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PRESIDENTE. Passiamo alle dichiarazione di voto sul complesso del provvedimento. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l'onorevole Intini. Ne ha facoltà.
UGO INTINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, vorrei pronunciare poche parole per esprimere un voto favorevole sul provvedimento in esame. Senza retorica e senza propaganda. Penso sia giusto dire parole di verità sul passato, parole espresse con generosità nei confronti degli sconfitti dalla storia. I Socialisti lo hanno fatto da decenni. Come direttore dell'Avanti! ricordo che aprii le porte alla collaborazione di un fascista, intellettuale e repubblichino come Giano Accame. Non abbiamo aspettato il libro di Pansa per denunciare i crimini commessi in nome della Resistenza. Potevamo farlo perché Pertini, che era Presidente della Repubblica, approvava e perché celebravamo il 25 aprile e il sacrificio di Matteotti insieme ai nostri compagni che furono maestri per noi, ma che furono anche protagonisti della Resistenza.
Abbiamo ricordato per anni il martirio della popolazione italiana in Istria. I giornali e i libri, per la verità, scrivevano e dicevano poco, ma al riguardo ci hanno insegnato tanti cari compagni ed amici. Ne voglio ricordare due: Guelfo Zaccaria, socialista, partigiano in Istria, e Pio De Berti, direttore della rete 2 della RAI, intellettuale, esule da Fiume, scacciato dalla violenza titina; suo padre era sindaco socialista di quella città e fu poi stretto collaboratore di Saragat e maestro di socialismo per il figlio.
Facevamo battaglie di libertà e di verità spesso isolati nella sinistra. Certo, il partito comunista del tempo ha avuto delle responsabilità,
ma furono responsabilità molto inferiori a quelle dei grandi giornali indipendenti, dei mass media e della cultura italiana. Non dimentichiamo che, alla fine degli anni settanta, non l'Unità, ma il Corriere della Sera predicava l'ortodossia marxista-leninista.
Questo paese ha sofferto per i ritardi dei partiti della sinistra; però, ha sofferto molto di più per la viltà, il conservatorismo e la faziosità di quella che avrebbe dovuto essere la guida culturale della sinistra e del paese, quella che ancora oggi - non è un caso - frappone ostacoli al suo rinnovamento in senso riformista. Si tratta dell'unica cultura di origine marxista-leninista sopravvissuta al mondo. Questa cultura non è il medico, ma la malattia della sinistra.
Per tutte queste ragioni, ho apprezzato la posizione che è stata assunta dall'onorevole Fassino e dal partito dei Democratici di sinistra: una posizione coraggiosa e chiara.
Ciò detto, non mi sono piaciute e non mi piacciono le strumentalizzazioni e gli eccessi polemici che si sono colti anche in questo dibattito. Un paese che si divide e dibatte continuamente sul passato preoccupa: è un paese invecchiato e invecchiato male, senza sufficiente identità storica, dove la politica strumentalizza il passato, anziché progettare il futuro. La politica riempie i giornali e consuma le sue energie guardando indietro, anziché guardare avanti.
Diciamo la verità: parliamo di cose di sessant'anni fa. Nel 1968, mai si sarebbe potuto immaginare un aspro dibattito sugli orrori della guerra 1915-1918.
Un altro aspetto che non mi piace è che la destra - e ciò è evidente - tenta di mettere fascismo e comunismo sostanzialmente sullo stesso piano. Non voglio entrare in un argomento complesso; lasciamo, dunque, da parte il piano internazionale. Ciò che è certo è che non si può mettere sullo stesso piano fascismo e comunismo in Italia.
I comunisti italiani hanno avuto il torto di appoggiare Mosca sul piano politico e propagandistico, hanno avuto una responsabilità ideologica, è vero. Ma occorre aggiungere ciò che è evidente e necessario; bisogna aggiungere ciò che ci dicono l'esperienza ed il buonsenso: i fascisti hanno oppresso l'Italia, i comunisti no (Commenti dei deputati del gruppo di Alleanza nazionale), i fascisti hanno perseguitato gli ebrei italiani e tanti cittadini italiani, i comunisti no.
UGO LISI. Ma che stai dicendo?
UGO INTINI. Anzi, i comunisti hanno lottato per la libertà dell'Italia, insieme ai socialisti, ai democristiani e ai liberali (Applausi dei deputati dei gruppi Misto-Socialisti democratici italiani, dei Democratici di sinistra-l'Ulivo, Misto-Comunisti italiani e Misto-Verdi-l'Ulivo)!
I vecchi socialisti lo hanno sempre saputo: i Nenni, i Saragat, i Pertini, i Craxi non hanno mai trattato i comunisti come dei nemici e come dei fascisti. Tutti hanno collaborato con i comunisti dove era possibile, nei comuni, nelle regioni, nei sindacati e nelle cooperative. Tutti hanno avuto l'obiettivo di governare l'Italia con dei comunisti che abbandonassero, finalmente, l'ideologia comunista. Anche questo ha aiutato il rinnovamento del vecchio PCI.
Anche per questo, e concludo signor Presidente, è oggi maturo il tempo per una grande e leale aggregazione tra ex comunisti, liberali, socialisti e cattolici. L'unità che oggi si crea a sinistra ha anche questo valore, significa una cosa molto importante: non ci divide più il passato; ci uniscono il presente e il futuro (Applausi dei deputati del gruppo Misto-socialisti democratici italiani, Democratici di sinistra-l'Ulivo, Margherita, DL-l'Ulivo, Misto-Comunisti italiani e Misto-Verdi-l'Ulivo).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l'onorevole Valpiana. Ne ha facoltà.
TIZIANA VALPIANA. Signor Presidente, colleghe e colleghi, ci siamo accinti a lavorare su questo provvedimento - che pure, per come è stato presentato, poteva
essere, per noi di Rifondazione comunista, colmo di insidie non condivisibili - con serietà e serenità, con un atteggiamento privo di pregiudizi, con la più sincera predisposizione a lavorare per arrivare ad un risultato condivisibile, pur nella consapevolezza di quanto sia delicato affrontare un tema ancora troppo recente (cinquant'anni nella storia sono nulla) e ancora sanguinante.
Il fatto che, nel corso dell'istruttoria in Commissione, alcuni nostri emendamenti siano stati approvati e che tutti, così come quelli delle altre parti politiche, siano stati discussi costruttivamente testimonia la ricerca di arrivare a riconoscere e stigmatizzare vicende atroci, forse comprensibili, certamente ingiustificabili ed inaccettabili.
Ma la proposta emendativa oggi votata per l'istituzione della giornata del ricordo non ci consente più di condividere un provvedimento che diventa imposizione strumentale di un elemento fortemente simbolico, fatto proprio con eccessiva disinvoltura anche da chi sembra scoprire, all'improvviso, un valore ed un dramma su cui si compie una frettolosa revisione, quasi a voler fare di questa riconciliazione una nuova rimozione di responsabilità, legata ad esigenze politiche, da cui derivano semplificazioni inquietanti da un punto di vista culturale e politico.
Vorrei, a questo proposito, segnalare a tutti i colleghi un articolo molto bello pubblicato oggi su un quotidiano, a firma di Gabriele Polo, «La storia è in gioco», che ben corrisponde a quanto abbiamo voluto dire.
Non ci ritroviamo più in questo provvedimento perché vediamo, proprio come «carne da macello», «gettare i morti» su un piatto della bilancia nel tentativo di un impossibile ed inaccettabile bilanciamento tra stermini. Il vostro ragionamento - voi avete il vostro 25 aprile, il vostro 27 gennaio, noi vogliamo il nostro 10 febbraio - offende quei morti e ci offende. Sentire il presidente della regione Lazio parlare di olocausto italiano, dimenticando i tanti morti anche sloveni, ci fa capire quali siano i reali intendimenti di una rivalsa e le forzature propagandistiche che stanno dietro questa legge.
È un gioco a cui non vogliamo prestarci, perché non è un gioco innocente. È il gioco di una precisa parte che intende fare del riconoscimento concesso ai familiari dei cittadini nelle zone dell'Istria e della Dalmazia e soprattutto dell'istituzione della giornata del ricordo uno strumento di divisione e di propaganda.
Le foibe sono una pagina di storia italiana oscura sulla quale, ieri e oggi, si tenta un'interpretazione storica distorta, in chiave prevalentemente anticomunista, ma anche una pagina sulla quale è stata fatta una rimozione colpevole. Su questa pagina e su questo provvedimento vogliamo innanzitutto, senza arroganza alcuna ma con nettezza, ribadire che, se oggi siamo qui a discutere e ad istituire anche questo riconoscimento e questa giornata, lo dobbiamo al fatto che allora ha prevalso quella parte, grazie alla quale, nel nostro paese, è possibile anche ripensare e dare nuove valutazioni sulla storia recente.
Le foibe ci sono state; sono stati orrendi episodi che vanno certo inseriti nel clima violento in cui sono avvenuti, ma che vanno studiati senza ipocrisie ed omissioni. Certo, si è trattato di vendette nate da un odio sedimentato in vent'anni di soprusi, persecuzioni, denunce, arresti, rastrellamenti, espropriazioni, negazione dell'identità culturale, oppressione e violenza del regime fascista contro le popolazioni istriane, ma che certo non danno giustificazione alcuna agli attentati ed alle vendette.
