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PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Antonio Leone. Ne ha facoltà.
ANTONIO LEONE. Signor Presidente, innanzitutto non posso esimermi dall'esprimere, a nome del gruppo di Forza Italia e mio personale, il più vivo apprezzamento non soltanto per la relazione, ma anche per i copiosi e sostanziosi risultati ottenuti dalla Presidenza italiana dell'Unione Europea, in condizioni politiche
internazionali molto difficili e in presenza di punti di vista così diversificati, su alcune questioni di grande rilievo, tra gruppi importanti di paesi dell'Unione.
I successi concreti ottenuti dalla Presidenza italiana riguardano un ampio spettro di materie con immediate e positive ripercussioni sulla vita dei cittadini europei. Tali successi non hanno avuto, almeno nel nostro paese, tutta l'eco e la rilevanza che meritavano, in quanto sono stati ingiustamente oscurati dal mancato conseguimento dell'obiettivo principe, cioè l'approvazione della nuova Costituzione europea, di cui per la verità il nostro Governo non ha colpa, essendosi prodigato fino in fondo per ricercare un punto di intesa.
La lista degli obiettivi conseguiti è lunga e significativa. Vale la pena innanzitutto ricordare i progressi compiuti nel quadro dello spazio europeo di libertà, di giustizia e in materia di sicurezza. Finalmente, grazie all'Italia, si è arrivati a definire il concetto di controllo comune dei confini esterni, con l'istituzione di una Agenzia europea per la gestione delle frontiere. Al tempo stesso, l'Unione ha mostrato una nuova consapevolezza del suo ruolo nel mondo, con un nuovo orientamento in tema di diritto d'asilo.
Ma quello che è più rilevante sotto il profilo dello sviluppo economico è soprattutto l'accordo raggiunto sulle reti di trasporto transeuropee, che per l'Italia in particolare è di interesse vitale. Il nostro paese, infatti, è l'unico paese europeo cui l'accesso al mercato unico è condizionato da una grande barriera naturale e continua, quale è la catena alpina. Per tale ragione, la pianificazione di nuovi assi di comunicazione riveste una importanza cruciale per il nostro futuro economico ed è di grande rilievo la decisione del Consiglio europeo di ratificare l'accordo che ha raddoppiato i contributi a carico del bilancio europeo, che passa dal 10 al 20 per cento per gli interventi sui tratti transfrontalieri delle reti di trasporto.
Ciò, in concreto, significa un forte contributo europeo per il potenziamento dei trafori e dei valichi alpini, che attualmente rappresentano una grave strozzatura per i nostri commerci con il resto d'Europa.
È da sottolineare, inoltre, l'importanza dell'assegnazione alla città di Parma della sede dell'Agenzia europea per la sicurezza alimentare dopo un lunghissimo braccio di ferro, durato oltre due anni, con la Finlandia, che rivendicava tale assegnazione. La capacità del Governo di riuscire ad ottenere un successo diplomatico di grande rilievo in un settore chiave, quale quello alimentare, nel quale l'Italia detiene sul piano internazionale una posizione importante sotto il profilo non solo quantitativo, ma soprattutto dell'eccellenza qualitativa, è sicuramente significativa.
Desidero soffermarmi brevemente sugli esiti della Conferenza intergovernativa, che rappresenta il tema politico senza dubbio di maggiore rilievo nell'ambito dell'attività comunitaria. Ho ascoltato con attenzione le dichiarazioni del ministro degli affari esteri, l'onorevole Frattini, e vi ho trovato una nuova conferma della convinzione che la Presidenza italiana ha agito per il meglio nel poco tempo avuto a disposizione. La maggior parte dei numerosi punti in sospeso, infatti, è stata definita, e nel campo della difesa si sono compiuti addirittura passi avanti rispetto a quanto concordato in sede di Convenzione europea.
Per tali ragioni, condivido pienamente la scelta di evitare di chiudere la trattativa sulla nuova Costituzione europea con una soluzione inadeguata e di basso profilo, e di non accettare una mediazione al ribasso rispetto al progetto di Costituzione europea elaborato dalla Convenzione presieduta da Giscard d'Estaing. È stato più saggio prendere atto delle divergenze residue senza, peraltro, tentare di isolare al Consiglio di Bruxelles i partner che hanno voluto difendere le loro diverse opinioni, evitando di formulare condanne che avrebbero sicuramente reso molto più difficile riallacciare, in seguito, i nodi della trattativa per giungere al varo della Costituzione europea.
Bene ha fatto, dunque, la Presidenza italiana, che ha posto le basi per una
proficua continuazione del negoziato, il cui successo in tempi ragionevoli è essenziale per la vita stessa dell'Unione.
L'Unione europea a 25, e quella futura a 27 paesi membri, non potrà funzionare senza una Costituzione, in quanto i meccanismi faticosamente assemblati a Nizza non sono adeguati alla dimensione ed alle ambizioni politiche, economiche e sociali dell'Unione allargata. L'Europa, infatti, per poter contare nel contesto mondiale, deve essere dotata di meccanismi decisionali efficienti e rapidi, altrimenti rischia di perdere la competizione globale con gli altri grandi protagonisti della scena mondiale, quali gli Stati Uniti, la Cina, la Russia ed il Giappone: ciò in termini sia economici, sia di influenza politica.
Solo una nuova Costituzione, fondata sul testo concordato dalla Convenzione, potrà conciliare il progresso verso il rafforzamento delle cooperazioni con la salvaguardia dello spirito comunitario, che rappresenta un valore da tutelare a tutti costi. Senza un accordo costituzionale, infatti, è altissimo il pericolo di frammentazione, o addirittura di compromissione, dello spirito comunitario coltivato per quasi cinquant'anni, sulla linea tracciata dai padri fondatori del Mercato comune.
Gli incontri a tre di questi ultimi tempi tra Gran Bretagna, Francia e Germania sono velleitari ed aleatori, costituiscono un rischioso fattore di divisione e possono determinare l'illusione pericolosa che l'Unione europea possa permettersi un ritardo indefinito nell'adozione della sua Costituzione. È auspicabile, quindi, porsi come traguardo la conclusione entro l'anno del negoziato sulla Costituzione europea, nel cui ambito l'Italia potrà far valere, con forza ancora maggiore, le posizioni difese durante la sua Presidenza per un meccanismo di voto trasparente e democratico e per l'estensione delle decisioni a maggioranza e a maggioranza qualificata ad un maggior numero di materie, tanto più necessaria in un'Unione europea a 25 o 27 paesi membri.
Vorrei ricordare che la responsabilità dell'Italia verso il rafforzamento delle istituzioni europee è molto grande, in quanto siamo uno dei sei paesi fondatori dell'Unione e dunque siamo custodi dell'idea alta e forte di europeismo che ha permeato l'azione dei padri fondatori di questo grande progetto politico, di cui il nostro paese è stato protagonista fin dall'inizio. Eventuali strumentalizzazioni che portino l'Italia in una direzione diversa rimangono, evidentemente, solo tali.
Il Governo, come ho già sottolineato, ha agito bene ed ha ottenuto grandi risultati in una situazione particolarmente difficile, e dunque può contare sul nostro convinto sostegno per la continuazione del suo lavoro, volto ad assicurare all'Europa e ai suoi cittadini un futuro di prosperità condivisa e di comune crescita politica, civile e sociale, nell'ambito dell'idea di un'Europa che non sia più delle carte, ma dei contenuti (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Spini. Ne ha facoltà.
VALDO SPINI. Signor ministro, il nostro intervento sarà molto preoccupato e, comunque, meno ottimista del suo. Lo sarà per i motivi che sono evidenti a tutti.
All'indomani del fallimento della Conferenza intergovernativa dello scorso dicembre, che non era riuscita ad approvare la nuova Costituzione, sarebbe stato lecito attendersi un'immediata iniziativa diplomatica del Governo Berlusconi. Era evidente, infatti, che la Francia e la Germania non avrebbero accettato passivamente di gestire l'Unione europea a venticinque paesi membri con le regole sancite dal Trattato di Nizza, attualmente in vigore. In altre parole, c'era da attendersi che, avendo alcuni paesi bloccato la Costituzione, altri avrebbero chiaramente fatto intendere che non accettavano lo status quo.
Quindi, occorreva che l'Italia lanciasse, come più volte auspicato dal Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, un'immediata iniziativa per un'azione di stimolo, di spinta - congiunta - dei paesi fondatori di quella che era, prima del Trattato di Nizza, la Comunità europea.
Difatti, i sei paesi fondatori hanno un certo titolo politico e morale per il rilancio dell'iniziativa europeista.
Invece, cos'è successo? Il Governo Berlusconi ha subito iniziato un fuoco di sbarramento contro quella che veniva considerata una possibile iniziativa franco-tedesca, presentandolo come un fuoco incrociato contro l'Europa a due velocità. Tutto il periodo seguito al fallimento del vertice è stato caratterizzato da moniti del seguente tipo: «Per carità, che non vi sia un'iniziativa!»; «Per carità, che non vi sia un'Europa a due velocità!». Siamo stati fermi, abbiamo sviluppato questo attacco preventivo e ci siamo trovati, all'improvviso, di fronte alla riunione franco-tedesco-britannica del 18 febbraio ultimo scorso.
Conosco la sua sensibilità europeistica, signor ministro, ma mi lasci dire che il Presidente del Consiglio ed il Governo Berlusconi non hanno capito quanto stava avvenendo e, di conseguenza, si sono lasciati completamente sorprendere dagli avvenimenti. È accaduto, infatti, da un lato, che Francia e Germania, visto il nostro distacco dai paesi fondatori, non abbiamo posto il problema della partecipazione italiana al vertice trilaterale; dall'altro, che la Gran Bretagna, con la quale il nostro Governo aveva condiviso determinati orientamenti di politica estera (sulla vicenda irachena), avesse più interesse ad essere riconosciuta tra i paesi leader dell'Unione europea, ed accettata dall'asse franco-tedesco, che non a porre il problema della nostra presenza. Sostanzialmente, siamo rimasti senza i vecchi alleati e senza averne di nuovi!
