Resoconto stenografico dell'Assemblea
Seduta n. 384 del 5/11/2003
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TESTO INTEGRALE DELL'INTERVENTO DEL DEPUTATO LUCIANO VIOLANTE SULL'ORDINE DEI LAVORI

LUCIANO VIOLANTE. Signor Presidente, onorevoli colleghi, dopo l'annullamento da parte della Corte di Cassazione della sentenza che condannava il senatore Giulio Andreotti per l'omicidio di Mino Pecorelli, accanto alla soddisfazione per la riconosciuta innocenza dell'uomo politico, si sono manifestate, tanto da parte dell'interessato quanto da parte di altri uomini politici, valutazioni assai critiche sull'operato della Commissione parlamentare antimafia della XI legislatura e nei confronti di chi vi parla, che allora la presiedeva.
Ho taciuto sinora perché, quando è in discussione l'operato di un organo parlamentare, deve essere il Parlamento la sede nella quale prioritariamente si discute e si affrontano i problemi.
Ho inteso confermare il costume democratico che impone ai dirigenti parlamentari di affrontare in Parlamento, prima che in altri luoghi, le principali questioni politiche ed istituzionali del paese.
È una questione politica ed istituzionale che riguarda il passato, il presente e il futuro della nostra democrazia.


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Se un organo parlamentare ed il suo presidente avessero davvero ordito una trama per accusare di gravi illeciti penali un uomo innocente, la democrazia in sé avrebbe ricevuto un colpo gravissimo e quella Commissione e quel presidente dovrebbero severamente rispondere dinanzi al paese e dinanzi alla vittima.
Ma queste accuse sono false ed intendo dimostrarlo.
Non esiste infatti alcun rapporto tra la relazione su mafia e politica approvata dalla Commissione antimafia il 6 aprile 1993 ed i due processi penali nei quali è stato imputato il senatore Andreotti.
La Commissione non si è mai occupata dell'omicidio di Mino Pecorelli. L'unico atto è costituito dalla lettera, ampiamente nota, con la quale informavo la procura della Repubblica di Palermo del contenuto di una telefonata anonima ricevuta nella mattinata del 5 aprile 1993 secondo la quale in via Tacito, sede di OP, si sarebbe trovato un tale Patrizio, braccio destro di Mino Pecorelli, che possedeva la copertina del numero di OP mai stampato a causa dell'omicidio del suo direttore. Sulla copertina, sempre secondo l'ignoto interlocutore, sarebbero stati riportati sei nomi leggendo i quali poteva comprendersi chi possedeva i documenti di Pecorelli.
La comunicazione non mi apparve banale perché sembrava consentire il ritrovamento di documenti del giornalista ucciso.
Né nella lettera, né nella telefonata si parlava del senatore Andreotti o si accennava a responsabilità per l'omicidio di Mino Pecorelli.
Ricevuta la telefonata, informai il dottor Michele Coiro, capo della DDA di Roma, e, in questa veste, mio interlocutore principale con la magistratura romana, che allora indagava sull'omicidio. Al dottor Coiro chiesi se intendeva ricevere una comunicazione scritta.
Il magistrato si riservò di valutare la cosa. Mi richiamò alcuni minuti dopo informandomi che non era necessario inviargli una nota scritta ma che forse la notizia poteva interessare anche la procura di Palermo. Cercai il procuratore della Repubblica a Palermo, dottor Giancarlo Caselli, che però era fuori sede. Un funzionario della procura mi informò che potevo parlare con il dottor Scarpinato. Ebbi con questo magistrato la stessa conversazione che avevo avuto con il dottor Coiro, ma il dottor Scarpinato mi disse che preferiva avere una comunicazione formale. Di qui l'invio della mia lettera.
Tra l'altro, qualche giorno prima avevo letto una notizia dell'Ansa, secondo la quale: «nella richiesta di autorizzazione verrebbero recuperate alcune parti dell'inchiesta sull'uccisione del giornalista Mino Pecorelli e sulle campagne di OP, sui rapporti tra Sindona, Inzerillo e Licio Gelli». (Ansa del 28 marzo 1993).
Questa precisazione è stata da me già esposta su «Panorama» del 28 agosto 2003, in replica ad un'intervista del senatore Andreotti.
La mia precisazione non ricevette alcuna smentita.
