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PRESIDENTE. Grazie, onorevole Presidente.
Dichiaro aperta la discussione sulle comunicazioni del Governo.
Onorevoli colleghi, sapete come è organizzato il dibattito odierno. Adesso interverranno i deputati iscritti a parlare nella discussione in ordine crescente e, successivamente, coloro che svolgeranno le dichiarazioni di voto. Vorrei dire ai gruppi ciò che ho messo per iscritto nella giornata di ieri: non tollererò un uso dei tempi oltre quello stabilito e, pertanto, mi dispiace se interromperò, allo scadere dei dieci minuti senza tolleranza, gli oratori. Lo dico fin da adesso, non faccio torto ad alcuno e spero...
PIERO RUZZANTE. Il Governo ha parlato più del tempo.
PRESIDENTE. Il Governo è intervenuto esattamente entro il termine di 30 minuti che gli era stato assegnato. Oltretutto, scusatemi, onorevoli colleghi, devo dire che, nell'illustrazione della posizione del Governo in Parlamento, qualche difficoltà vi è stata...
MAURA COSSUTTA. Era complicato!
PRESIDENTE. ...perché il Presidente del Consiglio è stato interrotto almeno una decina di volte.
È iscritto a parlare l'onorevole Collè che ha a disposizione cinque minuti di tempo. Ne ha facoltà.
IVO COLLÈ. Signor Presidente, onorevoli colleghi, a nome mio, dei colleghi delle minoranze linguistiche e delle comunità che rappresentiamo, esprimo tutta l'amarezza e la preoccupazione per il precipitare della crisi irachena.
PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, chi esce dall'aula lo faccia in silenzio, a passi felpati. Prego onorevole Collè.
IVO COLLÈ. In sole quattro settimane, è arrivata la decisione di questa guerra ormai inevitabile, decisione unilaterale degli Stati Uniti, al di fuori ed al di sopra delle istituzioni internazionali, delle Nazioni Unite, dell'Unione europea e dell'Alleanza Atlantica.
Un mese fa, il vertice straordinario dei Capi di Stato e di Governo dell'Unione poneva come condizione per la risoluzione della crisi irachena la centralità del ruolo delle Nazioni Unite quale centro dell'ordine internazionale. Definiva la guerra non inevitabile e l'eventuale ricorso all'uso della forza solo come ultima risorsa.
Forse, nonostante il tempo trascorso ed il lavoro di tutte le diplomazie fino a quella vaticana, questa decisione era già presa e non vi era alcuna volontà di rimetterla in discussione.
Non si sono perseguite con la necessaria determinazione le alternative all'uso della forza quali, ad esempio, l'esilio del dittatore iracheno. Tutti da sempre concordano sulla necessità di disarmare Saddam Hussein: le divisioni nascono su come disarmare Saddam Hussein.
Oggi gli Stati Uniti d'America, unilateralmente, hanno adottato questa decisione. Il problema è capire quali siano per il nostro paese gli obblighi derivanti dalla partecipazione alle istituzioni internazionali ed ai trattati bilaterali. Prima di tutto, credo non si possa non condannare l'atteggiamento ed il comportamento degli Stati Uniti d'America. È veramente inevitabile oggi la guerra? È solo un problema di sicurezza o vi sono altri aspetti legati al petrolio ed al Medio Oriente? È positivo andare avanti ad ogni costo di fronte a profonde divisioni nel contesto delle Nazione Unite, così come in Europa?
Il rischio immediato di atti di terrorismo o l'utilizzo di armi di distruzione di massa è veramente così elevato? Purtroppo non c'è più tempo per dare risposte a questi interrogativi. La decisione è presa!
Credo che il Parlamento debba ribadire un «no» forte ed incondizionato alla partecipazione diretta dell'Italia a questa azione militare. Non esiste alcun presupposto.
È difficile valutare la concessione delle basi e dello spazio aereo. I trattati internazionali sono stati scritti cinquant'anni fa. Ciò comporta qualche difficoltà di interpretazione di fronte alla situazione attuale. Ovviamente, in quel contesto storico i riferimenti erano all'attacco armato e si parlava di guerra difensiva. Bisogna determinare quale sia il confine della definizione di guerra difensiva di fronte ai rischi connessi agli atti di terrorismo o all'utilizzo di armi di distruzione di massa.
IVO COLLÈ. Oggi queste valutazioni, già estremamente delicate, sono rese ancor più difficile dal fatto che si affrontano in un contesto di forte divisione e spaccature. Partendo dalla unilateralità della decisione al di fuori delle istituzioni internazionali, riteniamo non possa in queste condizioni essere concesso l'uso delle basi dello spazio aereo.
Non vogliamo che questa posizione venga letta come un sostegno o come una difesa del regime di Saddam Hussein, ma chiediamo che si persegua ancora oggi la possibilità, sia pure esigua, di rinviare questo attacco per giungere a conclusioni condivise in ambito internazionale (Applausi dei deputati del gruppo Misto-Minoranze linguistiche).
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Moroni. Ne ha facoltà.
CHIARA MORONI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, in queste ore tutti noi siamo di fronte ad una scelta difficile, sofferta ed impegnativa che, senza retorica, sappiamo essere destinata ad avere profonde ripercussioni nella vita del nostro paese e dell'intera comunità internazionale.
Il dibattito di oggi ed il confronto serrato cui stiamo partecipando non possono non andare oltre le tradizionali divisioni di parte e le logiche di schieramento, che non possono vincolare la responsabilità che abbiamo di fronte a noi stessi e all'intero paese e forse mai come oggi è necessaria una responsabilizzazione collettiva che ci aiuti a superare divisioni che di fronte alla situazione attuale non hanno motivo di esistere.
Per questo, come da più parti è stato ed è richiamato, ritengo che sarebbe auspicabile un approccio bipartisan, come del resto avvenne in occasione dell'intervento in Kosovo. Gli sviluppi che abbiamo di fronte rappresentano una fase delicatissima nel riassetto degli equilibri internazionali e nei rapporti fra gli Stati; l'intero scenario geopolitico mondiale è in discussione.
In questo quadro si inserisce lo sviluppo ed il prossimo futuro della nascente Europa, un soggetto in via di formazione che è destinato a divenire un importante realtà politica che dovrà essere in grado di acquisire la necessaria autorevolezza nei rapporti internazionali. Per questa ragione, dovrà assumere una sempre crescente capacità decisionale, in grado di riassumere le differenze tra i suoi vari componenti. In questo senso, il nostro paese ha il dovere di assumere un ruolo determinato e consapevole.
Lo sviluppo di un'Europa capace di parlare con una sola voce non è in contraddizione, anzi, non può prescindere, da un saldo rapporto con gli Stati Uniti d'America. Questa è una realtà che è fondamentale non dimenticare. Riconoscere questo dato di fatto non implica nessun tipo di sudditanza né tanto meno svilisce il ruolo della comunità internazionale. Al contrario, tale consapevolezza non può che responsabilizzare il nostro paese a rilanciare nello scacchiere internazionale un ruolo autorevole degli organismi sovranazionali, a partire dall'ONU, il cui indebolimento è da rintracciare in una prevalente quanto tradizionale visione nazionalistica di soggetti che dovrebbero invece cominciare a reimpostare i propri rapporti su una visione di carattere globale e solidale.
In questo quadro, non possono essere dimenticati né tanto meno sottovalutati cinquant'anni di coerente politica atlantica del nostro paese che, di per se stessa, quando giustamente interpretata, non ha mai comportato alcuno svilimento della nostra sovranità e della nostra dignità nazionale. Né oggi si può concedere ad alcuno di identificare nella scelta atlantica del nostro paese alcuna volontà e propensione bellicistica: sarebbe una strumentalizzazione ideologica, figlia di vecchie logiche superate dalla storia. In questo senso, credo vadano ricordate le parole di Clinton, che ha rimarcato come solo un'unica e credibile minaccia di guerra portata a Saddam, contemporaneamente, da tutta la comunità internazionale avrebbe potuto indurre il dittatore iracheno a rivedere i suoi piani.
In questa ottica, sarebbe altrettanto opportuno riflettere sulle parole del Primo ministro britannico, il laburista Tony Blair, che ha ricordato a tutti noi che oggi è in discussione molto più del disarmo di Saddam Hussein: oggi si sta determinando il modo in cui il mondo si confronterà nei prossimi anni con la minaccia terroristica, la grande minaccia del XXI secolo. È in gioco lo sviluppo e il futuro delle Nazioni Unite, è in discussione il rapporto tra Europa e Stati Uniti, sono in discussione le future relazioni in seno all'Unione europea.
È dunque l'intera architettura dei futuri rapporti internazionali del mondo che verrà ad essere messa in discussione, non possiamo e non dobbiamo dimenticarlo. In tutti noi continua a prevalere l'idea di continuare a coltivare un'immagine di rapporti internazionali improntata sul negoziato, sui valori del diritto inviolabile, sulla giustizia, l'equità ed il rispetto. Questo sentimento accomuna tutta la comunità internazionale.
Oggi però ci troviamo, nostro malgrado, in una situazione in cui, nonostante i reiterati appelli, le pressioni per un disarmo pacifico non hanno avuto esito.
Siamo dunque di fronte alla necessità di una scelta, per la quale non è comunque sostenibile una posizione di equidistanza tra gli Stati Uniti e Saddam Hussein: non può esserci in alcun modo equidistanza tra democrazia e dittatura.
L'auspicio è che il nostro paese possa spingere l'Europa nel perseguimento di un'azione comune, capace di costruire a livello multipolare le condizioni di un adeguato funzionamento delle entità sovranazionali, sempre e comunque nel rispetto delle diversità e delle molteplicità, ma capace di un'azione sempre più efficace e coordinata. Il nostro paese può e deve impegnarsi con coerenza per recuperare e superare il grave strappo che si sta consumando nell'architettura multilaterale costruita in questi anni.
Pesa dunque oggi, su questo Parlamento, una grave responsabilità. La scelta è indubbiamente sofferta, difficile e certamente siamo tutti consapevoli che è destinata ad avere conseguenze sulla nostra vita e su quella delle prossime generazioni. Superando divisioni di parte e sterili contrapposizioni, questo Parlamento è chiamato ad assumersi una grave responsabilità e potrà farlo se saprà saldare, in un momento così difficile, il senso di appartenenza alla propria comunità e se sapremo valorizzare il nostro attaccamento alla libertà, ricordando che non esiste e non può esistere pace senza libertà. Per tutte queste ragioni, non mancherà oggi, in questo momento delicato, il sostegno dei socialisti alle posizioni espresse dal Governo (Applausi dei deputati del gruppo Misto-Liberal-democratici, Repubblicani, Nuovo PSI e di deputati del gruppo della Lega nord Padania).
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Mazzuca Poggiolini. Ne ha facoltà.
CARLA MAZZUCA POGGIOLINI. Signor Presidente, ho ascoltato con attenzione le parole pronunciate dal Presidente del Consiglio e condivido con lui la speranza, sottile, molto tenue, che ancora oggi, a poche ore, si possa addivenire ad una soluzione pacifica della profondissima crisi che vede impegnato, in questo momento, tutto il mondo.
Ho pensato, insieme a tanti altri, che il pressing americano rispondesse al seguente detto latino di alcune migliaia di anni fa: si vis pacem para bellum, ossia se tu vuoi la pace digrigna i denti, fai vedere quanto sei pronto a fare la guerra.
Credo che tutto ciò che è accaduto e che sta accadendo abbia ancora, nonostante tutto, questo obiettivo. Tuttavia, il redde rationem - la resa dei conti con Saddam Hussein -, di fatto, è già cominciato. È cominciato forse tardi, troppo tardi, rispetto alla scadenza delle 16 risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell'ONU e anche rispetto all'immenso dolore che ha visto, non solo gli Stati Uniti, ma anche tutto il mondo occidentale - direi il mondo intero - soffrire per l'attentato cruento, proditorio, vigliacco nei confronti delle due torri e delle tremila persone che sono morte in quella circostanza.
Dobbiamo, quindi, constatare con realismo che questo pressing non è servito, fino ad ora, a smuovere il dittatore iracheno dal suo nefasto potere sanguinario, così come non sono servite fino ad oggi le pressioni della Lega araba e neanche quelle di Pannella e dei trecento parlamentari - tra cui io stessa, tra i primi - per indurlo all'esilio. Non sono servite le perplessità degli alleati, di tanti alleati, e dell'ONU a indurre gli Stati Uniti d'America a procrastinare ulteriormente l'inizio dell'attacco militare; un attacco militare unilaterale - se così sarà in queste prossime ore - che ha rinunciato a quest'ulteriore risoluzione che forse, Presidente Berlusconi, sarebbe stata inutile e contraddittoria e che avrebbe impoverito le risoluzioni precedenti che già contengono tutta, e tutta intera, la condanna, da parte della comunità internazionale, rispetto ai delitti compiuti dal dittatore sanguinario di Bagdad. Però, forse sarebbe stata utile a definire un tempo nel quale la diplomazia avrebbe potuto ancora esplicare il suo mandato.
Questa decisione, dunque, vede contrari larghissimi strati dell'opinione pubblica
negli Stati Uniti e nell'Inghilterra (la cui maggioranza, da poco, ha votato il sostegno al Primo ministro Blair), tanti paesi d'Europa e del mondo, la nostra opposizione, il Papa, naturalmente, e noi dell'UDEUR.
Oggi, dovremmo votare l'impegno dell'Italia per la messa a disposizione del proprio spazio aereo e delle proprie basi a favore degli alleati impegnati in quest'azione; un'azione che se non si può definire strettamente di polizia internazionale nasce, in ogni caso, in stretto rapporto con le violenze, con gli assassini, con il sangue ed i crimini compiuti dal rais di Bagdad. Ma è anche un'azione di guerra, giacché vuole abbattere un regime - pessimo, ma in ogni caso un regime - tramite un'azione militare. Quindi, l'impegno di fornire sorvolo e basi militari, che, di fatto, il Governo italiano ha già indebitamente assicurato (questo è stato un vulnus per questo Parlamento), crea forti perplessità nell'opposizione tutta, ma sono sicura anche in taluni settori della maggioranza, alcuni settori che, capeggiati dal senatore a vita Francesco Cossiga, eccepiscono la contrarietà costituzionale alla guerra, estesa finanche alle disponibilità delle nostre basi, così come dice o comunque come così come viene interpretato l'articolo 11 della nostra Costituzione.
D'altra parte - ed io non posso non prenderne atto - esistono vincoli forti, radici profonde con gli Stati Uniti e vincoli di alleanza che, da un certo punto di vista, vivono e possono vivere anche di vita propria. Essi permangono probabilmente anche a prescindere dalla copertura che l'ONU può assicurare o meno ad azioni di questo genere (è una mia posizione personale; me lo chiedo ed è un mio dubbio profondo). Sappiamo com'è costituita l'ONU, sappiamo della maggioranza di paesi non democratici che esistono nel massimo consesso delle Nazioni Unite e stiamo parlando da un tempo immemorabile di una riforma del Consiglio di Sicurezza.
Dobbiamo, quindi, chiederci quale valore abbia la democrazia e se tale valore della democrazia valga sempre e comunque o se, per esempio, i regimi democratici all'interno dell'ONU abbiano un valore minore, inferiore rispetto ai regime dittatoriali e, comunque, non democratici.
Chiedo se si imponga - e, personalmente, sono convinta di sì - un dovere di lealtà nei confronti dello storico alleato americano che, tuttavia, ha sbagliato nel procedere unilateralmente in quest'azione e ad accontentarsi dell'appoggio solo di una parte di quell'Unione europea che con grande fatica stiamo cercando di costruire e che ha subito un vulnus dalla spaccatura in atto.
Credo che tutti, tutti qui dentro, siamo per la pace. Sono anche convinta, però, che sia opportuna la specificazione, che ha fatto il Presidente del Consiglio e che è nella nostra risoluzione, secondo la quale l'uso delle basi militari sul nostro territorio ed il sorvolo del nostro spazio aereo da parte degli aerei americani possono essere consentiti, purché non si tratti di attacchi che partano, appunto, dalle nostre basi (Applausi dei deputati del gruppo Misto-UDEUR-Popolari per l'Europa).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Cento. Ne ha facoltà.
PIER PAOLO CENTO. Signor Presidente, credo che siamo di fronte ad un fatto grave e per ciò che accadrà tra poche ore in Iraq e per il modo in cui il Presidente del Consiglio si è rapportato al Parlamento italiano ed alla Costituzione in questa drammatica vicenda.
Voglio dirlo con chiarezza: ci troviamo di fronte ad una guerra illegale, illegittima dal punto di vista costituzionale in quanto in palese violazione dell'articolo 11 della Costituzione. Nonostante i tentativi del Presidente del Consiglio Berlusconi di offuscare questo dato di fatto oggettivo, l'Italia si trova coinvolta in una guerra che non ha precedenti, conseguenza della dottrina dell'Amministrazione Bush sulla guerra preventiva, fuori da qualsiasi autorizzazione dell'ONU, fuori da qualsiasi decisione assunta in sede di Unione europea, fuori anche dagli ambiti dell'alleanza NATO qui impropriamente richiamati.
PIER PAOLO CENTO. Non vi è distinzione - non è possibile farla né dal punto di vista del diritto internazionale né da quello della prassi - tra la partecipazione ed il sostegno diretti (con uomini e mezzi nel campo operativo di battaglia) e la partecipazione ed il sostegno indiretti (attraverso strutture o infrastrutture militari e civili situati nel nostro territorio).
I rifornimenti effettuati utilizzando le basi militari terrestri in territorio italiano ed il sorvolo del nostro spazio aereo da parte degli aerei che andranno in Iraq sono propedeutici, a tutti gli effetti, dal punto di vista della strategia militare e da quello giuridico, all'aggressione armata nei confronti di quel paese.
L'illegittimità di questa guerra sta nel fatto che, nella nostra Costituzione, tale tipo di guerra non è previsto: l'Italia ripudia la guerra; l'Italia può intraprendere, come hanno stabilito i costituenti, anche azioni armate, purché a difesa del proprio territorio o di nazioni, di cui è alleata, che subiscano un'aggressione militare esterna.
Tutto questo non è avvenuto, né può valere come richiamo giuridico e sostanziale l'attentato terroristico gravissimo dell'11 settembre alle due torri negli Stati Uniti.