Quando, con l'8 settembre, tutto crolla, l'odio a lungo trattenuto esplode in una violenza ingiustificabile. Mi riferisco ad arresti, processi sommari, esecuzioni ed abusi non solo su chi aveva indossato la divisa del regime, ma su tutti coloro che si opponevano al nuovo ordine travolgendo persone diverse per etnia e per fede politica.
Anche se nati dal tentativo di sostituire un nuovo ordine al sistema nazifascista oppressivo che crollava, noi rifiutiamo alla radice ogni giustificazione alla cultura
della vendetta e dell'odio. Allo stesso modo, però, non accettiamo che si vogliano presentare le foibe e l'esodo come il corrispettivo degli eccidi fascisti, gli spietati slavo-comunisti come contraltare dei barbari nazisti. Non è accettabile, né dal punto di vista storiografico né da quello politico, mettere sullo stesso piano fatti storici così diversi: le foibe, l'occupazione nazifascista della Jugoslavia, la lotta partigiana, i battaglioni fascisti (vorrei che tutti leggessero la relazione del collega Menia che accompagna il provvedimento in esame, che parla disinvoltamente di battaglioni Mussolini, di X Mas, di Junio Valerio Borghese, e così via). Mettere sullo stesso piano il fascismo e l'Italia lascia il dubbio che la memoria delle foibe nasconda il rancore della destra sconfitta e che dietro al ricordo dell'esodo delle popolazioni istriane spunti quel concetto di italianità tradita, prima di tutto, dal fascismo e dalla difesa della Repubblica sociale italiana.
Rifiutiamo e ripudiamo le foibe considerandole un concentrato di violenza derivato dal crollo di un sistema oppressivo cui si voleva rispondere con la creazione di un nuovo ordine, ma a partire dalla sbagliata eliminazione fisica dell'oppressore. L'orrore non è giustificabile nemmeno se si tratta di risposta degli oppressi all'orrore degli oppressori, anche perché l'imitazione delle violenze subite instilla la logica e la cultura dell'avversario nel nuovo che si stava costruendo.
A noi non piace nemmeno - e lo rifiutiamo - il gioco della contabilità dei morti: è inaccettabile sia politicamente, sia moralmente. La differenza tra noi ed il fascismo non sta nell'entità della violenza, ma nella fondamentale diversità della visione del mondo. Oggi abbiamo il coraggio civile e l'onestà di fare i conti con la storia e di chiederci anche quale insegnamento traiamo dal fatto che, persino in un movimento nobile e giusto come quello della Resistenza, vi siano stati errori e vendette private proprio perché viviamo nella Repubblica italiana fondata sull'antifascismo e sulla Resistenza.
Vogliamo costruire un altro mondo possibile, rovesciare lo stato delle cose presenti e non ci appartengono né la guerra come igiene del mondo, né le retoriche patriottarde. Senza rinnegare tutto, siamo disponibili a tutto rielaborare alla luce della nuova identità che ci vogliamo dare. Tale operazione richiede rigore verso noi stessi e verso la storia, quello stesso rigore che, invece, non ritroviamo in un provvedimento che strumentalizza morte e dolore nel tentativo revisionista di voler disconoscere le differenze tra guerra di aggressione, liberatori e sofferenze di un popolo.
Per questo non siamo disponibili ad unire il nostro voto a quello di chi intende avvalorare la tesi che le due parti si equivalgono, o quasi, e mettere in un unico calderone fascismo e Resistenza. Il nostro antifascismo non è un ricordo. «Ora e sempre Resistenza» è per noi necessità attuale e credo fondante a partire dal quale siamo in grado di condannare, senza reticenze, la violenza che vi è stata.
Votiamo contro il provvedimento in esame perché siamo fortemente contrari all'uso politico della storia (Applausi dei deputati del gruppo di Rifondazione comunista).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l'onorevole Fontanini. Ne ha facoltà.
PIETRO FONTANINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, con il provvedimento in esame il Parlamento, finalmente, colma una grave lacuna storica. Le migliaia di vittime della violenza portata avanti dal regime comunista del maresciallo Tito hanno finalmente trovato ascolto; i profughi dell'Istria e della Dalmazia hanno trovato giustizia.
Non saranno più considerati affiliati o, peggio, esponenti del regime fascista. Le violenze subite da questi cittadini saranno ricordate nelle aule scolastiche e nelle istituzioni, perché le loro testimonianze siano di monito a chi crede di imporre la proprie regole con la violenza. I nostri ragazzi conosceranno queste pagine buie
della storia dei nostri popoli e quando sentiranno la parola «foiba» non saranno confusi nella conoscenza. Non ci saranno più equivoci nel comprendere le violenze che hanno accompagnato gli omicidi perpetrati nelle foibe e si dovrà meditare sul rischio che hanno corso anche le terre poste ai confini orientali dell'Italia di essere inglobate in un sistema totalitario, come più volte avevano chiesto e programmato i rappresentanti dell'ex Jugoslavia.
La Lega Nord Federazione Padana ha contribuito, sia in Commissione sia in Assemblea, all'approvazione di questo provvedimento, perché è cosciente che la violenza dell'ideologia comunista, perpetrata nei confronti dei popoli istriani e dalmati, sia stata una brutta pagina della storia d'Italia. Su queste violenze, la memoria non deve mai venire meno, non deve mai essere cancellata (Applausi dei deputati del gruppo della Lega Nord Federazione Padana e del deputato Menia)!
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l'onorevole Mongiello. Ne ha facoltà.
GIOVANNI MONGIELLO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, la proposta di legge in esame, recante come titolo la concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati, trova nel gruppo parlamentare dell'Unione dei democratici cristiani e dei democratici di centro un'adesione convinta, anche perché il provvedimento ha avuto modo di ampliarsi sul piano delle finalità e degli obiettivi. Per quanto ci riguarda, il «Giorno della memoria» non può essere un punto che divide, all'interno dell'Assemblea parlamentare. La sua istituzione vede, infatti, con grande adesione e convinzione, i gruppi parlamentari uniti intorno ad un ricordo, ad una memoria, che vuole significare che la tragedia delle foibe è certamente appartenuta ad un tempo passato, trascorso, ma deve essere valutata per quello che è stata: un'immane tragedia, che non deve mai più ripetersi ed il cui ricordo deve essere un punto di riferimento per le generazioni future. In questo senso, noi diamo la nostra adesione anche all'istituzione del «Giorno della memoria» per quella tragedia.
L'esodo dei cittadini di Istria, Dalmazia e Fiume certamente trovò impreparato un paese che non era organizzato nel dopoguerra e che con fatica ricostruiva non soltanto la struttura portante per produrre, ma anche la sua organizzazione civile, come paese che si affacciava, dopo venti anni, alla democrazia. Oggi, in quel territorio, si celebra il ricordo degli eventi tragici delle foibe, con uno spirito di conciliazione ed altrettanto sta facendo il Parlamento italiano.
Per questo motivo, per quanto ci riguarda, abbiamo visto con grande favore l'adesione di gruppi parlamentari della sinistra, convinti a votare il provvedimento, convinti a muoversi sul piano delle situazioni positive, che incontrano il favore della pubblica opinione.
È stato detto che il «Giorno della memoria» è per alcuni, in quest'aula, il punto del discrimine e non consente una piena riconciliazione all'interno dell'Assemblea parlamentare. Non ho compreso quanto è stato detto, perché ritengo che un evento, come quello delle foibe, non appartenga ad un'ideologia politica, che è stata abbondantemente superata. Appartiene, invece, ad un passato che tutti auspichiamo e che riteniamo non debba mai più verificarsi.
Il gruppo dell'Unione dei democratici cristiani e dei democratici di centro non ha apprezzato alcune considerazioni svolte in quest'aula, in particolare quando si sono imputati ritardi e colpe a Governi del passato che non avrebbero messo in luce fino in fondo la tragedia subita da quelle popolazioni. Per quanto mi riguarda, non devo difendere i Governi del dopoguerra; so che chi ha operato, nell'esercizio della gestione della cosa pubblica dal dopoguerra fino ad oggi, ha fatto sì che in questo paese fossero comunque preservati la democrazia, la libertà, la pace e lo sviluppo.
I Governi del dopoguerra avevano questo compito che riteniamo sia stato sufficientemente svolto. All'atto della consegna
della gestione della cosa pubblica alla cosiddetta seconda Repubblica, il compito assunto - è stato affermato con orgoglio non solo nelle nostre coscienze - era stato portato a termine: il paese era in pace, progredito e libero, con in sé il fiato ed il respiro della democrazia.
Questo è il motivo per cui preannuncio l'espressione, da parte del gruppo dell'Unione dei democratici cristiani e dei democratici di centro, di un convinto voto favorevole sulla proposta di legge in esame, ritenendo che ciò rappresenti un passo in avanti per una riconciliazione piena e per annullare i residui di una guerra tragica che ha flagellato e diviso il paese (anche per gli effetti della guerra civile).
Un grande salto in avanti è stato compiuto; crediamo pertanto che, con tale provvedimento, potremmo superare le conseguenze della tragica guerra del 1940-1945 (Applausi dei deputati del gruppo dell'Unione dei democratici cristiani e dei democratici di centro).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l'onorevole Boato. Ne ha facoltà.