D'altra parte, come si è appreso molti anni dopo, la procura della Repubblica di Roma aveva ricevuto dall'ufficio di Palermo, nel novembre 1992, copia di una deposizione di Buscetta, resa il 6 novembre dello stesso anno, nella quale l'ex capo mafia dichiarava che l'omicidio Pecorelli era stato richiesto dai cugini Salvo per favorire «interessi romani». Pertanto, sulla base delle conoscenze che abbiamo oggi, il dottor Coiro mi aveva indirizzato a ragion veduta ai suoi colleghi di Palermo.
Aggiungo che la comunicazione all'autorità giudiziaria di notizie di suo eventuale interesse è stata regola costante della Commissione antimafia da me presieduta ed era determinata dal dovere di leale collaborazione tra poteri dello Stato.
Sono state fatte illazioni sulle ragioni per le quali quella lettera è agli atti del processo per l'omicidio di Mino Pecorelli. Non poteva accadere diversamente.
Il codice di procedura penale vigente all'epoca imponeva infatti al pubblico ministero di mettere a disposizione del giudice e dell'imputato tutti i documenti in suo possesso. Chi non l'avesse fatto sarebbe


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incorso in una grave scorrettezza professionale e forse anche in un illecito penale.
Si è sostenuto che la relazione della Commissione antimafia costituì «il punto di partenza» della vicenda giudiziaria nella quale è stato coinvolto il senatore Giulio Andreotti.
Anche questa illazione è priva di fondamento.
Il nome di Giulio Andreotti come persona collegata ad esponenti di Cosa Nostra, tramite Salvo Lima, come si è appreso successivamente, quando sono stati resi noti gli atti della procura di Palermo, era stato fatto a quell'autorità giudiziaria da Leonardo Messina collaboratore della procura di Caltanissetta, allora diretta dal dottor Giovanni Tinebra, il 12 agosto 1992.
La Commissione antimafia si costituì il 30 settembre 1992 e decise di avviare un'inchiesta sui rapporti tra mafia e politica nella seduta del 29 ottobre, in seguito a richiesta espressamente avanzata nella seduta del 15 ottobre 1992 dai colleghi Ayala (PRI), Buttitta (PSI), Scotti (DC). La richiesta nasceva in conseguenza dell'omicidio di Salvo Lima ed era fondata sulla legge istitutiva della Commissione che imponeva, tra l'altro, l'accertamento di tutte le connessioni del fenomeno mafioso.
Pertanto alla procura della Repubblica di Palermo i primi elementi nei confronti del senatore Andreotti erano pervenuti ancora prima che la Commissione antimafia venisse istituita.
Quando la Commissione iniziò l'attività che riguardava non il senatore Andreotti, ma i rapporti tra mafia e politica, la procura di Palermo aveva già avviato le proprie indagini nei confronti del senatore Andreotti.
Né si può sostenere che la relazione della Commissione abbia condizionato la decisione della procura della Repubblica di Palermo.
La richiesta di autorizzazione a procedere venne trasmessa al Ministero di grazia e giustizia il 27 marzo 1993 e lo stesso giorno il Guardasigilli la trasmise al Senato. La relazione della Commissione d'inchiesta venne invece approvata il 6 aprile 1993, dieci giorni dopo.
La relazione fu approvata quasi all'unanimità.
Votarono contro i parlamentari del MSI che ritennero il testo troppo debole e il deputato radicale Marco Taradash che ritenne il testo omissivo.
Questo consenso così largo è stato interpretato come segno di passività o di opportunismo da parte dei parlamentari democristiani e di altri partiti dell'allora maggioranza.
Non sta a me dare giudizi in questa sede, né disquisire sullo stato d'animo dei componenti la Commissione.
Ma devo ricordare che questo voto non fu l'eccezione.
Tutta l'attività della Commissione procedeva sulla base di consenso unanime o assai largamente maggioritario.
Quando questo vasto consenso non c'era, la decisione non era assunta e cercavo di costruire il consenso attorno ad una diversa soluzione.
La stessa bozza di relazione, sottoposta alla Commissione nella seduta del 31 marzo 1993, fu oggetto di numerose ed incisive correzioni, proprio per conseguire un ampio consenso.
Ritenevo e ritengo tuttora che il presidente di una Commissione d'inchiesta che ha gli stessi poteri dell'autorità giudiziaria ha lo specifico dovere di costruire un consenso ampio nella Commissione, non caratterizzato da una contrapposizione tra maggioranza e opposizione. Altrimenti le Commissioni d'inchiesta diventano nelle mani di una qualsiasi maggioranza, di destra o di sinistra, una sorta di tribunale politico, gestito per fini di parte.
