Resoconto stenografico dell'Assemblea
Seduta n. 382 del 3/11/2003
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Discussione della proposta di legge Cirielli ed altri: Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi (2055) (ore 18,35).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della proposta di legge d'iniziativa dei deputati Cirielli ed altri: Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva ed il giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi.
Avverto che la ripartizione dei tempi è pubblicata nel vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).

(Discussione sulle linee generali - A.C. 2055)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che il presidente del gruppo parlamentare dei Democratici di sinistra-l'Ulivo ne ha chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del regolamento.
Avverto che la II Commissione (Giustizia) si intende autorizzata a riferire oralmente.
Il relatore, onorevole Cirielli, ha facoltà di svolgere la relazione.

EDMONDO CIRIELLI, Relatore. Signor Presidente, la proposta di legge in questione interviene sul regime delle circostanze del reato e sulla disciplina delle misure alternative alla detenzione. Il motivo


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ispiratore è quello dell'accentuazione del regime sanzionatorio e della limitazione dei benefici conseguenti ai predetti istituti, chiaramente nei casi di recidiva reiterata. Di fatto, la norma in questione si pone come una controriforma rispetto alle riforme del giugno 1974 e del luglio 1975, la prima relativa alla modifica della recidiva stessa, come prevista dal codice penale, e la seconda consistente nell'introduzione complessiva dell'ordinamento carcerario.
Passando, in maniera molto sintetica, al merito degli articoli, l'articolo 1 della proposta esclude l'applicabilità delle circostanze attenuanti generiche previste dall'articolo 62-bis del codice penale ai recidivi con reiterazione. Si tratta della categoria prevista dall'articolo 99, quarto comma, del codice penale, vale a dire di coloro che, dopo essere stati dichiarati recidivi, commettono un altro reato. L'articolo 2 esclude il giudizio di comparazione fra le circostanze previste dall'articolo 69 del codice penale per i casi di recidiva reiterata previsti dall'articolo 99, quarto comma.
L'articolo 3 elimina la discrezionalità del giudice nel ritenere la recidiva. Di fatto, con la recidiva l'aumento della pena torna obbligatorio, come era prima della riforma del 1974. Sull'argomento vorrei spendere proprio due parole. Attualmente, l'istituto che prevede l'inasprimento delle pene è di fatto disapplicato proprio per il carattere facoltativo introdotto nel 1974. Con questo regime, si intende ripristinare le conseguenze negative che derivano dall'aver commesso due reati e dall'essere stati condannati, con tutto quello che consegue, complessivamente, dall'articolo 99 del codice penale sia in termini di aumento di pena sia in termini di ulteriori specificazioni, come quelle previste dall'articolo 99, quarto comma, per la recidiva reiterata che è, poi, il motivo centrale del provvedimento.
Ancora, l'articolo 3 elimina la discrezionalità del giudice in relazione alla definizione precisa dell'aumento delle pene. Attualmente, i vari casi previsti dall'articolo 99 vengono trattati con aumenti fino ad un terzo, fino ad un sesto, fino alla metà. Con questo provvedimento, invece, l'aggravamento della pena viene fissato, in modo determinato, ad un sesto, ad un terzo, alla metà.
L'articolo 4, che è stato soppresso dalla Commissione, prevedeva una valutazione specifica sull'istituto della prescrizione. L'articolo 5, invece, restringe ed irrigidisce i benefici dell'ordinamento carcerario relativamente ai permessi premio, all'affidamento in prova ai servizi sociali, alla detenzione domiciliare, alla semilibertà e alla liberazione anticipata. Si badi bene, ciò vale soltanto nei casi di recidiva reiterata e, quindi, per persone che hanno avuto, di fatto, tre condanne. Non si pone in discussione l'esistenza dei principi inseriti dall'ordinamento carcerario, anche in ossequio dell'articolo 27 della Costituzione, che prevede che il fine della pena sia quello della rieducazione. Si intende, invece, inasprire e rendere più difficoltoso l'utilizzo di tali benefici per coloro che tradiscono più volte la fiducia dello Stato.
L'articolo 6 interviene sulla normativa del testo unico in materia di stupefacenti e, precisamente, sulla sospensione della pena per coloro che sono tossicodipendenti. Anche in questo caso, si stabiliscono alcuni irrigidimenti, nel senso che la sospensione della pena può essere concessa una sola volta e soltanto per pene inferiori a tre anni. L'articolo 7 esclude, invece, i benefici dell'articolo 656 del codice di procedura penale, come modificato dalla legge Simeone, limitatamente ai casi di recidiva reiterata.
Quindi, non si mette assolutamente in discussione la bontà dell'istituto giuridico previsto dall'articolo 656 del codice penale, così come novellato dalla legge Simeone, ma si intende semplicemente escluderlo per coloro che più volte hanno tradito la fiducia dello Stato e siano stati condannati tre volte con sentenza passata in giudicato.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.

GIUSEPPE VALENTINO, Sottosegretario di Stato per la giustizia. Signor Presidente,


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non ho nulla da aggiungere. Mi pare che il disegno di legge interpreti l'esigenza di maggior rigore fortemente avvertita dalla pubblica opinione illustrata puntualmente dal relatore, e mi riporto alla relazione dell'onorevole Cirielli.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Vitali. Ne ha facoltà.