Onestamente, si tratta di una débâcle politica di grande rilievo. Se non recuperiamo, essa è destinata a pesare nel tempo. Infatti, la riunione del 18 febbraio tra Francia, Germania e Gran Bretagna ha un'importanza politica che va molto al di là del merito dei contenuti dell'incontro stesso e del risultato concreto ottenuto. Com'è noto, fra questi tre paesi vi sono anche posizioni diverse su alcuni punti. Qual è, tuttavia, l'elemento che emerge dall'incontro? Con la riunione del 18 febbraio, Gran Bretagna, Francia e Germania si riconoscono, l'un l'altro, come i tre paesi più importanti dell'Unione europea.
Non che noi auspicassimo l'incontro, ma non vi era alcun criterio oggettivo che giustificasse l'esclusione dell'Italia. Non poteva valere, a tal fine, il criterio demografico perché, con i nostri 57 milioni di abitanti, avremmo dovuto esserci. D'altra parte, sotto il profilo del prodotto interno lordo, siamo all'interno del G8 proprio perché abbiamo un PIL comparabile con quello degli altri grandi paesi europei. Purtroppo, la nostra è stata un'esclusione politica! Credo che, a tale riguardo, debba aprirsi una riflessione veramente molto approfondita.
La nostra esclusione dal suddetto vertice trilaterale pone indubbiamente un quesito importante. Spero che al Presidente Berlusconi esso appaia importante quanto l'interrogativo che attualmente lo assilla: se il Milan debba giocare con una o con due punte (questo interrogativo, però, pare risolto)! Forse, porre altri problemi mira veramente a distogliere l'attenzione da fatti che, come il vertice a tre, costituiscono, purtroppo, l'effetto di un andamento oscillante che egli stesso, il Presidente del Consiglio, ha impresso alla politica europeistica del Governo italiano. Invece di preoccuparsi, in maniera fantasiosa, di proporre l'annessione di questo o di quell'altro paese, il Presidente del Consiglio avrebbe dovuto occuparsi dell'Europa che c'è, la quale deve avere una solida e chiara Costituzione!
Il ministro Frattini ha affermato - e l'ha ripetuto anche oggi - che, terminata la fase della Presidenza di turno dell'Italia, l'Unione europea deve riprendere una politica coraggiosa: ad esempio, ponendo il tema del voto a maggioranza in settori cruciali come quello della politica estera. Signor ministro, parole sante! Peccato che, nel frattempo, i buoi saranno già scappati dalla stalla!
Ciò di cui abbiamo veramente bisogno, invece, è un vero e proprio mutamento di rotta della politica europeistica del Governo. Il nostro intervento sarà pieno di
proposte, anche se - lo devo ammettere - con un certo scetticismo sulla capacità della maggioranza di portarle avanti.
Lunedì prossimo, il Presidente francese Chirac incontrerà il suo omologo ungherese e, da quello che filtra, sembra si parlerà di una possibile proposta di accordo sulla Costituzione. Il Presidente Carlo Azeglio Ciampi sta per tenere (ne parlavano anche i giornali di oggi) una serie di incontri che potrebbero essere importanti ed utili per l'evoluzione della tradizionale politica europeistica dell'Italia.
In altre parole, proprio l'esclusione dal vertice a tre dovrebbe portare ad un'accelerazione dell'iniziativa politico-diplomatica italiana. Cosa proponiamo? Intanto, l'Italia dovrebbe reagire a questo vertice a tre con immediate iniziative e con incontri bilaterali con questi tre Governi, anche perché le loro posizioni non sono univoche: sarebbe quindi molto agevole inserirsi, in modo interessante, nell'ambito di queste divergenze. Occorrerebbe muoversi in modo esplicito.
Dico di più. A marzo, si riunirà il Consiglio europeo con la Presidenza irlandese e si svolgeranno le elezioni spagnole. Dunque si apre quella che, in gergo, si chiama una finestra di opportunità (che si chiuderà però con le elezioni del nuovo Parlamento europeo) per la convocazione, da parte della Presidenza irlandese, di una nuova Conferenza intergovernativa per l'approvazione della Costituzione.
Cosa faremo? Staremo fermi, com'è accaduto dopo il vertice del 13-14 dicembre? Denunzieremo l'Europa a due velocità, quando già Francia, Germania e Gran Bretagna si sono accordate sulla difesa europea, dando un impulso a questa Europa a due velocità? O ci mettiamo a lavorare seriamente per utilizzare questa finestra di opportunità per approvare la Costituzione?
Oggi è tardi per affermare che, invece di tre, vogliamo essere quattro (per carità, non facciamo un «controvertice»: tre medi contro tre grandi). La via maestra è sicuramente nelle istituzioni previste dalla nuova Costituzione.
È chiaro che un Presidente del Consiglio europeo eletto per due anni e mezzo con una sua stabilità, un ministro degli esteri dell'Unione europea (oggi, ha compiti frammentati tra i due organismi), nonché un Parlamento europeo più forte rappresentano i veri antidoti contro il formarsi di direttori! Ma se non riusciamo ad ottenere queste istituzioni e la certezza che la Costituzione sarà effettivamente approvata, certamente esisterà un pericolo di direttorio. Allora, dovremmo riprendere un'iniziativa italiana con i paesi più coraggiosamente europeisti, per non trovarsi in qualche modo isolati e in fondo alla scala, per creare una condizione diversa da quella che ritengo estremamente ingiusta, perché le tradizioni della politica europeistica del nostro paese, signor Presidente, onorevoli colleghi, meritano ben altro: meritano un'Europa protagonista della Costituzione europea, un'Europa che ha saputo arrivare anche alla Presidenza della Commissione con Romano Prodi, un'Europa con un'Italia effettivamente all'avanguardia nella costruzione dell'Unione europea!
Lei giustamente ha parlato anche della diplomazia italiana, cui do atto del lavoro svolto e dei risultati ottenuti durante il semestre di Presidenza, però non era mai accaduto che un Presidente del Consiglio di turno dovesse chiedere scusa a un deputato europeo per il modo in cui gli aveva replicato in Parlamento. Non era mai accaduto che il Presidente del Consiglio dovesse subire una censura da parte del Parlamento europeo per come aveva rappresentato l'Unione europea sul problema dei diritti umani in Cecenia. Non era mai accaduto che l'Italia bloccasse (come sta avvenendo) una direttiva europea contro la xenofobia e il razzismo! È molto importante in questo momento, soprattutto dopo il convegno sull'antisemitismo. Per non parlare - ma sono temi che abbiamo già affrontato - del mandato di cattura europeo e così via.
In ogni caso, non soltanto vi critichiamo ma cerchiamo di proporre un'iniziativa, perché sappiamo molto bene che in gioco vi è l'interesse nazionale.
Certamente, proprio la contradditorietà delle forze della maggioranza e questo modo oscillante di proporre i problemi europei ci hanno portato in questa situazione.
Mi si lasci dire allora che l'interesse nazionale dell'Italia richiederebbe, sì, un ben diverso Governo e una ben diversa maggioranza (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-L'Ulivo).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Zacchera. Ne ha facoltà.
MARCO ZACCHERA. Signor Presidente, onorevole ministro, colleghi, è veramente strano che a sinistra, quando si parla dell'Europa, non si abbia il coraggio di uscire per una volta, alzando lo sguardo e parlando dei problemi europei, da quello che è il mezzo pollaio di casa nostra. Quando sento dire queste cose mi chiedo che credibilità in questi giorni possa avere l'Italia, visto che il Presidente della Commissione europea ha già cominciato la campagna elettorale interna e ha già portato le discussioni che si svolgono in Italia proprio sul piano europeo. Mi sembra che questo non abbia certo recato giovamento alla causa della credibilità dell'Italia in Europa.
Ma se ci ricordassimo come era la situazione dell'Europa all'inizio dei sei mesi di Presidenza italiana forse potremmo anche renderci conto - lo ricordo particolarmente al collega che mi ha preceduto e che stimo - che eravamo al momento più basso della collaborazione europea. Avevamo un'Unione europea veramente spaccata in due dalla situazione dell'Iraq, con un Parlamento europeo nel quale vi erano profondissime divisioni. Dunque, una situazione di estrema difficoltà.
Allora, va dato atto alla Presidenza italiana di aver agito con buonsenso e con moderazione e di aver fatto un lungo e paziente lavoro di ricucitura, tant'è vero che sei mesi dopo la situazione europea era infinitamente migliore. Di questo bisogna dare atto alla Presidenza italiana e ne ha dato atto - perché sono i documenti che parlano - il Consiglio europeo di Bruxelles del 12 e 13 dicembre (lo hanno fatto tutti i capi di Stato e dei diversi Governi europei).
Se andiamo a vedere capitolo per capitolo cosa è stato fatto, penso che con coraggio e con legittima soddisfazione l'Italia possa dire di aver lavorato bene, grazie al Governo, grazie ai suoi rappresentanti, grazie ai nostri ministri, anche grazie alle diverse associazioni e delegazioni ai diversi Consigli d'Europa (vedo qui, per esempio, il collega Azzolini). Quindi, anche noi nell'Unione europea abbiamo portato avanti bene il nome dell'Italia e questo ci è stato riconosciuto da tutti. È facile fare le battute di spirito, mentre è più difficile entrare nel concreto.
