e sulle attività dei produttori, degli intermediari e delle banche.
L'ultimo punto della mozione Maura Cossutta ed altri n. 1-00351 che intendo rapidamente sottolineare riguarda la cooperazione. Infatti, chiediamo all'Italia il rilancio dell'impegno nel campo considerato, prevedendo la destinazione di risorse finanziarie adeguate alle quote di aiuto per l'Africa sulla base di quanto stabilito, come hanno già ricordato gli altri colleghi precedentemente intervenuti, in sede di Millenium round.
La legge sulla cooperazione internazionale, inoltre, non viene attuata per quanto riguarda lo stanziamento dello 0,7 per cento del PIL, che invece occorre ribadire con forza. È altresì necessario «slegare» l'aiuto concesso: oggi i paesi donatori, infatti, legano una parte dell'aiuto pubblico all'acquisto di beni e di servizi di loro produzione; in altri termini, l'Italia dà, ad esempio, 100 miliardi di euro in aiuti bilaterali al Mozambico, ma contemporaneamente fa sottoscrivere un accordo con cui vincola il Governo del Mozambico a spenderne 40 in beni e servizi italiani. Per raggiungere i loro obiettivi di sviluppo, tuttavia, i paesi africani non hanno bisogno di beni o di servizi italiani, bensì di poter disporre di risorse utili per pagare gli stipendi degli insegnanti elementari, costruire scuole ed ospedali ed effettuare i necessari interventi locali, pagando imprese e personale locale.
Il tema della cooperazione internazionale, tuttavia, si pone alla nostra attenzione anche a causa degli sprechi, degli scandali e delle irregolarità che si sono verificati in tale ambito, perché esistono forti interessi economici che condizionano i percorsi, i destinatari ed i contenuti stessi della cooperazione. Forse i condizionamenti sarebbero minori se la cooperazione internazionale fosse gestita al di
fuori dei canali ministeriali, creando un'apposita authority; sarebbe opportuno, in ogni caso, ricorrere a realtà come la cooperazione decentrata ed il microcredito (che nel sud-est asiatico funziona benissimo), i quali costituiscono strumenti che consentono alle organizzazioni non governative italiane un'azione maggiormente incisiva e trasparente.
Tutti questi impegni vanno nel senso di una svolta morale e politica nei rapporti tra nord e sud del mondo, che consenta all'Africa di cessare di essere il paradigma delle diseguaglianze del mondo, per far emergere, invece - e sfruttare a proprio vantaggio - le sue tante potenzialità (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-L'Ulivo e della Margherita, DL-L'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Fioroni. Ne ha facoltà.
GIUSEPPE FIORONI. Signor Presidente, in questi giorni ci siamo chiesti se presentare una mozione sull'Africa avesse o no un significato concreto. Ci siamo anche interrogati su ciò, quando, in molti di quest'Aula, abbiamo partecipato alla manifestazione sull'Africa, organizzata a Roma. La risposta che mi sono dato è: sì, è importante. È importante per acquisire una dimensione dell'Africa come responsabilità comune. Non uso un termine superato, ma credo che ciò - oltre a valere per il Governo e per il Parlamento - valga per ciascuno di noi, come cittadini, per sentire una responsabilità comune nei riguardi di un continente e di una popolazione che interpellano direttamente la nostra coscienza.
Il mio avvicinamento ai problemi dell'Africa è nato sulla scorta di due episodi che, credo possano interessare - come me - molti altri colleghi e cittadini. Quando si discusse, in quest'Aula, dei problemi dell'immigrazione e dei «viaggi della speranza», mi chiedevo quale ne potessero essere le cause. Se ciascuno di noi si concede un momento di riflessione e pensa che i nostri figli, solo per il fatto di essere nati in questo continente, hanno l'opportunità di superare largamente i 70 anni di vita, quando, nella parte centrale del continente africano la possibilità di vita media non supera i 27 anni, credo che - a parti diverse - ciascuno di noi avvertirebbe la necessità di dire: «se riesco a portare i miei figli dall'altra parte del mondo, consegno loro una possibilità di crescita e, soprattutto, una possibilità di vita doppia o tripla rispetto a quella che avrebbero vivendo da questa parte».
Un altro episodio mi ha colpito, qualche anno fa, quando ho visto, nel reparto di oncologia del Policlinico Gemelli in cui lavoravo al tempo, due bambini nigeriani ricoverati per un intervento di neoplasia cerebrale, mentre giocavano con gli altri ragazzi, usando un quaderno e alcune matite. Vi era un fatto che mi colpiva sempre: l'abitudine a temperare sempre le stesse matite e, contemporaneamente, a cancellare sempre la stessa pagina di quaderno. Cercavo di capire cosa significasse ciò. Ho ricevuto una risposta che mi è rimasta impressa: era una loro abitudine. Purtroppo, nella scuola che erano soliti frequentare, avevano un solo foglio di carta ed una sola matita per tutto l'anno scolastico.