Noi Verdi siamo convinti che l'opinione pubblica internazionale, che la straordinaria mobilitazione che in Italia e non solo è diventata l'altro protagonista, qualcuno ha detto l'altra potenza globale mondiale, contro questa guerra, può e deve continuare a giocare anche in queste ore, anche nei prossimi giorni, un ruolo decisivo e fondamentale.
Insieme alla crisi delle Nazioni Unite, non sfugge a nessuno che uno degli obiettivi degli Stati Uniti e di questa guerra, oltre al petrolio, oltre al controllo geopolitico di quella parte del pianeta, è quello di mettere in crisi l'Europa, di mettere in crisi i processi di crescita politica, economica e sociale dell'Europa - e, chissà, magari in prospettiva, anche della Cina - per ridefinire un nuovo ordine mondiale e un nuovo equilibrio mondiale. Ma sono convinto che quello straordinario movimento, di cui parlavo prima, può e deve svolgere ancora un ruolo importante. Innanzitutto, oggi, pur nella drammaticità dell'evento, si verifica un fatto positivo che politicamente ha una rilevanza: l'Ulivo e Rifondazione comunista si presentano a questo dibattito parlamentare con una risoluzione unitaria. Questo è importante non solo per la dialettica parlamentare, non solo per le prospettive che questo documento può aprire, ma anche perché, all'interno del Parlamento, si offre una sponda politica importante ai movimenti che stanno attraversando il nostro paese, in collegamento con i movimenti europei e con i movimenti globali.
Oggi, c'è chi espone la bandiera della pace fuori dalla propria finestra, c'è chi sta preparando lo sciopero generale; le organizzazioni sindacali - altro dato importante -, CGIL, CISL e UIL, ritrovando un terreno unitario, insieme alle organizzazioni sindacali di base, le RDB e i Cobas, hanno detto che fermeranno il lavoro quando - malauguratamente, purtroppo però ormai quasi certamente - verrà sganciata la prima bomba nei confronti dell'Iraq.
Vi è il blocco del paese, vi sono le azioni di disobbedienza civile, sociale, pacifica, ma radicale nel dire che ci si può opporre a questa guerra, nonostante il Governo Berlusconi e la sua palese violazione della Costituzione. Siamo di fronte ad uno scenario che ci deve vedere protagonisti e deve vedere il Parlamento garante della capacità di azione democratica del nostro paese, di tutti coloro che, nelle prossime ore, con ancora maggior forza, interverranno per manifestare la propria posizione e la propria contrarietà a questa guerra.
Vi è un punto sul quale il Presidente del Consiglio Berlusconi ha sorvolato nella sua esposizione, e lo ha fatto perché sa che è il vero buco nero della democrazia in questo paese. Si tratta del rapporto che intercorre, proprio nella concessione delle
basi militari, proprio nella concessione dello spazio aereo, proprio nella concessione delle infrastrutture, tra Italia e Stati Uniti. Come è possibile che, caduto il muro di Berlino, disciolto il patto di Varsavia, ancora oggi l'accordo del 1954 che regolamenta l'utilizzo delle basi americane (Camp Darby, ma non solo) - che sono cosa diversa dalle basi NATO nel nostro territorio -, continui ad essere un documento secretato dal Governo, non portato a conoscenza del Parlamento e quindi dell'opinione pubblica del paese?
PRESIDENTE. Onorevole Cento, la invito a concludere.
PIER PAOLO CENTO. Io credo - e concludo, Presidente - che proprio su questo punto noi non possiamo né tacere né sottovalutare la gravità della situazione in cui ci troviamo. Noi Verdi faremo di questo aspetto specifico un elemento centrale della nostra battaglia contro la guerra, che consideriamo incostituzionale e illegittima (Applausi dei deputati dei gruppi Misto-Verdi-l'Ulivo e di Rifondazione comunista).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Intini. Ne ha facoltà.
UGO INTINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, eliminare le armi irachene di distruzione di massa non è il solo obiettivo degli Stati Uniti e forse neppure l'obiettivo principale; a questo non crede ormai più nessuno. Il presidente dell'Internazionale socialista, Guterres, ha spiegato bene ciò che è in gioco in questo momento: le scelte tra due diverse visioni del mondo, un mondo unilaterale guidato dagli Stati Uniti, oppure, un mondo multipolare.
Bush, oggi, attacca Saddam ma, nel contempo, colpisce tre istituzioni che il Capo dello Stato italiano continuamente ci esorta a tutelare: le Nazioni Unite, l'Unione europea, l'Alleanza Atlantica. Non è una scelta sofferta la sua e non è del tutto casuale perché sta maturando, negli Stati Uniti, un nuovo pensiero strategico con il quale dobbiamo fare i conti. Questo pensiero strategico vede l'ONU come un ostacolo, l'unico ostacolo all'unilateralismo americano, vede l'Unione europea non più come un alleato militare e politico ma come un concorrente commerciale, vede l'euro come il nemico del dollaro, vede l'Alleanza Atlantica come inutile perché in Europa non ci sono più pericoli, meglio, allora, un'alleanza elastica di paesi nemici del fondamentalismo islamico che assomiglia molto al Commonwealth imperiale britannico formato oltre che dalla Gran Bretagna, dalle Repubbliche ex sovietiche, dall'India, dalle Filippine e in più dall'Australia e dalla Nuova Zelanda; meglio e di più buon comando, per le guerre interminabili che si preparano, i gurka indiani piuttosto che gli alpini italiani.
Non siamo contrari alla guerra unilaterale perché antiamericani, potremmo esserlo con le parole del New York Times il quale scrive «ora l'Amministrazione Bush presiede una potenza militare americana che non ha precedenti, quello che rischia di sperperare non è la potenza dell'America ma una parte essenziale della sua gloria. Questa guerra corona un periodo di terribili fallimenti diplomatici, il peggiore per Washington almeno dell'ultima generazione» e, in effetti, l'isolamento diplomatico degli Stati Uniti è impressionante basti pensare che nell'intero continente americano non un solo stato importante è sulla linea di Bush, neppure i paesi del NAFTA, neppure il Messico e neppure il Canada. In questo contesto, signor Presidente, per la prima volta dal dopoguerra, l'Italia non può più stare contemporaneamente con l'Amministrazione americana e il cuore dell'Europa: di qua o di là.
Il Governo non faccia l'errore catastrofico di dividere l'Italia dagli altri padri fondatori dell'Europa, cioè dalla Francia e dalla Germania; non si confonda sul nostro interesse nazionale guardando la gran Bretagna o la Spagna. Churchill diceva che l'Atlantico è più stretto della Manica e questo, in parte, è ancora vero. Fra pochi anni metà dei cittadini americani parleranno inglese e l'altra metà spagnolo.
L'interesse italiano è con l'Europa, nettamente, perché persino l'ambiguità potrebbe essere pagata cara.
L'Italia è e deve essere con l'Europa ma non per approfondire la frattura che si è prodotta con gli Stati Uniti, bensì per sanarla con il tempo perché Bush passa ma l'America resta. Per questo, non accetteremo una deriva estremista, non daremo per morto il Patto Atlantico, non confonderemo Bush con Saddam, non seguiremo un pacifismo che sconfini nell'antiamericanismo. L'appoggio ad una guerra sbagliata è escluso ma è anche esclusa la messa in discussione del Patto Atlantico perché il mondo è ancora troppo piccolo, caotico e pericoloso per poter fare a meno della bussola costituita dall'asse storico tra le democrazie occidentali.
UGO INTINI. Purtroppo, colpiti dal terrorismo, come Israele, gli Stati Uniti rischiano di «israelizzarsi», anzitutto psicologicamente. Ciò significa preferenza per la risposta militare rispetto a quella diplomatica, scivolamento dell'opinione pubblica a destra, insofferenza ai consigli dei tradizionali alleati. Abbiamo condannato gli errori di Israele ma non siamo mai scivolati nell'antiebraismo e non siamo mai stati nemici di Israele; non condividiamo ma comprendiamo.
So che con queste posizioni è d'accordo molta parte della maggioranza di Governo. Craxi ha già avuto il coraggio di dirlo apertamente, gliene siamo grati.
Chiediamo a questa parte della maggioranza un dialogo profondo, uno scambio tra prudenza e coraggio: noi metteremo più prudenza nell'evitare di seguire le spinte verso un antiamericanismo distruttivo, loro mettano più coraggio nel seguire il Papa e le radici cristiane, questa volta lo dico anch'io, dell'Europa. Questo Papa non è un neutralista o un pacifista ambiguo: è già passato alla storia perché ha sconfitto il comunismo! Si è alzato contro l'imperialismo sovietico! Ma la storia non è finita, la sua storia non è finita: oggi si è alzato contro la concezione unilaterale del mondo alimentata da Bush, una concezione che, se l'Europa ed il mondo resteranno fermi, sarà seppellita non dagli slogan antiamericani, ma dall'elettorato americano.
Questa tragica guerra cambia tutto il quadro politico, del mondo e di ciascun paese, anche del nostro. Non lo cambierà in due giorni, ma nel tempo, perché purtroppo l'attacco all'Iraq non è la fine di una lunga incertezza, bensì l'inizio di una lunga e sciagurata avventura.
Da oggi l'opposizione deve lavorare perché la grande maggioranza esistente nel paese si riproduca in questo Parlamento; è una grande maggioranza che vuole una politica diversa da quella di Berlusconi, vuole un'Europa che smetta di essere un gigante economico ed un nano politico, come si diceva un tempo della Germania, un'Europa non nemica degli Stati Uniti, ma autonoma dagli Stati Uniti (Applausi dei deputati dei gruppi Misto-Socialisti democratici italiani, dei Democratici di sinistra-l'Ulivo, di Rifondazione comunista e Misto-Comunisti italiani).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Vertone. Ne ha facoltà.
SAVERIO VERTONE. Signor Presidente, deve essere successo qualche cosa di madornale se il Camerun, l'Angola, la Guinea, il Messico, paesi poveri, che hanno bisogno della carità internazionale, hanno detto «no» al paese più potente - militarmente, economicamente, tecnologicamente - del mondo. Sì, deve essere accaduto qualcosa di inspiegabile, che è avvenuto sotto i nostri occhi proprio in questi giorni.
Ma deve essere successo qualcosa di incredibile anche in Italia, se un Governo, che ha tentennato, reso dichiarazioni contraddittorie, effettuato giravolte continue - prima dichiarando la propria assoluta lealtà, o fedeltà, a Bush e poi dicendo che un intervento unilaterale sarebbe stato una catastrofe, anzi, una cosa nefasta -, ha scelto proprio Bush e Powell come i
propri portavoce, perché il discorso di questa mattina verifica, a posteriori, un pensiero che hanno definito, con precisione assoluta, netta, persino brutale, prima la lettera di Bush e poi la dichiarazione di Powell che ha inserito l'Italia tra i 30 paesi alleati dell'America.
È singolare quello che sta succedendo nel mondo, ma è singolare anche il discorso di un Presidente del Consiglio che scivola sui problemi come un pattinatore inesperto, rivelando una cultura da statista internazionale - sia detto senza offesa per nessuno - allevato in un piano-bar. Non si possono trascurare i grandi problemi che stanno alla base di questo frangente terrificante che il mondo sta affrontando! Non si può non cercare di capire cosa sia successo negli ultimi dieci anni dopo la sparizione dell'Unione sovietica! Non si può evitare di ammettere, di considerare, di prendere atto che termini come NATO, Alleanza atlantica, solidarietà euroamericana hanno perso gran parte del loro significato! Ritengo che si debba partire dalla caduta del muro di Berlino per capire l'instabilità che ha colpito il mondo e che, adesso, sta producendo la prima delle guerre che si succederanno, temo, per ristabilire equilibri che sono stati perduti. La tensione tra i due grandi poli, che ha dominato il mondo tra la fine della seconda guerra mondiale ed il 1989, ha tenuto chiuse, per molto tempo, le ferite, numerose, che erano presenti nel mondo, evitando che esplodessero «infezioni» tali da provocare conflitti incontenibili.
Finita la pressione bipolare delle due potenze, tutte le ferite si stanno riaprendo e l'America, che coglie prima di noi (perché ha le mani più in pasta di noi) i problemi che nascono nel mondo, già nel 1992, in un documento firmato da Cheney, Rumsfeld, Rove e Perle (tutte persone che adesso stanno dirigendo la politica americana, dandole quella particolare impronta che vediamo svilupparsi sotto ai nostri occhi), diceva: non possiamo accettare che l'equilibrio del mondo sia affidato ad un multipolarismo instabile, oscuro, incontrollabile e non favorevole allo sviluppo del liberalismo e del liberismo americano. Ciò accadeva nel 1992. In altri termini, vi è la scelta dell'altra faccia dell'isolazionismo, ossia il comando imperiale unico nel mondo.
Non crediamo che la cosa sia limitata al Governo repubblicano, perché nel 1998, Brzezinski, in un libro che credo molti di voi avranno letto, La grande scacchiera, sosteneva la stessa tesi da un punto di vista democratico, con sfumature che possono essere anche studiate (ma non è il caso di farlo in questa sede). Certo, era una tesi più moderata con una visione delle mediazioni di questo potere unilaterale che affidava alla Turchia e a Israele la funzione di guardiani degli equilibri, ma praticamente confermava la pretesa degli Stati Uniti di controllare da soli il mondo.
Ebbene, se i politici italiani (e devo dire tutti i politici italiani) fossero stati più attenti a ciò che succede e ad interpretare per tempo i grandi avvenimenti che hanno punteggiato questo decennio così drammatico, si sarebbero accorti che a Seattle, prima dell'11 settembre e prima dell'attentato alle due torri, era accaduto un fatto importantissimo. In quella baraonda di posizioni contraddittorie, che andavano dal protezionismo di Bovet a generiche manifestazioni di terzomondismo, vi era un filo che univa tutte le posizioni ed era esattamente il rifiuto di quella sbornia liberista, che coincide con queste pretese politiche, che condizionava gli atteggiamenti del Fondo monetario, della Banca mondiale e dell'Organizzazione mondiale del commercio. Bastava tirare questo filo per capire cosa si poteva preparare, per controllare i movimenti che si stavano diffondendo rapidamente nel mondo e che, impropriamente, venivano definiti no global. Tali movimenti adesso si sono sviluppati da soli, si muovono su una linea parallela alla politica dei Parlamenti e dei partiti e costituiscono una forza che deve essere ripresa e ricondotta nell'alveo della politica.
Ebbene, credo ciò non sia stato compreso in tempo e che adesso sia ancora difficile capirlo fino in fondo. Tuttavia, ritengo sia decisiva la capacità di ristabilire un contatto tra questo rifiuto unanime
del mondo dell'imperialismo americano, ossia dell'impero unilaterale isolazionista americano e i vari partiti e paesi che rappresentano la difesa rispetto al rischio di uno squilibrio permanente nei confronti del quale siamo obbligati a stabilire misure di preventiva difesa.
Allora, smettiamo di parlare di solidarietà atlantica. Il Presidente del Consiglio, mi dispiace, ha usato termini che non hanno un corso se non forzoso in questo momento. Cerchiamo di capire cosa sta succedendo in Francia ed in Germania, di analizzare il senso di questi movimenti.
PRESIDENTE. Onorevole Vertone...
SAVERIO VERTONE. Concludo subito, signor Presidente.
In Francia non è la sinistra, ma il gollismo che chiede a gran voce il rispetto dell'ONU. In Germania vi è il nazional neutralismo, un movimento che ha riconquistato alla Germania il diritto di pensare alla propria identità nazionale dopo la squalifica della guerra. Vi sono sfumature molto interessanti su cui tutti hanno scivolato fino adesso.
Credo che dovremmo ricominciare a fare analisi, a capire cosa succede nel mondo ed a rifiutare quei sofismi da azzeccagarbugli in cui, purtroppo, oggi abbiamo sentito che si è catturato da solo il Presidente del Consiglio (Applausi dei deputati dei gruppi Misto-Comunisti italiani, dei Democratici di sinistra-l'Ulivo, della Margherita, DL-l'Ulivo e di Rifondazione comunista - Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Mantovani. Ne ha facoltà.
RAMON MANTOVANI. Signor Presidente, signori del Governo, colleghe e colleghi, oggi, in un momento così importante e grave, avremmo voluto sentire un discorso impegnato in un'analisi delle contraddizioni mondiali ed avremmo voluto ascoltare proposte, anche magari per criticarle, sul ruolo e sulla missione della politica estera del nostro paese. Al contrario, abbiamo ascoltato il Presidente del Consiglio fare spericolate interpretazioni delle risoluzioni delle Nazioni Unite, esattamente come ha detto il collega Vertone: da azzeccagarbugli. Si è esibito in ripetuti tentativi di suscitare uno scontro polemico in quest'aula attaccando tutte le opposizioni, invece che rivolgersi al paese, alla nazione ed al Parlamento che la rappresenta.
Il discorso dell'onorevole Berlusconi è la dimostrazione della debolezza della posizione del Governo italiano che si fa forte solo ed esclusivamente della semplice fedeltà - non della lealtà -, con qualche tono anche servile, nei confronti di coloro che si candidano ad essere i padroni del mondo, i costruttori di un nuovo impero ed impongono il loro volere con la forza.
Il mondo è contro questa guerra. Lo sono la stragrandissima maggioranza dei paesi membri del Consiglio di Sicurezza e di tutta l'Assemblea generale delle Nazioni Unite. Lo sono i popoli, lo sono le opinioni pubbliche, lo sono i movimenti direttamente impegnati nella protesta contro questa guerra. Tutti costoro sanno e capiscono che questa guerra non si fa per i pretesti addotti per giustificarla. Tutti costoro vedono con chiarezza come questa guerra globale e permanente, secondo le stesse definizioni dei loro inventori, serva a tentare di costruire un nuovo ordine mondiale unipolare. Per poter fare ciò bisogna colpire le Nazioni Unite ed esse sono state ferite gravemente. Aggiungo che lo sarebbero state allo stesso modo se fossero state costrette dal ricatto e dall'osceno mercimonio delle settimane scorse e se il Consiglio di Sicurezza avesse accettato il Diktat degli Stati Uniti d'America e della Gran Bretagna.