LUIGI VITALI. Signor Presidente, la proposta di legge della quale stiamo discutendo si propone di modificare l'articolo 62-bis del codice penale, noto come disposizione che prevede le attenuanti generiche, rendendolo più rigoroso. Infatti, si estende il divieto di concessione delle attenuanti generiche ai casi di recidiva reiterata, nonché a chi commette delitti gravissimi. Inoltre, nel nuovo testo si inserisce il divieto di comparazione delle circostanze per i casi di recidiva reiterata, ossia per quei soggetti già condannati tre volte e che non meritano certamente vantaggi nell'applicazione delle pene per nuovi reati commessi. Si elimina altresì la discrezionalità del giudice nell'applicazione della recidiva ed infatti si fissano in maniera precisa gli aumenti di pena in caso di recidiva del reo sottraendoli alla discrezionalità del giudice. Infine, è rivista la concessione di misure alternative alla detenzione e di benefici ai recidivi, inasprendo il regime penitenziario con l'allungamento dei termini per la concessione dei benefici stessi e quindi obbligandoli a periodi di detenzione più lunghi prima della concessione degli stessi.
Non entrerò nel merito degli articoli perché sono stati illustrati dal relatore. Voglio invece soffermarmi su quello che è, ad avviso del sottoscritto e quindi del gruppo che rappresento, il principio che sottende questa iniziativa che è largamente condivisibile da parte di chi vi parla. Si sente ed è diffusa nella collettività - lo ha detto nel suo intervento anche il rappresentante del Governo - l'esigenza di maggiore sicurezza. Molto spesso le iniziative della polizia e dei rappresentanti delle forze dell'ordine così come degli stessi magistrati che a vario titolo concorrono prima a prevenire poi a reprimere fenomeni di criminalità (che non necessariamente deve essere criminalità organizzata, ma è anche criminalità comune, che è quella più frequente e che maggiormente crea allarme sociale, in quanto infastidisce e colpisce i diritti essenziali di tranquillità e del vivere normale propri della collettività) producono effetti sull'immaginario collettivo che non sono consequenziali rispetto all'impegno che queste varie istituzioni a vario titolo profondono nell'attività di prevenzione e di repressione.
In buona sostanza, si percepisce un'attenuazione della sanzione, una non efficacia nel momento in cui criminali, delinquenti, arrestati e processati, vengono rimessi in libertà dopo poco tempo: questo fa disperdere il valore sanzionatorio della pena e fa anche cadere l'esigenza di tutela della sicurezza dei cittadini. Pertanto, il principio ispiratore di questa proposta di legge è quello di rendere difficile l'applicazione delle attenuanti generiche, in ogni caso a chi reiteratamente ha commesso dei reati, vale a dire un inasprimento della normativa, nei confronti di chi è proclive alla commissione di reati. Quindi, vi è una sorta di limitazione - lo dico nel senso buono del termine - alla discrezionalità del giudice nell'applicazione sia della recidiva, che diventa obbligatoria in determinati casi, sia dell'applicazione delle attenuanti generiche. Tutto questo viene supportato nella proposta di legge non soltanto nella parte procedurale, che mira alla emissione della sentenza, ma anche nella fase successiva di espiazione della pena, rendendo più rigido il percorso per costoro nell'applicazione e nel godimento di forme alternative alla detenzione. Questo è il principio ispiratore di questa norma che noi condividiamo e che sicuramente appartiene al comune sentire del cittadino.
È sicuramente un'esigenza che viene raccolta dalla collettività, nel momento in cui si ragiona di sicurezza, di incolumità, di tutti i principi che attengono al vivere civile. Vorrei aggiungere - anche se l'Assemblea non è così rappresentativa, nella sua interezza, dei gruppi parlamentari che