Non voglio, con ciò, fare un facile richiamo ai sentimenti, ma far capire cosa significhi il concetto di responsabilità comune. D'altra parte, ogni cittadino (e, in modo particolare, chi siede sui banchi del Governo e chi, come noi, svolge una funzione parlamentare e di responsabilità pubblica all'interno del nostro paese) deve avere chiaro che la responsabilità comune verso l'Africa ha una contropartita. La mancata azione o l'omissione, per chi è impegnato in politica, e per chi ha la responsabilità di Governo, è colpevole, grave, molto grave. Per chi è credente, è anche una delle forme di peccato peggiori. Non c'è, forse, peggior peccato che omettere ciò che si può e si deve fare nell'esercizio delle proprie funzioni.
Spesso, parlando di Africa, noi usiamo il termine «paesi poveri». Credo che in tutto l'Occidente, non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa, si dovrebbe capire che il termine «povero» è inappropriato.
Nel parlare di moltissimi paesi africani, dovremmo utilizzare un altro termine: «paesi impoveriti». Infatti, nessuno di tali paesi è nato povero. Se lo è diventato, è perché vi è una parte del mondo che ha ritenuto più semplice e più facile approvvigionarsi di materie prime o di ricchezze naturali, dimenticando che tale approvvigionamento aveva un controvalore e vi era un dovere (etico, prima ancora che politico) di aiutare la crescita e lo sviluppo di quei paesi.
Analoga riflessione può farsi quando ci si riferisce al fatto che dobbiamo riservare una quota delle nostre risorse allo sviluppo dei paesi poveri. Al riguardo, ritengo che, qualche volta, dovremmo usare il termine «ritornare», anziché «dare», perché spesso anche il nostro paese ha ricevuto, senza mai porsi il problema di come e perché riceveva.
Ciò vale - per alcune espressioni usate dai colleghi intervenuti in precedenza - anche nel campo della cooperazione internazionale.
Credo che, se non vogliamo adottare questo atteggiamento nei riguardi dell'Africa per un impegno a tutela della dignità della persona umana, dobbiamo comunque cominciare ad affrontare questo tema anche per ragioni inerenti la nostra sicurezza e la possibilità di mantenere gli standard di sviluppo e di qualità della vita oggi esistenti nel nostro paese e nel nostro continente.
Abbiamo toccato con mano - e ne abbiamo dibattuto qualche volta in quest'aula - l'esperienza della SARS. Ebbene, la SARS è stata la peste di qualche secolo fa. Allora, perché una malattia si trasformasse in una pandemia mondiale, forse era necessario qualche secolo. La SARS, invece, si è diffusa in tutto il mondo in pochi giorni, configurandosi come una vera e propria pandemia.
Credo che ciò ci debba far riflettere: se vogliamo mantenere rapporti commerciali (questo è ciò che sembra interessarci di più!) con il sud del mondo, e con l'Africa in modo particolare, occorre tenere presente che non possiamo pensare di commerciare con paesi rimasti all'età della pietra.
Come ricordava prima il collega Naro, non possiamo pensare ad una globalizzazione riguardante solo le merci, i mercati, il business ed il profitto, ma dobbiamo pensare anche ad una globalizzazione dei diritti, che investa direttamente sulla capacità di produrre sviluppo e crescita. Non possiamo pensare che temi come la salute, l'acqua, la casa, la scuola, la formazione non appartengano anche a coloro con cui quotidianamente commerciamo, non ponendoci per nulla il problema di quali siano le situazioni di partenza in cui essi si trovano, salvo poi doverci preoccupare per eventi come la SARS.
Mi domando: se il virus della SARS, anziché svilupparsi in quei paesi, si fosse diffuso nel nostro, avremmo avuto la capacità di eliminarlo in un brevissimo lasso di tempo, come è accaduto? Credo che nessuno di noi si sia chiesto il motivo per cui la SARS è stata debellata: ciò è accaduto perché abbiamo rinchiuso i malati che si trovavano nelle strutture di quei paesi in cui i concetti di democrazia e di libertà sono un po' diversi dai nostri.
Allora, credo che, molto probabilmente, vi sia la necessità di affrontare i rapporti con l'Africa e con i paesi del sud del mondo tenendo presente che, ormai, per noi si tratta anche di un problema di sicurezza e di mantenimento degli standard di qualità della vita. Occorre cercare di realizzare una globalizzazione che investa anche i diritti e che concorra direttamente a costruire quei diritti.
