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PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito della discussione del disegno di legge, già approvato dal Senato: Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 20 gennaio 2004, n. 9, recante proroga della partecipazione italiana a operazioni internazionali. Disposizioni in favore delle vittime militari e civili di attentati terroristici all'estero.
Ricordo che nella seduta dell'8 marzo si è conclusa la discussione sulle linee generali.
PRESIDENTE. Passiamo all'esame dell'articolo 1 del disegno di legge di conversione (vedi l'allegato A - A.C. 4725 sezione 4), nel testo della Commissione identico a quello recante le modificazioni apportate dal Senato (vedi l'allegato A - A.C. 4725 sezione 5).
Avverto che le proposte emendative presentate sono riferite agli articoli del decreto-legge, nel testo della Commissione identico a quello recante le modificazioni apportate dal Senato (vedi l'allegato A - A.C. 4725 sezione 6).
Avverto che non sono state presentate proposte emendative riferite all'articolo 1 del disegno di legge di conversione.
Quanto alle valutazioni concernenti l'ammissibilità degli emendamenti presentati, la Presidenza si è attenuta come di consueto agli orientamenti adottati dalle presidenze di Commissione, nonostante alcuni di tali emendamenti presentino profili di oggettiva problematicità.
In seguito alla loro riformulazione la Presidenza ha, peraltro, ammesso gli emendamenti: Deiana 3.02; Pinotti 3.050; Cima 13-ter.50.
Avverto che la Presidenza non ritiene ammissibili (vedi l'allegato A - A.C. 4725 sezione 1), ai sensi dell'articolo 96-bis, comma 7, e 86, comma 1, del regolamento, i seguenti emendamenti: Ruzzante 1.052, che modifica l'articolo 1 della legge n. 308 del 1981, che definisce l'ambito dei soggetti cui si applica la disciplina dettata dalla predetta legge in materia di provvidenze per gli infortunati o caduti in servizio; Molinari 13-ter.1 e 13-ter.01, volti a disciplinare in generale i compiti della sanità militare ai fini di prevenire e ridurre i rischi derivanti dalle diverse condizioni di impiego operativo.
Ha chiesto di parlare l'onorevole Cima. Ne ha facoltà.
LAURA CIMA. Signor Presidente, vorrei affrontare seriamente e tranquillamente la situazione attuale, al di là di tutte le polemiche scatenate dai giornali.
Il decreto-legge in oggetto - che intende prorogare il finanziamento della missione in Iraq - è da considerarsi un decreto omnibus, poiché comprende ogni tipo di missione, sia quelle italiane sia quelle che sono sotto l'egida dell'ONU, dell'Unione europea e della NATO.
Tali missioni sono da considerarsi diverse tra loro; alcune - quelle umanitarie - sono ormai consolidate e vedono il nostro esercito impegnato nel dare aiuto ai popoli che hanno subito o che potrebbero subire conflitti. La funzione dei militari in questo tipo di missioni è quella di ricostruire i paesi - nel caso in cui siano stati distrutti dalla guerra - o di fungere da forze di interposizione, come nel caso dei nostri carabinieri ad Hebron.
La prima richiesta che abbiamo avanzato è stata quella di distinguere le missioni a seconda del loro oggetto; in questo modo si permetterebbe al Parlamento e al Governo di pronunciarsi su ciascuna di essa con maggiore cognizione di causa. Vi sono missioni che vanno avanti da molto tempo e, poiché per esse vengono spesi denari pubblici ed impiegato un gran numero di militari - i quali spesso rischiano la loro vita -, sarebbe opportuno che, ogni tanto, si facesse il punto della situazione in
presenza del ministro degli esteri, il quale infatti dovrebbe spiegarci qual è la politica estera e di alleanza seguita dall'Italia.
Questa è la premessa ed invece continuiamo a trovarci nella stessa situazione. In particolare, poi, è evidente a tutti che il grande problema posto dal decreto-legge è la valutazione diversissima che esprimono le forze politiche di opposizione e di maggioranza sulla missione in Iraq, dal momento in cui è partita e se si debba o meno mantenerla. Parimenti, vi è stata una valutazione diversa sulla missione in Afghanistan.
In altre parole, colleghi, dall'inizio della legislatura, secondo noi Verdi è stato violato l'articolo 11 della Costituzione perché abbiamo di fatto partecipato a due missioni di guerra delle quali la più grave è quella dell'Iraq, visto che non aveva nessuna copertura. Anche l'ONU parla di forze occupanti anche con riferimento a noi, visto che ci siamo aggregati.
Sin dall'inizio, abbiamo dichiarato la nostra contrarietà alla missione Enduring freedom e alla missione Antica Babilonia perché non condividiamo la dottrina Bush di guerra preventiva: non è qui il caso di continuare a spiegarla, la conosciamo tutti. Pensiamo che essa provochi guasti anziché stabilizzazione, oltre al fatto che la ragione fondante dei Verdi è la ricerca della non violenza e della pace, in quanto crediamo che i conflitti nel terzo millennio si debbano risolvere con altri metodi e non con tecnologie di guerra, anche «raffinatissime» - lo dico tra virgolette, perché poi sappiamo benissimo che colpiscono soprattutto i civili -, che, sostanzialmente, servono di norma a ingrassare le lobby degli armamenti, che magari garantiscono la vittoria di un presidente su un altro, e quelle del petrolio: nella fattispecie ciò si è verificato in entrambe le situazioni, visto che si tratta del controllo geopolitico del mondo che è alla base anche del controllo dell'energia.
Riguardo a tutto il resto, sui grandi discorsi sull'esportazione di democrazia attraverso gli eserciti e le guerre e la nostra partecipazione a questa «esportazione di democrazia», crediamo che si tratti veramente di mistificazioni, a cui peraltro non crede più nessuno. Infatti, ne abbiamo visto gli effetti in Afghanistan, che sembrava una regione stabilizzata e che, in realtà, ha ripreso la produzione di droga ai livelli che aveva precedentemente, mentre Kabul regge appena e la situazione peggiora sempre più in tutto il paese. Quindi, allo stato attuale, anche l'Afghanistan non dà nessuna garanzia di stabilizzazione.
Per quanto riguarda l'Iraq, abbiamo sotto gli occhi il dramma che ogni giorno vi si consuma e anche la Costituzione testé approvata dal Governo provvisorio e contestata dalla popolazione irachena ha il sapore di un tentativo di chiudere rapidamente prima delle elezioni statunitensi, di andarsene via al più presto possibile, lasciando questa terra, lacerata da decenni, in una situazione di guerra civile.
Questa è la valutazione che noi facciamo attualmente di queste due missioni che - è inutile dirlo - sono le più controverse. Non è un caso che esse siano soggette all'applicazione del codice penale militare di guerra, che peraltro prevede ancora, come sappiamo, la pena di morte. Non è un caso, anche se il ministro Martino è venuto qui a raccontarci il falso dicendoci che questa era una missione umanitaria; in realtà anche la gravissima aggressione che abbiamo subito a Nassiriya dimostra che non siamo affatto visti come pacificatori e amici delle popolazioni, che si lasciano trascinare in uno stato di disordine che le forze occupanti non sono in grado di fermare.
Questa, infatti, era la richiesta avanzata dall'ONU alle forze occupanti, quella di cioè garantire almeno la sicurezza, poiché siamo in una situazione in cui i civili stanno pagando un prezzo altissimo, dal momento che ormai, di fatto, è in corso una guerra civile e lì stanno confluendo tutti i terroristi che operavano in altre parti del mondo, trovando un terreno fertilissimo di cultura e di crescita, nonostante l'occupazione angloamericana e italiana. Quindi la situazione è veramente esplosiva e rischiosissima.
Riteniamo che, in questa situazione, non richiamare i nostri militari e prorogare la missione sia un errore ancora più grave di quello iniziale che commettemmo quando li inviammo laggiù. Come dicevo, il Parlamento è stato tratto in inganno anche dalle affermazioni del ministro Martino, il quale ci raccontò che si trattava di una missione umanitaria e dichiarò anche ai mass media che, prima di prorogare la missione, sarebbe venuto a chiedere l'orientamento politico del Parlamento. Questo non è accaduto e quindi sono stati due i gravi «peccati» di credibilità che il ministro ha commesso nei confronti del Parlamento. Questo è uno dei motivi per cui attorno a questa questione si stanno scaldando gli animi non soltanto degli addetti ai lavori, cioè dei parlamentari, ma anche dei cittadini, delle cittadine e delle associazioni, che stanno chiedendo una maggiore riflessione.
Noi crediamo che la volontà politica delle forze di opposizione, nonostante si esprima con articolazioni differenti, dica chiaramente «no» a questa missione. Certo, noi chiederemmo ad alcune forze della coalizione una maggiore coerenza, anche se ci rendiamo conto della difficoltà di esprimersi su questo «pacco» complessivo senza distinguere le varie missioni, così come abbiamo richiesto, non con lo stralcio, come era stato fatto un anno fa, ma almeno sulla questione della missione in Iraq (secondo noi sarebbe stato indispensabile farlo anche con la missione Enduring freedom). Crediamo comunque che la valutazione negativa delle forze di opposizione sull'operato del Governo sia condivisa e a noi non interessa fare i primi della classe.
Entrando nel merito degli emendamenti, noi Verdi abbiamo chiesto cose semplicissime e chiare a tutti. In primo luogo, abbiamo chiesto lo stralcio della parte relativa alle due missioni che sono state sottoposte al codice militare di guerra, cioè la missione in Iraq e la missione Enduring freedom in Afghanistan. Con un altro emendamento abbiamo chiesto di non applicare il codice militare di guerra che prevede la pena di morte, così come abbiamo chiesto un'azione decisa - che, dopo il fallimento della prima commissione Mandelli, non si è ancora vista - da parte del Governo e del Ministero della difesa sulla questione sempre più grave e rischiosa dell'uranio impoverito. A questo proposito, voglio dire alle cittadine e ai cittadini italiani che purtroppo questo rischio riguarda anche il nostro territorio, perché nei poligoni di tiro, che spesso si trovano all'interno di quartieri abitati, si utilizzano proiettili all'uranio impoverito.
Questo accade proprio mentre stiamo misurando con le morti e le malattie gli effetti drammatici che l'uranio impoverito ha avuto sui nostri militari. Non abbiamo la certezza assoluta, ma esistono molti studi sulle conseguenze derivanti da una continua esposizione all'uranio impoverito: malattie, malformazioni e morti dei cittadini che vivono in questa situazione.
Abbiamo poi sottoscritto tutti gli altri emendamenti dei colleghi dell'opposizione che ci sembravano consoni a questa nostra impostazione che portiamo avanti sin dall'inizio con coerenza, senza oscillare da una parte all'altra.
Ci sono alcune missioni di pace, su cui i nostri militari si sono distinti, che noi assolutamente condividiamo, missioni anche importanti, come, per esempio, quelle svolte in Africa, oltre che in Palestina ad Hebron; tuttavia, di fronte alla scelta politica di mettere insieme la missione in Iraq con tutte le altre missioni, preferiamo essere chiari, perché qui è in gioco la credibilità del nostro paese a livello internazionale. Con i nostri emendamenti chiediamo al Governo di permetterci di votare in modo chiaro.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Ugo Intini. Ne ha facoltà.
UGO INTINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, questo Parlamento ha mandato i soldati italiani in Iraq quando si pensava che la guerra fosse finita e che la missione da svolgere fosse di aiuto umanitario. L'amara realtà è, invece, che la guerra era non finita, ma appena cominciata
e che i nostri soldati rischiano la vita in qualità di truppe di occupazione sotto il comando americano.
Dobbiamo essere sinceri: le forze politiche, noi tutti, ma anche i mass media, hanno compiuto un grave errore alimentando la retorica sui soldati di pace, amati dalla popolazione, secondo il cliché «italiani brava gente». Temo che questa retorica abbia contribuito a condizionare psicologicamente i nostri stessi ufficiali e ad abbassarne le difese, al punto da renderli meno prudenti alla vigilia della strage di Nassiriya.
Gli italiani sono entrati tardivamente in una guerra che non ha più una giustificazione formale, anzi che non ha più giustificazioni. La presenza delle armi di distruzione di massa, che non sono state trovate, era infatti l'unico argomento con il quale gli Stati Uniti hanno chiesto alla comunità internazionale - per la verità senza successo - di legittimare la loro azione militare. Nessun'altra spiegazione al tempo stesso razionale, credibile e confessabile è stata data alla guerra, cosicché ci troviamo oggi nella situazione kafkiana di combattere una guerra senza perché. Non è neanche accettabile l'argomento per il quale era comunque necessario abbattere una dittatura: se si dovesse fare una guerra contro tutti i dittatori, saremmo, infatti, in guerra perenne. Se avessero ragionato così, i presidenti americani, fino a Reagan compreso, avrebbero fatto la guerra all'Unione sovietica mentre, invece, soltanto un personaggio della fantasia, il dottor Stranamore, arrivò a concepire l'idea demenziale di attaccare Mosca.
Le polemiche e le recriminazioni potrebbero essere infinite; guardare indietro, tuttavia, non serve; occorre guardare all'oggi e, soprattutto, al domani. Ormai gli americani e gli inglesi la guerra l'hanno fatta, ormai gli italiani sono con loro in Iraq, l'Italia è lì e vi è in una condizione unica per la nostra tradizione politica.
Il Governo sostiene che è in Iraq perché è filoamericano, ma in Iraq non ci sono i soldati del paese più vicino geograficamente, culturalmente ed economicamente agli Stati Uniti, ovvero il Canada. Gli italiani sono più americani dei canadesi? Il Governo dice che è in Iraq perché sa combattere contro il terrorismo, ma nella prima guerra contro l'Iraq un presidente socialista, Mitterand, seguì Bush padre e mandò a combattere non solo poche decine di piloti, come l'Italia e la Germania, bensì migliaia di soldati francesi. Oggi un presidente di destra si oppone all'avventura di Bush figlio. Perché? Perché la Francia è meno contraria al terrorismo dell'Italia?
C'è, in Iraq, un esercito italiano senza i tradizionali e più vicini alleati dell'Italia, ma soprattutto senza quella copertura internazionale sotto la quale - sempre, assolutamente sempre - ci siamo mossi in passato. Non c'è, in Iraq, un corpo di spedizione italiano sotto la bandiera europea, com'è avvenuto in Macedonia e come avverrà in Bosnia. Non c'è un corpo sotto la bandiera della NATO, come in Afghanistan. Non c'è un corpo sotto la bandiera delle Nazioni Unite, come in Kosovo ed in tante aree di crisi. Ciò rende insostenibile, nel tempo, la nostra posizione e crea un danno grave, perché divide e svuota, politicamente, tutte e tre le istituzioni che, da sempre, costituiscono i pilastri della politica estera italiana: le Nazioni Unite, l'Unione europea e la NATO.
La politica estera italiana è sempre stata a favore del multilateralismo, per convinzione ideale ed anche per interesse nazionale. Quello dell'interesse nazionale è un concetto che la politica pragmatica deve considerare non scandaloso, ma fondamentale. L'interesse nazionale dice che un paese piccolo o medio come l'Italia pesa non da solo, ma nel contesto di istituzioni più ampie.
Abbiamo abbandonato l'impostazione multilaterale per seguire, in Iraq, da soli, i soli Stati Uniti. Se pensavamo di contare di più, abbiamo sbagliato, e di grosso. A Berlino, infatti, si sono riuniti i tre grandi paesi europei, escludendo il quarto, ovvero l'Italia. Hanno ristabilito una solidarietà tra di loro e l'hanno finalizzata anche alla ricerca, su nuove basi, di un rapporto con gli Stati Uniti. Questa è la logica dell'incontro
immediatamente successivo del Cancelliere Schröder, a Washington, con Bush. Questi sono la logica ed il processo politico dai quali l'Italia si trova esclusa - in modo umiliante - a causa della comprensibile irritazione di Parigi e Berlino e della meno comprensibile - per Berlusconi - ingratitudine dell'amministrazione Bush.
Senza ragioni e senza vantaggi nazionali per l'Italia, siamo, adesso, nella trappola irachena. Tuttavia, un'opposizione responsabile come la nostra non ricerca la propaganda, che è anche troppo facile, né ricerca le soluzioni semplici (quale sarebbe quella di dire: via subito dall'Iraq!). Un'opposizione responsabile si domanda, infatti, cosa accadrebbe se l'Iraq fosse abbandonato a se stesso.
La risposta più efficace a questa domanda l'ha data l'opposizione democratica degli Stati Uniti. I democratici vogliono lasciare in Iraq le truppe americane, certo, ma motivano la loro scelta con la più micidiale critica a Bush. Ieri, prima della guerra voluta dal Presidente - essi sostengono - l'Iraq non era un pericolo, perché non c'erano armi di distruzione di massa e perché Saddam era un nemico, non un alleato del terrorismo fondamentalista islamico. Adesso, dopo una guerra sciagurata, l'Iraq è un pericolo mortale. Adesso, se le truppe americane se ne andassero, l'Iraq diventerebbe come l'Afghanistan prima del 2001 moltiplicato per 100: diventerebbe il quartier generale per i terroristi di tutto il mondo! Le cose stanno, purtroppo, così. E non si può dire: gli Stati Uniti hanno combinato il guaio; adesso, si arrangino: noi ce ne andiamo! Non lo si può dire perché l'Iraq è diventato una minaccia devastante per tutto il mondo.
L'Iraq può diventare un Afghanistan moltiplicato per 100, certo, ma non solo: l'Iraq è un'infezione per il Medio Oriente, perché sviluppa le tossine che alimentano il terrorismo palestinese, la sua propaganda, i suoi alibi. L'Iraq divide il mondo arabo dall'Occidente, perché accresce l'estremismo destabilizzando proprio i governi più vicini a noi, a cominciare da quello egiziano. L'Iraq è uno Stato finto, disegnato a tavolino, su una carta geografica, dal colonialismo inglese. Un Iraq democratico e troppo centralizzato rischia di diventare uno Stato fondamentalista di stile iraniano, perché gli sciiti sono il 66 per cento e sono guidati da ayatollah non diversi da quelli di Teheran.
Bush rischia di aver fatto la guerra per trasformare in una grande potenza egemone sulla regione uno dei tre Stati costituenti il suo «asse del male», ovvero l'Iran; rischia di creare un centro di attrazione per le forti minoranze sciite in Libano, Siria e in altri paesi confinanti e di attizzare una contrapposizione a livello regionale, tra sciiti (che sono 170 milioni) e sunniti, simile a quella, tra protestanti e cattolici, che ha insanguinato il passato dell'Europa.
Dall'altra parte, un Iraq in preda alla guerra civile e disgregato darebbe luogo a tre Stati: uno Stato curdo, che destabilizzerebbe la Turchia ed i paesi circostanti con forte presenza curda; uno Stato sunnita, che ritornerebbe sotto l'influenza del partito Baath di Saddam; uno Stato sciita, che conserverebbe i rischi prima descritti perché sarebbe egemonizzato da Teheran anche più facilmente.
Il vaso di Pandora iracheno è stato ormai aperto. I fuochi intorno alla polveriera sono stati ormai accesi. C'è un'unica strada di salvezza, un'unica via di uscita dalla trappola per gli americani e per chi ha avuto la sfortuna di accompagnarli: si chiama internazionalizzazione della crisi ed è esattamente la strada che una nuova amministrazione americana guidata da Kerry seguirebbe con determinazione.
Bisogna riportare in Iraq le bandiere dell'Unione europea, della NATO e soprattutto delle Nazioni Unite. Occorre il pieno coinvolgimento della comunità internazionale e la presenza di più, non di meno soldati; soldati di nazioni islamiche non confinanti, come suggerisce saggiamente il re di Giordania: pakistani, egiziani, indonesiani. In questo contesto, un Governo iracheno legittimato dal voto popolare potrà restare sui binari giusti e reggere per il tempo necessario a risanare il paese.
Non c'è altra strada, ma a questi obiettivi ci si arriverà - se ci si arriverà - gradualmente, com'è evidente a chiunque veda le cose con pragmatismo, senza vuoti di potere e senza strappi, senza rinunciare a quelle che oggi sono purtroppo truppe di occupazione ma che domani (presto, spero) potranno cambiare ruolo.
La maggioranza di Governo non deve fare propaganda sulla tragedia nella quale siamo protagonisti; deve, invece, lavorare con convinzione nella direzione dell'internazionalizzazione della crisi. Non finga di stupirsi per le divisioni della sinistra. Non c'è sinistra al mondo che non sia divisa su questo problema (il terrorismo senza frontiere) che mai si è affacciato nella storia dell'umanità. Sono divisi i partiti della sinistra come i Labour in Gran Bretagna; a maggior ragione possono esserlo le coalizioni di partiti, come quella esistente in Italia.
La lista Prodi, che ha l'ambizione di essere molto di più di una coalizione, non è affatto divisa sulla strategia. Anzi, è sostanzialmente unita e non si perderà in un bicchiere d'acqua. Siamo contro la guerra e la politica di Bush. Pensiamo che le truppe italiane non possano essere ritirate immediatamente e, tuttavia, neppure possano essere lasciate a tempo indeterminato (ad esempio, oltre il 30 giugno) senza una copertura internazionale e il pieno coinvolgimento delle Nazioni Unite. Abbiamo, nella sostanza, una chiara linea politica comune.
Non c'è da stupirsi delle divisioni nella sinistra. C'è da stupirsi, invece, dell'unità della destra. Forza Italia e Unione dei democratici cristiani e dei democratici di centro sono vicini alla Chiesa, eppure il mondo cattolico è aspramente critico verso questa guerra.
Forza Italia e Unione dei democratici cristiani e dei democratici di centro fanno parte del Partito popolare europeo, eppure i gollisti e i giscardiani francesi, che del Partito popolare costituiscono una componente decisiva, la pensano esattamente come noi. Non come loro.
Il cancelliere Schröder è contro la guerra; ripete che non manderà truppe tedesche in questo contesto, eppure in Germania non c'è affatto scontro politico sull'Iraq, perché i democristiani tedeschi sanno cosa pensano i loro vescovi, sanno cosa pensa l'opinione pubblica e su tutto contestano duramente i socialisti al Governo meno che sulla politica estera. Sull'Iraq stanno zitti.
La destra italiana è l'unica in Europa con l'elmetto in testa e con certezze inossidabili. Questo non le fa onore. È segno, non di coraggio, ma di scarso spirito critico e di scarsa democrazia interna.
L'opposizione è divisa, certo, ma non subirà danni dalla sua divisione, che è fisiologica, se rispetterà un criterio di simmetria. Rispetto le ragioni dei pacifisti più intransigenti e ne condivido molti argomenti. Per simmetria credo però che anche loro debbano rispettare le ragioni di una politica estera di sinistra, sì, ma di una sinistra con ambizioni di Governo. Do atto che quasi sempre lo fanno. Diranno poi gli elettori quale sinistra preferiscono. È bene che sia così e che ciascuna delle due sinistre, quella della protesta e quella di Governo, quella radicale e quella riformista, si presentino nella chiarezza ciascuna con il suo volto.
Sono ottimista e credo che le due sinistre renderanno solida la loro alleanza quanto più parleranno tra loro con serenità ma anche con sincerità. Vedete, il pacifismo italiano ha, oggi, motivazioni moralmente forti, ma ha un difetto di autorevolezza e credibilità che nasce dalla sua storia. La colomba bianca è bella, ma è stata disegnata negli anni cinquanta da Picasso quando era stalinista. L'ha fatta per i partigiani della pace che erano stalinisti. Le marce contro i missili Pershing e Cruise negli anni settanta e ottanta avevano motivazioni comprensibili e certamente nobili, ma i missili Pershing e Cruise fecero crollare l'impero sovietico, ed aprirono la strada alla libertà nell'Europa dell'est, al rinnovamento della Russia, alla fine della guerra fredda e della minaccia militare verso l'Europa occidentale.
Si può e si deve essere critici verso l'amministrazione Bush, ma si deve avere
una visione strategica e chiara. L'Europa ha bisogno di una unità politica, di una politica estera e, quindi, non del pacifismo disarmato; ha bisogno, al contrario, di forze armate europee, perché senza forze armate non c'è né politica estera né autonomia. Il mondo è troppo piccolo e troppo pericoloso per rinunciare all'alleanza tra Europa e Stati Uniti, ma l'alleanza deve essere tra pari, tra amici che si influenzano non a senso unico, bensì reciprocamente. La ridefinizione di un rapporto di alleanza tra Europa e Stati Uniti sarà precisamente il compito storico della prossima generazione di dirigenti politici europei e americani.