Che cosa ha fatto il Governo italiano? Secondo me, per esempio, ha spiegato agli italiani - come giustamente ha detto il ministro a proposito delle grandi opere - quanto l'Europa possa essere concreta (non soltanto protagonista di bellissimi discorsi e grandi idee importanti), cioè capace di dare un contributo serio per risolvere, per esempio, il problema dei trasporti e delle infrastrutture, che oggi è un problema a livello europeo, ma soprattutto per l'Italia, che rischia di essere marginalizzata da determinati corridoi, che possono passare al di sopra anziché al disotto delle Alpi. Ma come si può dire che in questi ultimi sei mesi l'Italia non ha lavorato a fondo per tentare di arrivare, nei sei mesi della sua Presidenza, alla sigla, o perlomeno all'intesa della nuova Costituzione europea? A tutti i livelli, in tutti i consessi, si è riconosciuto che l'Italia ha fatto di tutto per cercare di tenere insieme le diverse questioni che sono state sollevate.
È vero, a tutti può aver dato fastidio che la scorsa settimana i tre grandi paesi europei si siano incontrati tra di loro, ma non dimentichiamoci che dal 1o di maggio saremo in un'Europa a 25 essendo peraltro imminente l'ingresso di altri paesi. L'Italia naturalmente si sta proponendo come leader di questi paesi proprio per fare in modo che a livello europeo si viaggi ad una sola velocità. Questo è acume
politico e lavoro per il futuro, al di là del fatto che mi sembra abbastanza strana la critica della sinistra: prima si ironizza perché Berlusconi è a casa sua in Sardegna e incontra praticamente tutta l'Europa, poi gli si dice che non ha fatto incontri politici a sufficienza. Non ci sono stati soltanto gli incontri amichevoli o nelle ville del premier, molto spesso ci sono stati incontri istituzionali.
Perché non proviamo a ricordarci gli incontri importanti, che ci sono stati in questo semestre europeo, organizzati dall'Italia? Ve li ricordate? Palermo, Napoli, Venezia, Parma, che è diventata la capitale della sicurezza per i prodotti alimentari a livello europeo. Queste cose ce le siamo già dimenticate dopo sei mesi? Si può sempre dire che il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto, ma trovo che obiettivamente sia difficile dire che l'Italia non abbia svolto con rigore, con senso di responsabilità, con buona volontà, il proprio ruolo, conseguendo - attenzione! - risultati tangibili. Pensate a quella presunta delinquente arrestata l'altro giorno, che importava carne umana dalla Libia: è una di quelle cose che si fa così facilmente? E chi ha lavorato nei mesi scorsi per cercare di fare degli accordi seri con i paesi del Mediterraneo che si trovano dall'altra parte del mare?
Questi sono i risultati che si ottengono con una politica seria! E non era facile tenere rapporti con la Libia. Guarda caso, la settimana scorsa il nostro premier si trovava a parlare con il leader della Libia.
E gli accordi che sono stati siglati nei Balcani, dove li mettiamo? E perché non ricordiamo che, per la prima volta, in Macedonia sta operando un contingente europeo? Anche questo ci siamo dimenticati! E Cipro? Per la prima volta, finalmente, dopo quarant'anni, dal 1o febbraio si sono cominciati ad avere scambi diretti tra le due realtà (chiamiamole così per non urtare la suscettibilità internazionale): tenendo saldamente (questo è stato un punto di forza di questo Governo) la Turchia vicina all'Europa, siamo riusciti finalmente a superare una situazione, quella di Cipro, da cui non si riusciva a venire fuori.
Questi sono i risultati storici e politici che l'Italia può, a mio avviso, giustamente far valere. Poi, si sarebbero potute fare tantissime altre cose. Ricordiamoci però anche il momento economico estremamente difficile a livello europeo. Si afferma di rado che il nostro paese sta andando relativamente meglio di moltissimi altri paesi europei, rispettando il patto di stabilità, cosa che qualcuno non ha fatto.
Peraltro, la Commissione europea ha fatto di tutto (ricordiamo le parole del Presidente Prodi) per complicare ulteriormente la situazione, cercando di stigmatizzare la posizione di determinati paesi che non rientravano nei parametri fissati. Questi ultimi, forse, in quel momento, avrebbero potuto anche essere più vicini all'Italia, se fossero stati trattati in una diversa maniera (anche perché, in questo modo, sarebbe stato possibile in Italia potenziare lo sviluppo).
Ebbene, ritengo che il lavoro svolto sia stato serio ed il ministro Frattini ce lo ha descritto. Vi sarebbero molti altri punti da ricordare, ma il tempo a disposizione è limitato.
Ritengo che in questo momento il Governo italiano abbia, innanzitutto, la necessità di spiegare agli italiani che dal 1o maggio cambierà veramente qualcosa di importante e che, quindi, bisognerà prepararsi ad un'Europa allargata. Ciò comporterà tantissime conseguenze, a cominciare dal controllo della sicurezza, del quale già si è parlato.
Obiettivamente, durante i sei mesi di Presidenza italiana, si è fatto molto anche per il controllo dei confini orientali del nuovo disegno continentale e ciò è estremamente importante.
In secondo luogo, ritengo che l'Italia debba diventare il paese leader del partito dei paesi che non vogliono un'Europa a due velocità. Oggi abbiamo scoperto che la sinistra è quasi contenta di avere un'Europa
a due velocità e ciò mi sorprende, perché è in contrasto con le dichiarazioni che avevo sempre sentito.
Ritengo che l'Italia, che ha compiti, obblighi, responsabilità ed anche una tradizione europea, debba continuare su questa strada, per svolgere un lavoro serio. Alla fine, si dimostrerà quanto di utile e di positivo il nostro paese può continuare a fare in Europa (Applausi dei deputati dei gruppi di Alleanza nazionale e di Forza Italia).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Monaco. Ne ha facoltà.
FRANCESCO MONACO. Signor Presidente, la politica estera è, per lunga tradizione, materia bipartisan, perché risponde, o dovrebbe rispondere, ad una visione che trascende le parti in conflitto, a un superiore interesse nazionale non contingente. Nessuno più di noi ne è consapevole. Ed è con questo spirito che ci siamo disposti a cooperare per la buona riuscita del semestre di Presidenza italiana dell'Unione europea, nonostante il Governo cerchi sempre - vorrei dire programmaticamente - la rottura nei confronti dell'opposizione. Purtroppo, su questo fronte - sì - il Governo ha innovato, rompendo non tanto con noi, ma con la tradizione e con la vocazione europeista del nostro paese.
Do volentieri atto a lei, ministro Frattini, di aver provato a svolgere diligentemente e volenterosamente la sua parte e, in qualche caso, di aver messo una pezza alle toppe del premier e di altri ministri.
Il problema è che gli indirizzi di politica estera non erano e non sono per intero nelle sue mani. Di più: lei è, notoriamente, uno scolaro diligente, ma il problema sono la classe e un po' anche il capoclasse. Fuor di metafora, il problema sono la cultura e gli istinti che lì si annidano e che oscillano tra antieuropeismo ed euroscetticismo.
Ma veniamo al semestre europeo. Lasciamo stare - per carità di patria - le gaffe del premier. Penso all'esordio imbarazzante (sono scolpiti nella nostra memoria i volti impietriti di Fini e Buttiglione, nonché le reazioni sbigottite e incredule dei deputati europei), un esordio che ci procurò la censura dell'Europarlamento. Penso allo sgarbo usato a Verona al cancelliere tedesco, che faceva seguito alle offese al popolo tedesco del sottosegretario Stefani, costretto poi alle dimissioni. Penso alla difesa d'ufficio dell'amico Putin sulla violazione dei diritti umani in Cecenia - a detta di Berlusconi, una favola metropolitana -, che ha comportato la censura di tutte le istituzioni comunitarie che egli avrebbe dovuto rappresentare.
Lasciamo stare anche le parole in libertà su questioni delicatissime, come quella dei confini dell'Unione, che è l'altra faccia, come lei sa, del problema dell'identità dell'Unione. Dentro tutti indiscriminatamente, secondo il nostro premier: Turchia, Russia ed Israele, ignorando l'esame in corso per la Turchia in tema di democrazia e di tutela dei diritti umani, trascurando le dimensioni della Russia, che con gli attuali parametri sarebbe semmai essa ad annettersi l'Unione, sorvolando sulla circostanza che il cuore dell'integrazione risiede esattamente nella disponibilità a cedere sovranità, cui lo Stato di Israele è, diciamo così, piuttosto refrattario. Come conciliare poi l'enfasi sulle radici cristiane con tale indiscriminato allargamento a paesi che con quelle radici non hanno nulla a che fare, è un mistero insondabile.
Sul semestre hanno pesato altresì i precedenti di un Governo da tempo circondato da diffidenza nelle cancellerie europee: penso alle forzate dimissioni del ministro Ruggiero, messo lì proprio come garante dell'affidabilità della continuità europeista del nostro paese, e che presto capitolò a fronte del segno antieuropeista impresso al Governo dalla coppia Tremonti-Bossi.
Penso alla revoca della nostra partecipazione al progetto dell'Airbus 400, quale via ad un'industria europea della difesa che, a sua volta, è condizione per una politica della difesa comune. Penso all'ostruzionismo opposto dal ministro Castelli
sul fronte del terzo pilastro della cooperazione giudiziaria: mandato d'arresto europeo, procuratore europeo, decisione-quadro volta a rafforzare una disciplina comune dei reati di razzismo, antisemitismo e xenofobia. Un ostruzionismo, questo, tanto più sconcertante se si considerano due circostanze: l'enfasi posta da questo Governo sulla sicurezza e sulla lotta alla criminalità e il «giro di vite» impresso dalla comunità internazionale a leggi e giurisprudenza ai fini della lotta al terrorismo internazionale dopo l'11 settembre.
Dunque una testarda opposizione alla cooperazione giudiziaria, in palese controtendenza e quasi in solitudine, motivata con la tesi, risibile, che Castelli, solo tra i suoi colleghi europei, sarebbe geloso custode dei diritti di libertà minacciati in tutto il resto d'Europa.