MARCO BOATO. Signor Presente, condivido quanto affermato dal collega Mongiello (lo rilevo intenzionalmente, trattandosi di un collega del centrodestra), nonché quanto sostenuto dal collega Intini, appartenente al centrosinistra. Cito due interventi, tra i più equilibrati, per dare significato al voto favorevole del gruppo dei Verdi sul provvedimento in esame, che sarà approvato a larghissima maggioranza, rispettando anche chi ha opinioni diverse, come è giusto che sia in un libero Parlamento.
Oggi, noi che apparteniamo all'opposizione di centrosinistra voteremo a favore del provvedimento. Vorrei ricordare che, anche nella scorsa legislatura, in quest'aula, abbiamo votato a favore di un testo unificato (due erano le proposte di legge al riguardo, delle quali i primi firmatari erano i deputati Menia e Di Bisceglie). Come ho ricordato anche nel corso della discussione sulle linee generali del provvedimento, a mio parere fu un errore, da parte dell'altro ramo del Parlamento, non approvare tempestivamente, al termine della scorsa legislatura (tre anni fa), una proposta di legge che proponeva, all'epoca, l'attribuzione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati.
Oggi, felix culpa (solo sotto questo profilo), quell'errore ci permetterà di votare un testo più ampio, perché comprende l'istituzione della giornata del ricordo (il 10 febbraio), nella memoria di ciò che è avvenuto dopo il 10 febbraio del 1947, ma anche di tutto ciò che l'ha preceduto.
Abbiamo sempre avuto un atteggiamento costruttivo, di confronto e di dialogo, ma ci siamo anche sforzati con tutti i colleghi (in particolare, i colleghi Rosato e Maran che hanno dato un importante contributo a questo dialogo parlamentare) per definire un testo equilibrato, per superare posizioni unilaterali e per cercare di raggiungere in quest'aula il massimo di convergenza.
Credo sia giusto affermare pacatamente - come già fatto da altri colleghi - che sicuramente vi deve essere massimo rispetto per le vittime, ma anche che, dal momento che vi è stata una rimozione storica rispetto alla tragedia italiana di cui parliamo (gli infoibati da una parte, l'esodo dall'altra), non si deve dimenticare - mi rivolgo in particolare ad alcuni colleghi di Alleanza nazionale - la radice storica di questa vicenda. Altrimenti, non si comprende perché si vada in Israele a parlare del fascismo nei termini in cui, giustamente, ne ha parlato il presidente di Alleanza nazionale Fini, perché si facciano i congressi a Fiuggi e si riconosca il fondamento antifascista della Repubblica italiana e poi si rischi di dimenticare, purtroppo, la radice storica di questa tragedia italiana, vale a dire la guerra fascista con la sconfitta che ne è seguita e le conseguenze terribili che, anche dal punto di vista territoriale - in termini di perdita di territori -, sono derivate dal Trattato di Parigi del 10 febbraio 1947.
Non uso questo ricordo come una clava ideologica, come qualcuno poco fa ha cercato
di fare in termini di contrapposizione in quest'aula. Cosa che tutti noi, al banco del Comitato dei nove, abbiamo cercato di evitare, sia in Commissione affari costituzionali sia qui in aula, adottando un tono di pacatezza, di confronto leale e civile, di riconoscimento reciproco, al di là delle diversità ideologiche, politiche e storiche.
Tuttavia, se si usano gli strumenti ideologici come clava, almeno un richiamo pacato al fatto che la tragedia di cui parliamo ha la radice storica nella guerra fascista occorre farlo. Altrimenti si determina un fenomeno da una parte di revisionismo e, dall'altra, di negazionismo di proporzioni gigantesche.
Ma - ripeto - in Parlamento non si scrive né si riscrive la storia (né la storia italiana, né quella europea). In Parlamento, a volte, si possono verificare piccoli o grandi fatti storici, in quanto la storia la scrivono gli storici e anche questi ultimi hanno diverse opinioni e opzioni culturali.
Oggi, con l'approvazione di questo provvedimento, realizziamo un fatto storico - non so se grande o piccolo, ma sicuramente significavo -, in quanto riconosciamo che è stato grave che per decenni, su queste tragiche vicende, non vi sia stata un'attenzione, una memoria, un confronto, un riconoscimento. Dunque, la maggioranza di quest'Assemblea approva una proposta di legge che ha il suo centro nell'istituzione del Giorno del ricordo e nel riconoscimento ai congiunti degli infoibati, nel quale sarà scritto: «La Repubblica italiana ricorda». Il fatto che nel 2004 si giunga ad un tale riconoscimento, evidenzia, a mio avviso, il significato positivo, anche in termini di risarcimento, di quanto stiamo realizzando.
Signor Presidente, colleghi, concludo affermando che la guerra fredda è finita, quanto meno dal 1989 in poi. Sembra che in quest'aula, da parte non di tutti, ma di una minoranza dei colleghi intervenuti, non ci si sia resi ancora conto, nell'anno di grazia 2004, che la cosiddetta guerra fredda è finita. Ed è proprio la fine di quella terribile fase storica, che ha lacerato l'Italia, l'Europa e il mondo, che ci permette oggi di giungere a questo positivo risultato (Applausi dei deputati dei gruppi Misto-Verdi-l'Ulivo, dei Democratici di sinistra-l'Ulivo e della Margherita, DL-l'Ulivo).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l'onorevole Rosato. Ne ha facoltà.
ETTORE ROSATO. Signor Presidente, desidero innanzitutto sottolineare l'importanza del dibattito svoltosi in Assemblea sui contenuti di questo provvedimento. Ringrazio tutti i parlamentari intervenuti, in modo particolare i colleghi Maran e Boato con cui abbiamo lavorato a stretto contatto. Ritengo corretto evidenziare, altresì, che il testo base del provvedimento da cui siamo partiti per giungere a questo risultato era quello proposto dal collega Menia, di cui però non ci è piaciuta la relazione che lo accompagnava.
Il confine orientale, Trieste, l'isontino, l'Istria, la Dalmazia e Fiume hanno certamente pagato il prezzo più alto di una guerra di aggressione che la Germania di Hitler e l'Italia fascista hanno iniziato in Europa. È questa la necessaria premessa storica, prima che politica, e non polemica ma ineludibile, per affrontare questo provvedimento che altrimenti resterebbe sospeso nel limbo della storia. Condiviso tutto ciò, che ormai più nessuno nega e con cui si vuole anche escludere questo dibattito dalla semplificazione dello scontro politico tra comunismo e fascismo, possiamo affrontare un tema che è stato rimosso nella sua complessità per anni. In questo paese per anni abbiamo dovuto spiegare che la nozione che i dizionari davano delle foibe quali cavità carsiche, definizione sicuramente geologicamente corretta, era terribilmente offensiva per chi aveva vissuto quei tragici eventi; così come i libri di storia, non trattando della storia delle terre giuliane, fiumane e istriane, erano colpevolmente omissivi.
La proposta di legge si propone di istituire un riconoscimento per i congiunti degli infoibati; come previsto in un provvedimento, con ciò mi ricollego a quanto
diceva poc'anzi il collega Boato, il cui iter non si è purtroppo concluso al Senato nella precedente legislatura, nonostante il largo consenso registrato su di esso in Parlamento; di ciò siamo dispiaciuti.
Si tratta di un riconoscimento morale che arriva in ritardo, un segno tangibile, sia pure piccolo, che il paese ritiene di dover riconoscere ad una memoria negata per troppi anni anche alle singole persone coinvolte, cioè ai congiunti di chi è scomparso tragicamente tanti anni fa. Chi ha la fortuna di conoscere, ed io ce l'ho, qualche persona che ha dovuto abbandonare tutto, può leggere negli occhi di queste persone anziane la sofferenza mai sopita di quegli anni, sofferenza che non ha una connotazione politica, ma solo fortemente umana di chi ha visto, senza alcuna colpa, cambiare, da un giorno all'altro, la sua vita.
Nelle foibe sono stati uccisi donne e uomini, spesso inermi, colpevoli di dichiararsi italiani o di essere partigiani non comunisti o sacerdoti, anche sloveni e croati. È stata una violenza spietata che certo ha risposto ad un'altra violenza - la pesante repressione fascista e nazista di quegli anni sul confine orientale - ma non per questo giustificabile.
Il dibattito politico svoltosi nel paese e soprattutto la forte richiesta giunta dalle associazioni degli esuli ha portato ad ampliare il senso di questo provvedimento.
È stata infatti colta l'occasione per istituire il Giorno del ricordo. La data non è stata scelta da noi, ma dagli esuli. È stato giusto, da parte delle Camere, arrivare con un percorso meditato a condividere la richiesta che la Repubblica sancisse con una solennità nazionale la memoria di quei tragici fatti, verificatisi dal 1943 fino al definitivo ritorno di Trieste all'Italia, di cui quest'anno celebreremo il cinquantenario, il prossimo 4 novembre, con la presenza del Capo dello Stato.
ETTORE ROSATO. Riteniamo di essere giunti a una definizione soddisfacente e giusta, che tiene conto di una tragedia complessiva e di tutti gli eventi dei confini orientali, sfociati nel dramma delle foibe e nell'esodo che ha riguardato 350 mila italiani, costretti ad abbandonare tutto.