Si è sostenuto che la relazione della Commissione avrebbe costituito un pesante atto d'accusa nei confronti del senatore Andreotti.
Anche questa insinuazione è infondata.
Nella relazione l'unica frase che riguarda il senatore Andreotti è la seguente: «Risultano certi alla Commissione i collegamenti di Salvo Lima con uomini di Cosa Nostra. Egli era il massimo esponente


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in Sicilia della corrente democristiana che fa capo a Giulio Andreotti. Sulla eventuale responsabilità politica del senatore Andreotti, derivante dai suoi rapporti con Salvo Lima, dovrà pronunciarsi il Parlamento.».
Sottolineo: a) la relazione parlava di eventuale responsabilità politica; b) queste eventuali responsabilità politiche avrebbero riguardato i rapporti di Giulio Andreotti con Salvo Lima; c) la Commissione non emetteva alcun giudizio, ma rinviava al giudizio politico del Parlamento, al quale la relazione era diretta.
Si è sostenuto che quella relazione aveva affidato ai tribunali la soluzione di problemi politici.
Non è vero.
La relazione infatti aveva affidato al Parlamento e solo al Parlamento il diritto di esprimersi sulla «eventuale» responsabilità politica di Giulio Andreotti.
A prova di improprie relazioni tra la Commissione antimafia e la procura di Palermo si è addotto il fatto che la richiesta di autorizzazione a procedere fosse stata portata a casa del presidente della Commissione antimafia il 27 marzo, da un ufficiale di polizia giudiziaria.
Non c'è nulla di misterioso. È capitato molte altre volte quando si trattava di documenti rilevanti per l'attività della Commissione, che era necessario esaminare in vista della stesura di relazioni o di documenti della Commissione.
È stato detto che la Commissione stessa non ha mai convocato il senatore Andreotti.
Anche qui le cose stanno diversamente.
Feci chiedere al senatore Andreotti se intendeva essere ricevuto dalla Commissione antimafia. Egli fece sapere che intendeva parlare solo alla fine del lavoro relativo ai rapporti tra mafia e politica. Prima che il lavoro finisse, giunse al Senato la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti del senatore Andreotti da parte della procura di Palermo.
Per evitare una sorta di processo pubblico fatto da cinquanta parlamentari nei confronti del senatore Andreotti e per evitare interferenze con la decisione del Senato, si decise di non procedere a nessuna audizione di parlamentari accusati, indiziati, imputati, fermo restando che la Commissione avrebbe ascoltato coloro che lo avessero espressamente richiesto.
Il senatore Andreotti non lo chiese. Lo chiesero altri, per esempio il senatore Gava, che venne immediatamente ascoltato.
Questa stessa spiegazione ho fornito in una intervista al TG1 del 26 ottobre 1999, in replica ad alcune dichiarazioni del senatore Andreotti, che non replicò.
La Commissione non si occupò solo dei rapporti tra mafia e politica. Lavorò intensamente anche al tema che chiamammo «antimafia dei diritti» e riuscì in questo programma a dare alle ragazze ed ai ragazzi di Palermo quattordici nuovi edifici scolastici che erano rimasti bloccati, alcuni per inerzie burocratiche ed altri per collusioni mafiose.
Onorevoli colleghi, che le cose stessero in questi termini era largamente noto.
Chiunque avrebbe potuto informarsi agevolmente, leggendo gli atti della Commissione, che sono pubblici.
Taccio degli insulti e delle volgarità.
Noi tutti abbiamo il dovere di esercitare le nostre responsabilità per il presente e per il futuro del paese.
Ma dobbiamo farlo sfuggendo ad un troppo facile mea culpa.
Conosco, per aver militato nel partito comunista, i presupposti e le conseguenze della cosiddetta autocritica, che sovente ha rappresentato l'adesione o ipocrita o necessitata al pensiero dominante.
Ipocrisia e viltà fanno purtroppo parte della vita ed anche della vita politica. Ma dobbiamo combattere il rischio di affrontare questa vicenda facendo prevalere l'ipocrisia, la viltà, le miserabili convenienze.
La sentenza di assoluzione definitiva ha fatto uscire da un incubo Giulio Andreotti e rasserenato buona parte del nostro paese.
Ma chi oggi si piega davanti ad una sentenza rivedendo alla luce di un atto giudiziario scelte squisitamente politiche


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rischia di celebrare ancora una volta il rito suicida della subalternità della politica alla giustizia.
Siamo chiamati tutti ad un atto di coraggio e di indipendenza.