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hanno dignità in questo consesso - un elemento di discussione e di confronto nei confronti della mia maggioranza e dell'opposizione.
Premesso che questo è il principio ispiratore che credo abbia mosso l'iniziativa del collega Cirielli e che - l'ho già detto - condividiamo ampiamente, ritengo che questa normativa (ho, a tale proposito, presentato una serie di emendamenti che non ne stravolgono l'impianto complessivo, ma lo rendono più razionale e ragionevole, tenuto conto delle finalità, assolutamente condivisibili, che il relatore si è proposto) crei, a mio avviso, una disparità di trattamento; a tale riguardo, chiedo un confronto leale, aperto e corretto, come qualche volta siamo capaci di fare in questa legislatura, quando non vi sono situazioni contingenti o grandi problematiche politiche che strozzano o mettono in un binario non corretto il confronto che deve esistere tra maggioranza e opposizione.
Il problema che pongo è il seguente: è possibile, con riferimento a tale norma che si applica ai recidivi, cioè a chi reiteratamente compie violazioni penalmente rilevanti, che si crei un discrimine fra il pregiudicato, il recidivo e l'incensurato? Non è opportuno, non è il caso, per una questione anche di giustizia sostanziale, di parità di trattamento e di diversa considerazione del legislatore prima e del giudice che dovrà giudicare dei comportamenti penalmente rilevanti dopo creare un discrimine? Cioè, così come, da un lato, si rende più rigido il procedimento e l'applicazione della sanzione penale nei confronti del recidivo, non si dovrebbe, invece, prevedere un comportamento, un atteggiamento, più flessibile nei confronti dell'incensurato, di colui che si imbatte nella giustizia penale non perché ne abbia fatto una scelta di vita, quale si desume dalla personalità del soggetto, dai suoi precedenti penali, ma che vi si imbatte occasionalmente per mille motivi che non è necessario codificare, individuare (non bisogna essere esperti di diritto per poter comprendere)? Non è opportuno creare un contrappeso nei confronti dell'incensurato che si trova ad imbattersi della giustizia? Non so se siano stati presentati o meno emendamenti in questo senso. Personalmente, non ne ho presentati, perché non ho voluto anteporre la discussione e il confronto a quella che può essere una decisione condivisa il più largamente possibile perché sia scevra da cogenti contenuti politici e perché, una volta tanto, sia conforme al nostro diritto, al nostro ordinamento.
In questo senso attendo, nel corso di questo dibattito che non è ampio, ma che comunque è rappresentativo sicuramente delle espressioni più autorevoli dei vari gruppi che compongono il nostro Parlamento, una risposta per quanto riguarda questo tipo di percorso alternativo che potremmo compiere insieme, qualora lo dovessimo condividere, con tutte le modalità e quegli elementi che dovessero venire fuori da un dibattito sereno, leale e coerente, come credo che in questi casi si debba fare.
Quando si parla di libertà personale, del bene più alto presente nel nostro modo di pensare, credo non si possa e non si debba svolgere un gretto ragionamento di appartenenza politica, di maggioranza o di opposizione.
Credo che sia interesse di tutti far diventare legge quelle norme o quei provvedimenti che abbiano una compatibilità e una possibilità di essere sintetizzati sulle aspettative del popolo sovrano che ci ha eletto e che rappresentiamo.
Nel confermare la condivisione sull'impianto di massima di questo provvedimento, che pure credo, ma il relatore ed il Governo esprimeranno il loro parere a riguardo, necessiti di qualche «messa a punto», senza stravolgerne il senso, mi auguro che sull'altra questione che pongo formalmente all'attenzione del Parlamento possa esservi un contributo fattivo e concreto.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Fanfani. Ne ha facoltà.

GIUSEPPE FANFANI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, ho ascoltato con attenzione e, per quello che è possibile in


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questa sede e nei limiti delle diversità di posizione e di opinione, apprezzato la serenità nel dire del collega Vitali e del relatore, pur non potendo dimenticare che l'iter in Commissione è stato connotato da iniziative non provvide da parte di chi riteneva che questa fosse la sede per introdurre ancora una volta emendamenti che incidessero direttamente e pesantemente sulla legalità del sistema. Ho anche valutato l'esigenza prospettata di introdurre questo provvedimento all'interno di un quadro più generale e, così è stato prospettato, di cautela complessiva e di sicurezza dei cittadini.
Non posso tuttavia non rilevare che, qualora la delicatezza del tema sicurezza dovesse essere affrontata in termini produttivi, sarebbe assolutamente necessaria una riflessione più ampia di quanto non consenta il tema ristretto che qui oggi affrontiamo, limitato esclusivamente alla discussione sull'aumento necessario di pena in caso di recidiva specifica, ed avrebbe necessità di un approfondimento e di un dibattito certamente più ampio, che in altre sedi si sta svolgendo nell'ambito di questo ramo del Parlamento.
Si tratta di un provvedimento disorganico e lo si potrà certamente «offrire» alla discussione dell'Assemblea con tutti i buoni propositi che il proponente e i sostenitori di questo certamente hanno, ma non si può negare che sia un provvedimento limitativo e, ripeto, disorganico. Del resto, lo stesso discorso deve farsi anche per tutta una serie di provvedimenti che sono stati prospettati da questo Parlamento in tema di giustizia e che hanno concretamente vanificato l'esigenza, che quando si affrontano temi di questo tipo deve essere sempre tenuta, di una visione ampia ed in grado di affrontare le singole tematiche, tra le quali non possono non mettere quella di oggi in discussione in quest'aula, con una visione dell'intero problema che vada molto al di là delle contingenze che oggi vengono enunciate con questo provvedimento. Sono perplessità di ordine generale che non possiamo non enunciare. Le prime attengono al profilo costituzionale di questo provvedimento e sono relative al conflitto che esso comporta con il dettato dell'articolo 27 della nostra Costituzione, in particolare con quella parte di esso, il comma terzo, che enuncia ed eleva a livello costituzionale il principio secondo il quale la pena deve avere un carattere rieducativo, dovendo appunto tendere alla rieducazione, nell'accezione che di questo principio ha dato più volte la giurisprudenza costituzionale.
Essa ha ricondotto a questo enunciato, da un lato, l'esigenza che la pena non avesse carattere di rigidezza, ma fosse compresa tra un minimo e un massimo, di talché l'interprete avesse la possibilità, all'interno di quei limiti, di individuare la quantità che più corrisponda all'esigenza di specie e, dall'altro, l'esigenza di evitare che la rigidezza dell'enunciato normativo potesse corrispondere a sua volta ad una impossibilità del corretto esercizio della discrezionalità, che è rimessa sempre al magistrato nella valutazione delle singole fattispecie.
La Corte costituzionale si è più volte espressa sul punto ed io richiamo il signor relatore ad una riflessione su questo aspetto, perché la cosa peggiore che noi potremmo fare sarebbe quella di varare un provvedimento che creasse i presupposti di una conflittualità di ordine costituzionale. La Corte si è più volte espressa, laddove, proprio disquisendo sul problema che veniva posto da alcune norme che avevano in sé il carattere della anelasticità, quanto alla quantità della pena da infliggere, aveva riflettuto, riconducendo alla previsione normativa dell'articolo 27 della Costituzione il problema e dicendo sostanzialmente che la proporzionalità delle pene da infliggersi con la sentenza di condanna attiene essa stessa al rispetto del principio di emenda - così viene definito dai costituzionalisti - previsto nell'articolo 27 della Costituzione.
Essa ha inoltre ribadito che, in linea di principio, previsioni sanzionatorie rigide non appaiono in armonia con il volto costituzionale del sistema penale, perché il dubbio di sostanziale illegittimità costituzionale in funzione della rigidità della