Ringrazio il sottosegretario Ventucci per aver accolto, a nome del Governo, il nostro ordine del giorno, che richiama l'attenzione sulla necessità di un atto di giustizia anche dal punto di vista economico, riconoscendo che gli esuli sono coloro che hanno effettivamente pagato i danni di guerra per il nostro paese. Essi, dopo aver abbandonato le loro terre, sono stati spesso respinti e maltrattati anche dai propri connazionali, si sono insediati in tutto il territorio nazionale e anche all'estero e hanno cercato di conservare la propria identità collettiva ed unità.
Inoltre, con un emendamento da noi proposto e recepito dalla Commissione, si riconosce il Museo della civiltà istriana-fiumano-dalmata, dando così un riconoscimento all'IRCI, che nell'ambito del tessuto sociale e locale ha contribuito in modo rilevante alla conservazione della memoria, e anche delle masserizie, di chi ha abbandonato le proprie terre!
La città di Trieste ha sempre avuto una particolare sensibilità rispetto all'esodo e alla tragedia delle foibe, con un forte sentimento di partecipazione e sofferenza. Vale la pena di ricordare, come ha sottolineato nel corso della discussione sulle linee generali il collega Maran, che nel 1990 il Consiglio comunale di Trieste, su proposta della Democrazia cristiana, ha approvato all'unanimità, e dunque con il voto favorevole del Partito comunista e del Movimento sociale, una mozione che impegnava il Governo ad istituire una commissione di studio italo-iugoslava. Tale commissione, successivamente divenuta italo-slovena, ha ravvisato l'esistenza di un progetto preordinato in quei tragici avvenimenti.
Negli ultimi anni, sulla foiba di Basovizza si sono recati i sindaci di tutti i comuni dell'altopiano, nell'esercizio delle loro funzioni ma senza dimenticare l'appartenenza a tutti i partiti del centrosinistra. Ritengo si tratti di un gesto importante,
proveniente da chi ha vissuto con maggior sofferenza tali eventi, personalmente e sul proprio territorio. Da Trieste e dalla Venezia Giulia proviene la richiesta forte di un sentimento che, meglio di tutti, ha espresso il Presidente Ciampi, il quale, riferendosi agli eventi del confine orientale, ha affermato che la Repubblica tutta li ricorda con dolore e rispetto.
Tale dolore e tale rispetto debbono essere tenuti presenti anche da questa Camera, che lo sta facendo con un importante dibattito dai contenuti rilevanti, e dal Senato, con una rapida approvazione del provvedimento (Applausi dei deputati dei gruppi della Margherita, DL-l'Ulivo, dei Democratici di sinistra-L'Ulivo e Misto-Verdi-L'Ulivo. Congratulazioni).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l'onorevole Menia. Ne ha facoltà.
ROBERTO MENIA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, ho voluto portare con me un documento raro e difficilmente reperibile. Si tratta di un giornale datato 11 febbraio, dunque proprio la data di oggi, ma del 1947. Il nome del giornale è Il grido dell'Istria, che usciva in clandestinità in Istria (esso diceva «esce dove, come e quando può») e che era il giornale della Resistenza istriana e del CLN istriano, e che dunque non era scritto dai fascisti. Si era all'indomani della firma del Trattato di pace.
«Finis Histriae: 10 febbraio. L'Istria non è più Italia. In una funebre e piovigginosa giornata si è sanzionato il destino di questa terra nobilissima, voluto dalla cinica e criminosa volontà dei vincitori. Per un momento, di fronte allo spaventoso avvenire di questa nostra terra, lo sgomento ci ha assaliti. 10 febbraio 1947: una data ben più tragica di quella che ricorda il distacco dei nostri cari. E sono migliaia infoibati e deportati. Più che l'immediata e incombente persecuzione in atto - arresti, processi, saccheggi - ci ha raggelato il pensiero dell'Istria destinata a precipitare nella più oscura barbarie. Ma qualcos'altro c'era ancora nella nostra anima: la memoria delle innumerevoli vittime di questo maledetto flagello che ha nome Tito abbattutosi sull'Istria, l'esempio luminoso di chi per la nostra causa ha sacrificato la vita, la visione delle torture fisiche e morali indicibili di un popolo nobile e fiero. Certi allora di interpretare la sdegnosa ribellione di tutti gli istriani di fronte all'infame diktat di Parigi che ci toglie la vita ci è apparso chiaro il nostro assoluto dovere: continuare fino alla fine la lotta per la difesa della giustizia e della libertà, nomi troppe volte infangati ma per noi ideali operanti del popolo istriano. Possa soccorrerci la fede dei nostri fratelli e l'aiuto di Dio».
Questo scriveva Il grido dell'Istria. Fu l'ultimo numero di quel giornale. Non uscì più. Pola, in quel mese, si svuotò. Raccontano le cronache di quei tempi che cadeva la neve e c'era il rumore irreale dei martelli che piantavano i chiodi per chiudere le casse, perché si portava via tutto. Ci sono le fotografie a documentare i poveri abitanti di Pola che portano via tutto quello che potevano: le insegne dei negozi, i quadri antichi, i ricordi di una vita. Si portò via pure la bara di Nazario Sauro. Pola, che Dante cantava nell'Inferno: «sì com'a Pola, presso del Carnaro ch'Italia chiude e suoi termini bagna». Pola della grande arena costruita prima del Colosseo. L'esodo era determinato dalla volontà di restare italiani e dalle persecuzioni, dalle violenze, dagli assassinii, dai saccheggi, dagli infoibamenti perpetrati dai comunisti iugoslavi. Ne parla padre Rocchi in un suo libro, che è un monumento alla tragedia delle foibe e dell'esodo. Padre Rocchi, che oggi ci guarda da lassù, ci ha lasciato un documento che è conosciuto dalla nostra gente, dalla gente dell'esodo e non è entrato certamente nei grandi circuiti della stampa. Padre Rocchi racconta di quando, proprio in quei giorni, una rappresentanza del CLN di Pola si presentò da De Gasperi chiedendogli di garantire la presenza degli italiani. E De Gasperi rispose: la presenza degli italiani resta un'indiscutibile garanzia dell'italianità e dell'appartenenza storica ed etnica dell'Istria all'Italia. Gli fu
risposto: ne siamo consapevoli, ma la popolazione ricorda con terrore le foibe e le minacce fatte dai partigiani invasori slavi; ci butteranno tutti nelle foibe. De Gasperi allora concluse: se le cose stanno così, venite con noi. E 350 mila fuggirono: la gran parte in Italia, altri dispersi in tutti i continenti.
Il poeta gradese Biagio Marin ricorda quelle vicende e parla di migliaia e migliaia di deportati, sotto gli occhi indifferenti degli anglosassoni. Molti i torturati, gli uccisi. Gli italiani erano semplice preda. Che cosa si poteva fare? Salvare le ragioni della vita e dell'anima per non piangere, per non farsi semplicemente distruggere da gente imbestialita, fuori da ogni legge. E il gesto degli antichi aquileiesi fu ripetuto, con semplicità, con umana dignità, come avviene nelle grandi azioni necessarie. Pola fu abbandonata. E poi Fiume, Rovigno, Parenzo, Pisino, Albona, Cherso, Lussino. Via, via, tutte le altre seguirono l'esempio. Da Fiume italiana se ne andarono 55 mila abitanti su sessantamila. Da Pola italiana: 32 mila su 34 mila. Da Zara: 20 mila su 21 mila. Da Rovigno: 8 mila su 10 mila. Da Capodistria: 14 mila su 15 mila.
L'esodo svuotò una terra che da duemila anni parlava di Roma, di Venezia, di Italia: oggi ci sono quelle pietre, quei leoni, quelle arene e quegli archi a testimoniare la presenza di questa cultura, di questa civiltà e di questa lingua.
Il Presidente della Repubblica Ciampi, con un messaggio di una dignità straordinaria che è un appello alla memoria di tutti gli italiani, ha voluto rimarcare come oggi la tragedia delle foibe faccia parte della memoria di tutti gli italiani e come la ricostruzione e la rinascita della nuova Italia costarono sacrifici grandissimi. In particolare, gli italiani delle terre di Istria e Dalmazia furono colpiti da una violenza cieca ed esecranda e dalla sventura di dover abbandonare case e luoghi famigliari.
Lasciatemi ricordare allora anche alcune di quelle figure o di quegli episodi che sono simbolici e che ci sono stati raccontati. Voglio dedicare tutto questo anche a loro, a quelli che hanno fatto conoscere queste vicende a me come a tanti. Padre Rocchi ricorda nel suo libro la vicenda tragica di Norma Cossetto, che è un po' il simbolo della memoria della tragedia delle foibe, una ragazza che studiava all'Università di Padova e stava scrivendo una tesi sull'Istria rossa (rossa del colore della terra, il colore che deriva dalla bauxite) e che percorreva in bicicletta le strade dell'Istria raccogliendo il materiale per la sua tesi di laurea, che avrebbe fatto con il professor Concetto Marchesi. Fu prelevata, violentata e infoibata, sottoposta a torture di tutti i tipi; poi fu riesumata nuda, con i seni pugnalati, e il padre che era andato a cercarla fu infoibato. A Norma Cossetto, Concetto Marchesi, professore comunista, volle assegnare la laurea honoris causa, e quando qualcuno gli disse che non si trattava di un'antifascista rispose che era più degna di tutti perché era morta per essere italiana.