Tutti capiscono che questa guerra si fa per stabilire - oggi in Medio Oriente, domani vedremo dove - un controllo militare diretto in zone geostrategicamente importanti per le risorse minerarie, per l'acqua e per la biodiversità. Tutti capiscono che questa guerra rappresenta il tentativo di rispondere ad una crisi (che è sotto gli occhi di tutti) della globalizzazione capitalistica, della quale il Governo oggi in Italia è stato per lunghi anni
apologeta (purtroppo non da solo) e che oggi comunque è invisa alla stragrande maggioranza dei popoli nel mondo, perché hanno cominciato a capirne, ad apprezzarne e a vederne tutte le gravissime conseguenze, che attengono alla morte per fame, al lavoro minorile di centinaia di milioni di bambine e di bambini e che attengono allo sfruttamento e alla privatizzazione di quanto di più importante vi è su questo pianeta: la vita degli animali, delle piante e degli essere umani.
Voi, di fronte a questa situazione, opponete un atto di pura servitù, sperando di poter avere una qualche partecipazione politica al banchetto che dovrebbe inaugurarsi all'indomani della guerra e sperando di poter essere accolti magari alla prossima riunione del G8 a Evia (chissà cosa succederà - vedremo - alla prossima riunione del G8 a Evia?) come fedeli alleati di coloro i quali si candidano a dirigere anche questi organismi che noi stessi consideriamo illegali nel mondo, perché al Consiglio di Sicurezza qualcosa si dovrà pur sostituire, per costruire le mediazioni e il Governo unipolare del mondo. Ed è certo che gli Stati Uniti punteranno a ricostruire una qualche forma di governo del mondo, che però ratifichi e codifichi la loro supremazia.
Invece che questo atto servile, voi avreste potuto fare un'altra cosa, ma capiamo che non è né nella vostra cultura, né nelle vostre intenzioni, né - dati i vostri trascorsi - nelle vostre disponibilità. Avreste potuto fare una politica di pace. Avreste potuto dare al nostro paese e anche ai suoi legittimi interessi nazionali una politica estera di pace. Avreste potuto rimettere in discussione la - ormai veramente - discutibile presenza delle basi militari straniere nel nostro paese. Ieri nelle Commissioni riunite affari costituzionali, affari esteri e difesa, il Governo ha detto che tutti gli accordi tra l'Italia e gli Stati Uniti, in ambito Nato, sono basati sulla più totale e piena reciprocità. Quante basi italiane, francesi o tedesche ci sono negli Stati Uniti? Quanti soldati italiani hanno assassinato cittadini statunitensi per poi essere tradotti davanti a un tribunale della Repubblica italiana che li ha condannati a una «tiratina di orecchi», come è stato fatto per quei militari americani che hanno assassinato persone assolutamente innocenti ed inermi al Cermis (Applausi dei deputati dei gruppi di Rifondazione comunista e dei Democratici di sinistra-l'Ulivo)? Dove sta questa reciprocità? Non c'è alcuna reciprocità!
Peraltro, finito il Patto di Varsavia e caduto il muro di Berlino, non ci sarebbe alcuna giustificazione per la presenza di queste basi militari nel nostro paese ed invece queste basi militari sono diventate più grandi e più forti e per poterlo fare - per questo, tra gli altri motivi - si sono fatti due interventi militari della Nato, uno dei quali unilaterale in offesa del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e oggi si prepara questa partecipazione indiretta ma belligerante nei confronti dell'Iraq.
Il movimento contro la globalizzazione e il movimento pacifista continueranno la loro lotta e, un giorno, avremo un'Italia smilitarizzata, un'Europa senza basi militari straniere, un'Europa effettivamente autonoma e indipendente, un'Europa che potrà svolgere una funzione di pace nel mondo (Applausi dei deputati dei gruppi di Rifondazione comunista, dei Democratici di sinistra-l'Ulivo e Misto-Comunisti italiani).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Rizzi. Ne ha facoltà.
CESARE RIZZI. Signor Presidente, rappresentanti del Governo, colleghi, per la seconda volta nell'arco di un mese il Governo si confronta con questo Parlamento in merito alla crisi irachena. Il Governo di centrodestra si confronta democraticamente con il Parlamento, a differenza di quanto fece l'allora Governo di centrosinistra in occasione della guerra nel Kosovo.
È stato un mese molto intenso, oserei dire frenetico, sia sul versante dell'attività degli ispettori sia su quello della diplomazia. Le consultazioni bilaterali e multilaterali non hanno mai messo in discussione la triste constatazione che il regime iracheno costituisce una minaccia potenzialmente
devastante e un interlocutore difficilmente attendibile.
Questa comune visione era già stata incorporata nella risoluzione n. 1441, approvata all'unanimità anche con il voto della Siria, uno dei paesi più vicini all'Iraq baatista. Nonostante ciò, tutti gli attori coinvolti hanno dimostrato la speranza di poter giungere ad un disarmo pacifico ed assistito, ad un disarmo vero e definitivo. La risoluzione n. 1441 non lasciava spazio ad interpretazioni restrittive, chiedendo collaborazione totale, incondizionata e sincera da parte irachena pena serie conseguenze che, per chi comprende il linguaggio diplomatico, vuol dire anche uso della forza.
Quello di oggi non è il migliore degli scenari possibili. Nessuno vuole la guerra, avremmo tutti preferito soluzioni meno estreme e non è certo colpa nostra se ciò non è stato possibile. E se, negli ultimi giorni, sotto la minaccia concreta del conflitto, il rais iracheno si è dimostrato più collaborativo, ciò dimostra ancora di più l'efficacia della pressione internazionale rispetto a quella delle ispezioni fini a se stesse e prova inoltre che Saddam è ancora in grado di nascondere ciò che vuole nascondere e di centellinare le rivelazioni sul dislocamento delle armi proibite a proprio uso e consumo, al fine di ottenere ancora tempo e cercare di spaccare il fronte internazionale.
Questo - lo ripeto - non è il migliore degli scenari possibili e, per tale motivo, la scelta deve essere coraggiosa e coerente, anche a rischio di apparire impopolare. Il nostro obiettivo è quello di fornire un messaggio chiaro: la condanna senza tentennamenti di chi si è preso gioco delle risoluzioni dell'ONU, di chi non ha avuto pietà del proprio popolo e delle etnie presenti sul territorio che amministra, di chi continua a costituire una minaccia concreta e può diventare esempio di impunità per altri dittatori del mondo.
Non possiamo condannare questo atteggiamento a parole e poi non esprimere la stessa posizione nei fatti. Sarebbe irresponsabile ritirare ogni appoggio, chiudere la porta agli Stati Uniti; infatti, dopo aver manifestato solidarietà a parole, ciò significherebbe macchiarsi di un grave atto di codardia, dichiarando di aver giocato fino ad oggi.
Nemmeno gli altri paesi, anche quelli del cosiddetto fronte pacifista - che, in realtà, più che per la pace si stanno battendo per ritagliarsi spazi di autorevolezza nei futuri assetti geopolitici -, sono arrivati a tanto. Non mi riferisco, ad esempio, alla Germania che è contro la guerra e che, come noi, concede basi e diritto di sorvolo; quello che non possiamo accettare è l'idea della frattura insanabile della comunità internazionale.
Probabilmente, una maggiore compattezza del mondo occidentale e in seno all'ONU avrebbe avuto un effetto risolutivo nei confronti della crisi irachena, divenendo uno strumento di pressione determinante su Saddam, magari convincendolo dell'opportunità di un esilio, peraltro nuovamente chiesto, anche stamattina, in modo ufficiale addirittura dall'Arabia Saudita.
Al vertice europeo del mese scorso sembrava che le volontà convergessero sull'importanza fondamentale dell'unità in seno all'occidente, anche a costo di decidere per il ricorso alla forza, ben inteso come ultima opzione. Alle Nazioni Unite non si è potuti giungere ad una presa di posizione comune. Non è la prima volta che accade; anzi, è stata la norma a partire dall'iniziazione dell'ONU, per tutta la guerra fredda e, persino più recentemente, all'epoca del conflitto nel Kosovo, quando non fu possibile giungere ad un voto del Consiglio di Sicurezza.
Per i meccanismi intrinseci dell'ONU, compresa la preservazione astorica del diritto di veto, è assolutamente falso che il mancato via libera del Palazzo di vetro significhi che l'intervento, se ci sarà, sarà un'iniziativa unilaterale, condotta in sfregio alla comunità internazionale. Vi parteciperanno più o meno attivamente quarantacinque Stati. Se questo è unilateralismo! Sappiamo che il numero dei paesi che appoggiano gli Stati Uniti politicamente, anche a prescindere dall'invio di uomini e di mezzi, o con la sola concessione delle basi e del diritto di sorvolo è
notevole: comprende molti paesi arabi ed è destinato ad aumentare man mano che il conflitto appare più vicino.
Ciò che oggi siamo chiamati a definire è da quale parte vogliamo stare. Non possiamo non stare con qualcuno. Se condanniamo moralmente e politicamente il regime iracheno, la nostra scelta è compiuta; altrimenti, restiamo invischiati in giochi di potere e di potenza e ci riduciamo a chiederci se stare con la Francia o con l'America, con i buoni o con i cattivi, mentre tutt'altro è il quadro della situazione. Scegliamo quindi l'Occidente, la democrazia e la sicurezza nazionale dalla minaccia terroristica. Questa, oggi, è l'unica scelta possibile (Applausi dei deputati del gruppo della Lega nord Padania).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Naro. Ne ha facoltà.
GIUSEPPE NARO. Signor Presidente, signor Vicepresidente del consiglio, onorevoli colleghi, Saddam Hussein non ha disarmato e, come hanno riferito Blix e El Baradei, non ha mai fatto quanto era nelle sue possibilità per agevolare il lavoro dei controllori delle Nazioni Unite; quindi, ha disatteso quanto imposto dalla risoluzione n. 1441.
Del resto, Saddam ha dichiarato di aver posseduto armi di sterminio ma di averle distrutte, senza esibire, però, le prove ripetutamente richiestegli. Sono stati scoperti missili che superavano la gittata consentita e la loro distruzione, avviata non per atto di spontanea determinazione ma per la pressione militare angloamericana, è avvenuta con il contagocce. Oggi si è arrestata, consentendo di fatto al dittatore una disponibilità di circa settanta esemplari, che possono essere dotati di testate con antrace o con altri prodotti chimici proibiti e raggiungere tranquillamente i paesi vicini che si sono schierati con gli Stati Uniti o forniscono qualche forma di sostegno.
Inoltre, il rais dispone di un curriculum certamente non edificante, i cui atti di carriera nella gestione del potere sono: la riduzione in schiavitù del suo popolo, la lunga e disastrosa guerra imposta all'Iran, l'occupazione del Kuwait, che scatenò la guerra del golfo nel 1991, la distruzione dei pozzi petroliferi kuwaitiani durante la ritirata dopo la sconfitta, l'eliminazione degli avversari politici con processi sommari o in assenza di processi, la decimazione di curdi e sciiti con l'utilizzo di armi di sterminio e quant'altro.
Ma, il pericolo maggiore e quanto mai attuale è il rapporto tra Saddam ed il terrorismo fondamentalista, cui potrebbero pervenire le armi di sterminio, se è vero che egli ha dichiarato di aver addestrato migliaia di kamikaze, per portare la battaglia ove c'è cielo, terra ed acqua, ovunque nel mondo, e non disdegna di farne sfilare nutriti contingenti nelle sue parate ufficiali; se è vero che il figlio Oudai ha minacciato che gli americani saranno attaccati in maniera tanto virulenta da far sembrare l'11 settembre una pallida ombra; se è vero che è documentato il sostegno alle famiglie dei kamikaze palestinesi; se è vero che egli ha minacciato, in caso di attacco, la guerra fino all'ultimo bambino. E si potrebbe ancora continuare.
Orbene, di tutte queste considerazioni bisogna tenere conto per capire la determinazione dell'ultimatum di Bush scaturito dopo il vertice delle Azzorre, determinazione che non condividiamo, perché assunta senza l'avallo dell'ONU, ma che comprendiamo e con noi tutti i democratici autentici.
Nel discorso alla nazione Bush ha spiegato la necessità della soluzione adottata. L'ONU non riusciva ad uscire fuori dalle sabbie mobili che Saddam aveva preparato per 12 lunghi anni e che continua a mantenere attive anche dopo la risoluzione n. 1441 impedendo, nella sostanza, che si pervenga a quella data ben precisata oltre la quale scatterebbe la ritorsione della comunità internazionale. Sono queste le argomentazioni che il vertice delle Azzorre ha ritenuto la base giuridica dell'ultimatum.
Il mondo si è diviso sull'individuazione della base giuridica. Da un lato, coloro che la riscontrano all'interno della risoluzione
n. 1441, come è stato ritenuto nel vertice delle Azzorre, e dall'altro lato coloro che vedono tale base solo in una nuova e specifica risoluzione ONU. Su questo discrimine purtroppo nella nostra Europa, già vicina al traguardo della costituzionalizzazione come organismo politicamente omogeneo, si sono radicalizzate le due posizioni antitetiche e che per la prima volta turbano i rapporti con i paesi candidati all'allargamento. L'Italia, come del resto ha sempre ripetuto il Presidente della Repubblica e come ha anche chiarito il Governo, ha scelto di rimanere fedele alle deliberazioni delle organizzazioni internazionali come ONU, Europa e NATO di cui è parte integrante. Del resto, la scelta di non partecipare all'intervento coincide anche con il dettato costituzionale. Nei momenti che ci dividono dalla scadenza dell'ultimatum possiamo ancora sperare che venga accolto l'appello solenne lanciato dal Santo Padre la scorsa domenica dopo la recita dell'Angelus: «mai più guerra».
Analizziamo ora gli aspetti che ci attendono. Oggi ci viene chiesto un voto che autorizzi gli Stati Uniti all'utilizzo delle infrastrutture ed al sorvolo del territorio. Dal punto di vista della legittimità del diritto, il Presidente Berlusconi ha esposto, con la puntualità e l'impegno che gli sono consueti, quali sono i termini entro cui va condotta l'interpretazione di quanto dispongono i trattati e di quanto dispone l'articolo 11 della Costituzione e abbiamo potuto dedurre che c'è lo spazio per discutere anche di una legittimità politica: nel merito, diamo atto al Presidente del Consiglio di avere individuato un percorso possibile.
Naturalmente, tra Saddam e Bush, noi siamo per Bush, che è alla guida di uno dei più giovani paesi democratici del mondo, per storia e per esercizio di governo. Intanto, l'autorizzazione all'uso delle basi per supporto logistico e al sorvolo è un valido elemento di ulteriore pressione su Saddam, autorizzazione che è regolata da trattati internazionali e nel caso specifico, sicuramente, essa travalica la dimensione nazionale per diventare dimensione atlantica o internazionale. Altri paesi della NATO, compresi Germania e Francia, permettono l'utilizzo di infrastrutture e sorvolo del territorio. Certamente, la comparazione può essere indicativa per noi che siamo chiamati ad esprimere un voto, ma potrebbe essere considerata vincolante se pensiamo al fatto che non bisogna più ripetere l'errore di violentare ancora una volta lo spirito unitario cui è pervenuto a fatica l'ultimo vertice di Bruxelles.
Ancora, una ulteriore diversità di visioni e determinazioni tra i paesi aderenti alla NATO, come è avvenuto per la questione turca, sarebbe un vulnus difficilmente sanabile. Sono convinto che un voto favorevole alle autorizzazioni gioverebbe a tenere unita l'Alleanza atlantica all'interno della quale dovrebbe essere subito portata la questione dibattuta per essere ivi gestita e non solo per risolvere il problema dell'oggi, quanto, anche e soprattutto, quello del domani.
Altro nostro impegno, che in questo momento è doveroso ricordare, è relativo alla gestione del post-conflitto. Nel merito, l'Italia ha già dato la sua disponibilità non solo per ragioni umanitarie, quanto anche per la sua fede nello sviluppo dei popoli e nell'avanzamento della civiltà. Sento il bisogno di richiamare, in questo momento difficile per l'Italia e per il mondo, la vicenda del Kosovo, non per le polemiche che su di essa si sono sviluppate ma per lo spirito unitario del voto espresso dal Parlamento.
Signor Presidente, nel rammentare che l'attacco, sia pure unilaterale, all'Iraq si identifica con la lotta al terrorismo e a chi gli permette di esistere e di operare - e in questa determinazione abbiamo spesso convenuto in maniera quasi unanime -, vorrei rinnovare all'Assemblea l'invito del Presidente Casini a non drammatizzare i contrasti sui problemi dell'Iraq che in questo momento dividono il vecchio continente perché, ha aggiunto, la gravissima congiuntura internazionale crea un passaggio difficile per l'Europa: e noi abbiamo tanto bisogno di Europa.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Gerardo Bianco. Ne ha facoltà.
GERARDO BIANCO. Signor Presidente, signor Vicepresidente del Consiglio, credo che il Presidente Berlusconi avrebbe dovuto pronunciare un semplice monosillabo, franco e netto: «no» alla guerra. «No» perché questa guerra è un tragico errore, in primo luogo per gli Stati Uniti d'America e, poi, per l'ordine internazionale. Per noi non è semplice, anche per me personalmente, dire «no» ad un grande alleato che per circa mezzo secolo ha rappresentato il pilastro delle nostre democrazie e delle nostre libertà occidentali.
Eppure bisogna pronunziarlo, deciso e forte, proprio in virtù della nostra amicizia e della nostra lealtà che ci videro, primi in Europa, in questo Parlamento dire «sì» agli euromissili, che segnarono la svolta definitiva ed epocale della sfida tra est ed ovest (ebbi l'avventura di sottoscrivere quel documento) e che avviarono la stagione del disarmo e della distensione internazionale. Noi siamo stati, siamo e saremo amici degli Stati Uniti d'America, ma ciò non può impedirci di dire che questa guerra è un grave sbaglio. In un certo senso lo ha ammesso implicitamente lo stesso Presidente del Consiglio quando, arrampicandosi sugli specchi, ha cercato di dimostrare che questa guerra ha, in qualche maniera, un'autorizzazione delle Nazioni Unite: così non è.
È sbagliato spezzare l'unanimità della coalizione antiterroristica, quando l'11 settembre tutti noi ci sentimmo americani. È sbagliato ferire a morte l'ONU, sostituendo il diritto con la propria forza. È sbagliato abbandonare quei principi guida, che dai tempi di Lincoln hanno sempre orientato le scelte dei governi americani, di essere dalla parte della ragione e, quindi, del diritto. Sostituirvi oggi, invece, la teoria bismarckiana - è la forza a sopravanzare perché questa è la logica della guerra preventiva - significa contraddire la più alta tradizione morale, civile e politica e perdere quella leadership essenziale per poter guidare il mondo. È sbagliato dividere l'occidente e fare la conta dei paesi buoni, scambiando per sottomissione l'adesione. È sbagliato aprire un fossato con paesi decisivi per gli assetti internazionali, come la Francia, la Germania - che, onorevole Fini, non si possono richiamare qui soltanto quando fa comodo - e la Russia, perché per vincere il terrorismo l'America ha bisogno della solidarietà di tutti noi.