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norma dovrebbe essere di volta in volta risolto in funzione della capacità che il giudice avrà di adattare questa norma alle fattispecie concrete, giungendo anche a dire che l'emenda che l'articolo 27 della Costituzione pone quale una delle finalità della pena, cioè il fine rieducativo, può ritenersi compromessa per la sola circostanza del carattere rigido impresso alla pena medesima dalla legge.
Questi stessi principi sono stati poi ribaditi ancora con una notissima sentenza, espressa in punto di patteggiamento nel 1990, con la quale la Corte aprì la strada all'introduzione del magistrato come terzo soggetto della definizione pattizia della pena. Si partiva infatti dal presupposto che proprio la impossibilità del magistrato di incidere direttamente sulla quantificazione della pena concordata precedentemente tra pubblico ministero e imputato ledesse il principio più generale che atteneva proprio all'articolo 27, e non a caso la Corte costituzionale ricondusse la necessità di estendere al terzo soggetto - il magistrato - la possibilità di partecipare a questa sorta di patto che atteneva alla determinazione della pena all'interno del riferimento normativo dell'articolo 27 della Costituzione, sostenendosi - ed è questo il dato principale - che la verifica della capacità della pena di assolvere la sua funzione emendativa ovvero rieducativa non atteneva solo alla fase esecutiva, ma allo stesso momento della quantificazione della pena nella fase cognitiva, di talché anche in quella sede doveva mantenersi il principio generale della discrezionalità nella quantificazione della pena da parte del magistrato, che era fondamentale perché si realizzasse appieno il dettato costituzionale.
Questa norma, onorevoli colleghi, signor relatore, non solo nella parte in cui irrigidisce il procedimento attraverso il quale automaticamente si devono applicare determinate norme, laddove sia sostituito al termine «può», previsto nel testo originario della norma, il termine «deve», previsto nell'attuale testo, ma anche laddove impone aumenti necessari in presenza di una particolare condizione soggettiva che si chiama recidiva, senza conferire al giudice la possibilità, come adesso, di valutare se quell'aumento di pena può essere compensato dal raffronto con altre attenuanti ovvero senza consentire al giudice di introdurre questo aumento di pena nel quadro complessivo di una quantificazione che, comunque, è sempre a lui rimessa, integra a tutti gli effetti una violazione sulla quale non insisterò particolarmente ma che propongo a quest'aula e al relatore come materia di riflessione, perché credo che su di essa l'Assemblea debba svolgere una riflessione più approfondita.
La seconda questione che intendo prospettare attiene alla compatibilità di questo provvedimento con altri provvedimenti all'esame di quest'Assemblea e postula una richiesta che rivolgo al signor relatore e alla maggioranza, vale a dire di sospendere l'esame di questo provvedimento per valutarlo complessivamente con altri due provvedimenti che attualmente sono all'esame della Commissione e che hanno identico oggetto, anzi, hanno un oggetto molto più ampio che tuttavia ricomprende in modo identico ciò di cui oggi si sta discutendo. Mi riferisco al provvedimento a firma Finocchiaro, Violante ed altri che reca l'epigrafe di modifica alla legge 24 novembre 1981, n. 689 e soprattutto 26 luglio 1975, n. 304, ordinamento penitenziario, quello stesso ordinamento penitenziario che si vuole modificare in termini più rigidi con il presente provvedimento. Si tratta di un provvedimento all'interno del quale sono ampiamente ricomprese tutte le problematiche che oggi si pongono con la proposta in esame (dalla sospensione condizionale della pena, alla detenzione domiciliare, all'affidamento in prova al servizio sociale, alle altre misure alternative), alle quali si fornisce una determinata soluzione.
Il secondo provvedimento è la proposta di legge (leggo la prima firma) Cento ed altri (in realtà, si tratta di molte proposte di legge già riunite: Butti, Cossutta, Pisapia ed altre), attraverso cui si vuole introdurre nel sistema penale una nuova disciplina di tutte le misure alternative alla detenzione;