ROBERTO MENIA. Padre Rocchi ci ricorda la persecuzione dei sacerdoti, con don Angelo Tarticchio che fu riesumato da una foiba dell'Istria con una corona di spine conficcata sulla testa e con i genitali in bocca. Claudio Schwarzenberg - anche lui ci guarda da lassù - e Amleto Ballarini hanno raccolto le testimonianze di Fiume italiana. Ci hanno raccontato la storia di Angelo Adam, ebreo, antifascista, deportato a Dachau, ritornato da Dachau e in quanto uomo innamorato della libertà assassinato dai partigiani comunisti nel dicembre 1945. Ci hanno raccontato di un giovane ragazzo fiumano, Giuseppe Librio, che si arrampicò coraggiosamente in Piazza Dante sul pennone dove una volta stava la bandiera italiana ed era stata issata quella jugoslava: fu ammazzato e il suo cadavere buttato tra le rovine del molo stocco. Di Zara, come ci hanno raccontato in tanti. Ricordo Oddone Talpo, una vita per la Dalmazia, anche lui ha lasciato un
bellissimo libro di memorie sulla storia dei dalmati e il loro attaccamento all'Italia. Ricordo la vicenda del farmacista Ticina, annegato con una pietra al collo insieme a tutta la sua famiglia (perché a Zara, dove non c'erano le foibe, la gente si annegava); quella di Nicolò Luxardo, buttato anche lui in mare dietro gli scogli di Zara: si trattava della famosa famiglia dei Luxardo del «maraschino».
Vedete, colleghi, anche oggi non voglio mettermi a discutere sulla tragica contabilità dei morti. Voglio dedicare questo ricordo a Luigi Papo - lui è vivo grazie a Dio e ci ascolta ora -, un uomo che ha dedicato a questa causa tutta la sua vita, che è scampato dalla prigionia e fece a sé stesso una promessa dicendo che se fosse uscito vivo avrebbe continuato a lottare per l'italianità delle nostre terre e dedicato ogni minuto libero al ricordo dei caduti.
Ha raccolto in un albo d'oro dei caduti giuliano-dalmati 17 mila nomi. Non voglio fare la contabilità, ma questi sono i fatti e questi sono i dati. Le foibe, quelle che monsignor Santin, vescovo di Trieste e Capodistria, nativo di Rovigno d'Istria, definì «un grande calvario con il vertice sprofondato nelle viscere della terra».
Voglio ricordare un altro grande vescovo, monsignor Camozzo, vescovo di Fiume, che raccontava di quell'esodo e dell'amarezza di quell'esodo. «Conosco l'amarezza del distacco dall'incantevole Fiume, gemma del Carnaro. Qualcuno porta con sé un pugno di terra. Sono partiti i ricchi e sono partiti i poveri. Il sacrificio che avete fatto è grande, incommensurabile. Ora siete dispersi nei vari centri di raccolta.» Erano 109 i campi profughi in Italia. «Da una condizione di benessere siete passati ad una vita di privazioni e di rinunce. Qualcuno chiederà: ma perché mai avete lasciato la vostra città? Non si vorrà credere che questi siano tutti delinquenti o dei criminali che sfuggono ai rigori della giustizia umana o degli ammalati presi da una pazzia collettiva! Non siete neanche degli importuni accattoni. Nel vostro sacrificio di epica portata che la storia consacrerà, c'è l'espressione dolorosa dei più alti valori spirituali della propria fede e di amor patrio». Monsignor Camozzo uscì da Fiume e, per passare oltre la dogana jugoslava, tagliò in tre il tricolore che portava con sé: nel rosso ci mise un calice, nel bianco ci mise una Bibbia, nel verde ci mise un Vangelo; poi, arrivato in Italia, ricompose la sua trinità.
Voglio che l'Italia sappia anche riappropriarsi - perché è giusto ed è questo che ci chiede la gente dell'esodo - di quella memoria che le manca. L'arena di Pola precorre il romano Colosseo. Luigi Papo scrive: l'Istria è regione italiana dal 27 a.C. Perché gli italiani devono ignorare tutto questo? Perché devono ignorare che il nostro Gianfrancesco Fortunio scrisse le regole grammaticali della volgare lingua nel 1516 e Fausto Veranzio da Sebenico scrisse nel 1610 un dizionario poliglotta in cinque lingue (latino, italiano, tedesco, dalmatico e ungarico)? Che il nostro Simone Filippo Stratico pubblicò in tre lingue il dizionario della marineria e che Adolfo Mussapia di Spalato dette alle stampe la sua grammatica italiana che ebbe larga diffusione nel mondo tedesco? E perché ignorare Francesco Patrizio, poeta, storico, filosofo, amico del Tasso e dell'Ariosto? E perché tralasciare ancora un cittadino di Cherso, Giovanni Moise, autore nel 1067 di una grammatica della lingua italiana che fu adottata dal Carducci e dal Pascoli? Non ultimo, tra i nostri grandi maestri, Nicolò Tommaseo da Sebenico, autore del dizionario dei sinonimi e del dizionario della lingua italiana. Si batte la nostra gente perché questa terra d'Italia, l'Istria, non sia più ignorata e perché si ascoltino e si tengano a mente le piccole e grandi storie narrate dagli istriani e dai dalmati.
Concludo, signor Presidente, poiché lei giustamente mi sollecita. Vorrei ricordare tutte quelle città che adesso si chiamano con un altro nome, ma che sarebbe giusto richiamare alla memoria degli italiani, come Ragusa di Dalmazia, più antica della Ragusa di Sicilia, che oggi si chiama Dubrovnik, come Spalato di Diocleziano, che oggi è Split, come Fiume, che oggi è Rijeka, affinché l'Italia ricordi.
Ma oggi l'Italia, con questo provvedimento, si riconcilia con la sua storia e con quella grande tragedia. L'Italia oggi compie, attraverso questo Parlamento, un gesto di riconciliazione e di giustizia. Saldiamo un debito che abbiamo, con il tributo agli infoibati, con la medaglia in cui l'Italia li ricorderà e con l'istituzione della giornata che ricorda l'esodo degli istriani, dei fiumani, dei dalmati. Per me, lo dico come fatto personale, questo resta anche un fatto moralmente altissimo: sento di aver adempiuto ad un dovere, per me che sono figlio di un'esule istriana, un dovere di fronte alla memoria (Applausi dei deputati dei gruppi di Alleanza nazionale, di Forza Italia, dell'Unione dei democratici cristiani e dei democratici di centro e di deputati della Margherita, DL-l'Ulivo e della Lega Nord Federazione Padana)... dei tanti che ho visto invecchiare senza che mai avessero avuto un riconoscimento: che Dio li benedica e benedica la nostra terra (Applausi dei deputati dei gruppi di Alleanza nazionale, di Forza Italia, dell'Unione dei democratici cristiani e dei democratici di centro e di deputati della Margherita, DL-l'Ulivo e della Lega Nord Federazione Padana - Molte congratulazioni)!
PRESIDENTE. Grazie, onorevole Menia, per il suo contributo ed anche per la commozione che in esso ha espresso (Applausi dei deputati dei gruppi di Alleanza nazionale, di Forza Italia, dell'Unione dei democratici cristiani e dei democratici di centro e di deputati della Margherita, DL-l'Ulivo e della Lega Nord Federazione Padana).
Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l'onorevole Gerardo Bianco. Ne ha facoltà.
GERARDO BIANCO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il collega Rosato ha già espresso, con molto equilibrio e con molta misura, la posizione del gruppo della Margherita, DL-l'Ulivo. Vorrei prendere la parola solo per qualche minuto, perché sento il dovere di compiere una precisazione storica rispetto ad alcune affermazioni che in questa sede sono state un po' troppo baldanzosamente pronunciate.
Credo che, nel momento in cui si sta tentando di raggiungere una comprensione più appropriata e approfondita di vicende tragiche della nostra storia, la rivalsa e la riproposizione di vecchie polemiche non giovino. Non posso pretendere che il collega Buontempo conosca esattamente la storia della Democrazia cristiana e neppure quella delle posizioni che sono state espresse dagli storici che si richiamano alla nostra cultura, ma il silenzio sulle foibe, onorevole Buontempo - qui assente - non c'è stato.
Basta sfogliare i libri di quello che forse è il nostro più grande storico, che è stato anche un politico di grande rilievo, Gabriele De Rosa, nei quali tale storia è indicata. Non posso pretendere che il collega legga il quotidiano Europa, sul quale proprio oggi compare una lettera che riassume l'importanza data dalla cultura e dalla politica democristiana. Si tratta della lettera di un politico eminente (che lei, signor Presidente, ben conosce), Paolo Barbi, e vorrei ricordare che egli è stato per trent'anni il presidente dell'Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia.
Si tratta di dati importanti; potrei ricordare, ad esempio, che su questo tema, venti e più anni fa, il gruppo della Democrazia cristiana presentò una proposta di legge d'iniziativa parlamentare, primo firmatario Flaminio Piccoli, per chiarire tali questioni: dunque, non c'è stata disattenzione.