Il terrorismo non si vince in solitudine; non si combatte un nemico invisibile attaccando un bersaglio perché è visibile: in tal modo si rischia solo di allarmare e di creare la convinzione che per essere inattaccabili bisogna diventare più forti e minacciosi (la Corea insegna). È sbagliato trasformare, peraltro, un sanguinario dittatore come Saddam Hussein, dalla cui parte noi non potremo mai essere per ragioni politiche e per convinzioni profonde, in un eroe, in un mito, in una sorta di glorioso Saladino che accenderà furori, vendette e difenderà ancora di più quel terrorismo che si vuole combattere.
Nel dire «no» alla guerra che si sta profilando come noi facciamo, non siamo solo mossi da un profondo sentimento di pace, che ha trovato nella voce del Papa il più alto messaggio; siamo contro la guerra per una precisa consapevolezza di gravi errori di calcolo che stanno per essere compiuti. Non vorremmo strumentalizzare questa posizione, perché abbiamo troppo il senso dello Stato e di un paese che deve essere autorevole a livello internazionale, ma a noi sembra che questa consapevolezza - ahimè - sia mancata al Governo: troppi ondeggiamenti, troppe oscillazioni, troppe ambiguità, troppe doppiezze quando invece era il momento della verità: «sì», «sì», «no», «no»!
Non possiamo essere convinti, anche se forse delle intenzioni...
GIORGIO LA MALFA. Ma voi eravate per il «sì», «sì» o per il «no», «no»?
PRESIDENTE. Onorevole La Malfa, parla dai banchi del Governo!
GERARDO BIANCO. Io sto parlando del Governo.
ANTONIO SODA. Sei al Governo... hai troppa smania... Al prossimo giro!
GERARDO BIANCO. Non si difende, onorevole La Malfa, un'alleanza essendo oltranzisti, ma dicendo la verità. È mancata la linearità perché è mancata una visione strategica e perché mal posti sono stati i problemi, come per esempio quello strumentale dell'americanismo e dell'antiamericanismo; non si è capito, nell'interesse dell'Italia e - lo ripeto - dell'America, che è per tutti necessaria una posizione unitaria dell'Europa. A questo il Governo avrebbe dovuto dare la priorità, dedicandosi all'unità dell'Europa, ma non l'ha fatto. Forse per l'ossessione, per un calcolo che ritengo sbagliato di sedersi domani al tavolo dei vincitori. La vittoria potrà anche essere facile, ma è una visione miope: non vi sarà mai una vittoria se non vi è un ordine internazionale e non vi sarà mai un ordine internazionale se non vi è un diritto che sia fondato su regole di giustizia che il principio stesso della guerra preventiva, capovolgimento delle dottrine tradizionali degli Stati Uniti d'America, contraddice.
È solo una pericolosa illusione immaginare che la possente forza di un solo paese possa regolare il mondo. Definire la nostra posizione, quella dell'Italia, in un quadro innanzitutto europeo, che è un obiettivo che ancora dovete perseguire, avrebbe significato - lo ripeto - aiutare la stessa America ed anche sciogliere quei complessi nodi dei trattati bilaterali (non ci sfuggono) che ci legano agli Stati Uniti d'America e che non possono consentirci, in virtù della Costituzione, alcun atto di cobelligeranza, ma che non ci consentono neppure - lo riconosco - di impedire l'esercizio di alcune attività delle forze americane presenti nel nostro paese.
Noi dobbiamo, tuttavia, adottare decisioni ferme e responsabili: ferme nel nostro deciso «no» ad una guerra sbagliata e responsabili perché nessun atto possa risultare nemico nei confronti dell'alleato americano. Queste decisioni vanno ricercate - insisto - in un'intesa europea anche sulle modalità di uso delle basi e non perché siamo inscritti (è umiliante) in un elenco di 30 amici che sa più di vassallaggio, che di solidarietà: si è amici quando si è uguali e si è uguali se si possono dire dei «no» che non siano di offesa, ma di aiuto agli alleati.
Noi sappiamo che l'America è un paese ferito e che vi è in quel paese una sensibilità acuita ed una drammatica percezione del pericolo terrorista. Noi però non la aiutiamo piegandoci ad un disegno che oggi è dettato dalle paure e dalla logica della pura forza militare.
Dicendo «no», invece, noi aiutiamo quell'America a trovare il filo interrotto di quella luminosa tradizione politica che, per oltre due secoli, ha reso l'America il simbolo della democrazia, dell'anticolonialismo e della libertà che ora rischia di essere compromessa (Applausi dei deputati dei gruppi della Margherita, DL-l'Ulivo, dei Democratici di sinistra-l'Ulivo e Misto-Socialisti democratici italiani - Congratulazioni).
PRESIDENTE. Facendo un'eccezione alla regola pospongo l'intervento dell'onorevole Selva, al momento assente. È iscritta a parlare l'onorevole Sereni. Ne ha facoltà.
MARINA SERENI. Signor Presidente, rappresentanti del Governo, onorevoli colleghi, siamo di fronte ad una crisi internazionale gravissima, per molti versi inedita, che, entro poche ore, potrebbe precipitare in una guerra ingiustificata e dalle conseguenze incalcolabili. Ognuno di noi avverte il peso e la responsabilità di un confronto e di decisioni che sono destinate a pesare gravemente sul futuro.
Non credo sia eccessivo dire che le relazioni e gli assetti futuri a livello internazionale saranno plasmati o almeno fortemente influenzati, per un periodo non breve, da questa crisi, dai suoi sviluppi e dalle sue conseguenze. Non credo sia eccessivo dire che questa vicenda segnerà anche uno spartiacque nel rapporto fra i luoghi delle decisioni sulla pace e sulla guerra e la coscienza di milioni di persone in ogni angolo del pianeta.
La guerra è sempre una sconfitta degli strumenti della politica; essa è sempre causa di lutti e di terribili sofferenze per le popolazioni civili. Lo sarà in particolare questa che è destinata a colpire un popolo, quello iracheno, già vittima da decenni di un regime sanguinario e corrotto, che ha provocato due guerre, oppresso ed ucciso i suoi oppositori, isolato l'Iraq dal resto della comunità internazionale.
La guerra è sempre un evento che scuote e divide; eppure, sento che c'è qualcosa di più e di diverso nella preoccupazione, nell'allarme e nel dissenso che questa guerra ha suscitato nel mondo.
Quale che sia la scelta che ognuno di noi qui assumerà, credo abbiamo il dovere di cercare di capire perché così tanta gente, così tanta parte della comunità internazionale abbiano detto «no» a questa guerra ed abbiano in ogni modo cercato di evitare un evento che ormai siamo tutti costretti a considerare imminente.
Cosa c'è dunque nel «no» e nel rifiuto a questa guerra ? In primo luogo, vi è un giudizio politico su come ci si è arrivati. Di fronte ad una compatta ed amplissima determinazione della comunità internazionale a perseguire l'obiettivo del disarmo dell'Iraq, di fronte alla ripresa dell'attività ispettiva che stava dando risultati concreti e sostanziali, contro una posizione maggioritaria nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite favorevole al rafforzamento ed alla prosecuzione delle ispezioni, l'amministrazione americana ha deciso di considerare esauriti gli spazi della politica e di andare alla guerra contro l'Iraq.
Dobbiamo, quindi, registrare con grande preoccupazione come nell'amministrazione americana, che aveva ad un certo punto accettato, seppure non entusiasticamente, di affidare alle Nazioni Unite la soluzione della crisi, sia tornata a prevalere una spinta unilateralista, ovvero l'idea di poter decidere di fare da soli, senza ricercare il consenso della comunità internazionale, fuori dalla legalità e dal diritto internazionale.
Già in altri momenti abbiamo avuto modo di esprimere il nostro giudizio nettamente critico verso quel documento sulla nuova strategia della sicurezza nazionale che oggi l'amministrazione Bush sembra purtroppo determinata a sperimentare concretamente in Iraq.
In quella dottrina, l'unilateralismo agisce come chiave principale ed è unilaterale la valutazione del pericolo, la scelta dell'obiettivo, dei tempi e dei luoghi, in un sistema di alleanze che si costruisce a geometria variabile.
Vorrei dire al Presidente del Consiglio che è Bush e non l'opposizione italiana a mettere in discussione il ruolo e la funzione dell'Alleanza Atlantica. In quella dottrina, risposta preventiva e tentazione di fare da soli si intrecciano, configurando un chiaro rischio di militarizzazione delle relazioni internazionali.
Noi siamo amici ed alleati degli Stati Uniti, lo diceva poco fa il collega Gerardo Bianco. Siamo stati solidali all'indomani dell'11 settembre e riteniamo che l'Europa debba assumere come priorità la lotta al terrorismo internazionale ed alla proliferazione degli armamenti di distruzione di massa. Ma è proprio per queste ragioni che crediamo sia oggi necessario dire «no» a questa guerra, una guerra che viene percepita come uno scontro di civiltà in gran parte del mondo islamico, una guerra che rischia di alimentare le correnti fondamentaliste e i pericoli di terrorismo, una guerra che apre scenari del tutto imprevedibili sugli assetti futuri dell'Iraq e dell'intera regione mediorientale.
In molti interventi, anche di qualcuno della maggioranza, ho sentito la preoccupazione per le lacerazioni che questa guerra sta provocando, prima ancora di essere guerreggiata, nelle relazioni internazionali e nelle istituzioni cardine del multilateralismo, a cominciare dalle Nazioni Unite. Ma il multilateralismo e la sua efficacia si difendono se se ne riconoscono le regole di fondo. Il multilateralismo, vorrei dire ai rappresentanti della maggioranza, non è la registrazione dei rapporti di forza, è capacità e disponibilità al compromesso, al convincimento, al riconoscimento di una ragione, di un interesse superiore, oltre la legittima aspirazione di
un singolo paese, a maggior ragione se questo singolo paese è una grande potenza mondiale.
Oggi, di fronte alle nuove e molteplici minacce che l'umanità deve sconfiggere, di fronte agli squilibri e all'instabilità che abbiamo ereditato dalla dissoluzione dell'assetto bipolare, di fronte alle potenzialità e ai rischi di questa globalizzazione, non c'è alcuna possibilità di costruire un nuovo ordine mondiale più giusto e più sicuro, se non affermando e rilanciando le ragioni e le istituzioni del multilateralismo. Con questa guerra, si sta imboccando, purtroppo, un'altra strada.
Per queste ragioni avremmo voluto dal nostro paese, da questo Governo, un altro discorso, un altro comportamento concreto. Voi, rappresentanti del Governo, siete qui oggi a registrare l'ultimo episodio di una brutta storia che non avete neppure provato a modificare. Non c'è stato un gesto, un atto del Governo italiano che abbia, in queste difficili settimane, cercato di evitare davvero questa guerra, sbagliata ed illegittima. Non c'è stato un gesto, un atto, che abbia richiamato l'urgenza di combattere il terrorismo, fermando la spirale di violenza tra israeliani e palestinesi e costruendo le condizioni per una soluzione giusta a quel tremendo conflitto. Non c'è stata una iniziativa che abbia condotto il nostro paese a difendere il ruolo dell'Europa ed a ricercarne l'unità in questa crisi. Oggi venite qui e ci chiedete semplicemente di adeguarci: non possiamo farlo, perché la posta in gioco è troppo alta.
Presidente, colleghi, siamo tra quanti riconoscono che possa essere, a volte, indispensabile il ricorso all'uso della forza, per autodifesa o per far valere il diritto e la legalità internazionale; sappiamo che la politica può essere posta di fronte a questa necessità. Ma la guerra, vorrei ricordarlo, è un'altra cosa e, non sapendolo fare meglio, prendo in prestito le parole di Michel de Montaigne, con le quali concludo: «Quanto alla guerra, che è la più grande e pomposa delle azioni umane, mi piacerebbe sapere se vogliamo servircene come prova di qualche nostra prerogativa o, al contrario, come testimonianza della nostra debolezza e imperfezione, poiché invero sembra che la scienza di distruggerci ed ucciderci a vicenda, di rovinare e perdere la nostra stessa specie, non abbia molto di che farsi desiderare dalle bestie che non la posseggono» (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-l'Ulivo, Misto-Comunisti italiani e Misto-Liberal-democratici, Repubblicani, Nuovo PSI - Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Cristaldi. Ne ha facoltà.
NICOLÒ CRISTALDI. Signor Presidente, onorevole Vicepresidente del Consiglio, onorevoli colleghi, non si può certo dire che la materia del dibattito odierno arrivi all'improvviso in Parlamento, dove il Governo, in più occasioni, ha reso noto ogni passaggio della politica, nel tentativo di risolvere la questione senza l'uso delle armi ed affermando il ruolo delle organizzazioni internazionali, a cominciare dall'ONU e dalla stessa Unione europea.
Ogni passaggio è stato compiuto e va dato atto al Governo italiano di avere tentato ogni strada possibile per evitare il conflitto. La sinistra - e, più vastamente, il centrosinistra - sostiene una posizione che dovrebbe imporre al nostro paese il non intervento se non autorizzato dall'ONU; addirittura senza l'ONU non si dovrebbe fornire alcuna collaborazione agli Stati Uniti d'America.
Nel dibattito dei mesi e dei giorni scorsi la sinistra si è riempita la bocca di comportamenti esemplari di Russia, Germania e Francia, paesi che del pacifismo - diciamo la verità - ne hanno fatto una scoperta recente.
Oggi, la Russia si rende conto, di fatto, della inevitabilità dell'intervento, magari pensando a ciò che la Russa ha determinato in Cecenia, dove di vittime ne sono state provocate più di quante ne abbia provocate la bomba atomica.
La Germania e la Francia mettono a disposizione le basi e consentono la libera circolazione delle forze americane.
Che strano dibattito, oggi, in Parlamento e nel paese: si vuol far credere che
la questione sia a favore della pace o contro la pace, come se ci potesse essere qualcuno, in quest'aula e nel paese, a sfavore della guerra e contro la pace.
La verità è che il mondo è in guerra da tempo e la dichiarazione di guerra porta una data ed un luogo: 11 settembre, New York. Saddam rischia di apparire come un aggredito, come un poveraccio contro il quale gli Stati Uniti vogliono usare il loro strapotere, dimenticando che Saddam a qualcuno deve pur rispondere per i due milioni di curdi trucidati, per l'appoggio al terrorismo internazionale, per la violazione dei più elementari diritti civili.
Non si dovrebbe abbattere Saddam con la forza delle armi, ma con la forza della persuasione diplomatica? E non è stata tentata ogni via? Non si dovrebbe adottare la forza? Non si deve abbattere un regime se non dall'interno? Abbiamo sentito dichiarazioni di questa natura da validi esponenti della sinistra, da personaggi che hanno ricoperto incarichi di livello internazionale. Si pretende di creare una condizione nella quale dall'interno si dovrebbe abbattere Saddam, come se ciò che accade in Iraq non sia una questione di cui il mondo ha il dovere di occuparsi, come se vedere la morte di milioni di persone non debba, in qualche maniera, richiamare alla responsabilità i paesi dell'occidente, i paesi civili. Non ci dovremmo occupare di quel che succede in Iraq, si dovrebbe dare forza all'autorità diplomatica, si dovrebbe incidere nella politica interna dell'Iraq per abbattere il regime - detto tra virgolette - in maniera democratica. Ne abbiamo sentite di argomentazioni di questa natura. Ma perché? In altre occasioni, in altri momenti storici, si è lavorato in questa maniera? Per abbattere Hitler, per esempio, si è, in qualche maniera, messo in moto un sistema per convincere i tedeschi ad abbattere Hitler in maniera democratica? Non c'è stato in quell'occasione un intervento che certamente ha seguito una linea completamente diversa rispetto a ciò che si è sostenuto anche in quest'aula e fuori di quest'aula? Come si dovrebbe abbattere Saddam? Con la forza della persuasione o sventolando la bandiera arcobaleno davanti alla sua faccia? Noi pensiamo che ogni strada sia stata percorsa, e che sia stato tentato ogni livello di persuasione diplomatica. La stessa missione dell'ONU non è la prima missione che gli ispettori hanno compiuto in quella parte del paese. E la n. 1441 non è l'unica risoluzione. In più passaggi, dentro l'ONU ma anche dentro l'Unione europea, è stato fatto rilevare come l'Iraq e Saddam in prima persona non abbiano rispettato i pronunciamenti dell'ONU e non abbiano accolto i vari inviti delle organizzazioni internazionali.
Allora, noi vogliamo lanciare un appello; vogliamo prendere atto che, in ogni parlamentare, in ogni cittadino italiano, non c'è la voglia di partecipare alla guerra, come pure qualcuno ha detto, con entusiasmo. Ma chi vuole la guerra nel nostro paese?
Tuttavia, davanti a situazioni di questa natura, bisogna intervenire per assicurare che ci sia, nel mondo, un processo che faccia elevare sempre più il livello della civiltà in ogni paese, ricordandoci, magari di ciò che è accaduto per il Kosovo soltanto qualche anno, quando, al di là dei pronunciamenti dell'ONU, si è imposto, in ognuno di noi, il dovere di dare l'appoggio pieno ad un Governo della sinistra per tentare di contribuire a creare condizioni di civiltà e di democrazia in altri paesi europei (Applausi dei deputati del gruppo di Alleanza nazionale).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Pacini. Ne ha facoltà.
MARCELLO PACINI. Signor Presidente, signor Vicepresidente del Consiglio, siamo di fronte a momenti che avremmo preferito non vivere: il nostro animo di italiani e di europei sente tutta la drammaticità delle decisioni che dobbiamo assumere.
Dobbiamo sapere, però, che il dilemma da sciogliere non è tra la pace e la guerra, ma tra una politica volta a ricostruire il tessuto unificato e benefico del mondo occidentale ed una volta ad accentuare le divisioni ed a scavare fossati più profondi.
La scelta tra la guerra e la pace è alle nostre spalle perché l'ultimo rifiuto del dittatore iracheno ad accettare l'esilio ha reso ineluttabile l'intervento militare americano.