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di ciò sono stato nominato relatore. Non ne faccio una questione di carattere personale, figuratevi; ne faccio una questione di organicità della legislazione e di organicità della proposta a questa aula.
Infatti, sarebbe veramente antipatico se, oggi, proponessimo una piccola modifica che attiene alla recidiva, che attiene alla valutazione delle attenuanti generiche o che attiene, comunque, all'aumento di pena (e che comporta altrettante piccole modifiche a cascata in tutto l'ordinamento penale sostanziale, soprattutto nell'ordinamento penitenziario) e se, domani, nell'affrontare questo problema in un quadro più ampio, dovessimo constatare che tutto ciò che abbiamo fatto è frutto di fretta che, come ognuno sa, produce spesso (mia nonna diceva i gattini ciechi) frutti acerbi.
Un'altra perplessità nasce dal fatto che il signor ministro ha messo in piedi la commissione Nordio, che sta affrontando tutti i problemi penali sostanziali. Vorrei conoscere su ciò il parere del signor ministro e del Governo, perché, oggi, non possiamo consentire di introdurre una modifica del codice penale, una piccola modifica, se volete, ma destinata ad incidere sostanzialmente nella complessità della sistematica della pena, quando potremmo avere di fronte una proposta governativa differente che potrebbe ridisegnare complessivamente, in termini diversi, questa stessa materia.
Allora, mi domando che fretta ci sia di affrontare questo problema e di portarlo all'esame dell'aula. Non voglio essere immotivatamente sospettoso né accedere a tutta quella serie di valutazioni ipotetiche però mi trovo di fronte a dei fatti che inducono qualsiasi persona di normale prudenza ad elevare a sospetto tutto quello che stiamo facendo, anche perché abbiamo visto troppi provvedimenti strumentalmente utilizzati in quest'aula.
Non è la prima volta che ci troviamo a discutere di provvedimenti che abbiamo ritenuto illegali, che la minoranza di quest'aula ha ritenuto viziati di illegalità ed inseriti all'interno di provvedimenti che, sotto il profilo formale, erano ineccepibili. Non mi si venga a dire che questo è un provvedimento sacrosanto: si può discutere nel merito ma, finché il problema rimane in questi termini, ognuno resta della sua idea ma con un rispetto reciproco infinito. Non voglio ripetere le strade del falso in bilancio, che era stato inserito come norma surrettizia all'interno della proposta Mirone, che rappresentava una revisione più ampia; non voglio ritrovarvi a discutere nuovamente nello stesso sistema delle rogatorie, norme che avevano inserito - tutti noi le ritenemmo discutibili anche sotto il profilo etico - all'interno della ratifica di un trattato tra l'Italia e la Svizzera; non voglio ripercorrere la stessa strada già percorsa con il cosiddetto lodo Schifani, che era stato introdotto, nell'attuazione dell'articolo 68 della Costituzione a prima firma Boato, con una specularità che lascia sconcertati.
Infatti, anche in quel caso era stato presentato un emendamento in Commissione, era stato ritirato perché la minoranza aveva alzato gli scudi ma, poi, era stato ripresentato in altra sede, anche se con forme diverse. Allora, ritengo che quel sospetto ci venga indotto dal fatto che in questo provvedimento l'emendamento Pepe è stato già presentato. Si dirà che oggi non è stato ripresentato, ma in una dichiarazione resa oggi alle agenzie l'onorevole Pepe ha detto che per ora gli è stato detto di non ripresentarlo ed insiste nel dire che quell'emendamento è sacrosanto e va presentato.
Sono disponibile ad affrontare la discussione del provvedimento in esame con lo stesso spirito con il quale ho iniziato, con lo spirito costruttivo che è stato introdotto dal signor relatore e che è stato enunciato dall'onorevole Vitali, però credo che per discutere serenamente la maggioranza debba impegnarsi formalmente a non introdurre all'interno del provvedimento elementi di distorsione quali troppe volte in quest'aula siamo stati abituati a vedere. Se ci fosse un impegno di questo tipo, la discussione potrebbe rappresentare posizioni diverse ma essere costruttiva perché su di essa potremmo confrontarci con quella serenità di spirito che ha sempre contraddistinto i nostri


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rapporti quando le valutazioni si sono attenute strettamente agli interessi complessivi. Tuttavia, non si potrà chiedere uno spirito di questo tipo se gli interessi che sottostarranno a questo provvedimento non saranno quelli della collettività.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Bonito. Ne ha facoltà.

FRANCESCO BONITO. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, egregi colleghi, sono sostanzialmente d'accordo con le argomentazioni svolte e sviluppate in modo così chiaro, netto e appassionato dal collega Fanfani.
Soltanto su un suo giudizio non mi sento di esprimere analoga adesione, e precisamente laddove il collega Fanfani ha definito la proposta di legge Cirielli una proposta di poca importanza, ancorché ricca di significato giuridico e politico. Io credo, viceversa, che la proposta Cirielli, per la cultura che la sottende, per la cultura giuridica che esprime, sia una proposta di legge assai grave che introdurrà, qualora venisse approvata, elementi gravi di distorsione del nostro diritto penale e modifiche negative e peggiorative della nostra disciplina penitenziaria.
Io sono convinto di una cosa, Presidente, colleghi, che in tempi di ordinaria amministrazione della giustizia, in tempi normali, l'atto Camera 2055, di cui ci stiamo occupando, mai avrebbe trovato approdo presso le aule del Parlamento italiano. Credo che gli ostacoli sarebbero stati enormi; penso che le opposizioni sarebbero state insormontabili. Certo, la proposta Cirielli sarebbe stata depositata presso le segreterie parlamentari come espressione di una bandiera, di una buona bandiera della destra, peraltro anche abbastanza datata e antica, giacché non ho difficoltà alcuna a riconoscere che la destra italiana del 2003 su questi temi qualche piccolo passo in avanti lo ha fatto di sicuro. Oggi, questa sera, nel dibattito generale, io ho ascoltato il Governo, che quella bandiera della destra ha imbracciato, impugnato senza colpo ferire, ma soprattutto ho ascoltato l'autorevolissimo capogruppo della Commissione giustizia del maggior partito presente in Parlamento esprimere giudizi sostanzialmente positivi su questa disciplina. Ciò, devo dire, mi sconcerta non poco. Invero, ho quella minima anzianità di servizio parlamentare che mi fa comprendere assai bene che quando la politica non raggiunge vette eccelse in genere si dice ciò che non si pensa e si pensa ciò che non si dice.