Per questo, l'immagine del leader verde e ministro degli esteri tedesco, quella del leader socialista e cancelliere tedesco, rappresenta negli occhi dei cittadini l'immagine, non di un manifestante contro gli Stati Uniti, ma di un uomo di Stato che tratta da pari a pari con il capo della diplomazia americana e con il Presidente degli Stati Uniti.
La sinistra di protesta e di Governo, di lotta e di Governo è uno slogan o un ossimoro, come dice Giuliano Amato: può forse utilmente riferirsi alla sinistra come entità astratta, ma non alle persone fisiche che la compongono e alla realtà concreta. Nella pratica, le due sinistre, di lotta e di Governo, sono alleate, devono essere alleate, ma distinte: i giovani, i movimenti, le associazioni, i religiosi rappresentano la protesta, la lotta, la spinta ideale (gliene siamo grati). La sinistra di Governo, o con aspirazione al Governo, ne ascolta, capisce e interpreta le ragioni, sa tuttavia che forse non i cortei, ma certamente le decine di milioni di elettori vogliono la giustizia sociale, certo, vogliono la pace, certo, ma vogliono anche la giustizia e la pace realisticamente possibili e compatibili con i conti dello Stato e con gli equilibri internazionali (Applausi dei deputati del gruppo Misto-Socialisti democratici italiani).
MAURO BULGARELLI. Signor Presidente, colleghi e colleghe, penso che il voto sul rifinanziamento delle missioni militari all'estero non possa non tener conto che la più importante tra esse, quella in Iraq, in nessun modo possa configurarsi come missione di pace. Nonostante l'appellativo rassicurante di missione umanitaria, essa si svolge infatti sotto il comando di una forza di occupazione, quella statunitense, che ha infranto la legalità internazionale, scatenando una guerra fondata su una serie imbarazzante di menzogne. Se riguardo alla favola delle armi di distruzione di massa è a questo punto superfluo spendere ancora parole, basterebbe semmai leggersi quelle pronunciate da ultimo da Colin Powell quando afferma che la guerra - bontà sua! - non era probabilmente necessaria. Su altre menzogne, in special modo quelle spese per giustificare i fini della guerra, è invece opportuno tornare con la massima forza.
Le modalità con le quali è stata scatenata dall'amministrazione Bush la guerra contro l'Iraq, irridendo le istituzioni internazionali, scomunicando molti paesi della stessa alleanza atlantica e, soprattutto, calpestando la volontà di pace della società civile mondiale, chiariscono drammaticamente quale sia il nuovo indirizzo intrapreso dalla nuova destra oggi al potere in USA. Abbandonato il self power della globalizzazione economica, che pure tanti soprusi e ingiustizie determinava nel sud del mondo, i teorici dell'impero americano, gente cresciuta tra le stanze della CIA e la dottrina sullo scontro delle civiltà di Huntington, hanno eletto il potere militare e dunque la violenza e l'uso della forza a regolatori dei rapporti di forza internazionali. Il Washington consensus ha lasciato posto all'hard power dei vari Rumsfeld, Wolfowitz e Perle. Un delirio di potenza, fondato sul piano di dominio americano sul pianeta, estende la sua ombra minacciosa sui destini dell'umanità.
La stessa aggressione all'Iraq, programmata fin dal 1998, rientra in questo contesto e la pax americana, che si pretende di importare con le armi in un'area, il Medio Oriente, dai delicatissimi equilibri etnici, religiosi e politici, rischia di innescare una reazione a catena dagli esiti imprevedibili. Nella costruzione anche mediatica di questa guerra l'uso della menzogna
ha ricoperto una funzione fondamentale, e anche oggi - e non potrebbe essere altrimenti - continua ad essere l'asse strategico su cui si regge l'occupazione militare dell'Iraq. La prima di queste menzogne riguarda la sicurezza.
Quando l'amministrazione Bush ha deciso di attaccare unilateralmente Saddam, ha sostenuto che ciò era necessario per garantire la pace e la sicurezza in Iraq, nell'area mediorientale e nell'Occidente. Dopo 15 mila morti tra i civili, molte centinaia tra le forze di occupazione, la devastazione di intere città e di un territorio millenario, oggi le truppe della coalizione non riescono a garantire la sicurezza neppure a se stesse, assediate dall'odio di una popolazione ferita e umiliata e dagli attacchi di una resistenza militare sempre più intraprendente e organizzata.
Quell'Iraq che in pochi mesi si pretendeva di pacificare è, oggi, un deserto in cui tutte le infrastrutture, a partire da quelle per l'erogazione dell'acqua potabile e della luce elettrica, sono inservibili, saccheggiate o abbandonate a se stesse. I servizi sanitari sono inesistenti, gli approvvigionamenti alimentari sempre più problematici. Invece della sicurezza, nelle città irachene regna il caos e la violenza e le varie etnie sono sull'orlo di una guerra civile dalle conseguenze immaginabili.
Per mesi i portavoce del Pentagono ci hanno detto che, finché Saddam avesse potuto organizzare dietro le quinte la guerriglia, sarebbe stato impossibile ristabilire l'ordine. Poi Saddam è stato catturato (a dire il vero con tempi e modalità del tutto oscuri) e il mondo si è accorto che il vecchio dittatore era chissà da quanto fuori gioco, del tutto estraneo alle operazioni di guerriglia fino a quel punto condotte contro le truppe di occupazione, come testimonia l'escalation impressionante di attentati succedutisi dopo la sua cattura, che hanno causato oltre mille morti tra la popolazione civile in pochi mesi.
Dunque, un'altra odiosa menzogna è venuta impietosamente alla luce: niente sicurezza, né prima né dopo la cattura di Saddam, e una qualità della vita che precipita di giorno in giorno.
Né alcun passo avanti è stato compiuto sul versante della cosiddetta ricostruzione democratica dell'Iraq. Le istituzioni sono semplicemente inesistenti. La Costituzione firmata ieri dal Consiglio governativo che gli americani hanno insediato a tutela dei loro interessi economici (il petrolio, innanzitutto, con lo sfruttamento del quale sperano di ripagarsi parzialmente dei costi giganteschi di questa guerra stupida e feroce) è poco più che carta straccia, come hanno tenuto a sottolineare i leader delle varie etnie, quella sciita in primo luogo, che non accetteranno mai le tavole della legge di Bremer e della combriccola di faccendieri delle multinazionali che ambiscono a spartirsi l'Iraq.
Ed è semplicemente stupefacente che soltanto pochi giorni fa il nostro Presidente del Consiglio, in occasione del suo incontro con Blair, abbia descritto l'Iraq come una sorta di Milano 2 in costruzione, abitata da operosi indigeni in via di civilizzazione, ansiosi soltanto di godere dei benefici della democrazia.
Tuttavia - e qui arriviamo all'ennesima menzogna - la democrazia è un bene non esportabile, tanto diversi sono le forme, i modi e i tempi di cui essa ha bisogno per affermarsi in contesti culturali e geopolitici differenti, e meno che mai può costruirsi con le armi.
Da questa vera e propria strategia della menzogna il nostro Governo non è rimasto certo immune e la dimostrazione è che oggi ci troviamo a discutere di una spedizione spacciata per una missione di pace, che i fatti hanno invece drammaticamente dimostrato essere di natura ben diversa.
In verità, il Governo italiano ha occultato la vera natura del coinvolgimento italiano nella guerra di occupazione in Iraq fin dall'inizio delle ostilità (ormai, più di un anno fa). Quando, ad esempio, chiedemmo se le truppe USA di stanza nelle basi presenti sul nostro territorio avrebbero partecipato attivamente al conflitto, ci fu risposto fumosamente che esse
avevano solo compiti di logistica. In particolare, il 27 marzo dell'anno scorso chiedemmo cosa erano andati a fare gli oltre mille parà partiti dalla caserma Ederle di Vicenza per il fronte nord del conflitto. Il Governo dichiarò, per bocca del ministro Giovanardi, che «i soldati che partono dalle basi italiane non vanno a fare la guerra». E, successivamente, dopo essere stato clamorosamente contraddetto dal generale Brooks, affermò che il Governo italiano non era a conoscenza dei dettagli operativi del comando supremo USA.
Ebbene, nella giornata di ieri ho appreso dalle agenzie di stampa che il 12 marzo si terrà una festosa cerimonia di saluto riservata alla 173a brigata paracadutisti USA di ritorno alla caserma Ederle. Leggo testualmente stralci del virile comunicato diffuso dall'ufficio relazioni pubbliche della caserma: nella notte del 26 marzo 2003 mille paracadutisti della 173a brigata, in forza al comando USA Setaf di Vicenza, si lanciavano sull'area dell'aeroporto di Harir in Iraq per adempiere ad una storica e critica missione, che può essere considerata come una delle maggiori operazioni di truppe paracadutiste dalla fine della seconda guerra mondiale.
Ancora menzogne, dunque: come quelle riguardanti la reale funzione della seconda flotta statunitense, ormai di casa nelle acque radioattive della Sardegna, che, nel silenzio delle nostre autorità ha partecipato, con lo Squadron submarine 22o e l'assistenza della nave appoggio Emory S. Land, di stanza a Santo Stefano, ad un devastante attacco condotto con missili Cruise Tomawak su Baghdad.
Nel novembre dello scorso anno, il giorno 5 per l'esattezza, facemmo quindi presente al Governo, nel corso di un question time, quanto segue: «Tra le truppe della coalizione, le vittime della "pace" hanno già abbondantemente superato quelle della fase che ha portato alla deposizione del Governo di Saddam Hussein: le vittime nella coalizione sono salite a 434, di cui 378 americani; il numero di feriti statunitensi è di 2149, per non parlare degli oltre seimila rimpatriati per "ragioni di salute". Gli attacchi da parte della guerriglia irachena sono aumentati, settimana dopo settimana, sino ad arrivare a circa trenta al giorno e la spirale di violenza non sembra ancora aver raggiunto l'apice; come dimostrano inequivocabilmente ed inesorabilmente le crude cifre, la guerra in Iraq è, quindi, lungi dall'essere conclusa e i media di tutto il mondo iniziano a paragonare l'Iraq al Vietnam. È stato detto che il contingente italiano in Iraq veniva inviato in una missione di pace, ma, secondo gli interroganti, nelle attuali condizioni, questa missione appare impraticabile ed è, quindi, venuto meno il senso della presenza italiana in questo contesto». Si chiedeva dunque se non si ritenesse opportuno ritirare urgentemente le nostre truppe.
Il ministro Giovanardi rispondeva: «Per quanto riguarda l'evoluzione della situazione nel paese, in questi mesi abbiamo avuto conferma sul campo che le condizioni di sicurezza, assicurate dai contingenti militari della coalizione internazionale, sono state il presupposto essenziale affinché la componente civile della missione potesse garantire il regolare afflusso degli aiuti umanitari ed il ripristino di normali condizioni di vita per la popolazione locale»; proseguiva ancora il ministro Giovanardi: «I positivi risultati finora conseguiti dal nostro contingente sono stati messi in luce non solo da una accoglienza non ostile da parte della popolazione irachena, ma soprattutto da un sentimento che in molti casi è stato di grande riconoscenza a fronte delle numerose attività che il nostro contingente sta svolgendo. A tal proposito ricordo: il controllo del territorio, con sequestro di armi e verifica di veicoli e documenti; il ripristino dell'elettricità a Nassiriya, la riabilitazione di scuole e di ospedali, la riparazione dell'impianto di distribuzione dell'acqua; l'ampliamento della distribuzione dell'acqua potabile in trenta villaggi. Questo spirito degli italiani ha animato e continuerà ad animare un rapporto ottimale con la popolazione».
Ebbene, soltanto una settimana dopo, il 12 novembre 2003, il controllo del territorio
ed il rapporto ottimale con la popolazione producevano l'attentato di Nassiriya e la strage dei nostri militari.
Vorrei leggere, al riguardo, alcuni stralci di una lettera che è stata pubblicata ieri su un sito prestigioso, quello di ReporterAssociati. È una lettera di un carabiniere appena rientrato da Nassiriya, il quale dice: «Sono un carabiniere, il mio grado non è importante e nemmeno il mio nome. È importante quello che cercherò di scrivere su noi carabinieri inviati a Nassiriya, in Iraq. Sono uno di quelli che è sopravvissuto all'attentato contro la base italiana il 12 novembre 2003. Ci tengo a dire che ho scritto quanto segue perché ho sentito il dovere di ricordare i miei colleghi deceduti nell'attentato. Lo faccio perché ero convinto che le inchieste amministrative e penali aperte nei giorni successivi l'attentato contro il contingente italiano avrebbero portato ad accertare, in maniera manifesta, responsabilità specifiche: nomi e ruoli dei responsabili sulla mancanza di sicurezza delle nostre condizioni di vita nella base di Nassiriya. Così non è accaduto ed anzi mi sembra che si stia procedendo su una strada che porterà rapidamente a seppellire la verità. Penso sempre di più che quello che è accaduto finirà nel dimenticatoio. Vi è stato persino chi ha fatto la sua bella figura sulla pelle dei miei colleghi morti e di noi sopravvissuti, elevando così il proprio indice di gradimento ed arrivando a dichiarare che, grazie a quel tremendo attentato, è rinato nel nostro paese un amor di patria».
Prosegue poi nel racconto: «Siamo sbarcati all'aeroporto di Tallil per una missione umanitaria di guerra, così la definisco, ma è quasi un controsenso, perché dopo quattro mesi che eravamo nel teatro di guerra, ancora non riuscivamo a capire né a sapere quali fossero o dovevano essere i nostri compiti. Appena dentro l'aeroporto ci hanno fatto firmare un foglio sul quale era scritto che eravamo sottoposti, qualora si fosse verificato un episodio contemplato nel codice penale militare, al codice penale militare di guerra.
Grande stupore e meraviglia da parte di tutti noi: eravamo in un territorio dove la guerra era, appunto, considerata tale e non già terminata, come ufficialmente proclamato ai quattro venti. La nostra presenza era necessaria, quindi, per aiuti umanitari o per altri scopi che non conoscevamo? Non l'abbiamo mai saputo. Ci siamo trovati, di fatto, soggetti al codice penale militare di guerra pur essendo considerati in tutti i sensi, sia professionale, sia economico, in tutt'altro modo, come in una missione in Bosnia o in Kosovo, dove almeno erano garantiti livelli di qualità della vita abbastanza decenti. Il problema numero uno, il problema che avevamo sotto gli occhi ogni ora del giorno e del quale parlavamo sempre tra noi, era quello della posizione logistica della base che qualcuno, chissà in base a cosa, definiva strategica. Eravamo nel pieno centro abitato, dislocati in due edifici: uno era la camera di commercio e l'altro il museo. A dividerci, il fiume. Alcuni di noi andarono al museo, altri, invece, nella camera di commercio, che subito soprannominammo «animal house»: il perché è facile a capirsi. L'intera unità di manovra, che poi è stata decimata dall'attentato terroristico del 12 novembre, si trasferì al di là del fiume».
PRESIDENTE. Onorevole Bulgarelli...
MAURO BULGARELLI. Concludo, signor Presidente.
Dunque, è evidente - potremo continuare per ore a parlarne - che occorra ristabilire un piano di verità. Ciò passa in quest'aula attraverso un «no» netto, chiaro e forte a qualsiasi ulteriore coinvolgimento del nostro paese in tale sciagurata avventura. I nostri soldati devono tornare a casa subito e, nel dire questo, penso di raccogliere il monito che proviene dalla stragrande maggioranza del popolo italiano, da sempre contrario a questa guerra di rapina. È un monito che ciascun parlamentare, al di là dei posizionamenti tattici adottati dagli schieramenti politici e della ragione di Stato, dovrebbe avere la forza morale di raccogliere. Infatti,
come diceva Don Milani, di fronte alla guerra l'obbedienza non è più una virtù, ma una tentazione per chi è passivo.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Zanella. Ne ha facoltà.
LUANA ZANELLA. Signor Presidente, nell'illustrazione del complesso degli emendamenti presentati al decreto-legge che proroga la partecipazione italiana alle operazioni internazionali e ne prevede il rifinanziamento, vorrei proporre alcune riflessioni. Viene, ancora una volta, chiesto al Parlamento di operare una sorta di ratifica rispetto alle decisioni assunte dal Governo in relazione a missioni - è stato sottolineato più volte - profondamente diverse tra loro per contesto, regole di ingaggio, quadro di diritto internazionale di riferimento. Alcune di tali missioni sono effettivamente di pace, come quella dei carabinieri a Hebron, altre, come Enduring freedom in Afghanistan ed Antica Babilonia in Iraq, coinvolgono il nostro paese in uno scenario di guerra permanente e di occupazione militare di territori in netto contrasto con la nostra Costituzione.
È palese il tentativo del Governo di sottrarsi ad un pieno confronto parlamentare. Mi riferisco in particolare, ma non solo, alle gravissime responsabilità che l'esecutivo si è assunto con l'invio delle truppe in Iraq ed al prezzo di sangue che è stato pagato dai giovani militari deceduti. Questo per inseguire la nuova destra conservatrice di Bush nell'avventura egemonica planetaria e partecipare al business - lo spiegherò più avanti - connesso.
È evidente che porre sullo stesso piano la missione dei carabinieri a Hebron e quelle di Enduring freedom o di Antica Babilonia risponde al tentativo, anche abbastanza rozzo, del Governo di occultare la partecipazione italiana ad imprese di guerra.
Gli esiti tragici di tale partecipazione sono peraltro sempre più sotto i nostri occhi e si svolgono in palese violazione dell'articolo 11 della nostra Costituzione, in contraddizione con uno dei valori fondanti il nostro patto costituzionale, rappresentato appunto dal ripudio della guerra come strumento di offesa e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Questo aspetto è stato sottolineato, approfondito ed illustrato nel corso del dibattito sulla questione pregiudiziale. In particolare, ricordo l'intervento della collega Deiana, la quale affermava che l'articolo 11 della Costituzione non può essere interpretato come una generica aspirazione etica, senza tempo né luogo. Esso si configura, invece, come un vero e proprio principio ordinatore della nostra politica estera: un principio giuridico e non una generica, utopistica tensione alla pace, come orizzonte che consente l'opzione militare e l'intervento belligerante (magari camuffato da missione umanitaria).
Il Parlamento, rispetto alla richiesta di proroga delle nove missioni, deve potersi esprimere missione per missione e devono essere consegnati, a noi tutti e tutte, i dati, gli esiti e le informazioni circa i problemi aperti e quelli invece risolti. Le missioni vanno valutate: questa è la nostra responsabilità, questo è il nostro dovere! Vanno, poi, confrontati i risultati, lo status quo, ciò che succede nel mondo, con i mandati che il Governo ha ricevuto dal Parlamento. Siamo invece di fronte ad una richiesta priva di un'indicazione sulla strategia del Governo in tema di politica internazionale, anche se a me sembra piuttosto chiaro il percorso intrapreso, nostro malgrado, dall'attuale Governo.
Avremmo voluto che il dibattito fosse più aperto, più ancorato alla realtà e meno all'ideologia e alle falsificazioni, e che fosse anche l'occasione per un franco confronto all'interno del centrosinistra. Teniamo in considerazione il fatto che con il nuovo millennio si inaugura una nuova dimensione della politica internazionale. Si inaugura anche una presenza inaudita ed imprevista di un movimento formidabile contro la guerra (specificamente contro la guerra), di milioni di persone che, non a caso, come tante volte è stato ripetuto, il New York Times definì una seconda superpotenza: una superpotenza
disarmata; una superpotenza che non ragiona secondo la logica dei rapporti di forza; una superpotenza che deve parlare alla politica.
Ci opponiamo alla rimozione della questione centrale sollevata, anche nel nostro paese, da un movimento plurale complesso, che si è espresso contro la guerra e che si rivolge soprattutto al centrosinistra. Esso chiede di confrontarsi con una sfida di cultura politica ovvero con una scommessa culturale: rompere con l'idea di ineluttabilità della guerra e raccogliere la vera eredità dei nostri padri e delle nostre madri costituenti, facendo vivere di luce nuova il ripudio della guerra non solo come offesa, ma anche come strumento per la soluzione delle controversie internazionali.
L'11 settembre ha accelerato, in modo dirompente, molto cruento e pericoloso per l'intero pianeta, un processo che si radica in un passato, nemmeno tanto recente, che ha a che fare con certe elaborazioni della nuova destra statunitense che si rivolge però anche alle destre di tutto il pianeta. Assistiamo, in certi paesi, allo svuotamento progressivo dell'espressione democratica (altro che esportazione della democrazia!), allo smantellamento non solo del diritto interno, ma anche di quello internazionale (le due cose non sono assolutamente disgiunte) per assecondare interessi privati, personali e lobbistici (è ciò che accaduto nel corso di quest'anno di Governo Berlusconi).
A livello internazionale, vengono rispolverati vecchi termini, come, ad esempio, la missione civilizzatrice dell'Occidente rispetto a certi paesi ritenuti selvaggi e barbari, ma non ci si interroga sul ruolo dell'Occidente stesso nel processo di «imbarbarimento» che si esprime attraverso i processi di esclusione sociale, la crisi ambientale, l'aumento della povertà e della miseria, la moltiplicazione dei conflitti e delle guerre atipiche, l'incapacità di gestire in modo pacifico i conflitti medesimi, la militarizzazione delle zone in cui si gioca il controllo delle risorse vitali per il dominio economico, quali il petrolio, ma anche l'acqua, e via di seguito.
Siamo di fronte ad un passaggio cruciale per il futuro: si passa da un complesso sistema di poteri di varia natura (che comprendeva gli Stati d'Europa, il Giappone, istituzioni sovranazionali, l'ONU, il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale), nel quale si muoveva la superpotenza militare, quella statunitense, ad un altro di diversa natura. Su tale aspetto la sinistra si dovrebbe interrogare (a tale riguardo, mi dispiace non sia presente in aula il collega Intini).
La leadership attualmente al potere negli Stati Uniti, con l'aggressione in Afganistan e la guerra in Iraq ancor di più ha affermato, di fatto, la dottrina della guerra preventiva ed il riordino della geografia politica conseguente. Questa superpotenza si attesta come soggetto assoluto, inteso alla lettera, absolutus, in grado di attualizzare l'unilateralismo violento, arrogante che lascia agli Stati cosiddetti alleati l'unica possibilità di essere satelliti, vassalli, servili alla lettera.
Passando ad un altro ordine di ragionamenti, vorrei che, attraverso Internet, i colleghi si accostassero ad un altro dei risvolti derivanti dal conflitto in Iraq, che tra l'altro illumina la guerra di una luce particolarmente fosca. Attraverso Internet è possibile varcare la soglia del quartiere fieristico di Kuwait City, dove 1.200 espositori, il 19 gennaio, hanno inaugurato una mostra sulla ricostruzione in Iraq. In tale quartiere vi sono 1.200 espositori, 48 paesi e 137 aziende italiane, che consentono di godere del colpo d'occhio offerto da più di 100 stand.
Nel cuore, appunto, di una grande fiera internazionale inaugurata nell'Emirato, l'Istituto nazionale per il commercio estero ha sostenuto lo sforzo di aprire alle imprese italiane uno spazio nelle quote del business - come sappiamo, saldamente nelle mani statunitensi - della cosiddetta ricostruzione in Iraq. Un grande sforzo organizzativo del quale il Governo sembra andar fiero; in questo luogo, cupamente a ridosso dell'Iraq, imprese e consorzi sperano di partecipare, già dalla prima tranche, agli appalti per la ricostruzione dei servizi essenziali. La torta è di 18,6 miliardi
di dollari e le nostre imprese sperano almeno di prequalificarsi - anche se senza grande speranza - per i subappalti o per le gare adatte alla capacità tecnologica e gestionale all'interno di situazioni redditizie ma, come sappiamo, anche estremamente rischiose.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Angioni. Ne ha facoltà.