Una parola ancora sulla posizione assunta dal Governo italiano a proposito della guerra all'Iraq; una posizione la cui ambiguità è condensata nella formula adottata per esprimerla. La rammento: «non belligeranti, ma non neutrali».
Sotto il velo di tale farisaica formula, malcelata dalla doppiezza del premier che, nei vertici europei, faceva il «portaordini» di Bush e, nelle comunicazioni al Parlamento italiano, si intestava invece l'esito delle faticose e precarie, ma certo più sagge, mediazioni siglate in sede di Unione europea, quale sia stata - lo sappiamo - la reale posizione italiana lo si ricava inequivocabilmente da due elementi: il «documento degli otto» paesi di sostegno a Bush, che ha diviso l'Europa nella stretta decisiva della crisi e la goffa corsa ad iscriversi tra i vincitori, a guerra formalmente finita.
Con queste credenziali si è aperto il semestre di presidenza italiana dell'Unione europea: un semestre segnato da due smacchi - vede, signor ministro, lei ha indugiato sui dettagli, ma la sostanza è quella che mi appresto ad illustrare -, di tale portata da configurare una crisi del processo di costruzione europea tra le più acute della sua storia. Alludo alla violazione del patto di stabilità, cui non ha fatto quasi cenno, da parte di Francia e Germania, con l'avallo, se non la complicità, del Governo italiano, che ha inibito anche solo l'avvio delle procedure sanzionatorie da parte della Commissione dell'Unione. Se anche il patto è da interpretare e certamente da adeguare e correggere, le regole ed i patti vigenti vanno rispettati. Non si può far passare l'idea che possano essere disinvoltamente violati senza che ne derivino conseguenze e sanzioni.
È mia convinzione che qui affondi le radici l'altro grande smacco: il mancato varo della Costituzione europea. Se i due paesi più forti fanno i prepotenti, se la legge non è uguale per tutti, i più piccoli e i nuovi sono spinti a mettersi di traverso, ad esercitare un potere di veto e a non dare il via libera ad una Costituzione pur minimalista e soprattutto, e questo è il punto cruciale, sono spinti a non autorizzare le decisioni a maggioranza.
Come non bastasse, ci si è messo Berlusconi con la sua maldestra tecnica negoziale nella stretta finale della Conferenza intergovernativa. Vi è stata una gestione dilettantesca, tutta affidata ad incontri bilaterali, senza un vertice collettivo che costringesse i più refrattari (Spagna e Polonia) a metterci la faccia, ad assumersi in pubblico la responsabilità del fallimento. Di quella fallimentare conduzione ha reso imbarazzante testimonianza su Le soir il premier lussemburghese che - come lei sa - è persona seria e stimata, visto che di lui si parla come di possibile futuro Presidente della Commissione.
Del resto, già Tremonti, nel vertice Ecofin di Stresa, aveva dato un suo negativo contributo avanzando proposte emendative alla bozza di Costituzione tutte tese a depotenziare Commissione e Parlamento europeo e costringendo lei, signor ministro, a sconfessare quelle proposte come «irrituali» (credo siano parole sue).
Il vertice a tre di Berlino dei giorni scorsi è il frutto amaro ma naturale del discredito accumulato dal nostro Governo. Amareggia anche noi, ma non sorprende, la nostra umiliante esclusione. Si tratta di un'esclusione senza precedenti. Mi correggo,
due precedenti ci sono, ahimé entrambi coincisi con la Presidenza italiana. Mi riferisco a quello dell'autoesclusione dall'avvio della cooperazione tra quattro paesi fondatori e la Gran Bretagna in tema di difesa comune ed a quello (in questo caso si tratta nuovamente di esclusione vera e propria) della missione riuscita - di ciò siamo compiaciuti - di Francia, Germania e Gran Bretagna in Iran al fine di acquisire la disponibilità di quel paese ad ispezioni più penetranti da parte dell'apposita agenzia dell'ONU, con il risultato di allentare la tensione in quell'area e di scongiurare nuovi sciagurati conflitti. Ancora una volta l'Italia non c'era.
Si può minimizzare la portata di tale esclusione, si può deprecare la cosa, ma bisognerebbe soprattutto avere qualche idea su come far uscire l'Europa dall'impasse. Non mi riferisco al direttorio, ad un vertice a tre, all'Europa a due velocità cristallizzate, d'accordo, ma - questo sì - ad una nuova iniziativa da parte dei paesi fondatori, una sorta di «coalizione dei volenterosi» (questa volta non per la guerra, ma per la ripresa del processo di integrazione, che semmai è via al multilateralismo ed alla pace).
Un nuovo inizio del processo di costruzione europea non si darà senza l'Italia. L'Europa ha bisogno dell'Italia, ma l'Italia, che con questo Governo ha deragliato dai suoi storici binari europeisti, deve essere restituita all'Europa. Questo, signor ministro, ci proponiamo anche in occasione della prossima competizione europea, portando nell'Europarlamento una squadra di sicura fede europeista e, insieme, mettendo le premesse per sostituire questo Governo. Sono due facce della medesima battaglia (Applausi dei deputati del gruppo della Margherita, DL-L'Ulivo).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Naro. Ne ha facoltà.
GIUSEPPE NARO. Signor Presidente, dopo aver ascoltato la puntuale relazione del ministro Frattini sul semestre di Presidenza italiana esprimo apprezzamento e soddisfazione per i risultati raggiunti e per le iniziative intraprese, che vanno dalla lotta al terrorismo, all'avvio del piano infrastrutturale, dalla politica euromediterranea che ritengo strategica, al processo di allargamento europeo.
Soprattutto, diamo atto al Governo del fatto che, partendo da posizioni notevolmente distanti fra loro, si sia trovato l'accordo su oltre ottanta punti che hanno conosciuto l'ufficialità al vertice di Bruxelles dello scorso dicembre. Riconosciamo, in particolare, il valore storico che la nuova Europa acquisirà con la Carta costituzionale. L'Europa sarà protagonista della nuova era globalizzata ed il fatto più rilevante è che la nuova Europa, in tema di politica estera e di difesa, parlerà al mondo con una sola voce.
È doveroso anche ricordare altri punti qualificanti tra cui la difesa, in ordine alla quale l'Unione europea potrà prendere iniziative autonome sulla base del principio della complementarietà con la NATO, e l'immigrazione, per cui sono state poste le basi per la costituzione di un'agenzia per il controllo delle frontiere e per la limitazione dell'immigrazione clandestina.
Restano, purtroppo, ancora alcuni problemi, che dovranno essere definiti dalla CIG. Tra questi, ricordiamo la questione del voto, che ha fatto registrare l'irrigidimento della Polonia e della Spagna, ed anche la composizione della Commissione. Per quanto ci riguarda resta, inoltre, insoluto il richiamo alle radici cristiane dell'Europa.
Il Governo italiano ha sempre difeso il lavoro della Conferenza intergovernativa di Roma e crede ancora che un accordo sarà possibile, almeno nella misura in cui saranno superati gli egoismi nazionali e gli Stati dimostreranno di possedere maggiori potenzialità di apertura. Non si è mai smesso di lavorare, ben consapevoli che il passaggio chiave da superare sia il sistema di voto all'interno del Consiglio europeo, cioè il superamento del voto ponderato, fissato a Nizza, con l'introduzione del sistema della doppia maggioranza. Era naturale che la Polonia e la Spagna insistessero per il mantenimento del sistema fissato a Nizza, per mezzo del quale tali
Stati avrebbero avuto lo stesso peso decisionale di Francia, Germania, Inghilterra e Italia. Non è, invece, risultato per nulla naturale che esse rallentassero quel processo verso l'unità, che era stato avviato, un cinquantennio fa, da sei Stati pionieri, fra i quali il nostro.
È necessario, a questo punto, che si lavori per far maturare pienamente, a tutti i livelli, la consapevolezza che l'Europa - per essere così come l'abbiamo sognata e così come la vogliamo - richiede che gli Stati membri rinuncino a quote della propria sovranità, a tutto vantaggio della sovranità comune, la quale sostanzialmente costituisce la conditio sine qua non del nuovo assetto comunitario. Dunque, alla conclusione del semestre di Presidenza italiana, da una parte la rigidità della Polonia e della Spagna, dall'altra l'intransigenza di Francia e Germania - perché la Costituzione fissasse almeno una data precisa per l'entrata in vigore della doppia maggioranza, in ossequio al principio dell'inderogabilità dell'essere e del fare, propria di ogni istituzione che si rispetti - hanno impedito che si potesse pervenire alla soluzione del problema. Le due posizioni estreme non consentivano alcun margine alla mediazione italiana, se non al ribasso.
Ora, emergono delle ipotesi di soluzioni possibili, che cominciano ad essere esaminate con attenzione e con reale interesse. La determinazione di lavorare nel senso della soluzione positiva del problema è già stata espressa, dal premier spagnolo Aznar, al vertice che si è svolto a Bruxelles nella prima decade di febbraio; anche i polacchi, i francesi e i tedeschi hanno espresso la disponibilità a discuterne. Antonio Lopez, segretario generale del partito popolare europeo, ha dichiarato che tutte le parti, non solo la Spagna, vogliono chiudere prima delle elezioni europee. Elmar Brok, rappresentante dell'Europarlamento alla Convenzione, ipotizza ottime possibilità (egli dice l'80 per cento) che a maggio vi sia la nuova Costituzione europea. Diamo atto al ministro Frattini del contributo che la nostra diplomazia ha dato in prospettiva della soluzione del problema. Tuttavia, per rendere più ampia possibile la base di discussione sul futuro dell'Europa, chiediamo che il Governo renda edotta la popolazione di quanto durante il semestre di Presidenza italiana si è fatto per la costruzione dell'Europa. Ne sono prova le 80 e più soluzioni di accordo, esposte dal nostro premier al Consiglio europeo dello scorso dicembre.