Il Governo italiano ha scelto, da tempo, di stare al fianco degli Stati Uniti, proseguendo una tradizionale linea politica ormai cinquantennale che ebbe la sua formalizzazione nella contestata adesione al Patto Atlantico. Guai se De Gasperi e tutti gli uomini del quadripartito avessero mancato alle loro responsabilità e si fossero lasciati influenzare, allora, dalla piazza e dalla sinistra!
L'elenco delle risoluzioni che il Presidente del Consiglio ha citato dimostra chiaramente quanto pervicace sia stato il rifiuto del dittatore iracheno a piegarsi agli ordini delle Nazioni Unite. Tutti sappiamo che l'Iraq ha iniziato a distruggere i missili dieci giorni or sono, quando la risoluzione ONU che glielo imponeva è di 12 anni orsono! Queste sono le risoluzioni che legittimano l'intervento americano.
Il nostro paese non parteciperà ad operazioni di guerra. Ci viene chiesto semplicemente di non ostacolare l'azione americana permettendo il transito nel nostro spazio aereo e l'uso reale delle basi militari. L'Italia, pero, è di fronte a numerosi doveri.
In primo luogo, deve agire perché il conflitto si concluda il più rapidamente possibile: non potremmo trovare alcuna giustificazione ad un nostro comportamento ostativo che potesse provocare, anche indirettamente, un minimo ritardo nella conclusione delle operazioni militari.
In secondo luogo, deve già pensare al dopoguerra e a ricucire il tessuto ferito dell'Alleanza Atlantica e dell'Unione europea.
Inoltre, dobbiamo essere consapevoli che questa guerra impone nuovi doveri al semestre di Presidenza italiano: dobbiamo assolutamente evitare che si innestino processi involutivi che possano indebolire in modo irreversibile la coesione atlantica, l'integrazione europea, la solidarietà mondiale delle Nazioni Unite. Da domani, l'Italia deve impegnarsi per tessere una tela di nuove solidarietà e coesioni e per rendere effettivo il cambiamento annunciato nella politica americana in Medio Oriente. Queste sono le missioni che la Camera deve affidare al Governo.
Il Parlamento svolgerà il suo ruolo anche attraverso la sua attività internazionale ed i suoi rapporti con le altre Assemblee democratiche del mondo. Oggi, svolgerà un ruolo importante con il voto che ci apprestiamo ad esprimere: un voto di convinta e largamente condivisa adesione all'azione del Governo - che dirà agli Stati Uniti che non sono soli e che l'Italia non ha dimenticato quanto essi hanno fatto per la libertà dell'Europa - favorirà la tessitura di quei rinnovati rapporti di solidarietà tra gli europei e gli americani che, del resto, dobbiamo ricordarlo tutti, sono ancora il vero fondamento della pace e la vera forza delle democrazie.
Non posso concludere questo intervento di convinta adesione alla politica del Governo senza affrontare brevemente un problema che condivido con molti colleghi: la condizione di un cattolico che deve esprimere un voto in apparente contrasto con l'indicazione del Papa. Dico apparente contrasto perché il Papa non vuole, non può mai volere la guerra, ma non vuole neanche l'ingiustizia, l'oppressione, la persecuzione cui sono soggetti i cristiani del mondo. Se oggi esiste una fede martire nel mondo questa è la fede cristiana. Le persecuzioni finiscono quando arrivano le istituzioni democratiche nate in occidente, quando si afferma il ruolo della legge, quando fiorisce la libertà. Ho ricordato, all'inizio di questo intervento, Alcide De Gasperi; De Gasperi sapeva distinguere la sfera della fede da quella del giudizio politico. I cristiani, tutti, ma soprattutto quelli impegnati in politica, vivono la loro esperienza mondana e secolare sempre interrogandosi su che cosa è giusto fare per perseguire il bene comune.
Accade di essere posti di fronte a dilemmi che ci pongono problemi di conformità a dogmi di fede. Qualche mese fa questa Assemblea ha votato una legge sulla fecondazione assistita che ci ha posto di
fronte a dilemmi etici e di fede. Tutti sappiamo qual è stata la conclusione. Nel 1938 i cristiani d'Europa salutarono con sollievo e simpatia le decisioni che i Governi dell'epoca avevano preso a Monaco trovando un provvisorio accordo con Hitler, un anno dopo si pentirono amaramente. Ci sono casi in cui è difficile discernere il dover essere, altri casi in cui il corretto discernimento è estremamente difficile. L'esercizio responsabile della libertà di giudizio è connaturato all'essere cristiano e cattolico, che non può scegliere la via più facile, ma sempre quella che ritiene più giusta.
PRESIDENTE. Onorevole Pacini, la invito a concludere.
MARCELLO PACINI. Quindi, è con questa consapevolezza, che sente il senso drammatico della scelta difficile, che dichiaro la mia adesione all'azione del Governo volta a rinsaldare i legami con gli Stati Uniti, ad abbreviare la guerra, a costruire nuovi e più solidi rapporti di solidarietà europei ed americani, con la speranza che i morti in Iraq servano anche a mettere fine alla tragedia mediorientale, alle persecuzioni contro chiunque, in particolare contro i cristiani nel mondo e anche ad estendere l'area della democrazia e il ruolo della legge (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Costa. Ne ha facoltà.
RAFFAELE COSTA. Signor Presidente, colleghi, signor Vicepresidente del Consiglio, il clima molto teso di questi giorni non riguarda solo il nostro paese. Esso caratterizza tutto il mondo perché tutto il mondo soffre dinanzi ad un'ipotesi di guerra. Soffre il popolo che potrebbe essere colpito dalle bombe, soffrono i popoli e i paesi limitrofi, soffre la società internazionale nel suo complesso. Non dobbiamo stupirci quindi se la scelta crudele di risolvere i problemi della convivenza internazionale con le bombe dilania il mondo politico e parte anche o gran parte di quello civile.
Le passioni sono motivate, e ai sentimenti, anche quando sono accesi, non è facile imporre un freno. Dinanzi al dilemma vita o morte è difficile contenersi; di qui il riguardo dovuto a chi non la pensa come noi, a chi va in corteo, a chi fascia i balconi con l'arcobaleno, a chi lancia slogan, come a chi, dovendo governare, ha usato le armi della politica e della diplomazia.
Cari colleghi, cari giornalisti, cari opinionisti, ci vuole più rispetto reciproco delle idee e delle persone. Siamo dinanzi ad una tragedia che ciascuno vorrebbe vedere cancellata o almeno ridimensionata, che non va strumentalizzata né con i fischi né con gli applausi. Non è giusto usare la guerra per colpire il Governo, non è giusto usare la guerra per polemizzare fra o con i pacifisti che sostano nelle nostre piazze, eppure ho sentito taluni esponenti dell'opposizione usare pesantemente l'arma della guerra per screditare l'esecutivo e ho colto anche non poche parole di dileggio verso chi va in piazza per contestare le possibili bombe americane.
Nessuno di noi credo abbia certezze, tutti siamo attraversati dal dubbio: se Saddam abbia davvero ancora tante e tante armi chimiche e sia pronto ad usarle; se Bush punti davvero prevalentemente a vincere una guerra di rivincita; l'ONU è davvero uno strumento utile, non avendo dalla sua la coercizione? L'ONU è per il sì o per il no? Il dubbio attraversa le coscienze. È più facile affidarci allo schieramento politico, alle decisioni del proprio gruppo, che non decidere da soli, o forse è troppo presuntuoso decidere da soli, spinti dal proprio io, dalla propria mente, dai propri interessi, non dichiarati talvolta, talaltra latenti?
Il discorso del Presidente del Consiglio non ha avuto la pretesa di cancellare i dubbi, di dare certezze assolute; con l'affermazione sincera «vogliamo salvare la NATO» evidenzia uno stato di necessità; esso evidenzia la posizione non facile di un paese che deve scegliere se dire no, ni, o sì all'alleato di cinquant'anni, che potrebbe anche sbagliare (e io non intendo dare giudizi politici e tanto meno morali), o se cercare
di capire le ragioni nascenti da una ferita che la storia evidenzierà come eterna. Il Governo ha scelto la seconda via ed io non mi sento di dissentire.
È vero, non ho condiviso certe posizioni di ministri, dettate più dal ruolo che non dalla politica ma credo che il Governo abbia complessivamente interpretato le scelte possibili. Nel cuore ho portato la speranza che la guerra non si facesse, nella mente mi sono chiesto cosa potevo fare per impedire la guerra, mi sono sentito - chissà quanti come me - solo, e sovente, impotente. Le leggi che regolano speranze, illusioni e aspirazioni dell'uomo singolo non sempre sono quelle che disciplinano la politica, le relazioni e gli organismi internazionali; sovente c'è una diversificazione tra realismo politico ed ideali dei singoli anche quando diventano speranze collettive.
Come cittadini, come padri di famiglia, come liberali avremmo voluto fare di più; non ne siamo stati capaci o forse non si poteva fare di più. Non sono, dunque, a confronto possibili obiezioni di coscienza alternative al doveroso rispetto della coerenza di gruppo. Dinanzi a noi si apre il baratro dell'impotenza individuale e sovente collettiva, dell'impotenza di ciascuno e di tanti, se non di tutti. La nostra scelta pro ONU nasceva proprio di qui, dalla speranza che ci fosse qualcuno capace di rappresentare tutti, di far rispettare le regole agli Stati ed agli individui. L'ONU si è, nella sostanza, dissolto per volontà di pochi e per l'incapacità o l'ignavia di molti che non hanno saputo, negli anni, farne uno strumento efficace.
La volontà espressa dal Presidente del Consiglio di dare forza nuova alla NATO, all'Unione europea, allo stesso ONU non cancella la tragedia che si avvicina ma ci fa sperare che i giorni del dolore non siano più definitivi. Ho colto nel discorso del Capo del Governo un richiamo al senso di responsabilità cui intendo rispondere responsabilmente (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia - Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Baldi. Ne ha facoltà.
MONICA STEFANIA BALDI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, desidero anzitutto ringraziare il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ed il Governo per l'enorme lavoro diplomatico svolto e che continua a svolgere con i nostri alleati europei ed americani per trovare una soluzione pacifica alla crisi irachena. Il Governo ha tenuto questa linea pacifista attraverso la diplomazia, ha cercato, in tutti i modi, di evitare il peggio ed è con profondo rammarico che bisogna prendere atto della drammatica situazione che si è venuta a creare, ma è necessario, proprio in questi momenti, confermare la nostra lealtà nei confronti degli Stati Uniti ed essere solidali con chi cerca di combattere il terrorismo.
Personalmente, sono sempre stata fermamente convinta che bisogna fare tutto per evitare la guerra ed attuare la diplomazia preventiva. Abbiamo, da tempo, espresso le nostre più vive preoccupazioni sulle conseguenze di un attacco e l'occidente è sempre rimasto unito nel richiedere al regime iracheno il disarmo, da condurre a termine nei tempi più rapidi possibili, sulla base delle diverse risoluzioni approvate, all'unanimità, dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, come ribadito nella risoluzione n. 1441 del 2002 in cui si riconosce la minaccia che l'inadempienza dell'Iraq verso le risoluzioni del Consiglio e la proliferazione di armi di distruzione di massa e di missili a lunga gittata pongono per la pace e la sicurezza internazionali.
Anche questo ramo del Parlamento, il 19 febbraio ultimo scorso, ha approvato una mozione che impegnava il Governo a sostenere, presso tutti gli organismi internazionali e principalmente presso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l'ipotesi di un esilio del dittatore iracheno come richiesto da diversi Stati arabi e dallo stesso Presidente Bush anche se va ricordato che l'Italia fa parte del Consiglio di Sicurezza. Non si deve pensare che il dittatore iracheno si opponga ad un unica risoluzione delle Nazioni Unite; la risoluzione n.1441 va letta nel contesto più ampio di questi ultimi 12 anni.
Saddam Hussein non ha mai rispettato alcun impegno assunto nei confronti della comunità internazionale! Il Governo iracheno non ha rispettato i suoi impegni nei confronti del terrorismo, ai sensi della risoluzione n. 687 del 1991; non ha rispettato l'impegno a porre fine alla repressione della propria popolazione civile, ai sensi della risoluzione n. 688 del 1991; non ha rispettato neanche l'impegno di restituire i cittadini del Kuwait ed i loro beni, entrambi illegalmente detenuti ai sensi delle risoluzioni n. 686, n. 687 e n. 1284. Questi fatti dimostrano che la strada della diplomazia non ha alcuna possibilità di successo nei confronti di un tale dittatore che ha iniziato a collaborare con gli ispettori solo quando ha saputo di avere l'esercito americano alle porte.
L'Italia, in questo momento, ha un compito preciso: rispettare gli accordi ed i trattati internazionali firmati da tempo, specie nei confronti della NATO e dell'Unione europea che, ancora una volta, si presenta debole nel quadro della politica internazionale e dimostra di non avere ancora una reale politica estera e di sicurezza comune. Proprio alla luce di questi accordi internazionali è necessario dimostrare la nostra lealtà e sincerità, come sono certa faranno anche Germania e Francia, ed accordare, come richiesto, l'uso delle basi militari, dando solo un supporto logistico senza inviare contingenti militari.
Bisognerebbe, con responsabilità, abbassare il tono della polemica e non ridurre a questioni di politica interna ciò che riguarda la politica internazionale. Bisognerebbe trovare insieme la strada per restituire la legittimità alle istituzioni internazionali che esistono da più di cinquant'anni e non fare il gioco di Saddam Hussein che da 12 anni, con il suo atteggiamento, violando tutte le risoluzioni delle Nazioni Unite, disattendendo le molteplici riunioni delle commissioni create ad hoc per risolvere i problemi rimasti irrisolti nella guerra del Golfo, ha il preciso intento di destabilizzare la comunità internazionale.
È importante ricordare che la cooperazione tra l'Europa e gli Stati Uniti ha garantito pace e libertà nel nostro continente ed in altre parti del mondo e che le relazioni tra le due sponde dell'Atlantico non devono rimanere vittime dei persistenti tentativi dell'attuale regime iracheno di minacciare la sicurezza mondiale.
Il mio pensiero va ora ai circa 200 italiani rimasti, anche se mi risulta dall'ambasciata italiana in Kuwait che si sta attuando un forte piano di sicurezza, munendo i nostri connazionali di mezzi di sopravvivenza, compresa la realizzazione di rifugi sigillati nelle proprie abitazioni, e prevedendo un piano di evacuazione di emergenza via terra e via mare. Il mio pensiero, in questo momento, va però anche ai bambini iracheni: esso è colmo di speranza per il loro futuro, un futuro in cui non vi sia né antrace né fame ed in cui non debbano più subire la perdita di un genitore ucciso ingiustamente (Applausi dei deputati dei gruppi di Forza Italia e di Alleanza nazionale).
Signor Presidente, chiedo l'autorizzazione alla pubblicazione in calce al resoconto stenografico della seduta odierna delle considerazioni integrative al mio intervento.
PRESIDENTE. Onorevole Baldi, la Presidenza l'autorizza sulla base dei consueti criteri.
È iscritto parlare l'onorevole Pistelli. Ne ha facoltà.
LAPO PISTELLI. Signor Presidente, siamo arrivati all'attuale situazione attraverso un percorso difficile e tortuoso, figlio di questo nuovo disordine internazionale. Abbiamo espresso la nostra solidarietà agli Stati Uniti dopo l'11 settembre ed abbiamo partecipato alla grande coalizione contro il terrorismo (Enduring freedom), assumendoci responsabilità militari in Afghanistan; abbiamo condannato, e non da oggi, il regime di Saddam Hussein, e tutti i regimi autocratici capaci di rappresentare una minaccia per la stabilità delle relazioni internazionali; abbiamo cercato, con ogni mezzo, di aiutare a costruire una posizione
comune in Europa e tra l'Europa e gli Stati Uniti dentro il quadro delle Nazioni Unite e riteniamo la dottrina dell'azione preventiva un tragico errore.
Riteniamo l'imminente guerra in Iraq un tragico sbaglio in sé, per le sue conseguenze immediate (la guerra non è un film, come sanno le generazioni che ne hanno memoria diretta, e come sa il Pontefice, che ha accentrato su tale tema il suo ultimo, drammatico appello) e per le sue conseguenze di lungo periodo. Dalla possibilità di costruire un nuovo e migliore ordine internazionale all'indomani della tragedia del crollo delle Twin Towers ci siamo avvitati in una crisi che ci pone davanti ad un scenario ignoto e terribile.
Cito testualmente: «alla Gran Bretagna si chiede di imbarcarsi in una guerra che non riscuote l'approvazione di alcuno degli organismi internazionali in cui rivestiamo un ruolo di primissimo piano. Venirsi a trovare in una posizione di tale isolamento diplomatico significa aver compiuto un grande passo indietro. Solo un anno fa, noi e gli Stati Uniti eravamo parti di una coalizione così larga e differenziata da essere inimmaginabile prima. La storia resterà attonita davanti ai gravissimi errori diplomatici che hanno condotto così rapidamente alla disintegrazione di una coalizione così potente. La Gran Bretagna non è una superpotenza: per tale motivo non sarà un'iniziativa unilaterale a tutelare al meglio i nostri interessi, bensì un accordo multilaterale ed un ordine mondiale subordinato a precise regole. Eppure, oggi, le partnership internazionali per noi più importanti risultano indebolite. Sono questi gli effetti disastrosi di una guerra di cui non è stato ancora sparato il primo colpo». Come capite, sono le parole pronunciate ieri dal dimissionario Robin Cook alla Camera dei comuni. Non certo per un criterio di vicinanza politica direi che non ho altro da aggiungere, se non sostituire il termine «Gran Bretagna» con la parola «Italia».
Vorrei, invece, aggiungere altre considerazioni. Noi siamo quelli che, più di altri, in questi sette mesi, hanno battuto ripetutamente sul tema «Nazioni Unite e Unione europea», sottolineando in ogni circostanza che la costruzione di un sistema di regole valide per disciplinare la questione irachena e per prevenire nuovi conflitti era la priorità assoluta. Lo abbiamo detto poiché ciò che ci spaventava e ci spaventa di più del disordine mondiale imminente è l'assenza di un disegno e di una bussola per poterci orientare. Lo abbiamo detto poiché in un mondo in cui ciascuno, grande o piccolo che sia, crea la propria regola, stabilisce i propri obiettivi ed interessi ed agisce di conseguenza, è un mondo drammaticamente più insicuro.