FRANCO ANGIONI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, gli emendamenti presentati dal mio gruppo tendono a migliorare il decreto-legge sulla proroga della partecipazione italiana ad operazioni internazionali, in primo luogo, negli interventi umanitari e di ricostruzione dell'Iraq, cercando di evidenziare che si tratta di una missione di grande valenza politico-diplomatica, facente capo alle Nazioni Unite, ben definita nella necessità degli interventi umanitari - cioè, esclusivamente indirizzati sulla popolazione - e inoltre caratterizzata dalla severità e trasparenza con le quali programmare l'attività di ricostruzione.
In questo quadro, si vuole anche tutelare la presenza delle organizzazioni non governative e la loro autonomia. Tale autonomia, nelle modalità di azione, è particolarmente importante, in quanto riguarda non solo il settore sanitario, alimentare e scolastico-educativo, ma anche quello dello sviluppo e della tutela dei beni culturali. Viene inoltre auspicata la possibilità di accertare trimestralmente i risultati raggiunti nel campo umanitario e della ricostruzione.
Un altro cambiamento rilevante, che desideriamo attuare attraverso gli emendamenti, è quello della separazione della partecipazione militare italiana all'operazione internazionale in Iraq dalle altre partecipazioni in Bosnia, Kosovo, Macedonia, Albania, Hebron, Etiopia ed Eritrea.
La separazione dell'Iraq dalle altre missioni rappresenta il cuore del problema e la richiesta discende da motivi di carattere politico e tecnico.
Con la separazione delle missioni si cerca di ottenere di concentrare la discussione sulla questione irachena e di evidenziare la concordanza, che rappresenta un segnale politico molto positivo, tra maggioranza e opposizione sulle altre otto missioni.
L'operazione Antica Babilonia presenta molti aspetti controversi che hanno diviso e dividono non solo la nostra opinione pubblica, ma anche quella di molti paesi europei e le stesse comunità dei paesi che hanno iniziato la guerra, nei quali il dissenso non è stato e non è trascurabile. Non solo, ma la situazione in Iraq, contrariamente a quella degli altri otto paesi delle altre missioni, è in continua evoluzione. Non è allora il caso di dettagliare una possibile programmazione e una verosimile tempistica e di indicare delle alternative nell'eventualità che queste non possano essere rispettate? A nessuno può sfuggire che le prospettive in Iraq non sono né chiare né semplici né ispirabili all'ottimismo. Non sarebbe allora il caso di essere pragmatici e di sforzarsi insieme per individuare soluzioni alternative da concordare con quel poco di istituzionale che c'è ora in Iraq e con i paesi coinvolti nel dopoguerra e con le Nazioni Unite e - perché no? - anche con quei paesi europei che sono in grado di fornire un grande contributo al processo di stabilizzazione in Iraq?
Un altro gruppo di emendamenti si prefigge di prorogare il termine del mandato per tutte le partecipazioni, ad eccezione naturalmente di quella dell'Iraq, al 31 dicembre 2004, lasciando la data di scadenza del 30 giugno per la sola operazione Antica Babilonia. La ragione di tale differenza consiste nella quasi totale concordanza politica sulle operazioni decise da organismi multinazionali e, pertanto, si ritiene non necessario prevedere un passaggio parlamentare tra alcuni mesi per quelle attività ormai consolidate e per le quali è stata già prevista la copertura finanziaria.
Un altro obiettivo, oggetto degli emendamenti presentati, è quello di rafforzare l'impegno per consentire l'assunzione di responsabilità politica da parte delle Nazioni Unite in ordine alle operazioni di
pacificazione e stabilizzazione in Iraq, costituendo una forza militare estesa al maggior numero di paesi, inclusi quelli arabi.
Altri emendamenti hanno poi lo scopo di tutelare le famiglie delle vittime non solo in termini economici ma anche a livello di sostegno dell'iter scolastico-formativo dei figli di queste vittime.
Infine, si rileva che taluni emendamenti tendono ad incrementare le attività di protezione sanitaria dei militari e a realizzare un'approfondita indagine sanitaria estesa ai militari impegnati nelle operazioni realizzate a partire dal 1990. Con questi emendamenti, pertanto, ci si prefigge di raccogliere preziosi dati non solo tra coloro che operano o hanno operato in Iraq, ma anche tra i militari impegnati all'estero negli ultimi 14 anni. Questo può sembrare esagerato, tuttavia l'argomento è troppo delicato e, quindi, non c'è esagerazione; intanto, perché si tratta della salute di coloro che sono stati chiamati a servire il nostro paese, e poi perché solo con dati statistici estesi si possono ottenere valori probanti per le decisioni da assumere in riferimento ad un settore così delicato dal punto di vista sociale.
Questa fin qui svolta è una rapida sintesi degli scopi insiti negli emendamenti che sono stati presentati e delle proposte che sono state formulate al fine di migliorare il decreto-legge in esame. Sono proposte evidentemente in linea con la nostra visione politica, soprattutto con riferimento all'intervento in Iraq. Questo vuole anche essere un modo per fornire un contributo che potrebbe risultare utile per migliorare decisioni politiche che hanno sollevato anche critiche e forti opposizioni. Non nascondiamoci la realtà: l'operazione in Iraq rappresenta un nervo scoperto non solo in Italia ma anche in grande parte del mondo e gli aspetti tecnici che ho potuto esaminare nel corso della discussione sulle linee generali hanno dimostrato quanto ardua sia la possibilità di trovare un accordo.
Gli emendamenti da noi presentati si propongono un avvicinamento morbido ad un'auspicabile soluzione concordata. Coloro che anelano alla pace, in qualunque schieramento militino, aspirano ad una rapida e giusta soluzione della crisi irachena: cerchiamo di non deluderli (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-L'Ulivo).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Russo Spena. Ne ha facoltà.
GIOVANNI RUSSO SPENA. Signor Presidente, le nostre proposte emendative non sono frutto di improvvisate tattiche parlamentari, ma di consolidate determinazioni, come è stato già ampiamente illustrato, sia nel corso dell'esame in Commissione sia durante la discussione sulle linee generali, dalla collega Deiana, né esse tendono a mediazioni o ad una mera riduzione del danno: ciò infatti, su un tema che attiene alla guerra e alla pace, sarebbe riduttivo, inefficace e sbagliato. Ci troviamo in un contesto nel quale la guerra preventiva costituisce il principio ordinatore e le strategie militari tendono a rendere mute le teorie politiche.
La pace non è soltanto assenza della guerra: è costruzione di giustizia globale, di equità sociale, di disarmo, di riduzione delle spese militari, di obiezione di coscienza, di cooperazione fra i popoli, di diplomazia dal basso. La logica militarista scandisce ormai le ore, i minuti e i secondi della nostra quotidianità. Abbiamo già analizzato i pericoli e gli orrori della guerra preventiva globale, indeterminata ed insieme infinita, senza tempo ed insieme senza spazio: la guerra della globalizzazione, del comando imperiale in sé. Non potendo costruire consenso, essa esiste in quanto dominio militare assoluto. È questo il messaggio: shock and awe, colpisci e terrorizza, cerca ed uccidi, che non a caso è l'ordine ufficiale impartito dalle circolari del Pentagono alle truppe di occupazione in Afghanistan e in Iraq. Si tratta della metafora della legge marziale.
La guerra preventiva infinita è, nello stesso tempo, livello estremo di tecnologia distruttiva e colossale mistificazione politico-culturale. Essa non sta portando democrazia - non è possibile portare la
democrazia con le armi - ma costituisce l'espressione del bisogno della globalizzazione in crisi: privatizzazione delle risorse, business della ricostruzione ed imposizione del libero mercato diventano paradigmi e strutture ideologiche. La guerra diventa teoria politica in sé, e le risorse vengono dirottate violentemente, anche nel bilancio degli Stati Uniti, dallo Stato sociale alle spese militari, mutando, con ossessione securitaria e protezionistica sul piano interno e permanentemente espansionistica sul piano esterno, le stesse strutture e composizioni sociali.
Ritengo che anche tale aspetto, già sottolineato dalla collega Deiana, debba essere approfondito: occorre analizzare le trasformazioni dei bilanci dei singoli Stati, in primo luogo Stati Uniti e Regno Unito, che hanno condotto questa guerra preventiva. La nostra analisi non si basa sulle considerazioni di economisti bolscevichi, radical statunitensi o pacifisti, ma dei più attenti economisti liberal. In ciò risiede la straordinaria attualità e centralità della dicotomia tra guerra e pace, tra economia di guerra e keynesismo militare, da un lato, e disarmo, dall'altro.
È su tale base che il movimento per la pace rilancia una sfida di ampio respiro e di lungo periodo: si tratta di una traversata nel deserto, non di facile pacifismo, ma del pacifismo strutturale della trasformazione. Lanciamo la sfida su due assi fondamentali, il primo dei quali è costituito dall'interconnessione fra il «no» alla guerra e il «no» alla globalizzazione liberista, anche in termini di griglia programmatica e di ricerca di obiettivi, a partire dalla cittadinanza transnazionale e dalla tutela dei diritti sociali. Il secondo aspetto è costituito dalla centralità del tema del disarmo, delle pratiche diplomatiche, delle interposizioni di pace, della lotta al commercio delle armi e alla produzione di esse, anche con progetti di riconversione dal militare al civile.
Oggi più che mai va rilanciato, di fronte alla centralità politica assunta dalle armi, il progetto della difesa popolare non violenta e dei corpi civili di pace quale alternativa ai modelli militari di spedizioni armate al di fuori dei confini, incostituzionali e fondati, non a caso, su militari professionisti della guerra. Truppe di occupazione in territori militarmente occupati, al di là delle individuali propensioni e soggettività dei nostri militari, dietro le quali è ipocrita che si nascondano responsabilità politiche.
Per questo motivo appoggiamo tutte le pratiche di disobbedienza portate avanti, anche in questi giorni, da piloti di elicotteri. Appoggiamo il rifiuto di obbedire agli ordini sbagliati e a quelli che trasferiscono insicurezza sia a chi li riceve sia chi li dà.
Vogliamo il ritiro dei militari dall'Iraq, ma anche dall'Afghanistan e dai Balcani, perché dietro la diversificazione giuridica - la presenza o meno della NATO - e i mutevoli formalismi vi è una comune interpretazione dei rapporti globali e una comune metodologia di intervento: la guerra come principio di riequilibrio. Per noi non è così: l'abbiamo dimostrato analizzando le motivazioni economiche, strutturali, di conquista e di mercato che sottendono l'ipocrisia guerrafondaia: dalla guerra nei Balcani del centrosinistra, alla difesa dei contratti dell'ENI a Nassiriya in Iraq.
Alcuni giornalisti televisivi hanno denunciato le immagini complete del campo militare italiano di Nassiriya, che sorge a 40-45 metri da trivellatrici utilizzate a seguito di contratti conclusi dall'ENI: è per questo motivo che la missione italiana ha base a Nassiriya.
Il ministro Martino tempo fa scriveva che le nostre truppe erano impegnate a Nassiriya con il solo scopo di fare del bene: ma vi dico che l'Italia è presente a Nassiriya con i suoi militari a causa dei contratti conclusi dall'ENI.
È nostro obiettivo, inoltre, analizzare l'aggravarsi di tutti i conflitti addotti per scatenare le guerre: dalle pulizie etniche nei Balcani alla pervasività crescente della strategia terrorista in Medio Oriente.
Riteniamo estranea e contraria all'ordinamento internazionale e ai rapporti equi tra i popoli la guerra preventiva, ma abbiamo ritenuto un ossimoro agghiacciante
la guerra umanitaria, la falsità delle bombe intelligenti, capaci di riconciliare i popoli e costruire la democrazia.
I problemi non vengono risolti, bensì aspramente acuiti; i popoli sono un accidente nelle contemporanee teorie della guerra. Si tratta di guerre strutturalmente sporche; i popoli, infatti, ci mettono solamente i morti, un'ecatombe di morti.
Il mio gruppo é a favore del ritiro delle missioni militari perché esse sono figlie delle guerre che le hanno prodotte e le truppe sono da considerarsi di occupazione in senso tecnico - in base alle convenzioni internazionali -, non possono mutare natura. Solo azzerando la situazione, la parola, finalmente, potrà passare ai popoli, al confronto - non facile, certo, ma ineludibile - teso all'autogoverno e all'organizzazione delle proprie democrazie.
Per quanto riguarda noi stessi, potremo impegnarci nella costruzione di un'Europa che ripudia la guerra, di strutture internazionali che abbiano un'autonoma autorevolezza sul piano morale, diplomatico, politico, di interposizione. Anche in riferimento a questo orizzonte se è «sì» è «sì», se è «no» che sia veramente «no», altrimenti la maggioranza del centrosinistra contribuirebbe a rendere la politica sempre più incomprensibile, sempre più muta, sempre più lontana. Ciò, anche perché la militarizzazione crescente dei rapporti internazionali, con tutti i riflessi autoritari di Stato penale globale, sta portando ad una cancellazione di forme, di strutture e di istituti della democrazia. Del resto, la guerra - lo sappiamo - rappresenta il massimo emergenzialismo; inoltre, la guerra preventiva - in quanto espressione della crisi della globalizzazione - blinda militarmente tutti i rapporti sociali. È di questo che dovrebbe essere preoccupato il centrosinistra: la posta in gioco è troppo alta perché si possa aggirare con ipocrisie e tattiche parlamentariste. Rischiamo di precipitare in una fase che, in qualche modo, è caratterizzata da tre identità: guerra preventiva, terrorismo, iniziative autoritarie statuali.
Anche per questo occorre votare contro il provvedimento in esame e ricollegarsi alle donne e agli uomini che ancora una volta, in tanti - come avvenne l'anno scorso - saranno in piazza il 20 marzo in tutto il mondo. Essi non chiedono - è bene ricordarlo - tatticismi, ma una grande capacità di orizzonte, una grande eticità e una grande politicità.
La condanna della guerra preventiva e il ritiro dall'Iraq delle truppe di occupazione: questo è il nuovo pacifismo, questo dovrebbero comprendere tutte le opposizioni (Applausi dei deputati del gruppo di Rifondazione comunista)!
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Cristaldi. Ne ha facoltà.
NICOLÒ CRISTALDI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, onorevoli rappresentanti del Governo, a nome di Alleanza nazionale intendo soffermarmi solo qualche minuto sulla vicenda Iraq. Riteniamo che quella di oggi sia una risposta di civiltà da parte del Parlamento e della Camera dei deputati, una scelta di solidarietà nei confronti di un popolo, quello iracheno, che tenta di costruire una democrazia e che si sforza di raggiungere livelli di vita dignitosi, salvaguardando le proprie tradizioni, ma mettendo al bando ciò che demagogicamente viene utilizzato per trasformare le tradizioni in violenza, in incrostazioni, in isolamento dal mondo, in farneticazione religiosa, in disprezzo di fatto dello stesso islamismo.
Si dice correttamente nella premessa del decreto-legge che la partecipazione dell'Italia alla missione in Iraq è finalizzata alla stabilizzazione e alla ricostruzione di quel paese e al ripristino delle infrastrutture socio-economiche di base, nonché alla realizzazione degli interventi umanitari in condizioni di sicurezza. Ci si chiede come si possa essere contrari a tali premesse o ancora come si possa ostacolare un progetto fondato su tali principi, quando questo progetto è sposato dalla comunità internazionale ed appare l'unico capace di avviare il lento processo della democrazia in un paese e l'unico che, se
sostenuto ed amplificato, può contribuire al processo di pace del pianeta.
Ognuno ha il diritto di esprimere le proprie opinioni ed ancora più in Parlamento. Ognuno ha il diritto di schierarsi a favore o contro una proposta, ma ha il dovere di spiegarne le ragioni senza sotterfugi. Non è tollerabile che si occupi uno spazio nel dibattito attraverso il travisamento della verità. Gli italiani si interrogano: perché l'Italia con il suo Parlamento ha detto «sì» alle numerose missioni di pace nel mondo e adesso dovrebbe dire «no»? Alla bugia e alla demagogia si aggiunge anche il disprezzo. C'è chi definisce la missione italiana una missione di guerra, anziché una missione di pace, come in effetti è. Non intendiamo sollevare in questa sede argomenti che evidenziano le contraddizioni della sinistra italiana e del suo imbarazzo di fronte alle nobili tradizioni delle nostre forze armate. Si intende qui ricordare quando, nella sua grande maggioranza, il Parlamento ha dato sostegno al Governo di centrosinistra per consentire all'Italia di contribuire alla pace nel mondo attraverso l'utilizzazione anche del nostro esercito, proprio come si fa adesso in Iraq. Siamo di fronte ad uno scenario mondiale dove persino la guerra è un'altra cosa anche soltanto rispetto a qualche anno fa, quando si aggredivano gli eserciti e le battaglie si eseguivano nei territori interessati. Oggi non è più così e dal punto di vista militare quella in Iraq è stata una guerra lampo, ma dopo la guerra è iniziata un'altra fase completamente diversa rispetto al dopoguerra di ogni conflitto.
Il mondo, quello civile e soprattutto quello occidentale, ha il dovere di combattere il terrorismo anche attraverso i sistemi tradizionali, ma ha anche il dovere di combattere il terrorismo ben sapendo delle sue nuove forme di politica, del suo modo di agire, dello spazio territoriale che occupa, della facilità degli spostamenti degli stessi terroristi, della complicità di organizzazioni e di Stati. Tutti sappiamo che non basta abbattere un dittatore o un regime per far nascere automaticamente una democrazia. Abbattere Saddam Hussein non ha significato la nascita di un sistema democratico, ma ha significato l'inizio di un processo democratico che va incoraggiato e sostenuto.
All'interno di questa logica si inquadra il ruolo dell'Italia in tale missione.
Non si impone una democrazia, è vero, non si esportano modelli in democrazia, ed è un errore ritenere che vi siano modelli nel mondo che, sic et simpliciter, possono essere esportati in paesi con popolazioni diverse, culture diverse, tradizioni diverse e religioni diverse; ma si può incoraggiare una politica basata sul rispetto dell'uomo, sulla sua centralità, sulla crescita degli individui nella collettività.
Oggi ci troviamo a combattere un clima nel quale il terrorismo è solo una parte di quel clima del terrore che rischia di mettere in ginocchio economie e serenità dei popoli. In tutto questo ci sono paesi che fanno la loro parte. Non vediamo avversari ovunque: si pensi, ad esempio, al ruolo degli Stati Uniti d'America. Non si comprende perché una ragione di questo livello debba essere assegnata soltanto nelle mani di quel paese, che pure ha cinque comandi militari globali, un esercito con un milione di uomini e donne di stanza in quattro continenti, portaerei su ogni oceano. Gli Stati Uniti spendono per la difesa più della somma degli altri quindici paesi che più investono nella stessa difesa: 350 miliardi di dollari l'anno, non includendo i costi della guerra in Iraq.
Eppure tutto questo non è sufficiente. Ci vuole la pazienza, la collaborazione di tutti e l'Italia, paese dalla civiltà millenaria, ha il dovere di non sottrarsi all'obbligo di contribuire alla pace nel mondo. Si ha il dovere di collaborare, ben sapendo che non ci sono soltanto Stati dentro i confini che alimentano e proteggono il terrorismo, ma entità che possono scomparire e ricomparire in più luoghi diversi. Ha ragione l'osservatore americano Benjamin Barber: ci sono alcuni Stati nel mondo che possono mettere in ginocchio intere nazioni, ma le cellule terroristiche e i loro leader mutanti restano in piedi. Essi sanno che il terrore è il loro alleato, come disse Anwar Aziz, uno dei primi attentatori
suicidi a Gaza nel 1993: le battaglie dell'Islam si vincono non con le armi, ma instillando il terrore nel cuore del nemico.
Ecco che cosa combattiamo, non un popolo, ma quei soggetti che fanno del terrore la loro potente arma offensiva; non uno specifico Stato, ma i perversi che trasformano la religione in terrore. Sappiamo che i terroristi si muovono liberamente dall'Afghanistan allo Yemen, al Sudan, dalle montagne dell'Afghanistan alle ingovernabili province del Pakistan, dal Medio oriente all'Africa, al Sud-est asiatico, all'Indonesia, alle Filippine. Eppure, sappiamo anche che i terroristi del Terzo mondo hanno proliferato in Inghilterra, in Germania, nel New England, nel New Jersey e in Florida grazie all'organizzazione di precisi paesi e precisi soggetti, che vanno individuati ed abbattuti nel loro ruolo. Un atto terroristico uccide una o più persone, a volte anche 3 mila persone, come nel caso delle Twin towers; ma il terrore colpisce milioni, miliardi di persone.
Contro il clima del terrore si ha il dovere di opporsi, anche attraverso piccoli passi, come quello che ci auguriamo si appresti a compiere oggi la Camera dei deputati (Applausi dei deputati del gruppo di Alleanza nazionale - Congratulazioni).
PRESIDENTE. Rivolgo un saluto agli alunni ed agli insegnanti della scuola media Giovanni Pascoli di Taurianova, che dalle tribune stanno assistendo ai nostri lavori (Applausi).
Ha chiesto di parlare l'onorevole Cusumano. Ne ha facoltà.
STEFANO CUSUMANO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, la guerra in Iraq ha un carattere molto diverso dalle guerre che sono scoppiate negli ultimi tempi in altre regioni del mondo, ad esempio nei Balcani e in l'Africa. La differenza è segnata dall'attentato dell'11 settembre, che ha posto l'elemento del terrorismo internazionale in primo piano rispetto agli altri elementi che avevamo visto emergere nel corso degli anni Novanta, come i nazionalismi esplosi a seguito della caduta del regime sovietico, le spinte ideologiche di natura più diversa, le tensioni causate da conflitti economici più o meno mascherati.
È il dato del terrorismo internazionale il fattore che cambia lo scenario dei rapporti internazionali, degli impegni militari all'estero, il fattore con cui tutti noi dobbiamo confrontarci per individuare soluzioni adeguate e condivise.
Le missioni militari dell'Italia all'estero hanno dimostrato finora tutta la loro importanza ai fini della costruzione delle condizioni di convivenza pacifica tra i popoli e di sviluppo comune. C'è un filo che collega tutte queste missioni, caratterizzato da un preciso e positivo stile di comportamento dei nostri militari, dagli effetti benefici prodotti quantomeno sull'abbassamento delle tensioni, dalla prefigurazione di elementi di speranza per un futuro diverso. Questo è un segno di grande merito per le nostre Forze armate, al di là di ogni considerazione sul ruolo prioritario o meno svolto dall'Italia sullo scenario internazionale, come al di là di ogni considerazione sugli interessi e i vantaggi concreti che possono derivarci da queste missioni.
Il dato essenziale su cui riflettere è un innegabile dato di valore etico, prima ancora che politico: siamo di fronte ad una testimonianza italiana che esprime un segnale vero di solidarietà internazionale tra i popoli. Qualunque siano i limiti politici entro cui sono nate queste missioni internazionali, le ragioni palesi ed occulte della nostra partecipazione, vi è il dato di fatto fondamentale che, in un decennio caratterizzato dall'esplodere di grandi tensioni regionali, l'Italia ha manifestato ed espresso in ogni caso un contributo etico e solidale, anche con il sacrificio del proprio personale militare e civile.
Il decreto-legge in esame chiede al Parlamento di prorogare queste missioni di pace; di fronte a tale richiesta, il gruppo di Alleanza Popolare-Udeur voterà in termini di astensione per le seguenti ragioni.
Noi consideriamo un errore l'inizio della guerra, perché condividiamo, tra l'altro, l'invito del Pontefice, che aveva sollecitato
a percorrere strade diverse da quella dell'intervento militare. Riteniamo, altresì, che tale intervento avrebbe dovuto essere condotto sotto l'egida delle Nazioni Unite; questa esigenza, in particolare, resta tuttora aperta. Quindi, se da un lato, come ha detto il governatore di Nassiriya, l'italiana Barbara Contini, consideriamo una follia ritirarsi in questa fase, dall'altro, riteniamo del tutto insufficiente il ruolo finora svolto dall'Italia per garantire alla nostra missione militare una copertura internazionale adeguata delle Nazioni Unite ed un diverso e più attivo ruolo della stessa Unione europea. È questa la strada da battere, su cui chiediamo una iniziativa del Governo italiano ben più incisiva di quella attuale.