La storia della Repubblica non è una storia criminale, come alcune distorte applicazioni della cosiddetta tesi del doppio Stato hanno fatto intendere.
Nella vita politica troppo spesso non si sono volute individuare le responsabilità politiche e si è così delegato ogni giudizio alla magistratura. Anche per questa ragione nei primi anni Novanta in Italia si manifestarono orientamenti acriticamente giustizialisti.
Nel febbraio 1993 uno stimato commentatore politico scrisse: «Questi partiti devono retrocedere e alzare le mani. Devono farlo subito. E devono farlo senza le furbizie... che accompagnano i rantoli della loro agonia. Perché questo sì sarebbe un golpe contro la democrazia: cercare di resistere contro la volontà popolare.».
Nell'agosto successivo un parlamentare sostenne: «C'è in giro uno sfrenato giustizialismo, ma il giudice non deve celebrare vendette; anche nei momenti più difficili deve puramente e semplicemente amministrare giustizia... L 'unica ricetta che si può consigliare alla magistratura... è sottrarsi all'esaltazione dei mezzi d'informazione».
Il commentatore politico era Marcello Pera. Il parlamentare era Luciano Violante.
Ho proposto queste due citazioni perché intendo mettere in guardia dagli stereotipi costruiti nella polemica politica. E perché conosco lo spirito liberale del Presidente del Senato.
La storia della Repubblica è stata attraversata da molte tragedie.
Nessun paese occidentale, moderno e democratico ha avuto tante stragi, tanti uomini politici, imprenditori, magistrati, poliziotti, uccisi perché si sforzavano di fare lealmente il proprio lavoro.
La legalità non è stato un valore condiviso unanimemente nella storia della Repubblica.
L'Italia ed il suo mondo politico non sempre sono stati tutti dalla parte giusta.
Una parte d'Italia e del suo mondo politico è stata con Michele Sindona, il banchiere di Cosa Nostra, e ha cercato di evitare, a spese della collettività, che egli rispondesse dei suoi crimini.
Un'altra parte d'Italia e del suo mondo politico stava con Paolo Baffi, Mario Sarcinelli e Giorgio Ambrosoli.
Una parte d'Italia stava con Vito Ciancimino ed un'altra parte stava con Pier Santi Mattarella.
Non siamo stati tutti uguali nella storia della Repubblica e le divisioni sono spesso passate dentro i partiti politici, per corruzione o per convenienza, per arroganza o per subalternità.
La fine della classe dirigente della prima Repubblica non è stata determinata da fattori giudiziari. L'intervento giudiziario ha concorso, certamente, e non sempre in modo proprio. Ma le cause della crisi furono squisitamente politiche.
Dobbiamo riconoscere che le corruzioni c'erano.
Dobbiamo riconoscere che i rapporti tra mafiosi e alcuni uomini politici c'erano.
Dobbiamo riconoscere che l'intervento della magistratura è stato doveroso in base alla nostra Costituzione.
Questo intervento ha avuto effetto dirompente per il carattere dirompente che avevano in sé quei fenomeni degenerativi sui quali i magistrati indagavano.
Dobbiamo anche riconoscere che la magistratura ha in alcuni casi agito nei confronti delle persone sbagliate e con effetti tragici, tanto per abusi individuali quanto per la fragilità di un sistema politico che non ebbe la forza di assumersi le proprie responsabilità neanche dopo i discorsi che tenne in quest'aula Bettino Craxi il 3 luglio 1992 e il 29 aprile 1993.
Ma il carattere fondamentale dell'intervento giudiziario, da Milano a Palermo, non fu l'abuso. Fu il richiamo al rispetto delle regole da parte di un ceto politico, burocratico, imprenditoriale che aveva deciso di vivere secondo altri codici, trascinando nel disastro anche persone in


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buona fede. Molti di noi conservano nella memoria la lettera atroce che scrisse un deputato prima di suicidarsi.
Dobbiamo riconoscere la responsabilità di chi organizzava i cortei che assediavano i tribunali con slogan di scherno nei confronti degli imputati, che assediarono addirittura questa Camera dei deputati con invettive contro il cosiddetto Parlamento degli inquisiti, che assediarono l'hotel Rafael in una sera che non fece onore alla democrazia.
Riconoscere tutto questo è un atto di coraggio civile e politico.
È sbagliato riscrivere la storia di ieri sulla base delle convenienze dell'oggi e non è degno accusare oggi per coprire i silenzi di ieri.