Certo, vi è stato il silenzio di una certa storiografia ufficiale, ma non appartiene alla nostra cultura dimenticare i fatti. Ho seguito con molta emozione l'intervento del collega Menia, che ha evocato le vicende e che, con questo ricordo, ha portato anche una profonda partecipazione emotiva, ma mi permetto di affermare che la storia che abbiamo rappresentato non intendeva rivangare il passato per farlo diventare un peso nella politica del paese, bensì, come ha scritto Paolo Barbi, superare tali vicende guardando avanti.
Noi abbiamo guardato avanti, cercando di puntare all'Unione europea. In proposito, vorrei ripetere in questa sede le
parole di Paolo Barbi, il quale afferma: «Lo chiedo dopo che, per trent'anni, ho guidato l'Associazione nazionale dei giuliano-dalmati, tutelandone i diritti morali, politici ed economici di fronte a quella che Violante ha giustamente definito la conventio ad obliandum, contrapponendo agli irresponsabili revanscismi la prospettiva dell'Unione europea».
Noi abbiamo puntato all'Europa, ed è questo il punto, per superare le grandi difficoltà esistenti.
PRESIDENTE. Onorevole Gerardo Bianco...
GERARDO BIANCO. Questa è la linea che abbiamo seguito, ed è stata una linea lungimirante, che porta il nome di Alcide De Gasperi (Applausi dei deputati del gruppo della Margherita, DL-l'Ulivo).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l'onorevole Fassino. Ne ha facoltà.
PIERO FASSINO. Signor Presidente, in quest'aula oggi affrontiamo un passaggio difficile della storia italiana, quale la vicenda drammatica di 350 mila italiani costretti ad abbandonare le loro case e, prima ancora, quella dei 15 mila italiani morti nelle foibe per il solo fatto di essere italiani.
È una pagina che, a lungo, è stata rimossa nella storia del paese e sulla quale è stato steso un velo di oblio, di dimenticanza. Credo sia giunto il tempo di dichiarare che quella pagina di storia appartiene alla nostra storia, alla storia di tutti noi, alla storia degli italiani. Dobbiamo sentire quella tragedia come una nostra tragedia. Come giustamente ha ricordato in questi giorni il Presidente Ciampi, l'esodo e le foibe appartengono alla storia dell'Italia e ogni italiano li deve sentire come una propria sofferenza ed un proprio dolore.
Ciò significa liberarsi di ogni forma di giustificazionismo. Certo, nessuno, in una ricostruzione storica che non sia faziosa, può ignorare l'aggressione dell'Italia fascista alla Iugoslavia, le molte angherie, i molti misfatti che, in quelle terre, furono compiuti dalla nostra occupazione militare, ma questo non può giustificare alcunché; non può giustificare né le foibe né l'esodo. Anzi, il partito a nome del quale parlo ha, nei valori dell'antifascismo, un tratto di identità, come tutti sanno. Ma per noi, l'antifascismo è, innanzi tutto, l'affermazione dei valori inalienabili ed incoercibili di democrazia, di libertà, di rispetto della persona, di tutela della dignità umana. Proprio in nome di quei valori, oggi, sentiamo il dovere di riconoscere il dramma dell'esodo e delle foibe.
Se c'è una riflessione critica che la sinistra e l'antifascismo italiano devono fare rispetto a quel dramma è quella di avere a lungo accettato, in nome di una giustificazione storico-politica che non poteva essere accettata, un dramma che invece avrebbe dovuto essere contrastato e combattuto.
In una giornata come questa, non voglio fare polemiche, ma voglio dire pacatamente all'onorevole Armando Cossutta, che non è presente in aula ma che ha polemizzato con me per le espressioni che ho usato nei giorni scorsi, che proprio l'onorevole Cossutta, che è stato un combattente partigiano ed antifascista, che ha ispirato la propria vita all'affermazione dei valori della libertà e della democrazia, avrebbe dovuto sentire il dovere di dire ciò che ho detto io e se posso rivolgere un rimprovero ai dirigenti della sinistra delle generazioni precedenti alla mia, questo è di aver tardato e di non aver detto ciò che ho affermato io in questi giorni (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-l'Ulivo, della Margherita, DL-l'Ulivo e di deputati di Forza Italia, di Alleanza nazionale e della Lega Nord Federazione Padana), anche perché, leggere quella tragedia come l'espressione del conflitto antifascismo-fascismo è un modo sbagliato o, quanto meno, parziale. Quella vicenda fu, invece, l'espressione del nazionalismo, una tara che drammaticamente corrode, nella storia dei secoli, i Balcani, di cui abbiamo avuto ancora una tragica,
drammatica esperienza negli anni Novanta con le pulizie etniche e le guerre odiose tra nazioni.
Persino nella politologia è entrato un termine, «balcanizzazione», che indica una situazione nella quale ogni popolo pensa al proprio futuro non insieme al vicino ma contro il vicino, credendo più sicuro il proprio destino se è puro, se il suo Stato è omogeneo e se opprime e caccia coloro che sono diversi da lui.
Di questa tragedia è stata vittima la comunità italiana che viveva nell'Istria, nel Quarnaro, nella Dalmazia, alla fine della seconda guerra mondiale e negli anni Cinquanta, di un'odiosa pulizia etnica di cui il collega Menia, precedentemente, nel corso di un intervento certamente di grande intensità morale ed emotiva, ci ha dato testimonianza.
Per questo noi crediamo che oggi questo Parlamento, cinquant'anni dopo quella vicenda, debba fare un atto che riconosce pienamente l'esodo e le foibe come parte della nostra storia.
Per quanto ci riguarda, noi non abbiamo atteso oggi per dire questo. Da tempo la sinistra, che io in questo momento rappresento, con quella storia ha cercato di fare i conti. Chi vi parla andò sulla foiba di Basovizza nel 1990 a rendere omaggio a quegli infoibati. L'onorevole Violante, a nome del nostro partito, più volte si è misurato con questi temi con espressioni che hanno rappresentato il riconoscimento di quella tragedia, così come il nostro partito di Trieste e i suoi dirigenti. Voglio qui rendere omaggio a un nostro dirigente, Stelio Spadaro, per anni il segretario dei democratici di sinistra di Trieste, nato ad Isola, profugo istriano, che, consapevole di quel dramma, si è battuto perché la sinistra italiana desse una lettura di quella vicenda giusta e generosa, svolgendo un ruolo essenziale.
Quindi, oggi, nel momento in cui votiamo il provvedimento che riconosce il giorno del ricordo per l'esodo e per gli infoibati, noi non compiamo nessuna abiura, non siamo in contrasto con la nostra identità di partito e di forza politica che crede nei valori della libertà, della democrazia, del rispetto della persona umana come valori supremi, che devono essere anteposti ad ogni altra ragione di partito o di Stato. Noi siamo coerenti nel riconoscere che questi valori sono quelli che fondano la convivenza civile di questo paese. Noi qui siamo consapevoli di compiere un atto che consente di riconoscere una pagina tragica della nostra storia in modo comune e condiviso.
A lungo, di fronte al dramma dell'esodo, sono prevalse le categorie dell'ideologia e sono prevalse sulla storia e sulla verità. Accadde in anni di guerra fredda, di contrapposizione ideologica - tempi che sono alle nostre spalle - , in anni in cui prevaleva il realismo politico sull'affermazione dei valori. Oggi, cinquant'anni dopo, è tempo di riconoscere la verità della storia, che viene prima delle ideologie, delle ragioni di parte e di quelle di Stato, ed è tanto più importante fare oggi tutto questo, perché siamo ad un passaggio cruciale della vita dell'Europa. Quel confine orientale, quel confine che ha diviso Gorizia in due, quella frontiera che è stata a lungo la frontiera della sofferenza, in questi ultimi dieci anni sta diventando il crocevia dell'integrazione. Tra pochi mesi quel confine che ha diviso l'Europa in due, quel confine, che è stato una parte della cortina di ferro che dal Baltico all'Adriatico ha diviso il continente in due, diventerà il punto di incontro e di intersezione delle Europe che si uniscono, di una nuova grande Europa, che dall'Europa del nazionalismo e delle nazioni passa a quella dei popoli e dell'integrazione. Un'Europa che vuole essere multietnica, multiculturale, multireligiosa, in cui vi sia posto per ogni comunità nazionale e ogni uomo possa vivere la propri identità senza paura di essere discriminato, oppresso o perseguitato. Ma un'Europa di questo genere sarà più solida se si sanano le ferite della storia, se la multietnicità, la multiculturalità, la multireligiosità di un'Europa nuova e unita sarà capace di riconoscere le ferite del passato.
Oggi noi qui lo facciamo, rendendo omaggio a chi ha pagato morendo nelle foibe a chi, ha pagato abbandonando la
propria casa e la propria terra. Lo facciamo con la stessa emozione con cui abbiamo sempre reso omaggio ai tanti antifascisti che a Trieste sono morti alla risiera di San Sabba, perché nulla sia dimenticato, perché chi ha vissuto delle sofferenze e ha subito anche l'umiliazione dell'oblio sia riconosciuto nella propria sofferenza, perché chi non sa, perché è venuto dopo, sappia, perché nulla sia dimenticato, perché non accada più (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-l'Ulivo, della Margherita, DL-l'Ulivo, Misto-socialisti democratici italiani e Misto-Verdi-l'Ulivo).
PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, darò adesso la parola all'onorevole Romoli, che interverrà per dichiarazione di voto a nome del suo gruppo; dopodiché, vi sono alcune richieste di intervento a titolo personale. Poiché ieri ho concesso la parola a titolo personale, lo farò anche oggi. Naturalmente, darò a ciascuno un minuto di tempo e non di più (Commenti del deputato Valpiana). Onorevole Valpiana, ieri le ho concesso 30 secondi perché avevate chiesto di intervenire in tanti; oggi darò un minuto di tempo perché interverrà un numero inferiore di persone.
Lasciate ancora fare la contabilità dei minuti al Presidente, almeno questo!
Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l'onorevole Romoli. Ne ha facoltà.
ETTORE ROMOLI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il Parlamento, dopo 60 anni di colpevole silenzio, si accinge oggi a sanare quella che può essere considerata una delle più gravi ingiustizie commesse da un paese nei confronti di una parte dei suoi cittadini che, incolpevoli, furono trucidati a guerra finita, in nome di una inaccettabile ideologia e di un bestiale nazionalismo e che, per più di mezzo secolo, sono stati ignorati da tutte le istituzioni dello Stato.
I fatti sono, ormai, finalmente, noti, ma necessitano ancora, a mio avviso, di alcune precisazioni. In primo luogo, è indiscutibilmente vero che nelle guerre di lunga durata si forma nell'animo di tutti i combattenti un sentimento di disprezzo per la vita altrui ed anche per la propria. Ciò porta, poi, a sfogare istinti e rancori in forme più feroci di quelle che si riscontrano nella normale vita civile. Si passa direttamente all'uccisione, spesso preceduta dalla tortura, perché la sola morte, evenienza multipla, quotidiana e normale, non costituisce sfogo sufficiente.
La guerra in Jugoslavia, poi, era stata particolarmente crudele, con torture e massacri fra i diversi eserciti, le diverse fazioni militari in lotta, le diverse etnie e le diverse religioni. Si legge in fonti non Jugoslave che, su un milione e 400 mila morti, un milione fosse perito per mano di connazionali e 400 mila persone fossero state uccise da tedeschi ed italiani. Questo era lo stato d'animo nei riguardi della vita umana delle truppe di Tito che occupavano la Venezia Giulia nel maggio del 1945; né migliore era quello dei partigiani slavi locali che avevano combattuto contro l'esercito nazista e la polizia politica tedesca, la cui ferocia era ormai nota a tutto il mondo.
Nel maggio del 1945 giunse il momento propizio per sfogare gli odi personali, gli odi collettivi ed i rancori storici. Di rancori storici ve ne erano parecchi, perché non si può negare che, sin dai tempi dell'impero asburgico, non corresse buon sangue tra le etnie italiana e slava viventi nelle terre giuliane. Ma i veri odi erano sorti tra le due guerre mondiali, quando il fascismo aveva cercato in tutti i modi di snazionalizzare gli slavi, provocando la reazione delle loro organizzazioni terroristiche e rispondendo ai gravissimi attentati di queste con processi dei tribunali speciali e con fucilazioni. La rabbia che covava sorda sia tra gli slavi della Venezia Giulia sia tra gli sloveni della Jugoslavia si era diffusa in tutto il paese durante la guerra, anche se il nostro esercito, come tutti ammettono, si era comportato in modo molto più umano rispetto a quello delle altre forze combattenti.
Probabilmente, tutti o quasi tutti i soldati di Tito che vennero nella Venezia Giulia erano al corrente di singoli episodi di violenze avvenuti in Jugoslavia durante
la guerra ed erano presumibilmente ben lieti di rendere pan per focaccia agli italiani, anche se la guerra era finita.
Bisogna però riflettere sul fatto che i sentimenti finora descritti avrebbero portato soltanto ad un certo numero di delitti singoli, di arresti di singole persone, confische di singoli beni, ma non a massacri, deportazioni di massa e spoliazioni generalizzate nel campo economico.
Fra i deportati, l'unico denominatore comune era quello della appartenenza alla etnia italiana. Ecco perché dobbiamo pensare che tutto ciò sia accaduto per una regia superiore e non per meschine vendette personali. L'intendimento dell'occupatore non era quello di giudicare ed eventualmente punire chi si era compromesso con il passato regime fascista, ma di eliminare tutti coloro che potevano essere di impedimento ad una completa «slavizzazione» del territorio.
Non può esservi dubbio invece che vi fosse un ordine superiore, anche se eseguito localmente, magari con troppo zelo; se così non fosse stato, nessuno avrebbe osato procedere ad uccisioni, deportazioni, a creare campi di concentramento, che non si impiantano e non si gestiscono per vendette ed odi personali.
Ma quale poteva essere l'ordine superiore e quale fondamento storico aveva? Un principio fondamentale del leninismo staliniano era quello che dovessero essere fisicamente eliminati tutti coloro che potessero costituire, nel presente e nel futuro, un pericolo per l'instaurazione di un regime comunista, per la sua conservazione e per il suo buon funzionamento. Cominciò ad applicare questa teoria Lenin, che Stalin portò ad estrema perfezione. Un fatto per molti versi analogo a questi ora citati avvenne nella Venezia Giulia del 1945. L'idea dei seguaci di Tito era quella di annetterla alla Jugoslavia, Stato comunista. Occorreva eliminare, quindi, tutti coloro che, al presente o nel futuro, si sarebbero potuti opporre sia alla missione sia al corretto funzionamento di quello Stato basato sull'ordine nuovo.
I primi da eliminare, perciò, non erano solo i fascisti, le cui colpe costituivano per contro un eccellente «paravento» alle esecuzioni ed alle deportazioni, ma gli italiani antifascisti. Per quanto riguarda l'occupazione di Trieste, si afferma che i primi che furono fatti scomparire furono propri i socialisti. Dovevano sparire poi quei membri del CLN che, da un lato, avevano meriti da vantare ma, dall'altro, non erano né comunisti né disposti a farsi annettere dalla Iugoslavia.
A Fiume il principale pericolo era costituito dagli autonomisti dell'antico Stato libero. Potevano vantare meriti e proporre la ricostruzione di quello Stato, ciò che poi Zanella fece da Parigi durante la Conferenza di pace. Essi furono uccisi per primi.
A Gorizia furono deportati i membri del CLN, repubblicani e democristiani. Ricordo che a Porzus furono massacrati i partigiani della brigata Osoppo che si opponevano alla unione di quel territorio con la Jugoslavia. Pericolosi per il futuro erano, infine, gli esponenti più elevati del mondo borghese che, anche se politicamente in linea di massima antifascisti, avrebbero sabotato le nuove istituzioni per ragioni di interesse economico. Disgraziatamente tutte queste persone, o quasi tutte, appartenevano al gruppo etnico italiano, ma furono eliminati anche quegli slavi che sarebbero stati, in futuro, possibili reazionari.
Attraverso l'uccisione e le deportazioni si voleva, tuttavia, raggiungere anche un altro scopo: quello di spaventare gli italiani, facendoli almeno in parte fuggire dalla zona, non per una completa e necessariamente impossibile «slavizzazione» del territorio, ma per mutare le proporzioni etniche in vista di eventuali plebisciti, che avrebbero potuto, successivamente, essere imposti dalle nazioni occidentali se queste non si fossero adeguate alla volontà di Stalin.
Non si saprà mai con esattezza quanti siano stati i deportati e quale sia il numero di coloro che non ritornarono. A Gorizia il comune ha ricordato che i suoi abitanti che non fecero ritorno ammontano a 662 cittadini.
Sull'impossibilità di conoscere esattamente il numero delle deportazioni va ricordata l'affermazione del Savorgnan di Brazzà, capo di stato maggiore della divisione partigiana Osoppo, secondo il quale, laddove le deportazioni stesse avvenivano in grande stile, venivano lasciati intatti i nomi ed i cognomi nei registri anagrafici e si sostituivano fisicamente i deportati con altre persone provenienti dall'interno della Jugoslavia, che così assumevano il nome ed il cognome dei deportati.
Con riferimento a tutta la Venezia Giulia nel memoriale del CLN si afferma che i dispersi erano oltre 15 mila e questa è la cifra che la maggior parte degli storici considera esatta. Ricordarli, oggi, con un riconoscimento morale è un dovere, anche se tardivo, come è un dovere ricordare i 350 mila esuli istriani e dalmati che abbandonarono le loro case ed i loro averi per restare italiani e sfuggire ad un regime di terrore e di morte.
Per tale motivo Forza Italia voterà convintamente a favore del provvedimento (Applausi dei deputati dei gruppi di Forza Italia e di Alleanza nazionale).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l'onorevole Paolone, al quale ricordo che ha un minuto a disposizione. Ne ha facoltà.
BENITO PAOLONE. Signor Presidente, non sapevo di avere un minuto, pensavo di avere cinque minuti e di poter intervenire liberamente, perché così era previsto. Ora lei, cambiando la regola, mi vincola ad una condizione...
PRESIDENTE. Sono spiacente, onorevole Paolone, ma le richieste di parola si sono moltiplicate. Speravo anch'io di poterle dare più tempo. Se vuole, può chiedere alla Presidenza l'autorizzazione alla pubblicazione in calce al resoconto stenografico della seduta odierna della sua dichiarazione di voto.