Allora, oggi dobbiamo tirare le conseguenze di quell'impostazione e, pertanto, argomenterò rapidamente due conseguenze ed un giudizio politico. In primo luogo, questo intervento avviene fuori dal quadro della legalità internazionale; questo intervento non si svolge sotto l'egida delle Nazioni Unite. Gli Stati Uniti hanno ritirato un'ipotesi di seconda risoluzione al Consiglio di Sicurezza non solo poiché andavano incontro ad un probabile uso congiunto del diritto di veto da parte della Francia e, forse, di Russia e Cina, ma anche poiché non sono stati in grado, pur ricorrendo al soft power della persuasione diplomatica, di traghettare la maggioranza dei membri del Consiglio. I paragrafi 4 ed 11 della risoluzione n. 1441 imponevano un secondo passaggio davanti al Consiglio di Sicurezza (basta leggerli).
Pertanto, quando il Presidente del Consiglio ci viene a raccontare che la risoluzione n. 1441 è in sé sufficiente e, meno che mai, cerca dimostrarci che la base di legittimazione può essere rinvenuta nella violazione del cessate il fuoco di 12 anni fa, siamo al ridicolo: dopo il Presidente operaio ci toccherebbe pure il Presidente Segretario generale delle Nazioni Unite che ci fornisce l'interpretazione autentica di ciò che si fa al Palazzo di vetro.
Questo intervento non è deciso all'interno della cornice Nato, che non ha stabilito alcunché nel suo Consiglio. Questo intervento non è sostenuto ed approvato politicamente dall'Unione europea, che lo ha contestato a larga maggioranza nel Parlamento europeo e che si è divisa
aspramente a livello del Consiglio europeo. Questo intervento non è necessitato da alcuna emergenza o catastrofe imminente.
L'ultimatum lanciato dalle Azzorre al regime di Saddam disvela ufficialmente un obiettivo, il cambio di regime, che non è contemplato in alcun documento degli organismi internazionali, interrompe il processo di distruzione degli armamenti avviato con successo dagli ispettori, avvita la comunità internazionale in una difficile crisi di rapporti, poiché quando la potenza divorzia dalla saggezza, il mondo non ha niente di buono da attendersi.
Dunque, lo ripeto, siamo davanti ad un intervento militare privo di legittimità giuridica internazionale. Da questa prima conseguenza ne discende automaticamente una seconda: l'articolo 11 della nostra Costituzione, in lettura congiunta con i principali strumenti pattizi di cui il nostro paese è parte (Carta delle Nazioni Unite e Trattati europei), stabilisce i confini non opinabili all'interno dei quali un Governo e un Parlamento possono muoversi.
Siamo consapevoli che, qualora l'ONU avesse approvato un intervento militare contro l'Iraq, si sarebbe aperto un dibattito complesso sul merito della questione, sulla giustezza e sull'opportunità politica e geostrategica di un intervento militare, che sarebbe stato, però, legittimo sul piano del diritto.
Inoltre, perché resti agli atti di questa Camera, quando giudicheremo il lavoro della Convenzione europea, siamo tra coloro che non protesterebbero se tutti insieme decidessimo di condividere questa sfera della sovranità nazionale a livello comunitario, adottando procedure e strumenti cogenti nell'adozione di una politica estera di difesa comune europea. Non ci stracceremmo le vesti nemmeno in quei casi in cui fossimo eventuale minoranza, poiché le grandi costruzioni sono fatte anche di rinunce. Tuttavia, così non è stato.
Allora, quell'articolo 11 che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie e che accetta limitazioni solo in condizioni di parità e se provenienti dagli organismi internazionali che ho richiamato, ci proibisce di fornire ogni supporto politico, militare e logistico a questa guerra.
Signor Presidente del Consiglio, lei poteva dire «no» alla guerra e «sì» alle basi, come hanno fatto Francia e Germania sulla base di diversi accordi bilaterali; poteva dire «sì» alla guerra e «sì» alle basi, come hanno deciso altri. Noi volevamo sentirle dire «no» alla guerra e «no» alle basi. Invece, lei ci ha detto, con grondante retorica, «sì» alla guerra, ma poi ci ha detto «boh» alle basi, dato che ha dovuto o ha finto di dover tener conto dei vincoli che le sono stati posti.
Ci siamo affidati ad un sistema di regole nazionali ed internazionali anche laddove queste ci avessero costretto ad una difficile scelta. Oggi, però, siamo qui a trarne tutte le conseguenze ed invitiamo il Governo a fare la stessa cosa. La lettura completa dell'articolo 11 è un argomento tanto semplice quanto privo di eccezioni possibili.
PRESIDENTE. Onorevole Pistelli...
LAPO PISTELLI. Termino con un giudizio politico inevitabilmente aspro. In un tempo in cui tutto cambia non è detto a priori che la continuità della politica estera sia un valore in sé. La bontà di una scelta di continuità va argomentata, così come va argomentato un cambio di impostazione. Riteniamo che la conduzione della politica internazionale del nostro paese sia stata di livello bassissimo non solo per le scelte di merito compiute fin da prima dell'inizio formale di questa crisi che hanno - altro che continuità! - rotto un filo durato cinquant'anni, ma per un metodo che non esito a definire indecente. Il Presidente del Consiglio lo ha confermato anche stamani con un intervento stupidamente aggressivo verso l'opposizione e di un livello francamente imbarazzante, stretto fra le conversioni recenti di Alleanza nazionale, l'euroscetticismo della Lega, l'eurocontinuità dell'UDC...
PRESIDENTE. Onorevole Pistelli, deve veramente concludere.
LAPO PISTELLI. Il Governo ha perseguito una linea che è andata avanti ed indietro con una sequela di furbizie, mezze ammissioni, slanci in avanti corretti da corrucciate preoccupazioni. Sarebbero basate altre due porte, signor Presidente, e saremmo stati davanti ad un perfetto ma tragico tracciato di slalom speciale.
Siamo contrari a questa guerra che era ingiusta ed oggi è pure illegittima. Perciò, chiediamo al Governo di non fornire supporti politici, militari e logistici che coinvolgano il nostro paese in un'avventura sbagliata e pericolosa (Applausi dei deputati dei gruppi della Margherita, DL-l'Ulivo e dei Democratici di sinistra-l'Ulivo - Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Fiori. Ne ha facoltà. Onorevole Fiori, le ricordo che parla a titolo personale, quindi le raccomando il rispetto dei tempi.
PUBLIO FIORI. Signor Presidente, quando l'azione politica, come in questo caso, incrocia principi etici e morali così rilevanti, la responsabilità dei cattolici impegnati in politica si fa più alta e più forte. Bisogna scegliere perché, al di là del consueto tergiversare di carattere politico, in questo caso ci si deve collocare.
Non voglio assolutamente esprimere giudizi, non voglio giudicare i comportamenti di altri colleghi, anche loro di ispirazione cattolica, che prenderanno altre strade. Voglio soltanto spiegare il motivo del mio dissenso e perché questa comunicazione del Governo non potrà avere il mio consenso.
Non condivido il tema centrale della comunicazione, cioè che la guerra sarebbe legittima. Lo hanno detto in tanti, li ho studiati anch'io i riferimenti legislativi di diritto internazionale e costituzionale sono evidenti. Non è questa la strada sulla quale ci possiamo mettere per un dibattito da TAR o da ex pretura. Non ci siamo: i termini indicati testimoniano il contrario. Quindi, non mi intratterrò, anche per il breve tempo a disposizione, su questo argomento. Però, vorrei far rilevare alcune contraddizioni emerse che rappresentano la vera caratteristica di questa comunicazione.
Il Presidente ha detto che il vecchio Segretario generale dell'ONU, in relazione alle vicende del 1993, disse che quella deliberazione del Consiglio di Sicurezza era legittima e poteva portare alla guerra. Tuttavia, l'attuale Segretario generale dell'ONU ha detto il contrario. Il Presidente ha detto che la guerra è legittima. Allora, se la guerra è legittima, l'Italia avrebbe avuto il dovere di mandare i suoi uomini o, quanto meno, di dare le proprie basi. Non si capisce come sia possibile pensare che la guerra sia legittima senza, poi, dare le basi per farla.
PRESIDENTE. Onorevole Fiori...
PUBLIO FIORI. Concludo, signor Presidente.
Quindi, pur apprezzando lo sforzo che il Governo ha fatto per mediare situazioni e problemi interni, ritengo che la conclusione in una materia così rilevante non possa essere approvata.
Vorrei svolgere un'ultima considerazione. Si richiama continuamente l'amicizia dell'Italia con gli Stati Uniti. Avevo portato un testo che naturalmente non posso leggere: il De Amicitia di Cicerone.
PRESIDENTE. Al momento in cui esso fu scritto non c'erano gli Stati Uniti.
PUBLIO FIORI. Tuttavia, credo mantenga attualità, signor Presidente. Anzi, vorrei fare un omaggio di tale testo al Presidente del Consiglio in duplice copia perché ne possa dare una anche al suo amico Bush.
In sostanza, e concludo, dice Cicerone (e credo sia valido): l'amicizia non è una solidarietà che nasce comunque, altrimenti acquisterebbe anche altri nomi meno nobili. L'amicizia si deve basare su alcuni valori di riferimento, su alcune virtù e quindi non si può invocare quando invece si intraprende una strada che con i grandi valori e le grandi virtù ha poco a che fare (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici
di sinistra-l'Ulivo, della Margherita, DL-l'Ulivo, di Rifondazione comunista e Misto-Comunisti italiani).
ELETTRA DEIANA. Bravo Fiori!
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Gambale. Ne ha facoltà.
GIUSEPPE GAMBALE. Signor Presidente, signori del Governo, onorevoli colleghi, la guerra è sempre una sconfitta ed è soprattutto una sconfitta per la politica: è il fallimento della politica e della diplomazia (e vorrei che almeno questo oggi potessimo condividerlo tutti, al di là delle battute del Presidente del Consiglio). Giovanni XXIII, quarant'anni fa (non oggi, ma quarant'anni fa!), nella Pacem in terris diceva: la situazione internazionale ci presenta oggi uno scenario in cui è sempre più chiaro che l'indipendenza di un popolo deve sempre più essere coniugata assieme all'interdipendenza (direi di più all'intercomunione). Mai come in questo momento, signori del Governo, sarebbe stata necessaria una politica capace di mettere in campo sforzi creativi, proporzionati ai pericoli che minacciano la pace. Sarebbe stato necessario il coraggio di uscire dalle strade che fino ad oggi abbiamo percorso, il coraggio di uscire da una politica parziale e dall'orizzonte ristretto. Non lo abbiamo fatto: non l'ha fatto l'Italia, non c'è riuscita l'Europa. Ma è un fallimento innanzitutto per Bush e per l'America. Il capogruppo al Senato del Partito democratico americano, Tom Daschle, dice che è molto rattristato che questo Presidente abbia così miseramente fallito nell'azione diplomatica, da essere costretti ora alla guerra.
Anche l'ondata di proteste sollevatasi in tutto il mondo avrebbe dovuto far riflettere. Centinaia di migliaia di persone si sono mobilitate per dire alla politica di svolgere il proprio ruolo. Riflettete sul fatto che l'Amministrazione Bush, grazie alla sua scriteriata politica - qualcuno la definisce meglio «impolitica» -, è riuscita a trasformare l'afflato mondiale sorto dopo l'11 settembre in una clamorosa politica di splendido isolamento, in nome della predominanza che ha sostituito la politica della deterrenza. Questo non lo diciamo noi, ma i più grandi giornali americani. Su The New York Times di qualche giorno fa il noto commentatore Thomas L. Friedman dice che negli ultimi tempi quasi ogni discorso di Bush ha sollevato il tema della paura e del pessimismo armato. Avremmo bisogno, dice Friedman, di meno John Wayne e di più John Kennedy; dovremmo esportare le nostre speranze, non le nostre paure. Aggiungiamo noi: dovreste dare una speranza al mondo, specie quello dimenticato, come in Africa ad esempio.
La guerra costerà 150 miliardi di dollari e la presunta pace che ne deriverà costerà ancora di più. Ma il costo reale è quello invisibile: quello delle vite umane sconosciute che saranno immolate e quello di un sistema internazionale virtualmente distrutto. Una diplomazia fallita, il vertice dell'isolamento: questo dicono i giornali americani riferendosi al summit di Bush, Blair e Aznar nelle Azzorre. Questa guerra, signori del Governo, nasce da lontano (e non è purtroppo dietrologia, ma sono i fatti che parlano). La logica che ha spinto all'azione gli Stati Uniti è ben rappresentata in un articolo del gennaio-febbraio 2000 (un anno e mezzo prima dell'attentato alle torri gemelle) sul Foreign Affairs dalla Rice, consulente per la sicurezza nazionale. La Rice scrive che la prontezza militare è prioritaria, che l'amministrazione agirà sulla base dell'interesse nazionale e non certo in nome di un'illusoria comunità internazionale e che fra le priorità vi dovrà essere quella di mettere in campo tutti i mezzi per rimuovere Saddam Hussein dal potere. Cronaca di una guerra annunciata: altro che terrorismo internazionale, disarmo forzato (come ha detto Berlusconi), democrazia e liberazione per il popolo iracheno, pace in Medio Oriente e chi più ne ha più ne metta (compresa qualche inopportuna e inadeguata citazione del Papa)!
Bush parla in termini pericolosamente messianici della missione di liberare il popolo iracheno e di diffondere l'esempio
della democrazia in tutto il Medio Oriente, per dare una lezione che serva da modello a tutti i dittatori e che apra trionfalmente le porte alla democrazia. Il pensiero corre ai regimi amici del Pakistan, dell'Arabia Saudita e mi viene in mente una distinzione fatta negli anni settanta dagli stessi americani che classificavano i regimi illiberali a seconda della vicinanza politica a Washington: come autoritari quelli filoamericani o come dittatoriali quelli antiamericani.
È incredibile la fede nella virtù della forza che questa amministrazione ha. È proprio vero - ministro Buttiglione - quanto ha affermato la Santa Sede, vale a dire che l'alternativa rischia di essere tra la forza del diritto e il diritto della forza.
Ho la sgradevole sensazione di un vero e proprio fideismo, occidentalismo dogmatico - per non dire integralista - e mi chiedo come abbia potuto la land of free giungere a tali posizioni.
L'ultimo discorso di Bush, se l'avete sentito - e credo che, purtroppo, molti di noi l'abbiano sentito -, è fatto di 15 minuti di ingiunzioni e sostituzioni: ingiunzioni agli ispettori, ai giornalisti, ai cittadini americani di lasciare subito il paese e quelli dell'area interessata; ingiunzioni a Saddam Hussein e ai figli di esiliarsi; ingiunzioni ai militari iracheni di arrendersi senza combattere; sostituzione degli Stati Uniti a qualunque altra autorità internazionale. Dunque, come dicono alcuni commenti, la decisione di guerra altera le relazioni tra Stati Uniti e Nazioni Unite per sempre.
Si creano due circuiti: uno fatto di alleanze mirate, l'altro di impegni istituzionali generali. Sta prevalendo - lo ripeto - il diritto della forza e non la forza del diritto, si sta compromettendo la legalità internazionale, si è indebolita l'ONU, mettendo a grande rischio un'istituzione che, pur tra tante difficoltà e limiti, in questi anni è stata punto di riferimento per la pace e l'ordine internazionale, si è affermata la logica della guerra preventiva e - più grave ancora - l'alleanza dei buoni contro i cattivi.
Non potremo mai accettare un ordine internazionale dettato da chicchessia, dal più forte o da chi si arroga il potere di decidere per gli altri e per tutti.
L'onorevole Igino Giordani, deputato della Costituente, nel suo libro L'inutilità della guerra, già nel 1952, ci metteva in guardia rispetto al pericolo sempre presente del fanatismo, affermando che sta rinascendo, soprattutto nella letteratura politica, una sorta di manicheismo, il quale scomparte uomini e idee, epoche ed eventi, economia e geografia in due schieramenti, uno del bene e l'altro del male, con in mezzo un fossato invalicabile: da una parte sono messe tutte le ragioni, dall'altra tutti i torti. È l'antitesi asserita nella stampa e nei discorsi con una decisione drastica e un accento perentorio, un vero fanatismo acritico che reclama scelte definitive e non consente flessioni. Da esso si svolge un canone etico di vita pubblica e privata che si può semplificare così: o con noi o contro di noi e chi non è con noi va eliminato.
Presidente, a questo non ci stiamo e continueremo a lavorare per la pace sulle macerie che questa guerra lascerà a livello politico e istituzionale.
Chiedo alla Presidenza l'autorizzazione alla pubblicazione in calce al resoconto stenografico della seduta odierna di considerazioni integrative del mio intervento (Applausi dei deputati dei gruppi della Margherita, DL-l'Ulivo, dei Democratici di sinistra-l'Ulivo e Misto-Comunisti italiani).
PRESIDENTE. La Presidenza la autorizza sulla base dei consueti criteri.
Constato l'assenza dell'onorevole Rivolta, iscritto a parlare: si intende che vi abbia rinunciato.
È iscritto a parlare l'onorevole Guido Giuseppe Rossi. Ne ha facoltà.
GUIDO GIUSEPPE ROSSI. Signor Presidente, la crisi irachena è solo un capitolo, per quanto importante, del processo di formazione di un nuovo sistema internazionale la cui ombra già si proietta oltre la crisi. In tale contesto era perciò inevitabile che le ragioni a favore della pace o
della guerra, come scelte morali, finissero col dissolversi nell'utopia e che a guidare i governi fossero quelle della ragion di Stato. Forse, non è un caso che dai balconi delle case francesi non penda una sola bandiera della pace.
Ho citato un pezzo di un editoriale comparso su un importantissimo quotidiano nazionale che ci dà il senso di come, in questo paese, non si sia capaci di affrontare i temi della politica internazionale. Temi che, in tutti gli altri paesi, vengono affrontati dal punto di vista della Realpolitik e della ragion di Stato.
Abbiamo già detto della Francia che, in tutta questa vicenda, si è tenuta ben alla larga da utopie pacifiste e ha seguito una politica di puro interesse nazionale, amplificando un diritto di veto alle Nazioni Unite assolutamente antistorico e anacronistico che sopravvaluta il reale peso politico, economico e militare di una media potenza europea quale la Francia.
Un altro obiettivo molto chiaro dei cugini transalpini è, ovviamente, quello di continuare a portare avanti una egemonia all'interno dell'Unione europea. E sappiamo che questo non è il modello di Unione europea democratica e partecipativa al quale devono tendere tutti gli Stati e tutti i popoli dell'Europa.