Il sistema politico italiano crollò perché la fine dell'Unione sovietica mise fine al bipolarismo internazionale e la fine del bipolarismo svuotò il patto politico anticomunista che aveva unito per circa mezzo secolo i tradizionali partiti di governo.
Parallelamente esplose il risentimento di una parte rilevante della società italiana, gli imprenditori innanzitutto, contro il sistema delle corruzioni e delle connivenze con il malaffare.
Se ne fece interprete prima di altri e più di altri la Conferenza episcopale italiana, con la pastorale «Educare alla legalità» dell'ottobre 1991.
Se ne fece interprete Giovanni Paolo II, con vari interventi contro la corruzione e contro la mafia, in particolare a Castellammare di Stabia nel marzo 1992 e ad Agrigento il 9 maggio 1993.
Il crollo di quel sistema avvenne per l'esaurimento delle sue funzioni nazionali ed internazionali e fu accelerato dalle dimensioni dell'illegalità.
Essendo privo di possibilità di alternanza, e non avendo preparato tempestivamente la successione a se stesso, quel sistema politico franò rovinosamente trascinando nella propria rovina non tutti i colpevoli e non pochi innocenti.
Queste furono le circostanze.
La teoria secondo la quale la crisi di quel sistema, i processi al senatore Andreotti e ad altre autorità politiche siano stati frutto di complotti addirittura transitati attraverso istituzioni parlamentari è una menzogna consolatoria, che pregiudica la verità e fa scivolare nella smemoratezza.
Ma la verità è come il flusso dell'acqua. Prima o dopo viene fuori e più è stata compressa, maggiore è la sua forza dirompente.
Meglio per l'Italia se la sua classe dirigente dimostra il coraggio della verità.
Ci sono state inerzie, calcoli, avidità. L'idea del complotto è una interpretazione che impedisce di affrontare i nodi duri della nostra storia recente, la corruzione del mondo politico, i rapporti di alcuni suoi esponenti con la malavita organizzata, la degenerazione del costume politico. Questa interpretazione della storia è una palla al piede; ci impedisce di costruire il futuro e di salvare il presente. È una teoria che consente di costruire nemici, di armare vendette, di usare il potere politico con spirito vendicativo non con spirito costruttivo. Ci rende tutti prigionieri delle nostre storie e causa tra noi una contrapposizione puramente ideologica, senza spirito di verità.
Il Novecento, in Europa, è pieno di complotti inesistenti, denunciati al solo scopo di sbarazzarsi più velocemente dei propri avversari politici.
Io credo, signor Presidente, che a questo punto ciascuna forza politica potrà pronunciarsi, se lo ritiene, nella sua responsabilità.
Dobbiamo guidare l'Italia fuori del corridoio in cui l'ha schiacciata l'incapacità di far maturare il nostro bipolarismo e di superare lo scontro tra politica e giustizia.
Ciò che dà dignità alla politica è la flessibilità nelle analisi e la fermezza nei valori.
Ciò che le conferisce autorevolezza è decidere quale sia la cosa giusta ed impegnarsi a farla. Il costo dell'inerzia è sempre superiore al prezzo dell'azione.
Qui abbiamo valori diversi, ma abbiamo le stesse responsabilità di fronte al futuro del paese. Dobbiamo muoverci nell'esercizio di queste responsabilità.
Per questo, signor Presidente, Le chiedo di valutare l'opportunità di individuare il modo e i tempi nei quali si possa aprire in quest'aula un dibattito onesto sul modo di uscire dallo scontro istituzionale che ruota


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attorno alla questione giudiziaria e che l'ha fatta divenire un aspetto della questione democratica.
Non si tratta dell'ennesima Commissione d'inchiesta da usare contro l'attuale opposizione.
Questo è un metodo sbagliato, che non aiuta il paese; se la maggioranza vorrà perseguire questa strada, noi la lasceremo sola.
Io chiedo un dibattito onesto su questi temi, non una resa dei conti e so che l'Italia potrà esserci grata se sapremo fare ciò che è necessario.
Ho sentito la responsabilità, il dovere e il diritto di difendere un organo del Parlamento che ho presieduto, le parlamentari ed i parlamentari che assieme a me ne fecero parte, i funzionari ed i dipendenti di questa Camera che vi lavorarono, gli ufficiali di polizia giudiziaria che cooperarono.
Nessuno di loro, ve lo assicuro sul mio onore, lavorò «nell'incubatore infettivo del virus giustizialista».
Tutti abbiamo lealmente servito la nostra Repubblica.

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