Sulla base di questa posizione, il gruppo di Alleanza Popolare-Udeur voterà a favore di tutti quegli emendamenti che si muovono nelle seguenti direzioni: rafforzare al massimo la tutela per i nostri militari in servizio e proteggere le loro famiglie dalle ripercussioni negative degli eventi bellici; rafforzare la missione militare con la presenza di organismi civili che operino per la ripresa dello sviluppo, il ripristino dell'ambiente, la tutela dei beni culturali, con tutte quelle iniziative che diano alle popolazioni coinvolte il segno della temporaneità della presenza militare e della ripresa delle attività civili; consolidare il sistema informativo tra gli organismi preposti alla gestione della missione ed il Parlamento, in modo che il popolo italiano possa essere tempestivamente ed esaustivamente informato di ogni passaggio e di ogni questione aperta, a cominciare dalla questione della sicurezza e della tutela sanitaria, dalla massima istituzione democratica piuttosto che attraverso l'informazione necessariamente limitata dei media. Rispetto ad iniziative del genere, cari colleghi, che rappresentano un grande elemento costitutivo della fiducia tra il cittadino e le istituzioni, è pertanto indispensabile che il Parlamento ed il Governo si attrezzino in termini adeguati (Applausi dei deputati del gruppo misto-Alleanza Popolare-Udeur).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Buffo. Ne ha facoltà.
GLORIA BUFFO. Signor Presidente, più volte è stato detto che oggi, ancora più di ieri, la politica estera è la politica. D'altronde, non potrebbe essere diversamente: il mondo è più piccolo ed interdipendente; abbiamo assistito alla fine di un sistema mondiale incardinato su due blocchi; tra molte difficoltà, l'Europa tenta di diventare soggetto in un mondo multipolare; la collocazione dell'Italia ne fa un paese dai confini strategicamente significativi, oggi più di ieri.
Tutte queste ragioni ci indicano che dobbiamo lavorare affinché l'Italia dia un contributo: il nostro paese, collocato nel Mediterraneo vicino all'Africa e al Medio Oriente, e confinante con i Balcani, deve darsi una buona politica estera.
Sappiamo che la fine dell'ordine bipolare non ha aperto la strada alle «sorti magnifiche e progressive» della pace, della stabilità e del superamento delle disuguaglianze. Non lo dico certo per nostalgia di quel mondo, che si reggeva sull'equilibrio del terrore; ma dobbiamo dire la verità anche sul mondo di oggi. Questo mondo unipolare, che è dominato dalla potenza finanziaria e tecnologica degli Stati Uniti d'America e soprattutto dalla politica folle del gruppo di potere e di affari che circonda il Presidente Bush, che è percorso da disuguaglianze non più giustificabili e, comunque, non più giustificate agli occhi di buona parte dell'umanità, è meno stabile e più insicuro di ieri.
Non era e non è destino che le cose stiano così: che, alla caduta del muro e dei blocchi, debba seguire un mondo più ingiusto, più insicuro e più instabile. Se le cose stanno così, è perché cogliamo i frutti di politiche per un verso miopi (penso ai paesi ricchi) e per un altro verso predatorie (penso sempre ai paesi ricchi, ma anche a quelli più influenti sulla politica internazionale), le quali, anziché svuotare l'acqua nella quale navigano i propositi di chi mira allo scontro di civiltà, alimenta
questi ultimi e, anziché combattere e demolire le basi del terrorismo internazionale, fornisce ad esso la benzina.
Dispiace che lo scontro di civiltà non venga teorizzato solo dai capi del terrorismo internazionale o da frange del fondamentalismo: spesso, esso viene teorizzato nei circoli reazionari e conservatori dell'Occidente, in alcuni casi in circoli che sono al comando del novero dei paesi al quale apparteniamo.
Quello che sta accadendo in Medio Oriente è sotto gli occhi di tutti, quello che è accaduto e che accade in Iraq anche. Voi, signori della maggioranza e del Governo - lo trovo semplicemente scandaloso! -, volete ignorare e, soprattutto, volete che gli italiani ignorino il più possibile come stanno le cose. La cosa più importante che vorreste fosse ignorata è che la guerra preventiva teorizzata, voluta e praticata dall'attuale Governo degli Stati Uniti - speriamo che presto cambino i governanti di quel paese -, sbagliata, illegale ed irresponsabile verso i destini del mondo, ha reso più forte il terrorismo, ha reso più robuste le ragioni di chi sciaguratamente vuole lo scontro di civiltà, ha reso l'Occidente ancora più inviso a nuove masse, non proprio esigue, di uomini e di donne e non ha neppure portato la pace e la democrazia in Iraq.
Un'intera area vastissima, che inizia nel Medio Oriente a noi più vicino (ma si estende molto oltre; è una bella parte del pianeta!), è oggi più travagliata di prima e costituisce uno dei peggiori focolai di guerra, un focolaio che si è allargato.
Rispetto a questa brutale fotografia della realtà, preferite sorvolare, ignorare, passare sopra. Non solo ignorate gli interessi supremi della pace e di un ordine mondiale sostenibile, non solo avete sacrificato la possibilità, almeno in questi mesi, di un ruolo più forte dell'Europa in una direzione diversa da quella voluta dai neoconservatori americani, contribuendo (lo avete fatto con molta determinazione) a dividere l'Europa ed indebolendo il ruolo di questa parte del mondo che contrastasse quel disegno, ma avete anche cancellato (vorrei che non si dimenticasse) gli stessi interessi nazionali di un'Italia vitalmente interessata ad un Mediterraneo e ad un prossimo Oriente pacificati.
Come nella peggiore tradizione della politica estera stracciona e subalterna alle pulsioni espansionistiche dei forti, cui l'Italia si era sottratta da molti decenni, anche quando tante cose dividevano lo schieramento politico (quella politica estera, con luci ed ombre anch'essa, si era sottratta a questa tentazione), oggi ripristinate tutto ciò. Siete tornati ad inviare i soldati, che nessuna responsabilità hanno, per avere un pezzetto della «torta» fatta di qualche appalto e, forse, di un po' di petrolio. Lo avete fatto senza riguardo per la dignità nazionale, piegati alla volontà e agli interessi di una superpotenza, certo forte, ma anche più sola di ieri, che (lo sappiamo tutti) non sarà in grado di garantire nei prossimi decenni un ordine mondiale sostenibile ed un assetto più sicuro.
Avete ignorato non solo la ricerca della pace e di un assetto internazionale migliore, ma anche la dignità nazionale. Lo dico perché nel vostro schieramento ci sono anche partiti che usano in modo roboante queste espressioni e vi ricorrono molto spesso. Avete, inoltre, sottovalutato l'intelligenza dell'opinione pubblica italiana ed internazionale che non ha voluto, non ha sostenuto e ha mal giudicato la guerra in Iraq, perché vedeva ciò che voi fingevate di non vedere, ciò che sarebbe accaduto successivamente, quella che un collega intervenuto prima di me, con un'espressione che trovo tragica per la sua inadeguatezza, ha definito una guerra lampo. Tanto «lampo» non mi sembra e non mi è sembrata, visto ciò che sta accadendo.
Oggi che la guerra in Iraq continua e il terrorismo uccide e terrorizza, mentre il Medio Oriente non vede soluzioni ai suoi travagli (lo dico anche per questa ragione, perché tutti sappiano, se non vogliamo essere ipocriti, che quello che è accaduto in Iraq non ha aiutato a trovare una soluzione, che comunque è difficile per il Medio Oriente), voi sapete dire soltanto: i nostri soldati restino lì.
Dopo il fallimento della vostra guida del semestre europeo - un semestre senza iniziativa politica, senza visione dei problemi, in una parola, senza politica, se non quella di battere i tacchi quando Bush parlava -, l'unica cosa che sapete proporci è che i nostri soldati restino lì. Ma a fare che cosa? Vi prego, risparmiateci la retorica: andiamo ai fatti. I nostri soldati non possono fare il peace keeping, perché non è possibile; non possono risolvere i problemi degli iracheni, anche se naturalmente vorrebbero fare questo. Ma non possono farlo perché non lo si fa a Tallil, in poche migliaia, con il rischio degli attacchi e degli attentati, e perché non è questo il compito che hanno coloro - mi riferisco ai comandi - ai quali rispondono i nostri militari. Devono semplicemente stare lì, con rischi crescenti e grandi responsabilità, soltanto perché l'Italia, anzi, il Governo italiano deve stare dove sta Bush. Chi ha davvero a cuore una via d'uscita per un paese occupato militarmente, drammaticamente diviso, percorso dalla guerriglia, ferito dal terrorismo ogni giorno, sa che soltanto la sostituzione delle truppe occupanti con le Nazioni Unite, sostenute a loro volta da soldati di altri paesi, con un altro mandato, può cominciare ad indicare con fatica un futuro per quel paese così martoriato.
Per colmo di cinismo, voi nascondete però questa che è l'unica vera cosa chiara; la nascondete agli italiani, all'opinione pubblica, e pensate che invocare la buona volontà dei nostri militari, che sicuramente c'è, sia sufficiente a coprire una politica tragicamente sbagliata.
Io credo - e mi avvio a concludere, Presidente - che per questa ragione, compiuto il gravissimo errore di partecipare alla guerra in Iraq, ora non resti che un atto di saggezza (e a questo sono ispirati i nostri emendamenti): ritirare le truppe e lavorare perché sia possibile l'ingresso dell'ONU. Non vale evocare il caos, nel caso si allontanassero le truppe; il caos c'è adesso ed è evidente che l'ONU non è in condizione di portare soldati di diverse nazioni se restano le truppe dei paesi occupanti.
Questa è la decisione che dobbiamo prendere, una decisione molto seria e molto grave per il nostro paese, per il futuro del nostro paese. Non saprei come definire, se non con aggettivi che è meglio non adoperare nella sede parlamentare, la scelta di costringere il Parlamento a votare su questo, nascondendolo in un decreto che tratta di altre missioni, con tutt'altro segno e di tutt'altro significato. Non si spiega se non con la vostra volontà di travisare i fatti, di nascondere che quella non è una missione di pace, di nascondere le difficoltà del Governo, di nascondere la triste subalternità verso una grande potenza, una subalternità che noi non vedevamo per il nostro paese così esplicita da molti decenni.
Se faceste almeno il gesto di mostrare il viso, esponendo la vostra politica al voto del Parlamento, non rimediereste ai guasti che avete fatto, ma provereste almeno ad assumervene la responsabilità. Noi insisteremo perché voi lo facciate, anche se sappiamo che nascondervi fa parte della vostra politica. Spero che gli elettori sapranno giudicare (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-L'Ulivo).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Vendola. Ne ha facoltà.
NICHI VENDOLA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, nel cuore dell'antica Babilonia il Governo italiano ha inteso suggellare, sia pure nelle forme proprie della italica ipocrisia, la propria compiaciuta soggezione all'unipolarismo imperiale del Nordamerica dei Bush e dei «neocons».
Il voto di oggi enfatizza una forma inedita di servilismo atlantico e insiste nella ormai patetica mistificazione delle ragioni reali dell'ultima guerra irachena, sorvola con estrema disinvoltura sull'indotto di orrore e di brutalità delle operazioni militari angloamericane, si esprime ancora una volta contro la limpida voce di pace che unifica e plasma una nuova coscienza planetaria.
La vostra ideologia di guerra, quand'anche mascherata dalla retorica delle
«missioni bontà» e quand'anche tramutata in una sorta di televendita, non è capace neppure di leggere la cronaca dolente di questa Babilonia «post bellica». Se la realtà vi dà torto, voi semplicemente abolite la realtà, sottoponendola ad una sistematica opera di censura, di rimozione e di manipolazione.
È la domanda che torna come un chiodo fisso nelle nostre argomentazioni, ma è anche il chiodo fisso di tutte le vostre rimozioni: dove sono le armi di distruzione di massa nell'Iraq «liberato»? Dov'è quella micidiale pistola fumante che Saddam Hussein era pronto a posare sulla tempia dell'Occidente? Siccome quelle armi non ci sono, ma sono state un'invenzione, una balla colossale, una truffa epocale, alla cui costruzione ha concorso, per la sua parte, anche qualcosa che ha a che vedere con il Governo italiano e i suoi servizi, è bene, allora, chiudere qui il discorso.
E per voi non vale neppure ascoltare il petulante racconto di Hans Blix, il capo degli ispettori dell'ONU, che spiega, in un libro, quanta poca e infastidita attenzione vi fosse dalle parti di Washington sulle ispezioni in territorio iracheno. Non vi era alcuna volontà - questa è la verità - di verificare se ci fosse da qualche parte, sepolta in un deposito, quella pistola fumante.
La guerra era una decisione presa a prescindere (lo potevamo leggere nei libri dei pensatori dell'ideologia neoconservatrice, quei simpatici signori che ragionano con il revolver posato sulla Bibbia) perfino da quel Saddam che in altre epoche era pur stato un affidabile partner degli interessi americani.
Hanno fatto e voi avete condiviso una guerra al terrorismo di matrice islamica in Iraq, cioè in una nazione segnata da una storia di laicità nell'organizzazione statuale, nella costruzione della pubblica amministrazione, nella sua cultura diffusa.
La guerra è una dottrina che ha cominciato ad operare sullo scacchiere mondiale in termini di guerra preventiva e permanente. Si tratta di due aggettivi agghiaccianti e di portata storica, molto più grandi di quanto non dica il modesto dibattito che vive dentro le aule delle istituzioni (molto più alto è il dibattito che vive fuori da queste aule).
Se è preventiva, una guerra è sempre invocabile, perché si autolegittima, prevede la inessenzialità della diplomazia sovranazionale e straccia come cartaccia inutile tutti i codici del diritto internazionale.
Se è permanente, semplicemente la guerra soppianta la politica, ipoteca la democrazia, militarizza il diritto. Questa guerra, signori del Governo, è un progetto di governo del mondo, il passaggio scivoloso dal terreno dell'egemonia a quello del dominio da parte di una globalizzazione liberista che ha esaurito la sua spinta propulsiva e che vede drammaticamente e quotidianamente erodersi la sua capacità persuasiva.
Noi conosciamo bene i trucchi semantici con i quali voi nascondete le vostre responsabilità: l'abuso di paradossi linguistici, i deliziosi ossimori con i quali riuscite ad immaginare una guerra di pace, una guerra pacifista ed umanitaria, una guerra democratica.
Certo, una pace fatta di occupazione militare e di filo spinato, fatta non di una, ma di mille Guantanamo e di un immenso buco nero nella civiltà del diritto e delle garanzie. La pace afghana, ad esempio, sulla quale è calato l'oblio. Sarebbe interessante che qualche trasmissione televisiva, qualche talk show serale, qualche porta girevole nei sotterranei del potere raccontasse, di tanto in tanto, cos'è l'Afghanistan liberato di oggi o come funziona in quel caso il filo spinato, cosa significhi deportare interi villaggi e quale sia l'opera liberatoria delle truppe di occupazione. Oppure la pace irachena, certo, interrotta ogni giorno dal fuoco incrociato del terrore e dell'occupazione. Una pace di guerra si potrebbe dire capovolgendo il vostro ossimoro, dove appare normale, signori del Governo, anzi principi del garantismo, la violazione dei principi fondamentali che regolano il mondo moderno e della Convenzione di Ginevra.
Certo, l'Italia berlusconiana non ha potuto vedere molto in televisione le immagini
che si sono viste altrove di persone ferite, rese inermi ed assassinate con giubilo grande dai liberatori nordamericani, nell'Iraq di oggi. Non si sono viste le vestali del garantismo in questo caso stracciarsi le vesti. Lì, dove si spara normalmente anche sulle ombre, dove si abbattono i feriti, dove si deportano quelli sospettati di un terrorismo che la guerra non ha debellato, ma che ha piuttosto importato. Una pace di guerra e di affari, «spalmata» sul deserto civile di una nazione spezzata dalla vostra industria pedagogica della morte pubblica.
C'è una verità che la gente semplice in ogni parte del mondo ha intuito e compreso, che non intende occultare alla propria responsabilità. Mentre sventolano le bandiere sulle trincee televisive, mentre crepano tanti senza volto nelle retrovie della guerra vera, contemporaneamente qualcuno conta i numeri dei denari e dei voti elettorali. In fondo la patria può tornare comoda come spot propagandistico, ma anche come comodo riparo per petrolieri, moderni cowboy e mafiosi planetari.
La guerra è una porcheria: questo è il dato di fondo del vostro sistema massmediale, che cerca di cancellare ogni giorno la realtà di morte, brutalità, orrore, spavento e devastazione della vita civile, delle proprietà pubbliche, dei diritti dei bambini e degli animali. Questa realtà incombente e terrificante della guerra è semplicemente cancellata dai vostri mass media.
La guerra continua nella pace. Altro tema sul quale avremmo voluto vedere Giuliano Ferrara ed i ferrati esperti di garantismo esercitarsi è proprio questo: la guerra continua nella pace e nella vita civile, ad esempio con il dispositivo micidiale del patriot act, cioè di un codice che dagli Stati Uniti d'America rischia di espandersi in tutto il mondo e che prevede non la cattura per un terrorista, ma il sequestro per chiunque sia sospettato di terrorismo in un luogo non pubblico, dove non ha diritto ad una pubblica difesa, dove non ha i normali diritti di un detenuto. Si tratta di una sorta di emergenzialismo planetario, uno stato di emergenza che può riguardare il mondo intero, a cui noi ci ribelliamo.
In questi giorni, nonostante il livello un po' «casereccio» del dibattito istituzionale sulla guerra, molte carovane stanno attraversando la geopolitica della pace e della guerra; molte carovane stanno andando verso Baghdad, verso l'Iran imprigionato dalla casta sacerdotale degli integralisti islamici e che, invece, chiede libertà e democrazia. Molte carovane stanno andando verso quella Palestina a cui voi avevate promesso - anche per quello pareva che faceste le guerre - un immediato destino di pace e di benessere e che, invece, si trova ingabbiata nella modernissima vergogna di un muro che inaugura il nuovo secolo. Tante carovane stanno attraversando l'Italia intera, ad esempio la Sicilia di Sigonella, la Sardegna della Maddalena, la Puglia dove volete cancellare un parco perché resti, invece, un immenso poligono di tiro anche a disposizione delle ecomafie. Vi sono tante carovane per dire «no» alla guerra e per dire che il pacifismo non è l'abito della domenica, non è una messa cantata, non è l'omelia del Papa, ma è un'altra agenda della politica, è un altro principio di realtà, un'altra idea di governo del mondo.
Noi siamo contro quella che continuiamo a considerare una guerra illegale perché ha stracciato l'idea stessa di un diritto internazionale. È illegale in Italia perché in palese ed aperta violazione - se lo dice un uomo atlantico come Cossiga ci sarà da crederci! - con l'articolo 11 della Costituzione. Noi continueremo a disertare la vostra guerra e non diserteremo, invece, la pace. Non bisogna soltanto disertare la guerra, ma anche prendere con serietà l'appuntamento del 20 marzo e riempirlo di significati. Bisogna dare ai nostri gesti il segno della coerenza, sapere che la pace non è una retorica, ma una scelta cogente che implica la coerenza degli atti. Oggi la pace ci chiede di essere qui, nei luoghi in cui il popolo ci ha eletti, ad esprimere nel modo più coerente e determinato la voglia
di diserzione nei confronti della guerra che ci impedisce di disertare l'appuntamento con la pace.
Per tali motivi rimarremo qui in aula e voteremo «no» alla vostra sporca guerra (Applausi dei deputati dei gruppi di Rifondazione comunista e Misto-Comunisti italiani)!
PRESIDENTE. Saluto la scuola media statale «Leonardo da Vinci» di Mondragone, in provincia di Caserta (Applausi).
Ha chiesto di parlare l'onorevole Bogi. Ne ha facoltà.
GIORGIO BOGI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, penso si possa facilmente convenire sul fatto che il problema iracheno, ormai, ha il carattere di grande questione internazionale. Basterebbe citare la rilevanza economica dell'area, le condizioni della popolazione, lo scontro bellico interno che per vari aspetti sembra mirare ad una condizione di instabilità e ad obiettivi che superano l'ambito iracheno. Inoltre, vi è la stessa proposta di Costituzione provvisoria, tutt'altro che consolidata, ma che ipotizza pur sempre il venir meno di condizioni ostative all'evoluzione democratica e, cioè, il potere teocratico e la negazione dei diritti della donna.
Ma il dato veramente rilevante è che su questo problema, ancorché particolare, si confrontano le grandi linee di politica internazionale, influenti sull'ipotesi di equilibrio complessivo e sulla loro logica di governo ed inevitabilmente sulla opportunità, ma anche sui vincoli espliciti di principio nell'impiego della forza ed i rapporti con la giurisdizione dell'ONU. Intendo dire che, chiunque oggi voglia affrontare la questione irachena, deve farlo nel contesto di grandi linee di politica internazionale valide e con conseguenze che interessano ambiti ben oltre i confini dell'Iraq. Qualsiasi atteggiamento di contingente convenienza interna o di pregiudizio, che non attenga all'effettiva realtà attuale della questione irachena e alla considerazione del contesto internazionale, non può che allontanarne la soluzione. Occorre invece configurare la forza politica, ma anche economica e militare, per venire a capo del problema. Questo è il motivo per cui oggi, pur su un provvedimento, presentato in Parlamento molto focalizzato su un aspetto particolare, ha senso parlare di politica internazionale tout court ed ovviamente è inevitabile cominciare dalla politica del Governo.
Liberiamoci subito dal carattere di contingente di pace conferito alle nostre truppe in Iraq, perché esso stride con la rilevanza complessa del problema, ancorché formalmente correlato con il disposto costituzionale. È evidente che qualsiasi soluzione che prescinda dalla presenza statunitense, non può realmente affrontare non solo la questione irachena, ma, a maggior ragione, neppure quella dell'area medio orientale, come è stato sottolineato anche da un recente intervento di Abu Ala. Il nodo politico mi sembra, quindi, rappresentato dal ruolo dell'Unione europea e dai suoi rapporti con gli USA e da come questi configurino uno degli assi portanti dell'ipotesi di positivo equilibrio internazionale. Questo rapporto, che non può non essere basato sull'indispensabilità degli Stati Uniti, sia per forza oggettiva, sia per comunanza di elementi fondanti delle nostre società, non può comunque non prevedere una pari dignità dell'Unione europea (certamente non una posizione terza, come si suol dire).
Il peso ed il ruolo dell'Unione europea dipendono dalla sua unità nel perseguire linee di politica internazionale e questo ruolo appare oggi a molti indispensabile nel perseguimento di obiettivi di equilibrio internazionale, che superino le logiche unilaterali. È forse singolare, certamente particolare, che la stessa unità dell'Unione europea non appaia possibile senza un accordo con gli Stati Uniti, in un'alleanza di propositi e di comportamenti, ed è per questo che non hanno senso politico atteggiamenti dell'Unione europea di totale autonomia nel comportamento politico internazionale (l'ipotesi terzista alla quale mi riferivo prima). L'indispensabilità della
definizione del rapporto con gli USA in funzione dell'unità europea appare ben evidente, al punto tale da influenzare lo stesso percorso verso la nuova Costituzione dell'Unione europea. Basta osservare Polonia e Spagna, che oltre ad avere problemi di peso nelle modalità di decisione interna all'Unione europea, a tutela dei loro legittimi interessi, fanno del rapporto con gli Stati Uniti uno degli elementi nodali della loro politica.
L'attuale mancata unità dell'Unione europea in politica internazionale ne ha appiattito peso e ruolo. La posizione unilaterale dell'amministrazione USA dipende certamente dagli orientamenti della destra statunitense, giustificati con la minaccia terroristica, ma ha trovato nutrimento nelle posizioni nazionaliste della destra europea e nelle posizioni no global. La scelta del Governo italiano del prevalente rapporto diretto con gli USA, prescindendo marcatamente dal ruolo dell'Unione europea, esprime chiaramente la logica non europeistica della maggioranza di Governo - ciò spiega bene le dimissioni del ministro Ruggiero (il primo ministro degli affari esteri del Governo Berlusconi) -, anche nella presenza internazionale, ed ha certamente carattere di scelta di linea politica, oltreché di ricerca di un messaggio teatralmente e marcatamente filo occidentale, a scopo propagandistico.
È questa, tuttavia, la vera debolezza della politica internazionale del Governo che gli ha tolto ruolo e forza per incidere sul comportamento dell'Unione europea, elemento invece, come dicevo, indispensabile nell'evoluzione degli equilibri internazionali. Gli incontri tra Gran Bretagna, Francia e Germania possono, forse, far ipotizzare logiche di direttorio nell'Unione europea, ma sembra non arbitrario immaginare o pensare di usare questi rapporti per contenere la posizione nazionalista francese da parte soprattutto della Gran Bretagna (ma non solo) e, quindi, tendere ad una ricomposizione del rapporto con gli Stati Uniti.