L'altro problema, che riteniamo ancora aperto, è quello del richiamo alle radici cristiane nel Preambolo della Costituzione europea. La Convenzione prima e la CIG poi non hanno ritenuto di accogliere la richiesta che era stata avanzata da Italia, Irlanda, Spagna, Portogallo e Polonia. La tesi sostenuta dagli altri paesi, invece, intendeva preservare la laicità delle istituzioni, mantenendo il riferimento ai valori che sono alla base dell'umanesimo e alle eredità culturali e religiose dell'Europa. Anche perché, confortati dall'insegnamento storico dello sviluppo della nostra civiltà, siamo sempre convinti della necessità del richiamo. Il richiamo alle radici cristiane o, in un'accezione più vasta, alle radici giudaico-cristiane, sarebbe anche un omaggio a Papa Giovanni Paolo II, che tanti grandi problemi del presente ha contribuito a risolvere o ad alleggerire. Sarebbe, altresì, un omaggio ai padri dell'Europa unita, De Gasperi, Schumann e Adenauer, che hanno pensato all'Europa del futuro, attingendo alle radici di una civiltà che ha sconvolto i ritmi della storia ed ha tracciato il cammino verso la democrazia e i valori inalienabili della dignità umana e della civile e pacifica convivenza (Applausi dei deputati dei gruppi dell'Unione dei democratici cristiani e dei democratici di centro e di Alleanza nazionale).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Polledri. Ne ha facoltà.
MASSIMO POLLEDRI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor ministro, lei ci ha fatto un bilancio importante della situazione (non voglio entrare nel dettaglio in un gioco delle parti) ed, al riguardo, riconosciamo alla Presidenza italiana il
conseguimento, nel corso del semestre, di molti successi. Certo, forse, nell'Europa dei «salumieri» si sarebbe auspicata una fetta in più di bon ton, premesso che con riferimento ai tre anni del bilancio europeo del più importante funzionario del Governo De Mita, il grande funzionario dell'IRI, anche noi avremmo qualcosa da dire.
La questione dell'allargamento dell'Unione europea (forse, troppo veloce) rimane aperta. È stato compiuto qualche passo in avanti (ad esempio, la non estensione del metodo comunitario a tutti i settori) e qualche passo indietro (il non coinvolgimento dei Parlamenti nazionali). Si pongono sicuramente degli interrogativi su che tipo di Europa vogliamo e la domanda che sorge spontanea e su cui varrebbe la pena di impostare un dibattito è la seguente: quale è il futuro dell'Europa? Cosa ci tiene uniti? Qual è la passione che unisce i nostri figli e che unirà i cittadini europei? Siamo disposti a morire per l'euro? Questa è la conquista che, attualmente, possiamo vantare con orgoglio? Sulla moneta dell'euro vi è, di solito, la faccia del principe, ma dove è - se lo è chiesto anche il collega intervenuto prima di me - l'anima dell'Europa?
Forse, dovremmo ricordare, non tanto Novalis, che nel 1799 parlava di Europa cristiana, quanto il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, il quale ha affermato che l'Europa è definita da confini ideali e politici più che geografici. Proveniamo da una comune eredità umana e cristiana, in base alla quale dobbiamo rivendicare una cultura ed uno spirito genuinamente europeo. Dovremmo ricordare anche il grido di Giovanni Paolo II con riferimento al diritto di Dio di essere riconosciuto e la voce del vicepresidente Amato, che abbiamo ascoltato con piacere.
A fronte di questi inviti, non possiamo non dimenticare un altro punto di vista, sintetizzato dall'ex ministro Andreotti che invitava a non nominare il nome di Dio invano. A parte il richiamo di questo esponente cattolico, vorrei ricordare l'esponente forse più meritevole, Alcide De Gasperi quando diceva: quando si ama una persona e la si sposa, si firma, forse, una dichiarazione di odio a tutte le donne? La famiglia che creiamo, quella delle nazioni europee, non esclude nulla.
Noi, pertanto, crediamo fortemente in questo atto importante di riconoscimento: che idea di Europa si può diffondere se non teniamo nel debito conto l'importante eredità in termini di segni concreti, di valori e di storia? Forse, il primo elemento di qualificazione culturale e politica dell'Europa e di quanti vi abitano non risiede nell'insegnamento di convivenza civica, politica e religiosa, propria del principio cristiano: date a Cesare quello che è di Cesare ed a Dio quello che è di Dio? Forse, proprio in nome del principio di laicità, i detrattori dell'ipotesi di accoglimento delle radici cristiane non hanno fatto valere l'esito di un diniego? Possiamo dimenticare, forse, i valori della dignità della persona, propri dell'insegnamento di un millennio? Mi riferisco alla concezione del lavoro non come merce e come strumento di alienazione e di sopraffazione.
Non è un'idea nata con Marx, ma con l'homo faber, con la volontà di proseguire la creazione divina attraverso il lavoro e la libertà. Possiamo dimenticare, forse, come il valore della libertà sia possibilità di realizzazione personale e di ricerca di ordine virtuoso?
Ebbene, ritengo che sulla storia occorra svolgere qualche richiamo. Nella dissoluzione dell'Impero romano, la Chiesa è stato l'unico collante, è stata la culla dell'Europa; dunque, se l'Europa non è stata e non è una serie di accampamenti barbarici, lo dobbiamo non solo alla predicazione, ma anche all'opera di unità, di diffusione del diritto romano, insieme con un superiore ideale di umanità, di giustizia e di bene.
Inoltre, non si può dimenticare l'insegnamento del Medioevo; infatti, all'epoca, europea era l'idea dell'ordinatio ad unum di tutta la res publica cristiana: unus populus, unas civitas, corpus misticum. Carlo Magno non è solo il successore di Cesare, ma ricorda più l'opera di San
Bonifacio, vale a dire un'opera di allargamento, di diffusione di un apostolato.
Ma, noi italiani cosa abbiamo da perdere a non affermare con forza questo principio? Probabilmente, signor ministro, abbiamo da perdere qualcosa di più; infatti, nel nostro comune sentire, nella nostra comune esperienza cosmopolita, sono chiari due valori universali: il momento dell'Impero romano, durante il quale ci siamo estesi al di là dei confini, e quello della Chiesa cattolica, entrambi fortemente voluti e presenti sul nostro territorio.
Amo ricordare uno scritto di Camilleri in cui si cita un racconto apocrifo nel quale si afferma che, quando nel deserto si adorava il vitello grasso, l'Angelo faceva cadere un ramoscello d'ulivo nel Tevere, determinando la nascita dell'isola Tiberina. Ciò quasi a significare la sede di una nuova alleanza, la sede di un nuovo punto di diffusione del Cristianesimo. È un romano, il centurione della corte italica Cornelio, che porta un allargamento della predicazione cristiana. In questa storia si consuma un impegno che ha visto il nostro paese al centro di un progetto non solo di religione, ma anche di civiltà.
In conclusione, riteniamo che il patrimonio spirituale dell'Europa - parafrasando quanto affermato dal Presidente Ciampi - non si possa ridurre ad un sito archeologico e dunque - aggiungiamo noi - ad una Convenzione scritta su carte false.
Agli interessi di un gruppo che fa riferimento ad alti valori, ma ad un'altra concezione dell'umanità, opponiamo il valore di una cultura e di un modello di convivenza e di principi che pongono al centro l'uomo, alleato e fiero delle sue conquiste e del suo passato.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Mantovani. Ne ha facoltà.
RAMON MANTOVANI. Signor ministro, la ringrazio per la sua relazione che, com'è nel suo stile, è stata articolata, meticolosa e, per alcuni versi, anche puntigliosa. Tuttavia, in tale relazione è difficile rintracciare un'ispirazione, un bilancio vero su quali obiettivi siano stati raggiunti, partendo dagli scopi iniziali e dagli aspetti che li avevano ispirati. Infatti, la sua relazione assomiglia più ad una descrizione di quanto è avvenuto che non ad una interpretazione dei fatti e ad un vero e proprio bilancio. Tuttavia, preferisco interloquire con un ministro politico come lei piuttosto che con un ministro proveniente dalla tecnocrazia come era, in questo stesso Governo, il suo predecessore (del quale noi, al contrario di altri colleghi dell'opposizione, non ci sentiamo affatto orfani).
Signor ministro, nella sua relazione lei si è soffermato su diversi aspetti che, tenuto conto del tempo che ho a disposizione, non potrò affrontare compiutamente. Tuttavia, cercherò di leggere quanto è avvenuto alla luce di quella che ritengo sia stata l'ispirazione e la linea che ha guidato il Governo.
Il semestre di Presidenza italiana si è consumato in un tempo nel quale abbiamo assistito ad una delle più gravi crisi - naturalmente, questa non è iniziata e non si è consumata nel semestre, sebbene in quel periodo ha fatto registrare momenti apicali - che ha attanagliato il sistema capitalistico, europeo e mondiale. Che cosa ha fatto l'Unione europea e che cosa ha fatto il Governo italiano, che la guidava durante quel semestre, per fronteggiare questa crisi? Da una parte si è fatta - come ha detto lo stesso ministro Frattini - una cosa nuova: investimenti pubblici, i quali sono stati, per decisione unanime, addirittura raddoppiati nel corso di quel semestre; dall'altra, si è scelto - ma, questa non è una novità - di costituire un esercito europeo o, per meglio dire, di fare qualche passo propedeutico in questa direzione. Infine, si è tentato - non è detto che poi ci si è riusciti nella misura che ha detto il ministro e, comunque, non credo e non spero che per questo l'Italia diventi un paese egemone - di flessibilizzare, io direi più propriamente di precarizzare, ulteriormente il mercato del lavoro. Quest'ultima scelta produce, come dovrebbe sapere il ministro, immediatamente un
effetto negativo sul mercato interno di ognuno dei paesi membri e, più in generale, sul mercato interno di tutta l'Unione europea; difatti, a seguito del combinato disposto dell'entrata in circolazione dell'euro e dell'ulteriore precarizzazione del mercato del lavoro, si è registrata una maggiore povertà e una maggiore incertezza e, conseguentemente, meno consumi e meno sviluppo produttivo. Queste citate sono ricette classiche: grandi opere militari e, nel tentativo vano di rivitalizzare l'economia, si è dato vita ad una precarizzazione del lavoro.