Poi abbiamo visto come questa deriva pacifista non sfiori minimamente il Governo francese che ha già detto che, nel caso in cui Saddam Hussein dovesse usare armi chimiche o di distruzione di massa, parteciperà al conflitto militare ammettendo, da un certo punto di vista, il fatto che Saddam Hussein possegga tali tipi di armi.
Della Gran Bretagna conosciamo molto bene le ambizioni e le strategie non di superpotenza, come è stato detto, ma sicuramente di potenza politica e militare mondiale. La Spagna ha fatto una scelta e ha cercato di ricostruire un asse con la Gran Bretagna, memore anche dell'antico passato atlantico, tentando - anche qui - di uscire dalla tenaglia dell'egemonia francotedesca. La stessa Germania, dopo l'ubriacatura elettorale di Schröeder che ha consentito di vincere le elezioni per pochi voti, sta facendo marcia indietro dal punto di vista pratico, tant'è che non viene minimamente messa in discussione la possibilità di concedere agli Stati Uniti basi, spazi aerei, infrastrutture e quant'altro per l'azione in Iraq. La Turchia sta attraversando una fase di turbolenza interna ma, anche in questo caso, si arriverà ad una esplicitazione della ragion di Stato, con la Turchia che vuole esercitare un ruolo di potenza regionale nell'area. I paesi dell'est hanno rifiutato lo strapotere e l'egemonia della Francia, dicendo: ci avete chiamato all'interno dell'Unione europea e vogliamo avere una posizione autonoma. Qualcuno gli ha spiegato che non potevano avere una posizione autonoma, qualcuno ha pensato che questi paesi, forse, potessero e dovessero avere soltanto un ruolo di comprimari all'interno dell'Unione europea. Ma questa non è una visione democratica dell'Unione europea. Anche il Belgio sta tornando su posizioni realistiche, tant'è che il Premier belga ha richiamato all'ovile - se così si può dire - le posizioni dell'estemporaneo e bizzarro ministro degli esteri Michel. Gli unici neutrali sono gli austriaci. Si tratta di un paese tradizionalmente neutrale, all'interno del quale ha un peso politico il ben conosciuto Jörg Haider. Ricordiamo come, un po' di tempo fa, l'Ulivo italiano ed europeo avesse scatenato la guerra santa contro l'Austria, accusata di violare i diritti umani all'interno dell'Unione europea. Vedo che adesso l'Ulivo è schierato sulle posizioni austriache e, dunque, anche sulle posizioni Jörg Haider.
Ho ricordato tutto ciò, per ribadire che non esiste paese, a prescindere dalla posizione di contrarietà, di perplessità e di appoggio tenuto nel corso della diplomatica e politica, che rifiuterà l'uso delle basi agli Stati Uniti. Dunque, chiedere che non vengano concesse le basi, come fa la risoluzione n. 6-00056 firmata dall'intero l'Ulivo - questo «sì», è un momento di unità politica; devo ammettere che si è arrivati all'unità politica all'interno dell'Ulivo -, oggettivamente significa che questa richiesta è funzionale al regime di Saddam e al suo tentativo disperato di
difesa. E questo deve essere detto, perché non esiste alcun motivo di ordine geopolitico, diplomatico, giuridico internazionale e di interesse nazionale - aggiungiamo noi - per non concedere le basi agli angloamericani. Esiste, invece, un interesse tutto nazionale, tutto provinciale, tutto partigiano da parte dell'Ulivo, - lo ripeto - a prescindere dall'interesse nazionale: in altre parole, si tratta di una nuova arma per colpire il Governo Berlusconi, da mettere nel calderone delle accuse con la RAI, con l'articolo 18, con i fatti di Genova, con la giustizia, a prescindere dalla situazione internazionale.
In conclusione, noi deputati del gruppo della Lega nord Padania, rivolgendoci ai cittadini di questo paese, diciamo che si può discutere e si deve discutere, anche con spirito critico, su come dovrà essere il mondo di domani. Probabilmente, si tratterà di un mondo che dovrà trovare nuovi meccanismi di multipolarità e non potrà accettare sicuramente un ruolo egemone da parte degli Stati Uniti. Questa è la grande missione dell'Unione europea. Su questo si può discutere. Su questo si può essere d'accordo. Ma, sicuramente, non si può discutere, come fa l'opposizione di questo paese, su decisioni come quella di non concedere le basi, che, in ultima istanza, non farebbero che renderci complici di dittatori sanguinari come Saddam Hussein (Applausi dei deputati del gruppo della Lega nord Padania).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Folena. Ne ha facoltà.
PIETRO FOLENA. Signor Presidente, oggi, la migliore risposta allo strappo costituzionale, politico e perfino morale, rispetto alle parole del pontefice, provocato dal Presidente del Consiglio con l'adesione alla coalizione guidata dagli Stati Uniti che si appresta a scatenare una guerra unilaterale e illegittima contro l'Iraq, viene dal documento comune sottoscritto dall'Ulivo e da Rifondazione comunista.
Alla stragrande maggioranza degli italiani che sono contro la guerra - tantissimi dei quali sono vostri elettori, colleghi della maggioranza, cittadini lontani dalla sinistra - oggi con poche, nette e semplici parole parla questo nostro documento e dice con precisione cosa il centrosinistra avrebbe fatto se fosse stato al Governo: l'Italia, nel solco del suo europeismo, sarebbe stata al fianco della Francia e della Germania.
È stato umiliante per noi parlamentari della Repubblica dover apprendere da Colin Powell - attraverso una notizia ANSA battuta alle 18.03 di ieri - che l'Italia fa parte di quella che con un certo cinismo è stata chiamata «coalizione dei volenterosi». È stato umiliante per il Parlamento e la nazione, visto che poche ore prima il ministro Giovanardi, davanti alle Commissioni esteri riunite, aveva letto i mattinali delle questure di Pisa e di Vicenza sulle proteste dei pacifisti e comunicato, per la verità con quattro anni di ritardo, la posizione critica dell'attuale Governo non su questa guerra ma su quella del 1999 in Kosovo (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-l'Ulivo e della Margherita, DL-l'Ulivo).
Quindi, anche l'onorevole Berlusconi è un volenteroso: da ieri pomeriggio, ore 18.03. Sinceramente, l'avevamo sospettato, malgrado il fatto che volando a Mosca si fosse sforzato di dire a Putin che era perfettamente d'accordo con lui. Un volenteroso, s'intende, della serie «armiamoci e partite», ma pur sempre un volenteroso.
Questa guerra con l'appoggio dell'Italia avrà conseguenze drammatiche. Accanto alle migliaia di vittime e alla distruzione determinata dalla tempesta di tremila missili che si sta per abbattere sull'Iraq, questa guerra alimenterà nuovo terrorismo, nuova violenza, nuova insicurezza e nuove guerre. La vicenda di Israele e della Palestina - violenza e terrorismo, guerra e kamikaze - lo dimostra tragicamente. Questa guerra ecciterà uno scontro di civiltà ed una contrapposizione drammatica fra una parte, solo una parte ma importante, del mondo occidentale ed il mondo islamico, e poi il mondo cinese e quello indiano e quello africano e quello latino-americano: una contrapposizione
che sarà vissuta dai poveri, dagli ultimi, dai diseredati del pianeta, come una guerra dell'egoismo e del privilegio, come una guerra del petrolio, di un certo stile di vita consumistico e di questo modello di sviluppo non sostenibile.
Sia chiaro, diciamo questo in nome della più radicale opposizione al dittatore Saddam e a tutti i dittatori: dopo l'11 settembre - lo si doveva già capire dopo il 1989 - è finito il tempo di ogni relativismo etico; è la doppiezza dei ricchi e dei forti del mondo ad aver foraggiato in tutti i continenti i dittatori e la sistematica violazione dei diritti umani. Quei gas all'Iraq sono stati forniti all'inizio degli anni ottanta dall'Occidente nella guerra contro Khomeini, ma quanti gas e quante armi di distruzione vengono fabbricate e fornite per ragioni di potenza ancora oggi in ogni parte del mondo? Nessuno di noi, per esempio, solidale con la causa del Tibet, immagina di risolvere questa causa con la guerra alla Cina. I diritti umani non si affermano con le bombe e con i cannoni, ma con l'azione economica, politica e diplomatica, con gli ispettori che stavano ottenendo in Iraq risultati crescenti e documentabili e che sono andati via ieri da Bagdad. Un sostegno attivo alla Corte penale internazionale, boicottata dagli Stati Uniti e da altre grandi potenze.
Senza doversi per forza dichiarare gandhiani, dobbiamo sapere che, nell'epoca contemporanea, i mezzi determinano il fine, spesso coincidono con il fine e la prima violazione dei diritti umani è la guerra: sono le vittime civili. È stato detto recentemente dall'onorevole Mussi che questa è una guerra costituente di un nuovo assetto del mondo. Brzezinski, recentemente, criticando gli errori di Bush, ha parlato di un riallineamento strategico planetario provocato da questa guerra. È, nella sua ispirazione, una guerra mondiale e lo può perfino tragicamente diventare nel suo sviluppo.
Questa guerra globale, oggi nel teatro iracheno, viene condotta, senza e contro l'ONU, da una coalizione di paesi che rappresentano il 15,6 per cento della popolazione mondiale: 946 milioni di abitanti. Con il Giappone, che ha dichiarato che parteciperà solo al dopoguerra, il 17,6 per cento, una minoranza.
A questi trenta volenterosi, fra cui l'Italia, si aggiunge una figura inedita nel panorama internazionale, quella dei quindici paesi «incappucciati» dall'anonimato perché, di fronte alle loro opinioni pubbliche, si vergognano di ammettere il sostegno interessato a posizioni non difendibili: non sappiamo se, fino a ieri pomeriggio, anche l'onorevole Berlusconi avesse l'ambizione di essere in questa specialissima lista. Avrebbe, tuttavia, potuto risparmiarci la rimasticatura dell'inutile tentativo fatto ieri da Blair di dimostrare la legittimità di questo intervento. Berlusconi ha fatto riferimento al combinato disposto delle risoluzioni n. 687, che avviò la guerra del 1991, n. 678, che la sospese, e n. 1441.
Ci ha spiegato che è d'accordo con Boutros Ghali, che però, purtroppo, non è il Segretario generale delle Nazioni Unite perché si chiama Kofi Annan e quest'ultimo ha detto che questa guerra non è legittima. A parte che per ridare vigore ad una risoluzione sospesa dal Consiglio di sicurezza occorreva un'altra risoluzione - stiamo parlando di bombardamenti ad obiettivi militari nel 1993 e nel 1998, quest'ultimi criticati, peraltro, dall'Italia e da larga parte dell'Europa perché unilaterali - e non certo un'invasione di un paese che non fu compiuta neppure nel 1991 perché neanche allora era autorizzata dalle Nazioni Unite, se è vero che la coalizione non entrò a Bagdad. La risoluzione n. 1441 - che non autorizza né i bombardamenti né tantomeno un'invasione - non contempla in alcun modo l'obiettivo dell'esilio di Saddam e dei suoi familiari, cuore dell'ultimatum di 48 ore dato da Bush nella notte fra il 17 e il 18 marzo.
Del resto, come ha notato poco fa l'onorevole Fiori, se questa guerra è legittima, come dice Berlusconi, addirittura la prosecuzione dal punto di vista giuridico di quella del 1991, perché l'Italia non vi partecipa direttamente, come fece, invece,
con la posizione anche allora contrastata e non popolare ma decisa con fermezza, con dignità e con coraggio?
La verità è una sola: questa guerra è illegittima e colpisce le Nazioni Unite. Del resto, lo ha detto anche Berlusconi il 27 febbraio quando ha affermato che l'azione militare di un paese al di fuori delle Nazioni Unite sarebbe un fatto talmente nefasto che nessuno si sarebbe caricato di una responsabilità così grave (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-l'Ulivo).
Quattro paesi del Consiglio di Sicurezza fanno parte della lista dei trenta ed è nel fatto che erano 4 su 15, onorevole Frattini, la ragione - prima che nella giusta, sacrosanta (dobbiamo ringraziare la Francia per questa posizione) e ferma decisione francese e russa di votare contro il progetto degli Usa e della Gran Bretagna - dello strappo compiuto da Bush verso le Nazioni Unite.
Ma il colpo più duro all'Europa è stato inferto anche dalla posizione italiana. Nel riallineamento strategico gli Stati Uniti chiudono a tenaglia (Gran Bretagna e Spagna da una parte, Polonia ed ex paesi comunisti dall'altra) la Francia e la Germania, il nucleo fondatore dell'impresa europea. L'Italia, il paese fondatore dell'Europa, ha attivamente partecipato, contro i propri interessi nazionali, a questa operazione per debolezza politica. Berlusconi ha detto che si tratta di un capolavoro diplomatico. È davvero un bel capolavoro diplomatico perché rischiamo di tornare mestamente ad essere - noi che siamo stati il paese di Spinelli, noi che abbiamo vissuto e raggiunto con Prodi la grande sfida del 1998 - una mera espressione geografica: ci metteremo del tempo a riparare questi danni.
Si lasci stare il Kosovo: ogni guerra è una tragedia e le bombe sono sempre stupide e terribili. Le scelte e le decisioni di allora furono contrastate, sofferte e fatte non a cuor leggero anche da chi le condivise, ma nessuno può negare che allora l'evidenza del genocidio e della pulizia etnica imponeva un'azione umanitaria e che tutta la NATO e l'Europa unita parteciparono a quel conflitto.
Questa è l'illegittimità di una guerra fuori e contro le Nazioni Unite. Sono le ragioni della nostra richiesta volta a non fornire alcun supporto politico, diplomatico, operativo e logistico - incluse le basi militari - a qualunque azione che configuri un coinvolgimento dell'Iraq. Posizioni analoghe sono state sostenute in queste ore da Francesco Cossiga e da Bobo Craxi.
Si è fatto riferimento al Trattato della NATO ma non c'entra niente perché esso stabilisce obblighi di assistenza assunti dagli Stati partner che hanno per oggetto la legittima difesa successiva, cioè quella che si esercita dopo che abbia avuto luogo un attacco armato, in questo caso da parte dell'Iraq.
È esattamente il contrario. Anzi, la disponibilità italiana all'uso delle basi ed al sorvolo configurerebbe un coinvolgimento indiretto, ma evidente dell'Italia, in violazione del diritto internazionale. Non vi è un pregiudizio antiamericano in una posizione come questa: vi è un pregiudizio, sì, ma contro la guerra. Molti di noi si sono abbeverati per anni nella cultura, nel cinema, nella musica e nella letteratura americana; abbiamo, in particolare, letto da ragazzi «Addio alle armi» di Hemingway che fa dire al tenente Passini: la guerra non si vince con la vittoria! Poiché di guerre ne ho fatte troppe - scrive Hemingway nella prefazione a quello straordinario capolavoro - sono certo di avere dei pregiudizi e spero di avere molti pregiudizi.
Non è sostituendo, come fa qualche estremista di ieri e di oggi il libretto rosso di Mao con la bandiera a stelle e a strisce che si è amici degli americani, ma piuttosto, condividendo con il senatore americano Byrd che un massiccio attacco militare ad un paese nel quale è presente il 50 per cento di bambini non è nelle tradizioni altissime e morali degli Stati Uniti d'America. Forse Bossi e Castelli, che ora propongono di chiudere le frontiere ai profughi, dovrebbero meditare sulle parole dell'amico senatore americano Byrd.
Ora che la parola sta passando alle armi, vogliamo in questo clima drammatico e difficile tuttavia salutare un novità positiva: dobbiamo fare i conti con quel sedicesimo membro del Consiglio di sicurezza dell'ONU, l'opinione pubblica mondiale, guidata da personalità come il Papa e animata da milioni di bandiere dai nostri balconi. La prepotenza, che ora sembra prevalere in queste ore difficilissime, non potrà d'ora in avanti non fare i conti con essa (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-l'Ulivo, della Margherita, DL-l'Ulivo e Misto-Comunisti italiani - Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Ramponi. Ne ha facoltà.
LUIGI RAMPONI. Signor Presidente, durante gli ultimi 5 mesi, l'argomento Iraq è stato al centro dell'attenzione internazionale ed ha permeato di sé i dibattiti in sede parlamentare. Più volte il Governo si è presentato alle Camere per indicare la linea politica scelta dall'Italia in funzione dell'evolversi della situazione. Anche nell'ultimo dibattito, tenuto in quest'aula il giorno 19 del mese scorso, ha confermato la linea politica adottata che si sostanziava in cinque punti fondamentali, identici a quelli scritti nel comunicato emanato a seguito della riunione tenuta dal Consiglio europeo per discutere la crisi irachena: centralità dell'ONU e responsabilità del disarmo iracheno innanzitutto al Consiglio di Sicurezza, impegno per una soluzione pacifica e ricorso alla guerra come ultima risorsa, sostegno agli ispettori, dovere del regime iracheno di porre fine alla crisi, ottemperando le richieste del Consiglio di sicurezza, impegno ad operare con tutti i nostri partner, specialmente con gli USA per il disarmo dell'Iraq, la pace e la stabilità della regione e per un futuro dignitoso per tutta la sua popolazione.
Il Governo, Alleanza nazionale e tutti i partiti della maggioranza si sono costantemente impegnati nel rispetto di tali punti fondamentali, in un quadro di situazione internazionale che, fino al pomeriggio di ieri, lo consentiva. Da ieri la situazione è mutata. Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Spagna, quali nazioni presenti al momento nel Consiglio di Sicurezza, appoggiate da altre nazioni, hanno ritenuto di non poter più accettare oltre, dopo quattro mesi e mezzo, la scarsa ed inadeguata risposta da parte irachena alle richieste degli ispettori. Hanno inviato un ultimatum di 48 ore a Saddam Hussein perché lasci il paese, pena l'inizio delle ostilità. La risposta è stata sinora negativa.
Nel contempo gli Stati Uniti d'America hanno richiesto, come ha detto il Governo, l'uso delle basi. È saltata la possibilità di una risoluzione delle Nazioni Unite ed è decaduto il discorso degli ispettori. È imprevedibile, anche se non è da escludere completamente, un ripensamento di Saddam Hussein. Si è comunque giunti alle soglie di un'iniziativa bellica.