BENITO PAOLONE. Signor Presidente, il mio non era un intervento formale, ma la testimonianza di una vita: lo avrei fatto per la prima volta nel Parlamento italiano, perché nessuno immagini che tali accadimenti vengano enfatizzati per riaprire vecchie ferite. Si tratta, invece, di cercare la strada perché certi fenomeni non debbano mai più ripetersi nel nostro paese. Il mio intervento voleva essere un appello alla civiltà, alla cultura, alla libertà del nostro popolo.
Signor Presidente, mi consenta di parlare ancora per qualche secondo. A tutti coloro che tentano, ancora oggi, di minimizzare e snaturare la verità storica vorrei dire che, così facendo, si ripiomba all'interno di una contrapposizione di ragioni e giustificazioni su fatti esecrabili in nome di ideologie.
Vorrei testimoniare come un signore di nome Francesco Paolone, mio padre, il 1o maggio del 1945 tornò da Trieste a casa sua, in via Bellini n. 6, terzo piano. Nella cucina dell'appartamento mise sulle sue ginocchia due ragazzi: uno ero io, l'altra era mia sorella Italia. Mia madre, in ginocchio, lo implorò di uscire e di salvarsi, se poteva. Voglio lasciare al Parlamento italiano una testimonianza che molti non conoscono: mio padre disse a mia madre Charina che non lo avrebbe mai fatto: avrebbe dimostrato che la sua fede era tutta orientata a difendere la patria, i suoi valori, la sublimazione della nazione in cui vi sono le ragioni della nostra vita. Disse che sapevano di perdere ma, ora per ora, minuto per minuto, fino alla fine della loro vita - quel giorno avevo 14 anni e ricordo le lacrime di mia madre - avrebbero fermato i confini orientali affinché il nostro paese non fosse invaso dal comunismo.
Diventando grande, mi sono chiesto cosa significasse quel discorso pronunciato all'epoca da mio padre. Ho cercato di capire e, per cinquant'anni, ho combattuto con altri perché il comunismo non passasse nel mondo.
Chiedo ai colleghi comunisti, che ancora scherzano e pensano di ricondurci a ideologie, cosa sarebbe stato il mondo se il comunismo avesse avuto il trionfo su di esso.
MAURA COSSUTTA. Piantala, Paolone! Abbiamo garantito i diritti in Italia!
BENITO PAOLONE. Allora, la gente che è morta e si è battuta non è solo una questione di esodo (Applausi dei deputati dei gruppi di Alleanza nazionale, di Forza Italia e dell'Unione dei democratici cristiani e dei democratici di centro), così come non è solo una questione di formalismi! Si tratta invece di una testimonianza di vita, di fede e di militanza, affinché non debbano mai più ripetersi esecrabili vicende, come quelle di Hiroshima e Nagasaki, come quella di Dresda e come tanti altri fatti ignobili, che sono stati perpetrati per dimostrare che qualcuno aveva vinto e qualcun altro aveva perso, perché la guerra è certamente un evento tragico e quasi sempre finisce così. Ma coloro i quali fanno ancora questi discorsi devono essere bollati, devono essere marchiati, perché tengono in piedi una divisione inaccettabile (Applausi dei deputati dei gruppi di Alleanza nazionale, di Forza Italia e dell'Unione dei democratici cristiani e dei democratici di centro - Congratulazioni)!
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l'onorevole Buontempo, al quale ricordo che ha due minuti a disposizione. Ne ha facoltà.
TEODORO BUONTEMPO. L'Italia ritrova oggi la memoria su una storia negata, che ha visto il nostro paese, con il Trattato di Parigi del 1947, cedere senza combattere queste terre alla Jugoslavia. In questa ritrovata memoria da parte dell'Italia, credo sia importante rilevare due aspetti.
Il primo aspetto è che i combattenti della Repubblica Sociale Italiana salvarono migliaia e migliaia di italiani dall'odio tedesco, che voleva decimare gli italiani, e li difesero dall'odio comunista jugoslavo.
Vi è poi un secondo aspetto, che credo debba trovare traccia, nel momento in cui si approva un provvedimento così significativo. Al riguardo, onorevole Gerardo Bianco, non mi riferivo ad un singolo; posso venire da lei a scuola di vita, ma non di politica, perché ero dall'altra parte e il nostro partito oggi è al Governo, mentre il suo non c'è più. Posso, quindi, prendere lezioni di vita ma non di politica e, per quanto riguarda la politica, non si può non lasciare traccia del fatto che i Governi che si sono succeduti dal 1948 in poi hanno negato questa storia alle nuove generazioni. Non ve ne è traccia sui libri di scuola e i ragazzi - ne ho incontrati alcuni stamattina qui a Montecitorio -, di questa storia tragica dell'Italia, non conoscono assolutamente nulla. Né è stata data una sola lira dai Governi che si sono succeduti per aiutare quelle popolazioni esuli in Italia, che non avevano più casa, non avevano più lavoro, non avevano più beni e persino....
PRESIDENTE. Onorevole Buontempo, la invito a concludere.
TEODORO BUONTEMPO. Ho concluso, Presidente.
Per quanto riguarda i campi dei profughi, a cominciare da quelli di Roma, furono occupati dai profughi caserme e luoghi abbandonati, perché quei Governi hanno cancellato una storia e diviso gli esuli istriani e dalmati, per non farli identificare nel loro dolore e nella loro storia. Questa è una grave colpa dei Governi del dopoguerra (Applausi dei deputati del gruppo di Alleanza nazionale)!
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l'onorevole Giulio Conti, al quale ricordo che ha un minuto a disposizione. Ne ha facoltà.
GIULIO CONTI. Non posso che associarmi a questo ricordo, anche dal punto di vista personale. Infatti, ricordo che alcuni anni fa quando l'onorevole Roberto Menia era ancora un ragazzino, mi chiese di portarlo alla Villa di Osimo, dove venne firmato il Trattato di pace che assegnò la zona B alla Jugoslavia (a mio avviso un trattato immondo, stupido ed inutile, che non serviva proprio a niente, perché la potenza di Tito storicamente e politicamente
era ormai finita) e si incatenò in quella villa. In un giorno di pioggia, ricordammo questo episodio, maledicendolo nel nostro cuore perché significava aver rinunciato ad un pezzo di terra della nostra patria per la quale erano morti i nostri concittadini infoibati. Credo che oggi vi sia una rivincita della storia, un atto di giustizia della storia, una vittoria dei morti infoibati.
Anche per questo, lo ringrazio, così come ritengo giusto ringraziare il mio primo partito che, fin da ragazzo, mi ha insegnato a non consegnare nell'oblio questa tragedia: quegli uomini ci hanno insegnato a ricordare, in un momento in cui era proibito farlo nei libri di scuola, come è ancora proibito oggi, questa pagina della storia, consentendoci di fare giustizia e chiarezza e di trasmettere ai nostri ragazzi il ricordo sano e santo di un momento di pacificazione nazionale come questo, ma anche di grande risveglio di un sano, onesto e costruttivo amore di patria (Applausi dei deputati del gruppo di Alleanza nazionale).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l'onorevole Tremaglia. Ne ha facoltà.
MIRKO TREMAGLIA. Signor Presidente, credo che questa sia una grande giornata per il nostro Parlamento. Il suo intervento mi ha profondamente colpito; anche la nobiltà di altri significativi interventi (quelli dei colleghi Menia, Paolone e Fassino) mi ha commosso, perché la storia è stata rispettata: essa, infatti, non deve essere mai strumentalizzata dalla politica, a fronte di questa tragedia immensa e del dramma, della sofferenza, del dolore di centinaia di migliaia di esuli che ho conosciuto in tante parti del mondo.
Vorrei citare, a tale proposito, un uomo di sinistra che ha scritto parole assai significative e che penso possano servire perché oggi inizi veramente la grande pacificazione nazionale.
Dice Cesare Pavese: «Ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico diventa, morendo, una cosa simile, se ci si arresta, se si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che, anche vinto, il nemico è qualcuno, che, dopo averne sparso il sangue, bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue e giustificare chi l'ha sparso. Guardare certi morti è umiliante; non sono più faccenda altrui. Non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l'impressione che lo stesso destino, che ha messo a terra quei corpi, tenga gli altri inchiodati a vederli, a riempirsene gli occhi: non è paura, non è la solita viltà! Ci si sente umiliati, perché si capisce, si tocca con gli occhi che, al posto del morto, potremmo esserci noi! Non ci sarebbe differenza e, se viviamo, lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo, ogni guerra è una guerra civile. Ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione» (Applausi dei deputati dei gruppi di Alleanza nazionale e di Forza Italia e di deputati del gruppo della Margherita, DL-l'Ulivo). Sono parole di Cesare Pavese.
Questa è la strada, lo dico a me e a tutti voi, il grande momento, veramente storico, della riconciliazione, della pacificazione nazionale (Applausi dei deputati dei gruppi di Alleanza nazionale e di Forza Italia e di deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-l'Ulivo e della Margherita, DL-l'Ulivo)!
PRESIDENTE. Sono così esaurite le dichiarazioni di voto sul complesso del provvedimento.
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