Da un punto di vista politico generale, il Governo italiano, prima e dopo, ma anche durante il semestre di Presidenza, si è contraddistinto per essere un fedelissimo alleato non già degli Stati Uniti d'America ma di questa politica specifica del Governo che attualmente è alla guida degli USA. Uno dei motivi, tralasciando quelli falsi, per cui è stata fatta la guerra in Iraq era quello di raggiungere l'obiettivo di provocare una certa divisione nell'Unione europea; e, in questa direzione, il Governo italiano è stato effettivamente protagonista. Certo, non unico e certo con un ruolo primario. Questo, dal nostro punto di vista, è da porre in bilancio in senso negativo.
Infine, va segnalato il fallimento, perché di fallimento si tratta, della cosiddetta Costituzione europea, che in realtà, consta di un puro e semplice trattato. Una Costituzione, anche questa, debole dal punto di vista democratico e da quello politico; una Costituzione improntata alla codificazione della liberalizzazione dei mercati, che godevano di certi impianti programmatici all'interno di quel testo, e all'archiviazione a ruolo di valori di questioni che, invece, sono attinenti alla società e ai diritti. Una Costituzione, quindi, che non poteva che fallire. Per fortuna, è fallita!
Non si capisce come ci si possa meravigliare che alcuni Stati siano renitenti di fronte alla richiesta di cedere sovranità non verso istituzioni solidamente democratiche, bensì verso tecnocrazie e organi incontrollabili dal punto di vista democratico.
Inoltre, signor ministro, lei ha parlato della sicurezza come di uno dei pilastri su cui si è fondata l'iniziativa del Governo italiano. Debbo contestarla su questo punto: lei ha parlato di tre pilastri, collocando al primo posto - ritengo non casualmente, dal momento che è puntiglioso e metodico nelle sue elencazioni - la lotta ai trafficanti di uomini e donne che tentano di raggiungere la vita nel nostro continente. Se non vi fossero le attuali assurde politiche di chiusura, che non consentono neppure di rispondere alle richieste provenienti dal mondo del lavoro del nostro continente, quei mercanti non avrebbero ragione di esistere, perché quegli uomini e quelle donne potrebbero raggiungere il nostro continente senza doversi affidare alla criminalità organizzata che, comunque, consente loro di valicare le frontiere, arricchendosi sulle loro spalle, così come le imprese che li assumono in nero, dando vita a una distorsione nello sviluppo economico.
Sono queste le linee che hanno ispirato la vostra politica: una politica neoliberista, una politica minimalista dal punto di vista democratico nella costruzione delle istituzioni europee, caratterizzata - me lo lasci dire con garbo ma con durezza - da servilismo nei confronti dell'amministrazione Bush. Tutto ciò non ha dato lustro al nostro paese. Non abbiamo criticato, al contrario del collega Polledri, né il Presidente Berlusconi né il Governo per mancanza di bon ton. L'educazione certamente non guasta mai, soprattutto quando si rappresentano istituzioni e comunità politiche e democratiche. Tuttavia, quelle che potremmo definire «cadute di stile» sono connesse anche a una dose di improvvisazione presente nella politica estera, soprattutto da parte del Presidente Berlusconi.
Ciò che ha dichiarato Berlusconi sulla Cecenia, in occasione dell'incontro con il suo «amico», come ama definirlo, Putin, non costituisce soltanto una caduta di stile o una gaffe, tale da meritarsi una reprimenda
da parte delle istituzioni europee e, in particolare, del Parlamento europeo. Essa esprime una concezione dell'Unione europea e della politica: certe cose si possono dire fra capi di aziende (per fare affari si fa finta di non sapere che l'interlocutore ha le mani un po' sporche), ma non si possono dire quando si rappresenta un continente o una nazione.
Analogamente, le dichiarazioni rese da Fini in Israele - non mi riferisco alle dichiarazioni attinenti alla vita e alla storia del nostro paese, che comunque avrebbero potuto essere rilasciate proficuamente anche in questa sede - non sono certamente ispirate alla politica che l'Italia dichiara di aver promosso o comunque accettato, ovvero la politica della Road map e del «quartetto».
Infine, signor ministro, lei non ha parlato di un avvenimento mondiale cui l'Unione europea ha preso parte, tramite la Commissione, durante il semestre di Presidenza italiana, in ordine al quale, peraltro, non è chiara quale sia stata la posizione della Presidenza stessa: mi riferisco al fallimento della trattativa di Cancun. Si tratta di un fatto decisivo per giudicare il semestre e la politica estera del Governo.
Come vede, signor ministro, siamo prodighi di critiche; e, altresì, se ascoltati, di consigli. Ma mi corre l'obbligo di riferirle che abbiamo combattuto e combatteremo la linea (o la «non linea») di politica estera che il Governo ha dimostrato di avere (o di non avere, a seconda dei temi e dei momenti); essa, infatti, è nociva sia per il nostro paese sia per tutta l'Unione europea. (Applausi dei deputati del gruppo di Rifondazione comunista e di deputati del gruppo Misto-Comunisti italiani).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Cusumano. Ne ha facoltà.
STEFANO CUSUMANO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor ministro, l'informativa resa dal Governo sugli esiti del semestre di Presidenza italiana dell'Unione europea deve fare i conti con due fatti politici di grande rilievo.
Il primo riguarda la mancata approvazione del progetto di Costituzione, che lascia scoperta l'esigenza di completare il processo di integrazione economica con quello di integrazione istituzionale e politica, al fine di costruire veramente il nuovo Stato europeo. Il secondo è accaduto proprio in questi giorni, con il vertice informale, ma decisamente importante per il futuro dell'Europa, promosso da Francia, Germania e Gran Bretagna.
Circa la mancata approvazione del progetto di Costituzione e, più in generale, sulla conduzione, da parte italiana, della Presidenza europea, non possiamo che esprimere una forte critica; soprattutto, censuriamo il fatto che il Presidente Berlusconi abbia alimentato troppo le speranze e le attese riposte nell'approvazione del progetto costituzionale, coprendo, in sostanza, i gravissimi problemi che oggi caratterizzano il processo comunitario e che hanno trovato una piena manifestazione proprio nel recente incontro tra i suddetti tre paesi.
È vero che gli organismi comunitari, e finanche gli europeisti più convinti, sono spesso malati di retorica e assumono volentieri un tono enfatico ed ottimistico; ma ciò non toglie la gravità della condotta seguita dal Presidente del Consiglio italiano, lui pure colpito da una sorta di illusione che il traguardo costituzionale fosse a portata di mano. Non ha compreso lo stato di gravità cui è giunto il processo di integrazione e, anzi, con le sue scelte ed il suo stile di lavoro, ha, se mai, accentuato le divisioni e le tensioni diffuse in Europa, anziché stemperarle e colmarle. Tali, dunque, le ragioni del nostro giudizio negativo.
Onorevoli colleghi, è un dato di fatto che il processo di integrazione comunitaria sia pieno di contraddizioni non risolte e di volontà non sincere. Una situazione ambigua che consente di compiere importanti passi in avanti negli ambiti del mercato, della finanza e delle monete; ma che non riesce a trovare soluzioni adeguate proprio sul versante della risposta politica, lasciando aperto, come si riconosce, un gravissimo deficit di democrazia.
Il progetto di Costituzione europea si è arenato a causa della proposta di modifica del sistema di voto il quale, a sua volta, era già stato modificato dal Consiglio europeo di Nizza svoltosi alla fine del 2000. Si è arenato su una proposta che mirava a modificare il peso e le possibilità di influenza degli Stati nazionali sulle decisioni comunitarie, con un diverso, possibile equilibrio tra maggioranze qualificate e minoranze di blocco. È un tipo di scontro - non abbiamo esitazione a riconoscerlo - che esprime uno spirito bensì legittimo, ma altamente contraddittorio, ben lontano da quello dei padri fondatori dell'Europa. Infatti, sottintende comunque la volontà, da parte di alcuni Stati nazionali, di esercitare la maggiore influenza possibile sul cammino comunitario.
A tale gravissimo elemento di debolezza, si devono aggiungere le altre contraddizioni emerse. Ad esempio, la trasgressione, da parte di Francia e Germania, dei limiti invalicabili posti ai bilanci nazionali dal patto di stabilità; la minore sollecitazione all'integrazione dei paesi che non hanno ancora adottato l'euro, come la Gran Bretagna, la Danimarca e la Svizzera; la spaccatura dell'Europa in due assi, avvenuta in occasione della guerra in Iraq (spaccatura che ha visto l'Italia particolarmente partecipe); i contrasti emersi sui maggiori poteri da riconoscere alla Commissione europea.
Quando si apre una fase costituente e ci si avvia alla costruzione di una casa comune di tutti i cittadini europei, tutti i fili della storia si riallacciano, le trame si ricompongono, le idee, le culture, le visioni del mondo, le sensibilità, le identità specifiche si confrontano tra di loro allo scopo di individuare quei punti di convergenza necessari per costruire una vera, nuova identità comune, la nuova identità europea, appunto, con la sua proiezione costituzionale. Con ciò, siamo di fronte ad un passaggio che segna davvero una svolta decisiva.