La scelta del rapporto bilaterale con gli Stati Uniti misura, perciò, la miopia della visione del Governo, a fronte dell'insuperabile divario di potenza e di mancanza di una visione di riequilibrio delle influenze. L'evoluzione multilaterale dell'iniziativa politica internazionale deve essere l'obiettivo dell'Unione europea; la sua unità ed il rapporto di pari dignità, con riferimento alle indispensabili relazioni con gli Stati Uniti, sono uno dei cardini della politica internazionale, ovviamente anche in riferimento alla questione irachena.
In questo quadro, è possibile reimpostare il problema dell'impiego della forza e quello del suo rapporto con la giurisdizione ONU. Un esempio degli effetti positivi del rapporto fattivo fra Stati europei e Stati Uniti si è riscontrato nel convincere l'Iran ad accettare le ispezioni dell'Agenzia dell'ONU per la sicurezza atomica.
Nel quadro di questo ragionamento, il pregiudizio antiamericano e l'enfasi pacifista (non intendo con ciò sottovalutare la pace e la pressione per la pace come strumento in sé di comportamento politico), impediscono oggi di soddisfare contemporaneamente la domanda di pace e quella di governo dello scacchiere internazionale. Non si tratta certo di avallare qualsiasi atteggiamento dell'amministrazione statunitense, ma di avere chiaro che i comportamenti unilaterali, così come il pregiudizio antiamericano, ostacolano il perseguimento di ipotesi di equilibrio internazionale.
Il problema iracheno non è isolabile, fosse pure sulla scorta di principi pacifisti ed umanitari, dal contesto della situazione dell'area mediorientale e dello scacchiere internazionale: un errore ancora più grave sarebbe quello di focalizzare il problema su una parte della questione irachena. In realtà l'impostazione impotente del Governo, da questo punto di vista, sposta responsabilità rilevanti sull'opposizione.
Come è perseguibile l'avvio del superamento della questione irachena nel contesto di una coerente politica internazionale? È una domanda che sembra sensato rivolgere al Governo. La politica è spesso costellata da occasioni, colte o perdute, di esprimere linee politiche e comportamenti conseguenti. Non sembra il caso di perdere ora queste occasioni!
È indispensabile, innanzitutto, non farsi vincolare a situazioni non più legate alla soluzione effettiva del problema. Senza cinismo alcuno, il problema non è la presenza o meno di militari italiani, ma gli obiettivi del mantenimento o del ritiro di essi. In questo momento l'Iraq è soggetto di una guerra interna che, come accennavo, sembra mirare alla sua instabilità, mentre è stata varata una Costituzione provvisoria che appare come una vera apertura di evoluzione democratica del paese.
Tenete conto che la democrazia, come noi oggi la conosciamo, è il risultato di un processo evolutivo durato 200 anni da quando ne fu prospettato il percorso. Pretendere dal mondo arabo l'istantaneo passaggio alla democrazia è semplicemente paradossale. Tuttavia, il contenimento del potere teocratico ed il riconoscimento dei diritti delle donne rappresentano la condizione necessaria perché si apra il percorso di evoluzione democratica.
La costituzione provvisoria è tuttora da consolidare, così come la pacificazione del paese, ma occorre tenere conto di un fatto: il terrorismo ha una sua logica autonoma e non necessariamente reattiva ad iniziative statunitensi o genericamente occidentali.
Da questo punto di vista, il ritiro immediato dei militari appare come un obiettivo astratto identitario ma astratto, mentre il riferimento al mese di giugno, in relazione anche alla Costituzione provvisoria, appare complessamente concreto sotto il profilo della riconsiderazione della questione e del suo inquadramento in ambito ONU.
Non si tratta di rinunciare, appunto, al giudizio sull'iniziativa statunitense nella guerra in Iraq, ma di porsi il problema dell'equilibrio effettivo del governo politico della situazione.
L'Amministrazione USA, in questo momento, si trova certamente in difficoltà; quindi, l'obiettivo della multilateralità, mediante l'effettiva azione politica dell'Unione europea, appare un obiettivo credibile che tuttavia richiede impegno pieno e non disimpegno.
Il ritiro immediato delle nostre truppe sarebbe irrilevante nel momento in cui cresce l'impegno dell'ONU per inquadrare nuovamente la questione e Germania e Francia attenuano la distanza dagli Stati Uniti in vista di una guida politica non unilaterale, contestualmente ai problemi dello scacchiere internazionale, e mentre la pressione dei new democrats si fa forte negli USA nella critica all'amministrazione Bush.
La sostanza è che se noi, con riferimento alla questione irachena, non riusciamo a definire un'iniziativa politica ben precisa nei suoi obiettivi di fondo e coerente, che prescinda dagli elementi contingenti non inquadrabili in queste linee, avremo usato la questione irachena prevalentemente per motivi interni e non per fornire una soluzione ad un grande problema di equilibrio internazionale (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-L'Ulivo).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Pecoraro Scanio. Ne ha facoltà.
ALFONSO PECORARO SCANIO. Signor Presidente, colleghi, inizierò questo intervento leggendo la lettera di un carabiniere inviato nella base di Nassiriya e sopravvissuto all'attentato. Tale intervento è riportato sul sito ReporterAssociati ed è stato diffuso anche dall'Unione dei carabinieri italiani; tra l'altro, chi vorrà farlo, potrà seguire tali vicende sul sito www.carabinieri.it.
I colleghi parlamentari, durante questo dibattito, dovrebbero aver chiaro quale sia lo stato d'animo delle nostre Forze armate, inviate, senza alcuna capacità di verifica delle condizioni reali, in quella che, definita in modo falso e irresponsabile una missione umanitaria, in realtà è un'azione di guerra in un teatro di guerra.
Leggo la lettera: «Sono un carabiniere, il mio grado non è importante e il mio nome neppure. È importante quello che cercherò di scrivere su di noi carabinieri
inviati a Nassiriya, in Iraq. Sono uno di quelli che è sopravvissuto all'attentato contro la base italiana il 12 novembre 2003».
Pregherei i colleghi di prestare un po' di attenzione. So che questo Parlamento, spesso, è un luogo di chiacchiere, tuttavia, dovendo deliberare sul prolungamento di una missione nella quale già abbiamo subito delle perdite - si tratta di giovani mandati dal Governo italiano in quella missione - e disponendo, da ieri, di una testimonianza diretta di uno di questi giovani che, nonostante la vigenza di un codice militare, dice qual è la situazione della realtà in cui sono stati inviati, forse questo Parlamento ha il dovere di essere meno irresponsabile, cercando di operare scelte non con tattiche da quattro soldi e di bassa politica, ma pensando davvero che a queste scelte corrispondono le vite di persone in carne ed ossa.
Continua il carabiniere: «Ci tengo a dire che quanto leggerete l'ho scritto perché mi sono sentito in dovere di farlo in memoria dei miei colleghi deceduti nell'attentato. Lo faccio perché ero convinto che le inchieste amministrative e penali, aperte nei giorni successivi l'attentato contro il contingente italiano, avrebbero portato ad accertare manifestatamente responsabilità specifiche, i nomi e il ruolo dei responsabili sulla mancata sicurezza delle nostre condizioni di vita nella base di Nassiriya». Poi prosegue raccontando le condizioni pazzesche in cui i carabinieri erano alloggiati, in quella che da loro stessi, in questa lettera, viene definita «Animal House».
Leggo ancora degli stralci che, peraltro, potrete riprendere sul sito ReporterAssociati: «Siamo sbarcati all'aeroporto di Tallil per una "missione umanitaria di guerra", così la definisco io, quasi un controsenso, perché dopo quattro mesi che eravamo nel teatro di guerra ancora non riuscivamo a capire, né a sapere, quali erano e dovevano essere esattamente i nostri compiti. Appena dentro l'aeroporto ci hanno fatto firmare subito un foglio sul quale era scritto che eravamo sottoposti (qualora si fosse verificato un episodio contemplato nel codice penale militare), al C.P.M. di Guerra (codice penale militare di guerra)» perché appunto in missione di guerra e non missione umanitaria.
E prosegue: «Grande stupore e meraviglia da parte di tutti noi: eravamo in un territorio dove la guerra era appunto considerata tale, e non già terminata come ufficialmente proclamato ai quattro venti. E la nostra presenza era necessaria, quindi, per aiuti umanitari o per altri scopi che non conoscevamo? Non l'abbiamo mai saputo. Ci siamo trovati di fatto soggetti al codice penale militare di guerra pur essendo considerati in tutti i sensi, sia professionale che economico, in tutt'altro modo. (...) I disagi nell'aprire una nuova missione ci sono sempre stati e sempre ci saranno. Non è stato questo il problema più importante (...). Si dormiva in tende con 50-55 gradi di calore durante il giorno e senza condizionatori d'aria. Ma questo non era un problema, siamo carabinieri e soldati e quindi bisognava adattarsi. Andava bene così. Non siamo mai riusciti a consumare due pasti completi durante il giorno (...). Ma andava bene così. Non ci si poteva lavare con acqua pulita perché quella dei lavandini e delle docce era di colore marrone scuro. Non era un problema, andava ancora bene così. Tanti sono stati i problemi che abbiamo dovuto risolvere nelle prime settimane (...). Ma il problema numero uno, il problema che avevamo sotto gli occhi ogni ora del giorno (...) era quello della posizione logistica della base che qualcuno, chissà come, definiva "strategica". Eravamo nel pieno centro abitato, dislocati in due edifici. Uno era la Camera di Commercio e l'altro il Museo. A dividerci, il fiume. Alcuni di noi andarono al Museo altri invece nella Camera di Commercio che subito soprannominammo Animal House, (il perché è facile a capirsi). L'intera unità di manovra, che poi è stata decimata dall'attentato terroristico del 12 novembre, si trasferì al di là del fiume. La sicurezza non era decisamente il punto forte di queste due basi. Erano vulnerabilissime. Come poi si è potuto vedere. Io ne sono uscito vivo ma le ferite che ho dentro di me da quella
mattina le porterò per tutta la vita. Il mio cuore, da quella maledetta mattina del 12 novembre è come se fosse diviso in 19 piccole parti, ognuna delle quali gronda sangue e amarezza. Perché quelle morti potevano benissimo essere evitate. Come? Trasferendoci, ad esempio, in una base nel mezzo del deserto, come era accaduto per dislocare il contingente italiano dell'esercito e come era stato fatto in precedenza dalle forze armate degli Stati Uniti. E come, purtroppo, è stato fatto solo adesso dopo la strage.
«Dovevamo essere in mezzo alla gente, tra la popolazione civile irachena. Era questo lo scopo della nostra missione. La popolazione doveva sentirsi protetta da noi carabinieri che eravamo di stanza a pochi passi dal centro abitato. Con la popolazione da subito eravamo riusciti ad instaurare un buon rapporto di collaborazione, ma, secondo il nostro parere, avremmo potuto ottenere il medesimo risultato anche se, con una maggiore prudenza, (...)». Questo carabiniere italiano sopravvissuto alla strage di Nassiriya scrive inoltre: «Io non ci sto alle spiegazioni ufficiali. Io non ci sto a tacere sull'assoluta mancanza di sicurezza nella quale siamo stati costretti ad operare. Non può esserci alcuna giustificazione per quello che è accaduto. Ripeto: la strage del 12 novembre 2003 si sarebbe potuta evitare. E si poteva evitare. Fin dai primi giorni della nostra permanenza a Nassiriya, nella base «Animal House», udivamo sempre più frequentemente il rumore inconfondibile dei colpi d'arma da fuoco. Ci veniva spiegato, per tranquillizzarci, che si trattava solo di colpi sparati in aria per motivi di festa, in genere in occasione di matrimoni. E ci rendemmo conto, familiarizzando con i luoghi e la popolazione, che in parte questa spiegazione era vera. Ma non del tutto. Presto ci rendemmo conto che molti altri colpi venivano sparati volutamente contro le palazzine della base. Allora cosa abbiamo fatto? Autonomamente ci siamo resi conto ed abbiamo compreso che se quella, proprio in quei luoghi tanto pericolosi, doveva essere la nostra base, doveva essere dotata di minime dotazioni di sicurezza. E così abbiamo fatto da soli, in alcuni casi in modo persino artigianale, al fine di poter cercare di limitare le conseguenze peggiori in caso di un eventuale attacco terroristico. Purtroppo, quello che avevamo costruito con le nostre mani è servito solo a risparmiare la vita di pochi di noi perché le dotazioni che ci eravamo dati da soli non potevano far nulla di più di quanto hanno fatto davanti a un attacco terroristico della portata di quello che abbiamo subìto.
Ogni giorno sapevamo che c'erano almeno tre o quattro messaggi di «allerta» per attacchi terroristici. Ma, ragazzi, eravamo in guerra (altro che missione umanitaria!) ed era quindi normale routine ricevere «allerta» di quel tenore».
Ebbene, la lettera di questo carabiniere sopravvissuto all'attentato di Nassiriya dovrebbe essere sufficiente a spiegare al Parlamento quanto sia vergognosa l'ipocrisia che esiste nel dibattito sulla vicenda irachena, quanto sia patetico e penoso parlare ancora di missione umanitaria e quanto tale definizione sia indecente, vergognosa e offensiva proprio nei confronti dei nostri caduti a Nassiriya e della tragedia costituita dalla guerra in atto in Iraq.
Stiamo assistendo a un dibattito bizantino su una vicenda gravissima, quale la guerra in atto e la menzogna che il Governo ha riferito al Parlamento quando ne ha chiesto il voto per una missione umanitaria, ben sapendo che la guerra non era finita.
Chiediamo di porre fine a una farsa tragica: la missione in Iraq non è umanitaria, il Governo non è stato in grado di garantire alcuna sicurezza ai soldati inviati in una missione di guerra e si è irresponsabilmente preoccupato soltanto di raccontare scuse di facciata. Si è parlato in quest'aula, mentendo al Parlamento, di una missione umanitaria con compiti di scorta per gli aiuti e per un ospedale da campo a Bagdad (tale ospedale è stato ridicolizzato a livello internazionale, perché a Bagdad non erano necessarie strutture ospedaliere, già esistenti, bensì medicinali). La missione non ha mai
svolto tali compiti, ma è stata dislocata in un'altra zona e si è messa al servizio del comando britannico, nell'ambito di quella che viene definita occupazione militare da tutti gli osservatori internazionali indipendenti.
Pertanto, il Governo - peraltro in modo ipocrita, senza sostenere esplicitamente la scelta, seppure irresponsabile, della guerra, e, dunque, mentendo al Parlamento - ha inviato i soldati italiani, senza alcuna misura di sicurezza, a morire in una guerra che non si ha neppure il coraggio di definire tale. Di fronte alla richiesta di sostegno e di rifinanziamento di questa missione, sarebbe da parte nostra irresponsabile non dire con chiarezza «no» al decreto-legge in esame e non chiedere, coerentemente con quanto previsto dall'articolo 11 della Costituzione sul ripudio della guerra, il ritiro della missione stessa. Riteniamo che tale richiesta di ritiro sia doverosa, in quanto di fronte a un atto di verità da parte di uno dei parlamenti della coalizione i falchi dell'amministrazione Bush possono essere indotti almeno ad ipotizzare il cambiamento della propria strategia in Iraq (essi infatti non prendono neppure in considerazione la possibilità di farsi sostituire dalle Nazioni Unite).
Se non vogliamo continuare il gioco delle parti, non possiamo affermare che stiamo discutendo del possibile intervento dell'ONU. Tutti coloro che si sono opposti alla posizione avventurista del Governo, oggi dovrebbero non soltanto opporsi al prolungamento di questa avventura tragica sulla pelle di giovani italiani in una situazione di rischio, ma anche chiedere il compimento di un atto che rompa la statu quo, perché lo statu quo in Iraq è costituito da centinaia di morti ogni settimana (e a volte addirittura in un solo giorno).
Se mettiamo la testa sotto la sabbia e facciamo finta di non comprendere ciò che sta accadendo, siamo un Parlamento di struzzi! Perfino le associazioni dei carabinieri si espongono pubblicamente, andando incontro alle conseguenti difficoltà, per chiedere il ritiro! È possibile che le opposizioni siano da meno rispetto alle richieste delle associazioni dei carabinieri?
È possibile che nel centrodestra non vi sia qualcuno che, in piena crisi di coscienza, si renda conto che stiamo mandando al massacro la legalità internazionale e la nostra Costituzione? Stiamo creando le condizioni - folli - di mantenere in vita un'avventura con una leggerezza e una superficialità pari solo all'arroganza del nostro Governo. Questa avventura è stata sostenuta dal Governo perché i suoi rappresentanti pensavano che l'operazione, tutto sommato, sarebbe stata facile poiché la guerra era finita e che da essa si sarebbe potuto incassare qualche vantaggio economico.
Come Verdi, come cittadini e come rappresentanti del popolo, vogliamo richiamare l'attenzione di tutti i nostri colleghi - di centrodestra o di centrosinistra -, affinché usino la ragione e non si rechino in Parlamento solamente per spingere un bottone.
Di fronte a ciò che accade in Iraq e alle dichiarazioni dei primi carabinieri rientrati dalla missione - gli stessi soldati in nome dei quali si porta avanti una «patriottarda» retorica che si contrappone al rispetto che ognuno di noi deve avere nei confronti della propria nazione - vi chiediamo un atto di coscienza consistente nella richiesta, rivolta al Governo, di porre termine a questa missione avviata in modo irresponsabile. Nello stesso tempo, ci auguriamo che anche l'opposizione, invece di stare attenta ai bizantinismi delle modalità di voto, si esprima in modo chiaro contro l'approvazione di questo provvedimento e a favore del ritiro delle truppe (Applausi dei deputati del gruppo Misto-Verdi-L'Ulivo).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Crucianelli. Ne ha facoltà.
FAMIANO CRUCIANELLI. Signor Presidente, essendo già intervenuto ieri in sede di discussione sulle linee generali, non ho la necessità di ribadire alcuni concetti di ordine generale. Dunque, il mio
intervento si limiterà ad esporre il contenuto degli emendamenti che abbiamo presentato.
In premessa - lo ripeto ossessivamente perché credo sia giusto - debbo dire che è una responsabilità colpevole del Governo e della maggioranza non aver accettato l'ipotesi di una separazione dell'articolo 2 dal resto del provvedimento. Si tratta di una responsabilità colpevole perché, in questo modo, si è voluto evitare un dibattito con le caratteristiche della trasparenza e delle necessarie conseguenze.
Detto questo, gli emendamenti che abbiamo presentato hanno una doppia funzione: tendono, innanzitutto, a modificare il provvedimento in esame e, in secondo luogo, vogliono sopprimere l'intero articolo 2.
Gli emendamenti all'articolo 1 - che mutano, o pretendono di mutare, il provvedimento - prendono in considerazione la natura della nostra missione.
Quando in Parlamento si decise di promuovere l'intervento in Iraq, il dibattito che ne conseguì fu un dibattito truccato, perché il Governo e la maggioranza ci riferirono che eravamo di fronte ad un missione umanitaria. Si sostenne che l'opposizione - contraria alla missione - si stava esprimendo negativamente nei confronti di un atto umanitario. Ebbene, tutti gli emendamenti che abbiamo presentato intendono rafforzare ed esaltare la natura umanitaria della nostra missione.
Sono emendamenti che vogliono rendere trasparente anche tutta la normativa che dovrebbe presiedere alla cosiddetta ricostruzione. Questo è un capitolo molto delicato e anche di grandissimo rilievo. Esso riguarda molto poco le aziende italiane che, come sappiamo, sono assolutamente marginali anche nei progetti della ricostruzione, mentre riguarda molto gli inglesi e gli americani che, non a caso, sono impegnati in una discussione molto aspra. Il The Guardian parla di un incontro a Washington tra i vertici amministrativi inglesi e quelli americani che ha per oggetto non le grandi strategie globali, ma il monopolio delle aziende americane sulla ricostruzione in Iraq. Tuttavia, noi intendiamo ribadire comunque che, pur nella marginalità, è e sarebbe di grande importanza la trasparenza rispetto a tutto ciò che lì può accadere sul versante degli appalti e della ricostruzione, ed è incomprensibile come su questo punto vi sia un atteggiamento ostile da parte della maggioranza.
Il punto più delicato, e anche francamente incomprensibile nell'atteggiamento della maggioranza, è il rifiuto di un emendamento, peraltro a mia firma, nel quale poniamo con estrema nettezza e chiarezza - lo ripeto per l'ennesima volta, sottosegretario Mantica -, la separazione fra l'attività degli organismi non governativi e il resto della missione. È questo un capitolo molto importante, che ci è stato più volte richiesto da chi opera sul campo. E le ragioni che ci portano a fare questa richiesta sono del tutto evidenti. Ci sono ragioni di sicurezza, perché è chiaro che la promiscuità e la commistione tra un'attività unicamente e cristallinamente di cooperazione e di presenza umanitaria ed una missione che, al di là delle parole, ha una vocazione o comunque una obiettività militare pone un problema di sicurezza anche per i nostri volontari che lì stanno operando nel campo umanitario.
Vi è poi una questione di efficacia. È del tutto chiaro che, in un contesto come quello iracheno, l'efficacia di un'azione umanitaria dipende in grandissima parte dalla possibilità di interloquire con la popolazione locale in modo che si stabilisca un rapporto di fiducia fra chi opera sul versante umanitario e la popolazione locale. Ora, è del tutto evidente che, se non si ha una netta separazione tra la missione che vede una presenza militare e chi opera invece unicamente nel campo umanitario, è molto difficile garantire l'efficacia e la possibilità di comunicazione, nonché la possibilità di intervento nei confronti della realtà e del popolo iracheni. Quindi, vi è anche una ragione che attiene all'efficacia dell'iniziativa umanitaria.
Vi è inoltre anche un problema di principio. Noi sappiamo quanto la cooperazione sia in difficoltà e mi auguro che quanto prima, sia in Commissione sia in
quest'aula, si possa discutere organicamente della cooperazione e non soltanto frammentariamente in occasione dell'esame del bilancio e della legge finanziaria. Tuttavia, se l'attività di cooperazione, e in particolare l'attività di cooperazione non governativa, non ha una totale separazione, visibile e reale, rispetto ad una presenza che ha anche una vocazione militare, è evidente a tutti il colpo che si dà alla cooperazione stessa. Pertanto, ci sono diversi motivi che ci portano a sostenere questa netta separazione.
Voglio dire anche - lo aggiungo perché non è materia estranea - che sempre su The Guardian è stata pubblicata una straordinaria inchiesta dove si testimonia di come sia in corso una strisciante ma corposa privatizzazione della guerra. Circa il 30 per cento delle risorse del bilancio che gli Stati Uniti d'America hanno messo in campo per intervenire in Iraq vanno nella direzione di agenzie, aziende ed attività di privati che si occupano della logistica, della formazione e anche di operazioni vere e proprie sul campo. Quindi, è ora molto evidente, o dovrebbe esserlo, che una separazione da tutto ciò che si muove in modo promiscuo o in modo molto chiaro sul terreno militare rappresenta assolutamente una necessaria condizione per la sicurezza e per l'efficacia della nostra iniziativa nel campo umanitario.
Tra gli emendamenti che abbiamo presentato all'articolo 1, abbiamo sottolineato anche la necessità di un coordinamento diverso, che chiami in causa tutti i protagonisti della nostra presenza - che è umanitaria in primo luogo - ed esalti quindi questa vocazione autonoma collegata con le Nazioni Unite. Chiediamo anche, come già abbiamo fatto per la missione precedente, un aumento delle risorse, affinché si possa avere una cooperazione umanitaria reale e non semplicemente fittizia. Questo è un pacchetto di emendamenti sui quali il Governo avrebbe fatto bene a riflettere con più cura e un ordine di problemi ai quali avrebbe fatto bene a dare una risposta.
Vengo rapidamente - e concludo - al tanto discusso articolo 2. Noi chiediamo la soppressione di questo articolo e il perché è del tutto evidente: si tratta di una materia diversa, non perché le altre non siano missioni, ma perché questa missione si situa in un contesto del tutto particolare, al di fuori degli organismi multilaterali, un contesto che continua ad essere un teatro di guerra e per questo avrebbe meritato e meriterebbe una discussione separata.