GIUSEPPE VALENTINO, Sottosegretario di Stato per la giustizia. Ma non l'onorevole Vitali!

FRANCESCO BONITO. Ciò nondimeno, a fronte della disciplina proposta dal collega Cirielli e da altri colleghi di Alleanza nazionale, ascoltando il rappresentante di Forza Italia che, a nome del maggior partito di Governo rappresentato in Parlamento, esprime il giudizio che l'onorevole Vitali ha espresso su quella disciplina, beh, io devo dire che c'è materia politica di riflessione profonda. Ma perché sostengo e dico che la proposta dell'ottimo collega Cirielli - collega che peraltro io stimo per il garbo, la buona educazione, il modo con il quale svolge il suo lavoro - , a mio avviso, null'altro è che una bandiera datata della destra e mai sarebbe approdata in Parlamento se non vi fossero ragioni peraltro soltanto accennate in questa sede?
Io credo che le camere penali del nostro paese - noi abbiamo, peraltro, una cospicua rappresentanza parlamentare di provenienza dalle camere penali come il presidente della Commissione giustizia, che è stato presidente delle camere penali, l'onorevole Ghedini, che ne è stato il segretario, e l'onorevole Gironda Veraldi, che è stato presidente delle camere penali pugliesi -, che sono sempre state molto attente rispetto a tutti gli interventi del nostro Parlamento, mai e poi mai avrebbero accettato e consentito un imbarbarimento del processo quale costituisce e determina la proposta Cirielli. Credo ancora che mai questo provvedimento sarebbe approdato in Assemblea perché, vivaddio, c'è uno stadio dell'evoluzione


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teorica, dottrinaria e giurisprudenziale del diritto penale che è tutta contrastante con la cultura e i principi che sorreggono la proposta al nostro esame. C'è un grado forte di maturità culturale della nostra democrazia e della nostra scienza giuridica che, in qualche modo e in qualche misura, vengono, potrei dire, offese da alcune discipline particolari di cui, di qui a poco, ci occuperemo. Poi c'è, come bene ha detto il collega Fanfani, la nostra Costituzione, baluardo di democrazia, argine di alta cultura sociale, solidale e giuridica.
Ma perché esprimo un giudizio così negativo sulla proposta Cirielli? Le regole della dialettica in questo momento mi impongono di passare dalla conclusione alla motivazione ed é, quindi, il momento di ricordare, ancorché sinteticamente, in che cosa consiste la proposta Cirielli. Tale proposta, in primo luogo, parte dalla recidiva reiterata che, giova ricordarlo, è l'istituto giuridico con il quale si qualifica la persona che ha commesso un reato nel momento in cui ne compie un altro; faccio un esempio: io ho ingiuriato il mio vicino di casa e, per questo, su querela, sono stato condannato; se un anno dopo torno ad ingiuriare il mio vicino di casa, secondo le formule codicistiche, io sono un imputato recidivo, peraltro in una situazione di ulteriore maggiore gravità perché sono un recidivo infraquinquennale che ha commesso un reato di analoga natura: ho ingiuriato due volte. Ebbene, per persone ed ipotese siffatte - è chiaro che il modulo e lo schema lo posso applicare all'omicidio, al furto, alla rapina, ma qui non v'è distinzione alcuna -, il testo della proposta di legge Cirielli ed altri prevede che non si possa applicare l'istituto delle attenuanti generiche: il giudice deve condannare alla pena che ritiene di giustizia ma non può introdurre, come elemento di determinazione della pena, le attenuanti generiche le quali sono un istituto introdotto nel nostro ordinamento nel 1944 (la data e l'anno non sono casuali) giacché allora si pensò che fosse necessario dare al nostro ordinamento penale la possibilità di esprimersi in termini di maggiore umanità rispetto ai modi e ai termini attraverso i quali lo stesso ordinamento penale si era espresso all'epoca del fascismo e della dittatura che resse il governo del paese nel famoso ventennio.
Ebbene, questo è un ritorno alle origini - mi rivolgo con molta simpatia all'amico e collega Cirielli -; infatti, si tende a limitare l'introduzione nell'ordinamento, testé ricordata, delle norme sulle attenuanti generiche, introduzione che fu salutata dalla dottrina, dalla pratica e dagli operatori con grande, vivo e convinto entusiasmo.
È - ribadisco - un modo di tornare alle origini.
Sempre per i recidivi reiterati - questi «fior di mascalzoni»! - è, altresì, previsto che il giudice, nell'emanare una sentenza con giudizio di colpevolezza, non possa più come oggi usare della discrezionalità, ossia apprezzare gli elementi aggravanti e attenuanti, così adottando un giudizio, ad esempio, di prevalenza delle attenuanti generiche sulle aggravanti o ritenendo, viceversa, sussistenti le aggravanti senza premiare, invece, le eventuali attenuanti. Quando si tratti di recidivi reiterati - chi, in ipotesi, abbia ingiuriato più volte -, ebbene, in tali casi, la pena deve essere determinata senza giudizio di prevalenza e soltanto tenendo conto dell'aumento cospicuo di pena previsto dall'ordinamento per i recidivi. Aumento ulteriormente aggravato rispetto all'attuale disciplina; difatti, il terzo elemento caratterizzante, strutturale della proposta è quello, appunto, di aggravare sul piano sanzionatorio il regime della recidiva. Oggi, come è noto, sono previsti aumenti di pena rimessi alla determinazione ed alla discrezionalità del giudice: fino ad un terzo, a due terzi, ad un sesto. La proposta prevede, viceversa, un'applicazione secca: se sussista recidiva, il magistrato non ha potere discrezionale: l'aumento deve essere «secco», quello previsto dalla legge. Non «fino a»; non «da un giorno fino ad un sesto»: l'aumento deve essere e rimanere quello tassativamente stabilito.
Vi è poi un forte ridimensionamento della cosiddetta legge Gozzini, per quasi