La questione di fondo è che non si tratta soltanto di svolgere un esercizio di ingegneria costituzionale, di costruire un sistema di organismi e di regole più o meno efficiente e funzionale, non si tratta di comporre ed organizzare al meglio una serie variegata di interessi. La fase costituente richiedono una coscienza ed un impegno di natura ben diversa. Esigono da tutti una grande intelligenza dei percorsi storici degli individui e dei popoli ed una grande e fiduciosa chiarificazione sul futuro che si intende percorrere tutti insieme. In questo caso è emerso con chiarezza che la fase costituente e il progetto di Costituzione rispondono senz'altro ad un'esigenza politica di governo del processo di allargamento dell'Europa da 15 a 25 e poi a 27 Stati membri. Obiettivamente, il progetto rappresenta una fuga in avanti e questo è il punto politico decisivo rispetto ad una realtà che non è ancora pienamente sviluppata.
L'Italia deve richiamare gli organi comunitari ed in questa direzione va letta la lettera che il nostro segretario nazionale ha inviato al Presidente Prodi e agli Stati membri al fine di assumere iniziative a livello europeo allo scopo prioritario di completare realmente l'Europa economica e di costruire un nuovo Stato sociale europeo, che colleghi innanzitutto la cittadinanza europea, di circa 500 milioni di abitanti, a un sistema ben chiaro di diritti e di garanzie, che sono una cosa ben diversa dalle tutele dei vincoli di bilancio, come si è fatto fino ad ora. Tutto il resto appartiene al quadro delle illusioni, delle fughe in avanti dei velleitarismi, con il seguito di delusioni e di arretramenti che ciò comporta nel processo di integrazione europea (Applausi dei deputati del gruppo Misto-Alleanza Popolare-UDEUR).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Rizzo. Ne ha facoltà.
MARCO RIZZO. Signor Presidente, signor ministro, onorevoli colleghi, stiamo parlando del semestre di Presidenza italiana all'Unione europea e il ministro Frattini ci ha illustrato molti aspetti frutto del lavoro di questo semestre.
Io credo che il semestre di Presidenza italiana abbia un segno particolare, chiaro, relativamente a due questioni: la prima è
la fine della possibilità, o perlomeno lo stop molto forte, della costruzione dell'Europa politica; la seconda è la guerra in Iraq. Le due questioni sono particolarmente legate l'una con l'altra e sono anche il chiaro segno di un cambio radicale della politica estera italiana rispetto agli anni dal dopoguerra ad oggi.
Parlando della guerra, si è giocato molto su espressioni quali: «l'Italia non ha partecipato alla guerra»; «l'Italia ha solo mandato una missione di pace». Io mi atterrei ai fatti. L'Italia ha consentito non solo il trasporto dei militari, ma anche l'uso delle basi e di tutta la struttura logistica per i bombardamenti dell'Iraq. Quindi, credo che obiettivamente ci troviamo di fronte ad una guerra cui l'Italia ha partecipato.
Oggi si parla di una missione di pace, anche se devo dire che qualche esponente del centrodestra, con onestà, ha parlato di missione di guerra. Anche qui bastano i fatti: i nostri soldati sono situati nella zona di Nassirya, principalmente al 95 per cento della esposizione delle truppe, e l'unico piccolo ospedale si trova a Baghdad, cioè 600 chilometri più a nord.
Non vi è alcun ponte aereo, né per medicinali, né per strutture mediche, né per generi alimentari. Parliamoci chiaro: si tratta di una missione di occupazione e di guerra.
Credo che questa vicenda della guerra segni un cambiamento della politica estera italiana, nel senso di una totale subalternità rispetto agli Stati Uniti d'America, che avevano probabilmente - sto parlando dell'attuale Governo degli Stati Uniti d'America, non dell'America in senso generale - un obiettivo strategico, quello di interrompere la costruzione dell'Europa politica; e uno degli obbiettivi principali della guerra in Iraq - legata certamente alla valutazione strategica del petrolio e alla ridislocazione degli armamenti americani dall'Arabia saudita in Iraq - era la distruzione della possibilità per l'Europa di unirsi politicamente, e non solo dal punto di vista monetario. Questo obiettivo, ahimè, è stato raggiunto e potete - questo sì - iscriverlo nei risultati del semestre di Presidenza italiana. Ma, francamente, credo si tratti di un risultato negativo.
Dal punto di vista della vicenda politica internazionale, vi è un elemento che ha un po' del grottesco. Avete parlato dell'euro. Spesso il Presidente del Consiglio ha ascritto alla vicenda dell'euro l'aumento incontrollato dei prezzi che si è verificato nel nostro paese. È vero, nel nostro paese vi è stato un aumento dei prezzi totalmente incontrollato: quello che costava mille lire, spesso - tanto più se si parla di generi alimentari, di generi di largo consumo - è solamente raddoppiato e oggi costa un euro, quindi, quasi duemila lire (e se ne accorgono i cittadini e le persone comuni che vanno a fare la spesa tutti i giorni).
Voi avete tentato di coprire una precisa responsabilità del Governo, dal punto di vista del controllo dei prezzi, con l'introduzione dell'euro. Sappiamo, però, che negli altri paesi d'Europa così non è. C'è stata, sì, speculazione, ci sono state delle difficoltà, ma queste difficoltà, in Spagna, in Germania, in Francia, sono durate uno, due, tre mesi. Lo dimostrano anche i dati relativi all'inflazione. Ad esempio, l'inflazione italiana, rispetto a quelle della Francia e della Germania, è quasi il doppio: in quei paesi è all'1 per cento, in Italia è al 2,8. Quindi, oggettivamente, ci troviamo di fronte ad una condizione ben diversa.
Non volete prendervi questa responsabilità; una responsabilità, quella di parlare male dell'introduzione dell'euro, che nasconde in realtà quello che sarebbe stato il risultato se l'Italia, grazie a Prodi e al centrosinistra, non fosse entrata nell'euro: il nostro paese starebbe decisamente peggio e starebbero decisamente peggio le fasce popolari, i lavoratori. Il crack della Parmalat, se non vi fosse stato l'euro, avrebbe esposto il nostro paese ad una situazione di tipo argentino!
Abbiamo visto il Presidente del Consiglio «sparare» ogni giorno bordate durissime nei confronti dell'ingresso dell'euro con una chiara strumentalizzazione politica; poi, ad un certo punto, succede qualcosa. Dopo che Prodi aveva spiegato ampiamente i benefici dell'euro e dopo
l'intervento del Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, da un giorno all'altro, il Presidente del Consiglio non ha più parlato male dell'euro, con una spregiudicatezza, devo dire, degna del Presidente del Consiglio. Siamo abituati a questo. Ma si fa politica estera in questo modo? Sull'euro si potrebbe dire «meglio tardi che mai», ma su tutto il resto, sulla guerra in Iraq, sulla subalternità dell'Italia al Governo degli Stati Uniti, sulla distruzione dell'Europa politica, le vostre responsabilità sono enormi!
Conosco il suo lavoro, ministro Frattini, per certi versi, dal punto di vista tecnico, è un lavoro anche positivo. Ma non la invidio, perché lei ha un Presidente del Consiglio, direbbero in Spagna, che è un chapucero, cioè un apprendista de todo e un maestro de nada, un apprendista di tutto e un maestro di niente (Applausi dei deputati del gruppo Misto-Comunisti italiani).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Cima. Ne ha facoltà.
LAURA CIMA. Caro ministro, lei ci ha fornito un quadro assolutamente ottimistico del semestre di Presidenza italiana e, tuttavia, ha dovuto riconoscere che la situazione, in realtà, è di crisi totale, sia in Europa sia a livello internazionale.
Certo, avremmo avuto bisogno di ascoltare una valutazione politica un po' più approfondita sulle attuali alleanze che il nostro paese privilegia in politica estera, sulle letture degli avvenimenti che si sono verificati durante e dopo il semestre italiano di Presidenza dell'Unione europea, sulle prospettive per la soluzione dei grandi problemi che si intravedono e sul modo in cui ci si muove per risolverli.
Lei sa che in sede di Commissioni riunite della Camera è già iniziato l'esame del decreto-legge sul rinnovo delle missioni italiane all'estero, in particolare in Iraq, ed è stata richiesta la sua presenza per spiegare quale sia la politica italiana al riguardo. Purtroppo, mi rendo conto che lei ha svolto un lavoro più burocratico e politico durante questo semestre, spesso «sconquassato» dalle esternazioni del Presidente del Consiglio, o «buttato all'aria» dal potere che il ministro Tremonti ha esercitato anche a livello europeo, facendo «saltare» il Patto di stabilità e crescita.
Inoltre, si è stretta un'alleanza supina e acritica verso l'amministrazione Bush, che ci ha condotto a dividere l'Europa, a creare una situazione di grave difficoltà all'ONU, ad intervenire in Iraq sulla base di una motivazione falsa - come è stato ormai dimostrato in maniera inequivocabile - ed a lasciare tale paese in preda ad una guerra che ha coinvolto anche la nostra forza militare, come purtroppo è accaduto a Nassiriya, con il grave lutto che ci ha colpito. Si registra, infine, una falcidia continua di iracheni, di americani e di tutti coloro che in Iraq si trovano in una situazione drammatica a causa di questo intervento militare: purtroppo, ancora una volta, siamo stati delle facili cassandre.
Ci piacerebbe sapere, allora, come si pensa di uscire da tale situazione. Il ministro degli esteri tedesco Fischer - che ricordo essere venuto, oltre che al congresso dei Verdi europei, anche alla Camera dei deputati, su invito del Presidente Casini -, ha delineato con estrema lucidità i gravi rischi presenti in Iraq, ed ha spiegato il motivo per cui la Germania non è intervenuta e continua a non intervenire con proprie forze di occupazione, ma solo a livello umanitario. Di fatto, è già scoppiata una guerra civile tra le tre componenti del popolo iracheno, a causa di una situazione ingovernabile. Ciò comporta il rischio di un'espansione del terrorismo e dimostra l'incapacità di gestire la situazione politica in quella regione.