Gli Stati Uniti d'America, da sempre nostri alleati, chiedono l'uso delle basi. Questo è il quadro politico che ci si presenta. Non appare politicamente produttivo negare questo utilizzo perché non porterebbe a nessun progresso verso una soluzione pacifica; non servirebbe assolutamente a nulla! Porterebbe invece all'unico risultato di una frattura nei rapporti con gli Stati Uniti d'America, senza favorire un rasserenamento né in ambito NATO né in quello dell'Unione europea e senza ristabilire la credibilità delle Nazioni Unite, che sono gli obiettivi che tutti voi dichiarate di perseguire.
Si deve prendere atto, nostro malgrado, del fallimento della ricerca di una soluzione pacifica, ricerca durata quattro mesi. Si tratta di un fallimento dovuto a Saddam Hussein e non a qualcun altro. Bisogna anche ricordare, quando si parla di soluzione diplomatica o pacifica, che da dodici anni si sta cercando la soluzione diplomatica e pacifica. Da dodici anni, attraverso le sanzioni ed il controllo della vendita dell'olio, si è tentato di attuare gli strumenti pacifici. I risultati sono stati la disastrosa situazione nella quale oggi si trova il popolo iracheno. Il fallimento è dovuto a Saddam Hussein e a nessun altro!
In questo momento l'Italia deve scegliere: una scelta decisiva, non quella di sventolare una bandiera, tra l'attuale regime iracheno e gli Stati Uniti d'America, ricordando, prima di decidere, quale sia, per chi fa tante citazioni storiche, il retaggio storico che sta dietro a ciascuna delle due parti; retaggio storico che tutti conosciamo molto bene.
È esaurito il tempo per una soluzione pacifica e non possiamo che decidere a favore del nostro alleato di sempre, aiutandolo, come lui ha fatto tante volte con noi. Tale decisione sarà una decisione politica che assume il Parlamento e che ha gli stessi crismi di legalità e costituzionalità che hanno avuto le precedenti decisioni qui assunte di partecipare prima alla guerra alla Serbia per il Kosovo e più recentemente, decisione da noi approvata, la guerra della coalizione contro i taliban e l'Afghanistan.
L'intervento armato contro la Serbia, illustri signori, non era «coperto» da una risoluzione e non era fra quelli previsti dal Trattato del nord Atlantico, perché la Serbia, come ha ben ricordato l'onorevole Folena, parlando stavolta dell'Iraq, non aveva portato alcun attacco armato a nessun paese dell'Alleanza.
Lo stesso dicasi per l'operazione Enduring Freedom dal momento che essa è stata decisa non a seguito di una risoluzione esplicita da parte del Consiglio di sicurezza, né ha la patente della NATO, pur essendo stato aggredito l'11 settembre uno dei suoi partner.
Furono entrambe decisioni che il mio partito ed io abbiamo condiviso, conseguenti ad una chiara analisi ed ad una valutazione della situazione, come deve essere quella di oggi in cui si approva la concessione del sorvolo e l'utilizzo delle basi da parte dell'alleato americano. L'alleato americano che, lo ricordo a tutti, è impegnato comunque in una difficile lotta per eliminare una minaccia alla sicurezza della società mondiale che nessuno nega, ma che nessuno dice come si possa eliminare in altro modo (Applausi dei deputati del gruppo di Alleanza nazionale - Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Deiana. Ne ha facoltà.
ELETTRA DEIANA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, questa guerra, come hanno già ricordato altri colleghi, non ha nulla a che vedere con le ragioni che sono state accampate da Bush per giustificarla e che il Governo Berlusconi ripete pedissequamente contro ogni logica ed evidenza. Non c'entrano le armi di distruzione di massa, che forse ci sono o, molto probabilmente, non ci sono. Non c'entra l'efferatezza del regime, che sicuramente c'è. Non c'entra nulla comunque! Non c'entra nulla il terrorismo internazionale.
L'idea neocoloniale e sopraffattrice di mettere ordine nel mondo, di esportare la democrazia sulla punta delle baionette moderne all'uranio impoverito rappresenta, in realtà, l'involucro ideologico di un piano politico-militare molto preciso: l'Iraq deve diventare un protettorato americano, lo ha ripetuto anche ieri il portavoce della Casa Bianca, Fleischer, dicendo ai giornalisti che, se anche il raìs se ne andasse in esilio, le truppe americane dovrebbero ugualmente intervenire in Iraq per rimettere in ordine le cose e garantire la pace e la sicurezza.
Siamo di fronte ad una gigantesca operazione di penetrazione statunitense nel continente asiatico, ad un processo di destabilizzazione e disgregazione degli assetti statuali dell'Asia centrale, che è il vero grande tema di politica internazionale attorno al quale dovremmo discutere. Si discute, invece, delle fandonie di Bush e delle fandonie di Berlusconi, dimenticando di fare i conti con quanto è già successo in quell'area del mondo, a cominciare dall'Afghanistan, prima tappa di questo processo che ha permesso di mettere sotto occupazione militare statunitense larga parte dell'Asia centrale. Questa guerra va ben oltre la stessa questione - peraltro non irrilevante - dei pozzi petroliferi: mira al dominio unilaterale del mondo attraverso la superiorità militare assoluta di cui godono gli Stati Uniti d'America.
È il progetto americano del nuovo ordine mondiale, lungamente dibattuto in tutte le salse negli ambienti militari statunitensi, che oggi si manifesta in tutta la sua portata e violenza. Un progetto incubato lungamente negli anni novanta, interpretato diversamente a seconda di chi occupasse la Casa Bianca. Le guerre del decennio degli anni novanta sono figlie di questa incubazione. Oggi, Bush ha reso radicale e inequivocabile quel progetto e, come tutti i personaggi animati da forte vocazione fondamentalistica, come è lui, lo ha esplicitato, sottraendogli l'involucro di ogni ipocrisia, appalesandolo in tutta la sua devastante violenza.
Con la guerra di Bush contro l'Iraq è diventato evidente che l'idea della guerra preventiva e duratura, della supremazia militare permanente, del potere di decisione unilaterale costituisce la bussola strategica della politica estera statunitense del nuovo secolo. Gli interessi immediati della superpotenza, il controllo diretto delle risorse energetiche e quelli di lunga durata - appunto il nuovo ordine mondiale - sono stati posti al mondo con brutale evidenza.
È per questa ragione che l'Europa è andata in crisi, perché qualcuno, in Europa, ha cominciato a preoccuparsi di una dinamica politica che, se non verrà contrastata, ridurrà l'Europa al ruolo di giullare dell'imperatore, a quel ruolo che già oggi Blair, Aznar e Berlusconi in vario modo hanno giocato sulla scena pubblica. Così si spiega la crisi della stessa NATO e dell'ONU e si spiegano le resistenze di governi di paesi con grandi difficoltà economiche che, tuttavia, non si sono voluti piegare all'indegna «campagna di acquisti» organizzata da Bush per assicurarsi la maggioranza nel Consiglio di Sicurezza.
L'ONU, la NATO, l'Europa entrano in fibrillazione perché la pretesa degli Stati Uniti di dettare legge, di fare ordine, di giudicare e punire mette in allarme il mondo. Ed è per questa ragione che si è registrata una così vasta insorgenza dell'opinione pubblica contraria alla guerra e si sono mescolati movimenti, soggetti, culture, storie diverse di donne e di uomini accomunati da un «no» alla guerra che non ha precedenti nella storia per vastità, ostinazione, intensità. Che cosa desta preoccupazione, che cosa inquieta le coscienze oggi? I bombardamenti sulle città irachene? I terribili cosiddetti effetti collaterali? La sofferenza degli inermi? Certamente tutto questo, ma anche lo scombussolamento di ogni riferimento internazionale, la percezione del rischio che un baratro si è aperto di fronte a noi. Questa guerra, infatti, per la sua intrinseca natura di laboratorio della nuova dottrina militare americana, di prova generale della guerra preventiva di lunga durata che l'Amministrazione Bush ha promesso al mondo per i prossimi trent'anni, comporta la deflagrazione e l'azzeramento di quell'ordine internazionale faticosamente costruito dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale.
Ordine certamente imperfetto, deficitario, contraddittorio quanto vogliamo, ma ancorato ad un'idea grande che la guerra fosse un disastro da non ripetere più, che la costruzione del diritto internazionale fosse un bene da difendere ed irrobustire, che l'ONU fosse uno strumento di mediazione essenziale e necessaria per garantire la convivenza tra i popoli del mondo.
Tutto questo, oggi, costituisce, invece, per l'amministrazione Bush, un inutile ingombro, lacci e lacciuoli da spezzare, come sta facendo George W. Bush. Guerra criminale, dunque, questa, cari signori del Governo, come giustamente l'ha definita addirittura il Papa, guerra criminale perché massacra i corpi inermi di donne e uomini, uccide ogni legalità e mina alle radici la convivenza tra i popoli; un aspetto che non è stato sottolineato sufficientemente. Essa, infatti, rischia di aprire un solco enorme tra l'occidente ed il mondo islamico, di fomentare quella terribile dinamica di scontro tra civiltà che sta diventando o rischia di diventare sempre più l'elemento sovraordinatore del contesto internazionale.
Voi, signori del Governo, avete certamente i numeri per assicurarvi, in questa sede, l'appoggio al vostro sì alla guerra, al vostro sì al coinvolgimento diretto dell'Italia
in questa infame avventura internazionale, all'assenza all'uso delle basi e dei cieli da parte degli Stati Uniti. D'altra parte, lo avete già fatto mettendo a disposizione l'intero nostro paese per i traffici di morte degli Stati Uniti d'America.
Ma sarà un voto di cui noi non riconosceremo la legittimità, perché non basta la maggioranza per prendere questo tipo di decisioni. Bisogna stare alla Costituzione che conferisce legittimazione ad ogni decisione che parli della pace e della guerra!
La violazione dell'articolo 11 non potrebbe essere più evidente di fronte ad una relazione come quella del Presidente del Consiglio. E più evidente non potrebbe essere la pretestuosità del richiamo alla volontà popolare di cui si nutre tradizionalmente la propaganda mediatica del Presidente del Consiglio. Non è forse di dominio pubblico, confermato dai sondaggi, dalle mobilitazioni costanti, da due milioni e mezzo di bandiere per la pace che sventolano in ogni dove, che la stragrande maggioranza della popolazione di questo paese, la guerra proprio la vuole? Volontà popolare e spirito costituzionale vanno, su questo punto, insieme, in maniera straordinaria, e forse al premier Berlusconi, questo, fa proprio paura, e della volontà popolare ha deciso di infischiarsene o di ingannarla grottescamente, continuando a raccontare...
PRESIDENTE. Onorevole Deiana...
ELETTRA DEIANA. Sto per concludere, signor Presidente... la favola del suo impegno per la pace, mentre il Segretario di Stato americano rende pubblica la lista dei volenterosi e gli Stati Uniti d'America ci annoverano tra i paesi amici.
Per questo, continueremo a chiedere conto di ogni vostra azione di guerra, di ogni vostro atto di guerra e a batterci in Parlamento e nel paese contro la vostra cortigianeria bellicistica che coinvolge l'Italia in un'avventura moralmente indegna e politicamente squalificata (Applausi dei deputati dei gruppi di Rifondazione comunista e dei Democratici di sinistra-l'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Selva. Ne ha facoltà.
GUSTAVO SELVA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, non ho alcuna difficoltà a confessare che, forse, questo, tra i tanti discorsi che ho pronunciato in quest'aula da nove anni a questa parte, è, per me, il discorso più difficile e delicato. Lo è perché sono un cattolico; lo è perché del Papa non accolgo soltanto le verità eterne, ma cerco, nel limite del possibile, di applicare anche le verità terrene. Eppure, stavolta, debbo dire, naturalmente senza alcun riferimento diretto a ciò che il Santo Padre ha fatto e continuerà a fare, che l'esortazione del Santo Padre era seguita, e da seguire, fin tanto che c'era una, anche una sola possibilità di poter evitare la guerra.
È ciò che, del resto, il Governo italiano ha fatto; è ciò che chi vi parla, presidente pro tempore della Commissione affari esteri ha fatto.
ALFREDO BIONDI. Lunga vita!
GUSTAVO SELVA. In tutte le sedi dove, in questi mesi, poteva essere pronunciata, la parola del presidente della III Commissione è stata pronunciata per evitare la guerra.
GUSTAVO SELVA. Oggi, onorevoli colleghi della sinistra, io credo che questa speranza non sia più una realtà possibile.
Sulle responsabilità, quando queste saranno esaminate, vi saranno giudizi più sereni. Il mio giudizio, oggi, è che Saddam Hussein non abbia colto nemmeno l'ultima possibilità, l'ultima chiave offertagli dal Presidente degli Stati Uniti per abbandonare il solco che fin qui aveva seguito e per fare tutto ciò che non aveva fatto prima per evitare la guerra. Andare in esilio? Non ci va! Non ci va! Accetta, piuttosto, un pericolo grave per il suo popolo!
Ciò non toglie, naturalmente, che ci sia un dovere importante da parte nostra. Il nostro dovere importante è che questo pericolo per il suo popolo venga finalmente a terminare e che non debba perpetuarsi il pericolo per altri Stati e per altri popoli. Vedete, onorevoli colleghi della sinistra, nel carnet politico e militare di Saddam Hussein c'è l'invasione del Kuwait; c'è il non avere offerto prove concrete di aver distrutto i mezzi di annientamento di massa. Questo c'è nel carnet di Saddam Hussein!
Del resto, non faccio che ripetere le vostre parole: il regime di Saddam Hussein è un miscuglio di nazionalsocialismo, stalinismo ed Islam, privo di qualsiasi scrupolo, violento, repressivo, sessuofobico. Se faccio la sintesi di ciò che ho sentito da varie parti, dai «verdi» ai «rossi», sono queste le espressioni uscite dalle vostre bocche.
Ecco la ragione per la quale, ripeto - non è una verità eterna -, la guerra è nell'ordine delle cose che l'umanità, purtroppo, ha sempre conosciuto. Allora, rivolgendomi in modo particolare all'opposizione, cito un giornale, che non è il Secolo d'Italia sul quale scrivo io, ma il Riformista e, con molta serenità, vi invito a meditare su queste parole nel momento in cui gli Stati Uniti d'America assumono, con la Gran Bretagna ed altri paesi, la grave responsabilità di impiegare l'arma finale costituita dall'intervento militare.
Scrive il Riformista: l'opposizione ha argomenti per opporsi ad una guerra che ritiene illegittima ma non ha argomenti per trasformare questa opposizione in ostilità e boicottaggio (ripeto: ostilità e boicottaggio) nei confronti di un alleato di mezzo secolo (ho già posto in luce qui, in altra occasione nella quale ho avuto l'onore di parlare, quali motivi di riconoscenza abbiamo nei confronti degli Stati Uniti d'America). Nemmeno Chirac negherà il diritto di sorvolo dello spazio aereo della Francia! Nemmeno Schröder negherà l'uso delle basi! È ovvio - scrive il Riformista - che sia così. A guerra cominciata, la disputa giuridica e politica è finita.
L'Italia deve sperare che questo scontro sia breve, il meno cruento possibile, e deve sperare - lo dice il Riformista - che lo vincano gli americani. Per questo deve concedere il diritto di sorvolo e l'uso delle basi. L'Italia deve operare perché il dopo guerra, a differenza della guerra, sia multilaterale e recuperi quella funzione dell'ONU e dell'Unione europea, che tutti ardentemente auspichiamo.
Noi da questi banchi abbiamo sostenuto sempre la funzione centrale dell'ONU, dell'Alleanza Atlantica, della Unione europea, così come il Presidente della Repubblica, richiamato giustamente molto spesso in questo dibattito, ci ha detto. Per questo - ed è la frase finale diretta a voi dell'opposizione -, l'opposizione deve dichiararsi disposta ad inviare soldati e mezzi nell'Iraq liberato. L'Italia deve sperare che la solidarietà atlantica, che si è rotta nella NATO, venga ristabilita. Per questo deve confermare la sua collaborazione militare nell'alleanza. Quella collaborazione che il Presidente del Consiglio stamattina, con grande chiarezza, ha definito nei suoi termini, essenzialmente, senza impegno di uomini e di mezzi nel terreno dello scontro. «Non si capisce dunque» - per ripeterlo con le parole rivolte da il Riformista a voi della sinistra - «perché l'opposizione sia saltata alla giugulare del ministro Frattini che sul nostro giornale ha descritto esattamente così le intenzioni del Governo italiano».
Sembra ci sia una notizia non confermata della radio israeliana (faccio da giornalista in questo momento): Tarek Aziz sarebbe stato ucciso dopo un tentativo di fuga. Chiudo la parentesi.
Questo è quello che il Governo e questa maggioranza ritengono, anche con questi delicati problemi di coscienza evocati dal mio amico che in questo momento presiede la nostra Assemblea: a lui che ha dichiarato, applaudito dalla sinistra, il suo voto non favorevole sulla risoluzione della maggioranza, dico soltanto una cosa (e qui probabilmente l'anima visceralmente anticomunista mi sarà ancora rimproverata): Lenin ha detto che quando il nemico di
classe ti loda vuol dire che stai sbagliando. Non vorrei che gli applausi che ha ricevuto da questi banchi Publio Fiori fossero una conferma di quanto Lenin diceva (Applausi dei deputati dei gruppi di Alleanza nazionale e di Forza Italia).
Per quanto mi riguarda, ripeto, io non ho nessuna difficoltà a dire che anche come cattolico, nell'esercizio di una funzione civile, nell'esercizio di una funzione statale, darò il mio pieno consenso a quello che il Presidente del Consiglio questa mattina ha detto, con argomentazioni, con principi che tendono essenzialmente a considerare il lavoro che dovremo fare nel dopoguerra.
L'ANSA ha commesso un errore, che penso sia solamente un errore tipografico, dando la notizia, questa mattina, che alla seduta del Consiglio supremo di difesa c'era il ministro Gaetano Martino, ministro della difesa. Ora, il compianto ministro Gaetano Martino è stato ministro degli esteri ed è il padre di Antonio Martino. Bene, mi auguro che come Gaetano Martino ebbe la forza, dopo il veto francese - francese! - alla CED, di far riprendere il cammino dell'integrazione europea nelle conferenze di Venezia e di Messina, così noi avremo la forza di riprendere il valore dell'Alleanza Atlantica, l'importanza decisiva dell'ONU, con la determinazione di costruire l'Europa unita di tutti i paesi che amano i valori che i De Gasperi, gli Schuman, gli Adenauer portarono avanti per le sorti di questo nostro paese (Applausi dei deputati dei gruppi di Alleanza nazionale e di Forza Italia).
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