Tra le proposte emendative presentate all'articolo 2 vi sono emendamenti soppressivi ed emendamenti che intervengono sulla natura della nostra missione e sulla necessità di un ritiro della missione stessa (come chiedono alcuni di essi, anche a mia firma). Questa discussione sarebbe stata tutt'altra cosa se avessimo potuto svolgerla alla luce di un bilancio di quanto è accaduto nell'area interessata, perché in realtà la discussione che ci propongono il Governo e la maggioranza - quando sporadicamente i suoi rappresentanti intervengono in quest'aula - è una discussione squisitamente ideologica, che però non va a misurare quella che è stata la storia reale che si è verificata prima in Afghanistan e poi in Iraq.
Se andiamo a vedere i fatti che si sono verificati, emerge con estrema nettezza che gli obiettivi che si era proposto chi ha voluto e ha fatto questa guerra sono falliti sul campo. Era una guerra che voleva combattere il terrorismo e, in realtà, ha ormai determinato una presenza strutturale del terrorismo in quei luoghi. Non solo, si tratta di una guerra che ha rischiato e rischia continuamente di innescare un processo di disgregazione dell'intero paese.
Io saluto, spero con un ottimismo non fesso - per dirla alla romana -, la Costituzione provvisoria che è stata firmata; tuttavia, non soltanto essa viene già messa in discussione nel momento in cui viene approvata, ma è del tutto evidente che, alla prova dei fatti, quella Costituzione incontrerà molti problemi. I fatti concreti, al di là degli atti formali che abbiamo di fronte, testimoniano come gli obiettivi che
ci si era prefissati non soltanto non si sono raggiunti, ma hanno finito per moltiplicare i danni, hanno finito per moltiplicare, come molti di noi dicevano, i problemi di quell'area.
Infine, vi è un risultato negativo, pessimo, che viene molto poco analizzato e molto poco considerato ed è la mortificazione che la nostra democrazia e i nostri principi fondamentali hanno subito in questa guerra. Non mi riferisco tanto e soltanto al fatto che questa guerra avviene al di fuori del diritto internazionale e, per quanto riguarda l'Italia, al di fuori dalla nostra stessa Costituzione, ma al fatto che questa guerra nasce - ormai è assolutamente chiaro - dietro un grande imbroglio: il ragionamento, le prove, tutto ciò che è stato portato nel fuoco delle ragioni che poi hanno determinato la guerra si è rivelato un grande, colossale imbroglio; e questo, badate, ha una ricaduta mortale sui principi che dovrebbero sventolare sulle nostre bandiere in quella terra. Ecco perché noi diciamo non soltanto che la guerra che abbiamo contrastato e contestato era e resta sbagliata, ma anche che le ragioni che sono state portate a sostegno della scelta del Governo per la missione militare sono infondate ed erronee.
In conclusione, voglio anche dire che, come alcuni di noi sostengono, sarebbe necessario e opportuno che la nostra missione militare rientrasse quanto prima.
Vedete, c'è solo un motivo che potrebbe indurre a ragionare intorno alla possibilità di una permanenza delle nostre truppe in Iraq: vedere all'orizzonte la possibilità concreta di una svolta, il fatto cioè che noi lì presenti potremmo incoraggiare, accompagnare, in qualche misura anticipare una svolta che si vede all'orizzonte. Ebbene, io credo che di tutto ciò non vi sia neanche l'ombra. L'unica vera drammatica svolta verificatasi sul campo è stata di fatto la cancellazione della risoluzione n. 1511 delle Nazioni Unite, che doveva aprire le porte ad una svolta in Iraq. Questa risoluzione è stata bruciata nei fatti; ecco perché oggi il messaggio più chiaro, la risposta più coerente che noi possiamo dare all'amministrazione americana, al Presidente Bush, che si è reso responsabile di una guerra inutile e dannosa, che si rende responsabile di una teoria, quale quella della guerra preventiva che lo stesso Soros ha definito inquietante per gli Stati Uniti e per il mondo, è l'isolamento di quella strategia e, quindi, l'isolamento anche sul campo in Iraq.
Per tutti questi motivi, sarebbe un atto di grande sapienza e realismo far ritornare le nostre truppe in Italia (Applausi dei deputati del gruppo Democratici di sinistra-L'Ulivo).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Titti De Simone. Ne ha facoltà.
TITTI DE SIMONE. Presidente, la guerra in Iraq continua a produrre morte, disastri e violenze di ogni tipo, anche grazie al contributo ed all'impegno che questo Governo ha dato e che si accinge a riconfermare con la conversione del decreto-legge che proroga la missione militare in Iraq. Un decreto-legge che anche nella forma pare del tutto inaccettabile, laddove si presenta come un unico contenitore indifferenziato senza la possibilità di una discussione specifica e senza, dunque, la possibilità di una assunzione di responsabilità specifica sia nel voto sia nella decisione.
Questa guerra è stata pensata, è stata ideata, è stata portata avanti e protratta sine die per nessuna delle ragioni per cui hanno finto di volerla organizzare, in cui fingono di credere ancora i signori della guerra, continuando ad accreditare bugie, colossali menzogne, contro ogni evidenza dei fatti. La missione Antica Babilonia era e si conferma una missione di guerra. Noi abbiamo assistito, e siamo indignati per questo, ad un colossale e vergognoso castello di menzogne, costruito ad hoc dall'amministrazione Bush per legittimare, accreditare e giustificare la guerra di fronte all'opinione pubblica mondiale che non la voleva, non gli ha creduto, non gli crede e continua a non volerla. Lo fa in Italia, in Europa, in gran parte del mondo e dell'Occidente insieme all'altra America, che pure esiste e di cui abbiamo sentito
una forte voce, quella che non si è resa subalterna al sentiero di guerra del Presidente Bush ed oggi reclama uno sbocco politico nelle relazioni internazionali.
Dove sono, Presidente Berlusconi, le armi di distruzione di massa? Non era forse questo il motivo per cui avete scatenato una sporca guerra? Menzogne! Menzogne anche le vostre, come quelle del Presidente Bush e del Primo ministro Blair, per far credere che il regime di Baghdad stesse tentando di procurarsi uranio dall'Africa per i suoi laboratori!
Come hanno già ricordato altri colleghi, il capo degli ispettori incaricati dall'ONU di verificare se in Iraq vi fossero davvero armi di distruzione di massa, Hans Blix, ha ricostruito proprio di recente, in un importante ed interessantissimo libro, tutto il lavoro di squadra svolto dagli ispettori. Ebbene, egli ha denunciato che, durante il loro lungo periodo di presenza in Iraq, gli ispettori dell'ONU furono soggetti a pressioni estreme, giochi sporchi e tranelli, perché gli Stati Uniti d'America non volevano affatto che avesse luogo un'ispezione vera ed indipendente dalla loro volontà: gli Stati Uniti d'America avevano deciso che quella guerra andava fatta a tutti i costi e che niente - nemmeno l'ONU ed i suoi ispettori incaricati di fare luce - li avrebbe fermati!
Blix e gli altri ispettori sono stati sottoposti ad una pressione incredibile, esercitata dall'amministrazione americana affinché gli ispettori accettassero le informazioni passate dai servizi segreti americani e le includessero nelle loro conclusioni!
Noi sappiamo che l'Iraq è stato dominato da un regime crudele. Si trattava, però, di un regime che aveva potuto radicarsi e legittimarsi nel paese anche grazie all'aiuto fornito - in altri tempi, quando era comodo utilizzare l'Iraq ed il regime di Saddam Hussein - da chi, poi, lo ha descritto come la metafora di ogni male, da chi prima lo ha armato e poi lo ha scaricato!
L'Iraq non era crocevia della rete internazionale dei gruppi terroristici di ispirazione islamica: Saddam Hussein può essere incolpato di molte violenze e nefandezze, ma non di coltivare alleanze o di avere progetti con Bin Laden. Siete voluti andare a fare una guerra contro il terrorismo; invece, avete creato terrorismo dove non ce n'era!
Dietro la guerra di Bush vi sono altre ragioni, altre motivazioni, altre radici, altri obiettivi, peraltro per nulla segretati, dal momento che gli Stati Uniti dichiarano, senza mezzi termini, cosa vogliono fare e qual è il loro target. Loro fanno quello che vogliono: sono loro la fonte della legalità e della legittimità internazionale! Per questo, hanno piegato ai loro scopi anche il diritto internazionale e lo stesso ruolo dell'ONU!
Il documento sulla «Strategia per la sicurezza nazionale» del settembre del 2002 o il discorso sullo stato dell'Unione del gennaio dello stesso anno o, ancora, il discorso tenuto dal Presidente Bush, il 1o giugno del 2002, alla cerimonia di fine corso dell'Accademia militare di West Point non erano affatto il frutto di una reazione spontanea agli attacchi dell'11 settembre. Al contrario, essi costituivano gli elementi di una mossa molto abile: lo scopo era quello di sfruttare l'impatto emotivo degli attacchi alle Torri gemelle, di realizzare un passo decisivo di una strategia molto precisa e di arrivare, alla fine, al salto, nefasto e mortifero, di qualità.
Credo che il Parlamento di un paese libero e democratico come il nostro dovrebbe discutere non di retorica e delle buone azioni dei nostri militari, ma dei punti strategici di questa dottrina, della politica internazionale e delle ragioni connesse a tali nodi nel ricorso all'uso della forza militare da parte dello Stato.
Quanto sta avvenendo in Iraq offende ed umilia l'articolo 11 della Costituzione, ma molti di voi - e lo sanno bene - della Costituzione repubblicana se ne infischiano, anzi, come il Presidente del Consiglio, la ritengono soltanto un impiccio. Ma la vostra guerra è costituzionalmente illegittima e costituisce un colpo durissimo alla legalità internazionale.
La dottrina di Bush è la pietra tombale di ogni possibilità di convivenza tra i popoli del mondo. Enduring freedom e la guerra preventiva contro l'Iraq sono entrambe all'interno di questa strategia mirata a fare degli Stati Uniti d'America l'unica superpotenza mondiale senza rivali, una strategia che mira ad installare un forte controllo nel teatro centro asiatico e medio orientale per le sole ragioni di accaparramento di risorse e del controllo del territorio.
Tali questioni non possono accettare sconti su niente da parte di nessuno. Non si può ridurre l'articolo 11 della nostra Costituzione ad una sola opzione etica che ne depotenzia la forza di vincolo prescrittivo costituzionale, come fa gran parte del centrosinistra.
Non è accettabile il finto realismo di chi sostiene l'inopportunità di ritirare subito il contingente italiano perché non si sa ciò che potrebbe accadere in quelle zone, in quei territori. Ma noi sappiamo cosa sta succedendo in quei territori e cosa le truppe occupanti stanno facendo: stanno imbastendo le condizioni di un solido e duraturo controllo degli americani sull'Iraq.
Per queste ragioni, il ritiro immediato dei militari italiani, l'impegno contemporaneo dei paesi affinché gli angloamericani facciano lo stesso, la richiesta che l'ONU e i paesi arabi siano messi nella condizione di studiare gli strumenti migliori per uscire dalla tragedia costituiscono l'unico modo vero, realistico, per contribuire a fornire aiuto al popolo iracheno e per costruire la pace.
I processi di destabilizzazione messi in atto dall'illimitata volontà di potenza degli Stati Uniti hanno aperto un varco senza precedenti all'acuirsi dell'odio di quella parte del mondo contro l'occidente. Avete buttato benzina sul fuoco! Noi qui vorremmo parlare di questo e vorremmo anche parlare degli interessi economici dell'Italia in quell'area - dell'ENI, ad esempio - e dei progetti del Governo Berlusconi di partecipare alla spartizione di quel bottino, alla divisione di quella torta attraverso i subappalti della ricostruzione. Noi qui vorremmo parlare degli interessi che, in questa sporca guerra, hanno e hanno avuto le banche, anche nel nostro paese, nell'armare e nel disarmare, e degli interessi della ricostruzione.
Di questi interessi, di questi affari, di questo business - la vera ragione di questa guerra - noi vorremmo parlare. Del resto, con grande chiarezza, anche il viceministro delle attività produttive, Adolfo Urso, proprio ieri sul Corriere della sera, ci ha fatto un quadro completo e chiaro della situazione, dicendo che si recherà proprio in queste ore negli Stati Uniti per incontrare i politici americani legati al processo di ricostruzione iracheno, cioè allo sfruttamento neocoloniale di quel disgraziato territorio. La guerra, lì, continua a devastare tutto, ad alimentare il coagularsi dell'interesse politico dei gruppi terroristici intorno alla questione irachena, a fomentare il rischio della guerra civile tra gruppi religiosi diversi, tra diverse etnie, tra i gruppi di potere che si contrappongono, mentre si configura una resistenza alle truppe occupanti e ai progetti di stabilizzazione filoamericani, che qui da noi appare cieca e senza costrutto e di cui ormai non si può ignorare l'esistenza né la verità, che il diritto internazionale nomina come diritto di una popolazione occupata ad organizzare la resistenza contro l'occupante.
Noi pensiamo, onorevoli colleghi, che la vostra ipocrisia, quella con la quale vi accingete a votare ancora in tanti questa missione di guerra, sia ormai arrivata ad un punto di chiarezza profonda. Noi crediamo che bisogna disobbedire - lo abbiamo fatto anche fermando i «treni della morte» - a questa guerra. Bisogna disertare questa guerra e disobbedire ai signori della guerra con tutti gli strumenti e i mezzi che la politica e la partecipazione democratica ci offrono.
Concludo, Presidente. Bisogna costruire la pace, ma non come un abito che si indossa a giorni alterni, perché il pacifismo è un'altra idea di governo del mondo, è un altro alfabeto del diritto; non è retorica, è una scelta coerente di azioni, oggi, qui ed ora, di fronte ad un mondo
che rischia di precipitare nella barbarie e di essere ingoiato dalla spirale guerra-terrorismo (Applausi dei deputati del gruppo di Rifondazione comunista).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Sereni. Ne ha facoltà.
MARINA SERENI. Signor Presidente, colleghi, il Parlamento è chiamato oggi a discutere di nove missioni italiane all'estero. Nell'intervenire sul complesso degli emendamenti, voglio innanzitutto ribadire che consideriamo grave ed incomprensibile il modo con cui il Governo ci costringe ad affrontare il tema. In tutti questi giorni abbiamo denunciato questo punto e vogliamo continuare a farlo. Il decreto-legge che stiamo esaminando proroga e rifinanzia tutte le missioni italiane all'estero. Con un atto del tutto burocratico, il Governo chiede al Parlamento di pronunciarsi su situazioni assai diverse tra loro, frutto di decisioni politiche differenti e di impegni assunti dall'Italia nei confronti di differenti organismi internazionali. Tutto questo in spregio ad un orientamento che il Parlamento aveva già espresso a luglio e mentre autorevoli esponenti della maggioranza richiamano al dialogo e allo spirito repubblicano. Separare la missione in Iraq da tutte le altre sarebbe stato un buon modo per rendere trasparente il nostro confronto e per dare un segnale di una vera volontà di dialogo. Se la maggior parte di queste missioni sono ormai storiche, consolidate e largamente condivise in quest'aula parlamentare, non può certo dirsi altrettanto per quella in Iraq.
In primo luogo, la presenza militare in Iraq è segnata da una ambiguità in origine: alla missione Antica Babilonia sono state affidate principalmente funzioni umanitarie e di mantenimento dell'ordine pubblico, che si sono tuttavia collocate in un quadro di occupazione militare del territorio iracheno da parte della coalizione che ha condotto la guerra in Iraq e in un contesto tutt'altro che pacifico e sicuro. La terribile strage di Nassiriya, che ha visto il sacrificio di tanti carabinieri e soldati italiani, ha drammaticamente svelato questa ambiguità sulla natura della missione italiana e ha posto l'enorme problema delle difficilissime condizioni di sicurezza in cui il contingente italiano si trova tuttora ad operare.
In secondo luogo, la decisione di inviare militari italiani in Iraq fu presa, per la prima volta nella storia delle missioni italiane all'estero, fuori da qualsiasi cornice multilaterale e, in particolare, fuori da qualsiasi legittimazione delle Nazioni Unite. Il fatto che, successivamente, sia stata approvata dal Consiglio di sicurezza dell'ONU la risoluzione n. 1511 se, da un lato, ha modificato, senza però legittimare a posteriori l'intervento armato, le condizioni giuridiche della presenza militare straniera in Iraq, non ha tuttavia prodotto, ad oggi, quella svolta che pure era lecito attendersi e richiedere.
Quella risoluzione, seppure frutto di un compromesso, indicava alcune linee per uscire dal disastroso dopoguerra iracheno e ricondurre la transizione all'interno della legalità internazionale e di un approccio multilaterale. Occorre, purtroppo, constatare che essa è rimasta in larga parte inapplicata.
In particolare, la trasformazione della forza di occupazione dell'Iraq in forza multinazionale, come previsto dalla stessa risoluzione n. 1511, è rimasta sulla carta, non essendo stati coinvolti altri paesi oltre quelli della Coalition of willings, e non essendo stata creata alcuna cabina di regia per definire condotta e atteggiamento delle forze presenti in Iraq.
Non può stupire che, in queste condizioni, il segretario generale dell'ONU Kofi Annan non abbia ancora nominato il suo nuovo alto rappresentante, dopo la tragica scomparsa di Vieira de Mello e, anzi, abbia esplicitamente chiesto, nelle settimane scorse, maggiore chiarezza circa i compiti e le funzioni delle Nazioni Unite, escludendo di poter assumere un alto grado di rischio senza le corrispondenti responsabilità e i corrispondenti poteri.
Non è un caso che, al termine della missione delle Nazioni Unite, guidata dall'inviato speciale Brahimi, Kofi Annan abbia
inviato un rapporto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite con molte raccomandazioni, che sottolineano la disponibilità dell'ONU a svolgere un ruolo di garanzia e di accompagnamento del processo elettorale in presenza, però, delle condizioni politiche e di sicurezza necessarie.
Noi non sottovalutiamo affatto la sottoscrizione da parte del consiglio governativo iracheno del testo della Costituzione provvisoria avvenuta ieri a Baghdad: è, nelle condizioni date, certamente un passaggio importante.
Tuttavia, sarebbe un errore non vedere i limiti e la fragilità di un percorso che è ancora nelle mani dei paesi occupanti, che vede organismi iracheni non pienamente legittimati, che rischia di essere quotidianamente interrotto e messo in discussione. Le riserve espresse dall'Ayatollah Al-Sistani, così come i dubbi della Turchia per l'assetto federale che la Costituzione provvisoria ipotizza, sono segnali del tutto evidenti della necessità di produrre un mutamento di fondo nello scenario drammatico del dopoguerra iracheno.
Ciò che dovrebbe accadere alla scadenza del 30 giugno si presenta ancora poco chiaro e la possibilità di giungere davvero a libere elezioni entro il gennaio 2005 dipende, in larga misura, dalle caratteristiche dell'organismo iracheno che dovrà subentrare all'autorità provvisoria della coalizione proprio il 30 giugno.
Non ci si può sentire rassicurati da un atteggiamento dell'amministrazione statunitense che, nell'approssimarsi della scadenza elettorale, oscilla tra la volontà di disimpegnarsi dal teatro iracheno e la pervicacia nel voler mantenere il controllo sulla transizione e la ricostruzione in Iraq. Non si può non vedere il rischio di un richiamo all'ONU dettato da opportunismo, che non produce l'effetto di affidare a questa istituzione il ruolo di effettivo garante politico. Ecco, questo nodo non è ancora stato sciolto.
Un anno fa abbiamo contestato una guerra unilaterale decisa senza l'autorizzazione delle Nazioni Unite e fuori da qualsiasi forma di legittimità internazionale. Abbiamo messo in guardia verso le lacerazioni che essa produceva nelle relazioni internazionali in Europa e tra Europa e Stati Uniti. Sappiamo che a giustificazione di quella guerra sono state portate argomentazioni relative alla presenza di armi di distruzione di massa, che si sono rivelate infondate. Non abbiamo cambiato idea sulla guerra, ma oggi stiamo discutendo non della guerra bensì di questo travagliato e sanguinoso dopoguerra. Che fa il Governo italiano in questa situazione? Ecco il punto che abbiamo sollevato in tutte queste settimane.
Da più parti, dopo la tragedia di Nassiriya si era sollecitata un'iniziativa italiana che, forte anche della responsabilità della Presidenza dell'Unione europea, potesse contribuire a cambiare profondamente il quadro, ponendo termine all'occupazione dell'Iraq e trasferendo rapidamente il potere agli iracheni. Non abbiamo potuto registrare purtroppo alcuna iniziativa del nostro paese in questa direzione ed oggi non possiamo che confermare in questa sede un giudizio negativo sul modo con cui l'Italia ha scelto di stare in questo difficilissimo dopoguerra in Iraq.
Sono chiari gli elementi che avrebbero potuto o potrebbero ancora produrre un mutamento radicale: affidare all'ONU la guida del processo di transizione democratica e sollecitare contestualmente la nomina del rappresentante speciale del Segretario generale; promuovere un impegno unitario dell'Europa, sia indicando il rappresentante dell'Unione europea per l'Iraq sia mettendo a disposizione dell'ONU risorse e competenze nel campo dell'institution building; procedere all'effettiva trasformazione delle forze presenti in Iraq in forza multinazionale, coinvolgendo i paesi arabi e le nazioni che non hanno condiviso la guerra, nelle more della ricostruzione di forze di sicurezza irachene; ricercare un rapporto con tutte le realtà vitali della società irachena, riconoscendo il peso e il ruolo delle diverse comunità e superando l'impostazione paternalistica che certamente non aiuta la nascita di una vera democrazia in quel paese.
Siamo convinti che pace, democrazia e sicurezza in Iraq saranno possibili solo se si produrrà un'evoluzione significativa in questa direzione. Per questo, con i nostri emendamenti, in particolare con quello soppressivo dell'articolo 2 del decreto-legge, abbiamo voluto rendere chiara la nostra contrarietà sulla proposta del Governo di un mero prolungamento, nel segno della più assoluta continuità, della presenza italiana in Iraq.
Non abbiamo chiesto né chiediamo oggi il ritiro immediato del contingente italiano. Non ci sfugge, come non sfugge a tante organizzazioni non governative che operano in Iraq, il rischio di far precipitare quel paese in un caos ancora peggiore.
Tuttavia, vediamo con grande preoccupazione una transizione che è ancora nelle mani delle potenze occupanti e che rischia di delegittimare le forze irachene impegnate a costruire un nuovo Iraq, facendo esplodere tensioni fra le diverse componenti della società irachena.
Per questo, riteniamo che se da qui al 30 giugno non si saranno verificati atti chiari e non si saranno realizzati i passaggi necessari per un pieno coinvolgimento dell'ONU e per un'iniziativa unitaria dell'Europa, sarà necessario considerare esaurita la missione italiana in Iraq (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-L'Ulivo).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Alfonso Gianni. Ne ha facoltà.
ALFONSO GIANNI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, abbiamo presentato una serie di emendamenti a questo decreto-legge, pur non condividendolo nella sua interezza, che illustreremo, con pazienza, nel prosieguo dell'esame.
Nell'ambito di questo intervento sull'illustrazione generale dei medesimi, vorrei svolgere tuttavia qualche considerazione di carattere più generale.
ALFONSO GIANNI. Vi è una domanda, che anche molti altri colleghi naturalmente hanno posto all'Assemblea e alla quale nessuno può sfuggire. Naturalmente lo si può fare con l'omertà ed un silenzio colpevole e vergognoso, ma non lo si può fare dinanzi alla realtà storica dei fatti. Perché siamo in Iraq? Perché siamo al carro di una vicenda da altri decisa e da altri condotta?
A questa domanda il nostro Parlamento deve rispondere.
Naturalmente, comprendo che, anche qualora a tale domanda si rispondesse che non è stato opportuno andare in Iraq, rimarrebbe aperto l'interrogativo - di questo parlerò alla fine dei 15 minuti che ho a disposizione - se sia opportuno o no, al punto in cui sono le cose, venire via.