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unanime riconoscimento una grande legge che ha molto bene funzionato; ebbene, sempre per i recidivi reiterati, sono previsti maggiori requisiti per l'applicazione dell'affidamento in prova, della detenzione domiciliare, della semilibertà, della liberazione anticipata. E dell'applicazione di tali istituti si può godere soltanto una volta.
Vi è poi la disciplina sugli stupefacenti; materia, questa, nella quale la recidiva, non dico che sia un classico, costituisce un elemento strutturale. È assai difficile trovare violazioni della legge sugli stupefacenti che non vengano reiterate da parte della stessa persona. In tal caso, sussiste un atteggiamento culturale, un modo di porsi di fronte a questo gravissimo fenomeno; ebbene, in tale caso - quanto alla sospensione dell'esecuzione della pena per il detenuto che sia detenuto, appunto, per violazione della disciplina sugli stupefacenti -, sono previste delle restrizioni. Per l'affidamento in prova, i requisiti sono aggravati; inoltre, anche in tale caso, l'istituto può essere applicato soltanto una volta.
Anche circa le modifiche apportate alla cosiddetta legge Simeone, si ripercorre lo stesso schema propositivo: requisiti maggiori e restringimento delle ipotesi in cui è possibile avvalersi della disciplina di favore.
Dunque, ciò posto, credo che le premesse dalle quali avevo preso le mosse nel mio intervento, trovino in tale ambito una loro palese conferma in quanto la cultura che sottende queste scelte è la seguente. Abbiamo, in primo luogo, un forte restringimento della discrezionalità del magistrato nel momento in cui valuta il caso concreto e individua quale sia la pena giusta da applicare ad esso. È noto a tutti - ed è ancor più noto agli operatori del diritto - che il diritto penale, da 200 anni, percorre in modo evolutivo la strada della individualizzazione della pena. Vale a dire, la strada tesa ad ottenere, per il caso concreto, il maggior grado di equità e di giustizia.
Pietro Nuvolone, un maestro di tutti noi, o almeno di quanti sono operatori del diritto, scrive nel volume 32 dell'enciclopedia del diritto: nel diritto penale moderno degli Stati civili e, per quanto ci riguarda, sulla base dell'articolo 25 della Costituzione, l'applicazione della pena è vincolata al principio di legalità. L'esigenza dell'individualizzazione della sanzione penale in fase giudiziaria fa sì che un ampio spazio venga dato alla discrezionalità giurisdizionale.
Anche il professor Messina, un altro grande maestro del diritto penale del secolo scorso, scrive: la discrezionalità sorge da una varietà infinita di possibili situazioni che meritano specifico apprezzamento, onde si deve lasciare all'organo giurisdizionale il compito di determinare nel caso concreto il pensiero del diritto.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, la discrezionalità del giudice è espressione di un sistema democratico. Nei regimi dittatoriali, in quelli cioè dove la libertà è compressa, il sistema penale conosce una regola ferrea, che si ripete nei regimi di destra come in quelli di sinistra. È lo Stato etico che prevale e nello Stato etico è il legislatore che, in astratto, dice ciò che è bene e ciò che è male; e, dicendolo in astratto, configura in astratto la pena che deve essere applicata, al di là di qualsivoglia discrezionalità. Il giudice diventa un funzionario, un burocrate ed è lo Stato che decide anche la pena, la sanzione. Questa è una regola che ci viene dalla storia dei popoli, dalla storia del diritto e dalla storia del diritto penale. E questo è ciò che noi non vogliamo, perché la cultura che sottende le proposte contenute nel provvedimento Cirielli vanno esattamente in questa direzione: limitare il principio della individualizzazione della pena, limitare la discrezionalità del giudice nella valutazione della gravità o meno del comportamento sottoposto al suo giudizio, introdurre elementi di eticità dello Stato, in ragione dei quali, se recidiva vi è, essa vi deve essere sempre e deve essere applicata nel massimo della pena consentita, senza che il giudice possa dire se quel fatto meriti o meno la supposta severità.
Oggi il collega Vitali per il gruppo di Forza Italia ci ha detto che ciò sarebbe utile e necessario ai fini delle politiche