Anche rispetto all'Iran, abbiamo visto che l'Italia è stata tagliata fuori dai paesi che contano nell'Unione europea, i quali hanno trovato un'intesa quando si è trattato di risolvere la crisi che si stava aprendo. Adesso, dopo lo svolgimento delle elezioni iraniane, ci piacerebbe capire, dopo la vittoria dei conservatori, quale sia la politica del nostro paese al riguardo, considerato anche il rischio di una saldatura...
PRESIDENTE. Onorevole Cima, si avvii a concludere.
LAURA CIMA. Signor Presidente, vorrei mi lasciasse due minuti per concludere il mio pensiero.
Come dicevo, occorre considerare in quest'ambito il rischio della saldatura tra l'islamismo conservatore e quello estremista e terrorista.
Per quanto riguarda, poi, le residue possibilità di arrivare ad una Costituzione europea in tempi stretti, lo stesso Joschka Fischer ci ha detto molto chiaramente che, o si arriva entro quest'anno a firmare la Costituzione, oppure l'Europa correrà gravissimi rischi: la storia va avanti e, qualora non fossimo in grado di approvare la Costituzione, pagheremmo un prezzo elevatissimo. Ebbene, cosa sta facendo l'Italia per aiutare l'attuale Presidenza di turno a trovare una soluzione? Mi pare che lei, signor ministro, non abbia indicato alcuna prospettiva chiara a tale riguardo.
La nostra valutazione del semestre italiano è senz'altro negativa. Abbiamo dovuto sopportare anche le dichiarazioni irresponsabili del Presidente del Consiglio sulla Cecenia! Per quanto concerne, poi, la questione del muro in Palestina, la memoria che l'Italia ha inviato alla Corte internazionale di giustizia non aiuta assolutamente a far comprendere quello che sta succedendo, né riconosce l'aggressione ed il conseguente ostacolo al piano di pace noto come Road map che il muro comporta.
Poiché ho esaurito il tempo a mia disposizione, non posso entrare nel merito di tante altre questioni. Mi limito a constatare che sull'ambiente non si è fatto alcunché; anzi, con la storia delle reti transeuropee è stato bloccato anche il Protocollo delle Alpi, che è fondamentale per affrontare con qualche serietà il problema di un sistema così delicato. A tale proposito, occorre tenere conto anche dei drammatici cambiamenti climatici preannunciati, come abbiamo letto in questi giorni, dal Pentagono.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Intini. Ne ha facoltà.
UGO INTINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor ministro, c'è da essere molto delusi dal semestre europeo appena conclusosi: è stato un semestre horribilis, che spero non prepari un anno altrettanto orribile!
Ciò non soltanto perché l'Italia non ha guidato l'Unione europea verso l'accordo per la Costituzione. È questo il clamoroso fallimento; e solo per questo sarà ricordata, purtroppo, la nostra Presidenza. Vi erano difficoltà obiettive e, pertanto, non si può gettare la croce addosso a Berlusconi. Per superare queste difficoltà enormi, occorreva una dose davvero grande di abilità e di prestigio personale.
Credo si debba essere delusi e critici perché, per la prima volta da decenni, la politica italiana ha abbandonato le sue linee guida tradizionali. Per decenni, una nostra linea guida è stata l'europeismo, il legame con il cuore dell'Europa, con i suoi padri fondatori. Ebbene, questa linea è stata abbandonata, non soltanto per le esternazioni di Bossi e, talvolta, anche di Tremonti, ma perché l'euro è stato indicato come un fattore negativo, anziché come una conquista, e perché si è rotta la solidarietà con Francia e Germania, ovvero con il cuore dell'Europa, per seguire passivamente l'America di Bush in Iraq. Anche la Gran Bretagna lo ha fatto, ma ha seguito la sua storia ed il suo interesse nazionale. Infatti, adesso Gran Bretagna, Francia e Germania ritrovano un equilibrio, perché di un equilibrio hanno bisogno: si incontrano tra loro e l'Italia, il quarto grande paese europeo, è esclusa!
La seconda linea guida che l'Italia ha abbandonato dopo decenni è quella della neutralità e dell'equidistanza nel conflitto israeliano-palestinese, tanto che Sharon, il più estremista tra i Presidenti israeliani, ci ha definiti i suoi migliori alleati! In particolare, la posizione del Governo sull'Iraq può essere criticata con forza: essa appare, spesso, più propagandistica che politica o diplomatica.
Il Governo si stupisce per le divisioni nella sinistra su questo tema, ma si tratta di divisioni tattiche più che strategiche: tutta la sinistra considera un errore la guerra e
considera impossibile che le truppe italiane restino in Iraq senza un «ombrello» internazionale lungo. Certo, la sinistra radicale privilegia le posizioni di principio e, quindi, dice: «Basta soldati italiani in Iraq, senza "se" e senza "ma" e subito!». Capisco questa posizione e la rispetto. Altri - la sinistra riformista, pragmatica, di Governo - si pongono la domanda: ma se tutti se ne andassero subito, domani, dall'Iraq, cosa accadrebbe? Succederebbe un bagno di sangue e un disastro.
Credo che la posizione dei democratici americani in questa campagna elettorale che si è ormai aperta appaia realistica. Non uno solo dei candidati democratici americani chiede il ritiro delle truppe degli Stati Uniti. Il ragionamento che essi fanno è sostanzialmente il seguente: i soldati americani adesso non se ne possono più andare, perché l'Iraq, prima, non era una minaccia per il mondo e per gli Stati Uniti, non lo era perché non c'erano armi di distruzione di massa (ed erano le armi di distruzione di massa l'unico argomento usato per legittimare la guerra) e perché il regime di Saddam era nemico, non amico, del fondamentalismo islamico e dei suoi terroristi. Dunque, prima l'Iraq non era un pericolo. Adesso sì. Adesso, dopo la guerra, l'Iraq, se lasciato da solo, sarebbe un pericolo mortale, sarebbe un Afghanistan anno 2001, governato dai talebani ospiti di Bin Laden, moltiplicato per cento. Sarebbe il quartier generale del terrorismo mondiale.
Quest'argomento, usato dai candidati democratici americani, è il più duro atto di condanna contro la politica di Bush. Oggi abbiamo, dunque, una sola strada: l'internazionalizzazione della crisi, il ritorno delle Nazioni Unite. Abbiamo bisogno di più, non di meno truppe di occupazione, in attesa di devolvere il potere ad un Governo legittimo iracheno. Abbiamo bisogno di truppe americane che non abbiano il controllo politico della situazione, di truppe dell'Unione europea, non di singoli paesi europei. Soprattutto, abbiamo bisogno di truppe di paesi islamici non confinanti ed è questo il suggerimento della Giordania: truppe pakistane, egiziane, saudite, indonesiane. Non c'è altra strada.
Il Governo, dunque, smetta di fare propaganda. Non si è antiamericani se si è fuori dall'Iraq. Il Canada è filo americano, com'è evidente, ma non ci sono soldati canadesi in Iraq. Non si è filoterroristi se si è fuori dall'Iraq. La Francia è certamente contro il terrorismo, ma non ci sono soldati francesi in Iraq. L'Italia è stata intrappolata in una guerra che rischia di durare anni. Deve uscire dalla trappola nei tempi e nei modi possibili, giocando la carta dell'internazionalizzazione, l'unica possibile, quella che un Presidente democratico americano sicuramente giocherà, se mai ci sarà, come spero e come forse, in cuor suo, spera anche il ministro degli esteri.
Più il Governo farà propaganda, meno uscirà dalla trappola. Il Governo si stupisce per le divisioni della sinistra, eppure i laburisti inglesi non sono in una lista unica, sono in un partito unico e cionondimeno sono divisi. Mi stupisco, invece, per l'unità della destra, che indica una disciplina coatta o una mancanza di approfondimento.
Vedete, Forza Italia e il partito dell'Unione dei democratici cristiani e dei democratici di centro stanno nel partito popolare europeo. Ma nel partito popolare europeo alcuni sono favorevoli alla politica di Bush, altri, come i gollisti francesi e i giscardiani, sono contrarissimi. Gli stessi democristiani tedeschi si guardano bene dal drammatizzare la loro critica alle posizioni del cancelliere Schroeder. I democristiani cileni sono autorevoli membri dell'internazionale democristiana, di cui il presidente Casini è autorevole esponente, ma sono furiosamente ostili alla politica di Bush in Iraq.
Faccia, dunque, meno propaganda la maggioranza, rifletta di più, e anche l'opposizione resisterà meglio alla propaganda delle sue aree più radicali. Aiuterà meglio l'Italia ad uscire con dignità dalla trappola irachena in cui è stata cacciata.
Un grande professionista della politica estera come lei, signor ministro, un professionista equilibrato, dovrebbe ricercare con pazienza questa prospettiva. Se lo farà, avrà il nostro aiuto (Applausi dei
deputati dei gruppi Misto-Socialisti democratici italiani e della Margherita, DL-L'Ulivo).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Selva.
GUSTAVO SELVA, Presidente della III Commissione. Signor Presidente, intervengo perché sento il dovere, nella mia veste istituzionale, di ringraziare il ministro Frattini per l'ampia, dettagliata, intelligente e per me persuasiva relazione svolta. Spero che la previsione da «uccello del malaugurio» dell'onorevole Ugo Intini, che ha definito anno - o semestre - horribilis quello della Presidenza italiana, non si verifichi.
PRESIDENTE. Onorevole Selva, la prego di concludere, lei mi aveva chiesto solo un minuto. Ha già parlato un esponente del suo gruppo.
GUSTAVO SELVA. Ho finito, Presidente. Vorrei ringraziare il ministro e invitarlo a mantenere sempre - come ha fatto finora - quei proficui rapporti con la Commissione che ho l'onore di presiedere, della quale è stato sempre diligente informatore, anche per riceverne gli indirizzi che rientrano nella funzione del Parlamento. La ringrazio, signor Presidente.
PRESIDENTE. È così esaurita l'informativa urgente.
Sospendo brevemente la seduta.
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