Tuttavia, la discussione sulle origini della vicenda va ripresa. La mia impressione è che da più parti si abbia interesse ad occultare questo punto essenziale nella nostra discussione ed a ragionare in termini minimalisti di semplice opportunità di proseguire un'intrapresa, pur non decidendo se sia essa condivisa e condivisibile.
Il caso dell'Iraq è stato diverso, anche se si iscrive all'interno di una stessa logica mondiale, da altre vicende ed avvenimenti bellici. In diverse altre circostanze - mi riferisco, ad esempio, alle guerre nei Balcani degli anni Novanta - la cosiddetta causa umanitaria, quel gentile ossimoro della guerra umanitaria già da altri sapientemente richiamato, veniva motivata dalla persistenza di feroci e sanguinosi scontri interetnici. Si trattava di una mattanza che conveniva far finire anche se era discutibile il mezzo con cui tale fine veniva perseguito, ed era, persino, discutibile se la causa del contrasto interetnico o interreligioso fosse quella reale o se essa non nascondesse interessi di altra natura.
Nel caso della vicenda dell'Iraq - mi riferisco a questa seconda guerra del Golfo - la situazione è stata ed è diversa. Diciamocelo, purtroppo, con chiarezza, onorevoli colleghi, che con l'eccezione nostra - lo abbiamo dimostrato in più occasioni - dei curdi non interessava niente
a nessuno! In altre parole, nel caso dell'Iraq non è stata invocata una causa umanitaria derivante dalla persistenza di violenze, di mattanze, di eccidi o di genocidi. Questi sono stati elementi collaterali da qualcuno, di volta in volta, sollevati, ma non hanno mai costituito la nervatura delle motivazioni poste a giustificazione del conflitto.
Nel caso dell'Iraq - ed è questa una novità rispetto alle altre guerre degli anni Novanta del secolo che abbiamo alle spalle - è stata richiamata una circostanza che per cinquant'anni era stata lasciata sotto le ceneri di quel terribile massacro che fu la seconda guerra mondiale. Nel caso dell'Iraq la motivazione diffusa in tutte le occasioni da tutti i mass media, da tutti i giornali, da tutte le televisioni, dai protagonisti e dai sostenitori di tale guerra, era che la persistenza di quel regime e di quel sistema politico-militare costituiva una minaccia per la sussistenza dell'umanità nel suo complesso. La ragione specifica, la motivazione concreta dell'esistenza di una simile minaccia era rappresentata dalla produzione in essere o imminente, data non solo come potenziale ma come assolutamente certa, di armi di distruzione di massa.
Questa motivazione è stata completamente ed integralmente falsificata dalla realtà: nessun'arma di distruzione di massa è stata trovata, né si troverà. Ed, ovviamente, il ragionamento di chi dice che nessun'arma è stata trovata, perché non hanno avuto il tempo di progettarla e di porla in essere, rappresenta evidentemente una dimostrazione clamorosa di falsità, rispetto alla motivazione iniziale. Questo è fuori di dubbio, onorevoli colleghi. Non c'è nessuno che sostenga ragionevolmente il contrario, a meno che qualcuno non voglia pateticamente assomigliare appunto a quel ministro della propaganda saddamita, sul quale si è tanto ironizzato, che già imbracato dal filo spinato degli americani, sosteneva che tutto andava bene, che l'esercito iracheno resisteva, che la vittoria della causa araba era certa, anzi era talmente già avvenuta, che forse qualcuno non se ne era accorto: a questo livello, anzi peggio, scadono esattamente coloro che ancora non si rendono conto che sulla scena mondiale è avvenuto un gigantesco imbroglio, appunto di proporzioni mondiali, che è stato volutamente assorbito, per volgari interessi, da parte di tantissimi.
D'altro canto, i commenti giornalistici, i commenti ad alto livello, i convegni che ci sono stati, i libri che colleghe e colleghi hanno citato, dimostrano senza ombra di dubbio questa verità. Hans Blix ha scritto, in un libro, di aver ricevuto pressioni non dalle autorità irachene, ma fondamentalmente da quelle statunitensi, affinché da un lato affrettasse ricerche inutili, visto che la guerra era stata comunque già decisa, e dall'altro lato, inserisse nei suoi report ciò che i servizi segreti americani volevano. Scott Ritter - così mi pare si chiamasse -, il capo degli ispettori ONU, che abbiamo sentito a Palazzo Marini quando ancora la guerra non era in atto (pur essendo già stata dichiarata o meglio decisa), ci raccontava come l'impresa degli ispettori fosse sostanzialmente inutile, perché in ogni caso l'amministrazione statunitense aveva deciso l'eliminazione del gruppo dirigente saddamita, attraverso lo strumento dell'invasione militare.
Eppure, eminenti intellettuali commentatori - al riguardo, richiamo l'attenzione del centrosinistra su questo aspetto -, che pure avevano creduto alla versione dell'esistenza di armi di distruzione di massa, e quindi dell'esistenza di un pericolo imminente e concreto per l'umanità, scrivono in questi giorni alcune cose. Ad esempio, Timothy Garton Ash scrive oggi su la Repubblica, di aver aderito inizialmente a questa ipotesi, con «tormentata titubanza liberale» - mi spiace, Presidente, così sta scritto e virgolettato e così cito; non le citerò, ad ogni modo, tutto l'articolo, come fece Selva nel caso di Ferrara, ma glielo riassumerò soltanto, perché rimando alla sua intelligente lettura del medesimo -, ma, poi, dice di essersi accorto che vi è stato un inganno. E tutto l'articolo muove sul concetto di «chi ha ingannato chi». Questa, onorevoli colleghi - se avete un minimo di dignità -, è la questione che ci
sta di fronte: chi ha ingannato chi. È stato perpetrato un mostruoso imbroglio internazionale! Attualmente, lo sostiene il Presidente degli Stati Uniti d'America e a ruota lo segue Blair.
Hanno fatto bene i pacifisti inglesi a coniare un brillante gioco di parole tra il cognome Blair ed il termine inglese liar, che vuol dire bugiardo, e a chiamarlo «Bliar»; prima ve ne era uno precedente nel quale Blair veniva fuso con blur, il cui significato è: vago, incerto, indeterminato. Si trattava, tuttavia, della prima fase della leadership di Blair. Oggi si parla di «Bliar», un bugiardo mondiale e internazionale.
Se ne accorgono anche i colleghi dell'opposizione, i quali, quando avevano responsabilità di Governo, e dunque potevamo farlo, avevano intrapreso iniziative belliche nell'ambito di presunte guerre umanitarie, seppure motivate diversamente (le ho richiamate all'inizio del mio discorso). Essi, oggi, pur non accettando l'ipotesi del principio pacifista e, quindi, il ripudio della guerra, come vorrebbe l'articolo 11 della nostra Costituzione, affermano che il premier inglese, così come il suo «maestro» statunitense, assumono posizioni errate su questa guerra, senza trarne in sede di voto tutte le conclusioni che sarebbero non solo necessarie o politicamente opportune ma, oserei dire, consequenzialmente logiche.
La verità, però, avanza, caro Presidente. Ritengo che il nostro Parlamento, anziché trastullarsi sulle passate vicende della guerra fredda, come affermato anche da un ex Presidente della Repubblica (non ne rivelo il nome), utilizzando Commissioni peraltro manipolate, farebbe bene ad occuparsi della guerra «calda» del presente. Auspicherei, anzi non escludo un'iniziativa legislativa volta alla costituzione di una Commissione di inchiesta che accerti come il nostro Governo sia stato eufemisticamente abbindolato dal sistema massmediatico, dai servizi segreti internazionali, dai centri finanziari e dalla molteplicità degli interessi in gioco, fino a credere - lo dico in senso ironico - in una qualche ragione umanitaria di questa guerra.
Sarebbe interessante analizzare la successione delle dichiarazioni e delle decisioni, quanto cioè la decisione concreta della guerra fosse antecedente a qualunque fatto, ivi compreso l'attacco alle Twin towers, e quindi del tutto indipendente da qualunque rilevazione concreta sul grado di pericolosità del regime di Saddam Hussein.
Signor Presidente, con il senno di prima per molti e con il senno di poi per tutti, tranne che per i ministri della propaganda irakena dell'ultima ora che siedono in molti banchi, si può capire cosa oggi è accaduto. Le colleghe ed i colleghi intervenuti hanno richiamato alcuni documenti ufficiali, quello sulla strategia...
PRESIDENTE. Onorevole Gianni, ha ancora un minuto e mezzo a sua disposizione. Le basta?
ALFONSO GIANNI. Sì, signor Presidente.
Mi riferisco anche al discorso sullo stato dell'Unione pronunciato, nel settembre 2002, presso l'accademia militare di West Point.
Ricordo la metafora dell'orso, contenuta in un libro di Robert Kagan, disponibile per i tipi della Mondadori, vale a dire Mediaset. Leggetevelo! È il capovolgimento del senso comune, della filosofia occidentale, tanto per rimanere sul terreno della guerra di civiltà, di secoli e secoli. Secondo Kagan, cosa fa un uomo solo, americano, che abita in una casa di fronte ad un bosco nel quale vive un orso potenzialmente pericoloso? Se ha un coltello, non lo affronta, ma spera che l'orso non lo veda e se ne vada. Se ha un fucile mitragliatore, gli spara subito in modo da risolvere il problema. Questa è la sintesi antropologica e filosofica della guerra preventiva. Come vede, Presidente, è il contrario del senso comune perché, se uno è tanto forte, tanto più dovrebbe evitare atti di violenza verso un pericolo che, in realtà, è per lui minimale. Qui la logica è capovolta.
PRESIDENTE. E qui finisce il suo intervento!
ALFONSO GIANNI. Ho finito, Presidente.
Nel 1930 e nel 1931, Alexandre Kojève teneva delle importanti lezioni sul pensiero di Hegel, nelle quali affermava: «Se i due avversari periscono nella lotta, la coscienza è completamente soppressa; infatti, l'uomo dopo la morte non è più che un corpo inanimato. Se uno dei due avversari resta in vita, ma uccide l'altro, non può più essere riconosciuto da lui: il vinto morto non riconosce la vittoria del vincitore. La certezza che il vincitore ha del suo essere e del suo valore resta dunque puramente soggettiva e, quindi, non ha verità».
Queste parole non impedirono la seconda guerra mondiale: le parole di un saggio solo non bastano, ma le parole di milioni di persone - quelle che saranno presenti in piazza il 20 marzo prossimo - possono farcela (Applausi dei deputati dei gruppi di Rifondazione comunista e di deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-L'Ulivo).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Rizzo. Ne ha facoltà.
MARCO RIZZO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, stiamo discutendo di un provvedimento che riguarda nove missioni, ma il punto politico di questo decreto-legge è quello relativo alla missione militare italiana in Iraq.
Si tratta della partecipazione ad una guerra che, da una parte, ha avuto motivi ufficiali, di facciata e che, dall'altra, ha ricevuto motivazioni più realistiche. Vorrei cominciare proprio da queste ultime. Si tratta di una guerra sbagliata, illegittima, che aveva quale reale obiettivo il controllo delle fonti petrolifere di quel paese. Credo che questo sia uno tra i principali obiettivi di questa guerra.
Un altro importante obiettivo, che non è stato citato tra quelli ufficiali, è la nuova dislocazione delle forze armate americane in quell'area, in quanto il territorio dell'Arabia Saudita non è più considerato, da parte dell'attuale Governo degli Stati Uniti, come un territorio cui riconoscere fiducia, perché il regime di tale paese non è più ritenuto affidabile.
Il terzo motivo non ufficiale per il quale è stata posta in essere questa guerra è colpire la costruzione dell'Europa politica. Ritengo che questa sia la vittima nascosta di tale conflitto.
Il Governo degli Stati Uniti temeva che l'Europa arrivasse ad un punto di costruzione politica più forte e uno dei motivi per i quali si è intrapresa questa guerra è stato proprio quello di colpire la costruzione dell'Unione politica. E, purtroppo, a tale volontà si è assoggettato il Governo italiano che, insieme a quello spagnolo, è stato tra i primi fautori della distruzione della possibilità di costruire un'Europa politica. Tra l'altro, l'Italia ha fatto ciò seguendo pedissequamente la politica estera degli Stati Uniti, rinnegando la politica estera italiana dal dopoguerra ad oggi.
Ci sono, poi, i motivi ufficiali per i quali questa guerra è stata intrapresa, vale a dire quelli relativi alle armi di distruzione di massa e alla lotta al terrorismo, in ordine ai quali registriamo un vero e proprio fallimento. Infatti, le armi di distruzione di massa non si sono trovate, anzi gli stessi fautori di questa guerra - a partire dal segretario alla difesa americano Rumsfeld - hanno affermato che la ricerca di tali armi era solo un pretesto burocratico per far cominciare la guerra.
Quindi, ci troviamo di fronte ad una totale falsità, poi avvalorata anche dagli ispettori dell'ONU durante la fase precedente la guerra e anche successivamente.
Sono note a tutti le dichiarazioni rese dal commissario dell'ONU Blix, che si è occupato della ricerca delle armi di distruzione di massa, il quale ha spiegato che queste armi non c'erano e che dell'esistenza di esse non è stata trovata alcuna prova. È quindi palese che le armi in questione non c'erano.
Poi, c'è la lotta al terrorismo, per la quale contano, anche in questo caso, i fatti. Ci è stato detto che questa guerra
serviva per battere il terrorismo, ma è davanti agli occhi di tutti che, non solo nella zona irachena ma in tutto lo scacchiere medio-orientale, il terrorismo con tale guerra non è diminuito, anzi è aumentato. Direi, addirittura, che questa guerra è riuscita a compiere il miracolo di spingere sempre più larghe masse di islamici in braccio, se non proprio al terrorismo islamico, quantomeno al radicalismo islamico.
L'idea di battere la strada del socialismo arabo è una storia vecchia; è una strada che ha visto, prima, l'Occidente battersi contro Nasser, poi contro Mossadeq e contro il partito Bath in Siria e in Iraq. È una tendenza, oggi avvalorata ulteriormente, che ritengo suicida perché, proprio grazie a questa guerra e alla dottrina della guerra preventiva, siamo sull'orlo del baratro dello scontro fra le due civiltà. E ciò è esattamente quello che vogliono i terroristi islamici e Bin Laden, il quale, essendo stato al soldo della CIA sino al 1995, ha avuto dei cattivi maestri.
Questi sono gli obiettivi di una guerra che è stata sbagliata e illegittima e che ha prodotto risultati che costituiscono l'esatto contrario degli obiettivi che vogliono raggiungere gli Stati Uniti. Ci troviamo, pertanto, in una condizione che implica un rafforzamento del «no» a questa guerra. E non ci si venga a dire che c'è una nostalgia per Saddam Hussein; noi Comunisti italiani non possiamo non ricordare che quel regime, imboccando la strada della dittatura, ha massacrato circa centomila comunisti. Conseguentemente, non possiamo ricevere, anzi le rispediamo al mittente, tutte quelle accuse che parlano di un nostro ammiccamento nei confronti del regime di Saddam Hussein. Noi siamo stati tra i primi oppositori di quel regime che è stato usato, fino quando è stato utile, dai Governi degli Stati Uniti nella guerra contro l'Iran.
Non ci si venga a dire, inoltre, che bisogna essere responsabili. Un termine, questo, che torna ad essere in voga quando si dice, anche nel centrosinistra, che per poter governare bisogna avere una posizione sulle guerre e, conseguentemente, sulla possibilità, di fatto, di abrogare l'articolo 11 della Costituzione. A questo riguardo, però, è opportuno evidenziare (e sono dati di fatto anche questi), che sia la Francia sia la Germania, pur avendo partecipato a questa guerra, sono responsabili e governano bene i loro rispettivi paesi. La Germania - sottolineo - è governata dal centrosinistra, o comunque da una coalizione di sinistra. Pertanto, non è necessario, per essere al Governo e per essere responsabili, partecipare in qualche modo alle guerre.
Detto ciò, aumentano le motivazioni per votare «no» e per ribadire l'opposizione svolta sei mesi fa, quando è partita la missione italiana in Iraq. Qualcuno ci potrebbe chiedere: se i soldati italiani e quelli dell'alleanza se ne devono andare, cosa accadrà in Iraq? Noi sappiamo benissimo che in Iraq la situazione è di pieno caos, e ciò è perché c'è stata questa guerra e l'occupazione. Al riguardo, noi responsabilmente forniamo una possibile soluzione - quindi non ce ne laviamo le mani -, che è quella di far tornare l'ONU in Iraq con truppe appartenenti a paesi che non abbiano partecipato alla guerra e all'occupazione militare.
Fortunatamente, nel mondo vi sono paesi che rispondono a tali requisiti (cito, ad esempio, il Sudafrica, l'India e il Brasile, per limitarsi alle nazioni «forti»). Pertanto l'ONU potrebbe essere titolare di un ruolo effettivo nell'ambito del processo di pace. Ciascun paese può fare la propria parte: per quanto concerne l'Italia, il ritiro dei nostri soldati costituisce una condizione per l'effettivo intervento dell'ONU.
Dunque, non si tratta soltanto di rivolgere un'attenzione particolare alle nostre truppe, che stanno partecipando a un'occupazione militare. Il centrodestra ha compiuto una straordinaria operazione di propaganda, cancellando le motivazioni di carattere bellico per le quali i soldati italiani sono stati inviati in Iraq. Basti pensare che il 95 per cento delle nostre truppe è dislocato a Nassiriya, mentre il piccolo ospedale si trova a Bagdad, ovvero a 600 chilometri di distanza; che a Nassiriya non vi è alcun ponte aereo che
trasporti medicinali; che a Nassiriya non vi è alcun ponte aereo che trasporti viveri.
Qualche esponente intellettualmente onesto del centrodestra lo ha peraltro riconosciuto, qualche generale lo ha detto: i nostri soldati si trovano in Iraq per partecipare all'occupazione militare, e dunque vi sono responsabilità da parte del Governo, anche nella strage di Nassiriya. I Comunisti italiani sono stati l'unico partito che si sia assunto la difficile responsabilità politica, in giorni in cui ci si trovava di fronte a un muro di straordinaria propaganda con la quale si spiegava che i nostri soldati erano morti per la pace in Iraq, di affermare che i nostri soldati erano invece morti perché mandati dal Governo italiano a compiere un'occupazione militare: essi si trovano in Iraq per fare la guerra.
È necessaria la cessazione dell'occupazione militare quale condizione per il ritorno della pace in quel paese, che avrebbe riflessi positivi anche sull'Italia per quanto riguarda l'esposizione al terrorismo internazionale. Mi rivolgo in primo luogo ai deputati del centrosinistra: vi sono mille ulteriori motivazioni per votare «no» alla guerra in Iraq e per chiedere immediatamente il ritiro dei nostri soldati. La missione in Iraq è stata strumentalmente accomunata dal Governo - mi auguro solo dal Governo - alle altre missioni oggetto del decreto-legge in esame. Tuttavia, quel che conta è la politica, e oggi il «tumore» è costituito dalla guerra in Iraq, mentre le altre missioni sono «raffreddori»: dobbiamo in primo luogo curare il tumore.
Rivolgiamo pertanto un appello accorato a tutti i deputati del centrosinistra e a tutti i deputati che amano la pace, affinché anche il voto finale, che determina il rientro o meno dei nostri soldati e il rifinanziamento o meno della missione, sia negativo. Le motivazioni per votare «no» alla guerra in Iraq non soltanto non sono diminuite, ma sono aumentate. Concludo ribadendo la solidarietà dei Comunisti italiani nei confronti degli elicotteristi che si sono rifiutati, con senso di responsabilità, di partecipare a una missione nella quale, peraltro, si sarebbero trovati in difficoltà anche dal punto di vista dell'armamento. Ritengo si sia trattato di un atto di responsabilità, tale da richiedere la solidarietà di tutti i cittadini democratici (Applausi dei deputati del gruppo Misto-Comunisti italiani).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Pinotti. Ne ha facoltà.
ROBERTA PINOTTI. Signor Presidente, la dottrina della guerra preventiva dei neoconservatori statunitensi non ha portato ad un nuovo ordine mondiale. Essa ha provocato guerra, morte e distruzione; non ha portato maggiore sicurezza, ma minore sicurezza; non ha determinato la diminuzione del terrorismo, ma l'aumento del terrorismo.
Il mondo mediorientale si trova in una situazione che non è certo vicina alla pacificazione. Basti pensare a ciò che continua ad accadere in Palestina: non vi è alcuna iniziativa politica forte; al contrario, prosegue purtroppo un'inarrestabile scia di sangue. Quanto all'Iraq, il segnale costituito dalla promulgazione della Costituzione provvisoria va salutato positivamente, ma è ancora flebile.
La prospettiva è ancora traballante e, tra l'altro, questa firma arriva dopo una tragedia inqualificabile e di grosse dimensioni - avvenuta proprio in un giorno importante per gli sciiti - che ha causato la morte di bambini, donne e uomini.
In ogni caso, sgombriamo subito il campo da possibili strumentalizzazioni e parliamo della prima questione di politica internazionale affrontata da questo Parlamento. È un bene che oggi in Afghanistan non vi siano più i talebani; non a caso, quando discutemmo delle missioni in quel paese, anche il nostro gruppo avanzò una richiesta volta all'ampliamento del ruolo svolto dall'ISAF. Si intendeva cioè promuovere una missione multilaterale che uscisse dai ristretti confini rappresentati dalla città di Kabul ed estendesse la sua influenza su altre parti del territorio; fortunatamente, questo adesso sta avvenendo, anche se non si riesce ancora ad avere il pieno controllo della situazione.
La missione Enduring freedom - promossa dopo l'11 settembre sulla scia emotiva di una tragedia che ha colpito il mondo - è partita con il piede sbagliato perché gli Stati Uniti hanno chiamato i vari Stati a raccolta cercando un'alleanza che, successivamente, è divenuta multilaterale, ma che era stata promossa unilateralmente. È successo che gli Stati Uniti hanno preso la decisione e, in seguito, l'ONU l'ha ratificata: ciò ha rappresentato un primo atto di indebolimento delle Nazioni Unite.
Il collega Alfonso Gianni ha citato alcuni testi - scritti da teorici americani - attraverso cui si è cercato di immaginare quale potrebbe essere lo spirito del popolo americano rispetto all'idea della guerra preventiva. Lui ha citato l'episodio dell'orso ed io ricordo il paragone fra gli Stati Uniti - rappresentati dal dio Marte, il dio della guerra (che rappresenta la forza delle armi, quella che l'America non ha paura di esercitare) - e l'Europa - rappresentata da Venere, quindi un po' imbelle e senza armi che, forse, non sarebbe neanche capace di usare - che si nasconde dietro la facciata rappresentata dalle missioni di peace-keeping che cercano di portare la pace.
In ogni caso, non voglio più fare uso di questi paragoni mitologici, anche se rispecchiano pienamente lo spirito che ha guidato l'autore del libro citato in precedenza.
Nel documento sulla difesa europea scritto da Solana si afferma che l'uso della forza è consentito solo se vi sono decisioni assunte da organismi internazionali; questo mi pare un discrimine fondamentale.
Noi siamo stati e siamo contro la missione in Iraq e contro la grave e un po' subdola modalità con cui questo Governo ha agito nei confronti di tale vicenda. Infatti, a tutt'oggi non si sta gestendo un dopoguerra, quindi non ci si può nascondere dietro la risoluzione n. 1511, che non cambia lo scenario.
Perché siamo stati e siamo contro la missione in Iraq? A tale riguardo, si è usata a proprio tornaconto la paura rappresentata dalle armi di distruzione di massa; di ciò ci siamo occupati tante volte in Parlamento, quindi non mi dilungo oltre. Queste armi non sono state trovate ed ora molti governi debbono rispondere del perché si sia usata questa motivazione per decidere che, a prescindere dai tempi lunghi dell'ONU che non prendeva una posizione, si doveva intervenire.
Certo, in Iraq vi è un dittatore di meno, e di questo siamo tutti felici, ma vi è anche un territorio sconquassato da lutti e divenuto un immenso campo di addestramento utilizzato dai rappresentanti del terrorismo internazionale. Vi sono però anche segnali - che vanno incoraggiati e sostenuti - di cambiamento di un percorso, anche se, per ora, rimangono solo segnali.