Spesso, parlando di Africa - lo ricordava prima l'onorevole Crucianelli - pensiamo ad un continente che, tutto sommato, incide per una percentuale molto inferiore al 2 per cento del PIL mondiale. Stando alle nostre statistiche, dovremmo pensare che quel continente non esiste. Eppure, credo che ciascuno di noi, per l'esperienza che ha maturato, sappia benissimo che quel continente non solo è ricco di storia, di tradizioni, di ricchezze naturali e ambientali, ma è anche ricco di una creatività e di una forza di espressione
che hanno un valore che va al di là della percentuale dell'1,5 del PIL mondiale che rappresenta. Esso si rivolge direttamente alla nostra capacità di azione ed alla nostra coscienza per ottenere un'espressività superiore a quella che gli è attribuita dal punto di vista economico.
Allora, credo che, forse, dovremmo svolgere anche un'azione (che ricordiamo nella nostra mozione) di formazione e di informazione che riguarda i nostri giovani. A volte ho riflettuto: se noi ed i nostri ragazzi, anziché aver studiato sulla carta geografica di Mercatore, lo avessimo fatto su quella di Stanley Paulson, forse ci saremmo resi conto di come quel continente abbia una vastità immensa, dal punto di vista geomorfologico, rispetto alle dimensioni con cui siamo abituati a vederlo sulle cartine geografiche. Forse, avremmo cominciato ad apprendere come quel continente abbia un'importanza nello scenario mondiale che va molto al di là della stessa rilevazione economica cui l'ha ridotta la cartina di Mercatore.
Credo anche che ciò ci aiuterebbe a capire un'altra cosa. Mi riferisco sempre ad un concetto che attiene all'informazione e che è stato ricordato anche dagli onorevoli Pisa e Crucianelli. In quest'aula abbiamo occupato il tempo parlando di diversi aspetti e di tanti temi: oggi è sotto gli occhi di tutti la tragica vicenda irachena. Tuttavia, ci dobbiamo anche ricordare di quei 100 conflitti che hanno insanguinato l'Africa e che hanno prodotto milioni di morti nella censura totale dei nostri mezzi di comunicazione radiotelevisivi, sia pubblici sia privati, e dei giornali.
Credo che per quelle realtà l'omissione sia ancora più grave: se pensiamo ai cento conflitti che sono stati dimenticati, dal Ruanda, al Sudan e all'Uganda, conflitti che sono ancora in pieno svolgimento in Africa e che abbiamo definito conflitti etnici, vediamo che dietro questi, se li esaminiamo attentamente, è realmente presente un circolo vizioso, per la presenza di interessi in campo che non riguardano direttamente gli africani, ma che concernono paesi occidentali che hanno la necessità di approvvigionarsi di materie prime.
Per tale ragione, questi sono scontri di natura macroeconomica, che non riguardano certo quelle popolazioni, le quali sono invece strumento di una resa dei conti di interessi che vanno al di là di quel continente, di quei paesi e di quei popoli. Credo che questo sia parte di quelle colpevoli omissioni alle quali facevo prima riferimento.
I colleghi hanno prima parlato dell'AIDS: credo che tutti noi abbiamo ben chiaro che è stata scatenata una guerra in Iraq per cercare le armi di distruzione di massa; in Africa non c'è la necessità di cercare quale sia il più pericoloso virus, la vera arma di distruzione di massa, che non riguarda l'Africa, ma l'intero mondo: vi è l'AIDS.
Per quanto riguarda il problema della distribuzione dei farmaci, non è possibile chiedere, come veniva chiesto al Sudafrica, di impegnare una cifra che equivaleva a 700 volte il prodotto interno lordo di quel paese per avere una quantità di farmaci appena in grado di curare i pazienti malati di AIDS.
Non possiamo tuttavia pensare di avere la coscienza a posto affermando che forse oggi siamo in grado di fornire quei farmaci a costi compatibili con l'economia di quei paesi: perché non ci poniamo, invece, il problema di quale debba essere la struttura sanitaria che dovrebbe distribuire quei farmaci? Perché non ci poniamo il problema di stabilire un efficiente meccanismo di rilevamento dell'infezione di HIV in Africa, dove un medico fa riferimento a qualche centinaia di migliaia, non di persone, ma di chilometri quadrati?
Credo che questo rappresenti uno degli aspetti dei quali si deve parlare: se non ne vogliamo parlare nell'interesse degli africani, facciamolo almeno pensando che si tratta di una vera e propria arma di distruzione di massa che ci riguarda direttamente.
Dobbiamo allora fare uno sforzo per evitare di avere un atteggiamento nei confronti
dell'Africa che guarda soltanto all'economia e che monetizza tutto; dovremmo cominciare a farlo per quanto riguarda gli organismi internazionali.
Credo che tutti siamo preoccupati dal fatto che, all'interno dell'Organizzazione mondiale del commercio, continuiamo ad avere un dato peso in base a ciò che produciamo o possediamo e non in base a quello che siamo. L'Africa, in quella organizzazione, è presente con meno del 2 per cento del PIL, anche se, come vastità ed entità di popolazione, rappresenta molto di più.