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securitarie che il centrodestra e la maggioranza di governo fortemente perseguono. Signor Presidente, questo argomentare rende chiaro il motivo per cui ormai nelle vecchie democrazie europee sui temi della sicurezza il convincimento della gente abbia subito profonde trasformazioni. Oggi, in Francia ed in Inghilterra, se si domanda al cittadino comune a chi dia più fiducia in tema di politiche securitarie (questo è ormai provato), si risponde: «ai Governi di centrosinistra». Ed io credo che la stessa risposta verrebbe oggi data anche in Italia, dal cittadino elettore del nostro paese. Infatti, connettere la sicurezza con l'istituto della recidiva reiterata e con una disciplina fortemente repressiva e, comunque, assai severa della codicistica in tema di determinazione della pena significa evidentemente essere rimasti indietro sui temi securitari di almeno mezzo secolo. Oggi, neppure la destra storica italiana afferma più cose di questo genere. Voi affermate, perché ne avete la necessità, argomenti siffatti. Tuttavia, tu - mi rivolgo amichevolmente a Luigi Vitali, attesa l'antica amicizia - certamente sai che nella tua città un ragazzo ogni cinque, tra i 14 e i 18 anni, ha commesso, almeno una volta, un reato contro il patrimonio.
Allora, preoccupiamoci di più degli insegnanti di sostegno ai quali il Governo ha sottratto risorse, preoccupiamoci di più degli interventi preventivi. Stiamo attenti allo smantellamento del tribunale dei minorenni se veramente vogliamo articolare sicure e certe politiche securitarie. Non è certamente con proposte come questa che possiamo andare incontro e risolvere problematiche di tale importanza.
Signor Presidente - e mi avvio alla conclusione - vi è una ragione in forza della quale stiamo svolgendo questa discussione sulle linee generali. Dobbiamo ricercarla nell'invito rivolto dal rappresentante di Forza Italia ad una, per lui, più serena e pacata discussione sul «se» il Parlamento non debba introdurre elementi di benevolenza verso coloro che non hanno mai commesso reati, cioè gli incensurati. Dunque, in una proposta di imbarbarimento del processo, nell'ambito di una logica della repressione, spunta all'improvviso un giglio bianco. Lì dobbiamo essere cattivi, però non dobbiamo essere sempre cattivi, qualche volta dobbiamo anche essere buoni. Ci si chiede perché non prevedere forme incentivanti di recupero per chi non ha mai sbagliato, per l'incensurato.
Dico subito al collega Vitali che questa nuova veste data all'emendamento «salva Previti» non ci convince, siamo nettamente contrari e la ostacoleremo con tutte le nostre forze. Troviamo che questo ennesimo tentativo di strumentalizzazione del nostro Parlamento e della legge sia una cosa indecorosa! Francamente, mi stupisco, e non lo farò mai abbastanza, di come metà del Parlamento debba essere tenuta in scacco da una sola persona.
Sul piano della valutazione di merito, non ci sarebbe nulla di più inutile di una proposta che rendesse vincolante per il giudice l'applicazione delle attenuanti generiche in presenza di imputato incensurato. Ciò per la semplice ragione che nel momento in cui il magistrato giudicante deve infliggere la sanzione per un determinato comportamento, se necessariamente deve applicare all'imputato incensurato la riduzione di un terzo della pena, determina la pena stessa in misura tale da ottenere, al netto della riduzione, la pena che ha in mente. Cionondimeno, tale ragionamento, che è di un'ovvietà lampante, credo sia stato colto immediatamente dal presidente Pecorella, dall'onorevole avvocato Ghedini, dall'onorevole Luigi Vitali e da tutti i giuristi che numerosi fanno parte, in questo Parlamento, del centrodestra.
Dunque, vi è una sola ragione per cui si rischia una crisi politica al solo fine di introdurre a tutti i costi l'emendamento «salva Previti». Tale emendamento non serve, come ho detto, per determinare la pena, ma ha un altro grande e straordinario pregio: quello di far scattare le prescrizioni per tutti quei reati che si trovino al limite, come massimo edittale, tra un regime di prescrizione di una certa durata ed un regime di prescrizione di durata inferiore.


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Questo emendamento serve semplicemente ed esclusivamente per far scattare la prescrizione. Ed allora, al di là dell'abile argomentare del collega Vitali, noi svilupperemo su questo piano una battaglia parlamentare senza quartiere, sia in Parlamento sia fuori del Parlamento, e denunceremo l'ennesima strumentalizzazione. Ci auguriamo fortemente, per il decoro e la dignità dell'aula in cui quotidianamente lavoriamo, che le attuali difficoltà della maggioranza siano tali e permangano tali da impedire questo nuovo scontro fra il centrodestra e il centrosinistra, fra il bene e il male, perché quando si parla di un emendamento «salva Previti» da una parte sta il bene, dall'altra sta il male. È un mio modo molto semplice, se volete anche antiquato, di ragionare; di esso sono ampiamente convinto e con esso ho alimentato la mia vita professionale ed oggi alimento quella politica.

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

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