Vi è, inoltre, più instabilità nel mondo, è cresciuto un sentimento antioccidentale, è aumentato il rischio di scontro tra civiltà, il rischio di terrorismo; è aumentato il rischio che si aprano nuovi scenari di guerra. Non mi pare che gli obiettivi per cui si era detto di voler combattere siano stati raggiunti. Noi siamo non solo contro tale missione, ma anche contro le modalità che questo Governo ha utilizzato per gestire tutta la vicenda: in ogni caso, torniamo un po' indietro.
Se gli Stati Uniti hanno lavorato per indebolire l'ONU, quello che abbiamo fatto - mi riferisco al Governo italiano, non mi voglio comprendere in questa responsabilità - è aver lavorato per indebolire l'Europa. Alla vigilia del semestre europeo, abbiamo promosso il documento degli otto, che di fatto ha spaccato l'Europa, l'unica forza in grado di contrastare la concezione unilateralistica portata avanti dagli Stati Uniti. Abbiamo avuto un atteggiamento di sudditanza alla politica estera americana che non si è mai registrato nel nostro paese, neanche nel 1948, ai tempi dei due blocchi.
Successivamente, il Governo ha accettato - perché non poteva farne a meno - il quadro delineato dal Consiglio supremo di difesa, presieduto dalla Presidente della Repubblica, all'interno del quale, sulla base della nostra Costituzione, potevamo collocarci in questo scenario. Si è detto
che l'Italia non poteva partecipare a questa guerra né fornire le basi da cui possono partire gli attacchi perché ha un certo tipo di Costituzione. Tuttavia, appena Bush, con un'azione spettacolare, si è presentato su una portaerei e ha dichiarato che la guerra era finita, immediatamente il Governo italiano ha deciso che dovevamo inserirci, non nel progetto di pace, ma nel progetto americano in Iraq. In realtà, la guerra non era finita, e lo dimostrano le cifre dei morti; di certo, era finita la guerra regolare, quella con le forze regolari di Saddam, ed era cominciata l'altra guerra, quella più difficile da combattere.
Purtroppo, quanto avviene quotidianamente ci dimostra che non siamo di fronte ad uno scenario in cui si può parlare di peace-keeping, ma ad uno scenario di guerra. Sulla base di questo, si dice che è finita la guerra, che l'Iraq ha bisogno di sostegno e che quindi bisogna inviare una missione umanitaria. Qualcuno, anche nell'opposizione, aveva dato un'apertura di credito su questo punto. Quindi, cosa succede? Si decide che la missione umanitaria avrà un budget di circa 21 milioni di euro, ma dovrà essere accompagnata da truppe che devono salvaguardare questa missione, per cui è importante stanziare circa 220-230 milioni di euro. Ora, le cifre non sono opinioni: se si fosse trattato di missione umanitaria, forse le risorse finanziarie da mettere a disposizione avrebbero potuto essere un po' più consistenti. Così non è stato, e per questo abbiamo votato contro anche in quel caso.
Da ultimo, oggi si è detto che la risoluzione n. 1511 parla di forze di occupazione - quindi, è in tale quadro che si sono inserite le forze italiane -, non cambia la situazione di fatto ma ne prende atto, ed individua un percorso che, di fatto è stato disatteso. L'Italia, in tutto questo periodo, anche con il ruolo che ha svolto in Europa, non ha agito in alcun modo per modificare questo stato di cose. Allora, cosa dovremmo fare? Dovremmo fare come la Francia e la Germania, cioè dire che, non intendiamo lasciare da soli gli iracheni, ma le nostre truppe possono essere presenti sul posto soltanto sulla base di una decisione ONU.
La collega Sereni prima diceva una cosa ragionevole, visto che su questo ci sono opinioni differenti all'interno dell'opposizione, cioè si chiedeva quando può intervenire l'ONU. O interviene una decisione del Consiglio di sicurezza, oppure sarà il nuovo Governo in carica, il 30 giugno, a richiedere l'intervento dell'ONU. Anche per questo, alcuni ritengono che sia importante verificare quale sarà la situazione a quella data; altri ritengono che invece sia importante dare un segnale di ritiro immediato. Tuttavia, anche se le opinioni possono essere diverse e devono convivere all'interno dell'opposizione, c'è un dato che unisce tutta l'opposizione, ed è quello che essa è tutta contro la missione in Iraq. Questo è vero nonostante abbiate utilizzato uno strumento importante come una discussione di politica estera per degli usi politici non particolarmente nobili.
C'è da chiedersi, infatti, come mai a luglio la missione in Iraq è stata considerata diversa dalle altre missioni che sono sotto l'egida dell'ONU e di altri organismi internazionali, per cui vi sono stati due voti separati, mentre adesso ciò non avviene. E non basta la risoluzione n. 1511 per affermare che è cambiata la situazione. In realtà, nonostante la nostra battaglia, la nostra richiesta pressante e ciò che abbiamo fatto in Commissione, si è deciso di non distinguere la missione evitando così di mettere in evidenza le differenze.
Però vorrei dire che l'opposizione, in questa battaglia parlamentare, sul «no» all'Iraq deve far risaltare le assonanze e non le differenze, nonostante il vostro sia un gioco diverso. Voteremo quindi «no» alla missione in Iraq: vogliamo sopprimere questa missione.
Vorrei anche soffermarmi su un argomento che viene spesso utilizzato dai colleghi della maggioranza, che dicono: attenzione, i nostri militari stanno svolgendo un'azione umanitaria. Io non discuto il fatto che i nostri militari stiano svolgendo anche azioni - non so come definirle -
utili alla ricostruzione; ma qui siamo in Parlamento e discutiamo di un'altra cosa: discutiamo se il mandato che hanno, il quadro internazionale, le responsabilità complessive, la catena di comando sono quelli di una missione umanitaria, di una missione quindi autorizzata dall'ONU o sono altro. E sono altro! È per questo che siamo contrari e ci ribelliamo al fatto di dover votare insieme questa missione, che ha queste caratteristiche, con altre missioni che hanno tutt'altre caratteristiche che condividiamo. È un gioco sbagliato quello che avete fatto!
Concludo, Presidente. Vi è un'altra retorica, magari non solo retorica, anche convinzioni, però si tratta di argomenti che spesso vengono usati per dire: chi è veramente dalla parte dei militari? Attenzione, a questo provvedimento abbiamo presentato degli emendamenti che sono finalizzati alla salvaguardia della salute dei militari. Qualcosa nel decreto-legge c'è già, ma non basta, perché è riferito soltanto ad una parte dell'Iraq; noi chiediamo di estenderlo a tutti, perché il problema della salute dei militari è un problema che ci sta a cuore.
Allo stesso modo ci sta a cuore - e su questo abbiamo condotto una lunga battaglia, ma non abbiamo ancora visto nessun esito - il fatto che non si debba utilizzare il codice militare di guerra per missioni - a parte l'Iraq - che hanno altre caratteristiche, come ad esempio l'ISAF. Era stato assunto un impegno ad adottare un codice nuovo e diverso; ciò non è stato fatto, ma è importante anche quanto ci si impegna in questa direzione!
E poi ci troviamo di fronte alla situazione per cui si dà degli ammutinati e si usa il codice militare di guerra nei confronti di elicotteristi che, a quanto ho capito, non hanno detto: noi non partecipiamo perché siamo contrari, ma hanno posto dei dubbi sulla funzionalità dei mezzi (peraltro, il nostro gruppo il 2 dicembre ha presentato un'interrogazione parlamentare che verteva proprio su questo argomento)!
Non vorremmo, quindi, sentire queste strumentalizzazioni: noi non siamo contro i nostri militari, siamo contrari al modo in cui questo Governo ha fatto partire la missione, al modo in cui sta andando avanti e a questa guerra, che non è servita a nulla se non ad acuire i problemi del mondo. Su questo, quindi, daremo al Parlamento e al paese dei segnali coerenti (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-L'Ulivo).
PRESIDENTE. Saluto gli alunni e gli insegnanti della scuola «Don Giovanni Bosco» di Verona, che dalle tribune stanno assistendo ai nostri lavori (Applausi).
Ha chiesto di parlare l'onorevole Maura Cossutta. Ne ha facoltà.
MAURA COSSUTTA. Signor Presidente, il dibattito che si sta svolgendo in queste ore, in questi giorni, è molto importante, come lo è anche il voto che ci accingiamo a dare su questo decreto-legge. Sono convinta che dobbiamo svolgere questa discussione rivolgendoci all'esterno, innanzitutto per farci capire, perché questo è un passaggio delicato, decisivo e dobbiamo usare quindi serietà e chiarezza.
Noi Comunisti italiani con chiarezza lo diciamo subito: voteremo contro questo decreto-legge e contro la proroga della missione in Iraq. Lo facciamo - mi rivolgo ai colleghi, anche dell'opposizione, che si sono appellati a queste doti - con realismo e con responsabilità politica. Lo facciamo per realismo e per responsabilità politica, onorevole Rutelli, onorevole Fassino. E vogliamo spiegare a chi ci ascolta per quale ragione lo facciamo - ripeto - per realismo e per responsabilità politica.
Credo sia doveroso fare un passo indietro per capire e quindi per decidere, ripartire dalla guerra e dal «no» alla guerra, proprio perché quel «no» non era frutto di un idealismo astratto, acerbo, espressione magari di purezza di principi, ma fondamentalmente - così è stato detto in questi mesi - espressione di ininfluenza politica.
Le critiche al grande movimento della pace sono state molto dure. Si è parlato di un movimento di infantilismo, di radicalità,
di una pace senza «se» e senza «ma», che appunto parlava di purezza dei principi senza però riuscire a parlare di politica. In realtà è stato tutto il contrario. In quel movimento c'erano grandi ideali, ma anche grandi idee, c'era una analisi lucida e c'erano domande squisitamente politiche, un progetto ed una strategia politica. Quel «no» alla guerra aveva e ha in sé la lettura delle trasformazioni del mondo.
È stato detto che dopo il 1989 il mondo è cambiato, che vi sono state trasformazioni epocali, ma dal mondo bipolare non si è passati al mondo multipolare, ma più semplicemente al comando unipolare del mondo da parte degli Stati Uniti d'America. Dopo il 1989, vi ricordate, ci si aspettava l'epoca salvifica; invece da allora sono aumentate le disuguaglianze, le povertà, le guerre, nessun problema è stato risolto. È nato un mondo unipolare a comando americano e alla contrapposizione est-ovest si è sostituita quella più drammatica tra nord e sud del mondo. Dietro quel «no» alla guerra vi era una lucida analisi delle tendenze in atto. Guerra umanitaria, poi guerra preventiva, e ancora guerra permanente. Non soltanto in Iraq, colleghi dell'opposizione, già in Kosovo e anche in Afghanistan vi era la tendenza a ridefinire, attraverso la guerra, gli assetti e i rapporti di forza internazionali. Attraverso la guerra c'era uno scontro tra il ruolo degli Stati Uniti ed il ruolo dell'Europa, subalterna e piegata al dominio unipolare del mondo. Vi era la tendenza a sostituire il ruolo dell'ONU con il ruolo della NATO e delle nuove alleanze militari.
Dietro il «no» alla guerra in Iraq vi era una analisi ma anche la domanda politica di una inversione di tendenza, di un'altra idea del mondo e delle relazioni internazionali, un altro progetto politico di governo mondiale. Era chiaro che altre avrebbero dovuto essere le priorità. Primo: risolvere la questione mediorientale. L'avevamo detto e lo continuiamo a ribadire: altro che la guerra a Saddam in Iraq, la questione mediorientale permane la priorità per raggiungere la sicurezza e la pace nel mondo! Avremmo dovuto togliere l'embargo, non fare la guerra, all'Iraq; avremmo dovuto sviluppare la cooperazione internazionale, gli aiuti allo sviluppo. Ricordo che l'opposizione durante l'esame del disegno di legge finanziaria ha bloccato in extremis un tentativo di stornare risorse per la cooperazione internazionale allo sviluppo per finanziare la missione in Iraq. La cooperazione allo sviluppo, di fatto, è diventata uno strumento della politica estera degli Stati: lo denunciano tutte le associazioni che hanno lavorato sul campo, quelle che portano veramente aiuti umanitari alla popolazione e costruiscono pezzi di società e di sviluppo. La tendenza legata alla strategia della guerra permanente è stata criticata da tutte le associazioni: la cooperazione allo sviluppo trasformata nell'impresa dell'emergenza, l'ancella alla politica di guerra degli Stati.
Insomma, dietro quel «no» alla guerra in Iraq vi era una pesante critica agli organismi internazionali: alla Banca mondiale, al Fondo monetario internazionale, al WTO; organismi che, invece di produrre libero commercio e condizioni di parità e di sviluppo per favorire la pace, hanno favorito l'egemonia del mondo unipolare americano.
Dietro quel «no» c'era, soprattutto, un'altra idea di Europa: non solo economica, come unione di mercato, ma politica. L'idea è quella di un'Europa politica di pace e di sviluppo che sappia rivendicare il suo ruolo - storico, ma anche attualissimo - nel bacino del Mediterraneo, che non copi i vizi degli Stati Uniti d'America, che firmi il Protocollo di Kyoto, che si schieri apertamente di fronte alle alleanze inedite che vedono insieme, per la prima volta, la Cina, l'India ed il Brasile e di fronte alle alleanze dei governi democratici dell'America latina. L'idea è quella di un'Europa politica, forte ed autonoma, non subalterna agli Stati Uniti.
Dietro quel «no» vi erano - chiare - anche le conseguenze della guerra. Quello che sta succedendo in Iraq era scritto! Era tutto scritto! Avevamo sostenuto che questa guerra senza prove, illegittima, non avrebbe risolto i problemi dell'Iraq. Difatti,
è aumentato il terrorismo, vi è il rischio alto di uno scontro di civiltà, vi è il rischio di regalare miliardi di persone, nello scenario internazionale, alla causa del terrorismo islamico, aumentano i rischi di nazionalismo arabo, si destabilizza quell'area e si destabilizzano i paesi arabi moderati.
Dietro quel «no» alla guerra in Iraq c'era un «no» anche all'operazione politica e culturale che si basa sull'emergenza del terrorismo. Dopo l'11 settembre, una cosa è chiara: nessuno più è sicuro in casa propria, neanche la più grande potenza del mondo. Soprattutto, è chiaro che non vi può essere sicurezza senza pace e senza giustizia. Oggi, invece, gli Stati Uniti approfittano della guerra al terrorismo per fare, sulla guerra al terrorismo, un'operazione politica che piega la legalità ed il diritto internazionale, nonché i diritti democratici negli Stati nazionali.
Proprio oggi, abbiamo partecipato ad una conferenza stampa al fianco di cinque detenuti cubani accusati di terrorismo. Evidentemente, per gli Stati Uniti l'unico terrorismo da combattere è quello contro gli Stati Uniti, mentre la sicurezza mondiale coincide con la sicurezza degli Stati Uniti d'America! I cinque detenuti cubani di cui dicevo sono finiti in galera perché hanno sventato atti terroristici che organizzazioni criminali di Miami hanno ordito contro la sicurezza e l'indipendenza di uno Stato, dello Stato di Cuba. Quindi, due pesi e due misure! La lotta al terrorismo è una grande emergenza per imporre l'egemonia americana e non per difendere i diritti dei popoli!
Per questo, colleghi, quel «no» era il punto alto di una coscienza, ma anche di un progetto politico lucido e serio. Dietro quel «no» vi erano un grande realismo ed una grande responsabilità politica. Chiediamo, oggi, lo stesso realismo, la stessa responsabilità politica, coerenza. Dobbiamo dire «no» al decreto-legge in esame e «no» alla missione perché, come hanno spiegato i colleghi, non si tratta di una missione umanitaria, ma di una missione di guerra.
I nostri soldati sono sotto il comando straniero, al fianco di truppe di occupazione. I nostri soldati non possono aiutare il popolo iracheno e, soprattutto, costituiscono, oggi, un ostacolo alla svolta. Altro che appellarci alla svolta! Chi la deve costruire? Quale soggetto? Come? In quale momento? Solo una discontinuità - oggi - può condurre alla svolta, può imporre un ruolo diverso dell'ONU!
Chiedere un ruolo diverso dell'ONU significa chiederne l'intervento, ma non con le truppe che hanno fatto la guerra né con quelle che hanno occupato l'Iraq, ma con quelle di tanti altri paesi, in primis dei paesi della Lega araba. La svolta va costruita oggi, senza aspettare il 30 giugno del 2004: il ritiro immediato del nostro contingente è l'elemento politico che serve a costruire la svolta, a creare la discontinuità per ridare centralità all'Europa ed al ruolo strategico di quest'ultima nella costruzione di un mondo multipolare.
Solo questa discontinuità (è, quindi, un «no» secco alla missione e al decreto-legge) può ridare al popolo iracheno la possibilità di iniziare un processo democratico che non si può imporre sotto l'occupazione, rompendo quella saldatura pericolosissima tra la resistenza in quel paese (perché, oggi, in Iraq c'è la resistenza!) e il terrorismo islamico. Non sono la stessa cosa!
Onorevoli colleghi, il voto sulla missione e sul disegno di legge di conversione del decreto-legge non è una questione tecnica, formale, affidata ai regolamenti. Ma se le destre smembrassero, ora, domani, il decreto-legge sulle varie missioni, cosa farebbero i colleghi della lista unitaria? Dietro la posizione del «non voto», non solo non c'è chiarezza, ma c'è un vuoto. Peggio, dentro questo vuoto c'è tutto e il contrario di tutto! È un vuoto riempito da posizioni tra loro diverse, distanti, politicamente molto distanti, che vanno discusse, affrontate. Questo vuoto non è solo assenza di un progetto chiaro ma anche impraticabilità dello stesso. Dentro questo vuoto, c'è chi era contro la guerra e chi, invece, era pronto a legittimarla come male minore rispetto all'emergenza
della lotta al terrorismo. Dentro questo vuoto c'è chi era contro la missione in Iraq e chi palesemente non lo era. I socialisti chiedono un vertice, quindi (lo hanno ricordato chiaramente) sono a favore di una posizione di astensione.
Mi dispiace che, oggi, sul Corriere della sera, il direttore della rivista Italianieuropei (mi rivolgo all'onorevole D'Alema) insista che questa missione era ed è sotto il mandato ONU, che il ritiro dei soldati sarebbe un errore e che, se c'è una critica da fare a Berlusconi, è che l'Italia è stata ed è poco presente nella gestione del conflitto. Credo vi sia non solo una legittimazione, ma anche una condivisione, una contiguità con le posizioni americane. Un vuoto, insomma, che rischia di essere un abisso di confusione e di ipocrisia che non serve al nostro popolo.
Insistiamo, perché siamo consapevoli che oggi la missione militare in Iraq rappresenta un passaggio decisivo, delicatissimo rispetto agli scenari internazionali: un passaggio di civiltà; insistiamo, perché questo voto è molto importante. Per realismo e per responsabilità politica - lo ripeto - diciamo «no» al decreto-legge. Saremo presenti alla manifestazione del 20 marzo. Il popolo della pace sarà presente a Roma, Sydney, New York, Tokyo e Madrid. Saremo in piazza a ripetere ciò che abbiamo ripetuto qui, perché con coerenza diciamo ciò che facciamo.
Allora, senza quella retorica patriottica che, in questi mesi, ha soffocato ogni voce critica, persino quella dei familiari dei soldati, e che ha trasformato il rifiuto di alcuni elicotteristi di andare a combattere in tradimento militare, senza questa retorica, ma con orgoglio nazionale, vogliamo far tornare a casa i nostri soldati. Via da quella guerra e via da quell'occupazione, perché sono soldati italiani, della Repubblica italiana, al servizio della Costituzione italiana e, quindi, della pace, della giustizia e della democrazia (Applausi dei deputati del gruppo Misto-Comunisti italiani)!
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Sciacca. Ne ha facoltà.
ROBERTO SCIACCA. Signor Presidente, nel corso della discussione svoltasi oggi pomeriggio sul complesso delle proposte emendative riferite al decreto-legge in esame, è intervenuto un solo esponente del centrodestra, un rappresentate del gruppo di Alleanza nazionale che ha usato espressioni quali «bugie», «demagogia», «travisare la realtà» e «disprezzo della verità».
Mi chiedo e vi chiedo: con chi ce l'ha? Di chi parla? A chi si riferisce? Forse al Presidente americano George Bush? Forse al Presidente Berlusconi? Fa autocritica a nome del centrodestra?
Sarà meglio chiarire, perché è necessario dire le cose come stanno. L'intervento militare e l'occupazione dell'Iraq non hanno pacificato il paese ma, anzi, hanno aggravato i conflitti interni e alimentato il terrorismo. Le armi di distruzione di massa non c'erano: i Governi dei paesi in guerra devono rispondere delle bugie dette ai Parlamenti e all'opinione pubblica mondiale. Occorre una Commissione d'inchiesta anche qui in Italia. Al riguardo è stata presentata una proposta; il Parlamento deve istituire questa Commissione! Anche il centrodestra deve avere il coraggio di fare in modo che si vada avanti e si capisca fino in fondo che cosa è successo in quei giorni.
Non c'è stato alcun cambiamento positivo. La stessa risoluzione n. 1511 delle Nazioni Unite è stata inapplicata ed è superata di fatto dalla drammaticità degli eventi. La presenza militare italiana risponde ad un comando unificato angloamericano in una situazione di guerra, in palese violazione dell'articolo 11 della Costituzione. In quest'aula, lo ricordo, è stata presentata una pregiudiziale di costituzionalità, che è stata respinta dalla maggioranza di questo Parlamento per difendere qualcosa (qualcuno dice forse anche gli appalti, io dico che ci sono anche altre cose, non solo gli appalti).
Tuttavia, bisogna tener conto di alcuni aspetti. C'è stato ieri, per esempio, un bell'intervento dell'ex generale Angioni, che spiega molto bene come siano stati fatti degli errori clamorosi in quel teatro
di guerra: il nostro esercito ha dimostrato di non sapere badare alla sicurezza come invece si sarebbe dovuto fare, perché si conoscevano gli esplosivi, si sapeva come si sarebbero potuti attivare i sistemi di sicurezza in quella situazione. Non è stato fatto; qualcuno ne ha le responsabilità.
Quindi, non c'è una svolta, né un mandato ONU, e non si vede una via d'uscita che ripristini la legalità e restituisca agli iracheni la piena sovranità. Su questo voglio dire che non si tratta di riportare in quel paese dei modelli sociali e politici a misura occidentale; si tratta invece di favorire un processo vero di autodeterminazione di quei popoli. L'Iraq da sempre è stato usato; Saddam è stato prima finanziato e poi armato contro l'Iran, è stato scaricato dalla guerra del Kuwait in poi, infine è stato cacciato per ridisegnare con le armi la via del petrolio.
Io penso che solo il ritiro delle attuali forze occupanti ed una presenza dell'ONU possano riaprire una speranza di pace ed un futuro democratico all'Iraq. Solo in questo scenario nuovo potrebbe essere inviata una forza multinazionale di pace e di sicurezza composta anche da militari italiani. È per queste ragioni che siamo contro il decreto che proroga la permanenza dei militari in Iraq. Il ritiro lo ritengo necessario, per i nostri soldati - a loro va la nostra solidarietà, alle famiglie delle vittime di Nassiriya il nostro cordoglio -, ma anche per evitare il rischio di pregiudicare definitivamente il ruolo dell'Italia in una situazione nuova dove davvero si possa aprire un processo di pace. Le nostre sono scelte che facciamo in sintonia anche con i democratici di tutto il mondo (anche negli Stati Uniti), con quanti in questi giorni chiedono scelte di pace ed una politica rispettosa dell'ONU e del diritto internazionale e con chi si batte contro la teoria della guerra preventiva, dell'attacco cioè verso chi è giudicato un rischio, della guerra infinita (rischio per l'umanità, perché di questo passo si arriverà davvero ad usare armi di distruzione di massa). Studi, documenti elaborati nei vertici americani cominciano a prevedere anche l'uso del nucleare, di armi atomiche.
Noi vogliamo opporci a questo decreto per tutte queste ragioni. Per opporci alla politica degli Stati Uniti guidata da Bush, per opporci a questo Governo guidato da Berlusconi, vogliamo far sentire questa voce dentro il Parlamento. Voglio anche ricordare - è già stato fatto da altri - che saremo, per queste ragioni, accanto al movimento pacifista che si mobiliterà il 20 marzo a Roma e in tutto il mondo.
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