Credo che questo dovrebbe aiutarci - lo ricordava prima il collega Crucianelli, sollevando il problema del cotone - a comprendere la strana valenza di questa sorta di Giano bifronte che abbiamo dinanzi: da una parte, pensiamo al libero mercato e all'abbattimento delle barriere; dall'altra, ci preoccupiamo di difendere e tutelare le nostre produzioni. Questo è un modo diretto per danneggiare l'Africa!
Pensiamo poi ad un altro aspetto che personalmente mi preoccupa ogni giorno di più in questi mesi e che, all'interno degli organismi internazionali, definirei un atteggiamento di propensione al modello della Cina. Quando parliamo di Africa, stiamo attenti a parlare della corruzione e di regimi totalitari o antidemocratici o illiberali: tuttavia, non vorrei che il modello che si propone per aiutare il continente africano fosse in qualche modo assimilabile a quello cinese nel quale, quando si abbattono le barriere e si diventa funzionali al sistema dei mercati, si dimentica il problema del rispetto dei diritti umani, nonché quelli della crescita e dello sviluppo di quelle popolazioni. Dopo la Cina, probabilmente seguirà l'Iran: credo che ciò rappresenti un problema che, con interlocutori diversi e diverse situazioni, potrebbe a breve riguardare anche l'Africa.
Dal punto di vista culturale, non potendo essere tutto monetizzato, vi è la necessità di rivedere la funzionalità degli organismi internazionali e la partecipazione ad essi, interrogandoci su quale sia il modello, non riducibile esclusivamente agli aiuti, che ci metterebbe in condizione di interloquire con il continente africano, nonché quale sia il modello di democrazia e l'ideale di libertà che vogliamo in qualche modo proporre per l'Africa.
Mentre parliamo, in questi giorni, abbiamo di fronte uno scenario che non voglio introdurre, in quanto argomento, se non estraneo, quantomeno indiretto rispetto al tema oggetto della discussione odierna, che è quello delle torture in Iraq.
Eravamo andati in quel paese per portare democrazia e libertà e ci accorgiamo che democrazia e libertà non vi sono. Dunque, anche quest'ultima foglia di fico è venuta meno rispetto ad una guerra già di per sé indegna ed illegale. Pensiamo alla nostra ambizione di essere, a tutti i costi, esportatori di un modello di occidentalizzazione forzata in un continente che ha propri parametri di crescita e di sviluppo. Credo che anche quanto successo in Iraq ci dovrebbe far capire che non siamo in condizione di esportare a tutti i costi un determinato modello. Dovremmo semplicemente aiutare quelle società a svilupparsi con un progetto di crescita compatibile con la tutela dei diritti: mi riferisco, in particolare, ai diritti alla salute, alla scuola, alla casa, alla formazione, all'acqua.
Per tali motivi, nella nostra mozione chiediamo al Governo una serie di impegni. Innanzitutto, abbiamo ricordato gli impegni del 2015, per raggiungere i quali bisogna trovare le risorse. Pensiamo a quanto sono costate le truppe occupanti ai paesi occidentali: con le stesse risorse, sicuramente, si sarebbero potuti rispettare gli impegni nel campo dell'istruzione e della formazione dei ragazzi africani.
Nella mozione chiediamo al Governo l'azzeramento del debito dei paesi poveri; aiuti atti a raggiungere almeno lo 0,33 per cento del PIL entro il 2006 e lo 0,7 per cento per gli anni successivi (si tratta di impegni assunti nell'ambito del programma Millenium round); l'interruzione del traffico di armi; maggiori risorse per la lotta all'AIDS non solo nel campo dei farmaci ma anche in quello del personale sanitario; la revisione dei progetti del
Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale. Credo che ciò sia ancora più necessario per evitare che dietro l'impegno di cooperazione vi sia una quota sempre crescente di interessi nazionali da difendere, anziché di aiuti alle società che vogliono crescere e svilupparsi tutelando le proprie identità. Bisogna pensare ai loro bisogni e non a quelli che, in modo surrettizio, i nostri progetti di cooperazione potrebbero indurre.
Spero che vi sia la sensibilità del Governo di accettare i nostri impegni e quella della maggioranza di votarli. Soprattutto, mi auguro vi sia una volontà concreta ed operativa di rispettarli. Se dovessimo approvare le mozioni in esame ed a ciò non facesse seguito, come più volte è accaduto, un impegno concreto, le bugie di questo Governo sarebbero doppiamente dolose e colpevoli.
PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali delle mozioni.
Prendo atto che il rappresentante del Governo si riserva di intervenire nel prosieguo del dibattito, che rinvio ad altra seduta.
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